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aggiornamento al 12.03.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 12.03.2018

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta discende che il privato non può esimersi dal pagamento del contributo e che l’amministrazione può riesaminare la pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza interferire con le questioni che incidono su “an” e “quantum” dell’obbligazione pecuniaria.
Più in particolare, “la giurisprudenza amministrativa, ha già avuto modo di affrontare la questione della rideterminazione degli oneri concessori da parte dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
   a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più risalente determinazione degli oneri adottata dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri concessori da parte dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
   b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa”;
   c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito). La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto”. L’amministrazione, dunque, qualora rilevi un errore nel calcolo, può procedere alla rettifica entro il termine di prescrizione, che nel caso in esame -come visto- non risulta decorso”.
---------------
Nell’ipotesi in esame la rideterminazione dell’importo dovuto è avvenuta entro i termini di prescrizione, nell’ambito di un’attività di verifica di regolare versamento dei tributi da parte dei contribuenti.
Sicché, il Comune ha comunicato l’avvio del procedimento relativo “alla determinazione degli oneri concessori sulla base dei reali costi unitari vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire con l’applicazione di quanto disposto dall’art. 16, comma 9, secondo periodo del DPR 380/2001”, indicando le modalità di calcolo delle somme dovute.
In sostanza l’ente locale ha avviato un procedimento volto alla rettifica della misura del contributo, riportandolo a quanto effettivamente dovuto sulla base vigenti disposizioni.
Tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica Amministrazione.  L’atto di determinazione del contributo, vincolato e non suscettibile di scostamenti rispetto alle previsioni normative, è solo una intermediazione aritmetica per la sua quantificazione.
Ne consegue che l’atto di nuova determinazione non può dirsi viziato da eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione e di indicazione degli interessi pubblici prevalenti. Il diritto del Comune all'ottenimento del contributo nella misura dovuta, così come il diritto del titolare del premesso di costruire al rimborso del contributo versato in eccesso, deriva, infatti, direttamente dai parametri oggettivi e non dall’atto di determinazione.
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... per l'annullamento del provvedimento emesso dal responsabile del terzo settore del Comune di Chieuti nella persona dell’arch. M.Lo. in data 11.09.2013 prot. 4345, comunicato il 17.09.2013, con il quale a conclusione del procedimento amministrativo instaurato con la nota del 24.06.2013 prot. n. 3076, sono rideterminati gli importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione relativamente al permesso di costruire del 01.10.2008 prot. n. 2509 rilasciato in favore della cooperativa ricorrente, cui dunque è stato intimato il pagamento di € 17.679,22;
...
8. - Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
9. – Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (Cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243).
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta discende che il privato non può esimersi dal pagamento del contributo e che l’amministrazione può riesaminare la pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza interferire con le questioni che incidono su “an” e “quantum” dell’obbligazione pecuniaria.
Più in particolare, “la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V, 17.09.2010 n. 6950), ha già avuto modo di affrontare la questione della rideterminazione degli oneri concessori da parte dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
   a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più risalente determinazione degli oneri adottata dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri concessori da parte dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
   b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa”;
   c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito). La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto”. L’amministrazione, dunque, qualora rilevi un errore nel calcolo, può procedere alla rettifica entro il termine di prescrizione, che nel caso in esame -come visto- non risulta decorso
” (Cons. stato, sez. IV, 27.09.2017 sent. 4515).
10. - Nell’ipotesi in esame la rideterminazione dell’importo dovuto è avvenuta entro i termini di prescrizione, nell’ambito di un’attività di verifica di regolare versamento dei tributi da parte dei contribuenti, come si evince dalla Delibera dalla Giunta comunale n. 74 del 23.11.2012.
Con la nota del 24.06.2013 il Comune ha comunicato l’avvio del procedimento relativo “alla determinazione degli oneri concessori sulla base dei reali costi unitari vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire con l’applicazione di quanto disposto dall’art. 16, comma 9, secondo periodo del DPR 380/2001”, indicando le modalità di calcolo delle somme dovute. In data 11.09.2013 ha riscontrato le osservazioni della ricorrente.
In sostanza l’ente locale ha avviato un procedimento volto alla rettifica della misura del contributo, riportandolo a quanto effettivamente dovuto sulla base vigenti disposizioni. Tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica Amministrazione. L’atto di determinazione del contributo, vincolato e non suscettibile di scostamenti rispetto alle previsioni normative, è solo una intermediazione aritmetica per la sua quantificazione.
Ne consegue che l’atto di nuova determinazione non può dirsi viziato da eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione e di indicazione degli interessi pubblici prevalenti. Il diritto del Comune all'ottenimento del contributo nella misura dovuta, così come il diritto del titolare del premesso di costruire al rimborso del contributo versato in eccesso, deriva, infatti, direttamente dai parametri oggettivi e non dall’atto di determinazione.
...
11. – Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.02.2018 n. 254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Solo con la volturazione del titolo edilizio, concordata con l’amministrazione, il precedente titolare del bene può essere liberato dal pagamento degli oneri concessori.
Il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico, anche se ha ad oggetto un obbligo pecuniario ripartito in due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione (oneri di urbanizzazione) e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
La norma definisce presupposti legali determinati per l’esercizio del potere di riscossione, nella fase fisiologica, e del potere sanzionatorio, nell’ipotesi in cui il privato non adempia all’obbligo: il mancato pagamento infatti legittima –ed obbliga secondo il principio di doverosità cui si conforma l’esercizio del potere quando si realizzano i presupposti previsti dalla fattispecie- l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. cit.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. cit.).

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Il permesso di costruire è stato rilasciato in favore della ricorrente e la norma individua in capo al “titolare” del permesso il soggetto obbligato all’adempimento della prestazione pecuniaria.
I trasferimenti della proprietà del bene su cui incide l’attività edilizia assentita non hanno efficacia nel rapporto pubblicistico che sorge per effetto del rilascio del provvedimento di assenso, salvo che non vi sia una novazione soggettiva, come tale però concordata con l’amministrazione.
Invero, “L'originario titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il terreno da edificare —ovvero l'edificio in costruzione— cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione. Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente titolare”.
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Il giudizio verte sulla legittimità dell’atto prot. 41783 del 22.09.2010 col quale il Comune di Vibo Valentia ha ingiunto alla ricorrente il pagamento della somma ivi indicata, corrispondente al mancato pagamento delle rate relative ai contributi per oneri di urbanizzazione e per costi di costruzione, dovuti in forza del permesso di costruire rilasciato in favore dell’interessata e alla maggiorazione dovuta per la penale di cui all’art. 42 DPR 380/2001.
La ricorrente deduce l’illegittimità dell’atto per:
   a) il difetto di legittimazione passiva della ricorrente, poiché il terreno su cui si sarebbero dovuti realizzare le opere oggetto di permesso di costruire sono stati ceduti ad un terzo, chiedendo al Comune la voltura dell’atto di assenso (richiesta però mai riscontrata dal Comune);
   b) la causa di forza maggiore che ha impedito l’assolvimento degli obblighi pecuniari, consistente in provvedimenti di sequestro penale delle aree.
...
Il ricorso è infondato.
Non è in contestazione l’inadempimento delle prestazioni patrimoniali che la normativa edilizia pone in capo al beneficiario del permesso di costruire, in ossequio al principio di onerosità che regge la disciplina autorizzatoria delle attività comportanti la trasformazione urbanistico-edilizia del territorio (art. 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come anche da ultimo precisato, il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico, anche se ha ad oggetto un obbligo pecuniario ripartito in due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione (oneri di urbanizzazione) e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
La norma definisce presupposti legali determinati per l’esercizio del potere di riscossione, nella fase fisiologica, e del potere sanzionatorio, nell’ipotesi in cui il privato non adempia all’obbligo: il mancato pagamento infatti legittima –ed obbliga secondo il principio di doverosità cui si conforma l’esercizio del potere quando si realizzano i presupposti previsti dalla fattispecie- l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. cit.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. cit.).
Alla luce di tale assetto normativo nessuna delle censure sollevate dal ricorrente è condivisibile.
Il permesso di costruire è stato rilasciato in favore della ricorrente e la norma individua in capo al “titolare” del permesso il soggetto obbligato all’adempimento della prestazione pecuniaria; i trasferimenti della proprietà del bene su cui incide l’attività edilizia assentita non hanno efficacia nel rapporto pubblicistico che sorge per effetto del rilascio del provvedimento di assenso, salvo che non vi sia una novazione soggettiva, come tale però concordata con l’amministrazione (TAR Toscana, Sez. III, 12.03.2014 n. 493, ivi, il TAR Molise, 25.07.2012 n. 27 “L'originario titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il terreno da edificare —ovvero l'edificio in costruzione— cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione. Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente titolare”).
Nel caso di specie è lo stesso ricorrente ad affermare che l’istanza di “voltura” del titolo non ha avuto alcun riscontro positivo da parte dell’amministrazione.
Quanto alla impossibilità di adempimento, essa, trattandosi di un debito pecuniario, non è configurabile tale causa di estinzione dell’obbligazione pecuniaria, ravvisata, secondo la prospettazione del ricorrente, in una mera “difficoltà finanziaria” o nella limitazione del potere di disposizione del bene immobile cui si riferisce l’attività edilizia.
In conclusione il ricorso va pertanto rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 29.01.2018 n. 277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, la rinuncia al permesso di costruire per intervenuta decadenza del titolo edilizio (ad esempio per la scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per il sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con le opere non ancora realizzate), oppure per fatti, giuridici o materiali che rendano in tutto o in parte non più realizzabile l'intervento edilizio assentito, comporta l'obbligo dell'Amministrazione di restituire, a domanda, le somme precedentemente corrisposte a titolo di contributo di costruzione, in quanto questo è strettamente connesso alla trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ove tale trasformazione non si verifichi, il relativo pagamento diviene privo di causa.
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Come è noto, l’ambulatorietà e quindi la titolarità del titolo edilizio incidono solo sul lato passivo dell’obbligazione, nel senso che nel caso di trasferimento del bene esse gravano sull'acquirente così come sullo stesso gravano eventuali maggiori somme dovute, perché con la voltura del titolo l’obbligo si è trasferito in capo al cessionario (a condizione che la parte cedente non abbia ancora iniziato l’edificazione).
Diverso è invece il caso in esame in cui rileva una problematica di carattere civilistico di indebito oggettivo, che trae origine dal pagamento di una somma non dovuta e che inerisce esclusivamente al rapporto tra soggetto che ha effettuato il versamento e chi lo ha ricevuto (come noto l’art. 2033 c.c. dispone che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”), e che implica che legittimato ad esigere la restituzione sia il soggetto che ha effettuato il pagamento privo di causa, mentre gli eventuali rapporti interni fra obbligato principale e terzi rimangono privi di rilievo nei confronti di chi deve restituire l’indebito ricevuto, dato che legittimato attivo alla restituzione è sempre e solo il titolare del patrimonio che deve essere reintegrato con la restituzione: nell'azione di ripetizione d'indebito oggettivo la legittimazione attiva e passiva spettano infatti solo al solvens e all'accipiens.
Deve pertanto convenirsi con quanto ha affermato la giurisprudenza che si è occupata di una vicenda del tutto similare (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2014, n. 493: in quel caso si trattava della restituzione di somme versate in eccedenza, nel caso in esame si tratta della restituzione dell’intera somma; in entrambi i casi si tratta di una fattispecie di indebito oggettivo): “la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa”.
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Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Come è noto la rinuncia al permesso di costruire per intervenuta decadenza del titolo edilizio (ad esempio per la scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per il sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con le opere non ancora realizzate), oppure per fatti, giuridici o materiali che rendano in tutto o in parte non più realizzabile l'intervento edilizio assentito, comporta l'obbligo dell'Amministrazione di restituire, a domanda, le somme precedentemente corrisposte a titolo di contributo di costruzione, in quanto questo è strettamente connesso alla trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ove tale trasformazione non si verifichi, il relativo pagamento diviene privo di causa (ex pluribus cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. II-bis, 12.03.2008, n. 2294).
La parte ricorrente svolge molteplici richiami giurisprudenziali espressione di consolidati e condivisibili principi secondo i quali gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione hanno natura di obbligazioni c.d. reali o propter rem caratterizzate dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue, sicché nel caso di trasferimento del bene esse gravano sull'acquirente.
Tali principi sono tuttavia inconferenti nel caso in esame, perché, come è noto, l’ambulatorietà e quindi la titolarità del titolo edilizio incidono solo sul lato passivo dell’obbligazione, nel senso che nel caso di trasferimento del bene esse gravano sull'acquirente così come sullo stesso gravano eventuali maggiori somme dovute, perché con la voltura del titolo l’obbligo si è trasferito in capo al cessionario (a condizione che la parte cedente non abbia ancora iniziato l’edificazione: ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, Pescara, 03.06.2014, n. 249; Tar Umbria, 17.09.2012, n. 363; Tar Toscana, Sez. III, 12.06.2012, n. 1126).
Diverso è invece il caso in esame in cui rileva una problematica di carattere civilistico di indebito oggettivo, che trae origine dal pagamento di una somma non dovuta e che inerisce esclusivamente al rapporto tra soggetto che ha effettuato il versamento e chi lo ha ricevuto (come noto l’art. 2033 c.c. dispone che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”), e che implica che legittimato ad esigere la restituzione sia il soggetto che ha effettuato il pagamento privo di causa, mentre gli eventuali rapporti interni fra obbligato principale e terzi rimangono privi di rilievo nei confronti di chi deve restituire l’indebito ricevuto, dato che legittimato attivo alla restituzione è sempre e solo il titolare del patrimonio che deve essere reintegrato con la restituzione: nell'azione di ripetizione d'indebito oggettivo la legittimazione attiva e passiva spettano infatti solo al solvens e all'accipiens (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. III, 01.12.2009, n. 25276; Cassazione civile, Sez. I, 09.05.2007, n. 10634; Cassazione civile, Sez. III, 04.08.2000, n. 10227).
Deve pertanto convenirsi con quanto ha affermato la giurisprudenza che si è occupata di una vicenda del tutto similare (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2014, n. 493: in quel caso si trattava della restituzione di somme versate in eccedenza, nel caso in esame si tratta della restituzione dell’intera somma; in entrambi i casi si tratta di una fattispecie di indebito oggettivo): “la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa
” (sostanzialmente negli stessi termini con riguardo ad altre fattispecie di indebito oggettivo cfr. anche Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 12.02.2014, n. 444; Tar Campania, Napoli, Sez. V, 05.04.2011, n. 1916).
Ne consegue che il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.02.2018 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Come noto, il P.R.G. è uno strumento programmatico di pianificazione dell’intero territorio comunale, adottato dal Comune ed approvato dalla Regione.
La legge prevede la possibilità che il P.R.G. venga attuato attraverso strumenti urbanistici attuativi, finalizzati a fornire le prescrizioni di dettaglio, per l’esecuzione delle direttive contenute nel piano generale.
Tali piani attuativi, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 1150/1942, hanno un termine di efficacia massimo decennale, decorso il quale, le previsioni riamaste senza concreta attuazione diventano inefficaci, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva, non verificandosi una situazione paragonabile a quella della c.d. “zona bianca”.
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Tra le prescrizioni di zona ultrattive di un piano attuativo decaduto, «rientra anche il dimensionamento dei c.d. standard urbanistici, disciplinato dal D.M. n. 1444 del 02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4 e 5 del citato D.M. n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad assicurare alla collettività, insediata in una determinata parte del territorio comunale, un livello di qualità della vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di efficacia decennale non sono più validi i vincoli, preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate nell’arco di 10 anni».
Inoltre, è pacifico che, a fronte di un piano decaduto, i permessi di costruire possono essere rilasciati soltanto se, non discostandosi dalle previsioni del P.R.G., rispettino altresì la disciplina di linea fondamentale ed essenziale della pianificazione attuativa, atteso che, per questa parte, lo stesso conserva efficacia ultrattiva; in questo caso, quindi, in caso di iniziativa edilizia singola, l’urbanizzazione va valutata con riferimento al comparto e non limitatamente all’area di cui al progetto.
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Come noto, il P.R.G. è uno strumento programmatico di pianificazione dell’intero territorio comunale, adottato dal Comune ed approvato dalla Regione.
La legge prevede la possibilità che il P.R.G. venga attuato attraverso strumenti urbanistici attuativi, finalizzati a fornire le prescrizioni di dettaglio, per l’esecuzione delle direttive contenute nel piano generale.
Tali piani attuativi, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 1150/1942, hanno un termine di efficacia massimo decennale, decorso il quale, le previsioni riamaste senza concreta attuazione diventano inefficaci, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva, non verificandosi una situazione paragonabile a quella della c.d. “zona bianca” (ex multis, cfr. Cons. Stato n. 4144/2017).
Nel caso di specie, i terreni di proprietà della sig.ra Di To., classificati dal vigente P.R.G. come zona “ZTO G5”, risultano compresi nel perimetro del piano particolareggiato approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 44/2006 (“Piano attuativo in variante al Piano Regolatore Generale – Zona G – Comparto tra Fiume Alli e Quartiere Giovino”) che, anche nell’area “ZTO G5”, impone il previo piano di lottizzazione.
La soggezione al piano di lottizzazione la si ricava non solo dal fatto che l’intitolazione del verbale della conferenza di servizi sul piano attuativo si riferisce all’intera zona G e non solo alla zona G1 (come potrebbe sembrare dalle prime righe del testo), ma anche dal fatto che la delibera di approvazione, sebbene al suo interno menzioni solo la zona G1, nel dispositivo fa inequivoco riferimento all’intera zona G.
D’altro canto, non è senza significato la circostanza per cui la stessa ricorrente ha presentato il proprio progetto proprio allo scadere del termine di efficacia del piano.
Nondimeno, il piano particolareggiato del 2006 risulta ad oggi inefficace, per decorso del termine decennale.
Pertanto, alla luce delle regole sopra indicate, l’area in esame, si trova sottoposta ad una duplice tipologia di prescrizioni: quelle contenute nelle N.T.A. del P.R.G. –e, in specie, nell’art. 62, che prevede la possibilità di effettuare interventi edilizi diretti mediante D.I.A. o concessione edilizia, semplice o convenzionata– e quelle contenute nella parte del piano attuativo avente efficacia ultrattiva.
A tal proposito, osserva il collegio come, tra le prescrizioni di zona ultrattive di un piano attuativo decaduto, «rientra anche il dimensionamento dei c.d. standard urbanistici, disciplinato dal D.M. n. 1444 del 02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4 e 5 del citato D.M. n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad assicurare alla collettività, insediata in una determinata parte del territorio comunale, un livello di qualità della vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di efficacia decennale non sono più validi i vincoli, preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate nell’arco di 10 anni» (cfr. TAR Basilicata n. 99/2012).
Inoltre, è pacifico che, a fronte di un piano decaduto, i permessi di costruire possono essere rilasciati soltanto se, non discostandosi dalle previsioni del P.R.G., rispettino altresì la disciplina di linea fondamentale ed essenziale della pianificazione attuativa, atteso che, per questa parte, lo stesso conserva efficacia ultrattiva; in questo caso, quindi, in caso di iniziativa edilizia singola, l’urbanizzazione va valutata con riferimento al comparto e non limitatamente all’area di cui al progetto (cfr. Cons. Stato n. 6170/2007, n. 5471/2008 e n. 5251/2013; TAR Campania, Salerno, n. 488/1997 e n. 6682/2009; TAR Sicilia, Palermo, n. 1986/2015; TAR Abruzzo, L’Aquila, n. 810/2014; TAR Lazio, Latina, n. 367/2006).
Ne deriva quindi che, in adesione alle corrette valutazione del C.T.U., applicando i parametri contemplati dal piano attuativo del 2006, il lotto non possiede tutti i requisiti per il rilascio del titolo edilizio.
Così risolta la questione sostanziale, occorre esaminare le censure di carattere formale, che attengono: al ritardo nell’adozione dell’atto di annullamento; al difetto di motivazione, sotto il profilo della prevalenza dell’interesse pubblico alla rimozione di una situazione di fatto consolidatasi nel tempo; alla mancata comparazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; al preteso conflitto di interessi del dirigente del Settore edilizia privata e S.U.E. del Comune di Catanzaro, il quale a suo tempo aveva accertato la presenza delle opere di urbanizzazione e che, nell’assumere il provvedimento impugnato, si è trovato “a smentire se stesso”; alla contraddittorietà dell’azione amministrativa, rispetto al passato.
Nessuna di tale doglianza coglie nel segno.
Non la prima, che non tiene conto del periodo di tempo resosi necessario per la risoluzione del contenzioso instaurato sul provvedimento di diniego; non la seconda e la terza, trattandosi di attività edilizia mai neppure iniziata; non la quarta, che appare meramente ipotetica; non la quinta, non potendo un’illegittimità perpetrata nel passato legittimarne una nuova.
In definitiva, il ricorso dev’essere respinto in ogni sua parte, poiché infondato.
Tuttavia, la obiettive difficoltà della lite, che hanno reso necessaria una C.T.U., giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio tra le parti, fatto salvo il compenso del consulente che, liquidato nella misura di cui alla nota spese depositata, viene posto a carico di entrambe le parti, nella misura di metà ciascuna, con vincolo di solidarietà (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 21.02.2018 n. 507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo la giurisprudenza più recente in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, alla stregua di una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150/1942 discendono i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale;
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato, nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo;
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
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Residua, perciò, esclusivamente, da verificare se è corretta l’applicazione al caso di specie dell’art. 17, comma 3, della Legge 17.08.1942, n. 1150, il cui testo nella versione ultima, è così formulato: “Decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso.
Ove il Comune non provveda a presentare un nuovo piano per il necessario assesto della parte di piano particolareggiato che sia rimasta inattuata per decorso di termine, la compilazione potrà essere disposta dal prefetto a norma del secondo comma dell'art. 14.
Qualora, decorsi due anni dal termine per l’esecuzione del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione il secondo comma, nell’interesse improcrastinabile dell’Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi, il comune, limitatamente all’attuazione anche parziale di comparti o comprensori del piano particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di formazione e attuazione di singoli sub-comparti, indipendentemente dalla parte restante del comparto, per iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell’intero sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d’uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduti. I sub-comparti di cui al presente comma non costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal consiglio comunale senza l’applicazione delle procedure di cui agli articoli 15 e 16
”.
Secondo la giurisprudenza più recente (Consiglio di Stato, IV, 26.08.2014, n. 42781) in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, alla stregua di una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150/1942 discendono i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale;
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato, nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo;
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
Al riguardo e in ordine alle censure mosse dalla parte ricorrente secondo cui il Comune avrebbe illegittimamente ritenuto che l’ultima versione del 3° comma dell’art. 17 postulasse l’ultrattività del vincolo espropriativo rispetto alla scadenza del piano particolareggiato, va condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l'intervenuta inefficacia di un pregresso vincolo urbanistico di destinazione a pubblico servizio (di natura espropriativa) di una determinata area prevista da un piano particolareggiato comporta la restituzione della stessa alla precedente destinazione urbanistica recata dal P.R.G.
Pur non dubitandosi che la novella legislativa introdotta nel 2011, di cui al terzo comma dell’art. 17 della legge urbanistica, consente di adoperare lo strumento del comparto su base volontaria, con la connessa salvaguardia contestuale delle originarie previsioni relative alla destinazione di aree pubbliche, è fatto certo che nella specie non è stata data attuazione a tale meccanismo, e perciò l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della vigenza della previsione di P.R.G. e sulla base di essa avrebbe dovuto pronunciarsi, accertando, però, se effettivamente l’edificazione era, comunque, impedita dalla vigenza delle misure di salvaguardia (art. 12, c. 3, del D.P.R. n. 380 del 2001) scattate a seguito dell’adozione del nuovo P.R.G. con deliberazione del Consiglio Comunale n. 33 del 01.08.2007 alla stregua del quale l’area di che trattasi ricade in zona “G - Parcheggio Pubblico” ed è sottoposta a vincolo paesaggistico.
Avrebbe dovuto altresì accertare quale era l’indice di densità della zona e la eventuale necessità dello strumento attuativo qualora l’area non potesse ritenersi dotata di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria, elementi da appurare in via istruttoria e dei quali invece il Comune ha sostenuto l’indefettibilità soltanto in sede difensiva, posto che di essi non si fa alcun cenno nell’atto impugnato.
Pertanto, il Collegio reputa che l’impugnativa de qua, con assorbimento di ogni profilo di censura non esaminato, debba essere accolta con annullamento del provvedimento impugnato, salvo il potere dell’Amministrazione di provvedere in sede di riedizione dell’atto, da motivare adeguatamente, tenendo conto del dictum della presente sentenza, della richiesta e delle prospettazioni di parte ricorrente e della normativa urbanistica nella specie conferente.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio, attesa la peculiarità della fattispecie (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 29.07.2015 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAa) nelle zone in cui il piano particolareggiato è decaduto deve ritenersi consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia di zona che resta automaticamente ultrattiva a tempo indeterminato per la parte che disciplina l’edificazione nelle sue linee fondamentali ed essenziali;
   b) infatti, le aree all’interno del piano particolareggiato decaduto, in forza dell’art. 17 della legge n. 1150/1942, non sono prive di regolamentazione urbanistica in quanto permane la disciplina di pianificazione generale e quella di linea fondamentale ed essenziale di pianificazione attuativa, e ciò a differenza delle aree sprovviste della disciplina dello strumento urbanistico generale o con vincoli di inedificabilità decaduti (c.d. zone bianche o depianificate) per le quali sono applicabili i limitati indici d’edificabilità previsti dall’art. 4, u.c., dell’art. 4 della legge n. 10/1977.
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In ordine al regime delle aree destinate dagli strumenti urbanistici a verde pubblico, si registra un diffuso e condivisibile orientamento giurisprudenziale che ne riconosce, in via generale, il carattere conformativo: ed è proprio questo, in particolare, il caso del vincolo c.d. a verde attrezzato, per il quale la possibilità di realizzare sulle aree private attrezzature per lo svago, chioschi, bar, teatri all’aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo, e simili, nonché biblioteche e giochi per bambini, e la possibilità, altresì, di realizzarle ad iniziativa non meno pubblica che privata costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente per tal via validità a tempo indeterminato.
Da qui la conclusione che, essendo consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde, va esclusa, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale e non è, quindi, ravvisabile alcun vincolo preordinato all’espropriazione né comportante inedificabilità assoluta (analoga natura, per inciso, riveste la destinazione a verde agricolo, per la quale si esclude la natura espropriativa proprio in quanto da un lato tale destinazione ha carattere generale e non incide in modo speciale su singoli beni, dall’altro essa permette una sia pur limitata edificabilità).
Ne consegue, coerentemente, che solo l’esclusione totale di qualsiasi possibilità realizzativa o (in alternativa) la riserva esclusiva della realizzazione in capo all’ente pubblico assume valenza espropriativa, con conseguente obbligo di indennizzo a carico dell’amministrazione e previsione di un termine di scadenza.
Onde, in definitiva, la qualificazione del vincolo a verde pubblico quale eccezionalmente pre-espropriativo (piuttosto che ordinariamente conformativo) dipende, in concreto, dalla effettiva incidenza che la relativa previsione esplica sul contenuto del diritto di proprietà.
Rientrando il caso in esame nella evocata fattispecie generale, l’intervenuta decadenza del piano particolareggiato non appare, stante l’argomentata ultrattività del vincolo a verde attrezzato, idonea a legittimare l’auspicata iniziativa edificatoria.
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1.- Il ricorso non è fondato e va respinto.
2.- Il complessivo apparato critico di parte ricorrente è affidato al plurimo rilievo per cui:
   a) le aree oggetto del prefigurato intervento edificatorio ricadrebbero in zona B1, alla stregua del vigente strumento urbanistico generale;
   b) la destinazione vincolistica a verde pubblico attrezzato, impressa dal piano particolareggiato, sarebbe divenuta inefficace vuoi in relazione alla sopravvenuta inefficacia dello stesso piano (stante l’ultrattività, scolpita dall’art. 17 della l. n. 1150/1942, delle sole previsioni di allineamento e delle prescrizioni di zona), vuoi in relazione alla decadenza ex art. 2 l. n. 1187/1968, trattandosi in tesi di vincolo a carattere ablatorio e non conformativo);
   c) che le aree all’interno del piano particolareggiato decaduto non sarebbero, per tal via, prive di regolamentazione urbanistica, permanendo piuttosto la disciplina di pianificazione generale e quella di linea fondamentale ed essenziale di pianificazione attuativa, e ciò a differenza delle aree sprovviste della disciplina dello strumento urbanistico generale o con vincoli di in edificabilità decaduti (c.d. zone bianche o depianificate), per le quali restano applicabili i limitati indici di edificabilità previsti dall’art. 4 della l. n. 10/1977.
3.- La tesi non persuade.
Vero è che, ancora di recente, il Tribunale ha avuto modo di statuire (per vicenda analoga, ma –per quanto subito si dirà– non identica):
   a) che nelle zone in cui il piano particolareggiato è decaduto deve ritenersi consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia di zona che resta automaticamente ultrattiva a tempo indeterminato per la parte che disciplina l’edificazione nelle sue linee fondamentali ed essenziali (TAR Salerno, sezione II, n. 1195/2008 e cfr., altresì, Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2003, n. 200);
   b) che, infatti, le aree all’interno del piano particolareggiato decaduto, in forza dell’art. 17 della legge n. 1150/1942, non sono prive di regolamentazione urbanistica in quanto permane la disciplina di pianificazione generale e quella di linea fondamentale ed essenziale di pianificazione attuativa, e ciò a differenza delle aree sprovviste della disciplina dello strumento urbanistico generale o con vincoli di inedificabilità decaduti (c.d. zone bianche o depianificate) per le quali sono applicabili i limitati indici d’edificabilità previsti dall’art. 4, u.c., dell’art. 4 della legge n. 10/1977.
Nel caso di specie, per l’appunto, le ragioni del contestato diniego sono affidate al rilievo che “il progetto intende realizzarsi (sic!) su area destinata a verde attrezzato, così come prescritto dalla variante al p.r.g., approvata con il piano particolareggiato”: onde proprio le riassunte premesse in diritto, che vale ribadire, chiariscono che, stante la non contestata ultrattività delle prescrizioni di zona previste dallo strumento urbanistico generale (per come variato in sede di approvazione del piano particolareggiato), sulle aree in contestazione deve ritenersi sussistente un vincolo (non soggetto a decadenza) di carattere conformativo, quale quello a verde attrezzato.
Deve, invero, chiarirsi che la tesi del ricorrente trova fondamento nel dichiarato, ma non corretto, presupposto che il vincolo in questione abbia carattere ablatorio e, come tale, sia decaduto per inutile decorso del quinquennio di cui all’art. 2 della l. n. 1187/1968.
Per contro, in ordine al regime delle aree destinate dagli strumenti urbanistici a verde pubblico, si registra un diffuso e condivisibile orientamento giurisprudenziale che ne riconosce, in via generale, il carattere conformativo: ed è proprio questo, in particolare, il caso del vincolo c.d. a verde attrezzato, per il quale la possibilità di realizzare sulle aree private attrezzature per lo svago, chioschi, bar, teatri all’aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo, e simili, nonché biblioteche e giochi per bambini, e la possibilità, altresì, di realizzarle ad iniziativa non meno pubblica che privata costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente per tal via validità a tempo indeterminato (così, per esempio, Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2005, n. 2718).
Da qui la conclusione che, essendo consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde, va esclusa, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale e non è, quindi, ravvisabile alcun vincolo preordinato all’espropriazione né comportante inedificabilità assoluta (analoga natura, per inciso, riveste la destinazione a verde agricolo, per la quale si esclude la natura espropriativa proprio in quanto da un lato tale destinazione ha carattere generale e non incide in modo speciale su singoli beni, dall’altro essa permette una sia pur limitata edificabilità).
Ne consegue, coerentemente, che solo l’esclusione totale di qualsiasi possibilità realizzativa o (in alternativa) la riserva esclusiva della realizzazione in capo all’ente pubblico assume valenza espropriativa, con conseguente obbligo di indennizzo a carico dell’amministrazione e previsione di un termine di scadenza.
Onde, in definitiva, la qualificazione del vincolo a verde pubblico quale eccezionalmente pre-espropriativo (piuttosto che ordinariamente conformativo) dipende, in concreto, dalla effettiva incidenza che la relativa previsione esplica sul contenuto del diritto di proprietà (v. per esempio, in tema di destinazione a parco urbano, in ordine alla quale era vietata qualsiasi costruzione stabile o provvisoria, TAR Puglia, Bari, sez. III, 05.09.2007, n. 2093 e Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2004, n. 745).
Rientrando il caso in esame nella evocata fattispecie generale, l’intervenuta decadenza del piano particolareggiato non appare, stante l’argomentata ultrattività del vincolo a verde attrezzato, idonea a legittimare l’auspicata iniziativa edificatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.11.2009 n. 6682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa scadenza di uno strumento attuativo, laddove non lasci alcuna lacuna nella vigente normativa urbanistica, comporta la riespansione del piano regolatore generale per la medesima zona.
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La preventiva necessità di uno strumento attuativo è superabile solo nel caso si dimostri sia che l’area del richiedente è l’unica a non essere stata ancora edificata sia che la stessa si trovi in una zona integralmente dotata delle opere di urbanizzazione.
Ed invero, in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte quindi al rischio di compromissione di valori urbanistici, la pianificazione attuativa può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edilizio in atto.
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Le censure sono infondate.
Sulle questioni sollevate occorre muovere dal principio affermato in giurisprudenza per il quale la scadenza di uno strumento attuativo, laddove non lasci alcuna lacuna nella vigente normativa urbanistica, comporta la riespansione del piano regolatore generale per la medesima zona (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 6071/2003).
Il chiaro richiamo, operato dall’art. 38 NTA di PRG del Comune, all’applicazione, in caso di scadenza dello strumento attuativo, delle norme di PRG relative alla zona C determina quindi l’applicazione automatica della disposizione, opposta dal Comune all’istanza edificatoria, che subordina la possibilità edificatoria al preventivo varo di un nuovo strumento attuativo.
Tale automatica applicazione permette di ritenere conseguentemente infondata sia la tesi (ipotizzata dalla perizia di parte ricorrente) sull’applicabilità all’area del regime previsto per le zone B, sia della censura che invoca l’orientamento giurisprudenziale per il quale il diniego di concessione edilizia che si fondi sulla necessità di uno strumento attuativo deve essere supportato da ragioni che facciano riferimento al livello di urbanizzazione della zona (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 6171/2007 e Sez. V, n. 1216/2008), atteso che la necessità di tali valutazione non può trovare spazio in presenza di una normativa urbanistica sufficientemente vincolante e dettagliata sul punto.
Inoltre è stato affermato che la preventiva necessità di uno strumento attuativo è superabile solo nel caso si dimostri sia che l’area del richiedente è l’unica a non essere stata ancora edificata sia che la stessa si trovi in una zona integralmente dotata delle opere di urbanizzazione (Cons. di Stato, Sez. IV, n. 7482/2006).
Ed invero, in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte quindi al rischio di compromissione di valori urbanistici, la pianificazione attuativa può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edilizio in atto (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 7799/2003; v. anche Sez. V n. 5756/2000 e 2874/2000) e a tali ragioni si è in effetti richiamato il giudice di prime cure.
Conclusivamente, le ragioni addotte dal Comune nell’impugnata nota n. 41034/2003, recante il diniego di permesso di costruire sono da considerarsi legittime (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.11.2008 n. 5471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Collegio ritiene che la disposizione dell’articolo 17 L. 1150/1942 debba essere intesa nel senso che l’inefficacia del piano per decorso del termine di attuazione stabilito ex articolo 16 implichi la decadenza dei vincoli e degli speciali poteri che la legge urbanistica attribuisce all’amministrazione per consentire la realizzazione del programma urbanistico; si pensi:
   - al potere di ingiungere ai proprietari di eseguire le sistemazioni previste dal piano ex articolo 20;
   - alle facoltà relative alle aree che per effetto delle sistemazioni previste cessino di far parte del suolo pubblico previste dall’articolo 21;
   - al potere di promuovere l’accordo tra i proprietari per le opportune rettifiche dei confini ex articolo 22, eventualmente sostituendosi agli stessi esercitando il potere ablatorio;
   - al potere di formazione dei comparti edificatori ex articolo 23 (in questo caso è anzi espressamente previsto che tale potere debba esercitarsi nel termine di efficacia del piano e siffatta precisazione sembra sottintendere l’ultrattività delle disposizioni disciplinanti la edificazione).
La scadenza del termine invece non priva di efficacia le disposizioni del piani particolareggiati disciplinanti l’attività edilizia; in pratica le prescrizioni di zona e quelle relative agli allineamenti sono le disposizioni che conformano gli ambiti compresi nel piano disciplinando modalità e limiti della edificazione ad opera dei soggetti sia pubblici che privati.
In altri termini, scaduto il termine di efficacia del piano, decadono i vincoli nello stesso previsti e l’amministrazione perde i penetranti poteri dispositivi della proprietà privata che la legge le attribuisce allo scopo di consentire l’attuazione del piano nei termini previsti: per esemplificare l’amministrazione non potrà ordinare ai privati di eseguire le trasformazioni previste sotto minaccia della avocazione delle aree alla mano pubblica ex articolo 20; ciò tuttavia non esclude che nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti debbano continuare ad applicarsi le disposizioni del p.p.e. a garanzia che –finché il comune non intervenga con un nuovo piano particolareggiato– non sia alterato lo sviluppo urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato dallo strumento scaduto.
E’ chiaro che il punto debole di questa ricostruzione è quello del regime delle aree oggetto di vincoli decaduti; si tratta di un punto debole che ha la sua matrice storica nel fatto che il legislatore del 1942 guardava ai vincoli di inedificabilità e ai vincoli preordinati all’espropriazione come a misure “conformative” della proprietà, la cui indeterminatezza temporale non comportava alcun tipo di problema giuridico costituendo un limite del diritto di proprietà; la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha invece –come è noto- scelto una soluzione diversa, che impone –nel presupposto della inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà dei suoli- che i vincoli in questione siano alternativamente imposti a tempo determinato ovvero indennizzati, con la conseguenza che –una volta stabilito che l’inefficacia del piano particolareggiato determina l’inefficacia del vincolo– si pone l’esigenza di stabilire quale sia il regime urbanistico del suolo.
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6.4. Il Collegio ritiene sostanzialmente condivisibili le posizioni dei resistenti.
6.4.1. La prima questione sulla quale è necessario soffermarsi è quella della relazione esistente tra il citato articolo 17 della legge urbanistica e il successivo articolo 41-quinquies (introdotto dalla cd. legge ponte), secondo cui “nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa”.
Secondo parte della giurisprudenza la disposizione dell’articolo 41-quinquies citata troverebbe applicazione non soltanto nel caso –espressamente previsto– in cui il p.p.e. non sia mai intervenuto ma anche nel caso in cui esso sia divenuto inefficace per il decorso del termine previsto per la sua attuazione; in quest’ultimo caso tra questa disposizione e l’articolo 17 citato vi sarebbe un rapporto di “integrazione”, nel senso che –anche laddove l’edificazione possa avvenire sulla base di disposizioni di P.R.G. che stabiliscano indici volumetrici e altezze e/o in base alle disposizioni di p.p.e. ancora in vigore ex articolo 17– in ogni caso non sarebbe possibile, in assenza di un nuovo strumento particolareggiato, superare i limiti volumetrici e di altezza stabiliti –con una sorta di norma di salvaguardia e di chiusura del sistema– dall’articolo 41-quinqiues (TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.08.2003, n. 6937, TAR Lazio, Roma, sez. II, 25.06.2003, n. 5578).
Il Collegio non ritiene che questa impostazione sia applicabile alla fattispecie in esame.
In primo luogo deve osservarsi che la giurisprudenza in materia si riferisce –come accennato sopra– prevalentemente a casi in cui venivano in rilievo aree gravate da vincoli preordinati all’espropriazione (cfr. ad es. TAR Sicilia, Palermo, 11.10.2001, n. 1434).
Deve poi osservarsi che l’articolo 41-quinquies si riferisce espressamente al solo caso di carenza originaria di piano particolareggiato; la fattispecie del piano particolareggiato inefficace per mancata attuazione del termine è una fattispecie diversa per cui l’estensione dei limiti dell’articolo 41-quinquies a tale fattispecie presuppone che vi sia una identità di ratio giustificatrice.
La ratio della citata disposizione dell’articolo 41-quinquies è chiaramente quella di impedire una edificazione “intensiva” –pur in astratto consentita dallo strumento generale- in carenza di un disegno urbanistico di dettaglio prestabilito e di adeguate garanzie che alla edificazione intensiva si accompagni la realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione primaria e secondaria; la previa redazione del piano particolareggiato garantisce in questa prospettiva sia l’esistenza di un valido disegno urbanistico che la certezza dei tempi di realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Se questa è la ratio della disposizione dell’articolo 41-quinquies essa può trovare applicazione –oltre che nel caso espressamente previsto in cui il piano particolareggiato manchi– al solo caso di inefficacia per decorso del termine di un piano particolareggiato che non abbia avuto alcuna esecuzione o abbia avuto esecuzione minima e solo relativamente agli ambiti che possano qualificarsi come non attuati nel senso così indicato (in specie per quanto concerne le necessarie opere di urbanizzazione primaria e secondaria).
6.4.2. Comunque –e indipendentemente da quanto precede- è da escludere che la disposizione citata possa trovare applicazione nell’ipotesi in cui venga in rilievo un ambito di piano che sia stato quasi interamente realizzato.
Questa è l’ipotesi all’esame in cui risulta documentalmente che:
   a) il comparto H della sottozona C1 è stato realizzato in misura superiore al 80%;
   b) delle sette unità attuative che lo compongono l’unica ancora da completare è proprio quella cui si riferisce l’atto impugnato;
   c) il lotto edificabile relativo è praticamente intercluso da strade e altri fabbricati e per di più la controinteressata –e i suoi dante causa– hanno già adempiuto agli obblighi assunti a mezzo della convenzione urbanistica (cedendo aree, pagando somme per costo di costruzione e oneri di urbanizzazione etc. …); a ciò si aggiunge che le opere di urbanizzazione primaria relative all’intero ambito del p.p.e. sono quasi completamente realizzate (mancano alcuni limitati segmenti di viabilità) e che ampiamente realizzate sono anche le opere di urbanizzazione secondaria.
6.4.3. Ad una situazione quale quella all’esame, si deve applicare la disposizione del primo comma dell’articolo 17 della legge urbanistica che, pur in presenza dell’inefficacia del p.p.e. per decorso del termine, stabilisce la ultrattività a tempo indeterminato delle prescrizioni di zona e di quelle relative agli allineamenti.
Nella fattispecie ricorre infatti la ratio della disposizione indicata che è quella di impedire, a fronte di un programma urbanistico in parte già realizzato, che nuovi interventi edilizi non si coordinino con il disegno urbanistico sino ad allora seguito così alterandolo; in effetti, se si considera la situazione all’esame, in cui risulta che il disegno urbanistico del p.p.e. del 1978 almeno con riferimento al comparto H è stato pressoché integralmente attuato, sarebbe quasi paradossale negare la ultrattività delle disposizioni di piano disciplinanti l’edificazione e applicare i limiti generali, ciò traducendosi nella frustrazione degli scopi della pianificazione esecutiva e nella alterazione del disegno urbanistico cui il p.p.e. del 1978 è ispirato.
Il Collegio ritiene che la disposizione dell’articolo 17 debba essere intesa nel senso che l’inefficacia del piano per decorso del termine di attuazione stabilito ex articolo 16 implichi la decadenza dei vincoli e degli speciali poteri che la legge urbanistica attribuisce all’amministrazione per consentire la realizzazione del programma urbanistico; si pensi:
   - al potere di ingiungere ai proprietari di eseguire le sistemazioni previste dal piano ex articolo 20;
   - alle facoltà relative alle aree che per effetto delle sistemazioni previste cessino di far parte del suolo pubblico previste dall’articolo 21;
   - al potere di promuovere l’accordo tra i proprietari per le opportune rettifiche dei confini ex articolo 22, eventualmente sostituendosi agli stessi esercitando il potere ablatorio;
   - al potere di formazione dei comparti edificatori ex articolo 23 (in questo caso è anzi espressamente previsto che tale potere debba esercitarsi nel termine di efficacia del piano e siffatta precisazione sembra sottintendere l’ultrattività delle disposizioni disciplinanti la edificazione).
La scadenza del termine invece non priva di efficacia le disposizioni del piani particolareggiati disciplinanti l’attività edilizia; in pratica le prescrizioni di zona e quelle relative agli allineamenti sono le disposizioni che conformano gli ambiti compresi nel piano disciplinando modalità e limiti della edificazione ad opera dei soggetti sia pubblici che privati.
In altri termini, scaduto il termine di efficacia del piano, decadono i vincoli nello stesso previsti e l’amministrazione perde i penetranti poteri dispositivi della proprietà privata che la legge le attribuisce allo scopo di consentire l’attuazione del piano nei termini previsti: per esemplificare l’amministrazione non potrà ordinare ai privati di eseguire le trasformazioni previste sotto minaccia della avocazione delle aree alla mano pubblica ex articolo 20; ciò tuttavia non esclude che nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti debbano continuare ad applicarsi le disposizioni del p.p.e. a garanzia che –finché il comune non intervenga con un nuovo piano particolareggiato– non sia alterato lo sviluppo urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato dallo strumento scaduto.
E’ chiaro che il punto debole di questa ricostruzione è quello del regime delle aree oggetto di vincoli decaduti (che non a caso è il problema cui si è applicata la giurisprudenza sopra ricordata); si tratta di un punto debole che ha la sua matrice storica nel fatto che il legislatore del 1942 guardava ai vincoli di inedificabilità e ai vincoli preordinati all’espropriazione come a misure “conformative” della proprietà, la cui indeterminatezza temporale non comportava alcun tipo di problema giuridico costituendo un limite del diritto di proprietà; la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha invece –come è noto- scelto una soluzione diversa, che impone –nel presupposto della inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà dei suoli- che i vincoli in questione siano alternativamente imposti a tempo determinato ovvero indennizzati, con la conseguenza che –una volta stabilito che l’inefficacia del piano particolareggiato determina l’inefficacia del vincolo– si pone l’esigenza di stabilire quale sia il regime urbanistico del suolo.
Questo problema –la cui soluzione sul piano concreto non può che essere rimessa alla responsabilità dell’amministrazione, nel senso che, a fronte del rischio di una compromissione di valori urbanistici, essa potrà utilizzare gli strumenti a sua disposizione (approvazione di una variante, reiterazione del vincolo nelle forme previste dalla legge …)- è tuttavia estraneo al giudizio, per le ragioni già viste.
6.5. Deve dunque concludersi che le disposizioni del p.p.e. sulla cui base è stato assentito il permesso di costruire impugnato sono tuttora efficaci in forza del citato articolo 17; di conseguenza i primi due motivi sono infondati (TAR Lazio-Latina, sentenza 10.06.2006 n. 367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Visite mediche di controllo nei confronti dei lavoratori assenti per infortunio sul lavoro. Risposta al quesito della Fondazione IRCCS, Policlinico “San Matteo”. Modalità di svolgimento – articolo 4, decreto ministeriale 17.10.2017, n. 206 (nota 20.02.2018 n. 322 di prot.).

ARAN

EDILIZIA PRIVATA: Ipotesi di Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale del comparto FUNZIONI LOCALI - triennio 2016-2018 (21.02.2018).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 09.03.2018 n. 57 "Attività antincendio boschivo per il 2018. Raccomandazioni operative per un più efficace contrasto agli incendi boschivi, di interfaccia ed ai rischi conseguenti" (P.C.M., nota 27.02.2018).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 09.03.2018 n. 57 "Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 16.01.2018 n. 14).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 07.03.2018 n. 55 "Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29.08.2014, n. 171, concernente il regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, in attuazione dell’articolo 22, comma 7-quinquies, del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.06.2017, n. 96" (D.P.C.M. 01.12.2017 n. 238).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 06.03.2018 n. 54 "Regolamento recante la definizione delle condizioni di esercizio dei condhotel, nonché dei criteri e delle modalità per la rimozione del vincolo di destinazione alberghiera in caso di interventi edilizi sugli esercizi alberghieri esistenti e limitatamente alla realizzazione della quota delle unità abitative a destinazione residenziale, ai sensi dell’articolo 31 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164" (D.P.C.M. 22.01.2018 n. 13).
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Di particolare interesse si legga:
- Art. 11. Rimozione del vincolo di destinazione alberghiera.

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 23.02.2018, "Testo coordinato del Regolamento regionale 18.10.2010, n. 9 «Regolamento di attuazione dell’albo regionale del volontariato di protezione civile (ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale 22.05.2004, n. 16, ‘Testo unico delle disposizioni regionali in materia di protezione civile’)»" (testo coordinato regolamento regionale 18.10.2010, n. 9).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 20.02.2018 n. 42, suppl. ord. n. 8, "Aggiornamento delle «Norme tecniche per le costruzioni»" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 17.01.2018).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.02.2018 n. 41 "Regolamento recante norme di attuazione del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58, in materia di intermediari" (Commissione Nazionale per le Società di Borsa, delibera 15.02.2018 n. 20307).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 19.02.2018, "Adeguamento del regolamento regionale 18.10.2010, n. 9 (Regolamento di attuazione dell’albo regionale del volontariato di protezione civile [ai sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 22.05.2004, n. 16, ‘Testo unico delle disposizioni regionali in materia di protezione civile’)] all’articolo 4, comma 5, della legge regionale 10.08.2017, n. 22 (Assestamento al bilancio 2017/2019 - I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali), e all’articolo 2 della legge regionale 28.12.2017, n. 41 (Modifiche all’articolo 5.1 e all’articolo 9-bis della legge regionale 22.05.2004, n. 16 ‘Testo unico delle disposizioni regionali in materia di protezione civile’)" (regolamento regionale 15.02.2018 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017, "Ottavo aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 22.11.2017 n. 14640).

ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017, "Disposizioni organizzative in materia di diritto di accesso documentale e di diritto di accesso civico, semplice e generalizzato, agli atti, informazioni e dati del Consiglio regionale della Lombardia e determinazione dei costi di riproduzione degli atti" (deliberazione U.P.C.R. 13.11.2017 n. 421).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: N. Durante, Pubblicità, trasparenza e FOIA: indicazioni operative (07.03.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Pispero, Whistleblowing - Cassazione Penale: la segnalazione è un vero e proprio atto di accusa e l’anonimato non è assoluto ma cede di fronte al diritto di difesa (01.03.2018 - link a www.filodiritto.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: C. Galdenzi e F. Boezio, IL NUOVO REGOLAMENTO SULLE TERRE E ROCCE DA SCAVO - (D.P.R. 13.06.2017, n. 120): luci e ombre (marzo 2018 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Introduzione: ricostruzione della recente evoluzione normativa. - 2. Una visione d’insieme del regolamento: la sua struttura. - 3. Brevi notazioni su singoli aspetti: il coordinamento tra la definizione di “suolo”, quella di “terre e rocce da scavo” e la nozione di “materiali di riporto”. - 4. (Segue) brevi notazioni su singoli aspetti: i criteri di individuazione e le modalità di gestione delle terre e rocce di scavo qualificate come sottoprodotti. - 5. (Segue) brevi notazioni su singoli aspetti: il deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate “rifiuti”. - 6. Conclusioni.

APPALTI: S. Tranquilli, Prime riflessioni a margine di alcune recenti oscillazioni giurisprudenziali sull’individuazione del dies a quo per impugnare le ammissioni e le esclusioni dalle gare alla luce della disciplina del rito “super-speciale (28.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso esaminato e la soluzione giuridica accolta da una recente sentenza del TAR Campania sulla questione della decorrenza del termine per ricorrere contro le ammissioni alla gara – 3. L’inafferrabilità del concetto di “piena conoscenza” e le chiare disposizioni del diritto eurounitario sulla decorrenza del termine per impugnare gli atti gara – 4. La chiara indicazione del dies a quo per impugnare le ammissioni e le esclusioni alla luce delle modifiche apportate dall’art. 19 del decreto “correttivo” – 5. La decorrenza del termine per ricorrere nelle diverse ipotesi in cui (a) la gara non sia scandita dalla pubblicazione del provvedimento di cui all’art. 29, comma 1 del Codice e (b) l’ammissione/l’esclusione alla gara sia stata comunicata prima della suddetta pubblicazione – 6. Verso un progressivo (e necessario) abbandono del concetto di “piena conoscenza”.

LAVORI PUBBLICI: V. Manzetti, Il “dibattito pubblico” nel nuovo codice dei contratti (28.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa metodologica. 2. La istituzionalizzazione del dibattito pubblico. 3. La disciplina nel nuovo codice dei contratti e nello schema di dpcm: parziale richiamo al modello del débat public francese. 4. Il dibattito pubblico quale strumento nuovo di amministrazione partecipata: limiti. 4.1. (segue)… L’incerto assetto normativo e la fragile configurazione di un diritto alla partecipazione. 4.2. (segue)… Il “difficile” rapporto tra l’art. 22 del nuovo codice dei contratti pubblici e le leggi regionali in materia di dibattito pubblico 4.3. (segue)… L’atecnica riduzione ai minimi termini dell’oggetto del dibattito pubblico. 4.4. (segue)… L’ambigua individuazione del soggetto responsabile del procedimento di dibattito pubblico. 5. Il necessario bilanciamento tra procedura partecipativa, semplificazione e riduzione dei tempi del procedimento. 6. La questione aperta della tutela dei soggetti della procedura partecipativa. 7. Alcune prime considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Tommasi, Le prospettive del nuovo diritto di accesso civico generalizzato (28.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Il diritto di accesso post riforma: il coordinamento tra accesso civico generalizzato e accesso documentale - 3. L’accesso civico nell’ordinamento dell’Unione europea - 4. Le tecniche di bilanciamento nel Regolamento (CE) 1049/2001 - 5. Alcune considerazioni sull’accesso civico generalizzato alla luce del FOIA europeo - 6. Brevi note conclusive.

APPALTI: F. Basenghi, Appalti, solidarietà e tutela del lavoratore: una strana storia non ancora conclusa (21.02.2018 - tratto da www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2018 – Importi invariati (ANCE di Bergamo, circolare 02.03.2018 n. 69).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Installazione impianti audiovisivi – Circolari INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) n. 299/2017 e 5/2018 (ANCE di Bergamo, circolare 02.03.2018 n. 68).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo agli obblighi di cui all’art. 18, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 81/2008 e al D.M. 10.03.1998, per un datore di lavoro che svolga le proprie attività esclusivamente presso unità produttive di un datore di lavoro committente – seduta della Commissione del 14.02.2018 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, interpello 28.02.2018 n. 1/2018).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Emanate le nuove norme tecniche per le costruzioni (ANCE di Bergamo, circolare 23.02.2018 n. 62).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 8 – anno 2018 (ANCE di Bergamo, circolare 23.02.2018 n. 60).

A.N.AC.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Linee Guida n. 4, di attuazione del Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”. Approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016. Aggiornate al Decreto Legislativo 19.04.2017, n. 56 con delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018 (delibera 01.03.2018 n. 206 - link a www.anticorruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe, sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al 31.03.2018 e attività di vigilanza dell’Autorità (delibera 21.02.2018 n. 141 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIGare aperte a imprese fallite. Linee guida Anac in consultazione.
Linee guida per stabilire le modalità di partecipazione alle gare e ai subappalti da parte di imprese fallite ma autorizzate all'esercizio provvisorio, oppure in situazione di concordato preventivo con continuità aziendale.

Le ha definite l'Anac (Linea guida prevista dall’art. 110, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, in merito ai requisiti aggiuntivi delle imprese fallite o ammesse al concordato) e messe in consultazione sul proprio sito web fino al 29 marzo.
L'intervento di Anac è in relazione a quanto prevede l'articolo 110, comma 3, del Codice dei contratti pubblici che ammette anche l'impresa fallita, purché autorizzata all'esercizio provvisorio, analogamente a quella in regime di concordato con continuità aziendale, a partecipare alle gare di appalti e concessioni, a ricevere subappalti e ad eseguire i contratti già sottoscritti, previa autorizzazione del giudice delegato.
La misura ha evidenti finalità di tutela dei livelli occupazionali delle maestranze e del know-how aziendale. Il comma 5 della norma prevede che l'Anac possa subordinare la partecipazione alle gare ad un avvalimento obbligatorio, in forza del quale l'impresa ausiliaria si impegna, sia nei confronti della stazione appaltante che nei confronti dell'impresa concorrente, a mettere a disposizione le risorse per l'esecuzione del contratto e al successivo subentro, laddove l'impresa ausiliata non sia più in grado di eseguire correttamente l'appalto o la concessione.
Da qui l'esigenza di disciplinare tutta la procedura attraverso un'apposita linea guida che definisca innanzitutto l'ambito di applicazione (appalti, subappalti e concessioni anche di valore inferiore alle soglie Ue).
Al riguardo l'Anac chiarisce però che deve ritenersi inapplicabile la disciplina tesa ad ammettere all'affidamento di contratti le imprese dichiarate fallite senza esercizio provvisorio e a quelle in liquidazione coatta, cioè assoggettate ad una procedura concorsuale diversa dal concordato preventivo con continuità aziendale e dal fallimento con esercizio provvisorio.
In merito alle modalità di intervento dell'Anac, si ipotizza che, contestualmente all'attivazione dell'Anac da parte del giudice delegato o di altro soggetto, l'impresa o la stessa Anac segnalino alla stazione appaltante la pendenza del subprocedimento e la conseguente richiesta di ammissione provvisoria dell'impresa
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2018).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI: L'affidamento dei servizi.
DOMANDA:
L'art. 37 del D.Lgs. 50/2016 stabilisce che per gli affidamenti di servizi di importo superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria, le stazioni appaltanti in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell'art. 38 del medesimo decreto e gli altri soggetti di cui all'art. 38, comma 1, procedono mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate.
Questo ente, comune non capoluogo di provincia, privo della necessaria qualificazione di cui all'art. 38, deve affidare un servizio di pulizia presente sul MEPA di importo superiore a 40.000 euro ed inferiore alla soglia comunitaria.
Si richiede se, ai sensi della normativa vigente, il Comune possa procedere autonomamente a svolgere la procedura di acquisto tramite MEPA (con procedura aperta) oppure se la procedura di acquisto tramite MEPA debba necessariamente essere svolta dalla stazione unica appaltante costituita presso la Provincia a cui il Comune ha aderito.
RISPOSTA:
Per svolgere le procedure di importo superiore alle soglie indicate al periodo precedente, codesto Ente, comune non capoluogo di provincia, deve essere necessariamente in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell’articolo 38 del codice dei contratti pubblici (art. 37, comma 1 codice).
Tuttavia, come precisato dall’ANAC stessa (v. FAQ periodo transitorio), nel periodo transitorio (e cioè finché non sarà in vigore il DPCM dei cui al comma 2 del cit. art. 38, attualmente trasmesso a Regioni e Comuni per l'intesa in conferenza unificata) tale qualificazione si intende sostituita dall’iscrizione all’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti di cui all’art. 33-ter del d.l. 18/12/2012 n. 179 convertito dalla legge 17/12/2012, n. 221.
In particolare, per gli acquisti di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro ed inferiore alla soglia di cui all’art. 35, nonché per l’acquisto di lavori di manutenzione ordinaria d’importo superiore a 150.000 e inferiore a 1 milione di euro, i Comuni non capoluogo di provincia, ove iscritti all’AUSA, possono procedere all’affidamento mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate secondo la normativa vigente, se disponibili.
Al di fuori delle ipotesi sopra richiamate, detti Comuni devono procedere secondo una delle modalità individuate al comma 4 dell’art. 37.
Viceversa le stazioni appaltanti non iscritte all’AUSA possono procedere all’acquisizione di lavori, servizi e forniture solo ricorrendo a una centrale di committenza ovvero procedendo ad una aggregazione con una stazione appaltante iscritta all’Anagrafe citata (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaci negli uffici tecnici. Possono presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può affidare al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale, e nominare il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa, avvalendosi della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento edilizio?

L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2, del citato dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4 della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza) con sentenza n. 3490 del 26/06/2013 ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sempre più caos sugli incentivi tecnici: la Corte del conti lombarda rilancia sull’esclusione dal fondo accessorio.
A seguito della posizione negativa assunta dalla Sezione di controllo per la Puglia (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 14.02.2018) sugli incentivi tecnici, la Sezione della Lombardia, con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, modifica la questione di massima prospettando tre diversi quesiti.
Secondo il Collegio contabile lombardo esistono tre diversi motivi per cui gli incentivi tecnici debbano essere esclusi dai limiti del fondo delle risorse decentrate, cui corrispondono tre diversi quesiti da porre alla Sezione delle Autonomie, un motivo principale e due subordinati, in caso di esito negativo del primo.
La questione principale
Se è vero che il Dlgs 50/2016 ha escluso le attività di progettazione e ha esteso gli incentivi, oltre ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture, è altrettanto vero che le figure professionali individuate dalla normativa sono tipizzate. Così per gli appalti dei lavori, il personale coinvolto per l'erogazione degli incentivi è sia quello tecnico (coinvolto nelle attività programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di Rup, di direzione dei lavori, collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico) sia il personale che abbia concretamente con loro collaborato.
Negli appalti di servizi e forniture, gli incentivi sono previsti esclusivamente per il «direttore dell'esecuzione». A queste figure professionali l'amministrazione, previa adozione di atto unilaterale (non soggetto a contrattazione con le rappresentanze sindacali), destina una somma non superiore al 2% dell'importo posto a base di gara. Si tratta, pertanto, di un fondo che si autoalimenta con gli stanziamenti in bilancio e che, quindi, non potrà mai attingere ad altre risorse finanziarie.
Gli importi che potranno essere distribuiti devono essere, inoltre, «comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione», nonché, va aggiunto, al fine di evitare analogo sforamento, anche di quelli per l'Irap (che vanno pre-dedotti dalla percentuale massima che l'amministrazione intende riconoscere).
Effettuata questa analisi preliminare, il Collegio contabile spiega come questi incentivi gravino su risorse autonome e predeterminate del bilancio (da ultimo, chiarite dal comma 5-bis dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016) e posseggano due limiti finanziari che ne impediscono l'incontrollata espansione, uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell'importo posto a base di gara) e l'altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Di qui la prima questione di massima rimessa alla Sezione Autonomie sulla equivalenza dei fondi con quelli erogati per i diritti di rogito ai segretari comunali, anche essi esclusi dalla dinamica del salario accessorio, essendo limitati a un quinto della loro retribuzione. In altri termini, secondo i giudici contabili lombardi dovrebbero essere esclusi tutti quegli incentivi che abbiano fonte in disposizioni di legge speciale, che individuino le autonome fonti di finanziamento e pongano dei limiti, complessivi e individuali.
La prima questione subordinata
Il Collegio contabile integra la questione principale con altre considerazioni precisando come, rispetto alla precedente condizione stabilita dalle Sezione Riunite (deliberazione 04.10.2011 n. 51), nulla sembra essere mutato se non la sola esclusione delle attività di progettazione, mentre risultano identici i rimanenti presupposti, con il rischio di affidare le attività all'estero rispetto a quelle meno costose degli incentivi a un numero ristretto di personale qualificato. Né la situazione risulterebbe diversa rispetto agli appalti di servizi o forniture che presentano, per loro natura, un livello di difficoltà tecnica nella predisposizione di capitolati e bandi di gara, nonché nel controllo sull'esecuzione delle prestazioni, non inferiore a quelli dei lavori.
La seconda questione subordinata
In caso di risposta negativa da parte della Sezione delle Autonomie, è necessario avere contezza delle concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola dell'eventuale sottoposizione degli incentivi previsti ai limiti del salario accessorio posto dalla normativa (articolo 23, comma 2, del Dlgs n. 75 del 2017), tenendo presente che in caso di soggezione a questi limiti la norma di finanza pubblica, invece di avere un effetto di contenimento della spesa, finisce non solo per decurtarla ma, addirittura, per azzerarla, con l'effetto di un'impropria interpretazione abrogante di una disposizione di incentivazione (articolo 113 del Dlgs n. 50 del 2016) che il legislatore non solo ha confermato, ma anche esteso, con precisa scelta politica, agli appalti di servizi e forniture (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.02.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Fuori dal fondo gli incentivi tecnici da fondi comunitari (in attesa della sezione Autonomie).
Mentre alcune Sezioni regionali della Corte dei conti hanno sollecitato la questione di massima alla Sezione delle Autonomie (si veda Il quotidiano degli enti locali e della Pa del 21 febbraio), e si resta in attesa di una decisione definitiva sulla inclusione o esclusione degli incentivi tecnici dal fondo delle risorse decentrate, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia (parere 09.02.2018 n. 18) dichiara fuori dal fondo, in ogni caso, il pagamento degli incentivi tecnici direttamente imputabili a finanziamenti con risorse a carico dei fondi comunitari.
La richiesta del sindaco
In considerazione di una confusione generalizzata sulla inclusione o meno degli incentivi tecnici nel fondo delle risorse decentrate, tanto da spingere anche le parti sindacali e l'Aran a sottoscrivere una dichiarazione congiunta, nell'attuale preintesa del contratto nazionale, con il forte auspicio di una prossima decisione positiva da parte della Sezione delle Autonomie nel considerarli al di fuori dei limiti del salario accessorio, un sindaco interroga i magistrati contabili sulla conferma al momento che almeno gli incentivi tecnici riferiti al pagamento del personale per le attività finanziate da risorse europee siano da considerare al di fuori dei limiti di crescita delle risorse decentrate.
Il sindaco, inoltre, precisa che il Comune non ha rispettato il patto di stabilità del 2015 e che a tal fine intende fruire del regime derogatorio previsto dall'articolo 23 del Dlgs 75/2017 secondo cui «gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016».
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile pugliese precisa che, in merito al mancato rispetto del patto di stabilità 2015, le risorse non destinate alle risorse decentrate nell'anno 2016 rappresentano la sanzione espressamente comminata dall'articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001 e come le risorse non potranno essere utilizzate nell'anno 2016.
Tuttavia, il legislatore ha inserito per tutti gli enti che non avessero potuto utilizzare le risorse variabili, di fare riferimento, nella costituzione del fondo a partire dall'anno 2017, non al limite del fondo dell'anno 2016, necessariamente ridotto rispetto a quello dell'anno 2015 a seguito della sanzione disposta dal legislatore, ma a limite del valore del fondo dell'anno 2015 diminuito in proporzione alla riduzione del personale presente nell'anno 2016.
Avuto riguardo alla possibilità di non considerare all'interno del fondo delle risorse decentrate gli incentivi tecnici, in base all'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016, qualora gli incentivi risultino a carico dei finanziamenti europei, il collegio contabile conferma quanto già indicato dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 25.07.2017 n. 20 secondo cui «il rispetto dei presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa costituisca condizione sufficiente anche per legittimare l'ente ad escludere le risorse comunitarie destinate alla valorizzazione della produttività individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari dalle limitazioni di spesa previste dall'art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017».
L'indicazione formulata nei confronti del personale regionale è chiaramente estensibile anche al personale dei Comuni, a condizione che gli incentivi ineriscano in via esclusiva a una spesa etero-finanziata con risorse comunitarie, il personale individuato sia qualificato e individuato sin dall'inizio per la sua spiccata professionalità, dovendo pur sempre essere in presenza di attività di natura straordinaria e aggiuntiva rispetto a quella ordinariamente resa dai dipendenti individuati.
In presenza di questi presupposti, a prescindere dalla successiva posizione che assumerà la Sezione delle Autonomie, nella nuova questione di massima sollecitata a fronte dell'intervento normativo operato dal legislatore con la legge di bilancio 2018, sarà possibile sin dall'inizio considerare gli incentivi al di fuori del fondo del salario accessorio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.03.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Richiesta di parere sulla applicazione dell’art. 23 D.Lgs. 75/2017 - ai fini della determinazione del tetto del fondo delle risorse decentrate del personale dipendente anno 2016 per gli enti locali che non hanno rispettato il patto di stabilità interno del 2015, nonché con riferimento agli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016.
Il rispetto dei presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa costituisce condizione sufficiente per legittimare l’ente ad escludere le risorse comunitarie destinate alla valorizzazione della produttività individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari dalle limitazioni di spesa previste dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017.
Concorrono, infatti, gli accennati requisiti dell’aggiuntività e della straordinarietà degli incarichi, del vincolo di destinazione qualificato e predeterminato, dell’etero-finanziamento e dell’incremento quali-quantitativo dei servizi connesso a prestazioni di soggetti individuati o individuabili specificamente documentabili.

Ne consegue, pertanto, che
l’esclusione dal limite del fondo degli incentivi tecnici finanziati con risorse comunitarie è possibile a condizione che siano rispettati i presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa.
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Con la nota sopra citata il Sindaco della Città Metropolitana di Bari richiede il parere di questa Sezione in relazione alla portata applicativa dell’art. 23 del decreto legislativo 20.05.2017 nr. 75 ai fini della determinazione del tetto del fondo delle risorse decentrate del personale dipendente anno 2016 per gli enti locali che non abbiano rispettato il patto di stabilità interno del 2015, nonché con riferimento agli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016.
Nello specifico, il Sindaco chiede di conoscere:
   - se l'Ente possa comunque avvalersi del regime derogatorio voluto dal legislatore per gli enti locali al comma 2, secondo periodo, del vigente art. 23 del decreto legislativo 20.05.2017 nr. 75.
Per l'effetto, si chiede conoscere se, ai fini della costituzione del Fondo delle risorse decentrate dell'anno 2017, per la determinazione del tetto, tarato dalla legge al precedente esercizio 2016, si possa annoverare anche l'ammontare delle risorse variabili di cui all'art. 15, comma 2, CCNL 01.04.1999 Comparto Regioni Autonomie locali, che l'Ente ha comunque contabilizzato entro i limiti consentiti in applicazione dell'art. 1, comma 236, legge 208/2015, ma prudenzialmente accantonato, in attesa di chiarimenti sulle modalità di applicazione delle sanzioni derivanti dal mancato conseguimento del patto di stabilità nell'anno 2015 (esercizio, con riferimento al quale, come detto, l'Ente ha applicato la limitazione prevista dall'art. 40, comma 3-quinquies, del d.lgs. n. 165/2001);
   - se, a seguito della pronuncia della Corte dei Conti, sez. Autonomie, che con deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha enunciato il seguente principio di diritto (recentemente confermato con deliberazione 10.10.2017 n. 24 Sezione Autonomie: "
Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, comma 2 del d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'articolo 1, comma 236, L. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)", nel solco dell'approdo ermeneutico della Sezione Autonomie (deliberazione 25.07.2017 n. 20), possano essere considerati fuori dal limite del fondo anche gli incentivi tecnici di cui all'articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, finanziati con risorse provenienti da fondi comunitari.
...
In particolare per quanto riguarda il primo quesito, il Collegio sottolinea che l’art. 23 del d.lgs. 25.05.2017, n. 75, recante Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche prevede, con formulazione assai simile alle disposizioni vincolistiche precedenti, che "Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016".
La disposizione di che trattasi, chiara ed univoca, si pone in linea di continuità con la normativa vincolistica precedente, di contenuto pressoché analogo, (art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, art. 1, comma 236, legge n. 208/2015), prevedendo esplicitamente una deroga sull’anno di riferimento per gli enti locali che, non avendo rispettato il patto di stabilità 2015, non avevano destinato nel 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa.
Per quanto riguarda il quesito relativo alla possibilità di includere, per la determinazione del tetto relativo al Fondo risorse decentrate 2017, le risorse variabili contabilizzate, non erogate e accantonate nel 2015 per effetto del mancato rispetto nel 2015 del patto di stabilità e quindi non considerate nella costituzione del fondo decentrato 2016,
il Collegio ritiene che, fermo restando che la facoltà di incremento delle risorse variabili è preclusa dalla vigente normativa in caso di inosservanza del patto di stabilità e che l’interpretazione delle norme contrattuali rientra nelle funzioni che il legislatore ha attribuito all’ARAN (delib. Sezioni riunite n. 56/CONTR/2011), per effetto dell’utilizzo della deroga di cui sopra, l’ammontare dell’importo non possa superare comunque il corrispondente importo del 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in sevizio nell’anno 2016.
Con riferimento al quesito relativo alla possibilità di considerare fuori dal limite del fondo anche gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 finanziati con risorse provenienti da fondi comunitari, occorre richiamare le deliberazioni già assunte dalla Sezione Autonomie sull’argomento sopracitato:
   - Con deliberazione 06.04.2017 n. 7, la Sezione Autonomie della Corte ha enunciato il principio di diritto secondo il quale
gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori;
   - Con deliberazione 25.07.2017 n. 20, la Sezione ha enunciato i seguenti principi di diritto: “……
si può agevolmente notare come il rispetto dei presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa costituisca condizione sufficiente anche per legittimare l’ente ad escludere le risorse comunitarie destinate alla valorizzazione della produttività individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi comunitari dalle limitazioni di spesa previste dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017. Concorrono, infatti, gli accennati requisiti dell’aggiuntività e della straordinarietà degli incarichi, del vincolo di destinazione qualificato e predeterminato, dell’etero-finanziamento e dell’incremento quali-quantitativo dei servizi connesso a prestazioni di soggetti individuati o individuabili specificamente documentabili.”.
Ne consegue, pertanto, che
l’esclusione dal limite del fondo degli incentivi tecnici finanziati con risorse comunitarie è possibile a condizione che siano rispettati i presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 09.02.2018 n. 18).

NEWS

SICUREZZA LAVOROAppalti, emergenze gestite da tutti i datori di lavoro. La risposta della commissione per gli interpelli sulla sicurezza.
La gestione delle emergenze negli appalti è un processo di cui sono compartecipi tutti i datori di lavoro: committente, appaltatori e subappaltatori. Il committente ha il ruolo di promotore, l'appaltatore (e subappaltatori) l'obbligo di attenersi alle procedure operative approvate.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 28.02.2018 n. 1/2018, prot. n. 3460, rispondendo a un quesito dell'Anip (associazione nazionale delle imprese di pulizia).
Tre questioni. Tre i quesiti, tutti basati sulla situazione speciale in cui operano le imprese associate dell'Anip (imprese di pulizia): l'indisponibilità dei luoghi di lavoro. Infatti, l'attività è svolta sulla base di appalti di pulizia, per cui le imprese erogano servizi a committenti senza avere la disponibilità giuridica ed esclusiva dei luoghi di lavoro, ma utilizzando locali del committente (spogliatoi, magazzini, uffici) e, soprattutto, erogando i servizi in vari ambienti (stanze, hall, corridoi ecc.) di proprietà esclusiva del committente. L'Anip ha posto tre quesiti.
Innanzitutto ha chiesto di sapere se, per un datore di lavoro che svolge le proprie attività esclusivamente in unità produttive di un datore di lavoro committente, l'obbligo della gestione delle emergenze (art. 18, comma 1, lett. b, del dlgs 81/2008, il T.u. sicurezza) possa ritenersi assolto attraverso la presa d'atto che il committente ha predisposto un Piano generale delle emergenze (Pge) che coinvolge anche eventuali lavoratori di aziende terze.
In secondo luogo ha chiesto di sapere se le squadre di emergenza e primo soccorso del committente possano considerarsi sufficienti a tutelare tutti i soggetti, anche appaltatori, presenti nei luoghi di lavoro.
Infine, ha chiesto di sapere se la presa d'atto che il committente ha predisposto un Pge possa avvenire nell'ambito delle attività di cooperazione e coordinamento delle misure di prevenzione e protezione (art. 26 T.u. sicurezza). In poche parole, l'Anip chiede di sapere se le imprese di pulizia, per il fatto di non avere luoghi di lavoro propri e di operare esclusivamente mediante appalti esterni, possano ritenersi esonerate dagli obblighi di predisposizione delle misure di prevenzione e di gestione delle emergenze (art. 18 T.u. sicurezza).
I chiarimenti. La commissione ricorda, innanzitutto, di non poter rispondere a casi specifici (come ritiene i tre quesiti), per cui formula chiarimenti generali. Per quanto attiene agli obblighi di cui all'art. 18, comma 1, lett. b, del T.u. sicurezza, spiega, non v'è dubbio che anche il datore di lavoro che operi presso i luoghi di lavoro di un committente sia tenuto all'adempimento degli obblighi relativi a rischi specifici della propria attività che possano dar luogo a situazioni d'emergenza come, ad esempio, nel caso di utilizzo di sostanze, attrezzature o materiali pericolosi.
D'altra parte, aggiunge la commissione, tenendo conto di quanto previsto dallo stesso T.u. (art. 26, comma 1, lett. b), il committente, in caso di affidamento di lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, è tenuto a fornire «agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2018).

ENTI LOCALILombardia, Emilia e Veneto pigliatutto sull'ambiente.
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pigliatutto in materia ambientale. Alle tre regioni che mercoledì hanno firmato con il governo l'accordo preliminare per il trasferimento di ulteriori fette di autonomia, ai sensi dell'art. 116 Cost., andranno molte delle funzioni amministrative in materia ambientale oggi esercitate dai comuni e soprattutto dalle province.
Come per esempio l'individuazione delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento rifiuti. O il controllo periodico su tutte le attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti. O ancora l'irrogazione delle sanzioni in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti contaminati. Senza dimenticare i controlli in materia di inquinamento acustico ed elettromagnetico.
Tali funzioni saranno trasferite alle regioni che poi potranno allocarle diversamente con una legge ad hoc, anche disciplinandone lo svolgimento attraverso propri enti e agenzie strumentali. Tutto in ogni caso si deciderà quando saranno approvate le leggi statali che dovranno recepire le intese sottoscritte dai tre presidenti (Roberto Maroni, Luca Zaia e Stefano Bonaccini) con il sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio Bressa.
Il percorso verso il trasferimento di maggiori poteri (oltre alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente, le tre regioni apripista avranno ulteriori competenze in materia di tutela della salute, istruzione, tutela del lavoro e rapporti internazionali) sarà comunque ancora lungo e complesso. Perché per essere ratificata ciascuna intesa avrà di una legge che le camere dovranno approvare a maggioranza assoluta dei propri componenti. L'iniziativa politica per tradurre in norme le intese spetterà al prossimo governo.
Il procedimento sarà lo stesso seguito per recepire gli accordi tra Stato e confessioni religiose ai sensi dell'art. 8 Cost. Le intese dovranno essere sottoposte all'esame del consiglio dei ministri ai fini dell'autorizzazione alla firma da parte del presidente del consiglio. Dopo la firma del premier saranno trasmesse al parlamento per la loro approvazione con legge
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).
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Il Governo della Repubblica Italiana firma con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto l’accordo preliminare su maggiori forme di autonomia ai sensi dell’art. 116, comma terzo, della Costituzione.
L'intesa fra il Governo e la Regione Lombardia per la concessione di forme di autonomia differenziata, sottoscritta il 28 febbraio a Palazzo Chigi è stata pubblicata sul sito del Dipartimento degli Affari Regionali e le Autonomie.
Si riporta di seguito il testo integrale dell'accordo 28.02.2018 Governo-Regione Lombardia.

PUBBLICO IMPIEGOContratti locali con atto fai-da-te. Se manca il consenso e c'è pregiudizio all'azione dell'ente. Il nuovo Ccnl prevede norme ad hoc in caso di stallo nelle trattative sulle risorse.
La preintesa del Ccnl enti locali chiarisce le procedure per giungere alla stipulazione dei contratti decentrati e pone le basi per adottare comunque l'atto unilaterale nel caso in cui manchi il consenso tra le parti e spiri il termine delle sessioni contrattuali.
È l'articolo 8 a interessarsi dei tempi procedurali e ad attuare le previsioni contenute nell'articolo 40, comma 3-ter, del dlgs 165/2001, stabilendo casi e modi per l'adozione dell'atto unilaterale in caso di stallo irrimediabile delle trattative.
La norma distingue due tempistiche. La prima è legata alle materie oggetto dell'obbligo di contrattare ma non di stipulare, elencate dall'articolo 7, comma 4, lettere k), l), m), n), o), p), q) , r), s), t). Le parti sono tenute ad instaurare trattative, ma non necessariamente a convenire sui contenuti. Per questa ragione, il comma 4 dell'articolo 8 della preintesa stabilisce che «decorsi 30 giorni dall'inizio delle trattative, eventualmente prorogabili fino a un massimo di ulteriori 30 giorni, non si sia raggiunto l'accordo, le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e decisione».
Più delicata è la questione delle materie soggette a obbligo non solo a contrattare, ma anche a stipulare, elencate dall'articolo 7, comma 4, lettere a), b), c), d), e) f), g), h), i), j), u), v), w). Si tratta sostanzialmente delle materie attinenti alla destinazione delle risorse, che richiedono necessariamente il consenso tra le parti. Consenso, tuttavia, che non sempre si riesce a raggiungere in tempi accettabili, ai fini anche delle responsabilità amministrative e contabili.
In questo caso, il comma 5 dell'articolo 8 della preintesa prevede che qualora «il protrarsi delle trattative determini un oggettivo pregiudizio alla funzionalità dell'azione amministrativa, nel rispetto dei principi di comportamento di cui all'art. 10, l'ente interessato può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell'accordo. Il termine minimo di durata delle sessioni negoziali di cui all'art. 40, comma 3-ter del dlgs n. 165/2001 è fissato in 45 giorni, eventualmente prorogabili di ulteriori 45».
Dunque, vi sono due possibilità per ovviare al mancato accordo. La prima è rilevare pregiudizi all'attività amministrativa, motivando adeguatamente l'iniziativa unilaterale. La seconda è il superamento dei 45 giorni, più eventuali altri 45 (non è chiaro come giungere alla proroga del termine); in questo caso il mero dato del superamento del termine consente comunque agli enti di avvalersi dell'atto unilaterale, dal momento che l'articolo 40, comma 3-ter, del dlgs 165/2001 dispone che «i contratti collettivi nazionali possono individuare un termine minimo di durata delle sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l'amministrazione interessata può in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo».
La preintesa si è avvalsa della facoltà concessa ai Ccnl dalla legge e, quindi, le amministrazioni, spirato il termine minimo di durata delle sessioni negoziali possono «in ogni caso», quindi anche in assenza di pregiudizio dell'azione amministrativa, ovviare allo stallo delle trattative con un atto unilaterale, che comunque resta provvisorio: rimane fermo l'obbligo di perseguire il consenso anche dopo, così da sostituire l'atto unilaterale con un contratto, proseguendo le trattative
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPerformance, caos sulle relazioni sindacali.
Confusione sulle relazioni sindacali riguardanti la valutazione dei risultati.
La preintesa del Ccnl delle funzioni locali se da un lato rimedia ai vuoti creati dalla riforma Brunetta elencando le materie di confronto (ex concertazione) e contrattazione in modo esaustivo, dall'altro produce un certo senso di disagio operativo, quando tratta della questione della performance. Una prima relazione sindacale contemplata sul tema è quella di cui all'articolo 5, comma 3, lettera b), ai sensi del quale le parti si confrontano appunto sui criteri generali dei sistemi di valutazione della performance.
La previsione rispolvera le relazioni sindacali precedenti, sempre limitate alla concertazione (che non richiede la stipulazione di un accordo decentrato, ma si limita ad un confronto del quale dare conto in un verbale finale), poiché la definizione delle modalità per valutare i risultati dei dipendenti ha una chiara provenienza datoriale, tendenzialmente unilaterale. Tuttavia, si parla di valutazione anche nella disposizione che elenca le materie della contrattazione: l'articolo 7, comma 4, lettera b), assegna a tale relazione sindacale il compito di definire «i criteri per l'attribuzione dei premi correlati alla performance».
In apparenza i «criteri generali dei sistemi di valutazione» e i «criteri per l'attribuzione dei premi correlati alla performance» sono la stessa cosa. Per uscire dalla confusione derivante dalla lettura veloce delle norme, però, occorre agganciare quanto previsto dall'articolo 7, comma 4, lettera b), della preintesa ai successivi articoli attualmente numerati al numero 68, comma 3 e 69, commi 2 e 3. Tali disposizioni regolano le modalità per differenziare i premi di risultato dei dipendenti, una volta abbandonato il sistema delle fasce, per effetto della modifica dell'articolo 19 del dlgs 150/2009 operata dalla riforma Madia.
L'articolo 68, comma 3, della preintesa dispone che le risorse di parte variabile del fondo debbano essere destinate al salario accessorio vero e proprio: premi individuali e di gruppo, indennità legate a determinate condizioni di lavoro (disagio, rischio, maneggio valori), turno, reperibilità, specifiche responsabilità, comprese quelle particolari per gli agenti di polizia municipale. Ed è la contrattazione decentrata a determinare gli importi da destinare a questi scopi, al netto delle progressioni orizzontali, dell'indennità di comparto e altre specifiche indennità indicate dal comma 1 del medesimo articolo 68. Almeno il 30% delle risorse da destinare va riservato al risultato individuale.
Sempre la contrattazione, dunque, dovrà stabilire la misura delle destinazioni per le altre voci. Il comma 2 dell'articolo 69 della preintesa, inoltre, dispone che la misura della maggiorazione spettante ai dipendenti ai quali sarà attribuita una valutazione comparativamente più elevata è «definita in sede di contrattazione integrativa» con la precisazione che «non potrà comunque essere inferiore al 30% del valore medio pro capite dei premi attribuiti al personale valutato positivamente ai sensi del comma 1». Il successivo comma 3 rimette sempre alla contrattazione integrativa il compito di definire preventivamente «una limitata quota massima di personale valutato» al quale assegnare la maggiorazione vista prima.
È, quindi, possibile uscire dall'equivoco cui possono indurre le materie di confronto e concertazione. Il confronto, come sempre, riguarda il sistema di valutazione permanente. La contrattazione riguarda esclusivamente la destinazione delle risorse prevista dall'articolo 68, comma e la differenziazione dei premi
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).

APPALTIFuori gara solo con illecito certo. Il provvedimento Antitrust deve essere inoppugnabile. L'Autorità garante per la concorrenza e il mercato prende le distanze dall'Anac.
Per la valutazione degli illeciti antitrust come causa di esclusione dalle gare di appalto occorre fare riferimento all'inoppugnabilità del provvedimento sanzionatorio e non alla mera irrogazione della sanzione.

È quanto suggerisce l'Autorità garante della concorrenza e del mercato nel parere 13.02.2018 n. AS1474 (pubblicato sul bollettino n. 6 del 19.02.2018) e riguardante le linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione n. 6 inerenti i gravi illeciti professionali.
L'attenzione dell'Agcm si sofferma in particolare sulla parte delle linee guida Anac che citano come elemento indiziale di illecito professionale l'essere stato destinatario di «provvedimenti esecutivi dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato di condanna per pratiche commerciali scorrette e per illeciti antitrust gravi aventi effetti sulla contrattualistica pubblica e posti in essere nel medesimo mercato oggetto del contratto da affidare».
Si tratta di provvedimenti che si sostanziano in sanzioni e le linee guida Anac precisano che la stazione appaltante potrà eventualmente disporre l'esclusione del concorrente all'esito di un contraddittorio e valutando anche eventuali misure di self-cleaning adottate dall'operatore idonee a dimostrare la sua integrità o affidabilità nell'esecuzione dell'affidamento, nonostante l'esistenza di una causa ostativa.
Nessun automatismo, quindi, ma una valutazione caso per caso. L'Authority presieduta da Giovanni Pitruzzella esprime una valutazione positiva rispetto alla scelta compiuta dall'Anac di individuare negli illeciti antitrust ipotesi di gravi illeciti professionali idonei a determinare l'esclusione di un concorrente da una gara. Infatti, ad avviso dell'Autorità della concorrenza, «una simile ipotesi, oltre che conforme alla normativa europea, appare idonea ad assicurare un adeguato effetto di deterrenza nella commissione di illeciti antitrust nell'ambito di gare pubbliche».
Però l'Agcm rileva un profilo di criticità nel passaggio delle linee guida Anac in cui si attribuisce rilievo al provvedimento meramente «esecutivo» dell'Autorità – e non più ai «provvedimenti di condanna divenuti inoppugnabili o confermati con sentenza passata in giudicato» come recitava la precedente versione delle Linee guida. La criticità viene collegata al contenuto del comma 10 dell'articolo 80 del codice appalti che ha fissato la durata della causa di esclusione in tre anni decorrenti dalla data del suo «accertamento definitivo».
E in questo caso, si legge nel parere, si deve fare riferimento a quanto ha osservato il Consiglio di stato nel parere n. 2286/2016 che ha individuato la data «non già del fatto ma del suo accertamento giudiziale definitivo». Da qui la proposta dell'Agcm, «per evitare una proliferazione del contenzioso e continui effetti sulle gare in corso derivanti dal possibile esito divergente dei giudizi», di individuare la data dell'accertamento definitivo non in quella del provvedimento esecutivo dell'Autorità (che non è definitivo), ma in quello dell'intervenuta inoppugnabilità dell'accertamento da parte dell'Autorità (nell'ipotesi di provvedimenti non impugnati) o nella pronuncia definitiva del giudice amministrativo (in caso di impugnazione).
Infine nel suo parere l'Agcm suggerisce, ai fini della valutazione di comportamenti di self-cleaning anche ad elementi quali la sostituzione del management responsabile dell'illecito (anche accompagnato dall'avvio di azioni di responsabilità nei confronti dello stesso), alla dotazione di efficaci programmi di compliance, nonché all'adesione a programmi di clemenza che hanno consentito l'accertamento dell'illecito o che consentano l'accertamento di altri illeciti
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICINuove norme tecniche per le costruzioni. Si applicheranno dal 22 marzo. Ma sono previste deroghe.
Nuove norme tecniche per le costruzioni applicabili dal 22.03.2018 ma si andrà con le vecchie Ntc del 2008 per lavori in corso di esecuzione, per lavori e progettazioni affidate prima del 22.03.2018; per le opere private il discrimen sarà l'avvenuto deposito del progetto esecutivo.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo che si possono desumere dalla lettura del decreto del ministero delle infrastrutture del 17.01.2018 con il quale si è provveduto ad aggiornare le norme tecniche per le costruzioni che datavano 2008.
Il provvedimento, giunto al traguardo dopo una lunga gestazione, entrerà in vigore il 22.03.2018 ed è importante comprendere bene la disciplina transitoria che è stata definita in funzione dello stato delle opera che si sta realizzando e della tipologia di committenza, pubblica a privata. La disciplina transitoria è riportata all'articolo 2 del decreto siglato dal ministro Delrio.
Per le per le «opere pubbliche o di pubblica utilità» viene previsto che la disciplina previgente (le Ntc del 2008) rimarrà in vigore limitatamente a quelle in corso di esecuzione, per i contratti pubblici di lavori già affidati, nonché per i progetti definitivi o esecutivi già affidati prima della data di entrata in vigore delle Ntc 2018, cioè prima del 22 marzo.
Si tratta quindi di un criterio molto ampio basato sul principio che prende in considerazione anche la fase di affidamento dell'incarico di progettazione dal momento che il soggetto che ha partecipato alla gara per la progettazione aveva studiato la propria offerta con riguardo alla normativa tecnica vigente al momento dell'indizione della gara.
Tutto ciò, però, con una importante precisazione relativa ai contratti di appalto o di concessione di lavori già affidati e ai progetti definitivi o esecutivi già affidati ante 22.03.2018: le vecchie norme saranno applicabili ma a condizione che sia disposta la «consegna dei lavori entro cinque anni dalla data di entrata in vigore delle norme tecniche per le costruzioni», quindi entro il 22.03.2023.
Diverso è invece il discorso quando il committente dell'opera è privato ; in questo caso il comma 2 dell'articolo 2 del decreto stabilisce che per le opere private le cui opere strutturali siano in corso di esecuzione o per le quali sia già stato depositato il progetto esecutivo, ai sensi delle vigenti disposizioni, presso i competenti uffici prima della data di entrata in vigore delle Norme tecniche per le costruzioni si possono continuare ad applicare le previgenti Norme tecniche per le costruzioni fino all'ultimazione dei lavori ed al collaudo statico degli stessi. L'elemento distintivo è quindi quello del deposito del progetto esecutivo.
Nel merito è stata posta una maggiore attenzione ai profili inerenti le cosiddette verifiche di duttilità e alle modalità di calcolo delle componenti secondarie e non strutturali. Per quel che concerne le verifiche delle strutture prefabbricate le nuove Ntc prevedono criteri di verifica più severi di quelle precedenti. Risultano più stringenti i criteri per le prove di accettazione dei materiali in cantiere
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).

PATRIMONIOAntincendio, nessuna proroga. Oltre la metà delle scuole ora rischia la chiusura. Nuova tegola sui presidi, i termini per la messa a norma sono scaduti a dicembre 2017.
Oltre la metà dei 42 mila edifici scolastici è senza certificazione antincendi. Scuole che rischiano di essere chiuse al pur minimo sopralluogo degli enti di vigilanza.
A lanciare l'allarme sono i presidi le cui associazioni sollecitano un intervento del ministero dell'istruzione presso il dipartimento dei vigili del fuoco. «Perché venga emanato un decreto ad hoc che consenta agli enti proprietari di procedere al progressivo adeguamento alla norma degli edifici scolastici, magari con step triennali in analogia a quanto già avviene per le strutture sanitarie», scrive sul punto per esempio l'Andis.
La preoccupazione dei presidi nasce dalla mancata approvazione nella legge di Bilancio 2018 della proroga dei termini per la messa a norma antincendio delle scuole, scaduta il 31.12.2017. Esponendo così alle sanzioni previste dalla legge i dirigenti scolastici e gli enti proprietari degli edifici, cioè comuni per le scuole dell'infanzia, le primarie e le medie e le province per le superiori.
Si teme, in particolare, che presto un'altra tegola possa abbattersi sulle scuole dopo la sentenza della Corte di Cassazione (n. 190) che, il 1° gennaio, ha sancito il principio che gli edifici scolastici non in regola con le norme antisismiche vanno chiuse immediatamente, senza possibilità per il sindaco di opporsi. Ecco i dati dell'ultimo Rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente: 52,6% di scuole prive della certificazione di prevenzione incendi. Dato non molto diverso dal 54% fornito nel 2016 dalla Struttura di missione sull'edilizia scolastica di Palazzo Chigi. Sebbene la norma che imponeva alle scuole di dotarsi della certificazione antincendio risalga al 1992, ben 25 anni fa.
La scadenza per l'adeguamento era stata fissata inizialmente al 31.12.1997, poi sempre prorogata di anno in anno. Fino al 31 dicembre scorso, appunto. «Se è vero che», spiega Cittadinanzattiva, «negli ultimi 15 anni l'incidenza di incendi è stata in percentuale di poco superiore allo zero, rispetto invece a quella di crolli di solai e controsoffitti, soprattutto per carenze manutentive, o di cedimenti strutturali per mancanti interventi strutturali o non adeguamento sismico, occorre considerare altri aspetti non secondari previsti dalla apposita normativa antincendio». Come l'installazione di scale di emergenza per gli edifici a più piani, un certo numero di vie d'uscita e parametri stringenti rispetto al numero di alunni per aula. Provvedimenti che continuano ad essere disattesi.
Sebbene il 07.08.2017 il ministero dell'interno abbia approvato il decreto su una nuova normativa di prevenzione incendi per le scuole nuove ed esistenti con più di 100 persone basata sull'approccio prestazionale, che supera i rigidi obblighi che caratterizzavano le norme precedenti e le rendevano spesso di difficile applicazione. Una nuova normativa facoltativa e alternativa a quella del 1992.
Scaduto lo scorso gennaio il termine per adeguarsi, dunque, comuni e province dovranno necessariamente eseguire i lavori prescritti dalla norma per il rilascio del certificato di prevenzione incendi. Una questione su cui l'usr Emilia Romagna, insieme alla città metropolitana di Bologna ha chiesto e ottenuto un incontro con il prefetto di Bologna Matteo Piantedosi.
Su proposta di questo ultimo si è concordato, spiega il direttore dell'usr Stefano Versari, l'istituzione di un tavolo tecnico che monitori gli interventi e «definisca, se del caso, una scansione temporale fattibile degli adempimenti, secondo un criterio di gradualità che parta dalla definizione delle priorità fra le varie strutture scolastiche»
(articolo ItaliaOggi del 27.02.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATARecupero edilizio, Iva ridotta con distinguo tra interventi. La chiave per individuare il corretto regime per i lavori sul patrimonio immobiliare.
Gli interventi rivolti al recupero del patrimonio edilizio beneficiano dell'aliquota Iva ridotta del 10%. L'agevolazione ha però una portata diversa a seconda del tipo di intervento: più ampia per i lavori impegnativi, meno per le semplici manutenzioni (si veda la tabella in pagina), in relazione alle quali è inoltre previsto il meccanismo limitativo dei «beni significativi», oggetto di disposizioni integrative con la recente legge n. 205/2017.
La chiave per individuare la natura dell'intervento edilizio e, di riflesso, il regime Iva, è l'articolo 31, primo comma, della legge 05.08.1978, n. 457, che elenca e definisce le seguenti tipologie: lettera a): manutenzioni ordinarie; lettera b): manutenzioni straordinarie; lettera c): restauro e risanamento conservativo; lettera d): ristrutturazione edilizia; lettera e): ristrutturazione urbanistica.
L'agevolazione sulle manutenzioni. Sugli interventi edilizi di livello inferiore, ossia le manutenzioni ordinarie e straordinarie, l'aliquota del 10%, prevista dall'art. 7, lett. b), della legge n. 488/1999, si applica soltanto alle prestazioni di servizi realizzate su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata, e dunque ha una portata più ristretta rispetto all'agevolazione prevista per gli interventi di grado superiore dalle disposizioni della tabella A, parte III, allegata al dpr n. 633/1972. È inoltre previsto, come si diceva, un meccanismo limitativo nel caso in cui l'intervento sia realizzato con l'impiego dei c.d. «beni significativi» (si veda l'articolo nella pagina seguente).
Gli interventi di manutenzione rispondono alle seguenti definizioni fornite dalle lettere a) e b) dell'art. 31 della legge n. 457/1978:
   a) sono interventi di manutenzione ordinaria quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelli necessari a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
   b) sono interventi di manutenzione straordinaria le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare e integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
In relazione alle modifiche apportate alle suddette definizioni dal dl n. 133/2014, si vedano le osservazioni formulate dal Consiglio nazionale del notariato nello studio tributario n. 851-2014.
Edifici agevolabili. L'agevolazione è applicabile soltanto agli interventi di manutenzione eseguiti su «fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata», nozione che secondo l'amministrazione comprende: le singole unità immobiliari classificate catastalmente nelle categorie da A1 ad A11, esclusa la A10 (uffici e studi privati), indipendentemente dall'utilizzo di fatto; vale pertanto la classificazione in catasto; gli edifici di edilizia residenziale pubblica, adibiti a dimora di soggetti privati; gli edifici destinati a residenza stabile di collettività, quali orfanotrofi, brefotrofi, ospizi, conventi; le parti comuni di fabbricati destinati prevalentemente ad abitazione privata, intendendo tali gli edifici la cui superficie totale dei piani fuori terra è destinata per oltre il 50% a uso abitativo privato; le pertinenze immobiliari (autorimesse, soffitte, cantine ecc.) delle unità abitative, anche se ubicate in edifici destinati prevalentemente a usi diversi.
Sono quindi escluse dall'agevolazione le unità immobiliari non abitative (negozi, uffici ecc.), anche se situate in edifici a prevalente destinazione abitativa.
Operazioni agevolate. L'aliquota agevolata si applica alle «prestazioni» di manutenzione ordinaria e straordinaria, per cui dovrebbero ritenersi escluse dal beneficio le operazioni qualificabili «cessioni» di beni, ancorché accompagnate da una prestazione di servizi accessoria, per esempio la posa in opera. Nella circolare n. 71/2000, tuttavia, l'amministrazione ha sostenuto che «in considerazione della ratio dell'agevolazione deve ritenersi che l'aliquota Iva ridotta competa anche nell'ipotesi in cui l'intervento di recupero si realizzi mediante cessione con posa in opera di un bene, poiché l'apporto della manodopera assume un particolare rilievo ai fini della qualificazione dell'operazione. L'applicazione dell'aliquota agevolata non è preclusa dalla circostanza che la fornitura del bene assuma un valore prevalente rispetto a quello della prestazione.
Ciò si evince dal fatto che lo stesso legislatore, disciplinando l'applicazione dell'agevolazione in relazione ad alcuni beni cosiddetti di valore significativo, ha contemplato l'ipotesi in cui il valore dei beni forniti nell'ambito dell'intervento sia prevalente rispetto a quello della prestazione. La circostanza, inoltre, che soltanto in relazione ad alcuni di tali beni la legge ponga dei limiti per l'applicazione dell'agevolazione, comporta che l'aliquota del 10% si applica agli altri beni forniti dal prestatore (dovendosi ritenere tale, ai fini della agevolazione in esame, anche colui che effettua la semplice posa in opera), a prescindere dal loro valore.
Per esempio, la sostituzione degli infissi interni ed esterni consiste in un lavoro edile che, a seconda che venga o meno mutato il materiale rispetto a quello degli infissi preesistenti, configura una prestazione di manutenzione straordinaria o ordinaria e quindi un intervento di recupero agevolato. Conseguentemente, gli infissi che vengano forniti dal soggetto che esegue la relativa prestazione di sostituzione rientrano nell'ambito della previsione agevolativa entro i limiti previsti per i beni di valore cosiddetto significativo. L'aliquota del 10%, invece, non si rende applicabile se i beni, anche se finalizzati a essere impiegati in un intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria, vengono forniti da un soggetto diverso da quello che esegue la prestazione, o vengano acquistati direttamente dal committente dei lavori».
Questa posizione, che sembrava essere stata ridimensionata dalla circolare n. 36 del 31.05.2007, è stata confermata dall'Agenzia delle entrate con nota del 22.05.2014, n. 954-31/2014, ove è stato dichiarato che alle cessioni con posa in opera di stufe a pellet, effettuate nell'ambito di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria su immobili abitativi, si applica l'aliquota del 10%: con le limitazioni per i beni significativi, se la stufa è qualificabile come caldaia in quanto genera calore da utilizzare per riscaldare l'acqua che alimenta il sistema di riscaldamento, oltre che per produrre acqua sanitaria; senza le suddette limitazioni, qualora invece la stufa non sia qualificabile come caldaia in quanto non alimenta il sistema di riscaldamento, ma riscalda soltanto l'ambiente «per irraggiamento».
Da ultimo, l'orientamento è stato ribadito con risoluzione n. 25/E del 06.03.2015, riguardante il trattamento applicabile alle operazioni poste in essere da imprese artigiane che, sulla base di contratti di appalto commissionati dagli utenti finali, producono infissi su misura per poi installarli, operazioni che, secondo la risoluzione, sono riconducibili alla figura della cessione con posa in opera, dove l'obbligazione di dare (cessione) prevale su quella di fare (prestazioni di servizi). Lo scopo dell'impresa artigiana è, infatti, quello di produrre infissi in serie con caratteristiche standardizzate, seppur tenendo conto di semplici variazioni di misura in relazione alle specifiche esigenze di ogni singolo cliente, e di cederli con posa accessoria.
Successivamente, con risoluzione n. 15/E del 04.03.2013 è stato chiarito che l'agevolazione si applica anche alla revisione periodica dell'impianto di riscaldamento, sia condominiale che individuale, destinato al servizio di edifici a prevalente destinazione abitativa. Va ricordato che, nonostante la legge agevoli genericamente le prestazioni di servizi, l'amministrazione, seguendo una prassi consolidata, ha dichiarato che l'aliquota ridotta non è applicabile alle prestazioni di natura professionale; sulle parcelle di ingegneri, geometri, architetti ecc., quindi, l'Iva è dovuta nella misura ordinaria del 22%.
È da ritenere, inoltre, che siano escluse dall'agevolazione le prestazioni di servizi che non possono assolutamente inquadrarsi tra gli interventi edilizi come definiti dalla legge, come la pulizia delle scale e delle altre parti comuni degli edifici condominiali, oppure gli interventi su giardini
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.02.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti metallici, obblighi doc. Oneri modulati in base alla complessità dell'attività. Decreto del ministero dell'ambiente introduce un regime semplificato per la microraccolta.
Raccolta e trasporto di rifiuti metallici solo dietro autorizzazione, ma con adempimenti modulati in base alla effettiva complessità dell'attività.
Con decreto direttoriale 01.02.2018 il ministero dell'ambiente ha dettato le semplificazioni burocratiche per chi effettua le operazioni in parola in modalità di microraccolta, ossia mediante prelievo sequenziale dei residui da più detentori e relativo trasporto in unica soluzione ed in giornata verso l'impianto di destinazione, così inserendo un ulteriore tassello nella riformulazione della disciplina sulla gestione residui metallici avviata con il dlgs 205/2010.
Il contesto normativo. L'attività oggetto di semplificazione ministeriale è quella rientrante nella più generale «microraccolta» indicata dal comma 11 dell'attuale versione dell'articolo 193 del dlgs 152/2006 come «la raccolta di rifiuti da parte di un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori svolta con lo stesso automezzo». Ai sensi della stessa norma del Codice ambientale tale attività dev'essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile e nei relativi formulari di trasporto devono essere indicate, nello spazio relativo al percorso, tutte le tappe intermedie previste, con indicazione a cura del trasportatore del percorso realmente effettuato in caso di variazioni.
Ferma restando tale previsione codicistica, fonte delle neo semplificazioni per l'esercizio delle attività di raccolta e trasporto dei rifiuti di metalli ferrosi e non ferrosi è però la recente legge 124/2017 (il provvedimento annuale sul mercato e la concorrenza) che ha affidato, rispettivamente, al Minambiente la definizione di adempimenti light per poter svolgere le operazioni ed all'Albo nazionale gestori ambientali l'individuazione (entro 30 giorni dalla vigenza del primo provvedimento) delle modalità semplificate per l'iscrizione allo stesso, nonché dei quantitativi annui massimi di residui gestibili.
Nell'ambito di tale cornice normativa, il neo decreto direttoriale (G.U. 08.02.2018 n. 32) introduce per i rifiuti in parola il primo dei due citati «pacchetti» di semplificazioni, coincidenti con un alleggerimento degli obblighi relativi alla tenuta del formulario di trasporto dei rifiuti (il documento che deve tracciare la movimentazione dei residui) e ai registri di carico/scarico (i documenti che identificano dal punto di vista quali/quantitativo e detentivo i rifiuti fin dalla loro produzione).
Le semplificazioni. Il regime light interessa i soggetti che effettuano attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi di metalli ferrosi e non ferrosi a condizione che ciò avvenga:
   - presso più produttori/detentori;
   - con lo stesso automezzo;
   - nell'ambito della stessa giornata in cui ha avuto inizio;
   - previa iscrizione all'Albo gestori ambientali in via ordinaria ex articolo 212, comma 5, del dlgs 152/2006 o semplificata (ex emanande citate nuove regole del Comitato nazionale dell'Albo).
Tra le semplificazioni garantite vi è quella relativa alla documentazione del trasporto: in luogo dell'ordinario formulario di trasporto rifiuti ex articolo 193 del dlgs 152/2006 e dm 145/1998 è consentito per ogni raccolta effettuata presso un numero massimo di 10 produttori/utilizzatori consecutivi l'utilizzo di un unico formulario a tal fine ottimizzato e il cui modello è allegato al decreto.
Novità anche nella catena delle notifiche del documento, che rispetto alla filiera ordinaria ex dlgs 152/2006 prevede maggiori obblighi in capo destinatario, cui spetta (in luogo del trasportatore) l'onere di trasmettere la «quarta copia» all'ultimo produttore.
Infatti, in base al nuovo decreto: per ogni raccolta effettuata il trasportatore deve emettere (analogamente al regime ordinario) quattro copie del formulario di identificazione; le copie devono essere compilate e firmate da ciascun produttore/detentore lungo il percorso di raccolta; una copia deve essere acquisita dall'ultimo produttore/detentore, le altre firmate dal destinatario dei rifiuti che ne conserva una e (qui le novità) ne trasmette un'altra originale (la citata «quarta copia») all'ultimo produttore/detentore e delle semplici copie (anche tramite «Pec») agli altri produttori/detentori; l'ultima copia originale resta al trasportatore.
Altra semplificazione è quella prevista per la tenuta registro di carico e scarico rifiuti, cui è possibile in tale contesto adempiere tramite la conservazione (per cinque anni) del citato formulario ad hoc. In relazione all'informatizzazione delle scritture ambientali tradizionali si ritiene utile ricordare che il nuovo articolo 194-bis del Codice ambientale introdotto dalla recente legge 205/2017 riconosce formalmente già dallo scorso 01.01.2018 la possibilità della trasmissione della quarta copia del formulario di trasporto dei rifiuti mediante posta elettronica certificata.
Previsione, questa, che il ministero con una nota dello scorso 31.01.2018 n. 1588 ha sottolineato essere già di piena applicabilità senza necessità di specifiche procedure, fatte salve quelle che nell'ambito dell'attuazione dello stesso neo articolo del Codice ambientale potranno essere successivamente introdotte.
Le super semplificazioni. A fianco alle descritte semplificazioni, il neo decreto del ministero dell'ambiente 01.02.2018 prevede un regime ulteriormente semplificato per le associazioni di volontariato e gli enti religiosi che intendono effettuare raccolta/trasporto «occasionali» di rifiuti non pericolosi di metalli ferrosi e non ferrosi di provenienza (esclusivamente, in questo caso) urbana.
Le condizioni da rispettare appaiono qui essere esaustive anche degli adempimenti da onorare, coincidenti con i seguenti: raccolta/trasporto devono avvenire in non più di quattro giornate annue anche non consecutive e in modo da non superare le 100 tonnellate sempre annue complessive (cosiddetta «occasionalità»); a seguito di intesa con i Comuni territorialmente competenti; previa iscrizione ad Albo gestori secondo emanande regole su registrazione temporanea dei veicoli utilizzati in conformità alle norme che disciplinano l'autotrasporto di cose.
Le ulteriori novità in arrivo. In tema di rifiuti ferrosi una stretta su oneri di produttori e gestori arriverà con l'entrata in operatività delle modifiche apportate dall'ormai storico e citato dlgs 205/2010 al Codice ambientale al fine di allinearne le disposizioni al sistema di tracciamento telematico dei residui noto come «Sistri».
L'operatività di dette modifiche, tra cui quelle inerenti ai rifiuti in questione, è stata infatti dal 2013 ad oggi spostata di anno in anno dai diversi decreti d'urgenza parallelamente alla proroga della piena efficacia del sistema di tracciamento telematico Sistri ed è attualmente fissata (in base all'articolo 11 del dl 101/2013, come riscritto dalla recente legge di Bilancio 205/2017) nel più vicino termine tra il subentro del nuovo gestore del Servizio ed il 01.01.2019.
Lo spirare del primo dei due termini renderà operativa la versione dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 come modificata dal citato provvedimento del 2010 in base alla quale produttori iniziali e detentori di rifiuti di rame o di metalli ferrosi e non ferrosi che non provvedono direttamente al loro trattamento dovranno consegnarli unicamente a enti/imprese autorizzate ai sensi del Codice ambientale a raccolta/trasporto, bonifica siti contaminati, commercio/intermediazione rifiuti, trattamento degli stessi.
Detta attività di raccolta e trasporto dei rifiuti ferrosi, stabilisce espressamente la futura versione del suddetto articolo 188 del dlgs 152/2006, non potrà più essere effettuata dai soggetti previsti dall'articolo 266, comma 5, del Codice ambientale, ossia dalle persone abilitate ad attività analoghe in forma ambulante su residui che formano oggetto del loro commercio in virtù della mera licenza rilasciata ai sensi della disciplina economica di settore
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.02.2018).

INCARICHI PROFESSIONALICon la p.a. preventivo scritto. La norma non distingue tra soggetti pubblici e privati. DOTTORI COMMERCIALISTI/ Il chiarimento in un pronto ordini del Cndcec.
Commercialisti con obbligo di preventivo scritto anche nei confronti della pubblica amministrazione. La norma parla infatti genericamente di cliente, relativamente all'obbligo di rendere noto il costo della prestazione, senza specificare se pubblico o privato. Mentre nel caso in cui l'incarico professionale sia conferito all'esito di un bando di gara, il professionista sarà tenuto ad osservare le disposizioni del bando emanato dall'amministrazione conferente.
La mancata forma scritta del preventivo, da parte del commercialista, comporta la sanzione disciplinare della censura.

È quanto chiarisce il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, con il pronto ordini 292/2017 (nota 05.02.2018 n. 1743 di prot.), in risposta a un quesito posto dall'ordine di Reggio Emilia.
In un secondo pronto ordini (n. 5/2018) in tema di rilascio del sigillo professionale da parte di una società tra professionisti, il Cndcec afferma invece che tale possibilità è riservata solo al professionista che sottoscrive gli atti e non all'organizzazione professionale in cui questi eventualmente opera.
Preventivo. Il Cndcec, all'interno del parere sull'obbligo del preventivo in forma scritta, fa riferimento alla legge annuale per il mercato e la concorrenza (n. 124/2017, art. 1, comma 150), dove viene disposto che «il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale. In particolare, il professionista deve rendere noto al cliente, in forma scritta o digitale: il grado di complessità dell'incarico, tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento dell'incarico, i dati della polizza assicurativa, la misura del compenso attraverso un preventivo di massima. Ancora più stringente è il codice deontologico dei commercialisti, con l'art. 25 che impone all'iscritto di stabilire per iscritto nell'accordo con il cliente la misura del compenso e di accompagnare l'accordo con un preventivo di massima comprensivo di spese, oneri e contributi. Il mancato rispetto delle disposizioni in relazione alla stipula per iscritto del mandato professionale, sottolinea il Cndcec, rileva solo sotto il profilo disciplinare, mentre la mancata redazione del preventivo in forma scritta costituisce anche violazione di legge».
Stp. Riguardo invece alla possibilità, per una Stp iscritta nella sezione speciale dell'albo, di rilasciare il sigillo professionale, il Cndcec evidenzia che l'utilizzo del sigillo è diretto ad attribuire carattere distintivo agli atti sottoscritti dal commercialista qualificandoli come atti svolti nell'esercizio legittimo dell'attività professionale.
Il timbro sigillo, nel dettaglio, rappresenta uno strumento per identificare il soggetto che lo detiene quale professionista iscritto all'albo e gli elementi identificativi riguardano esclusivamente la persona che sottoscrive gli atti in cui viene apposto il timbro e non l'organizzazione intesa come associazione professionale, società professionale e così via, in cui opera
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGOFunzionari, un solo accesso. Categoria D, neoassunti in posizione economica unica. CONTRATTO ENTI LOCALI/ Disapplicato lo sdoppiamento in sottocategorie.
Per i funzionari di regioni ed enti locali neo assunti vi sarà una sola posizione economica di accesso alla categoria D.

La preintesa del Ccnl delle funzioni locali (si veda ItaliaOggi di ieri), all'articolo 12 disapplica lo sdoppiamento della categoria D in due sotto categorie: quelle con ingresso nella prima posizione economica (la D1) e quelle relative a profili professionali con ingresso diretto nella terza posizione economica (D3).
Resta confermato, invece, lo sdoppiamento dei profili professionali di accesso nella categoria B.
La preintesa corregge il tiro sui funzionari a distanza di ben 16 anni da quando la contrattazione collettiva avrebbe già dovuto prendere atto dell'unitarietà della categoria D.
Infatti, l'articolo 12, comma 3, del Ccnl 31.03.1999 era la fonte che giustificava lo sdoppiamento delle categorie B e D in sottocategorie con profili di accesso differenziati. La norma dispone: “Fino al 31.12.2001, la progressione economica di cui all'art. 5 del personale dei profili con trattamento tabellare iniziale corrispondente alle posizioni economiche B1 e D1 delle relative categorie può svilupparsi fino all'acquisizione degli incrementi retributivi corrispondenti, rispettivamente, ai valori B4 e D3”. Si trattava di un meccanismo che assicurava l'impossibilità per i profili di accesso nelle posizioni economiche iniziali di ottenere posizioni economiche di sviluppo pari o superiori a quelle delle sottocategorie con ingresso nelle posizioni economiche B3 e D3.
Ma, come disposto espressamente, la disposizione contenuta nell'articolo 12, comma 3, del Ccnl 31.12.1999 era a tempo determinato ed ha cessato di produrre effetti a partire dall'01.01.2002.
Da quella data sarebbe stato necessario prendere atto che la distinzione delle categorie B e D in sottocategorie con accessi differenziati per i neoassunti non aveva più alcun senso e giustificazione.
L'Aran, su indicazioni dell'Anci, ha tuttavia fatto muro per oltre tre lustri, insistendo nel considerare ancora sussistenti profili di ingresso differenziati, nonostante con il Ccnl 22.01.2004 fosse stata anche eliminata per i profili di ingresso in D3 (assimilati all'ex ottava qualifica funzionale) la speciale indennità che all'epoca delle qualifiche funzionali era assegnata ai profili dell'ottava qualifica, per un ammontare di 1,5 milioni di lire, che era l'ultimo elemento di differenziazione tra i vari profili.
Dal 2018 si pone fine allo sdoppiamento nella categoria D e qualsiasi sia il profilo professionale i neoassunti inizieranno con lo stipendio della posizione iniziale.
Tuttavia, per quanto riguarda il passato, restano salvi il profilo e la posizione economica di sviluppo acquisiti da coloro che passarono a suo tempo direttamente dall'ottava qualifica funzionale alla categoria D3 e gli assunti in quella categoria. La preintesa chiarisce che le risorse stabili che finanziano le progressioni orizzontali dei dipendenti acceduti direttamente in posizione D3 continuano ad essere quantificate sulla base del differenziale tra la posizione economica già posseduta o da attribuire e quella iniziale di accesso in D3. Conseguentemente, qualora il dipendente acceduto direttamente in D3 cessi il rapporto di lavoro, a qualunque titolo solo quel differenziale ritorna tra le risorse stabili disponibili per il finanziamento dei vari istituti del trattamento economico del personale.
Ancora, il Ccnl fa salve le procedure concorsuali già in corso per le assunzioni nei profili di accesso D3, la cui disapplicazione, quindi, varrà solo per i bandi successivi alla definitiva entrata in vigore del nuovo Ccnl delle funzioni locali.
Come detto, la categoria B, invece, manterrà la differenziazione dei profili di accesso. Infatti, la categoria con profilo di ingresso in B1 è quella che consente lo svolgimento di mansioni che richiedono la sola terza media, con selezioni mediante chiamata dai centri per l'impiego ai sensi dell'articolo 16 della legge 56/1987. I profili di ingresso in B3, invece, impongono il concorso pubblico. Finché non si incida sui profili professionali e le modalità di reclutamento, lo sdoppiamento della categoria B difficilmente potrà essere superato
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2018).

EDILIZIA PRIVATAUna sola lingua per l'edilizia. Arriva il glossario unico.
In arrivo un glossario unico in edilizia che garantirà regole omogenee e un linguaggio comune su tutto il territorio nazionale. E che, soprattutto, individuerà il titolo giuridico necessario per ciascuna tipologia di intervento.

Uno schema di decreto del 21.02.2018 del Ministero delle infrastrutture e della semplificazione definisce una guida tabellare, consultabile in modo agevole anche dai non addetti ai lavori, con l'individuazione della categoria di intervento a cui appartiene un'opera edilizia e del conseguente regime giuridico.
Sul provvedimento che ha ricevuto ieri il via libera della conferenza unificata ed è attuativo dell'articolo, 1, 2° comma, del dlgs n. 222/2016 (cosiddetto decreto Scia 2) sono giunte le valutazioni positive degli ordini e collegi professionali della Rete professioni tecniche che esprimono «soddisfazione» per il glossario che «riveste una notevole importanza per il settore edilizio, dal momento in cui riduce in modo significativo il contenzioso e l'incertezza normativa che lo caratterizza».
Edilizia libera. Il glossario unico, contiene un elenco non esaustivo delle principali opere che possono essere eseguite in attività edilizia libera, senza alcun titolo abilitativo. Le principali opere individuate possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, nel rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia.
In particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di tutela del rischio idrogeologico, delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al dlgs n. 42/2004). Per le opere edilizie realizzabili mediante Cila (comunicazione di inizio lavori asseverata), Scia (segnalazione certificata di inizio attività edilizia), permesso di costruire e Scia alternativa al permesso di costruire, gli elenchi saranno adottati in seguito.
A regime, si delinea un quadro di interventi edilizi basato su 5 ipotesi: interventi in edilizia libera senza adempimenti; interventi in attività libera ma che richiedono la Cila; interventi assoggettati a Scia; interventi assoggettati a permesso di costruire; interventi per i quali è comunque possibile chiedere il permesso di costruire in alternativa alla Scia. Il regime ordinario diviene quindi quello della Cila e non più della Scia, fatte salve le ipotesi espressamente assoggettate ad altri regimi.
Manufatti leggeri in strutture ricettive. Rientra tra le attività in edilizia libera l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati in strutture ricettive all'aria aperta per la sosta e il soggiorno dei turisti. Ma previamente autorizzate dal punto di vista urbanistico, paesaggistico e in conformità alle normative regionali di settore. Parliamo di roulotte, camper, case mobili e. imbarcazioni.
Eliminazione barriere architettoniche. Tra gli interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che non comportano la realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio rientrano la realizzazione dell'ascensore, del montacarichi, del servoscala, della rampa, dell'apparecchio sanitario, dell'impianto igienico e idrosanitario e di dispositivi sensoriali.
Aree ludiche. Tra gli interventi su «le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» rientrano le opere di installazione, riparazione, sostituzione, rinnovamento dei seguenti elementi: opera per arredo da giardino (per esempio, barbecue in muratura, fontana, muretto, scultura, fioriera e panca), gazebo e pergolato (di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo), ripostiglio per attrezzi, manufatto accessorio (di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo), tenda, tenda a pergola, pergotenda, copertura leggera di arredo e elemento divisorio verticale non in muratura, anche di tipo ornamentale e similare
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGOI fondi locali pagano gli aumenti. Contratti decentrati in parte erosi dai nuovi tabellari. SPECIALE CONTRATTO/ È l'effetto della riforma Madia che li congela al 2016.
Doccia fredda per i fondi della contrattazione decentrata di regioni ed enti locali: dovranno essere le risorse riservate ai trattamenti accessori dei dipendenti e non i bilanci, infatti, a finanziare i maggiori costi derivanti dal rinnovo del Ccnl, ricadenti appunto sul salario accessorio. Per la prima volta, dunque, gli aumenti salariali invece di incrementare il fondo, ne eroderanno le disponibilità, ai fini della destinazione ai vari istituti.
È l'articolo 67 della preintesa stipulata lo scorso 21 febbraio a giocare il brutto scherzo al comparto.
Tale disposizione al comma 1 fissa le regole per la determinazione della parte stabile del fondo delle risorse decentrate, in modo tale che restino consolidate a regime in un importo certo. Il successivo comma 2, poi, contiene un elenco di fonti utili per incrementare in via continuativa la parte stabile del fondo: si va da un importo di 83,20 euro per il personale in servizio al 31.12.2015, somma però disponibile dal 2019, agli incrementi economici alle posizioni contrattuali di sviluppo, alle retribuzioni individuali di anzianità del personale cessato dal servizio, fino alle economie derivanti dalla riduzione stabile della dotazione organica di qualifiche dirigenziali.
Il comma 2 dell'articolo 67, quindi, è scritto obbedendo alla regola che da sempre ha caratterizzato la contrattazione: gli incrementi stipendiali previsti dai contratti collettivi si riverberano sul salario accessorio (in particolare sugli stipendi che hanno negli anni precedenti ricevuto incrementi per le progressioni orizzontali) e finiscono per incrementare il volume complessivo dei fondi.
Ma, il Ccnl deve fare i conti con la riforma Madia, il dlgs 75/2017 che all'articolo 23, comma 2, nelle more del processo di armonizzazione dei trattamenti stipendiali dei dipendenti pubblici, vieta che le risorse destinate alla contrattazione decentrata superino l'ammontare del 2016.
Da qui discende la previsione dell'articolo 67, comma 7, della preintesa: «La quantificazione del Fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate agli incarichi di posizione organizzativa di cui all'art. 15, comma 5 deve comunque avvenire, complessivamente, nel rispetto dell'art. 23, comma 2, del dlgs n. 75/2017».
Quindi, gli incrementi al fondo di parte stabile non potranno avere l'effetto di aumentare simmetricamente l'importo complessivo del fondo, ma finiranno per eroderlo. La cosa è particolarmente importante per le progressioni orizzontali, finanziate appunto dai fondi. Il comma 7 dell'articolo 67 pone a carico dei fondi e non dei bilanci il finanziamento di una parte molto ponderosa delle risorse decentrate, finendo, dunque, per sottrarre rilevanti disponibilità ad altre destinazioni, come indennità di turno, rischio, disagio, maneggio valori, responsabilità particolari.
Per la prima volta, quindi, parte non irrilevante degli effetti obbligatori della contrattazione vengono scaricati sulle risorse destinate ai lavoratori.
Sul piano tecnico la previsione dell'articolo 67, comma 7, è alquanto rischiosa. Ponendo il caso limite di un ente con un fondo già molto ristretto e limitato che finanzia appena le progressioni orizzontali già conseguite dai dipendenti, il divieto di incrementare il totale complessivo del fondo in applicazione dell'articolo 67, comma 7, della preintesa renderebbe impossibile per quell'ente adempiere alle obbligazioni contrattuali derivanti dal contratto collettivo nazionale di comparto. L'ente non avrebbe scelta: o arrecare danno erariale finanziando col bilancio i maggiori oneri (in particolare delle progressioni orizzontali), oppure, non adempiere alle previsioni del Ccnl e correre il rischio molto forte di arrecare danno civile, esponendosi ad azioni di rivalsa dei dipendenti.
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Facilitato il passaggio di personale alle unioni.
Rendere più facile il transito di personale dai comuni alle unioni. È questo l'obiettivo dell'art. 70-sexies dell'accordo preliminare per il rinnovo del Ccnl Funzioni locali. La norma disciplina il fondo risorse decentrate unionale, consentendo alle forme associative di adeguarlo a seguito del trasferimento di personale dai comuni aderenti. In particolare, in caso di trasferimento di personale dai comuni all'unione, confluiscono nella componente stabile del fondo unionale le risorse stabili destinate ai trattamenti economici del personale trasferito, con il contratto integrativo dell'anno precedente o, in mancanza, con l'ultimo sottoscritto.
Il fondo di parte stabile degli enti di provenienza è ridotto di un importo corrispondente. Nel fondo dell'unione confluiscono, inoltre, limitatamente ai mesi residui dell'anno in cui avviene il trasferimento, le risorse variabili destinate ai trattamenti economici del personale trasferito, con il contratto integrativo dell'anno precedente o, in mancanza, con l'ultimo sottoscritto.
Il fondo di parte variabile degli enti di provenienza è ridotto di un importo corrispondente. Sono fatti salvi eventuali diversi accordi tra l'unione e gli enti che trasferiscono personale in merito all'entità delle risorse che confluiscono nel fondo unionale e che riducono in misura corrispondente i fondi degli enti, fermo restando il principio che il trasferimento di personale non deve implicare, a livello aggregato, maggiori oneri. Tali disposizioni si applicano anche nel caso di assegnazione temporanea di personale in posizione di comando
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici fuori dal fondo decentrato.
Tenere gli incentivi per funzioni tecniche fuori dal fondo delle risorse decentrate e dai relativi tetti.

È questo l'auspicio espresso dai sottoscrittori dell'accordo preliminare per il rinnovo del contratto nazionale per il comparto delle Funzioni locali.
Il documento, firmato nella notte tra martedì e mercoledì, dedica al tema la prima delle cinque dichiarazioni congiunte: si tratta di postille prive di effetti giuridici immediati, attraverso le quali la parti provano ad esprimere indirizzi interpretativi ovviamente non vincolanti. Del resto, non potrebbe essere diversamente su un tema, quello degli incentivi tecnici e del loro trattamento contabile e finanziario, su cui regna il caos più totale.
La materia è oggi disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016 e dall'art. 23, comma 2, del dlgs 75/2017. La prima norma definisce a chi e per quali attività spettano i compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha, da un lato, escluso le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli incentivi, oltre che ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture. Mentre per i lavori, possono essere beneficiari sia i tecnici che il restante personale che abbia prestato la propria collaborazione, per servizi e forniture, gli incentivi sono previsti esclusivamente per il direttore dell'esecuzione.
A tali soggetti, sulla base di un atto unilaterale dell'amministrazione (non soggetto a contrattazione sindacale), possono essere destinate somme non superiori al 2% dell'importo posto a base di gara ed entro un tetto pari al 50% del trattamento economico complessivo spettante al singolo dipendente.
Ma il vero nodo riguarda la portata della seconda norma, che limita la consistenza complessiva del fondo per le risorse decentrate all'importo del 2016.
Non è chiaro se gli incentivi per funzioni tecniche siano da includere in tale limite o se ne siano esclusi (come accadeva per i vecchi incentivi alla progettazione). Per l'inclusione si è espressa la sezione autonomie della Corte conti (deliberazione 7/2017), ma successivamente è intervenuta una modifica legislativa (art. 1, comma 526, della legge 205/2017), che avrebbe dovuto sancire l'esclusione. Anche sulla novella, però, le sezione regionali della Corte hanno espresso avvisi diversi, rimettendo nuovamente la questione alle Autonomie.
In questo groviglio, il Ccnl può fare poco oltre ad auspicare «il consolidamento dell'interpretazione in base alla quale le suddette risorse devono ritenersi escluse dal limite di legge, tenuto conto che la novella normativa apportata dal comma 526 della legge di Bilancio 2018 è finalizzata a considerare unitariamente la spesa complessiva destinata alla realizzazione di lavori, servizi o forniture, includendovi anche le risorse finanziarie per incentivi tecnici e che, conseguentemente, tali incentivi non rientrano nei capitoli della spesa del personale, ma sono ricompresi nel costo complessivo dell'opera».
Insomma, la palla è ancora nelle mani della magistratura contabile
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPolizia locale, compensi mirati. Nasce l'indennità di servizio esterno. Andrà da 1 a 10. SPECIALE CONTRATTO/ La preintesa assegna molti riconoscimenti ai vigili urbani.
Per la polizia locale indennità e compensi mirati. La preintesa assegna alcuni riconoscimenti da molto tempo rivendicati ai vigili urbani, che possono razionalizzare l'utilizzo delle risorse contrattuali, ma avranno ricadute sui progetti finalizzati ed i compensi per il risultato individuale.
Servizi aggiuntivi. Il decreto legge 50/2017, convertito in legge 96/2017 consente al personale di vigilanza di svolgere attività di servizio, rese al di fuori dell'orario ordinario di lavoro, finalizzate a garantire sicurezza e polizia stradale nel caso di iniziative private, a carico degli organizzatori privati stessi. La preintesa chiarisce che dette attività sono remunerate con un compenso di ammontare pari a quelli previsti per il lavoro straordinario dall'articolo 38, comma 5, del Ccnl del 14.09.2000. Fissato dal Ccnl l'ammontare del compenso, non sarà pertanto possibile prevedere retribuzioni di importo diverso con accordi locali, che risulterebbero nulli.
Indennità per servizi esterni. Da anni si pone il problema della cumulabilità dell'indennità di vigilanza con quelle di rischio e disagio.
Accordi decentrati che abbiano consentito detto cumulo sono stati sovente oggetto degli strali dei servizi ispettivi del ministero dell'economia, altrettanto spesso, però, smentiti da sentenze del giudice del lavoro, secondo le quali l'operato delle amministrazioni era corretto.
Il nuovo Ccnl risolve ogni problema e introduce la nuova «indennità di servizio esterno», da attribuire a chi rende la prestazione lavorativa ordinaria giornaliera in servizi esterni di vigilanza, compete una indennità giornaliera. Tale indennità sarà giornaliera e fissata dalla contrattazione decentrata in importi giornalieri che vadano da un minimo di 1 euro a un massimo di 10.
Anche in questo caso, la determinazione contrattuale dell'importo massimo giornaliero dell'indennità rende nulle clausole e accordi che forfetizzino in ammontari più elevati compensi aventi analoga natura. L'indennità giornaliera compensa integralmente i rischi e i disagi connessi ai servizi esterni e si cumula con quella di turno, ma non con le specifiche indennità di turno e disagio riferite agli altri profili professionali del comparto.
Indennità di funzione. Si introduce, poi, una nuova indennità di funzione per personale inquadrato nelle categorie C e D, non avente incarichi di posizione organizzativa, finalizzata a compensare compiti di responsabilità connessi al grado. L'importo di tale indennità, oltre che del grado, dovrà tenere conto delle peculiarità dimensionali, istituzionali, sociali e ambientali degli enti, e potrà essere determinata fino ad un massimo di 3.000 annui lordi, da corrispondere per dodici mensilità.
Spetta alla contrattazione decentrata stabilire la spettanza e la graduazione dei valori. Al personale della polizia locale cui si assegni questa indennità non sarà attribuibile quella per particolari responsabilità, ma è espressamente consentito il cumulo col turno, con l'indennità di servizio esterno nonché con i compensi per la produttività.
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Aumenti di stipendio in base ai risultati.
Aumenti di stipendio selettivi in base ai risultati conseguiti nel triennio precedente. La preintesa del Ccnl delle funzioni locali ridisegna la disciplina delle progressioni economiche, note anche come progressioni orizzontali, cioè degli incrementi stipendiali riconosciuti stabilmente ai dipendenti, sulla base di valutazioni selettive.
Selettività. L'articolo 16 conferma i limiti esistenti alle progressioni economiche. Il primo è di natura finanziaria: dunque, sarà possibile attivare le progressioni solo nel limite delle risorse effettivamente disponibili. In ogni caso, la progressione va riconosciuta sulla base di selezioni (il contratto dispone in modo selettivo solo a una parte limitata dei dipendenti, come del resto impone l'articolo 23 del dlgs 150/2009.
Tuttavia, non vi sono indicazioni per quantificare tale parte limitata. Molti interpreti ritengono che non si possa andare oltre il 33% del personale in servizio. Comunque, la quota dei dipendenti che potranno accedere alla posizione economica superiore andrà determinata tenendo conto dell'obbligo di permanere in una certa posizione economica per almeno 24 mesi, lasso di tempo comunque eventualmente incrementabile dalla contrattazione decentrata.
Valutazione. Il processo selettivo delle progressioni economiche è storicamente molto complesso e defatigante, in misura oggettivamente sproporzionata rispetto all'entità dei benefici economici derivanti.
La preintesa introduce un elemento di forte semplificazione. Si prevede, infatti, che la selezione dei dipendenti cui incrementare il trattamento economico si basi sulle risultanze della valutazione della performance individuale del triennio che precede l'anno in cui è indetta la procedura valutativa. Per determinare la graduatoria degli aspiranti, si dovrà tenere conto anche dell'esperienza maturata negli ambiti professionali di riferimento e delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi.
Decorrenza. Un altro tema che ormai si trascinava da anni, creando molteplici problemi operativi è quello della decorrenza della progressione economica. Nonostante da tempo l'interpretazione prevalente indicasse di far scattare l'aumento salariale dal primo gennaio dell'anno di attivazione della procedura selettiva, di recente, al contrario, pareri della Corte dei conti e dell'Aran avevano sancito che la decorrenza degli aumenti partisse dal primo di gennaio dell'anno in cui la procedura valutativa andasse a conclusione.
Una soluzione, questa, difficilmente condivisibile sul piano pratico, poiché le valutazioni debbono tenere conto necessariamente della performance individuale e, quindi, non possono che essere effettuate a consuntivo necessariamente l'anno solare dopo quello nel quale si sono indette le selezioni. La preintesa pone fine all'equivoco e dispone che «l'attribuzione della progressione economica orizzontale non può avere decorrenza anteriore al 1° gennaio dell'anno nel quale viene sottoscritto il contratto integrativo che prevede l'attivazione dell'istituto».
Graduatorie. Il comma 8 dell'articolo 16 nega che dalle selezioni per le progressioni orizzontali derivino graduatorie assimilabili a quelle concorsuali ed aventi, dunque, durata pluriennale. Si stabilisce che i risultati delle selezioni per le progressioni hanno effetto solo per l'anno nel quale è stata indetta la procedura.
Oneri. Come sempre, il finanziamento della maggiore retribuzione assegnata al personale che abbia beneficiato delle progressione è integralmente a carico della parte stabile del fondo delle risorse decentrate, che deve coprire gli oneri per 13 mensilità.
La preintesa fa salve le procedure di attribuzione della progressione economica orizzontale ancora in corso all'atto della sottoscrizione definitiva del Ccnl
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGONelle regioni le ferie potranno essere frazionate in ore. Più flessibilità anche per il godimento dei permessi.
La sperimentazione delle ferie assegnate a ore è uno degli elementi di maggiore novità della preintesa del Ccnl delle funzioni locali siglata lo scorso 21 febbraio.
L'articolo 29 dell'ipotesi di contratto collettivo nazionale introduce per la prima volta una possibilità piuttosto diffusa nell'ambito del lavoro privato, che potrebbe rivelarsi utile non solo alla flessibilizzazione del rapporto di lavoro, reso più agile, ma anche alla conciliazione con i tempi di vita e, soprattutto, alla riduzione delle assenze dal servizio.
La frazionabilità delle ferie in ore, infatti, consente potenzialmente di ridurre il ricorso ad assenze per permessi di varia natura, comunque resi a loro volta più flessibili dalla preintesa: infatti, come già previsto per il comparto delle funzioni centrali, saranno utilizzabili nella misura di 18 ore i permessi per motivi personali, nel precedente regime utilizzabili solo per tre giornate intere, così come sarà possibile avvalersi di 18 ore annue per visite specialistiche.
Vista la natura sperimentale della fruizione delle ferie ad ore, la previsione dell'articolo 29 della preintesa non è vincolante. Si applica, dunque, in modo facoltativo per iniziativa dei singoli enti, che allo scopo dovranno attivare la relazione sindacale del «confronto», che prende il posto della vecchia concertazione. La sperimentazione, però, è ristretta alle sole regioni ed enti regionali. In sede di relazioni sindacali, gli enti dovranno solo decidere se avvalersi o meno della sperimentazione.
Se decideranno di istituire la fruizione delle ferie ad ore, dovranno applicare le previsioni del comma 2 dell'articolo 29 che dei monte ore annuali differenziati; ne toccheranno 202, corrispondenti ai 28 giorni di ferie spettanti a chi lavora su cinque giorni settimanali; 192 ore corrispondenti a 32 giorni di ferie per chi lavora su sei giorni la settimana. Per i dipendenti neo assunti per i primi tre anni il monte ore sarà di 180, corrispondenti ai 26 giorni di ferie per chi lavora su cinque giorni la settimana e 187 ore, corrispondenti ai 30 giorni di ferie per chi lavora su sei giorni.
Ovviamente, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, i monte ore visti sopra debbono essere riproporzionati, simmetricamente alla riduzione della durata dell'orario di lavoro.
Il comma 4 contiene la necessaria precisazione secondo la quale se il dipendente fruisce delle ferie orarie in misura tale da coprire l'intera giornata, si decurterà il monte orario annuo per un ammontare pari all'orario ordinario che il dipendente avrebbe dovuto effettuare nella stessa giornata.
Non tutte le ferie potranno essere utilizzate frazionate ad ore. Infatti, allo scopo di garantire il pieno recupero psico-fisico del dipendente, ogni anno dovranno essere fruiti almeno 20 giorni interi, nel caso di articolazione dell'orario settimanale su cinque giorni, e almeno 24 giorni, nel caso di articolazione dell'orario settimanale su sei giorni. Resta fermo l'obbligo di collocazione in ferie per almeno due settimane consecutive tra il primo giugno e il 30 settembre di ogni anno
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative più certe. Incarichi con atto motivato. Durata massima tre anni. SPECIALE CONTRATTO/ Nei piccoli comuni affidamenti anche a personale di categoria C.
Nuove regole per le cosiddette posizioni organizzative, i funzionari che negli enti privi di dirigenza svolgono le funzioni dirigenziali e negli enti con dirigenti assumono sostanzialmente la funzione dei quadri.
Gli incarichi dovranno essere conferiti con atto scritto e motivato, sulla base della valutazione dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale potenzialmente destinatario.
Sulla durata, il nuovo Ccnl del comparto funzioni locali stabilisce che il periodo massimo è di tre anni, ma non risolve, tuttavia, il problema più delicato e diffuso, quello della durata minima, lasciata senza una specificazione. La Corte dei conti, insieme alla dottrina, ritiene comunque che gli incarichi non possano avere durate inferiori ad un anno almeno, per consentire un tempo adeguato alla gestione finanziaria e alla connessa valutazione dei risultati.
In ogni caso, gli incarichi alle posizioni organizzative potranno essere revocati prima della scadenza, sempre con atto scritto e motivato. Le cause giustificative restano due: intervenuti mutamenti organizzativi o valutazione negativa.
Questa dovrà essere annuale nel rispetto del sistema vigente. Solo la valutazione positiva dà anche titolo alla retribuzione di risultato: dovranno essere i sistemi a stabilire quando una valutazione possa considerarsi positiva. Nel caso risulti negativa, i titolari delle posizioni organizzative avranno diritto a confrontarsi in contraddittorio col valutatore, anche con l'assistenza del sindacato cui aderiscano o di persona di propria fiducia.
Il nuovo Ccnl cancella le alte specializzazioni e prevede solo due invece che tre tipologie di posizioni organizzative: quelle per la direzione unità organizzative o quelle per attività professionali altamente specializzate, che richiedano anche l'iscrizione ad albi professionali.
Retribuzione di posizione e retribuzione di risultato. Si conferma il trattamento economico scomposto in retribuzione di posizione e risultato. La prima avrà un minimo di 5.000 e un massimo di 16.000 annui lordi per 13 mensilità, sulla base del sistema di graduazione deciso dagli enti, che, se dotati di dirigenza, dovranno considerare ampiezza e contenuto di eventuali deleghe dirigenziali. Nel caso di posizioni organizzative assegnate invece che a funzionari di categoria D a dipendenti in categoria B o C, la posizione minima sarà di 3.000 e la massima di 9.500 annui lordi per 13 mensilità.
Sparisce la previsione secondo la quale la retribuzione di risultato vari da un minimo del 10% a un massimo del 25% della posizione. Col nuovo Ccnl sarà ciascun ente a definire i criteri per determinare l'importo del risultato, ma vi sarà l'obbligo di destinare una quota non inferiore al 20% delle risorse complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste.
Gli enti con dirigenza dovranno sottrarre dal fondo delle risorse decentrate il finanziamento delle posizioni organizzative, che andrà a carico del bilancio.
La preintesa regola, finalmente, il caso degli incarichi attribuiti ad interim: la retribuzione di risultato potrà essere aumentata dal 15 al 25% del valore economico della retribuzione di posizione goduta dall'incaricato ad interim.
La preintesa propone una soluzione al problema dei comuni di piccole dimensioni, nella cui dotazione organica siano previsti figure di categoria D tutte o parzialmente vacanti o in ogni caso non tutti in possesso delle competenze professionali richieste.
Sarà, allora, possibile, ma solo in via eccezionale e temporanea, conferire l'incarico di posizione organizzativa anche a personale della categoria C, a condizione che disponga delle necessarie capacità ed esperienze professionali (per esempio, una posizione organizzativa tecnica dovrà possedere lauree in ingegneria o architettura o un diploma e l'abilitazione per geometra. Gli enti, però, restano obbligati ad attuare la dotazione organica e, quindi, assumere i funzionari di categoria D necessari.
Pertanto, la facoltà eccezionale di assegnare incarichi di posizione organizzativa a dipendenti di categoria C potrà essere esercitata per una sola volta, a meno che non siano state avviate le procedure per l'acquisizione di personale della categoria. In questo caso, una volta assunto il funzionario di categoria D si potrà anche revocare anticipatamente l'incarico assegnato al dipendente di categoria C
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGOEnti locali, lavoro più flessibile. Orari elastici, permessi per visite, ferie solidali, riposi. Molte le novità ordinamentali contenute nel nuovo contratto per il 2016-2018.
Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, dopo svariati incontri con le organizzazioni sindacali, è stato sottoscritto l'accordo preliminare per il rinnovo del Contratto collettivo nazione di lavoro per il comparto funzioni locali, bloccato, si ricorda, dall'anno 2009.
Le novità più interessanti, presenti nelle prime bozze diffuse, riguardano le ferie, i riposi solidali, i congedi per le donne vittime di violenza, la disciplina per le assenze per espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici, gli effetti delle unioni civili sugli istituti contrattuali.
Novità anche sul procedimento disciplinare e sulla classificazione del personale.
Ferie e festività. Si introduce, in via sperimentale, per le regioni e gli enti regionali, la fruizione delle ferie a ore; l'espressa previsione della pianificazione delle ferie dei dipendenti da parte dell'ente; l'ipotesi delle ferie maturate e non godute per esigenze di servizio, monetizzabili solo all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge.
Ferie e riposi solidali. L'istituto, introdotto dall'art. 24 del dlgs n. 151/2015 (cosiddetto Jobs act), consente ai lavoratori di cedere a titolo gratuito, i riposi e le ferie maturati, ai colleghi, che debbano assistere figli minori che, per le condizioni di salute, necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi. L'ipotesi di contratto interviene, pertanto, sui punti di competenza, in maniera sperimentale, fino al prossimo rinnovo contrattuale.
Unioni civili. Il riconoscimento delle unioni civili, avvenuto con la legge n. 76/2016, determina che tutte le disposizioni del Ccnl riferite al matrimonio, o contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, si applichino anche ad ognuna delle parti dell'unione civile.
Permessi orari retribuiti per particolari motivi personali o familiari. Uniformandosi alla disciplina già in vigore per altri comparti, con un articolo specificamente dedicato, viene introdotta la fruizione a ore dei permessi retribuiti, per particolari motivi personali o familiari, compatibilmente con le esigenze di servizio, pari a 18 ore per anno.
Congedi per le donne vittime di violenza. In attuazione dell'art. 24 del Jobs act (dlgs n. 80/20151), si riconosce alla lavoratrice, inserita nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, la possibilità di usufruire di congedi, per un periodo massimo di 90 giorni lavorativi, nell'arco di tre anni, per motivi connessi a tali percorsi. L'utilizzo dei congedi potrà avvenire anche su base oraria. Alle dipendenti in queste particolari condizioni sarà consentito anche presentare domanda di trasferimento ad altra amministrazione pubblica, ubicata in un comune diverso da quello di residenza.
Assenze per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Nel nuovo contratto si disciplina il cosiddetto «permesso per malattia ad ore», legato alle visite e prestazioni specialistiche. L'art. 55-septies, comma 5-ter del dlgs n. 165/2001, introdotto con la riforma Brunetta del 2009, ha definito l'assenza come permesso e il contratto interviene a disciplinarne i contenuti, come era stato chiarito anche dalla giurisprudenza.
Si riconoscono, pertanto, specifici permessi per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici, fruibili su base sia giornaliera che oraria, nella misura massima di 18 ore annuali, comprensive anche dei tempi di percorrenza da e per la sede di lavoro. Al dipendente sarà consentito, tuttavia, di utilizzare anche i permessi brevi a recupero, dei permessi per motivi familiari e personali, dei riposi connessi alla banca delle ore, dei riposi compensativi per le prestazioni di lavoro straordinario, con il corrispondente trattamento economico e giuridico.
Procedimento disciplinare. Le previsioni dei precedenti contratti sono integrate con le disposizioni normative intervenute negli anni, sia per quanto attiene alle tipologie di sanzioni, sia in ordine alle modalità di svolgimento del procedimento disciplinare.
Importanti novità per la classificazione del personale. Si conferma il sistema, ma se ne prevede la revisione, con una commissione paritetica. Viene superata la distinzione nell'ambito della categoria D, eliminando la posizione di ingresso D3, mentre per la categoria B, restano particolari profili professionali, per i quali l'accesso dall'esterno avviene nella posizione economica B3. Le risorse per le posizioni organizzative sono estrapolate dal fondo per il salario accessorio e poste a carico del bilancio
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

ENTI LOCALI - VARIMulte stradali, sanzioni digitali. Per imprese e professionisti. circolare dell'interno.
Le multe stradali viaggeranno via Pec in modalità ridotta almeno fino all'attivazione dell'elenco dei domicili digitali delle persone fisiche. Ma per imprese e professionisti via libera immediato alle sanzioni notificate in digitale e senza spese. E in caso di notifica tradizionale ad un soggetto munito di Pec la notifica resterà valida ma con possibilità di richiedere il rimborso delle spese postali.

Lo ha precisato il ministero dell'interno con la circolare 20.02.2018 n. 300/A1500/18/127/9 di prot..
Con il decreto interministeriale del 18.12.2017, pubblicato sulla G.U. del 16/01/2018, è diventato obbligatorio notificare le multe stradali tramite posta elettronica certificata, ai soggetti che abbiano un domicilio digitale. In caso contrario i destinatari sono legittimati a chiedere il rimborso delle spese di notificazione tradizionale. Se non è stata effettuata la contestazione immediata o se il trasgressore o i responsabili in solido non hanno comunicato l'indirizzo di posta elettronica certificata, questo va ricercato dagli organi accertatori negli elenchi pubblici di cui all'art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 18.10.2012 e in ogni altro registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle comunicazioni aventi valore legale.
Già da alcuni anni le caselle di posta elettronica certificata di società e professionisti sono contenute nella banca dati Ini-Pec, l'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata istituito dal ministero dello sviluppo economico, mentre invece la banca dati Ipa contiene gli indirizzi di Pec degli enti pubblici.
Invece, i cittadini che possiedono un indirizzo di posta elettronica certificata possono scegliere di eleggere tale recapito come domicilio digitale, mediante l'inserimento nell'Indice nazionale delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato, che l'Agenzia per l'Italia digitale realizzerà entro l'anno. Ogni indice nazionale dovrà confluire nell'Anagrafe della popolazione residente. Il messaggio di Pec inviato al destinatario del verbale dovrà contenere nell'oggetto la dizione di atto amministrativo relativo ad una sanzione prevista dal codice della strada, con tanto di numero di verbale e in allegato una relazione di notificazione su documento informatico sottoscritto con firma digitale e la copia su supporto informatico del documento analogico o del documento informatico del verbale di contestazione con attestazione di conformità all'originale. I termini per la notificazione sono quelli già previsti dal codice della strada. I verbali si considerano notificati nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione della Pec, a prescindere dalla successiva lettura del contenuto del messaggio.
Con la circolare in commento il Viminale evidenzia che in seguito al decreto ministeriale è diventato obbligatorio notificare tramite Pec i verbali di contestazione di violazioni stradali. E tale procedura va applicata sia per gli illeciti sul cronotachigrafo sia alle sanzioni amministrative accessorie che siano parte integrante del verbale di contestazione. Soltanto se non è possibile risalire a una valido indirizzo di Pec la notifica sarà effettuata nelle tradizionali forme, con oneri a carico del destinatario.
Secondo il Viminale, se in presenza di un valido domicilio digitale l'organo accertatore procede a notificare la multa stradale tramite posta o messi, la consegna non è viziata, tuttavia il destinatario può richiedere la restituzione delle spese di notificazione addebitate con il verbale, provando di avere una casella di Pec inserita in uno degli elenchi ufficiali
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2018).

PUBBLICO IMPIEGONuovo Ccnl per gli enti locali. Dopo 10 anni. Aumenti medi di 85 euro dal 1° marzo. Siglata la preintesa per il Contratto 2016-2018. Norme ad hoc sulla polizia locale.
Dopo 10 anni di attesa, i 470 mila dipendenti di regioni, province, comuni, città metropolitane e camere di commercio hanno un nuovo contratto.
L'accordo sulla preintesa per il rinnovo del Ccnl relativo al triennio 2016-2018 è stato raggiunto nella notte tra martedì e mercoledì dopo una lunga trattativa all'Aran tra parte datoriale e sindacati. Dal 01.03.2018 i lavoratori del comparto delle funzioni locali avranno in busta paga aumenti medi mensili dello stipendio tabellare pari a 85 euro, in ossequio all'accordo del 30.11.2016 che ha guidato tutti i rinnovi contrattuali del pubblico impiego.
Nello specifico gli aumenti mensili andranno da un minimo di 52 euro per i lavoratori di categoria A1 a 90,3 euro per quelli di categoria D6. Ai nuovi stipendi dovrà poi aggiungersi l'indennità di vacanza contrattuale decorrente dal 01.07.2010 che andrà da un minimo di 122,4 euro per gli A1 fino a un massimo di 212,52 euro per i D6.
I contenuti
Oltre agli aumenti, il nuovo contratto porta in dote ai lavoratori locali molte novità. A cominciare dal riconoscimento «storico» delle funzioni di polizia locale, destinatarie di un'apposita sezione del Ccnl. Ma non solo. Viene rivista l'indennità di funzione dei vigili che sarà parametrata sia alle responsabilità del grado sia alle mansioni legate ai servizi operativi.
Norme ad hoc anche per gli avvocati (i cui compensi professionali vengono espressamente indicati tra i trattamenti accessori erogabili in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato) e per i giornalisti. Per questi ultimi si prevede esplicitamente l'inquadramento nella categoria D dei contenuti professionali di base dell'attività di comunicazione istituzionale, giornalismo pubblico e rapporti con i media.
Molte le novità in materia di orario di lavoro che sarà più flessibile (in entrata e in uscita) e potrà essere rimodulato in funzione delle esigenze del lavoratore di prendersi cura di familiari portatori di handicap e figli piccoli. Sulle ferie, il nuovo contratto prevede la possibilità per il dipendente statale di fruirle ad ore o cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per prendersi cura di familiari e figli. E ancora, vengono recepite nel nuovo Ccnl le norme del Jobs act sulla tutela delle lavoratrici vittime di violenze di genere che avranno diritto ad astenersi dal lavoro per un massimo di 90 giorni lavorativi nell'arco di un triennio.
Il nuovo contratto risolve anche alcuni problemi specifici relativi alle figure apicali nei comuni di minori dimensioni demografiche, chiarendo la possibilità di conferire gli incarichi di posizione organizzativa anche al personale appartenente alla categoria C.
Le reazioni
Il mondo delle autonomie festeggia per un accordo che, come ha dichiarato il presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, «restituisce dignità ai dipendenti». «Si premia chi è disposto ad assumersi maggiori responsabilità, con la possibilità di individuare posizioni organizzative con delega di firma di provvedimenti finali aventi rilevanza esterna. Si semplifica la costituzione del fondo per la contrattazione integrativa attraverso il consolidamento della parte stabile e tramite regole più chiare per l'alimentazione della parte variabile del fondo, risolvendo cosi l'annosa questione delle difformità applicative dell'istituto che ha generato i rilievi ispettivi del ministero dell'economia».
Concluso l'accordo, tuttavia, resta per i sindaci il nodo risorse, visto il rifiuto da parte del governo a erogare maggiori fondi ai comuni proprio finalizzati a gestire gli oneri degli aumenti contrattuali. «Affronteremo l'incremento mettendo mano ai nostri bilanci, senza aiuti statali ma non avremmo potuto fare altrimenti, se non al prezzo, per noi inaccettabile, di bloccare la progressione economica a chi ogni giorno offre servizi ai cittadini», ha osservato Decaro. E a proposito di coperture, un altro tema spinoso, destinato a tenere banco nei prossimi mesi, riguarda la possibilità per gli enti in disavanzo di utilizzare gli accantonamenti degli anni scorsi al fine di coprire l'aumento contrattuale.
«Si deve avere dal governo un definitivo chiarimento, vista la posizione discordante di alcune sezioni regionali della Corte dei conti», ha commentato il presidente del comitato di settore enti locali e vicepresidente Anci, Umberto Di Primio. «I comuni hanno sempre più bisogno di dare risposte in merito alle aumentate competenze. Per questo salutiamo con favore la possibilità di destinare un premio in termini economici a chi decide di assumersi maggiori responsabilità, ampliando le attività legate al conferimento delle posizioni organizzative con delega alla firma di atti che abbiano il crisma del provvedimento finale».
Positivo anche il giudizio delle province. Secondo il presidente dell'Upi e sindaco di Vincenza Achille Variati, il nuovo contratto pone le basi per una maggiore autonomia organizzativa e gestionale, premia chi è disposto ad assumersi responsabilità e semplifica e incentiva la possibilità di stipulare i contratti decentrati a livello territoriale».
Soddisfazione è stata espressa anche dalle regioni che, chiusa la partita sul contratto dei dipendenti, possono ora concentrarsi su quello della sanità, anch'esso in dirittura d'arrivo, ma non ancora firmato (si veda ItaliaOggi del 16/02/2018). «Abbiamo portato a casa un risultato importante», ha commentato Massimo Garavaglia, presidente del Comitato di settore-Sanità e assessore al bilancio della regione Lombardia.
«Credo che vada apprezzato il fatto che ciascuno, dall'Aran ai sindacati, dalle regioni agli enti locali, abbia fatto la propria parte. Ora resta un altro importante tassello, quello del comparto sanità. Mi auguro che il risultato odierno sia di buon auspicio». «Tra l'altro», ha aggiunto Garavaglia, «dopo aver sbloccato l'atto integrativo per il comparto sanità, il 19 febbraio abbiamo sbloccato anche l'atto integrativo di medicina convenzionata e di dirigenza sanitaria per cui si può procedere a chiudere tutto il pacchetto sanità».
Per i sindacati, il Ccnl siglato è «un contratto di valore, che produce miglioramenti concreti per le lavoratrici e i lavoratori» (così la segretaria generale della Funzione pubblica Cgil, Serena Sorrentino). «È stata una trattativa lunga e articolata su più punti», ha osservato Maurizio Petriccioli, segretario generale Cisl Fp. «Abbiamo realizzato un aumento medio al tabellare di 85 euro lordi, una sezione che valorizza le specificità della polizia locale, la revisione del sistema di classificazione del personale, a partire da una sezione specifica per il settore educativo e scolastico, nonché l'incentivo al lavoro agile»
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2018).

EDILIZIA PRIVATASisma, sicurezza semplificata. Requisiti meno severi per l'adeguamento degli edifici. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che incentiva l'utilizzo dei sismabonus.
Dal 15.03.2018 in arrivo semplificazioni per i lavori di messa in sicurezza degli «edifici esistenti», anche al fine di incentivare l'utilizzo del sismabonus 2018. L'adeguamento antisismico degli edifici esistenti dovrà rispettare requisiti meno stringenti rispetto a quelli che saranno applicati alle nuove costruzioni. Per gli edifici in classe d'uso IV e per quelli in classe d'uso III di tipo scolastico è obbligatorio raggiungere un livello di sicurezza sismico pari al 60% di quello richiesto per l'adeguamento. Per edifici in classe d'uso III non di tipo scolastico e per quelli in classe II, quando si effettua un intervento di miglioramento è obbligatorio conseguire un incremento di sicurezza sismica pari ad almeno il 10% del livello richiesto per l'adeguamento.

Queste alcune delle novità contenute nel decreto del 17.01.2018 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 20.02.2018 n. 42) del ministero delle infrastrutture e dei trasporti sulle nuove norme tecniche delle costruzioni 2018 che contengono regole finalizzate al miglioramento sismico degli edifici esistenti attraverso il raggiungimento di parametri più realistici.
L'articolo 1, commi 2 e 3, della legge di stabilità 2017 (l. n. 232/2016) ha introdotto per il periodo compreso tra il 01.01.2017 e il 31.12.2021 una detrazione di imposta del 50%, fruibile in cinque rate annuali di pari importo, per le spese sostenute per l'adozione di misure antisismiche su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1, 2 e 3).
La detrazione va calcolata su un importo complessivo di 96.000 euro per unità immobiliare per ciascun anno. La detrazione fiscale sale al 70% della spesa sostenuta, se dalla realizzazione degli interventi deriva una riduzione del rischio sismico che determina il passaggio a una classe di rischio inferiore. Aumenta all'80% se dall'intervento deriva il passaggio a due classi di rischio inferiori. Se le spese sono sostenute per interventi sulle parti comuni degli edifici condominiali le detrazioni sono ancora più elevate. Le detrazioni si applicano su un ammontare delle spese non superiore a 96.000 euro moltiplicato per il numero delle unità immobiliari di ciascun edificio e vanno ripartite in 5 quote annuali di pari importo.
Dal 2018 (articolo 1, 3° comma, della legge 27/12/2017 n. 205 c.d. legge stabilità 2018), per le spese relative agli interventi su parti comuni di edifici condominiali ricadenti nelle zone sismiche 1, 2 e 3, è possibile richiedere una detrazione dell'80%, se i lavori determinano il passaggio a 1 classe di rischio inferiore; o dell'85%, se gli interventi determinano il passaggio a 2 classi di rischio inferiori. La detrazione va ripartita in 10 quote annuali di pari importo e si applica su un ammontare delle spese non superiore a 136.000 euro moltiplicato per il numero delle unità immobiliari di ciascun edificio
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2018).

EDILIZIA PRIVATAOneri urbanistici svincolati. Arconet.
Gli oneri di urbanizzazione non sono cassa vincolata, poiché per tali entrate non è previsto un vincolo specifico, ma una generica destinazione ad una categoria di spese.

È questa la posizione della Commissione Arconet sulla contabilizzazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi (e delle relative sanzioni), alla luce della nuova disciplina entrata in vigore lo scorso 1° gennaio.
Dal 2018, infatti, la materia è regolamentata dal comma 460 della l. 232/2016, che circoscrive le spese finanziabili con gli oneri alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e altre fattispecie meno frequenti (fra cui nuovamente la progettazione). È quindi venuta meno la possibilità di destinare tali entrate a spese diverse da quelle elencate espressamente dal legislatore.
Il problema è stabilire se ciò comporti anche l'obbligo di considerarle vincolate anche in termini di cassa. In caso di risposta affermativa, gli enti dovrebbero applicare il combinato disposto degli artt. 195 e 222 del Tuel, che limitano la possibilità di attingere alla cassa vincolata per finalità di spesa diverse da quelle stabilite. In tali casi, inoltre, scatterebbe l'obbligo di contabilizzare nelle scritture finanziarie i movimenti di utilizzo e di reintegro. Si tratterebbe di un notevole appesantimento procedurale, per cui è da accogliere con favore la decisione di Arconet di sposare la scuola di pensiero alternativa (anticipata da ItaliaOggi del 30/01/2018), secondo cui sarebbe errato considerare gli oneri entrate vincolate, dato che il legislatore ha stabilito solo una loro generica destinazione (anche se più restrittiva del passato).
In tal senso, soccorre anche la deliberazione n. 31/2015 della Corte dei conti, sezione delle autonomie che ha chiarito che il regime vincolistico della gestione di cassa è caratterizzato dall'eccezionalità delle ipotesi, che devono essere circoscritte a quelle indicate agli artt. 180, comma 3, lett. d) e dall'art. 185, comma 2, lett. i). Per i giudici contabili, cassa vincolata è solo quella che deriva da entrate con destinazione specifica
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2018).

APPALTIUn galateo per gli appalti. In ballo 225 mld. Codice di condotta alle p.a.. La Commissione europea chiede nuove regole per i funzionari pubblici.
La Commissione europea chiede un codice di comportamento per gli appalti pubblici. Infatti, la fase preparatoria di una procedura di appalto mira a progettare un processo solido per la consegna dei lavori, dei servizi o delle forniture richiesti. Ed è questa, di gran lunga, la fase più cruciale del processo per evitare conflitti di interesse.
La richiesta è contenuta nella nuova guida Ue (datata febbraio 2018) sugli appalti pubblici, che detta anche le regole su come evitare gli errori più comuni in progetti finanziati dall'Europa, attraverso i fondi strutturali e di investimento (Fie).
La motivazione. «Un codice di condotta relativo alle attività di appalto pubblico dovrebbe essere istituito e pubblicizzato ampiamente in tutte le organizzazioni pubbliche», sostiene Bruxelles. Soprattutto perché i compiti dei pubblici dipendenti comportano normalmente spesa di denaro pubblico. In più, gli stessi funzionari sono chiamati a operare in ambiti in cui è essenziale trattare tutte le parti in gara in maniera equa.
Il codice di comportamento dovrebbe, quindi, richiedere standard minimi di comportamento, in particolare al personale addetto agli appalti. I fondi Sie hanno come obiettivo immettere oltre 450 miliardi di euro nell'economia reale dell'Ue durante il periodo di finanziamento 2014-2020. Metà di questi fondi viene investito tramite appalti pubblici. Le cui soglie sono cambiate dal primo gennaio (si veda ItaliaOggi del 22/12/2017)
Consultazione senza distorcere la concorrenza. Nel documento, i funzionari Ue ricordano che occorre prestare attenzione a non falsare la concorrenza, fornendo a taluni operatori economici conoscenza precoce di una procedura di appalto pianificata o suoi parametri. Nel preparare i bandi di gara, le amministrazioni aggiudicatrici possono condurre consultazioni di mercato, ma devono garantire che il coinvolgimento di una società precedentemente consultata non falsi la concorrenza all'interno del procedura di gara. Devono, inoltre, garantire che qualsiasi informazione condivisa con un'azienda, a seguito di un suo precedente coinvolgimento, va reso disponibile anche alle altre società partecipanti.
L'appalto congiunto implica la combinazione delle procedure di due o più amministrazioni aggiudicatrici. In termini concreti, è prevista una sola procedura di appalto, lanciato a nome di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, per acquistare servizi, beni o lavori comuni. Questo può essere fatto tra più autorità dello stesso Stato membro, o tra amministrazioni aggiudicatrici di diversi Stati membri, attraverso gli appalti transfrontalieri.
Pianificare l'appalto. In questa fase, l'Ue consiglia di redigere una pianificazione dell'intera procedura di appalto, per organizzare la futura implementazione e gestione del contratto stesso. Tutto ciò, secondo Bruxelles, potrà essere fatto sulla base di elementi chiave, già definiti: squadra e parti interessate, oggetto, durata e valore del contratto, procedura. La pianificazione, però, non dovrà comportare processi onerosi e lunghi. Infine, la commissione Ue avverte: l'impostazione errata del processo, molto probabilmente, genererà alle p.a. errori e problemi
(articolo ItaliaOggi del 20.02.2018).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Conferenza di servizi preliminare e tutela paesaggistica.
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Processo amministrativo – Atto impugnabile - Conferenza di servizi preliminare – Determinazione conclusiva – E’ impugnabile.
  
Paesaggio – Tutela – Autorità statale preposta alla gestione del vincolo - Finalità esclusiva.
   L’atto conclusivo della conferenza di servizi preliminare è impugnabile (1).
  
La tutela dei valori paesaggistici costituisce, per l’autorità statale preposta alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di comparazione, da parte della medesima autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per il preminente valore costituzionale del paesaggio, sia perché la funzione di tutela del paesaggio si svolge attraverso valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa pura (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che gli effetti giuridici essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3, sesto periodo, l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui “Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e con le modalità di cui agli artt. 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”.
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze (di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento degli effetti della conferenza preliminare, nei termini sinteticamente descritti, implica la necessità, per i soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
   (2) Nel caso di specie, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio aveva rilasciato parere favorevole di compatibilità paesaggistica, per il progetto preliminare di un’opera pubblica di notevole impatto in quanto la soluzione proposta non sembra avere alternative. La Sezione ha ritenuto che in tal modo si pone illegittimamente in comparazione “l’inserimento paesaggistico delle opere”, che attiene alla tutela del paesaggio, con la mancanza di alternative alla soluzione proposta, che attiene a interessi diversi e non affidati alla Soprintendenza (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 08.03.2018 n. 185
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
13. - Con il secondo motivo, i ricorrenti –denunciando «Eccesso di potere. Difetto d'istruttoria. Illogicità manifesta. Erroneità dei presupposti. Travisamento dei fatti. Contraddittorietà. Perplessità. Difetto di motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della L. n. 241/1990»- fanno valere i vizi di legittimità che inficerebbero i pareri, rilasciati in sede di conferenza di servizi svoltasi il 29.06.2016, da parte delle autorità deputate alla tutela dei vincoli paesaggistici esistenti sull’area in cui dovranno essere eseguiti i lavori.
In primo luogo, nei confronti del parere favorevole all’intervento reso dal “Servizio tutela del paesaggio” per le provincie di Cagliari e Iglesias, ufficio della Regione Sardegna, si deduce il difetto di istruttoria e di motivazione sia perché mancherebbe una valutazione specifica dell’impatto paesaggistico di un intervento che si caratterizza per l’imponenza della struttura (in specie, del viadotto), sia perché le considerazioni svolte sarebbero, oltre che generiche, del tutto tautologiche.
Nei confronti del parere favorevole espresso dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio si rileva, in particolare, la contraddittorietà della motivazione. Il delegato in conferenza di servizi, infatti, osserva in primo luogo che la soluzione proposta «non appare soddisfacente in relazione all’inserimento paesaggistico delle opere», indicando anche le rilevanti modifiche che andrebbero apportate al progetto. Peraltro, osservano i ricorrenti, il parere si conclude apoditticamente con l’affermazione che la soluzione progettuale non sembra avere alternative e che non vengono ravvisati elementi ostativi alla realizzazione dell’opera.
Con il terzo motivo, i ricorrenti contestano la stessa possibilità di un corretto inserimento paesaggistico dell’intervento progettato, sulla scorta della considerazione che si intendono realizzare delle opere di dimensioni sproporzionate rispetto sia alla natura del tutto eccezionale degli eventi alluvionali paventati, sia al notevole pregiudizio che subirebbe il pregio paesaggistico della zona coinvolta in relazione alla finalità perseguita, ossia la regolarità del traffico veicolare in una località abitata da poco più di mille persone.
Con il quarto motivo i ricorrenti sollevano ulteriori profili di illegittimità del progetto approvato, per il difetto di istruttoria emerso in conferenza di servizi con riferimento alla considerazione che il viadotto progettato sarebbe stato reso necessario dalla situazione di irregolarità dei ponti esistenti; e con riferimento al rilievo secondo cui le opere progettate sarebbero funzionali alla realizzazione di un parco che metta in collegamento la zona sportiva con la biblioteca. Entrambi i rilievi sarebbero sganciati dalla realtà di fatto e dimostrerebbero che il progetto è stato redatto in assenza della necessaria conoscenza dei luoghi.
Infine, con il medesimo motivo, si deduce l’errore in cui sarebbe occorso il responsabile unico del procedimento nel ritenere che il Comune di Capoterra avrebbe espresso, in epoca precedente alla conferenza di servizi del 29.06.2016, parere favorevole al progetto.
Sostengono i ricorrenti che l’amministrazione comunale si è espressa esclusivamente in relazione alla versione definitiva dello Studio Hy. avente ad oggetto l'analisi idrologica del territorio, con specifico riferimento soltanto alla “soluzione 2” (si rinvia al doc. 4, pagg. 32-34, di parte ricorrente), riguardante il territorio c.d. “a valle”, verso la foce del Rio San Girolamo.
Nessun voto favorevole è mai stato espresso con riferimento all'intervento riguardante la realizzazione del nuovo attraversamento del lago di Poggio dei Pini, che rientrava tra quelli inerenti il territorio “a monte”.
13.1. - I motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la loro stretta connessione.
13.2. - Peraltro, prima di affrontare il merito delle censure, si pone una questione di rito che deriva dalla natura della conferenza di servizi tenutasi per l’esame e la valutazione del progetto.
Si è trattato, infatti, di una conferenza preliminare finalizzata (secondo la definizione di cui all’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del 1990) «a indicare al richiedente, prima della presentazione di una istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari pareri, intese, concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso, comunque denominati», in relazione alla quale si potrebbe prospettare il problema della impugnabilità della determinazione conclusiva, considerato che l’oggetto della conferenza preliminare non è ravvisabile nell’approvazione del progetto sottoposto al suo esame ma, piuttosto, quella di prefigurare le condizioni della (futura) approvazione del progetto definitivo o esecutivo.
La questione si traduce, quindi, nel verificare il reale contenuto lesivo della determinazione conclusiva della conferenza preliminare, sia quando essa si esprima nel senso di rilevare le criticità del progetto esaminato, che non consentirebbero una sua positiva valutazione, ipotesi rispetto alla quale si profila l’interesse del proponente a impugnare l’esito negativo della conferenza); sia quando (come nel caso di specie) l’esito della conferenza preliminare sia favorevole all’iniziativa progettuale (perché in tal caso l’impugnabilità della determinazione conclusiva si sorreggerebbe sull’interesse a ricorrere di terzi controinteressati che si ritengano lesi dalla conclusione della conferenza).
Ciò premesso in linea di principio,
gli effetti giuridici essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3, sesto periodo, della legge n. 241/1990, secondo cui «Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e con le modalità di cui agli articoli 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo».
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze (di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).

Ne deriva come conseguenza che
il possibile consolidamento degli effetti della conferenza preliminare, nei termini sinteticamente descritti, implica la necessità, per i soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
Nel caso in esame, trattandosi di esito favorevole che si inserisce nel procedimento di approvazione del progetto preliminare, correttamente i vizi della determinazione conclusiva della conferenza preliminare vengono fatti valere, in via derivata, quali vizi dell’ordinanza (più volte citata) con la quale è stato approvato il progetto preliminare (mentre la immediata impugnabilità della determinazione conclusiva della conferenza preliminare si rende necessaria, per il soggetto che propone l’intervento, solo in caso di esito negativo, assimilabile a una sorta di «arresto procedimentale»).
13.3. - Nel merito, sono fondate le censure con le quali si denuncia il difetto di motivazione del parere favorevole espresso dall’ufficio regionale sul paesaggio, nonché la illogicità e contraddittorietà del parere favorevole reso dalla Soprintendenza.
13.4. - L’area interessata dall’intervento è tutelata sotto il profilo paesaggistico per l’operare di diversi vincoli, per effetto –in primo luogo- del D.M. 15.06.1981, e, successivamente, dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004, dell’art. 142 del medesimo codice dei beni culturali (con riferimento alla fascia dei 150 metri del rio San Girolamo), delle previsioni contenute nel piano paesaggistico regionale del 2006 (in quanto la zona ricade all’interno della fascia costiera, art. 17 delle n.t.a. del PPR).
Ciò premesso, è opportuno riferire il contenuto dei pareri con i quali le autorità preposte alla tutela dei vincoli hanno positivamente valutato il progetto preliminare.
13.5. - Per quanto concerne il parere del servizio regionale di tutela del paesaggio (cfr. nota del 16.06.2016, doc. 13 di parte ricorrente), sul presupposto che «l’ipotesi progettuale prevede la formazione di una sede più ampia dell’attuale corso d’acqua, atta a rendere maggiormente funzionale e in sicurezza il sistema fluviale [e che] gli interventi sono improntati [alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica in armonia con il quadro paesaggistico di riferimento», conclude esprimendo «parere preliminare favorevole all’intervento proposto, riservandosi eventuali ulteriori approfondimenti in sede di progettazione definitiva, alla quale si rimanda, per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del D.Lgs. 42/2004».
Il parere della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio è stato reso in sede di conferenza di servizi preliminare del 29.06.2016, nei seguenti termini: «Il rappresentante della Soprintendenza fa presente che la soluzione proposta non sembra avere alternative; essa, peraltro, non appare soddisfacente in relazione all'inserimento paesaggistico delle opere. Pertanto, la condivisione del progetto preliminare deve intendersi limitata alle opere infrastrutturali e che il progetto definitivo, al fine di conseguire l’approvazione da parte della Soprintendenza, dovrà contemplare alcune modifiche per mitigare l’inserimento dell’opera nel contesto ambientale di Poggio dei Pini; in particolare si prescrive quanto segue:
   - dettagliato progetto degli interventi di mitigazione e compensazione comprensivo dell'indicazione della morfologia delle aree interessate e delle essenze da impiantare, contestuale alle altre opere;
   - se possibile eliminare la rotatoria;
   - definire e indicare le essenze arbustive e/o arboree da impiantare per mitigare gli impatti;
   - adozione di un sistema di illuminazione della nuova viabilità volto a limitarne l’inquinamento luminoso; l'indicazione di tutti gli elementi di arredo, delle armature stradali e dei corpi illuminanti (al riguardo, è indispensabile che vengano prodotte le relative schede tecniche […];
   - le mantellate di protezione spondale previste dal progetto sono caratterizzate da un notevole impatto visivo che deve essere mitigato mediante opere a verde, tenendo conto del conseguente incremento della rugosità e della scabrezza dell’alveo;
   - negli attraversamenti dei corsi d’acqua minori si chiede di eliminare il belvedere per limitare l’ingombro dei manufatti;
   - arretrare le spalle del ponte al fine di ottenere il mascheramento delle stesse e consentire la prosecuzione della sistemazione delle sponde dell’alveo anche in corrispondenza del ponte medesimo.[…] L’ing. Ga.To. conferma che la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias, Ogliastra non ha ravvisato la presenza di elementi ostativi alla realizzazione dell’opera
».
13.6. - La mancanza di una adeguata motivazione delle ragioni che consentirebbero di derogare al vincolo paesaggistico operante sull’area, emerge in maniera del tutto evidente dall’esame del parere dell’ufficio regionale per il paesaggio, atteso che si fa genericamente riferimento all’intervento proposto, senza tenere nel dovuto conto le dimensioni delle opere da realizzare (essendo palesemente insufficiente affermare che «gli interventi sono improntati [alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica»), né viene in alcun modo affrontata ed esaminata la fondamentale questione (in cui si traduce il potere di valutazione tecnica riservato all’autorità che gestisce, o co-gestisce, il vincolo) di come inserire l’intervento nel contesto paesaggistico di riferimento.
Alla luce del preminente valore costituzionale della tutela del paesaggio (art. 9 della Costituzione), ribadito costantemente dalla copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato (tra le più recenti, si veda Cons. St., sez. VI, 23.07.2015, n. 3652, ed ivi i richiami alle fondamentali sentenza della Corte Costituzionale e dello stesso giudice d’appello; in precedenza, si veda soprattutto Cons. St., sez. VI, 23.12.2013, n. 6223), il dovere di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica deve necessariamente articolarsi secondo «un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione: i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati; ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni; iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535)» (così la citata sez. VI, n. 6223/2013).
La motivazione, in particolare quando sono in gioco fondamentali valori costituzionali, deve dare conto in modo circostanziato sia delle premesse in fatto, sia del percorso logico e valutativo che l’amministrazione ha seguito per giungere alla decisione.
Nel parere favorevole reso dall’ufficio regionale sono sostanzialmente omessi tutti i passaggi sopra descritti.
13.7. - Quanto al parere della Soprintendenza, esso si caratterizza non solo per la insufficiente valutazione dei profili di compatibilità tra il progetto presentato e i valori paesaggistici implicati, ma anche per la intima contraddittorietà tra le considerazioni svolte in premessa, nelle quali sono comprese incisive richieste di modifica del progetto, e la conclusione formulata dal Soprintendente nel senso di non ravvisare «elementi ostativi alla realizzazione dell’opera».
Affermazione, quest’ultima, in patente contrasto anche con la premessa generale relativa all'inserimento paesaggistico delle opere, ritenuto non soddisfacente. Il che avrebbe dovuto indurre la Soprintendenza a esprimere parere contrario o a condizionare espressamente il rilascio del parere alle modifiche progettuali esplicitate in conferenza preliminare o a condizionare espressamente il parere favorevole alla adozione delle predette modifiche in sede di elaborazione e approvazione del progetto definitivo (ferma restando la necessità di motivare in ordine alla compatibilità dell’opera, pur modificata, con il vincolo paesaggistico).
Occorre far notare, infatti, come la tutela dei valori paesaggistici costituisca, per l’autorità (statale) preposta alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di comparazione, da parte della medesima autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per le ragioni costituzionali sopra menzionate, sia perché la funzione di tutela del paesaggio (come ha ricordato il Consiglio di Stato nella pronuncia della sez. VI, n. 3652/2015, sopra citata) si svolge attraverso valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa pura.
Pertanto, quando nel parere reso dalla Soprintendenza si sostiene, in premessa, che «la soluzione proposta […] non appare soddisfacente in relazione all'inserimento paesaggistico delle opere», in effetti si profila una ragione da sola sufficiente a motivare l’espressione di un parere contrario alla realizzazione dell’opera, essendo escluso che la Soprintendenza debba farsi carico di una comparazione dell’interesse paesaggistico (unico interesse attribuito alle sue cure) con altri interessi contestualmente presenti nella vicenda. Una deviazione da tali principi concretizzerebbe un vizio di eccesso di potere per sviamento, ovvero una classica ipotesi di esercizio del potere per una finalità diversa da quella prevista dalla norma.
Il che sembra ricorrere nel caso di specie, quando la Soprintendenza pone in comparazione «l’inserimento paesaggistico delle opere» (che attiene alla tutela del paesaggio) con la mancanza di alternative alla soluzione proposta (che attiene a interessi diversi e non affidati alla Soprintendenza).
14. - Dalle osservazioni che hanno portato all’accoglimento dei vizi sopra esaminati, deriva come conseguenza l’infondatezza del terzo motivo, poiché la valutazione della compatibilità paesaggistica dell’opera (in assenza di un vincolo di inedificabilità assoluta) è riservata alle autorità titolari della funzione di tutela, che si dovranno nuovamente pronunciare sul punto.
15. - Sono infondate, altresì, le censure di difetto di istruttoria di cui al quarto motivo, poiché si tratta di profili irrilevanti ai fini della decisione di realizzare le opere in questione.

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Istanza di rimborso di imposte - Ufficio non competente - Trasmissione dell'istanza all'ufficio competente - Collaborazione tra uffici della pubblica amministrazione e tra questa ed il contribuente - Art. 12 d.lgs. n. 347/1990 - Statuto dei diritti del contribuente - Art. 111 Cost. - Impugnazione del silenzio-rifiuto dell'amministrazione finanziaria - Decadenza del contribuente dal diritto al rimborso - Interruzione.
In tema di rimborso delle imposte sui redditi, disciplinato dall'art. 38, secondo comma, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, la presentazione di un'istanza di rimborso ad un organo diverso da quello territorialmente competente a provvedere costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile dinanzi al giudice tributario, sia perché l'ufficio non competente (quando non estraneo all'Amministrazione finanziaria e, nella specie, coincidente con una diversa direzione regionale) è tenuto a trasmettere l'istanza all'ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa Amministrazione, sia alla luce dell'esigenza di una sollecita definizione dei diritti delle parti, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n. 4773 del 2009; conf. n. 15180/2009, n. 2810/2009, n. 27117/2016) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 06.03.2018 n. 5203 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche il principio di tassatività delle cause di esclusione comporta che l'esclusione dalla gara può essere disposta in modo legittimo solo quando il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali della Pubblica amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti in quanto il suddetto principio “… è finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le ragioni di esclusione dalle gare, incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis. Il legislatore ha così ridotto la discrezionalità della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale, sia richiesto a pena di esclusione. In quest'ottica è stata eliminata in radice la possibilità per l'Amministrazione di prescindere dall'onere di una preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente sulla base della riscontrata carenza documentale, indipendentemente da ogni verifica sulla valenza «sostanziale» della forma documentale risultata carente”.
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La Lu.Co.So. a r.l. ha, in primo luogo, dedotto l’illegittimità dell’aggiudicazione della gara al controinteressato Co.So. Il Mo., in quanto quest’ultimo avrebbe, a suo dire, dovuto essere escluso dalla procedura per non essersi attenuto alle prescrizioni dettate dal bando in relazione alla presentazione dell’offerta, avendo prodotto un documento, denominato “Allegato 3”, non conforme a quanto ivi previsto “perché non riportava il timbro di congiunzione tra le pagine, così come richiesto dal punto 2 delle Istruzioni per la compilazione del modello stesso e in spregio di quanto previsto dall’art. 9 .1 capoverso 3) … che testualmente recita <<Redatto a pena di esclusione conformemente al modello Allegato 3>>”.
...
Tali censure non sono fondate e devono essere rigettate.
Da un lato, proprio a norma delle Istruzioni per la compilazione dell’Allegato n. 3, dettate in calce all’allegato stesso, il timbro di congiunzione tra le pagine di tale documento non era previsto, in realtà, “a pena di esclusione”: all’art. 11 del bando –tra le “Avvertenze”- era, infatti, sì stabilito che “la documentazione di gara … (avrebbe dovuto) … essere prodotta secondo le modalità e le prescrizioni contenute nel bando e nel capitolato e allegati” e che “le dichiarazioni e la documentazione non conforme, parziale, errata o mancata … (avrebbero comportato)… l’automatica esclusione dalla gara”, ma poi, nelle suddette istruzioni, inserite, come anticipato, in calce al modello per l’allegato 3, la richiesta di apposizione del timbro di congiunzione tra le pagine non era più accompagnata –a differenza di altri adempimenti, come l’allegazione alla dichiarazione datata e sottoscritta della fotocopia di un documento d’identità in corso di validità del sottoscrittore, in grado di incidere, evidentemente, sulla individuazione e sulla riferibilità stesse dell’offerta– dalla medesima “sanzione”.
D’altro lato la apposizione del suddetto timbro non risulta neppure prescritta come essenziale dal codice dei contratti, o dal regolamento o da altre disposizioni vigenti e la sua mancanza non appare, in questo caso, idonea a determinare incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, o dubbi sulla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o, ancora, pregiudizio al principio di segretezza delle offerte, cosicché un’esclusione da parte dell’Amministrazione del Consorzio concorrente per tale circostanza –pur richiesta dalla ricorrente- sarebbe stata certamente illegittima, in quanto contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione introdotto al comma 1-bis dell’art. 46 del Codice dei contratti dal d.l. n. 70/2011, ma, in realtà, codificazione di una regola basilare delle gare, diretta conseguenza dell’applicazione dei principi fondamentali di concorrenza e di massima partecipazione.
Come evidenziato al riguardo dalla costante giurisprudenza amministrativa, “nelle gare pubbliche il principio di tassatività delle cause di esclusione comporta che l'esclusione dalla gara può essere disposta in modo legittimo solo quando il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali della Pubblica amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti” (Consiglio di Stato sez. V 30.10.2017 n. 4976), in quanto il suddetto principio “… è finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le ragioni di esclusione dalle gare, incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis. Il legislatore ha così ridotto la discrezionalità della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale, sia richiesto a pena di esclusione. In quest'ottica è stata eliminata in radice la possibilità per l'Amministrazione di prescindere dall'onere di una preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente sulla base della riscontrata carenza documentale, indipendentemente da ogni verifica sulla valenza «sostanziale» della forma documentale risultata carente” (Consiglio di Stato sez. VI 15.09.2017 n. 4350) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.03.2018 n. 2555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPer la Pa più poteri nel valutare le imprese. Consiglio di Stato. Le amministrazioni hanno un margine di discrezionalità nel giudicare i curricula.
Più margini per le Pa in fase di valutazione dei requisiti delle imprese che partecipano alle gare: potranno escludere dagli appalti gli operatori economici che abbiano mostrato carenze nell' esecuzione di precedenti contratti. Anche in ipotesi non tipizzate dal Dlgs n. 50 del 2016 (Codice appalti).

È quanto ha spiegato il Consiglio di Stato, con la sentenza 02.03.2018 n. 1299. Nella quale, però, è precisato che, in queste situazioni, sarà richiesta alle amministrazioni una motivazione più approfondita e articolata del consueto.
Palazzo Spada, nella pronuncia appena depositata, analizza uno degli istituti più contestati del nuovo Codice appalti: quello che, tramite l'articolo 80, comma 5, lettera c), consente alla Pa di escludere le imprese per «gravi illeciti professionali». Sono macchie nel curriculum legate all'esecuzione di contratti precedenti, che siano tali da rendere dubbia l'integrità o l'affidabilità della società.
Un tema sul quale, dopo il Codice appalti, si è espressa anche l'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, con la linea guida n. 6. La legge contiene alcune ipotesi nelle quali è possibile estrarre il cartellino rosso che, però, i giudici del Consiglio di Stato considerano semplicemente «esemplificative».
In sostanza, resta un margine di «valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante» sulla «gravità di inadempienze che, pur non immediatamente riconducibili a quelle tipizzate, quanto agli effetti prodotti, siano tuttavia qualificabili come gravi illeciti professionali e siano perciò ostative alla partecipazione alla gara perché rendono dubbie l' integrità o l' affidabilità del concorrente». Se questa affidabilità viene considerata discutibile, la pubblica amministrazione può escludere dalla partecipazione alla gara l'operatore economico, perché considerato colpevole di un grave illecito professionale non compreso nell' elenco del Codice appalti. In questi casi, però, «la stazione appaltante dovrà adeguatamente motivare in merito all'esercizio di siffatta discrezionalità».
Quindi, tramite «mezzi adeguati», bisognerà dimostrare la sussistenza e la gravità dell' illecito professionale a carico dell' impresa. Una ricostruzione che, secondo i giudici, è anche compatibile con i principi del diritto comunitario
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2018).

APPALTI: Carattere esemplificativo e non tassativo dell’elencazione contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei contatti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Cause di esclusione ex lett. c) del comma 5 dell’art. 80 – Elenco esemplificativo e non tassativo.
L’elencazione contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (rimasto invariato dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 56 del 19.04.2017) –nella parte in cui fa rientrare tra i “gravi illeciti professionali”, dei quali la stazione appaltante deve dimostrare “con mezzi adeguati” che l’operatore economico si sia reso colpevole, anche “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”– ha carattere meramente semplificativo (1).
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   (1) Ad avviso della Sezione l’elencazione dei gravi illeciti professionali rilevanti contenuta nella lett. c) del comma 5 dell’art. 80 è meramente esemplificativa, per come si evince sia dalla possibilità della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione “con mezzi adeguati”, sia dall’incipit del secondo inciso (“Tra questi -(id est, gravi illeciti professionali- rientrano: […]”) che precede l’elencazione. La norma, oltre ad individuare, a titolo esemplificativo, gravi illeciti professionali rilevanti, ha anche lo scopo di alleggerire l’onere della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione con “mezzi adeguati”.
Ha aggiunto la Sezione che “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione” rilevano “[…] se anche singolarmente costituiscono un grave illecito professionale ovvero se sono sintomatici di persistenti carenze professionali”, come specificato al punto 2.2.1.2 e delle linee guida ANAC n. 6 del 2016/2017; il successivo punto 2.2.1.3 delle stesse linee guida comprende nell’elencazione delle significative carenze rilevanti, tra le altre, il singolo inadempimento di una obbligazione contrattuale o l’adozione di comportamenti scorretti o il ritardo nell’adempimento.
La sussistenza e la gravità dell’inadempimento o del ritardo ovvero del comportamento scorretto ai fini dell’esclusione dalla gara sono dimostrate, per tabulas, ed obbligano all’esclusione, ogniqualvolta essi abbiano prodotto gli effetti tipizzati dalla norma; con la precisazione –contenuta al punto 2.2.1.1 delle dette linee guida- che costituisce mezzo adeguato di dimostrazione (da valutarsi a cura della stazione appaltante, ma non automaticamente escludente) anche il provvedimento esecutivo di risoluzione o di risarcimento, prima che esso sia passato in giudicato. Siffatta ricostruzione della portata della norma, tuttavia, non comporta, a parere del Collegio, una preclusione automatica della valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante della gravità di inadempienze che, pur non immediatamente riconducibili a quelle tipizzate, quanto agli effetti prodotti, siano tuttavia qualificabili come “gravi illeciti professionali” e siano perciò ostative alla partecipazione alla gara perché rendono dubbie l’integrità o l’affidabilità del concorrente.
Piuttosto, in tale eventualità –vale a dire quando esclude dalla partecipazione alla gara un operatore economico perché considerato colpevole di un grave illecito professionale non compreso nell’elenco dell’art. 80, comma 5, lett. c)- la stazione appaltante dovrà adeguatamente motivare in merito all’esercizio di siffatta discrezionalità (che concerne la gravità dell’illecito, non la conseguenza dell’esclusione, che è dovuta se l’illecito è considerato grave) e dovrà previamente fornire la dimostrazione della sussistenza e della gravità dell’illecito professionale contestato con “mezzi adeguati”.
La Sezione ha escluso un contrasto di tale interpretazione con i principi comunitari.
Ha affermato che la Direttiva 2014/24/UE del 26.02.2014, sugli appalti pubblici, recepita con il nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 57 comma 4, nel prevedere le cause di esclusione facoltative di un concorrente, distingue diverse ipotesi, disponendo che: “4. Le amministrazioni aggiudicatrici possono escludere, oppure gli Stati membri possono chiedere alle amministrazioni aggiudicatrici, di escludere dalla partecipazione alla procedura di appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni: […omissis…] c) se l’amministrazione aggiudicatrice può dimostrare con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, il che rende dubbia la sua integrità; […omissis…]; g) se l’operatore economico ha evidenziato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un requisito sostanziale nel quadro di un precedente contratto di appalto pubblico, di un precedente contratto di appalto con un ente aggiudicatore, o di un precedente contratto di concessione che hanno causato la cessazione anticipata di tale contratto precedente, un risarcimento danni o altre sanzioni comparabili; [...]”.
Sebbene con la direttiva siano state delineate due distinte cause di esclusione facoltative, assoggettate a due differenti regimi probatori, non appare incompatibile la scelta compiuta dal legislatore italiano che ha disciplinato l’esclusione per grave illecito professionale in termini di obbligatorietà ed ha costruito la figura come un genus (pressoché coincidente con la causa di esclusione individuata dall’art. 57, comma 4, lett. c), della direttiva) all’interno della quale è possibile collocare le più diverse fattispecie, alcune delle quali sono esemplificate nello stesso art. 80, comma 5 (con inclusione nell’elenco di ipotesi che la direttiva ha considerato separatamente).
La scelta del Codice dei contratti pubblici, oltre a non contrastare con la previsione dell’art. 57, comma 4, della direttiva (che, d’altronde, contempla ipotesi escludenti facoltative) è conforme ai principi desumibili dal considerando 101 della stessa direttiva.
In particolare, rileva l’indicazione ivi contenuta che le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero continuare ad avere la possibilità di escludere operatori economici che si sono dimostrati inaffidabili, tra l’altro a causa di grave violazione dei doveri professionali (col chiarimento che “una grave violazione dei doveri professionali può mettere in discussione l’integrità di un operatore economico e dunque rendere quest’ultimo inidoneo ad ottenere l’aggiudicazione di un appalto pubblico indipendentemente dal fatto che abbia per il resto la capacità tecnica ed economica per l’esecuzione dell’appalto”) e rileva altresì il riconoscimento alle amministrazioni aggiudicatrici della “facoltà di ritenere che vi sia stata grave violazione dei doveri professionali qualora, prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi mezzo idoneo che l’operatore economico ha violato i suoi obblighi”.
In coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia formatasi sulla previgente direttiva del 2004/18/UE, del 31.03.2004, art. 45 (cfr., per tutte, la sentenza 14.12.2016, in causa C-171/15) il considerando 101 si conclude con esplicito richiamo del principio di proporzionalità, al fine di escludere qualsivoglia automatismo nei confronti della stazione appaltante, consentendole di esercitare, sia pure entro limiti definiti, i propri poteri discrezionali nella valutazione della sussistenza dell’elemento fiduciario nella controparte contrattuale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.03.2018 n. 1299 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Interesse ad impugnare la revoca della procedura espropriativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Revoca – Impugnazione – Interesse all’annullamento – Individuazione.
L’effettivo interesse azionato dal soggetto che impugna la revoca della procedura di esproprio, chiedendo che il procedimento si svolga fino all’esito dell’espropriazione delle aree di proprietà, è relativo agli effetti patrimoniale della procedura, e cioè alla riscossione dell’intera indennità di esproprio e al risarcimento dei danni che l’interessato pretende gli siano fin qui derivati (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che i provvedimenti di revoca si configurano in generale come tipici atti di natura discrezionale, come tali sindacabili solo per vizi esterni e la discrezionalità in merito dell’Amministrazione risulta ancor più ampia quando la revoca va ad incidere su rapporti non ancora consolidati.
Ciò posto, se del tutto ragionevolmente e legittimamente è stata disposta la revoca, anche il recupero di quanto già liquidato, deciso dall’amministrazione con il provvedimento impugnato in principalità risulta coerente con il diritto di ripetere il pagamento eseguito a favore del privato a titolo di indennità di espropriazione A tale proposito valgono, infatti, le regole della ripetizione dell'indebito, essendo l'art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di sopravvenienza della causa che rende indebito il pagamento (Cass., s.u., nn. 5624 e 14886 del 2009).
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla mancata previsione, nell’impugnato provvedimento di revoca, dell’indennizzo che l’art. 21-quinquies, comma 1, ultima parte, l. 07.08.1990, n.241 stabilisce quale obbligo a carico dell’amministrazione, vale innanzitutto premettere che la revoca che non prevede l’indennizzo non è illegittima, non avendo tale omissione effetto viziante o invalidante della revoca, ma semplicemente legittimando il privato ad azionare in giudizio la pretesa patrimoniale.
In disparte il fatto che l’indennizzo, quale rimedio a valenza latu sensu risarcitoria è per sua natura connesso alla revoca di provvedimenti favorevoli, mentre, come si è premesso, nella fattispecie viene revocato un atto di una procedura tipicamente sfavorevole, vale, tuttavia, fin d’ora anche puntualizzare che la revoca in esame incide, come si è detto, in una fase del procedimento di esproprio non ancora concluso con il provvedimento finale (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 02.03.2018 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Emissioni rumorose - Sfogo con impeti iracondi - Reato di cui all'art. 659 c.p. - Natura di reato di pericolo presunto - Potenziale disturbo delle occupazioni o il riposo di un numero indiscriminato di persone - Reato di cui all'art. 659 c.p. - Configurabilità - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 659, comma 1 cod. pen. si configura come reato di pericolo presunto, occorrendo ai fini del perfezionamento della fattispecie criminosa che le emissioni sonore siano potenzialmente idonee a disturbare le occupazioni o il riposo di un numero indiscriminato di persone secondo il parametro della normale tollerabilità, indipendentemente da quanti se ne possano in concreto lamentare (Cass. Sez. 1, n. 7748, 28/02/2012; Sez. 1, n. 44905, 02/12/2011, Sez. 1, n. 246, 07/01/2008; Sez. 1, n. 40393, 14/10/2004; Sez. 3, n. 27366, 06/07/2001; Sez. 1, n. 1284, 13/02/1997; Sez. 1, n. 12418, 17/12/1994).
Essendo invero l'interesse tutelato dal legislatore quello della pubblica quiete, la quale implica di per sé l'assenza di disturbo per la pluralità dei consociati, è necessario che i rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito dalla collettività, in tale accezione ricomprendendosi ovviamente il novero dei soggetti che si trovino nell'ambiente o comunque in zone limitrofe alla provenienza della fonte sonora, atteso che la valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso va fatta in relazione alla sensibilità media del gruppo sociale in cui il fenomeno stesso si verifica (Sez. 3, n. 3678 del 01/12/2005 - dep. 31/01/2006, Giusti).
Fattispecie: configurabilità del reato ex art. 659 c.p. per avere mediante rumori, urla e schiamazzi durante l'orario notturno all'interno di un edificio condominiale disturbato il riposo dei condomini.
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo della pubblica quiete - Verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità - Necessità di perizia o consulenza tecnica - Esclusione.
In ordine all'accertamento della fattispecie criminosa, di cui all'art. 659 c.p., non è necessario che la verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità sia effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, (Cass. Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011 - dep. 25/05/2011, Torna), occorrendo ciò nondimeno accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in relazione al caso concreto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.03.2018 n. 9361 - link a
www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per le mansioni superiori dirigenziali niente automatismi sulla retribuzione di risultato.
Il dipendente pubblico che svolge mansioni superiori in relazione a un ufficio dirigenziale non ha diritto alla retribuzione di risultato per il solo fatto di aver svolto funzioni dirigenziali. Questa voce retributiva è, infatti, connessa alla verifica dei risultati di gestione, il cui raggiungimento deve essere previamente determinato.
Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 28.02.2018 n. 4622.
Il caso
All'origine della controversia c'è la richiesta da parte di una dipendente del ministero dell'Interno del pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori. La lavoratrice, con qualifica di direttore amministrativo contabile - III fascia retributiva, infatti, era stata incaricata di sostituire l'allora dirigente del servizio contabilità e gestione finanziaria del Commissariato di Governo presso cui lavorava, il quale era stato trasferito ad altra sede, in attesa dell'assegnazione di un altro dirigente di II fascia.
Dopo il diniego del ministero, la vicenda arrivava dinanzi ai giudici di merito, i quali accertavano lo svolgimento delle funzioni superiori e condannavano il Viminale al pagamento delle differenze retributive spettanti. Quest'ultimo, tuttavia, ricorreva in Cassazione lamentando la violazione degli articoli 21, 35 e 52 del testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001), nonché di una serie di disposizioni del contratto 1998/2001 e 2002/2005 applicabili alla fattispecie, dai quali emergeva l'impossibilità del riconoscimento in favore della dipendente della retribuzione di risultato nella sua parte fissa: questa poteva essere erogata «solo a seguito della positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi previamente determinati cui la stessa è correlata», che nel caso di specie mancavano.
In sostanza, non essendo stati attribuiti con l'incarico obiettivi individuali difettava il presupposto normativo e contrattuale per la retribuzione di risultato.
La decisione
Il ricorso del ministero coglie nel segno e la Cassazione ribalta il verdetto di merito. Per i giudici di legittimità è vero che, in linea di principio, in tema di lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale la retribuzione di posizione e quella di risultato, anche in osservanza del principio di adeguatezza di cui all'articolo 36 Cost.
È però vero anche, prosegue il collegio, che gli articoli 44 del contratto 1998-2001 e 57 del Ccnl 2002-2005 stabiliscono che «la retribuzione di risultato può essere erogata solo a seguito di preventiva, tempestiva determinazione degli obiettivi annuali», nonché «della positiva verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza con detti obiettivi».
In altri termini, la retribuzione di risultato è correlata «all'effettivo raggiungimento, anche sotto il profilo qualitativo, da parte del dirigente, degli obiettivi preventivamente determinati», con la conseguenza che, se manca tale predeterminazione, tale voce retributiva non può essere presa in considerazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.03.2018).

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MASSIMA
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 35 e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, dell'accordo collettivo 31.01.2001 e del CCNL-Ministeri/dirigenti 21.04.2006, in particolare artt. 44, 48, 49, 52, 54, 57 e 58, nonché dell'art. 67, comma 3, del CCNL 2002/2003, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
La difesa dello Stato censura il riconoscimento alla lavoratrice, a titolo di differenze retributive per l'esercizio delle mansioni superiori dirigenziali, della retribuzione di risultato nella sua parte fissa, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con le disposizioni contrattuali richiamate.
A sostegno della censura, il ricorrente richiama Cass., n. 20796 del 2011, che ha affermato che in tema di lavoro pubblico contrattualizzato e di trattamento economico del personale con qualifica dirigenziale, l'art. 44, comma 3, del CCNL del personale dirigente dell'Area 1, 1998-2001, Comparto Ministeri, stabilisce che la retribuzione di risultato, comprensiva della quota fissa minima di cui si compone, è erogata solo a seguito della positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi previamente determinati cui la stessa è correlata.
Ne consegue che deve escludersi che tale retribuzione possa spettare per il solo fatto dello svolgimento di funzioni superiori.
Nella specie la Di Gi. non apparteneva al ruolo dirigenziale, né le era stato attribuito alcun incarico dirigenziale con i relativi obiettivi individuali, per cui non poteva essere sottoposta a valutazione ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001, costituente presupposto normativo e contrattuale anche per la corresponsione della retribuzione di risultato.
Pertanto alla lavoratrice non spettava alcun importo a titolo di retribuzione di risultato neppure a titolo di parte fissa.
4.1. Il motivo è fondato.
Deve premettersi che, in linea di principio, in tema di lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato, atteso che l'attribuzione delle mansioni dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilità inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di fatto assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di adeguatezza sancito dall'art. 36 Cost., la corresponsione dell'intero trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori (in tal senso Cass. S.U., n. 3814 del 2011, n. 12193 del 2011, n. 7823 del 2013).
Ciò posto, tuttavia, è fondata la censura relativa all'attribuzione della retribuzione di risultato, nella specie, parte fissa, in quanto la Corte d'Appello ha ritenuto che non assumesse rilievo il conseguimento degli obiettivi. Viene in rilievo, in proposito, il CCNL per il personale dirigenziale del comparto ministeri.
Il CCNL 1998-2001 del 05.04.2001, all'art. 44, comma 3, e il CCNL 2002-2005 del 21.04.2006, all'art. 57, comma 3, stabiliscono che la retribuzione di risultato può essere erogata solo a seguito di preventiva, tempestiva determinazione degli obiettivi annuali, nel rispetto dei principi di cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 29/1993, e della positiva verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza con detti obiettivi, secondo le risultanze della valutazione dei sistemi di cui, rispettivamente all'art. 35 e all'art. 21.
In sostanza la retribuzione in questione è correlata all'effettivo raggiungimento, anche sotto il profilo qualitativo, da parte del dirigente, degli obiettivi preventivamente determinati.
Quindi (in ragione dei principi già affermati da Cass., n. 13062 del 2014, n. 20976 del 2011) il dipendente che svolge mansioni superiori in relazione ad un ufficio dirigenziale, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, non ha diritto alla retribuzione di risultato per il solo fatto di avere svolto funzioni dirigenziali, poiché la stessa è connessa alla verifica dei risultati di gestione.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: VIA, VAS E AIA - Valutazione di impatto ambientale - Complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull’ambiente - Fattispecie: Attività di prospezione geofisica attraverso la tecnologia cd. “air-gun”.
La valutazione di impatto ambientale non concerne una mera e generica verifica di natura tecnica circa l'astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma deve implicare la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socioeconomica perseguita (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.07.2016, n. 3000; id., 31.05.2012 n. 3254).
VIA, VAS E AIA - Profili di discrezionalità amministrativa - Valutazione di legittimità giudiziale - Limiti.
E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti sia sul versante tecnico che amministrativo (cfr., Cons. St., sez. II, 02.10.2014, n. 3938; sez. IV, 09.01.2014, n. 36; sez. IV, 17.09.2013, n. 4611 sez. VI, 13.06.2011, n. 3561; Corte giust., 25.07.2008, c-142/07; Corte cost., 07.11.2007, n. 367).
In ragione di tali particolari profili che caratterizzano il giudizio di valutazione di impatto ambientale, la relativa valutazione di legittimità giudiziale deve essere limitata ad evidenziare la sussistenza di vizi rilevabili ictu oculi, a causa della loro abnormità, irragionevolezza, contraddittorietà e superficialità.
VIA, VAS E AIA - Principio di precauzione - Esistenza di un rischio specifico - Attività foriere di rischi per la salute delle persone e per l’ambiente - Seria e prudenziale valutazione - Attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili - Giudizio scientificamente attendibile.
Il principio di precauzione, i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura; non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli; non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27/12/2013, n. 6250; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 03/09/2015, n. 581) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1240 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, un colpo alle regioni. Spetta al ministero stabilire cosa non è più rifiuto. Per palazzo Spada, in assenza di normativa comunitaria, possono decidere solo gli stati.
Spetta allo Stato (e nel caso di specie al ministero dell'ambiente) e non alle regioni il potere di stabilire cosa non possa essere più considerato come rifiuto in quanto oggetto di trattamento e recupero differenziato.

Lo ha deciso il Consiglio di Stato nella sentenza 28.02.2018 n. 1229 con la quale la IV Sez. di palazzo Spada, ribaltando la sentenza del Tar Veneto n. 1422/2016, ha affermato in via di principio che spetta allo Stato il potere di individuare, ad integrazione di quanto già previsto dalle direttive comunitarie, le ulteriori tipologie di materiale da non considerare più come rifiuti, in quanto riciclabili.
La vicenda trae origine dal ricorso di un'impresa che era stata autorizzata a una attività sperimentale per il trattamento ed il recupero di rifiuti costituiti da pannolini e assorbenti igienici, per un periodo di due anni.
La regione Veneto, tuttavia, aveva in seguito respinto la richiesta di qualificare le attività svolte nel proprio impianto industriale, come attività di recupero «R3», poiché, per tali materiali, la normativa comunitaria al momento non lo prevedeva.
Il Tar aveva accolto il ricorso dell'impresa e conseguentemente annullato il diniego, ritenendo che in mancanza di espresse previsioni comunitarie, l'amministrazione potesse valutare caso per caso.
Il Consiglio di stato ha chiarito che, alle luce dell'art. 6 della direttiva 19.11.2008 n. 2008/98/Ce, la cessazione della qualifica di rifiuto è riservata alla normativa comunitaria. Solo se questa tace (e non, dunque, in contrasto con essa) «gli stati membri possono valutare caso per caso tale possibile cessazione».
Ne consegue che «il destinatario del potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è lo Stato e precisamente il ministero dell'ambiente che deve provvedere con propri regolamenti. Non le regioni
». Infatti, «la direttiva Ue non riconosce il potere di valutazione caso per caso ad enti e/o organizzazioni interne allo Stato, ma solo allo Stato medesimo, posto che la predetta valutazione non può che intervenire, ragionevolmente, se non con riferimento all'intero territorio di uno stato membro».
Sulla base di queste considerazioni, palazzo Spada ha preso le distanze dalle sentenza del Tar Veneto che invece, in mancanza di regolamenti comunitari o decreti ministeriali relativi alle procedure di recupero di determinati rifiuti, aveva ritenuto sussistente il potere («e il dovere») da parte delle regioni di procedere ad una valutazione casistica «rilasciando l'autorizzazione integrata ambientale quando la sostanza che si ottiene dal trattamento e dal recupero del rifiuto soddisfi le quattro condizioni previste dall'art. 184-ter del dlgs 152/2006 per non essere più considerata come rifiuto (sostanza comunemente utilizzata per scopi specifici; esistenza di un mercato; soddisfacimento di requisiti tecnici per scopi specifici: assenza di impatti negativi sull'ambiente o sulla salute umana)
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Competenza del Ministero dell'ambiente ad individuare materiale da non considerare più come rifiuti, in quanto riciclabili.
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Rifiuti – Materiali riciclabili – Individuazione – Competenza – E’ del Ministero dell’ambiente.
Spetta al Ministero dell’ambiente e non alle Regioni individuare, ad integrazione di quanto già previsto dalle direttive comunitarie, le ulteriori “tipologie” di materiale da non considerare più come rifiuti, in quanto riciclabili, sulla base di un analisi caso per caso (1).
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   (1) Il caso ha riguardato un’impresa che era già stata autorizzata ad una attività sperimentale per il trattamento ed il recupero dei rifiuti costituiti da pannolini, pannoloni ed assorbenti igienici, per un periodo di due anni, alla quale la Giunta regionale Veneto ha poi respinto la richiesta di qualificare le attività svolte nel proprio impianto industriale, come attività di recupero “R3”, poiché, per tali materiali, la normativa comunitaria al momento non lo prevede.
Il giudice di primo grado (Tar Veneto n. 1422 del 2016) aveva accolto il ricorso dell’impresa e conseguentemente annullato il diniego, ritenendo che in mancanza di espresse previsioni comunitarie, l’amministrazione potesse valutare caso per caso.
Il giudice di appello, nella sentenza n. 1129 del 2018, senza entrare nel merito tecnico della questione, ha osservato, alle luce dell’art. 6 della direttiva 19.11.2008 n. 2008/98/CE riguardante la “cessazione della qualifica di rifiuto” che: a) la disciplina della cessazione della qualifica di “rifiuto” è riservata alla normativa comunitaria; b) quest’ultima ha previsto che sia comunque possibile per gli Stati membri valutare altri casi di possibile cessazione; c) tale prerogativa tuttavia compete allo Stato e precisamente al Ministero dell’Ambiente, che deve provvedere con propri regolamenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1229 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIOk al soccorso istruttorio. La sanatoria non deve gravare sull'operatore. La Corte di giustizia europea giudica conforme l'istituto del Codice appalti.
Il Soccorso istruttorio previsto dal codice appalti italiano è conforme al diritto comunitario, ma non deve comportare oneri per l'operatore economico e non deve essere il mezzo per ammettere la presentazione di una nuova offerta.

È quanto stabilisce la
sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16 della Corte di giustizia europea in merito alla compatibilità della disciplina del soccorso istruttorio del codice appalti italiano (nella versione precedente al decreto 56/2017) rispetto alla disciplina europea che prevede le modalità con cui l'impresa offerente può sanare gli errori o le incompletezze delle informazioni o dei documenti da lei stessa forniti all'amministrazione in vista della partecipazione alla gara.
In base al diritto europeo è infatti esclusa la previsione di un onere finanziario, come invece era previsto dal codice appalti fino al l'emanazione del primo decreto correttivo del nuovo codice, entrato in vigore il 20.05.2017. In particolare in base alla normativa italiana sul «soccorso istruttorio», fino all'anno scorso era possibile procedere alla «sanatoria» versando una sanzione pecuniaria (garantita da una cauzione provvisoria) pari a un importo fisso, determinato dall'amministrazione in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50 mila euro.
I casi decisi dalla Corte europea riguardavano due appalti in cui due raggruppamenti di concorrenti erano stati esclusi per la presenza di alcune irregolarità sostanziali. Da qui il ricorso al Tar Lazio, il quale, in entrambe le cause, ha chiesto in via pregiudiziale alla Corte di giustizia se la normativa italiana sul «soccorso istruttorio» sia compatibile con la direttiva appalti e con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza e di proporzionalità, in ragione della previsione di una sanzione pecuniaria quale presupposto per poter effettuare la sanatoria. Inoltre il Tar Lazio chiedeva anche se fosse legittimo prevedere la sanzione in modo fisso e predeterminato per qualsiasi tipo di errore o incompletezza, senza poterla graduare in rapporto alla situazione concreta da disciplinare e alla gravità dell'irregolarità sanabile.
La Corte ritiene compatibile con le direttive appalti una disciplina come quella italiana che consente alla stazione appagante di invitare l'impresa a regolarizzare l'offerta pagando una sanzione, purché sia rispettato il principio di proporzionalità tra l'entità della sanzione e l'irregolarità da sanare, ciò che il giudice nazionale (in questo caso il TAR Lazio) dovrà verificare. Invece i giudici europei censurano il fatto che l'ente aggiudicatore possa chiedere all'impresa di regolarizzare, dietro pagamento di una sanzione, l'omesso deposito di un documento, quando proprio tale omesso deposito comporta, per espressa previsione delle regole dell'appalto, l'esclusione dell'offerente dalla gara.
Inoltre, sempre secondo la Corte, il diritto dell'Unione non consente che l'ente aggiudicatore possa chiedere all'impresa di correggere o modificare l'offerta, quando le correzioni o modificazioni sarebbero in realtà tali da costituire la presentazione di una nuova offerta
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2018).

APPALTI: Appalti, la Pa può «sanare» le offerte. Per le imprese possibilità di rettificare parzialmente atti e documenti.
Corte di giustizia. Promosso l'istituto del soccorso istruttorio nato per correggere gli errori di gara.

Promosso a pieni voti il soccorso istruttorio nelle gare di appalto: lo afferma la Corte di giustizia dell'Unione europea nella
sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16.
La pronuncia applica il regime (articolo 38, comma 2-bis, Dlgs 163/ 2006) del precedente codice dei contratti pubblici, ma contiene principi validi anche nell'attuale versione dell'articolo 83, comma 9, del codice appalti (Dlgs 50/2016), come modificato dall'articolo 52 Dlgs 56/2017 (attuale Codice).
Identica è infatti la finalità di garantire buon andamento e rapidità delle procedure, evitando la caccia all'errore, cioè la ricerca degli sbagli e delle inesattezze che potrebbero, per meri motivi formali, condurre all'esclusione dei concorrenti avversari. La Corte di giustizia si esprime in senso favorevole anche nei confronti del soccorso istruttorio «a pagamento», meccanismo oggi (dal Dlgs 56/2017) non più applicabile, che prevedeva un ticket da pagare (fino a 5mila euro) per ottenere la possibilità di rettificare parzialmente atti e documenti di gara.
Il ragionamento svolto dai giudici europei distingue tra rettifica, correzione e completamento dei documenti di gara, ammettendo chiarimenti e correzioni di errori materiali manifesti. Il confine da non superare è rappresentato dai requisiti richiesti espressamente dal bando di gara: questi, se non rispettati, non possono essere forniti successivamente. Occorre quindi evitare che, attraverso chiarimenti e correzioni, si costruisca una nuova offerta, alterando la par condicio tra concorrenti.
Quasi contemporaneamente a questa pronuncia, con la stessa logica i giudici amministrativi nazionali si stanno occupando del soccorso istruttorio applicato agli oneri di sicurezza (Consiglio di Stato 28.02.2018 n. 1228). In particolare, i principi del soccorso istruttorio che la Corte di giustizia ritiene diretta proiezione di esigenze di trasparenza, proporzionalità e parità di trattamento, stanno modificando anche lo stile delle sentenze nazionali, poiché quando il giudice si rende conto di essere in presenza di un errore sanabile sollecita l'amministrazione ad esercitare il soccorso istruttorio.
In tal modo, il potere di soccorso si converte in dovere di soccorso perché, prima di arrivare ad una sentenza (che si limiterebbe ad annullare la gara perché non è stato esercitato il soccorso istruttorio), è possibile che il giudice ordini all'amministrazione di riesaminare gli atti ed applicare il soccorso al concorrente che abbia fornito dati solo incompleti (Tar Napoli, ordinanza 253/2018; Trga Trento 5/2018 ).
Princìpi analoghi, inoltre, si fanno strada anche in altri settori, come ad esempio nell'edilizia, dove il responsabile del procedimento può suggerire lievi rettifiche alle istanze di permesso di costruire, applicando l'articolo 6, comma 1, lettera B, della legge 241/1990 e l'articolo 20 del Testo unico dell'edilizia 380/2001. Il buon andamento è infatti matrice comune di tutti i provvedimenti amministrativi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: La Corte di giustizia UE fissa i limiti di ammissibilità del soccorso istruttorio
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Contratti pubblici – Gara - Soccorso istruttorio – Onerosità – Legittimità – Misura – Proporzionalità.
  
Contratti pubblici – Gara - Soccorso istruttorio – Sanatoria di elemento essenziale dell’offerta – Esclusione.
  
Il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 51 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, i principi relativi all’aggiudicazione degli appalti pubblici, tra i quali figurano i principi di parità di trattamento e di trasparenza di cui all’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, e all’articolo 2 della direttiva 2004/18, nonché il principio di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a una normativa nazionale che istituisce un meccanismo di soccorso istruttorio in forza del quale l’amministrazione aggiudicatrice può, nel contesto di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, invitare l’offerente la cui offerta sia viziata da irregolarità essenziali, ai sensi di detta normativa, a regolarizzare la propria offerta previo pagamento di una sanzione pecuniaria, purché l’importo di tale sanzione rimanga conforme al principio di proporzionalità, circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare (1).
  
Per contro, queste stesse disposizioni e questi stessi principi devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che istituisce un meccanismo di soccorso istruttorio in forza del quale l’amministrazione aggiudicatrice può imporre a un offerente, dietro pagamento da parte di quest’ultimo di una sanzione pecuniaria, di porre rimedio alla mancanza di un documento che, secondo le espresse disposizioni dei documenti dell’appalto, deve portare alla sua esclusione, o di eliminare le irregolarità che inficiano la sua offerta in modo tale che le correzioni o modifiche apportate finirebbero con l’equivalere alla presentazione di una nuova offerta (2).
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   (1-2) I. - Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia dell’Unione europea, nell’esaminare le questioni ad essa rimesse dal Tar per il Lazio–Roma, in sede di rinvio pregiudiziale, con due distinte ordinanze, fissa alcuni importanti principi in tema di soccorso istruttorio in materia di procedure di appalto, sia con riferimento al c.d. <soccorso a pagamento> (previsto dall’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, oggetto di esame da parte della Corte, oggi non più contemplato dal Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, a seguito delle modifiche operate dal d.lgs. n. 56 del 2017), sia più in generale sull’ambito di operatività dell’istituto del <soccorso istruttorio>, prendendo a riferimento la disciplina europea di cui alle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
Le fattispecie poste all’esame del giudice del rinvio riguardavano procedure di gara nelle quali la stazione appaltante, riscontrate irregolarità essenziali in ordine a dichiarazioni sostitutive da presentare da parte degli offerenti, ha proceduto alla attivazione del soccorso istruttorio di cui all’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, invitando gli offerenti a porre fine alle irregolarità in un termine assegnato nonché disponendo il pagamento di sanzione pecuniaria, come stabilita dalla disciplina di gara.
Più in particolare nel primo caso (causa C-253/16) si trattava di procedura indetta da società facente parte del Gruppo Ferrovie dello Stato, avente ad oggetto l’aggiudicazione di appalto per “attività integrate di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché del servizio energia presso i complessi immobiliari delle stazioni ferroviarie” e l’elemento mancante era la <dichiarazione di impegno>, sottoscritta da tutte le imprese facenti parte di costituendo RTI, a conferire mandato speciale collettivo con rappresentanza alla impresa capogruppo; nel secondo caso (causa C-536/16) si trattava invece della gara indetta dalla Cassa di Previdenza e Assistenza dei Ragionieri e Periti commerciali (CNPR) per la stipula di accordo quadro per la gestione di patrimonio immobiliare e l’elemento mancante era la <dichiarazione sull’onore> circa l’assenza di condanne penali a carico dei legali rappresentanti dell’offerente. Gli operatori economici interessati, in entrambi i casi, provvedevano a integrare la documentazione mancante, ma contestavano in sede giurisdizionale l’obbligo di pagamento della sanzione.
Il Tar per il Lazio–Roma sez. III, rispettivamente con l’ordinanza n. 10012 del 03.10.2016 nel primo caso (oggetto della News US in data 05.10.2016) e con l’ordinanza n. 10222 del 13.10.2016 nel secondo caso, ha investito la Corte di giustizia dell’Unione europea, in sede di rinvio pregiudiziale, dei seguenti identici quesiti:
   I) “se, pur essendo facoltà degli Stati membri imporre il carattere oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, sia, o meno, contrastante con il diritto comunitario l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo vigente alla data del bando di cui trattasi laddove è previsto il pagamento di una “sanzione pecuniaria”, nella misura che deve essere fissata dalla stazione appaltante (“non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria”), sotto il profilo dell’importo eccessivamente elevato e del carattere predeterminato della sanzione stessa, non graduabile in rapporto alla situazione concreta da disciplinare, ovvero alla gravità dell’irregolarità sanabile”;
   II) “se, al contrario, il medesimo art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 sia contrastante con il diritto comunitario, in quanto la stessa onerosità del soccorso istruttorio può ritenersi in contrasto con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza, cui corrisponde il predetto istituto, con conseguente riconducibilità dell’attività, al riguardo imposta alla commissione aggiudicatrice, ai doveri imposti alla medesima dalla legge, nell’interesse pubblico al perseguimento della finalità sopra indicata”.
   II. - La Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. VIII, nella sentenza 28.02.2018, nelle cause riunite C-523/16 e 536/16, procede in primo luogo, in seno alle “osservazioni preliminari“, alla esatta ricognizione della normativa europea applicabile nelle fattispecie in esame, passando quindi ad affrontare le “questioni pregiudiziali”, nel qual contesto la Corte risponde ai quesiti posti con le ordinanze di rimessione e svolge importanti considerazioni sull’ambito oggettivo di operatività del <soccorso istruttorio>.
In sede di “osservazioni preliminari” la Corte UE rileva quanto segue:
   a) sebbene nelle ordinanze di rimessione il giudice del rinvio abbia precisato di nutrire dubbi circa la compatibilità dell’articolo 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, sia con l’articolo 51 della direttiva 2004/18 sia con l’articolo 59, paragrafo 4, secondo comma, della direttiva n. 2014/24/UE, che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve evidenziarsi che, tenuto conto delle date di pubblicazione dei bandi di gara di cui trattasi, vale a dire gennaio 2016 per la causa C 523/16 e ottobre 2014 per la causa C 536/16, la direttiva 2014/24, il cui termine di trasposizione, ai sensi del suo articolo 90, è scaduto il 18.04.2016, non è applicabile ratione temporis alle controversie principali; infatti, secondo la giurisprudenza costante della Corte, la direttiva applicabile nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici è, in linea di principio, quella vigente nel momento in cui l’amministrazione aggiudicatrice opera la scelta della procedura da indire, mentre sono inapplicabili le disposizioni di una direttiva il cui termine di trasposizione sia scaduto dopo tale data;
   b) tenuto conto dell’oggetto dell’appalto di cui al procedimento principale nella causa C 523/16 (“attività integrate di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché del servizio energia presso i complessi immobiliari delle stazioni ferroviarie”), in relazione ad essa è verosimilmente la direttiva 2004/17, e non la direttiva 2004/18, che trova applicazione;
   c) sebbene la direttiva 2004/17 non contenga disposizioni equivalenti a quelle dell’articolo 51 della direttiva 2004/18, tuttavia la Corte ha ammesso che l’amministrazione aggiudicatrice possa invitare un concorrente a chiarire un’offerta o a rettificare un errore materiale manifesto contenuto in quest’ultima, a patto di rispettare determinati requisiti e, in particolare, che un tale invito sia rivolto a qualsiasi offerente che si trovi nella stessa situazione, che tutti gli offerenti siano trattati in modo uguale e leale e che tale chiarimento o tale rettifica non possa essere assimilato alla presentazione di una nuova offerta;
   d) sebbene il giudice del rinvio abbia, dal punto di vista formale, limitato le sue domande di pronuncia pregiudiziale all’interpretazione dell’articolo 51 della direttiva 2004/18, tale circostanza non osta a che la Corte gli fornisca tutti gli elementi interpretativi del diritto dell’Unione che possano essere utili per la soluzione delle controversie di cui è investito, indipendentemente dal fatto che esso vi abbia fatto o meno riferimento nella formulazione delle suddette questioni.
Nella disamina delle questioni propriamente pregiudiziali la Corte svolge il seguente percorso argomentativo:
   e) sulla ammissibilità del <soccorso a pagamento>:
      e1) l’articolo 51 della direttiva 2004/18 prevede che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice può invitare gli operatori economici a integrare o chiarire i certificati e i documenti presentati ai sensi degli articoli da 45 a 50 di tale direttiva, ma né tale disposizione né alcun altra disposizione della direttiva 2004/18 contengono precisazioni sulle modalità in base alle quali una siffatta regolarizzazione può avvenire o sulle condizioni alle quali essa può eventualmente essere soggetta;
      e2) ne consegue che, nell’ambito delle misure di trasposizione della direttiva 2004/18 che gli Stati membri devono adottare, questi ultimi sono liberi, in linea di principio, non solo di prevedere una siffatta possibilità di regolarizzazione delle offerte nel loro diritto nazionale, ma anche di regolamentarla e quindi, a tale titolo, gli Stati possono decidere di subordinare la possibilità di regolarizzazione al pagamento di una sanzione pecuniaria, come prevede nella fattispecie l’articolo 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006;
      e3) tuttavia gli Stati membri devono fare in modo di non compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e di non pregiudicare né l’effetto utile delle sue disposizioni né le altre disposizioni e gli altri principi pertinenti del diritto dell’Unione, in particolare i principi di parità di trattamento e di non discriminazione, di trasparenza e di proporzionalità;
   f) sui limiti entro i quali un’offerta può essere regolarizzata o chiarita:
      f1) l’articolo 51 della direttiva 2004/18 non può essere interpretato nel senso di consentire all’amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni dei documenti dell’appalto, devono portare all’esclusione dell’offerente, e a conclusioni analoghe la Corte è giunta in relazione all’applicazione della direttiva 2004/17; la Corte ha infatti chiarito che nessuna delle due direttive ostava a che i dati relativi a un’offerta potessero essere corretti o chiariti (specie per correggere errori materiali manifesti), fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di requisiti;
      f2) una richiesta di chiarimenti non può così ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione fosse richiesta dai documenti dell’appalto, dovendo l’amministrazione aggiudicatrice osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati né una siffatta richiesta può condurre alla presentazione, da parte dell’offerente interessato, di quella che in realtà sarebbe una nuova offerta;
      f3) spetta al giudice del rinvio, il solo competente ad accertare e valutare i fatti delle controversie principali, esaminare se, tenuto conto delle circostanze, le regolarizzazioni richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici riguardassero la comunicazione di documenti la cui mancanza doveva comportare l’esclusione degli offerenti o se, al contrario, costituissero con tutta evidenza semplici richieste di chiarimenti in merito a offerte che dovevano essere corrette o completate su singoli punti o essere oggetto di una correzione di errori materiali manifesti;
      f4) ciò premesso, si deve constatare che la nozione stessa di irregolarità essenziale, che non è definita nell’articolo 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, non appare compatibile né con le disposizioni dell’articolo 51 della direttiva 2004/18 né con i requisiti ai quali è subordinato, ai sensi della giurisprudenza della Corte, il chiarimento di un’offerta nell’ambito di un appalto pubblico soggetto alla direttiva 2004/17;
      f5) soltanto nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio dovesse pervenire alla conclusione che le domande di regolarizzazione o di chiarimento formulate dalle amministrazioni aggiudicatrici soddisfacevano i requisiti richiamati, egli sarà tenuto ad esaminare se le sanzioni pecuniarie inflitte nei due procedimenti principali, in applicazione dell’articolo 38, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, rispettino il principio di proporzionalità;
   g) sulla proporzionalità delle sanzioni inflitte:
      g1) è vero che la fissazione anticipata da parte dell’amministrazione aggiudicatrice dell’importo della sanzione nel bando di gara risponde alle esigenze derivanti dai principi di parità di trattamento tra gli offerenti, di trasparenza e di certezza del diritto, in quanto oggettivamente consente di evitare qualsiasi trattamento discriminatorio o arbitrario di questi ultimi da parte della suddetta amministrazione aggiudicatrice; cionondimeno, l’applicazione automatica della sanzione così prestabilita, indipendentemente dalla natura delle regolarizzazioni operate dall’offerente negligente e quindi anche in assenza di qualsiasi motivazione individuale, non appare compatibile con le esigenze derivanti dal rispetto del principio di proporzionalità;
      g2) importi di sanzioni come quelli stabiliti nei bandi di gara da parte delle amministrazioni aggiudicatrici nei due procedimenti principali appaiono di per sé manifestamente esorbitanti, tenuto conto dei limiti entro i quali devono mantenersi sia la regolarizzazione di un’offerta a titolo dell’articolo 51 della direttiva 2004/18 sia il chiarimento di un’offerta nell’ambito della direttiva 2004/17;
      g3) ciò è particolarmente evidente nel caso di una sanzione, come quella inflitta dall’amministrazione aggiudicatrice nella causa C-523/16, che appare manifestamente eccessiva rispetto ai fatti censurati, vale a dire l’omessa firma di una dichiarazione di impegno recante la designazione della società capogruppo del raggruppamento offerente.
   III. - Per completezza si segnala quanto segue:
      h) sulla precedente giurisprudenza della Corte UE, coerente con le statuizioni della sentenza in rassegna:
         h1) Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 10.05.2017, C-131/16, Archus (oggetto della News US in data 19.05.2017) in Foro amm. 2017, 999 che, nel dettare i requisiti del soccorso istruttorio, esclude espressamente, da un lato, che la richiesta di chiarimenti possa condurre alla presentazione di quella che sarebbe in realtà una nuova offerta e, dall’altro, che essa possa ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto;
         h2) Corte di giustizia UE, sez. VI, sentenza 02.06.2016, in causa C-27/15, Pippo Pizzo (oggetto della News US in data 05.07.2016, in Foro it., 2017, IV, 206 con nota di CONDORELLI), in punto di necessaria chiarezza della disciplina di gara e sulla conseguente necessità di soccorso istruttorio ove l’operatore economico sia caduto in errore per ambiguità della normativa di gara o errore della stazione appaltante;
          h3) Corte di giustizia UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera d’Adda in Urb. e app., 2015, 137 con nota di PATRITO e Dir. proc. amm., 2015, 1006 con nota di MAMELI;
      i) sulla applicabilità del soccorso istruttorio alla fattispecie della esclusione dalla gara per mancata separata indicazione degli oneri di sicurezza aziendale interni:
         i1) Cons. Stato, Ad. plen., 20.03.2015, n. 3, in Foro it., 2016, III, 114, con nota di TRAVI, secondo cui l’omessa specificazione nelle offerte per lavori dei costi di sicurezza interni comporta la loro esclusione dalla gara, senza possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio ed a prescindere dal fatto che la lex specialis di gara esplicitasse o meno l’obbligo di allegazione dei suddetti costi;
          i2) Cons. Stato, Ad. plen. 02.11.2015, n. 9, in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI, ove si chiarisce la portata meramente interpretativa della sopra citata sentenza n. 3 del 2015, con conseguente applicabilità del principio da quest’ultima sancito anche alle gare bandite prima della sua emanazione;
         i3) Cons. Stato, Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (oggetto della News US in data 01.08.2016, in Foro it., 2017, III, 309 con nota di GAMBINO) la quale, facendo tesoro delle considerazioni di cui alla già citata sentenza della Corte di giustizia UE del 02.06.2016, Pippo Pizzo, ha affermato il principio di diritto secondo cui “per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016 n. 50, nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio”;
         i4) Corte di giustizia UE, sez. VI, sentenza 10.11.2016, C-140/16, C-697/15, C-162/16, Spinosa (oggetto della News US in data 25.11.2016, in Appalti & Contratti, 2016, fasc. 12, 80 (m), che ha avallato nella sostanza la soluzione raggiunta dalla sentenza della Adunanza plenaria n. 19 del 2016 (statuendo che le norme europee “ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice”);
         i5) nel nuovo codice degli appalti pubblici la materia trova una più puntuale disciplina nell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016:
            I) il Consiglio di Stato ha affermato che ai sensi dell’art. 95, comma 10, cit. l’indicazione degli oneri per la sicurezza aziendale nell’ambito dell’offerta economica è doverosa, con l’effetto che l’eventuale carente indicazione non può essere sanata mediante il potere di soccorso istruttorio, espressamente escluso dall’art. 83, comma 9, del medesimo codice, per elementi relativi all’offerta (Cons. Stato, sez. V, 07.02.2018, n. 815 e Cons. Stato, sez. V, 28.02.2018, n. 1228);
            II) è invece divisa la giurisprudenza di primo grado: un orientamento, in linea di continuità con la giurisprudenza anteriore all’entrata in vigore del nuovo codice appalti, ammette, a certe condizioni, anche in relazione alla disciplina del nuovo codice il soccorso istruttorio per la mancata indicazione degli oneri della sicurezza aziendale (Tar per il Lazio-Roma - Sez. II-ter, 20.07.2017, n. 8819; Tar per il Lazio–Roma - sez. I-bis, 15.06.2017, n. 7042; Tar per la Sicilia–Catania - sez. III, 20.11.2017, n. 2705); altro orientamento ritiene invece operante l’esclusione automatica per il concorrente che non abbia specificato gli oneri della sicurezza interna nell’offerta economica (Tar per la Calabria-Reggio Calabria - 25.02.2017, n. 166, Tar per la Campania–Salerno - 06.07.2016 n. 1604, Tar per il Molise 09.12.2016, n. 513);
      j) sull’evoluzione normativa dell’istituto del soccorso istruttorio e del correlato principio di tassatività delle cause di esclusione si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1054-1088, che analizza dettagliatamente i singoli passaggi disciplinari ed interpretativi, la cui scansione può essere sintetizzata con richiamo alle fonti succedutisi nel tempo:
         j1) art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 nella sua originaria versione, sulla quale si è pronunciato Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 (in Foro it., 2014, III, 429 con note di TRAVI e SIGISMONDI e Dir. proc. amm., 2014, 544, nota di BERTONAZZI), ove è esposta una lettura dell’istituto del soccorso istruttorio in materia di appalti che corrisponde a quella fatta propria dalla Corte di giustizia nella sentenza in rassegna (infatti nella richiamata pronuncia dell’Adunanza Plenaria si afferma che il potere di soccorso “non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano prescritti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici o dal suo regolamento d'attuazione o dalle leggi dello Stato”);
         j2) disciplina del d.lgs. n. 163 del 2006 novellata dal decreto-legge n. 90 del 2014, che introduce il comma 1-ter all’art. 46 e il comma 2-bis all’art. 38, ampliando significativamente le possibilità di soccorso istruttorio e introducendo il soccorso a pagamento; è la disciplina sulla quale si è pronunciata la Corte di giustizia nella sentenza in esame; su tale disciplina A. CASTELLI, Il soccorso istruttorio <a pagamento> tra contrasti giurisprudenziali e riforma codicistica in Urb. e app., 2016, 1251;
         j3) artt. 56, par. 3, direttiva 2014/24/UE e 76, par. 4, direttiva 2014/25/UE su cui C. LAMBERTI e S. VILLAMENA, Nuove direttive appalti: <sistemi di selezione> e <criteri di aggiudicazione> in Urb. e app. 2015, 873;
         j4) art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, sulla quale S. USAI, Il soccorso istruttorio integrativo nel nuovo codice degli appalti in Urb. e app., 2016, 1139 e L. TARANTINO, Il soccorso istruttorio nel vecchio e nel nuovo codice dei contratti pubblici in Urb. e app. 2017, 127;
         j5) infine la disciplina del codice del 2016 novellata dal d.lgs. n. 57 del 2017, sul quale F.A BELLA, Le novità in tema di soccorso istruttorio in M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI (a cura di), Il correttivo al codice dei contratti pubblici, Milano, 2017, 227 e F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti pubblici in Urb. e app., 2017, 745;
      k) sui più recenti orientamenti giurisprudenziali:
         k1) per una panoramica generale: S. CRESTA e L. POLITO, Percorsi di giurisprudenza – Il soccorso istruttorio nella contrattualistica pubblica in Giur. it., 2017, 2516 e, per gli anni precedenti, A. MANZI, Percorsi di giurisprudenza – il soccorso istruttorio negli appalti e negli altri procedimenti in Giur. it., 2016, 2520;
         k2) Cons. Stato, sez. V, 14.07.2017, n. 3645, ove si afferma che, rispetto ai requisiti di partecipazione, la stazione appaltante è libera di attivare il soccorso istruttorio in favore dell’impresa concorrente anche in un momento successivo all’aggiudicazione in favore di quest’ultima, configurando quindi una sorta di soccorso istruttorio “postumo”;
         k3) in tema di c.d. <soccorso istruttorio processuale>:
            I) Cons. Stato, sez. III, 02.03.2017, n. 976, affronta funditus il tema della ammissibilità anche di un soccorso istruttorio “processuale”, con riferimento all’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia illegittimamente ammesso alla gara un’offerta carente, sotto il profilo meramente formale, del prescritto supporto documentale e si evidenzi che la riscontrata carenza documentale e probatoria, se accertata tempestivamente nel corso dello svolgimento della procedura di gara, non avrebbe consentito l’immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe imposto alla stazione appaltante l’attivazione del procedimento del soccorso istruttorio; a fronte della contestazione in sede giudiziaria della altrui ammissione alla procedura, per carenza formale, ad avviso della sentenza in esame, il giudice non ha il potere di rilevare d’ufficio la sanabilità del vizio di forma e la concreta sussistenza del requisito controverso, non è neppure necessario però che l’aggiudicatario illegittimamente ammesso alla gara articoli un ricorso incidentale, teso ad evidenziare l’ulteriore illegittimità commessa dalla stazione appaltante, consistente nella omessa attivazione del procedimento di soccorso istruttorio, potendosi invece limitare ad una deduzione difensiva, in seno alla quale però deve assolvere l’onere della prova (ex art. 2697 c.c.) circa la sanabilità o meno dell’irregolarità commessa;
            II) l’ammissibilità del c.d. “soccorso istruttorio processuale” è stato successivamente confermata anche da Cons. Stato, sez. V, 27.12.2017, n. 6078 e da Cons. Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5826 (
Corte giust. comm. ue, sez. VIII, sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Corte Ue: la Via postuma è ammissibile. Marche. Nel 2012 un impianto di energia a biogas era stato autorizzato senza essere stato sottoposto a valutazione impatto ambientale.
L'esame "postumo" di un progetto già realizzato per verificare se vada sottoposto a Via è possibile, ma nel rispetto di precise condizioni.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Giustizia Ue con sentenza 28.02.2018 n. C‑117/17 sulla domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dal Tar Marche.
Nel 2012 un impianto di energia a biogas di potenza inferiore a 1 Mw era stato autorizzato senza essere stato sottoposto a Via poiché non prevista dalla legge regionale Marche 3/2012, ma contemplata dalle norme Ue.
Il Comune territorialmente competente aveva impugnato l'autorizzazione rilasciata per violazione delle norme Ue sulla Via. Nel frattempo, nel 2013 la Corte Costituzionale aveva dichiarato il legittima la legge marchigiana (sentenza 93/2013) e con DM 30.03.2015 erano state date ulteriori indicazioni sui criteri di assoggettamento degli impianti a screening o a Via (in aggiunta ai criteri già presenti nel Dlgs 152/2006, parte II).
In ragione del mutato quadro normativo il 03.06.2015 la Regione Marche, su istanza dell'impresa, dichiarava che l'impianto non doveva essere sottoposto a Via e confermava l'autorizzazione rilasciata nel 2012. Il Comune impugnava questa decisione delle Marche e il Tar investiva la Corte Ue in materia chiedendo se fosse compatibile col diritto Ue una valutazione "ex post" sulla sottoposizione di un impianto a verifica di assoggettabilità a Via o a Via. I giudici hanno risposto che la mancanza di Via, quando prevista, è un'omissione illegittima.
Inoltre, poiché gli Stati membri devono adottare tutte le misure necessarie ad eliminare le conseguenze illecite dell'omissione, tra queste ci può essere anche un esame postumo sulla necessità o meno della Via, a due condizioni: la regolarizzazione postuma sia un modo per eludere le norme Ue; l'esame sulla necessità della Via ex post consideri anche il concreto impatto ambientale eventualmente già verificatosi per effetto della costruzione.
L'esame "postumo" potrebbe anche, in ipotesi, condurre perla non necessità della Via in base alle norme nazionali, purché compatibili con la direttiva
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La Corte di giustizia UE detta ulteriori condizioni in tema di c.d. V.I.A. postuma.
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Ambiente – V.i.a. – Impianti produzione energia elettrica – Omissione – Costruzione e messa in esercizio – Regolarizzazione – Ammissibilità – Condizioni.
Qualora un progetto di potenziamento di un impianto per la produzione di energia elettrica, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, non sia stato sottoposto a una verifica preliminare di assoggettabilità a una valutazione di impatto ambientale ai sensi di disposizioni nazionali successivamente dichiarate incompatibili quanto a tale aspetto con la direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13.12.2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, il diritto dell’Unione prescrive che gli Stati membri eliminino le conseguenze illecite di detta violazione e non osta a che tale impianto formi oggetto, dopo la realizzazione di tale progetto, di una nuova procedura di valutazione da parte delle nuove autorità competenti al fine di verificare la conformità ai requisiti di tale direttiva e, eventualmente, di sottoporlo a una valutazione di impatto ambientale, purché le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto dell’Unione o di esimersi dall’applicarle.
Occorre altresì tenere conto dell’impatto ambientale intervenuto a partire dalla realizzazione del progetto. Tali autorità nazionali possono considerare, ai sensi delle disposizioni nazionali in vigore alla data in cui esse sono chiamate a pronunciarsi, che una tale valutazione di impatto ambientale non risulti necessaria, nei limiti in cui dette disposizioni siano compatibili con la direttiva di cui trattasi (1).

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   (1) I. - Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di giustizia ha risolto i dubbi sollevati dal Tar per le Marche (cfr. sentenza non definitiva 10.02.2017, n. 114), pronunciando sulla possibilità di sottoporre a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed eventualmente alla stessa VIA) un impianto già realizzato nel caso di annullamento dell’autorizzazione proprio a cagione della mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a VIA.
La decisione in oggetto si riconnette a quella resa dalla medesima Corte il 26.07.2017 (oggetto della News in data 28.02.2018), sempre su rimessione del Tar per le Marche in una fattispecie analoga.
Per maggiore chiarezza va evidenziato come, nella vicenda decisa dalla sentenza della Corte del luglio 2017, venisse in rilievo la problematica della c.d. VIA postuma, caratterizzata dall’annullamento -in applicazione della sentenza della Corte costituzionale 22.05.2013, n. 93 (in Giur. costit, 2013, 3, 1592 con nota di CALZOLAIO e LONGO; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2013, 520, con nota di SAVINI)- dell’autorizzazione unica alla realizzazione dell’infrastruttura energetica, dopo che i proponenti avevano attivato la procedura di VIA, che si era conclusa favorevolmente e che in alcuni casi era stata già seguita dal rilascio di una nuova autorizzazione unica (tali provvedimenti erano stati impugnati dai soggetti pubblici o privati che avevano ottenuto l’annullamento delle autorizzazioni originarie).
Nella presente controversia la questione veniva reputata ancor più rilevante in quanto nei casi precedenti la VIA era stata quantomeno svolta (sia pure ad impianto già realizzato), mentre nella specie la valutazione di impatto ambientale non era stata svolta né ab origine -in applicazione di una norma poi dichiarata incostituzionale- né in via postuma.
   II.- Nell’impostare il ragionamento che ha portato alla soluzione di cui alla massima, la sentenza parte dal richiamo a quanto evidenziato nella precedente sentenza del 26.07.2017, con particolare riferimento al fatto che, in caso di omissione di una VIA prescritta dal diritto dell’Unione, gli Stati membri hanno l’obbligo di eliminare le conseguenze illecite di detta omissione e che il diritto dell’Unione non osta a che una tale valutazione sia effettuata a titolo di regolarizzazione, dopo la costruzione e la messa in servizio dell’impianto interessato, alla duplice condizione, da un lato, che le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non offrano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto dell’Unione o di disapplicarle e, dall’altro, che la valutazione effettuata a titolo di regolarizzazione non si limiti all’impatto futuro di tale impianto sull’ambiente, ma prenda in considerazione altresì l’impatto ambientale intervenuto a partire dalla sua realizzazione.
La Corte prosegue, sempre richiamando il precedente predetto, ribadendo le condizioni in presenza delle quali il diritto dell’Unione non osta, qualora un progetto non sia stato sottoposto alla verifica preliminare dell’assoggettabilità a VIA in applicazione di disposizioni incompatibili con la direttiva 2011/92, a che tale progetto, anche successivamente alla sua realizzazione, sia oggetto di una verifica delle autorità competenti per determinare se esso debba o meno essere sottoposto a VIA, eventualmente in base a una normativa nazionale sopravvenuta, a condizione che quest’ultima sia compatibile con tale direttiva.
A fronte delle peculiarità del caso di specie, la Corte fornisce poi ulteriori precisazioni. Qualora un progetto di potenziamento di un impianto per la produzione di energia elettrica, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, non sia stato sottoposto a una verifica preliminare di assoggettabilità a VIA ai sensi di disposizioni nazionali successivamente dichiarate incompatibili con la direttiva 2011/92 quanto a tale aspetto, il diritto dell’Unione prescrive che gli Stati membri eliminino le conseguenze illecite di detta violazione e non osta a che tale impianto formi oggetto, dopo la realizzazione di tale progetto, di una nuova procedura di valutazione da parte delle autorità competenti al fine di verificare la conformità ai requisiti di tale direttiva e, eventualmente, di sottoporlo a VIA, purché le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto dell’Unione o di esimersi dall’applicarle.
Occorre altresì tenere conto dell’impatto ambientale intervenuto a partire dalla realizzazione del progetto. Tali autorità nazionali possono considerare, ai sensi delle disposizioni nazionali in vigore alla data in cui esse sono chiamate a pronunciarsi, che una tale VIA risulta necessaria, nei limiti in cui dette disposizioni siano compatibili con la direttiva di cui trattasi.
   III. - A fini di completezza si richiama:
      a) la precedente decisione della Corte di giustizia dell’UE, Sez. I, 26.07.2017, C-196/16 e C-197/16, Comune di Corridonia, su cui cfr. News US 28.02.2018 ai cui approfondimenti si rinvia, secondo la quale “nel caso di omessa valutazione di impatto ambientale di un progetto di impianto per la produzione di energia elettrica da biogas, ottenuto dalla digestione anaerobica di biomasse, le norme di diritto dell'Unione Europea (art. 2 della Direttiva 85/337/CEE, poi sostituito dall'art. 2 della Direttiva 2011/92/UE), da un lato, impongono agli Stati membri di rimuovere le conseguenze illecite derivanti da tale omissione e, dall'altro, non ostano a che tale valutazione venga effettuata a titolo di regolarizzazione dopo la costruzione e la messa in esercizio dell'impianto, purché le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non offrano agli interessati l'occasione di eludere le norme di diritto dell'Unione o di disapplicarle e sempre che la valutazione effettuata a titolo di regolarizzazione non si limiti a valutare le ripercussioni future dell'impianto sull'ambiente, ma prenda in considerazione anche l'impatto ambientale intervenuto a partire dal momento della sua realizzazione”;
      b) Cons. Stato sez. IV, 09.022016, n. 521, secondo cui “il giudizio di compatibilità ambientale può essere rifiutato dall'Amministrazione preposta nel caso in cui le opere oggetto di verifica siano già state iniziate dal soggetto proponente, atteso che il procedimento di Via è un mezzo preventivo di tutela dell'ambiente, che si svolge prima dell'approvazione del progetto e quindi prima della realizzazione dell'opera; ne consegue che una Via postuma all'autorizzazione dell'opera e allo svolgimento dei lavori è illegittima” (Corte giust. comm. ue., sez. VI, sentenza 28.02.2018 n. C‑117/17 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il riserbo sull’identità del whistleblower rileva ai soli fini disciplinari e non penali. Pertanto, una segnalazione anonima di cui sia successivamente reso noto l’autore non osta al compimento di atti di indagine.
La sentenza in epigrafe, che per vero affronta numerose questioni per le quali si rimanda al testo del provvedimento, offre lo spunto per alcune riflessioni sul rapporto tra whistleblowing e processo penale, con specifico riferimento al settore del pubblico impiego.
Segnalava, infatti, il ricorrente una discrasia, in realtà solo apparente, tra la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, garantita dal riserbo delle sue generalità previsto dall’art. 54-bis del D.lgs. 165/2001 come recentemente modificato dalla Legge n. 179/2017, e i principi del processo penale, racchiusi negli artt. 240 e 333 c.p.p., che impongono l’inutilizzabilità ai fini investigativi delle dichiarazioni anonime in ogni forma pervenute all’Autorità giudiziaria (su tali principi, si veda il contributo di G. Morgese, I limiti di utilizzabilità della denuncia “anonima” ai fini investigativi, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 9).
Parrebbe insomma che una segnalazione anonima da parte di un dipendente pubblico non costituisca una vera e propria notitia criminis, e non dia diritto all’Autorità requirente a disporre mezzi di ricerca della prova, quali l’ispezione, la perquisizione, il sequestro probatorio, ovvero –come nel caso di specie– le intercettazioni telefoniche. Conseguentemente, ogni misura investigativa che sia invece adottata, sarebbe inutilizzabile.
In realtà, ragiona la Corte, la doglianza non coglie nel segno. Infatti, il secondo comma dell’art. 54-bis del D.lgs. n. 165/2001 –nella formulazione vigente prima dell’intervenuta novella– è esplicito nel significare che l’anonimato del denunciante –che, in realtà, è solo riserbo sulle generalità, salvo ovviamente il consenso dell’interessato alla loro divulgazione– opera unicamente in ambito disciplinare, essendo peraltro subordinato al fatto che la contestazione “sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione“, giacché, ove detta contestazione si basi, in tutto o in parte, sulla segnalazione stessa, “l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato“: ne consegue –né potrebbe essere diversamente– che, in caso di utilizzo della segnalazione in ambito penale, non vi è alcuno spazio per l’anonimato –rectius: per il riserbo sulle generalità– in tal senso essendo altresì significativa l’espressa salvezza delle ordinarie previsioni di legge operata dal comma 1 della succitata norma, per il caso che la denuncia integri gli estremi dei reati di calunnia o diffamazione, ovvero ancora sia fonte di responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 di quel codice.
Il che trova ancor più tangibile riscontro nella recentissima modifica del detto art. 54-bis di cui alla legge 30.11.2017 n. 179 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14.12.2017), ove, con disciplina più puntuale, coerentemente alla perseguita finalità di apprestare un’efficace tutela del dipendente pubblico che riveli illeciti, è precisato espressamente che, “nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale”.
In buona sostanza, l’anonimato teso a proteggere il whistleblower ha rilievo unicamente interno all’azienda, quando si tratti di instaurare un procedimento ed applicare sanzioni disciplinari al dipendente oggetto della segnalazione. Diversamente, qualora il fatto denunciato costituisca reato e sia portato a conoscenza della competente Procura della Repubblica, sono salvi e applicabili i principi del segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., che evidentemente è opposto solo all’esterno e non all’interno della Procura e che comunque cessa alla conclusione delle indagini, nonché le regole più sopra citate in tema di inutilizzabilità di dichiarazioni anonime e di atti di indagine che su di esse si fondino.
Concludendo, qualora un esposto alla Procura da parte di un whistleblower sia anonimo, esso non costituisce notitia criminis e non può dare avvio ad indagini penali. Tuttavia, la legge su whistleblowing, come recentemente modificata, non impone che una tale segnalazione all’Autorità giudiziaria sia anonima (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 27.02.2018 n. 9047 - commento tratto da
www.giurisprudenzapenale.com).
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MASSIMA
1. Il proposto ricorso deve essere disatteso, alla stregua delle considerazioni che seguono.
2. Va innanzi tutto rigettata l'eccezione d'inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni in atti, in ordine alla quale è appena il caso di osservare che essa va ricondotta innanzi tutto alla lettera c) dell'art. 606 cod. proc. pen.
2.1 In relazione al requisito della gravità indiziaria, del tutto correttamente il Tribunale napoletano ha valutato l'esposto interno al Reparto servizi di pubblicità immobiliare dell'Agenzia del Territorio di Santa Maria Capua Vetere -il cui autore è stato individuato nel dipendente Ro.BE. e che il g.i.p. ha considerato alla stregua di un anonimo, salvo di fatto recuperarne il contenuto attraverso la nota della Direzione Centrale Audit dell'Agenzia delle Entrate di cui infra e la successiva informativa di p.g.- come pienamente utilizzabile ai fini dell'integrazione del requisito medesimo, poiché estraneo alla sfera di operatività del pur invocato art. 203 dello stesso codice. 
Ciò in quanto -come leggesi nel provvedimento impugnato-
il c.d. "canale del whistleblowing", deputato alla segnalazione all'ufficio del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) di possibili violazioni commesse da colleghi e di cui si è avvalso il detto BE., realizza "un sistema che garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il dipendente che utilizza una casella di posta elettronica interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi individuabile seppure protetto".
D'altro canto, la lettura della norma dettata dall'art. 54-bis del d.l.vo 30.03.2001 n. 165 -nella formulazione vigente all'epoca dei fatti- offre puntuale conferma dell'esattezza dell'impostazione seguita dai giudici napoletani, atteso che il secondo comma dell'articolo in questione è esplicito nel significare che
l'anonimato del denunciante -che, in realtà, è solo riserbo sulle generalità, salvo ovviamente il consenso dell'interessato alla loro divulgazione- opera unicamente in ambito disciplinare, essendo peraltro subordinato al fatto che la contestazione "sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione", giacché, ove detta contestazione si basi, in tutto o in parte, sulla segnalazione stessa, "l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato": ne consegue -né potrebbe essere diversamente- che, in caso di utilizzo della segnalazione in ambito penale, non vi è alcuno spazio per l'anonimato -rectius: per il riserbo sulle generalità- in tal senso essendo altresì significativa l'espressa salvezza delle ordinarie previsioni di legge operata dal comma 1 della succitata norma, per il caso che la denuncia integri gli estremi dei reati di calunnia o diffamazione, ovvero ancora sia fonte di responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 di quel codice.
Il che trova ancor più tangibile riscontro nella recentissima modifica del detto art. 54-bis di cui alla legge 30.11.2017 n. 179 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14.12.2017), ove, con disciplina più puntuale, coerentemente alla perseguita finalità di apprestare un'efficace tutela del dipendente pubblico che riveli illeciti, è precisato espressamente che, "
Nell'ambito del procedimento penale, l'identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall'articolo 329 del codice di procedura penale".
La prospettazione difensiva va, dunque, senz'altro disattesa, per l'effetto risultando irrilevanti i copiosi richiami alla condivisibile giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, in tema di anonimato.
2.2 Non ha alcun pregio neppure l'eccezione comunque mossa in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di reità.
Alla stregua di quanto appena sopra rilevato, va innanzi tutto ribadito che, al di là di quanto opinato dallo stesso g.i.p., il contenuto delle rivelazioni del "whistleblower" circa le compravendite di visure immobiliari in uso nell'ufficio di Santa Maria Capua Vetere, quale trasfuso nella segnalazione 16.09.2015 inviata dalla Direzione Centrale Audit dell'Agenzia delle Entrate cui fa riferimento il contestato decreto del 07.11.2015, non costituisce mero spunto investigativo, bensì assurge al rango di vera e propria dichiarazione accusatoria, cui si sommano le (valorizzate) risultanze degli accertamenti compiuti dalla detta Direzione Centrale Audit, aventi valenza di riscontro nei confronti dei dipendenti Gr.CA. e Ra.GA., ossia giusto dell'odierno ricorrente e di altro addetto al suo stesso reparto, a carico dei quali veniva rilevato un numero assolutamente abnorme di visure richieste per uso ufficio o in esenzione di pagamento nei mesi immediatamente precedenti (CA.), ovvero un numero comunque inopinatamente elevato di tali visure (GA.).
Per finire con le inequivoche indicazioni tratte dalla pure richiamata informativa del 27.10.2015, in cui si dà conto, sulla scorta di pregresse intercettazioni ambientali debitamente autorizzate, della condotta illecita tenuta dal CA., che si appropriava, inserendola nel proprio portafoglio, della banconota consegnatagli da ignote terze persone, dopo aver eseguito alla loro presenza una visura uso ufficio ed aver consegnato la relativa stampa, a probante conferma della generale veridicità della segnalazione eseguita, prima, dal "whistleblower", e, poi, dalla Direzione Centrale Audit.
Da ultimo, va inoltre debitamente evidenziato che, per insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, "
In tema di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, il presupposto della sussistenza dei gravi indizi di reato, non va inteso in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell'accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche" (così, da ultimo, Sez. 3, sent. n. 14954 del 02.12.2014 - dep. 13.04.2015, Rv. 263044; conf. Sez. 6, sent. n. 10902 del 26.02.2010, Rv. 246688): ciò che, alla stregua di quanto precede, non può essere seriamente posto in discussione nella presente fattispecie.
...
4. Quanto, poi, alla tematica sollevata in tema di qualificazione giuridica dei fatti, è agevole rilevare, in via preliminare, che la prospettazione difensiva si basa su di un gratuito frazionamento della condotta posta in essere dal CA., tesa ad isolare indebitamente l'innegabile potere di rilascio delle certificazioni, esistente in capo allo stesso in ragione delle mansioni svolte all'interno dell'ufficio di cui era capo reparto, dalla preordinata violazione di tutta la normativa inerente alla legittima richiesta di atti da parte dell'utenza, così al contempo mercificando, di concerto con il singolo privato, le proprie funzioni (badando altresì di non lasciare, ovvero di limitare le tracce del proprio comportamento) e frodando l'Amministrazione statale, privata dell'incasso dei tributi ad essa spettanti.
4.1 Non ha dunque alcun pregio la pretesa di ricondurre i fatti ascritti nell'alveo della figura di reato disciplinata dall'art. 318 cod. pen., per giurisprudenza consolidata destinata a venir meno -così come il Tribunale non ha mancato opportunamente di richiamare- in presenza di un atto contrario ai doveri d'ufficio (cfr. di recente, peraltro con riferimento all'ipotesi, diversa dal caso di specie, di atti formalmente legittimi, ma frutto dell'asservimento della discrezionalità del p.u. agli interessi del terzo, Sez. 6, sent. n. 46492 del 15.09.2017, Rv. 271383, nonché Sez. 6, sent. n. 40237 del 07.07.2016, Rv. 267634, con riguardo all'ipotesi dello stabile asservimento del p.u. in cui s'inseriscano, appunto, atti contrari ai doveri d'ufficio).
Essendo appena il caso di aggiungere che quanto precede comporta l'automatico superamento del connesso assunto della irrilevanza penale delle condotte oggetto di contestazione provvisoria al CA., per via della dedotta modestia delle singole dazioni di denaro, che nulla hanno a che vedere con le regalie d'uso disciplinate dall'art. 4 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a cui la difesa vorrebbe ricondurle.
4.2 Allo stesso modo, è senza meno destituita di fondamento la tesi difensiva della qualificazione -s'intende esclusiva- dei fatti medesimi in termini di truffa aggravata, atteso che la giurisprudenza di questa Corte, con ripetute pronunce anche assai risalenti nel tempo ma sempre valide, ha avuto modo di affermare che "
È configurabile il concorso materiale tra il reato di corruzione ed il reato di truffa in danno dello Stato in quanto l'accordo corruttivo non può integrare l'induzione in errore nei confronti del pubblico ufficiale che partecipa all'accordo, ma può ben indurre in errore gli altri funzionari dell'ente pubblico ed in particolare gli organi di controllo" (così Sez. 1, sent. n. 10371 dell'08.07.1995, Rv. 202738; ma v. già, in senso conforme, Sez. 3, sent. n. 8116 del 25.06.1984, Rv. 165961 e, prima ancora, Sez. 6, sent. n. 851 del 15.10.1971, Rv. 119544 e n. 104 del 29.01.1971, Rv. 117478).
Il che comporta l'ovvia inconsistenza dell'ulteriore obiezione per cui i capi da 6) a 10) e 14), appunto per truffa aggravata, sarebbero la "riscrittura di una parte della condotta di cui ai capi da 1) a 5)" -in realtà, tanto vale per i capi da 6) a 9), con riferimento a quelli da 1) a 4)- in violazione del principio del ne bis in idem.
Trattandosi di violazione di legge, in entrambi i casi, si ribadisce essere irrilevante che il Tribunale abbia omesso di motivare sul punto, stante l'inconsistenza della tesi difensiva.

PUBBLICO IMPIEGOPicconata al whistleblowing. Rivelabile in sede disciplinare il nome di chi denuncia. Cassazione: se la segnalazione ha un impatto penale l'anonimato è da escludere.
Una picconata al whistleblowing. Ben può essere rivelata anche in sede disciplinare l'identità del dipendente pubblico che denuncia, senza esporsi pubblicamente, il collega al responsabile per la prevenzione della corruzione dell'amministrazione. La condizione è che sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato conoscere il nome di chi lo accusa. E se la segnalazione viene utilizzata in senso penale «non vi è alcuno spazio per l'anonimato», a maggior ragione dopo che la legge 179/2017 ha modificato il testo unico del pubblico impiego.

È quanto emerge dalla sentenza 27.02.2018 n. 9041 dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione, che offre chiarimenti in materia civilistica e lavoristica.
Accertamenti ulteriori
Nella specie il whistleblower utilizza la casella di posta elettronica interna per segnalare l'abuso all'ufficio anticorruzione Rpc e non ha bisogno di firmarsi: utilizza tuttavia le sue credenziali e dunque ben può essere individuato, sebbene debba essere protetto dal rischio di ritorsioni. E in effetti durante il procedimento penale il nome dell'accusatore salta fuori.
«Né potrebbe essere diversamente», puntualizzano gli Ermellini. Il riserbo sull'identità del whistleblower nel pubblico impiego opera soltanto in ambito disciplinare e risulta pure subordinato al fatto che la contestazione «sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione» (c'è anche l'ipotesi in cui l'interessato dia il consenso alla divulgazione delle proprie generalità).
Limiti al segreto
In sede penale la trasparenza è assicurata dal richiamo contenuto al primo comma dell'articolo 54-bis del decreto legislativo 165/2001 che fa «espressa salvezza» delle ordinarie previsioni di legge per il caso che la denuncia integri gli estremi dei reati di calunnia o diffamazione oppure sia fonte di responsabilità civile ex articolo 2043 Cc. Specialmente dopo la legge 179/2017, secondo cui nel procedimento penale l'identità del segnalante «è coperta dal segreto dei modi e nei limiti ex articolo 329 Cpp».
Dichiarazione accusatoria
Resta ai domiciliari, nella specie, il dipendente dell'ex Catasto indagato per truffa aggravata, falso ideologico e corruzione in atti d'ufficio: secondo l'accusa alcuni impiegati intascano soldi dagli utenti per le visure immobiliari evitando loro il pagamento dei diritti perché gli accessi sono fatti figurare come operazioni esenti o d'ufficio.
E in questo caso il contenuto delle rivelazioni fatte dal whistleblower trasfuse nella segnalazione inviate all'audit delle Entrate costituisce non mero spunto investigativo ma assurge al rango di vera e propria dichiarazione accusatoria
(articolo ItaliaOggi del 28.02.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
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Con particolare riferimento alla tettoia, invero, la stessa è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, solo nella misura in cui realizzi "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", mentre è subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove, come nel caso in esame, comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui accede.
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5.2. L’appello è infondato.
5.3. Secondo quanto accertato nel corso del sopralluogo del 21.07.2006 (accertamento che ha dato luogo alla impugnata ordinanza), "sul terrazzino prospiciente il prospetto Nord dell'immobile di proprietà Giordano-Tremante è stato realizzato, in assenza di titoli abilitanti, un manufatto tipo tettoia aperta con struttura metallica poggiante anteriormente su piastrini rivestiti in legno e posteriormente fissata nella muratura del fabbricato, controsoffittata all'intradosso e coperta da lamiere coibentate, conformate a manto di tegole rosse. Tale manufatto all'intradosso ha altezza massima dal pavimento di metri 2,30 circa misurata in corrispondenza del fabbricato ed altezza minima di metri 2,12 misurata in prossimità della ringhiera di delimitazione del terrazzino. Esso è posto a copertura di un preesistente terrazzo pavimentato che costituisce la copertura dell'ambiente ubicato al livello sottostante".
5.4. Al contempo, dalla documentazione prodotta in primo grado, risulta che la tettoia in esame, per di più realizzando di fatto una chiusura del terrazzino sul quale è ubicata, è tale da determinare un incremento di volumetria ovvero, ad ogni modo, un’alterazione della sagoma dell’edificio.
5.5. Al riguardo, il Collegio ritiene di condividere il principio di diritto costantemente richiamato nella giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; 16.02.2017, n. 694), secondo cui, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Va peraltro condiviso il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Con particolare riferimento alla tettoia, invero, la stessa è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, solo nella misura in cui realizzi "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", mentre è subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove, come nel caso in esame, comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui accede (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.02.2018 n. 1156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Com’è noto, l’art. 3, comma 1, lett. c), del d.p.r. del 06.06.2001 n. 380, definisce il “restauro e risanamento conservativo” come l’insieme degli «interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio».
Tale categoria di intervento ha la precipua funzione di conservare un immobile esistente –seppur consolidandone, ripristinandone o rinnovandone elementi costitutivi– e per ciò stesso si differenzia dalla ristrutturazione edilizia, volta invece alla trasformazione dell’edificio.
Proprio in ragione della suddetta funzione conservativa, la giurisprudenza ha ripetutamente escluso che, nell’ambito del risanamento conservativo, possano essere realizzati nuovi volumi, anche di modesta entità.
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Il presupposto imprescindibile per ricondurre al risanamento conservativo gli interventi eseguiti sul sottotetto ed involgenti la copertura dell’immobile è il mantenimento della quota d’imposta della copertura stessa.
Ne deriva che, nel caso di specie (in cui la suddetta quota è stata variata in aumento per statuizione incontroversa tra le parti), le modifiche apportate all’immobile non rientrano nella definizione di risanamento conservativo dettata dallo strumento urbanistico vigente all’epoca dell’abuso e pertanto manca un presupposto imprescindibile (la conformità urbanistica dell’intervento rispetto alla normativa dell’epoca di realizzazione) per l’assentimento della sanatoria richiesta, dal che discende la legittimità del diniego di accertamento di conformità e del contestuale ordine di demolizione.
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12.2 - Fermo quanto sopra, si osserva che –secondo l’art. 20 delle NTA del R.U. vigente all’epoca degli interventi– «sono edifici di classe 3 gli edifici con rilevanti caratteri tipologici o che si configurano come "Punti Nodali" dei tessuti storici e consolidati della città e dei centri minori, coevi ed omogenei ai centri stessi».
La norma precisa che su tali edifici sono consentiti «gli interventi finalizzati al recupero del patrimonio edilizio esistente fino al risanamento conservativo di cui all'art. 6 punto 6.3, con le limitazioni previste all'art. 5, punto 5.2 relativo alla manutenzione straordinaria».
Ebbene, com’è noto, l’art. 3, comma 1, lett. c), del d.p.r. del 06.06.2001 n. 380, definisce il “restauro e risanamento conservativo” come l’insieme degli «interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio».
Tale categoria di intervento ha la precipua funzione di conservare un immobile esistente –seppur consolidandone, ripristinandone o rinnovandone elementi costitutivi– e per ciò stesso si differenzia dalla ristrutturazione edilizia, volta invece alla trasformazione dell’edificio (Cons. Stato, Sez. VI, 04.082016, n. 3532).
Proprio in ragione della suddetta funzione conservativa, la giurisprudenza ha ripetutamente escluso che, nell’ambito del risanamento conservativo, possano essere realizzati nuovi volumi, anche di modesta entità (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2016, n. 554).
Orbene, come evidenziato in narrativa, l’intervento realizzato dalla signora Tr. sull’immobile situato in viale ... 111 ha comportato l’innalzamento di una falda del tetto in modo da pareggiarne la quota d’imposta rispetto a quella delle altre due falde, con conseguente aumento volumetrico. Dal che deriva che le opere oggetto della domanda di sanatoria del 12.10.2012 non sono qualificabili come intervento di restauro e risanamento conservativo, avendo prodotto un aumento volumetrico e perciò ecceduto i limiti entro cui tale intervento è confinato dalla sopra citate norme.
Tali conclusioni sono viepiù confermate dalla disciplina contenuta nel Regolamento Urbanistico del Comune di Firenze vigente all’epoca della realizzazione degli abusi, il cui art. 6.3.2, lett. h), se da un lato ricomprende nella nozione di restauro e risanamento conservativo «la utilizzazione di spazi sottotetto esistenti, anche con consolidamento e/o sostituzione delle strutture orizzontali, con tecnologie conformi alle caratteristiche storico-architettoniche dell'organismo edilizio», d’altro lato precisa che tali interventi sono consentiti «ferma restando la quota di imposta delle medesime».
In altri termini, secondo tale norma il presupposto imprescindibile per ricondurre al risanamento conservativo gli interventi eseguiti sul sottotetto ed involgenti la copertura dell’immobile è il mantenimento della quota d’imposta della copertura stessa (TAR Toscana, Sez. III, 28.04.2015, n. 670).
Ne deriva che, nel caso di specie (in cui la suddetta quota è stata variata in aumento per statuizione incontroversa tra le parti), le modifiche apportate all’immobile non rientrano nella definizione di risanamento conservativo dettata dallo strumento urbanistico vigente all’epoca dell’abuso e pertanto manca un presupposto imprescindibile (la conformità urbanistica dell’intervento rispetto alla normativa dell’epoca di realizzazione) per l’assentimento della sanatoria richiesta dalla signora Tr., dal che discende la legittimità del diniego di accertamento di conformità e del contestuale ordine di demolizione di cui al provvedimento n. 2037/2014, nonché della consequenziale ordinanza 67/2016 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.02.2018 n. 314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico, quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato tra gli interventi di tipo oneroso.
Nella specie è stato posto in essere una modifica della destinazione d’uso degli immobili da artigianale a commerciale ed è passaggio urbanisticamente significativo, stante il maggiore carico urbanistico determinato dalla destinazione commerciale rispetto a quella artigianale (come si ricava dall’art. 5 del DM 1444 del 1968).
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1 - Con il ricorso introduttivo del giudizio la Società La Ni. s.r.l. espone di aver proceduto ad effettuare cambio di destinazione d’uso, senza opere, su locali di sua proprietà posti in San Giuliano Terme, trasformati da artigianali a commerciali e contesta la nota comunale del 29.01.2001, prot. n. 5041, con la quale l’Amministrazione comunale le chiede il pagamento degli oneri di urbanizzazione, non dovuti in assenza di piano di localizzazione o distribuzione delle funzioni, come da circolare della Giunta Regionale n. 767 del 2000, chiedendo l’accertamento della non debenza e la ripetizione di quanto medio tempore pagato.
2 - A sostegno della sua pretesa parte ricorrente articola due motivi di ricorso:
   - il cambio di destinazione d’uso meramente funzionale costituisce attività libera e gratuita, salvo diversa previsione della legge regionale e adozione di specifici strumenti comunali attuativi della stessa, ex art. 25 delle legge n. 47 del 1985; nella specie manca il necessario piano di distribuzione e localizzazione delle funzioni, solo in presenza del quale è prevista la onerosità del mutamento di destinazione meramente funzionale;
   - manca una adeguata motivazione della pretesa, non facendosi menzione della adozione degli strumenti urbanistici attuativi previsti dalla legge.
3 - Il Comune di San Giuliano Terme si è costituito in giudizio per resistere al ricorso.
4 – Il ricorso è infondato.
La Sezione ha già affermato che il mutamento di destinazione d’uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico, quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato tra gli interventi di tipo oneroso (in tal senso le sentenze: 938/2017, 132/2017, 1387/2015). Nella specie è stato posto in essere una modifica della destinazione d’uso degli immobili da artigianale a commerciale ed è passaggio urbanisticamente significativo, stante il maggiore carico urbanistico determinato dalla destinazione commerciale rispetto a quella artigianale (come si ricava dall’art. 5 del DM 1444 del 1968).
Alla luce di tale inquadramento, le censure formulate risultano infondate, la onerosità del cambio di destinazione funzionale, alle condizioni dette, non presupponendo l’adozione degli atti urbanistici richiamati da parte ricorrente.
5 – Il ricorso deve quindi essere respinto, con spese a carico di parte ricorrente, liquidate come da dispositivo (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.02.2018 n. 309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nello speciale procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di un permesso di costruire in deroga al PRGC, così come delineato dal combinato disposto degli artt. 5 comma 9 del D.L. n. 70 del 2011 e 14 del D.P.R. n. 380 del 2001, il parere del consiglio comunale è atto meramente endoprocedimentale, e come tale impugnabile unitamente al provvedimento conclusivo, costituito dalla determinazione dirigenziale di rilascio o -come nel caso di specie- di diniego del permesso di costruire.
E benché si tratti di un parere obbligatorio e vincolante, e quindi idoneo, ove negativo, a determinare un arresto procedimentale e quindi una lesione immediata della sfera giuridica dell’interessato, ciò, tuttavia, può comportare esclusivamente la facoltà per quest’ultimo di impugnarlo direttamente senza attendere il provvedimento conclusivo, ma non certamente l’obbligo di farlo a pena di decadenza, al punto di precludergli la successiva impugnazione congiunta del diniego conclusivo e del presupposto parere consiliare, secondo principi generali.
Tanto più che nel caso di specie al parere del consiglio comunale ha fatto seguito un’ulteriore fase procedimentale con la comunicazione alle proponenti del preavviso di diniego da parte del responsabile del procedimento, l’acquisizione delle osservazioni presentate da queste ultime, e infine, il diniego conclusivo del dirigente del Settore Urbanistica contenente una articolata confutazione delle deduzioni delle interessate.

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12. L’eccezione preliminare formulata dalla difesa dell’amministrazione è infondata.
Nello speciale procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di un permesso di costruire in deroga al PRGC, così come delineato dal combinato disposto degli artt. 5 comma 9 del D.L. n. 70 del 2011 e 14 del D.P.R. n. 380 del 2001, il parere del consiglio comunale è atto meramente endoprocedimentale, e come tale impugnabile unitamente al provvedimento conclusivo, costituito dalla determinazione dirigenziale di rilascio o -come nel caso di specie- di diniego del permesso di costruire; e benché si tratti di un parere obbligatorio e vincolante, e quindi idoneo, ove negativo, a determinare un arresto procedimentale e quindi una lesione immediata della sfera giuridica dell’interessato, ciò, tuttavia, può comportare esclusivamente la facoltà per quest’ultimo di impugnarlo direttamente senza attendere il provvedimento conclusivo, ma non certamente l’obbligo di farlo a pena di decadenza, al punto di precludergli la successiva impugnazione congiunta del diniego conclusivo e del presupposto parere consiliare, secondo principi generali.
Tanto più che nel caso di specie al parere del consiglio comunale ha fatto seguito un’ulteriore fase procedimentale con la comunicazione alle proponenti del preavviso di diniego da parte del responsabile del procedimento, l’acquisizione delle osservazioni presentate da queste ultime, e infine, il diniego conclusivo del dirigente del Settore Urbanistica contenente una articolata confutazione delle deduzioni delle interessate.
L’eccezione va quindi respinta (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula, non soltanto l’avvenuta presentazione dell’istanza e il decorso del termine di conclusione del procedimento normativamente previsto, ma pure che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti previsti per il suo accoglimento, e, in particolare, che essa sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti.
Da tale principio consegue che l’operatività dell’istituto del silenzio-assenso nella materia edilizia deve ritenersi confinata all’ipotesi in cui la richiesta del privato abbia ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire “ordinario”, in relazione al quale l’amministrazione si limita a verificare la conformità del progetto edilizio alla normativa di settore e alla strumentazione urbanistica vigente, attraverso un’attività sostanzialmente vincolata nei propri contenuti, avendo l’amministrazione già esaurito la propria discrezionalità in sede pianificatoria, all’atto di redigere lo strumento urbanistico.
Per contro, l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia non è applicabile alla diversa fattispecie della richiesta di rilascio di un permesso di costruire “in deroga al vigente PRGC” di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011, dal momento che in tal caso l’amministrazione, lungi dal limitarsi a verificare la mera conformità del progetto edilizio allo strumento urbanistico vigente, è tenuta a valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità, se sussistano i presupposti di interesse pubblico per modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al rilascio di un permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto del silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica.
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Non ha pregio l’argomento sviluppato secondo cui a seguito della L. n. 125 del 2015 (cosiddetta Legge “Madia”) non vi sarebbe più una diretta correlazione tra silenzio-assenso e carattere vincolato dei provvedimenti amministrativi in materia edilizia, dal momento che la novella legislativa avrebbe esteso l’applicabilità dell’istituto a tutti i provvedimenti di carattere tecnico-discrezionale, salvo il caso in cui sussistano vincoli a tutela di interessi pubblici sensibili, nel caso di specie insussistenti.
L’argomento è infondato dal momento che la novella legislativa di cui alla L. n. 125 del 2015, pur avendo ampliato l’applicabilità dell’istituto della SCIA e del silenzio-assenso in materia edilizia, ha disciplinato unicamente il procedimento generale di rilascio dei titoli edilizi “ordinari”, riferiti a progetti conformi alla strumentazione urbanistica vigente, laddove nel caso dei permessi di costruire “in deroga” alla vigente strumentazione urbanistica l’amministrazione è chiamata a svolgere valutazioni innovative di carattere latamente politico in ordine all’opportunità, o meno, di modificare la pianificazione urbanistica nella prospettiva di razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e di riqualificare aree urbane degradate: valutazioni connotate da amplissima discrezionalità e che nessuna norma consente di pretermettere sul solo presupposto del tempo trascorso dalla data di presentazione dell’istanza del privato.
D’altra parte, il parere del consiglio comunale previsto dall’art. 14 del D.P.R. n. 380 del 2011 (norma richiamata dall’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011) non è soggetto a termini predeterminati, considerata l’ampiezza delle valutazioni di merito affidate all’organo consiliare, così come non è soggetto a termini predeterminati il procedimento di adozione e di approvazione dello strumento urbanistico generale e delle sue successive varianti.
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi osservando che “né l’art. 5 del D.L. n. 70/2011 né l’art. 14 del D.P.R. n. 380/2001 stabiliscono il termine entro cui il consiglio comunale deve provvedere a rendere il parere di sua competenza, il quale costituisce non l’atto conclusivo ma un atto interno, benché essenziale, del procedimento amministrativo delineato dalle predette due norme. Considerata la peculiarità e l’oggettiva complessità delle valutazioni demandate al consiglio comunale nella fattispecie procedimentale di cui si discute, valutazioni che assumono un carattere pianificatorio nella misura in cui possono determinare deroghe più o meno estese alla vigente strumentazione urbanistica, ritiene il collegio che non sia ragionevolmente applicabile a tale fase procedimentale né il termine speciale di 90 giorni previsto dal D.P.R. n. 380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, né quello residuale di 30 giorni previsto dalla disciplina generale del procedimento amministrativo (art. 2 L. 241/1990)".
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La giurisprudenza è concorde nell’affermare che il permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del consiglio comunale.
In tale procedimento il consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo, che assume peraltro rilievo pubblicistico nella misura in cui è volto a razionalizzare o a riqualificare aree urbane degradate.
La decisione che ne scaturisce è espressione di discrezionalità molto lata sulla quale il sindacato del giudice deve mantenersi esterno e limitato a vizi sintomatici manifesti, quali l’illogicità o il travisamento del fatto, e non sostitutivo di valutazioni ontologicamente opinabili.
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La presenza, all’interno di un contesto urbanizzato, di un’area a verde con alcune serre dismesse, non pare elemento sufficiente per ritenere sussistente il presupposto cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2001, e cioè l’esistenza di un’”area urbana degradata”, tanto più alla luce delle linee politiche espresse dalla nuova amministrazione comunale, preordinate alla conservazione delle aree a verde e alla riduzione dello sfruttamento edilizio del suolo (così a pag. 4 della delibera consiliare impugnata: “La riduzione del consumo di suolo privilegerà la tutela delle aree di maggior valore (agricolo, ambientale, paesaggistico), ma sarà comunque un processo ragionato che intende garantire in primis la permanenza sul territorio di attività produttive anche qualora esse volessero ampliarsi per esigenze diverse”).
In tale contesto programmatico, il mantenimento di un’area a verde all’interno di un contesto edificato non pare costituire un elemento “dissonante”, sintomo di “degrado funzionale” dell’area.
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13. Nel merito, peraltro, il ricorso è infondato sotto tutti i profili dedotti.
13.1. Con il primo motivo, le ricorrenti hanno dedotto l’intervenuta formazione del silenzio-assenso sulla propria istanza del 23.06.2015, ai sensi dell’art. 20 del D.P.R. n. 380 del 2001, essendo decorsi quasi ventuno mesi tra la data di presentazione della domanda e il provvedimento conclusivo di diniego, più del triplo di quello massimo di 180 giorni previsto dalla norma citata; né il predetto termine sarebbe stato interrotto dalle plurime richieste di integrazione documentale dell’amministrazione, dal momento che ciò sarebbe potuto avvenire una volta soltanto nel corso dell’intero procedimento amministrativo; secondo le ricorrenti, l’istituto del silenzio-assenso sarebbe inapplicabile soltanto nei casi in cui il sito oggetto del progetto edificatorio sia assoggettato a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso di specie insussistenti.
La censura, osserva il collegio, non può essere condivisa
Secondo noti principi, la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula, non soltanto l’avvenuta presentazione dell’istanza e il decorso del termine di conclusione del procedimento normativamente previsto, ma pure che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti previsti per il suo accoglimento, e, in particolare, che essa sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti (da ultimo, TAR Piemonte, II, 03.01.2018, n. 12).
Da tale principio consegue che l’operatività dell’istituto del silenzio-assenso nella materia edilizia deve ritenersi confinata all’ipotesi in cui la richiesta del privato abbia ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire “ordinario”, in relazione al quale l’amministrazione si limita a verificare la conformità del progetto edilizio alla normativa di settore e alla strumentazione urbanistica vigente, attraverso un’attività sostanzialmente vincolata nei propri contenuti, avendo l’amministrazione già esaurito la propria discrezionalità in sede pianificatoria, all’atto di redigere lo strumento urbanistico.
Per contro, l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia non è applicabile alla diversa fattispecie della richiesta di rilascio di un permesso di costruire “in deroga al vigente PRGC” di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011, dal momento che in tal caso l’amministrazione, lungi dal limitarsi a verificare la mera conformità del progetto edilizio allo strumento urbanistico vigente, è tenuta a valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità, se sussistano i presupposti di interesse pubblico per modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al rilascio di un permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto del silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica (in tal senso, su fattispecie analoghe, Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3680; TAR Pescara, I, 11.12.2017, n. 352).
Né ha pregio l’argomento sviluppato -per la prima volta, peraltro– dalla difesa di parte ricorrente nella memoria conclusiva depositata in prossimità dell’udienza di merito, secondo cui a seguito della L. n. 125 del 2015 (cosiddetta Legge “Madia”) non vi sarebbe più una diretta correlazione tra silenzio-assenso e carattere vincolato dei provvedimenti amministrativi in materia edilizia, dal momento che la novella legislativa avrebbe esteso l’applicabilità dell’istituto a tutti i provvedimenti di carattere tecnico-discrezionale, salvo il caso in cui sussistano vincoli a tutela di interessi pubblici sensibili, nel caso di specie insussistenti.
L’argomento, osserva il collegio, è infondato dal momento che la novella legislativa di cui alla L. n. 125 del 2015, pur avendo ampliato l’applicabilità dell’istituto della SCIA e del silenzio-assenso in materia edilizia, ha disciplinato unicamente il procedimento generale di rilascio dei titoli edilizi “ordinari”, riferiti a progetti conformi alla strumentazione urbanistica vigente, laddove nel caso dei permessi di costruire “in deroga” alla vigente strumentazione urbanistica l’amministrazione è chiamata a svolgere valutazioni innovative di carattere latamente politico in ordine all’opportunità, o meno, di modificare la pianificazione urbanistica nella prospettiva di razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e di riqualificare aree urbane degradate: valutazioni connotate da amplissima discrezionalità e che nessuna norma consente di pretermettere sul solo presupposto del tempo trascorso dalla data di presentazione dell’istanza del privato.
D’altra parte, il parere del consiglio comunale previsto dall’art. 14 del D.P.R. n. 380 del 2011 (norma richiamata dall’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011) non è soggetto a termini predeterminati, considerata l’ampiezza delle valutazioni di merito affidate all’organo consiliare, così come non è soggetto a termini predeterminati il procedimento di adozione e di approvazione dello strumento urbanistico generale e delle sue successive varianti.
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi nella sentenza n. 286 del 27.02.2017, osservando che “né l’art. 5 del D.L. n. 70/2011 né l’art. 14 del D.P.R. n. 380/2001 stabiliscono il termine entro cui il consiglio comunale deve provvedere a rendere il parere di sua competenza, il quale costituisce non l’atto conclusivo ma un atto interno, benché essenziale, del procedimento amministrativo delineato dalle predette due norme (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 29.01.2016 n. 91). Considerata la peculiarità e l’oggettiva complessità delle valutazioni demandate al consiglio comunale nella fattispecie procedimentale di cui si discute, valutazioni che assumono un carattere pianificatorio nella misura in cui possono determinare deroghe più o meno estese alla vigente strumentazione urbanistica, ritiene il collegio che non sia ragionevolmente applicabile a tale fase procedimentale né il termine speciale di 90 giorni previsto dal D.P.R. n. 380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, né quello residuale di 30 giorni previsto dalla disciplina generale del procedimento amministrativo (art. 2 L. 241/1990)”.
In tale contesto, eventuali ritardi o inerzie ingiustificate dell’amministrazione restano azionabili dall’interessato attraverso lo strumento processuale di cui all’art. 117 c.p.a., che consente al giudice di valutare la fattispecie sottoposta al suo esame secondo canoni di equità e di proporzionalità, tenendo conto da un lato della complessità delle valutazioni demandate all’organo consiliare e dall’altro dei doveri di correttezza e di buona amministrazione che incombono sulla parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione.
Nel caso di specie, il parere sfavorevole del consiglio comunale è stato formulato a distanza di circa un anno e mezzo dalla presentazione dell’istanza delle proponenti: termine durante il quale non sembra al collegio che l’amministrazione abbia mantenuto un atteggiamento inerte, tenuto conto delle ripetute richieste di integrazioni documentali intervenute in conferenza dei servizi, della complessità delle valutazioni demandate al consiglio, e, infine, del mutamento intercorso nella rappresentanza politica dell’amministrazione a seguito delle elezioni amministrative del giugno 2016.
Alla luce di tali considerazioni, la censura in esame va quindi disattesa.
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13.3. Con il terzo motivo, le ricorrenti hanno dedotto vizi di eccesso di potere per contraddittorietà, carenza di motivazione e sviamento di potere: la decisione del consiglio comunale di ribaltare completamente le articolate considerazioni formulate dagli uffici tecnici dell’amministrazione nella prima bozza di delibera consiliare, favorevole all’istanza, non sarebbe stata in alcun modo motivata e sarebbe dipesa unicamente dalla volontà politica del nuovo assessore e dei consiglieri di maggioranza di disapplicare la legge n. 106 del 2011 nel Comune di Pinerolo; la nuova delibera consiliare sarebbe dipesa unicamente dall’indirizzo politico-ideologico della nuova amministrazione, pregiudizialmente contrario all’intervento edilizio.
Anche tale censura, osserva il collegio, non può essere condivisa.
La giurisprudenza è concorde nell’affermare che il permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del consiglio comunale (TAR Napoli, Sez. VII, 22.06.2016, n. 3180; TAR Catania, sez. II, 15.12.2015, n. 2890); in tale procedimento il consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo, che assume peraltro rilievo pubblicistico nella misura in cui è volto a razionalizzare o a riqualificare aree urbane degradate (TAR Torino, II, 29.01.2016, n. 91); la decisione che ne scaturisce è espressione di discrezionalità molto lata sulla quale il sindacato del giudice deve mantenersi esterno e limitato a vizi sintomatici manifesti, quali l’illogicità o il travisamento del fatto, e non sostitutivo di valutazioni ontologicamente opinabili (TAR Pescara, se. I, 11.12.2017, n. 351).
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare impugnata è stata affidata ad una motivazione articolata e diffusa, che non appare intaccata da percepibili profili di illogicità, irragionevolezza o travisamento del fatto; e se pure è vero che la prima bozza di deliberazione predisposta dagli uffici tecnici comunali era favorevole all’istanza, ciò non toglie tuttavia, che essa non vincolava le valutazioni di merito di esclusiva competenza dell’organo consiliare in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico all’intervento edilizio.
Il consiglio comunale ha ritenuto che nel caso di specie non vi fossero sufficienti presupposti di interesse pubblico per autorizzare un intervento edilizio implicante una modifica del vigente PRGC, e tale valutazione è stata supportata da una motivazione sufficientemente analitica e argomentata, sia in ordine alle ragioni per le quali non è stata ritenuta sussistente una situazione di “degrado” dell’area tale da giustificare la realizzazione di un intervento di riqualificazione, sia in ordine alla incompatibilità del progetto edificatorio delle proponenti con le linee programmatiche della nuova amministrazione insediatasi a seguito delle elezioni del giugno 2016, dirette a perseguire una riduzione del consumo del suolo, con particolare riferimento alle aree agricole (laddove il progetto presentato dalle interessate avrebbe comportato la sostituzione di un’ampia area a verde con alcuni fabbricati residenziali, senza fornire adeguate indicazioni su come sarebbe migliorata la qualità del tessuto edilizio nell’area interessata).
Si tratta, osserva il collegio, di valutazioni ampiamente discrezionali, non illogiche né irragionevoli, anche perché coerenti con le linee di indirizzo programmatico formulate dalla nuova amministrazione insediatasi a giugno 2016, soprattutto in relazione all’obiettivo di contenimento dell’uso del suolo: valutazioni che, in quanto tali, sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, afferendo alle scelte di merito dell’amministrazione in materia di gestione del territorio.
13.4. Con il quarto motivo, le ricorrenti hanno contestato, nel merito, i singoli capi della motivazione contenuta nella delibera consiliare; le censure proposte possono essere così sintetizzate:
   - la presenza di serre non utilizzate da oltre 10 anni costituirebbe un elemento dissonante rispetto al contesto urbano circostante, ormai tutto residenziale, il che sarebbe sufficiente ad integrare il presupposto del “degrado funzionale” di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011;
   - il consumo di suolo sull’area in questione sarebbe già avvenuto, come dimostrerebbe l’esistenza delle serre; l’intervento progettato avrebbe rilievo pubblicistico nella misura in cui concorrerebbe a razionalizzare il contesto urbano e a riqualificare aree degradate; il consiglio comunale avrebbe dovuto limitarsi a valutare se il progetto delle ricorrenti risponda o meno alla finalità di legge di rendere la destinazione dell’area di proprietà delle ricorrenti coerente con quella del contesto urbano circostante, che è residenziale, alla luce dei dati oggettivi indicati puntualmente nella prima bozza di delibera consiliare;
   - l’offerta, contenuta nel progetto, di cessione gratuita al Comune di un’area di 700 mq, previa realizzazione di 23 piazzole di sosta, sarebbe stata svalutata immotivatamente nella delibera consiliare impugnata;
   - non sarebbe stato spiegato per quale motivo, secondo il consiglio comunale, il progetto non avrebbe migliorato la qualità del tessuto edilizio;
   - il riferimento al comunicato assessorile (regionale) del 16.10.2014 sarebbe del tutto erroneo, dal momento che questo non impone che il nuovo intervento edilizio venga realizzato sull’area di sedime degli edifici preesistenti (le serre, nel caso di specie), ma solo che venga realizzato sull’area di proprietà del privato proponente;
   - manifestamente illogico e contraddittorio sarebbe il capo di motivazione in cui si afferma che l’intervento non consentirebbe di superare la presenza di funzioni eterogenee e di tessuti edilizi disorganici in quanto sul fronte prospiciente di Via Ca. non verrebbero eliminate tutte le serre presenti; in tal modo si imputa al privato di non trasformare tutto il contesto, il che non è richiesto dalla legge ed è in contrasto con altra affermazione in cui si imputa alle ricorrenti di voler ridurre, anziché ampliare, l’attività florovivaistica.
Osserva il collegio che l’articolata censura appena esposta non può essere condivisa:
   - la presenza, all’interno di un contesto urbanizzato, di un’area a verde con alcune serre dismesse, non pare elemento sufficiente per ritenere sussistente il presupposto cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2001, e cioè l’esistenza di un’”area urbana degradata”, tanto più alla luce delle linee politiche espresse dalla nuova amministrazione comunale, preordinate alla conservazione delle aree a verde e alla riduzione dello sfruttamento edilizio del suolo (così a pag. 4 della delibera consiliare impugnata: “La riduzione del consumo di suolo privilegerà la tutela delle aree di maggior valore (agricolo, ambientale, paesaggistico), ma sarà comunque un processo ragionato che intende garantire in primis la permanenza sul territorio di attività produttive anche qualora esse volessero ampliarsi per esigenze diverse”); in tale contesto programmatico, il mantenimento di un’area a verde all’interno di un contesto edificato non pare costituire un elemento “dissonante”, sintomo di “degrado funzionale” dell’area;
   - il richiamo contenuto nella delibera consiliare alla circolare regionale 09.05.2012 n. 7/UOL appare pertinente, dal momento che essa esclude l’applicazione dell’art. 5, comma 9, del d.l. 70 del 2011 e dell’art. 14 del TUE con riferimento alle “aree libere…a destinazione agricola”, tenuto conto che l’area in questione è appunto inserita in zona agricola nel vigente PRGC del Comune di Pinerolo;
   - l’utilità pubblica ritraibile dall’offerta di realizzazione nell’area in questione di 23 piazzole di sosta è stata ritenuta recessiva rispetto al complessivo impatto urbanistico dell’intervento, con motivazione che non appare né illogica né irragionevole (“l’ampliamento di standard, comunque dovuto, non giustifica l’impatto urbanistico che l’intervento proposto comporterebbe”, cfr. delibera consiliare, pag. 5);
   - sarebbe stato onere delle ricorrenti provare in sede procedimentale per quale motivo l’intervento edilizio avrebbe migliorato la qualità del tessuto edilizio; ciò che si evince dall’esame degli atti processuali è che, se il progetto proposto dalle ricorrenti dovesse trovare attuazione, un’area attualmente “a verde” verrebbe ad essere edificata; non è affatto evidente quale miglioramento ne riceverebbe il tessuto edilizio, in un contesto in cui sembrano difettare i presupposti di un “degrado” obiettivamente percepibile; ciò che appare è che le ricorrenti, dismessa (o convertita, non è ben chiaro) l’attività florovivaistica, vorrebbero realizzare sull’area una speculazione edilizia; se è chiaro l’interesse privato alla realizzazione del progetto, non è invece percepibile l’interesse pubblico allo stesso, tanto più alla luce delle linee programmatiche della nuova amministrazione comunale, dichiaratamente dirette a perseguire il contenimento dell’uso del suolo e la salvaguardia delle aree a verde;
   - la nota assessorile del 16.10.2014 è stata applicata correttamente nella parte in cui esclude che il permesso di costruire in deroga possa essere rilasciato in relazione ad aree libere: è questo il senso del richiamo contenuto nel provvedimento impugnato;
   - infine, l’ultimo punto della motivazione della delibera consiliare (l’intervento non determinerebbe un’effettiva riqualificazione del tessuto edilizio, dal momento che l’eliminazione delle serre sarebbe solo parziale), appare obiettivamente il meno convincente nel contesto del provvedimento impugnato, ma tutto sommato il meno rilevante, tenuto conto del carattere dirimente -e autosufficiente- dei precedenti capi di motivazione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Formazione del silenzio-assenso sui permessi di costruire in deroga.
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Edilizia – Permesso di costruire – In deroga – Parere Consiglio comunale – Obbligo di immediata impugnazione – Esclusione.
  
Edilizia – Permesso di costruire – In deroga – Silenzio-assenso – Formazione – Esclusione.
  
Nel procedimento di rilascio del permesso di costruire in deroga, previsto dagli artt. 5, d.l. n. 70 del 2011 e 14, d.P.R. n. 380 del 2001, il parere del Consiglio comunale è atto meramente endoprocedimentale, impugnabile unitamente alla determinazione conclusiva; pur essendo obbligatorio e vincolante, ove negativo, resta facoltà dell’interessato impugnarlo direttamente o attendere la determinazione conclusiva del procedimento.
  
Il silenzio-assenso, in materia edilizia, può formarsi con riferimento alla domanda di permesso di costruire qualora l’istanza sia conforme agli strumenti urbanistici; l’istituto non è applicabile ai permessi di costruire in deroga, anche dopo la novella di cui alla l. n. 125 del 2015, poiché il permesso in deroga implica non prescindibili valutazioni caratterizzate da ampia discrezionalità da parte del consiglio comunale; si tratta di valutazioni neppure soggette a termini predeterminati (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia non è applicabile alla diversa fattispecie della richiesta di rilascio di un permesso di costruire “in deroga al vigente PRGC” di cui all’art. 5, comma 9, d.l. n. 70 del 2011, dal momento che in tal caso l’amministrazione, lungi dal limitarsi a verificare la mera conformità del progetto edilizio allo strumento urbanistico vigente, è tenuta a valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità, se sussistano i presupposti di interesse pubblico per modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al rilascio di un permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, d.l. n. 70 del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto del silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica (in tal senso, su fattispecie analoghe, Cons. St., sez. IV, 26.07.2017, n. 3680; Tar Pescara 11.12.2017, n. 352).
Ha ancora affermato il Tar che in caso di inerzia il privato può attivare il rimedio di cui all’art. 117 c.p.a., demandando al giudice una valutazione secondo canoni di equità e proporzionalità (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Soccorso istruttorio in caso di pagamento del contributo ANAC per un lotto diverso da quello per il quale è stata presentata offerta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Contributo Anac – Pagamento per lotto diverso da quello per il quale è stata presentata offerta – Obbligo di soccorso istruttorio - Sussiste.
Il pagamento del contributo Anac per un lotto diverso da quello per il quale è stata presentata offerta, dovuto ad evidente errore materiale nell'inserimento nel sistema on-line del codice identificativo della gara (C.I.G.), deve essere oggetto di soccorso istruttorio al fine della regolarizzazione mediante il versamento dell'esatto ammontare (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che rilevante, ai fini del riconoscimento del soccorso istruttorio, è stato il preliminare adempimento consistente nella registrazione presso i servizi informatici per la riscossione dei contributi dell’Anac, che denota il preciso intendimento dell’operatore economico di rispettare l’obbligo richiesto e che è stato perfezionato prima della scadenza del termine per partecipare alla gara.
L’accertata sussistenza della natura materiale dell’errore commesso, non volontariamente preordinato ad omettere o diminuire il versamento, non consente di valorizzare, in negativo, il principio dell’autoresponsabilità dei concorrenti (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 27.02.2018 n. 44 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Applicabilità del rito super accelerato solo se sono stati rispettati gli obblighi di pubblicazioni.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione – Impugnazione – Dies a quo – Individuazione – Data della seduta pubblica di apertura delle offerte – Esclusione.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione ed esclusioni – Impugnazione – Rito superaccelerato ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Individuazione – Pubblicazione sul profilo della stazione appaltante - Mancanza – Inapplicabilità del rito superaccelerato.
  
Il termine di impugnazione delle ammissioni degli altri concorrenti in una gara di appalto non può decorrere dalla data della seduta pubblica di apertura delle offerte, ancorchè fosse presente un rappresentante dell’impresa ricorrente.
  
Lo speciale rito previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. individua espressamente il dies a quo dell’impugnativa anticipata di ammissioni ed esclusioni nella pubblicazione sul profilo della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50; in mancanza di tale adempimento il rito superacelerato, per la natura derogatoria ed eccezionale che presenta, non può operare; infatti l’eccezionalità della previsione ne impone, in caso di dubbio, una interpretazione favorevole all’esercizio del diritto di difesa, nel rispetto degli artt. 24, 111 e 113 Cost. (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il nuovo comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. è norma processuale di stretta interpretazione, derogatoria dei principi tradizionalmente affermati nel contenzioso sui pubblici appalti. Pertanto, in difetto del contestuale funzionamento del meccanismo di pubblicità degli atti di cui si impone l’immediata impugnazione, le relativa decadenza processuale non può operare, a causa della carenza del presupposto adempimento pubblicitario che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa l’identità delle imprese ammesse e la decorrenza del termine accelerato per l’impugnativa.
In presenza di dubbi esegetici sull’applicabilità del più rigoroso regime decadenziale, gli stessi devono essere risolti preferendo l’opzione meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., nonché al principio di effettività della tutela giurisdizionale nel settore degli appalti pubblici secondo le direttive europee (si veda, in proposito, Tar Piemonte, sez. I, 17.01.2018, n. 88, ove sono denunciati i profili di possibile incompatibilità del nuovo rito speciale con la direttiva 1989/665/CE e con l’art. 47 della Carta dei diritti UE).
Pertanto, una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non vi è che da richiamare l’orientamento giurisprudenziale consolidato che ha sempre negato valore provvedimentale autonomo all’atto di ammissione alla gara, consentendone l’impugnazione solo unitamente al provvedimento finale di aggiudicazione definitiva dell’appalto.
E ciò vale anche in presenza di quelle norme sostanziali e processuali di recente introduzione (l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016, l’art. 120 c.p.a.), che pretendono di qualificare alla stregua di “provvedimento” l’ammissione alla gara dei concorrenti, a conclusione della fase di verifica della documentazione amministrativa e dei requisiti di partecipazione. Il legislatore, nella sua discrezionalità, può sì perseguire la maggiore celerità del procedimento di gara e prevedere più ristretti termini di impugnazione, sempre che siano rispettati i principi del giusto processo e dell’effettività della tutela. Ma il legislatore non può arbitrariamente alterare la natura delle cose. L’ammissione alla gara, come l’ammissione a qualsivoglia procedura concorsuale di evidenza pubblica, conserva il carattere di atto endoprocedimentale, che non attribuisce alcuna immediata utilità ai concorrenti ammessi e non arreca alcun pregiudizio immediato agli altri concorrenti.
L’onere di immediata impugnazione delle ammissioni altrui previsto dall’art. 120 c.p.a., anche qualora il nuovo rito speciale superi il vaglio di legittimità comunitaria e costituzionale, non vale a conferire natura provvedimentale all’atto di ammissione.
Ne consegue che, in assenza dell’adempimento pubblicitario prescritto dall’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016, nessun onere di impugnazione sorge in capo ai concorrenti fino al momento dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto, allorquando l’interesse ad estromettere (in via principale o incidentale) altri concorrenti può invece assumere consistenza reale, in vista del conseguimento dell’utilità correlata all’aggiudicazione del contratto (
TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.02.2018 n. 262 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha costantemente affermato che l’autolavaggio e le strutture ad esso connesse non si configurano come costruzione temporanea o precaria, ma quale nuova costruzione: si tratta, infatti, di manufatti stabilmente infissi al suolo, dotati di allacciamenti fognari, elettrici e idrici e, sotto il profilo funzionale, di strutture stabilmente destinate all'attività di autolavaggio e quindi prive del carattere della precarietà.
Invero, l’'art. 3, lett. e.5), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (correttamente richiamato nel provvedimento impugnato) riconduce, tra l'altro, alla nozione di “intervento di nuova costruzione” proprio “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere… che siano utilizzati come … “ambienti di lavoro…” e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
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Il ricorrente è proprietario di un’area ubicata nel Comune di Motta Sant'Anastasia della complessiva superficie di mq. 167, sulla quale grava un vincolo di inedificabilità, essendo stata la relativa superficie asservita alla costruzione di un adiacente edifico.
In relazione al predetto terreno, il ricorrente presentava, in data 07.03.2016, richiesta di autorizzazione per l'esecuzione di lavori per la realizzazione di un autolavaggio manuale con relativa autorizzazione allo scarico delle acque reflue nella pubblica rete fognante, ritenendo tale opera non contrastante con il vincolo di inedificabilità.
Con preavviso di diniego del 13.06.2016 il Comune rappresentava che l'attività di autolavaggio non poteva essere esercitata ed autorizzata in ragione del preesistente vincolo di asservimento, che impediva l'esecuzione di qualunque intervento edilizio; nello specifico veniva dedotto che la tettoia di copertura non poteva qualificarsi quale struttura precaria volta a soddisfare esigenze di natura temporanea; per la stessa non era stato poi documentato il deposito dei calcoli.
Il ricorrente presentava, con nota del 07.07.2017, controdeduzioni e sosteneva che l'autolavaggio, privo di alcuna cubatura, non comportava alcuna attività edilizia.
Con provvedimento n. 12215 del 25.07.2016 il Comune denegava l’istanza con una articolata motivazione a contenuto plurimo che si può riassumere nei termini seguenti: “(…)nel ricordare che questo Comune è stato elencato tra le zone sismiche si evidenzia la necessità che ogni opera e/o struttura che si intende realizzare dovrà essere sottoposta alla disciplina di cui alla legge n. 64/1974, in particolare quando queste possono interessare (come il caso di specie) la pubblica incolumità (…). La struttura metallica realizzata, definita da codesta ditta una pertinenza in relazione alla natura funzionale e strumentale che la lega all’impianto in questione, risulta, invece, una nuova costruzione la quale è destinata ad uso continuativo perché connessa all’espletamento dell’attività stessa di autolavaggio, configurandone il luogo di questo al punto di attribuirne una specifica destinazione e localizzazione…Il detto intervento (di nuova costruzione) è stato realizzato peraltro in area sottoposta a vincolo di asservimento. Detta area, proprio per il vincolo alla quale soggiace, non può essere utilizzata allo scopo…”.
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Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Va innanzitutto rilevato che non coglie nel segno il richiamo normativo all’art. 20 della l.r. 4/2003 (erroneamente indicato in ricorso con art. 20 della l.r. 37/1985) poiché la struttura in questione (che copre una superficie di mq. 50,00 all’interno della quale è stato ricavato anche una vano servizi) non integra i connotati oggettivi richiesti dalla norma (vale a dire opera interna o terrazza di collegamento).
Viene in rilievo, invece, l’'art. 3, lett. e.5), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (correttamente richiamato nel provvedimento impugnato) che riconduce, tra l'altro, alla nozione di “intervento di nuova costruzione” proprio “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere… che siano utilizzati come … “ambienti di lavoro…” e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
In tale scia interpretativa, la giurisprudenza ha costantemente affermato che l’autolavaggio e le strutture ad esso connesse, non si configurano come costruzione temporanea o precaria, ma quale nuova costruzione: si tratta, infatti, di manufatti stabilmente infissi al suolo, dotati di allacciamenti fognari, elettrici e idrici e, sotto il profilo funzionale, di strutture stabilmente destinate all'attività di autolavaggio e quindi prive del carattere della precarietà (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.2012, n. 4214; sez. V, 20.06.2011 n. 3683; sez. VI, 16.02.2011 n. 986).
Nel caso in esame, quindi, la struttura in questione, stabilmente destinata all'attività di autolavaggio non poteva essere considerata quale opera precaria e quindi non realizzabile in area soggetta a vincolo di asservimento.
Infine si può prescindere dall’esame dell’ulteriore censura concernente il deposito dei calcoli della struttura portante tenuto conto che la rilevata difformità della costruzione rispetto al vincolo di asservimento dell’area, rappresenta un'autonoma e sufficiente ragione ostativa alla realizzazione del progetto e costituisce nucleo motivazionale del tutto sufficiente a sorreggere, di per sé, il rigetto della domanda di autorizzazione all’esecuzione dei lavori per la realizzazione dell’impianto.
Nel caso in esame, infatti, trattandosi di provvedimento di diniego fondato su una motivazione plurima, esso non può essere annullato qualora anche uno solo dei motivi posti a fondamento fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata (cfr. TAR Palermo, Sez. II 30.05.2013 n. 1193; TAR Milano, sez. IV 12.11.2013 n. 2511).
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 23.02.2018 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Il risarcimento del danno non è cumulabile con gli emolumenti di carattere indennitario (fattispecie concernente corresponsione di somme a titolo di risarcimento danni causati dall’esposizione prolungata all’amianto).
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Risarcimento danni – Quantificazione – Detrazione indennità versate da assicuratori privati – Vanno detratte.
La presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario (1).
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. IV, ordinanza 06.06.2017, n. 2719 [si legga anche: Alla Adunanza plenaria la possibilità di cumulo tra risarcimento del danno ed emolumenti di carattere indennitario. Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 06.06.2017, n. 2719:
  
Risarcimento danni – Quantificazione – Detrazione indennità versate da assicuratori privati – Dubbio in giurisprudenza – Devoluzione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
  
Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali].
Ha chiarito l’Alto Consesso che la soluzione della questione all’esame dell’Adunanza plenaria presuppone la previa individuazione dei titoli delle obbligazioni che vengono in rilievo e della loro natura, nonché dei soggetti del rapporto obbligatorio.
L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non possono essere cumulate.
Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa.
In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga compensato e liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che le suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.
Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della compensatio nella sua versione “tradizionale”, che presuppone che la medesima condotta determini un “danno” e un “vantaggio”. Come già esposto, tale regola non ha una sua autonomia ed è riconducibile alle tecniche di determinazione del danno che, nella specie, trovano applicazione in modo ancora più lineare e diretto. In questo caso, infatti, la medesima condotta ha determinato solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il “cumulo di voci risarcitorie” e non “il cumulo di danno e di lucro”.
Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti, di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo. Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovracompensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale.
In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 23.02.2018 n. 1 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: AREE PROTETTE - Opere abusive realizzate all’interno di parchi e aree protette - Ante parco - Potere sanzionatorio finalizzato alla rimessione in pristino - Artt. 13 e 29 l. n. 394/1991 - Art. 28 l.r. Lazio n. 29/1997.
Nei casi di opere abusive realizzate all'interno di parchi o aree protette, sussiste la competenza dell'ente parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, dovendosi considerare il potere di ordinanza esercitato dal predetto Ente fondato sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l'esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione in materia urbanistico -ambientale e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa.
Proprio la legge n. 394/1991 (legge sulle aree naturali protette) all’art. 13 prescrive infatti, ai fini del rilascio di autorizzazioni o di concessioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco, sia la presentazione di una richiesta di rilascio preventivo di nulla osta all'Ente parco, sia (art. 29) la titolarità di un potere sanzionatorio finalizzato alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi in caso di interventi edilizi difformi dal nulla osta o dalle previsioni di tutela dell’ente parco.
Tale potere sanzionatorio ha trovato ulteriore conferma nella l.r. Lazio n. 29/1997, che all’art. 28 statuisce che “3. Qualora nelle aree naturali protette venga esercitata un'attività in difformità del piano, del regolamento o del nulla osta, il direttore dell'ente di gestione dispone la sospensione dell'attività medesima ed ordina la riduzione in pristino o la ricostituzione di specie vegetali o animali ai sensi dell'articolo 29 della l. 394/1991” (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 22.02.2018 n. 2056 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione - Proprietario della costruzione abusiva - Legittimazione passiva all’esecuzione dell’ordine di demolizione - Accertamento della responsabilità - Non è richiesto - Art. 31 d.p.r. n. 380/2001.
Affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordine di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, posto che in materia di abusi edilizi la normativa nazionale di cui all’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001 si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Da ciò discende che il provvedimento demolitorio trae il proprio presupposto non dall'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, ma dall'esistenza di una situazione fattuale contrastante con la normativa urbanistica ed edilizia, mediante l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 22.02.2018 n. 2056 - link a
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APPALTIAffidamento senza gara se c'è interesse comune. Sentenza Cds.
È legittimo un affidamento di servizi senza gara fra due amministrazioni se riguarda interessi comuni.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 22.02.2018 n. 1132 in merito alla legittimità di un accordo di cooperazione fra due amministrazioni pubbliche.
In particolare era stata impugnato un provvedimento con il quale la Regione Liguria aveva affidato senza gara il servizio di elisoccorso al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, del decreto-legge n. 101 del 2013 (che ammetteva l'affidamento in «contesti di particolare difficoltà operativa e di pericolo per l'incolumità delle persone»).
L'affidamento sarebbe stato disposto peraltro a condizioni economiche peggiori di quelle dei precedenti affidamenti (dal 2007 in poi) e di quelle derivanti da un aperto confronto concorrenziale. Il Tar Liguria ha rigettato il ricorso e il Consiglio di stato ha confermato la decisione di primo grado affermando che il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, sia per la sua natura che in relazione all'attività oggetto dell'accordo, non riveste la qualità di «operatore economico», cioè di un soggetto che offre in generale i suoi servizi sul mercato e, certamente, non i servizi oggetto della convenzione.
Pertanto, il servizio reso in materia dai Vigili del fuoco non può essere assoggettato alla disciplina prevista dalla direttiva 2004/18/Ce, art. 1, par. 8 perché l'art. 4, n. 1, della stessa direttiva riconosce agli Stati membri la valutazione circa la compatibilità o meno, rispetto ai fini istituzionali propri di ciascun soggetto pubblico, di consentire allo stesso di offrire i propri beni o servizi sul mercato. Il giudice di primo grado ha anche escluso che la convezione in esame comporti una duplicazione di costi per i cittadini atteso che, ciò che viene riconosciuto nella convenzione è soltanto il costo vivo per il servizio di elisoccorso prestato.
I giudici aggiungono che alla luce della valenza generale rivestita dagli accordi organizzativi di cui all'art. 15 della legge 241/1990, gli enti pubblici possono «sempre» utilizzare lo strumento convenzionale per concludere tra loro accordi organizzativi volti a disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).
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MASSIMA
Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione.
Non rileva, nel caso in esame, accertare se la norma in questione abbia o meno natura interpretativa, essendo evidente che proprio il tenore letterale della stessa non consente di pervenire alle conclusioni di parte appellante. L’inciso “in contesti di particolare difficoltà operativa e di pericolo per l’incolumità delle persone” limita, infatti, l’attività di elisoccorso che i Vigili del fuoco possono svolgere alle ipotesi di “difficoltà operative”, ma solo se sono “particolari”, e alle situazioni “di pericolo per l’incolumità delle persone”; nella prima ipotesi non sono circoscritte le “particolari difficoltà operative” agli eventi di gravi calamità naturali e, nella seconda ipotesi, le situazioni “di pericolo per l’incolumità delle persone” non devono essere eccezionali o particolarmente gravi.
Si tratta di previsione al quale la convenzione si è strettamente attenuta, atteso che, come si è detto, il servizio affidato ai Vigili del fuoco è finalizzato ad assicurare il tempestivo intervento di soccorso per garantire l’incolumità e la tutela delle funzioni vitali delle persone che, per condizioni sanitarie e/o ambientali, necessitano di un urgente intervento di soccorso tecnico e sanitario, nonché l’eventuale trasporto assistito al presidio ospedaliero idoneo a consentire nel modo più rapido e razionale l’intervento diagnostico–terapeutico. “L’intervento dell’elicottero in sostituzione di altri mezzi di emergenza dovrà realizzarsi unicamente in funzione di estrema urgenza, legata alle condizioni sanitarie e/o ambientali, per cui deve essere portato il primo soccorso alla persona e alla rapidità del trasporto ai fini della tutela delle funzioni vitali”.
Tale essendo l’oggetto normativamente e pattiziamente previsto per gli interventi di elisoccorso da parte dei Vigili del fuoco, il Collegio ritiene che siano ancora attuali –nonché condivisibili– le osservazioni rese dalla sez. III (16.12.2013, n. 6014, che ha, a sua volta, richiamato il precedente della sez. V 13.07.2010, n. 4539) in occasione dell’impugnazione della delibera della Giunta regionale ligure n. 318/2009, concernente una precedente approvazione di schema di convenzione per l'effettuazione del servizio di elisoccorso integrato tecnico sanitario 2009-2011 tra la stessa Regione ed il Ministero dell'Interno, Dipartimento dei vigili del fuoco.
Ha affermato la Sezione che,
alla luce della normativa comunitaria, il Corpo dei vigili del fuoco non rientra nel concetto di operatore economico rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva n. 2004/18/CE, in quanto esso non è soggetto che offra servizi sul mercato o, quantomeno, che offra sul mercato i servizi oggetto della convenzione impugnata.
Ha aggiunto che
l’attività oggetto della convenzione è riconducibile ad interventi di soccorso pubblico, caratterizzati dal requisito dell'immediatezza della prestazione, che i Vigili del fuoco, a differenza dei servizi a pagamento per soccorso non urgente previsti dal secondo periodo del comma 1 dell'art. 25, d.lgs. 08.03.2006, n. 139 (sul riassetto delle disposizioni relative alle funzioni ed ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco), sono tenuti ad assicurare alla collettività (al fine, tra l'altro, di salvaguardare l'incolumità delle persone), senza "oneri finanziari per il soggetto o l'ente che ne beneficia" (primo periodo del comma 1, cit.).
Il servizio oggetto di convenzione non può considerarsi attività che il Corpo nazionale dei vigili del fuoco è autorizzato dalla normativa nazionale ad offrire sul mercato, sì che, in relazione al suo espletamento, non può ravvisarsi, in capo a detto Corpo, la qualità di operatore economico che, sola, come si è detto, può valere a configurare un appalto di servizi assoggettato alla disciplina della direttiva 2004/18/CE e a quella codicistica.
Ha aggiunto il giudice di appello che,
a livello di normativa nazionale, l'art. 15, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, richiamato nelle premesse della convenzione di cui si tratta, dispone che "le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune". L’accordo tra amministrazioni rappresenta lo strumento utile per soddisfare il pubblico interesse, il coordinamento, in un quadro unitario, di interessi pubblici di cui ciascuna amministrazione è portatrice.
Del resto, in materia di accordi tra Pubbliche amministrazioni, al di fuori dell’ipotesi più ricorrente di svolgimento di funzioni comuni (quali, ad esempio, la costituzione di un consorzio tra enti per la gestione tecnica ed amministrativa di aree industriali o la gestione di un servizio comune), è possibile ricorrere all’art. 15, l. n. 241 del 1990 quando una Pubblica amministrazione intenda affidare a titolo oneroso ad altra Amministrazione un servizio, ove questo ricada tra i compiti dell’ente.
In tale quadro è stato, ad esempio, ritenuto legittimo l’affidamento del servizio di trasporti intra–inter ospedalieri da parte di un’azienda ospedaliera alla Croce Rossa Italiana, ente di diritto pubblico avente, tra i propri compiti, quello di effettuare, con propria organizzazione, il servizio di pronto soccorso e trasporto infermi, concorrendo all’adempimento delle finalità del Servizio sanitario nazionale attraverso apposite convenzioni
(Cons. St., sez. V, 12.04.2007, n. 1707; 16.09.2011, n. 5207).
Alla luce, quindi, della valenza generale rivestita dagli accordi organizzativi di cui al citato art. 15,
gli enti pubblici possono "sempre" utilizzare lo strumento convenzionale per concludere tra loro accordi organizzativi volti a disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune e in particolare, per quanto qui ne occupa, al fine di programmare e di realizzare un servizio pubblico di soccorso alla persona in situazioni di emergenza.
Ha ancora chiarito la sez. III (sentenza n. 6014 del 2013) che
una cooperazione del genere tra autorità pubbliche non può interferire con l'obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l'apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, "poiché l'attuazione di tale cooperazione è retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico e poiché viene salvaguardato il principio della parità di trattamento degli interessati di cui alla direttiva 92/50, cosicché nessun impresa privata viene posta in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti" (Corte giust. Comm. ue 09.06.2009 in C480/06, Stadt Halle e RPL Lochau, punti 50 e 51).
In conclusione, sia applicando i principi comunitari che tracciano i casi in cui non è obbligatorio l’affidamento di un servizio tramite gara pubblica, che i principi della legge sul procedimento amministrativo in materia di accordi tra Pubbliche amministrazioni, era possibile affidare direttamente, con convenzione, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco il servizio di elisoccorso, nei casi previsti.
Per completezza espositiva il Collegio ricorda come, con sentenza 18.12.2007, in C532/03, la Corte di Giustizia, pronunciandosi su una fattispecie del tutto analoga a quella qui in trattazione, abbia ritenuto non contrastante con gli obblighi nascenti dal Trattato un accordo tra un'amministrazione pubblica ed il servizio dei Vigili del fuoco a Dublino per il trasporto d'urgenza in ambulanza nell'esercizio delle rispettive competenze, come nella specie derivanti dalla legge, con contestuale corresponsione di un contributo destinato a coprire parte dei costi del servizio.

ENTI LOCALI: Giurisdizione Ago nella controversia risarcitoria proposta dal creditore di società fallita rimasto insoddisfatto in sede fallimentare.
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Giurisdizione – Risarcimento danni – Azione risarcitoria proposta dal creditore di una società fallita rimasto insoddisfatto in sede fallimentare – Giurisdizione Ago.
  
Società – Società per azioni – Azioni possedute da una Pubblica amministrazione- Resta società di diritto privato.
  
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l'azione risarcitoria proposta dal creditore di una società fallita, rimasto insoddisfatto in sede fallimentare, contro gli Enti pubblici che ne posseggano l'intero capitale sociale e la cui condotta, attiva o missiva, si assuma essere stata causa dell'insolvenza (1).
  
La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, solo perché la Pubblica amministrazione ne possegga –in tutto o in parte– le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al soggetto pubblico non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, potendo solo avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario (2).
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   (1) Ha chiarito il Collegio che l’attività censurata s’inquadri nell’ambito di moduli di carattere privatistico, riguardando le forme dell’esercizio (o del mancato esercizio) degli ordinari poteri dell’azionista pubblico.
Non potrebbe, peraltro, invocarsi la giurisdizione esclusiva prevista nel settore di pubblici servizi, che richiede il necessario concorso di due presupposti:
a) l’uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto intimato fra le “pubbliche amministrazioni”, come definite dal comma 2 dell’art. 7 del c.p.a.;
b) l’altro oggettivo, consistente nell’avere la controversia ad oggetto, non qualsivoglia atto o attività dei soggetti suindicati, ma atti o condotte riconducibili all’esercizio delle funzioni istituzionali del soggetto procedente (cfr. Cass. civ., Sez. un., 23.10.2017, n. 24968 e 24.07.2013 n. 17935; Cons. St., sez. IV, 12.03.2015, n. 1299).
   (2) Sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 14.09.2017, n. 21299; id. 01.12.2016, n. 24591; id. 23.01.2015, n. 1237 (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 21.02.2018 n. 496 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer il permesso di costruire vale il silenzio-assenso. Edilizia. Il Tar Catanzaro illustra con la sentenza 491/2018 le modalità di formazione del titolo abilitativo tacito.
Si attua finalmente il silenzio-assenso anche per i permessi di costruire.

Lo conferma il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, nella sentenza 21.02.2018 n. 491.
In questi stessi giorni diventa più agevole l'edilizia libera: è infatti in corso la pubblicazione in Gazzetta ufficiale di un dettagliato elenco di opere che non necessitano di autorizzazione.
Per gli interventi di maggior peso, su aree libere o con demolizioni integrali senza piani di dettaglio, il permesso edilizio è però necessario. Di qui l'importanza del permesso, anche se formatosi tramite silenzio.
La norma di riferimento è l'articolo 20 del Dpr n. 380/2001: si prevedono, partendo dal deposito della richiesta, 60 giorni per acquisire pareri e valutare la conformità del progetto alla normativa vigente, con proposta di provvedimento o suggerimento di lievi modifiche. Il termine può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro 30 giorni dalla presentazione della domanda.
Se non sono chiesti documenti integrativi, il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro 30 giorni. Il primo ed il secondo termine (60 e 30 giorni) si raddoppiano nei Comuni con più di 100mila abitanti o per progetti particolarmente complessi. Di conseguenza, una volta decorso inutilmente il termine per la definizione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, pari a 90 o 180 giorni (ossia 6o giorni per la conclusione dell'istruttoria + 30 per la determinazione finale), si forma il titolo abilitativo tacito.
Una volta maturato il silenzio-assenso, l'amministrazione non può più impedire l'attività edilizia: qualora emergano circostanze non valutate, il Comune dovrà prima procedere all'annullamento del provvedimento formatosi in modo silenzioso. Ad esempio, se il vicino protesta con il Comune con validi argomenti, il Comune stesso può agire in autotutela, se sussistono motivi di interesse generale (Tar Napoli 2972/2014; Tar Catania 572/2005).
Ma, in autotutela, il Comune non può limitarsi a emanare una diffida che sospenda i lavori, bensì deve percorrere in senso inverso tutto il procedimento che ha condotto al rilascio del permesso di costruire.
In particolare, seguendo l'articolo 21-nonies della legge 241/1990, entro un termine ragionevole (comunque non superiore a 18 mesi), il permesso di costruire illegittimo può essere annullato se sussistono le ragioni di interesse pubblico, comparando gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Solo se il permesso di costruire è stato ottenuto sulla base di false rappresentazioni di fatti o di dichiarazioni non vere, il termine per annullare il permesso di costruire si prolunga oltre i 18 mesi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al procedimento di rilascio del permesso di costruire è applicabile la disciplina del silenzio-assenso, sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la definizione del procedimento di rilascio del titolo edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380.
Sicché, è illegittimo il provvedimento di diniego emesso dal Comune dopo la formazione del silenzio-assenso sulla richiesta del permesso di costruire potendo, in tale ipotesi, essere adottato soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di atti di secondo grado, da accertarsi con le stesse forme e con le stesse modalità procedimentali previste per l’adozione dell’atto da annullare.

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   - Premesso che, al procedimento di rilascio del permesso di costruire, è applicabile la disciplina del silenzio-assenso, sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la definizione del procedimento di rilascio del titolo edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07/02/2018 e n. 384 e 17/06/2015, n. 1095; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29/05/2014, n. 2972);
   - Rilevato, di conseguenza, che è illegittimo il provvedimento di diniego emesso dal Comune dopo la formazione del silenzio-assenso sulla richiesta del permesso di costruire (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07/02/2018 e 17/06/2015, n. 1095);
   - Ritenuto che al 14/11/2018 –data di adozione del formale provvedimento di rigetto– era ampiamente decorso il termine di formazione del silenzio-assenso, decorrente dal 07/07/2017 –data di completamento della documentazione a corredo della richiesta di permesso di costruire in data 28/03/2017–, risultando in atti sull’area né l’esistenza di vincoli diversi da quelli per il quale è stato acquisito il nulla-osta in data 25/05/2017, né l’adozione di una “motivata risoluzione del responsabile del procedimento” di particolare complessità dell’affare, ai fini del raddoppio dei termini ex comma 7;
   - Considerato, pertanto, che l’atto impugnato, con cui il comune di Squillace ha negato il rilascio del titolo edilizio dopo la sua formazione tacita, va dichiarato illegittimo, potendo, in tale ipotesi, essere adottato soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di atti di secondo grado (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.05.2014 n. 2972; TAR Sicilia, Catania, 07.04.2005 n. 572), da accertarsi con le stesse forme e con le stesse modalità procedimentali previste per l’adozione dell’atto da annullare (cfr. TAR Calabria, Reggio Calabria, 06.04.2000 n. 304);
   - Ritenuto, pertanto, che il ricorso è manifestamente fondato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 21.02.2018 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dal combinato disposto degli art. 32, 33 e 35, della legge 28.02.1985 n. 47, può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all'uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono e inoltre, ai sensi del richiamato art. 2, comma 43, della legge 23.12.1996, n. 662, nel testo risultante a seguito delle modifiche successivamente apportate, nel caso di abusi realizzati in zone sottoposte al vincolo, il decorso del termine di centottanta giorni senza che l'Amministrazione preposta alla gestione del vincolo stesso abbia espresso il proprio parere non comporta la formazione del silenzio assenso, ma legittima l'interessato all'eventuale impugnazione del silenzio rifiuto.
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Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo con il quale la ricorrente sostiene che la domanda di condono deve ritenersi accolta per silenzio-assenso è infondata.
Infatti, come è noto, dal combinato disposto degli art. 32, 33 e 35, della legge 28.02.1985 n. 47, può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all'uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.08.2014, n. 4226) e inoltre, ai sensi del richiamato art. 2, comma 43, della legge 23.12.1996, n. 662, nel testo risultante a seguito delle modifiche successivamente apportate, nel caso di abusi realizzati in zone sottoposte al vincolo, il decorso del termine di centottanta giorni senza che l'Amministrazione preposta alla gestione del vincolo stesso abbia espresso il proprio parere non comporta la formazione del silenzio assenso, ma legittima l'interessato all'eventuale impugnazione del silenzio rifiuto (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2009, n. 7566) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.02.2018 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLegge 104, il part-time non taglia i permessi.
Il lavoratore part-time ha diritto a tre giorni di permesso mensile per l'assistenza a familiari con grave handicap (legge n. 104/1992).

Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 20.02.2018 n. 4069, disapprovando il comportamento di un datore di lavoro che, sulla base delle istruzioni Inps (circolare n. 133/2000), aveva invece ridotto i giorni in proporzione all'orario di lavoro svolto in un rapporto a tempo parziale di tipo verticale.
La Cassazione, in pratica, ripropone l'interpretazione fornita qualche mese fa con la sentenza n. 22925/2017. La questione decisa nel giudizio è se i permessi mensili attribuiti al lavoratore (genitore di un figlio con grave handicap) debbano o meno essere riproporzionati in misura di due, invece di tre (la misura intera), nell'ipotesi in cui il genitore osservi un orario di lavoro su quattro giorni a settimana, in un part-time di tipo verticale.
La Corte spiega che l'art. 4 del dlgs n. 61/2000 (Tu sul part-time) prevede un principio di non discriminazione, in base al quale il lavoratore occupato a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno. Lo stesso art. 4, poi, da una parte elenca i «diritti» del lavoratore a tempo parziale che non devono subire decurtazioni a causa del ridotto orario di lavoro svolto; dall'altra stabilisce che il trattamento economico (la retribuzione globale e le singole voci; la paga feriale; i trattamenti per malattia, infortunio, maternità ecc.) possono essere riproporzionati.
Il fine della distinzione, spiega la Corte, è quella di distinguere gli istituti che hanno una connotazione patrimoniale (riproporzionabili) da quelli che appartengono a un ambito di diritti aventi una connotazione non strettamente patrimoniale, salvaguardati da qualsiasi riduzione. I permessi per assistenza a familiari disabili, nel silenzio della norma (non sono declinati nell'art. 4 del dlgs n. 61/2000), vanno fatti rientrare nel secondo ambito (diritti non riproporzionabili)
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2018).
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MASSIMA
Ritiene il Collegio di dover confermare l'interpretazione già accolta da questa Corte nella recente sentenza n. 22925/2017.
L'art. 33 L. n. 104/1992 riconosce al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.
La questione che si pone nel presente giudizio è se detti permessi mensili attribuiti al genitore debbano o meno essere riproporzionati nella misura di due i invece di tre, nell'ipotesi in cui il genitore osservi un orario di lavoro articolato su 4 giorni alla settimana con orario 8,30-14,30, cd part-time verticale.
L'art. 4 del dlgs n. 61/2000 (Testo unico sul part-time), dopo aver sancito al primo comma il principio di non discriminazione in base al quale il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a pieno, elenca alla lettera a) "i diritti" del lavoratore a tempo parziale ed "in particolare" stabilisce che deve beneficiare della medesima retribuzione oraria, del medesimo periodo di prova e di ferie annuali, della medesima durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità , del periodo di conservazione del posto di lavoro a fronte di malattia, dei diritti sindacali, ivi compresi quelli di cui al titolo III della legge 20.05.1970, n. 300, e successive modificazioni.
L'art. 4 citato alla lettera b) stabilisce che "il trattamento del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa" in particolare per quanto riguarda l'importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa; l'importo della retribuzione feriale; l'importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità. La lettera a) individua, dunque, "i diritti" del lavoratore con orario part-time, mentre la successiva lettera b) esamina "i trattamenti" economici. Questi ultimi possono essere riproporzionati.
Il legislatore, in dichiarata attuazione del principio di non discriminazione, ha inteso distinguere fra quegli istituti che hanno una connotazione patrimoniale e che si  pongono in stretta corrispettività con la durata della prestazione lavorativa, istituti rispetto ai quali è stato ammesso il riproporzionamento del trattamento del lavoratore, (addirittura, sia pure con la mediazione delle parti collettive, in misura più che proporzionale alla minore entità della prestazione in base all'ultima parte della lettera b), ed istituti riconducibili ad un ambito di diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della durata della prestazione lavorativa.
In assenza di specifica disciplina, [né la lettera a) né la lettera b) menzionano i permessi in esame] l'interprete deve ricercare tra le possibili opzioni offerte dal dato normativo quella maggiormente aderente al rilievo degli interessi in gioco ed alla sottese esigenze di effettività di tutela, in coerenza con le indicazioni comunitarie (cfr. in tal senso Cass. citata).
Il precedente citato di questa Corte ha messo in luce che "
il permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3, L. 104/1992 costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave. Come evidenziato da Corte cost. n. 213 del 2016, trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale. La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge n. 104 del 1992, postula anche l'adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap» (sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005). In questa prospettiva è innegabile che la ratio legis dell'istituto in esame consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare. "...Risulta, pertanto, evidente che l'interesse primario cui è preposta la norma in questione -come già affermato da questa Corte con riferimento al congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001- è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito» (sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007)" (Corte cost. n. 213 del 2016). Si tratta, in definitiva, di una misura destinata alla tutela della salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost., che rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.)".
Tenuto conto, pertanto, delle finalità dell'istituto disciplinato dall'ad 33 della L. n. 104/1992, come sopra evidenziate attinenti a diritti fondamentali dell'individuo,
deve concludersi che il diritto ad usufruire dei permessi costituisce un diritto del lavoratore non comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a tempo pieno.
Accanto a tali considerazioni si possono, altresì, richiamare gli ulteriori rilievi svolti nel precedente citato da questa Corte che, in fattispecie del tutto simile di part-time verticale con orario 8,30-14,30 per quattro giorni a settimana, ha escluso che la fruizione dei  permessi in oggetto costituisca un irragionevole sacrificio per la parte datoriale.
Si è affermato, infatti, che "
dal complesso delle fonti richiamate emerge la necessità, comunque, di una valutazione comparativa delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, anche alla luce del principio di flessibilità concorrente con quello di non discriminazione, e della esigenza di promozione, su base volontaria, del lavoro a tempo parziale, dichiarato nell'Accordo quadro, alla base della Direttiva (v. in particolare clausola 1 lett. b) nella quale si evidenzia che scopo dell'Accordo è quello di "di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire all'organizzazione flessibile dell'orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori.")... Il criterio che può ragionevolmente desumersi da tali indicazioni è  quello di una distribuzione in misura paritaria degli oneri e dei sacrifici connessi all'adozione del rapporto di lavoro part-time e, nello specifico, del rapporto part-time verticale. In coerenza con tale criterio, valutate le opposte esigenze, appare ragionevole distinguere l'ipotesi in cui la prestazione di lavoro part-time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell'anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in oggetto".
In applicazione di tale criterio, così come affermato nel precedente di questa Corte, tenuto conto della modalità dell'orario di lavoro osservato, la sentenza impugnata deve essere confermata.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: APPALTI - Contratto di appalto - Rovina e difetti di cose immobili ex art. 1669 cod. civ. - Gravi difetti - Costruttore committente - Obblighi delle società partecipanti alla fusione - Chiamata in manleva - Acquirente contro venditore - Responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Difetti dell'immobile - Risarcimento danni subiti dal Condominio.
La disposizione di cui all'art. 1669 c.c., configura una responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico, sancita per finalità di interesse generale, che trascende i confini dei rapporti negoziali tra le parti.
Pertanto, l'azione di responsabilità prevista dalla suddetta norma può essere esercitata, non solo dal committente contro l'appaltatore, ma anche dall'acquirente contro il venditore che abbia costruito l'immobile sotto la propria responsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto nei confronti dei terzi e degli stessi acquirenti una posizione di diretta responsabilità nella costruzione dell'opera e sempre che si tratti di gravi difetti i quali al di fuori dell'ipotesi di rovina ed evidente pericolo di rovina, pur senza influire sulla stabilità dell'edificio, pregiudicano o menomano in modo rilevante il normale godimento, la funzionalità o l'abitabilità del medesimo (v. Cass. n. 9370 del 2013 n. 8140 del 2004).
In altri termini, l'art. 1669 cod. civ. trova applicazione, oltre che nei casi in cui il venditore abbia provveduto alla costruzione con propria gestione di uomini e mezzi, anche nelle ipotesi in cui, pur avendo utilizzato l'opera di soggetti estranei, la costruzione sia, comunque, a lui riferibile in tutto o in parte per avere ad essa partecipato in posizione di autonomia decisionale, mantenendo il potere di coordinare lo svolgimento dell'altrui attività o di impartire direttive o di sorveglianza, sempre che la rovina o i difetti dell'opera siano riconducibili all'attività da lui riservatasi (Cass. n. 16202/2007).
Con l'ulteriore specificazione che chi abbia deciso di far costruire un immobile da destinare alla successiva vendita (intera o frazionata) a terzi, e che per far questo appalti l'opera ad un diverso soggetto (impresa edile) è tenuto alla garanzia prevista dall'art. 1669 cod. civ. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 20.02.2018 n. 4055 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTI: Impugnazione della segnalazione all’A.N.A.C..
Il TAR Milano ritiene che l’impugnazione della segnalazione all’A.N.AC. ai fini dell’annotazione nel casellario risulta inammissibile, per difetto di un interesse attuale e concreto; soltanto con l’iscrizione della notizia segnalata nel casellario, infatti, il soggetto riceverà un danno diretto e concreto rispetto alle future gare cui intende partecipare nei termini di un potenziale pregiudizio alla partecipazione stessa, previa valutazione della stazione appaltante.
L’eventuale vincolo valutativo imposto all’ANAC va considerato unicamente sotto il profilo dei vizi rilevabili e non anche sotto il profilo della possibilità di impugnazione immediata di un atto che ha semplicemente dato avvio ad un iter procedimentale complesso, in quanto coinvolgente due diverse amministrazioni
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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... per l'annullamento della comunicazione inviata dal Comune convenuto in data 20/07/2016, in pretesa applicazione dell'art. 8 del D.P.R. 207/2010, per notizie ritenute utili riguardanti la fase di esecuzione di contratti pubblici di lavori e in relazione dalla precedente determina dirigenziale n. 470 del 21/03/2014,
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Preliminarmente, occorre rilevare che il ricorso in esame non concerne l’affidamento di gara pubbliche (trattandosi di segnalazione successiva ad una risoluzione contrattuale per inadempimento) e che quindi i termini da rispettare erano quelli imposti dal rito ordinario del codice del processo amministrativo; ne consegue che la memoria di merito del Comune di Monza è stata depositata tardivamente.
Ad ogni modo, l’amministrazione convenuta ha eccepito formalmente, mettendola a verbale, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse all’udienza pubblica di trattazione del merito, e su tale eccezione, rilevabile peraltro anche di ufficio, il difensore della società ricorrente ha potuto adeguatamente articolare le proprie controdeduzioni nel corso della discussione, come risultante anche dal verbale di udienza.
Nello specifico, la difesa di Impresa Sa. ha sostenuto che la successiva annotazione dell’A.N.AC. costituirebbe atto dovuto e che quindi la corrispondente segnalazione effettuata dalla stazione appaltante sarebbe già di per sé lesiva dell’interesse sostanziale della ricorrente.
Il Collegio ritiene tale tesi infondata, con conseguente dichiarazione di inammissibilità del proposto gravame, per quanto di ragione.
La comunicazione impugnata è stata inviata dal Comune resistente all’A.N.AC. ai sensi dell’art. 8, comma 2, lett. dd), ovvero rientra nella categoria delle “altre notizie riguardanti le imprese che, anche indipendentemente dall'esecuzione dei lavori, sono dall'Autorità ritenute utili ai fini della tenuta del casellario”.
Tale comunicazione, per sua natura, non presenta una immediata e autonoma lesività, configurandosi quale atto prodromico ed endoprocedimentale, come tale non impugnabile, potendo essere fatti valere suoi eventuali vizi solo in via derivata, tramite l’impugnazione del provvedimento finale dell’A.N.AC. di iscrizione nel casellario.
Il Collegio ritiene pertanto di conformarsi, anche nel caso di specie, alla giurisprudenza consolidata secondo cui l’impugnazione della segnalazione all’A.N.AC. ai fini dell’annotazione nel casellario risulta inammissibile, per difetto di un interesse attuale e concreto.
La circostanza che il successivo provvedimento dell’Autorità (peraltro non ancora emesso) possa essere un atto dovuto non ha alcun rilievo sull’attualità della lesione dell’interesse perseguito in giudizio.
Soltanto con l’iscrizione della notizia segnalata nel casellario, infatti, la società ricorrente riceverà un danno diretto e concreto rispetto alle future gare cui intende partecipare –nei termini di un potenziale pregiudizio alla partecipazione stessa, previa valutazione della stazione appaltante-, dovendosi considerare l’eventuale vincolo valutativo imposto all’A.N.AC. unicamente sotto il profilo dei vizi rilevabili (che, nel caso di specie, e nella prospettazione della ricorrente, sarebbero soltanto quelli afferenti alla legittimità della segnalazione) e non anche sotto il profilo della possibilità di impugnazione immediata di un atto che ha semplicemente dato avvio ad un iter procedimentale complesso, in quanto coinvolgente due diverse amministrazioni.
Deve dunque essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con spese del giudizio che seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.02.2018 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza pacifica, non è sanabile la trasformazione di un garage interrato, realizzato in base alla L. 24.03.1989 n. 122, e quindi gravato ope legis del vincolo di destinazione espressamente previsto dall'art. 9 della stessa legge, in un locale abitabile, non potendo infatti la stessa ritenersi urbanisticamente irrilevante.
Infatti, solo qualora un cambio di destinazione d'uso abbia luogo tra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire, mentre allorché, come nel caso di specie, lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome, così come avviene tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
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Il cambio di destinazione d'uso di un garage in locale abitativo costituisce, in realtà, un cambio di categoria edilizia incompatibile con l'uso precedente, in quanto implicante una variazione degli standards urbanistici di cui al D.M. n. 1444/1968, ed un aggravio del carico urbanistico.
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Con il provvedimento impugnato il Comune di Livigno ha ordinato il ripristino del piano interrato di un fabbricato originariamente autorizzato a garage pertinenziale, ai sensi della L. n. 122/1989, sito in -OMISSIS-, a seguito della sua trasformazione a magazzino e deposito (mq 247,92), e monolocale dotato di bagni (mq 27,91).
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I) Osserva il Collegio che, per giurisprudenza pacifica, non è sanabile la trasformazione di un garage interrato, realizzato in base alla L. 24.03.1989 n. 122, e quindi gravato ope legis del vincolo di destinazione espressamente previsto dall'art. 9 della stessa legge (C.S. Sez. V, 24.04.2009, n. 2609), in un locale abitabile, non potendo infatti la stessa ritenersi urbanisticamente irrilevante.
Infatti, solo qualora un cambio di destinazione d'uso abbia luogo tra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire, mentre allorché, come nel caso di specie, lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome, così come avviene tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia, con effetti incidenti sul carico urbanistico (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.04.2017, n. 4225).
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III) Sotto altro profilo, l’istante evidenzia l’erroneità del richiamo all’art. 33 D.P.R. n. 380/2001, dettato in materia di interventi di ristrutturazione, laddove quello oggetto del presente giudizio, a suo dire, configurerebbe un mero cambio di destinazione d’uso, di una porzione interrata del fabbricato.
Il motivo è infondato atteso che, come sopra già evidenziato, il cambio di destinazione d'uso di un garage in locale abitativo, costituisce in realtà un cambio di categoria edilizia incompatibile con l'uso precedente, in quanto implicante una variazione degli standards urbanistici di cui al D.M. n. 1444/1968, ed un aggravio del carico urbanistico (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 695) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.02.2018 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, essendo l'ordine di ripristino un atto vincolato, e non inficiato, ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990, da supposte violazioni procedimentali.
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Con il provvedimento impugnato il Comune di Livigno ha ordinato il ripristino del piano interrato di un fabbricato originariamente autorizzato a garage pertinenziale, ai sensi della L. n. 122/1989, sito in -OMISSIS-, a seguito della sua trasformazione a magazzino e deposito (mq 247,92), e monolocale dotato di bagni (mq 27,91).
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IV) Ulteriormente, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 38 del Regolamento Edilizio Comunale, richiamato nel provvedimento impugnato, che a suo dire avrebbe imposto la preventiva consultazione della competenti Commissioni Comunali, al fine di accertare la sussistenza o meno di un grave contrasto tra l’intervento di che trattasi e gli interessi urbanistici o ambientali.
Ritiene il Collego che, contrariamente a quanto ritenuto dall’istante, la consultazione di dette Commissioni non è in realtà obbligatoria per il Comune, che in base al tenore letterale della norma asseritamente violata, vi deve ricorrere solo “quando sia necessario accertare il contrasto con rilevanti interessi urbanistici o ambientali”.
Nella fattispecie per cui è causa, come detto, il ricorrente ha trasformato un garage, su cui insisteva, in forza della L. n. 122/1989 e del rogito notarile, un vincolo di destinazione, in un magazzino di circa 250 mq, aggiungendovi un monolocale dotato di bagni, ciò che rende evidentemente superfluo, in ragione del rilievo qualitativo e quantitativo dell’abuso, qualsiasi accertamento volto a verificare il contrasto di tale intervento con gli interessi urbanistici, non essendo pertanto stato violato il citato art. 38.
Fermo restando quanto precede, di per sé ostativo all’accoglimento del motivo, osserva inoltre il Collegio, ad abundantiam, che secondo un orientamento giurisprudenziale, l'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, essendo l'ordine di ripristino un atto vincolato, e non inficiato, ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990, da supposte violazioni procedimentali (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 12.03.2015, n. 402, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.04.2012, n. 702).
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.02.2018 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPoiché tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, fra di essi deve intendersi ricompresa anche una piscina, non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico, in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
In particolare, malgrado la giurisprudenza riconduca effettivamente all’ambito delle pertinenze le piscine prefabbricate quelle di dimensioni modeste o prive di pavimentazione di contorno, nel caso di specie, al contrario, il manufatto è stato realizzato in muratura, dispone di un “camminamento perimetrale” largo m. 1,20, ed ha dimensioni tutt’altro che trascurabili (m. 12 di lunghezza e m. 6 di larghezza), dovendo pertanto essere considerato quale nuova costruzione.
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Osserva il Collegio che l’opera abusiva oggetto del provvedimento impugnato consiste in una piscina in muratura interrata, avente lunghezza di m. 12, larghezza di m. 6, e profondità di m. 1,20, contornata da un camminamento laterale di m. 1,20, posta a m. 19,30 dal muro perimetrale dell’abitazione dell’istante.
Ritiene il Collegio che, a prescindere dalla correttezza dell’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato, secondo cui il manufatto ricadrebbe nella fascia di rispetto stradale di cui all’art. 27, c. 2, delle Norme tecniche di Attuazione allegate al P.R.G., contestata nell’ambito del secondo motivo, il medesimo risulta in ogni caso legittimo, nella parte in cui ha qualificato gli interventi di che trattasi in termini di “nuova costruzione” eseguita in assenza di permesso di costruire, dovendosi pertanto respingere il primo motivo.
Infatti, poiché tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, fra di essi deve intendersi ricompresa anche una piscina, non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico, in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede (TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 16.03.2017, n. 1503).
In particolare, evidenzia il Collegio che, malgrado la giurisprudenza riconduca effettivamente all’ambito delle pertinenze le piscine prefabbricate (C.S., Sez. V, 16.04.2014, n. 1951, TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 13.02.2015, n. 441, TAR Liguria, Sez. I, 21.07.2014, n. 1142), quelle di dimensioni modeste, o prive di pavimentazione di contorno (C.S., Sez. I, 15.01.2014, n. 3601), nel caso di specie, al contrario, il manufatto è stato realizzato in muratura, dispone di un “camminamento perimetrale” largo m. 1,20, ed ha dimensioni tutt’altro che trascurabili (m. 12 di lunghezza e m. 6 di larghezza), dovendo pertanto essere considerato quale nuova costruzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.02.2018 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza pacifica, l’attività di repressione degli abusi edilizi non costituisce attività discrezionale, ma del tutto vincolata, che non abbisogna di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertata abusività delle opere che si ingiunge di demolire, quantomeno, nei casi in cui non risulti intercorso un lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo, come avvenuto nel caso di specie.
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Né infine risultano fondate le censure sollevate nell’ultimo motivo, in cui l’istante deduce la violazione dell’art. 3 L. n. 241/1990.
Come sopra evidenziato, il provvedimento impugnato ha infatti dettagliatamente descritto la consistenza dell’opera abusiva, che è stata dal medesimo qualificata in termini di “nuova costruzione”, ed indicato le norme giuridiche violate.
Per giurisprudenza pacifica, l’attività di repressione degli abusi edilizi non costituisce attività discrezionale, ma del tutto vincolata, che non abbisogna di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertata abusività delle opere che si ingiunge di demolire (C.S., Sez. VI, 06.09.2017, n. 4243), quantomeno, nei casi in cui non risulti intercorso un lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo, come avvenuto nel caso di specie.
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.02.2018 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale, "il calcolo dei volumi edificabili deve essere compiuto comprendendo le eventuali zone di rispetto o vincolate a verde privato" in virtù della circostanza che il vincolo derivante da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza.
Invero, "il vincolo derivante da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di rendere inedificabile l'area che vi ricade, pertanto, posto che la "ratio" delle disposizioni che danno origine alla c.d. "zona di rispetto viario" sono quelle di garantire la sicurezza della circolazione stradale, tali aree possono essere computabili ai fini della volumetria edificabile e deve conseguentemente ritenersi illegittimo il diniego di concessione edilizia adottato per l'insufficienza del possesso del lotto minimo necessario poiché la porzione di lotto compresa nella fascia di rispetto stradale non è stata ritenuta computabile come superficie edificabile".
In definitiva, se anche può ritenersi l’inedificabilità dell'area compresa nella fascia di rispetto stradale, tuttavia ciò conferma la computabilità di detta area ai fini della volumetria assentibile nell'area adiacente.
Invero, “l'area sita in fascia di rispetto, sebbene inedificabile, esprime una volumetria concentrabile sulle aree adiacenti esterne a detta fascia, secondo i parametri nelle stesse fissate e, quindi, concorre per intero alla determinazione della superficie utile ai fini del calcolo della cubatura assentibile e della superficie che può essere coperta. Ciò corrisponde ad un principio pacifico e consolidato in giurisprudenza, secondo cui la fascia di rispetto partecipa, come regola generale e salvi gli specifici obblighi da essa nascenti, della natura e della disciplina della zona nella quale essa è inserita, concorrendo alla determinazione delle capacità edificatorie della più vasta area in cui essa è inclusa".
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Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Riveste carattere assorbente la censura con la quale si rileva che l’area compresa nella fascia di rispetto stradale non rappresenta zonizzazione del territorio comunale e che la stessa è computabile ai fini dell’applicazione degli indici di utilizzazione pertinenti alle contigue aree della zona omogenea confinante, costituente il lotto d’intervento dello stesso proprietario.
Secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale, "il calcolo dei volumi edificabili deve essere compiuto comprendendo le eventuali zone di rispetto o vincolate a verde privato" (Cons. St., sez. V, 14.01.1991, n. 44, CS, 1991, I, 40) in virtù della circostanza che il vincolo derivante da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza.
Invero, "il vincolo derivante da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di rendere inedificabile l'area che vi ricade, pertanto, posto che la "ratio" delle disposizioni che danno origine alla c.d. "zona di rispetto viario" sono quelle di garantire la sicurezza della circolazione stradale, tali aree possono essere computabili ai fini della volumetria edificabile e deve conseguentemente ritenersi illegittimo il diniego di concessione edilizia adottato per l'insufficienza del possesso del lotto minimo necessario poiché la porzione di lotto compresa nella fascia di rispetto stradale non è stata ritenuta computabile come superficie edificabile" (in tal senso TAR Toscana Firenze 22.09.2000, n. 1982, TAR Toscana, 2000).
In definitiva, se anche può ritenersi l’inedificabilità dell'area compresa nella fascia di rispetto stradale, tuttavia ciò conferma la computabilità di detta area ai fini della volumetria assentibile nell'area adiacente. Invero, (Tar Sicilia palermo Sez. II, Sent., 02/10/2012, n. 1939) “l'area sita in fascia di rispetto, sebbene inedificabile, esprime una volumetria concentrabile sulle aree adiacenti esterne a detta fascia, secondo i parametri nelle stesse fissate e, quindi, concorre per intero alla determinazione della superficie utile ai fini del calcolo della cubatura assentibile e della superficie che può essere coperta. Ciò corrisponde ad un principio pacifico e consolidato in giurisprudenza, secondo cui la fascia di rispetto partecipa, come regola generale e salvi gli specifici obblighi da essa nascenti, della natura e della disciplina della zona nella quale essa è inserita, concorrendo alla determinazione delle capacità edificatorie della più vasta area in cui essa è inclusa" (conf.: Cons. Stato Sez. IV 31.01.2005 n. 253; TAR Campania-Salerno, Sez. I, 27/11/2006, n. 2178; TAR Catania, I, 15.10.2007 n. 1663, in cui si richiama Cass. Civ., Sez. I 06.09.2006 n. 19132; TAR Toscana n. 1982 del 2000).
Peraltro, nella specie, come rilevato dal ricorrente, ciò è confermato dall’art. 24 delle NN.TT.AA. il quale qualifica le fasce di rispetto della rete viaria “distanze minime da osservarsi nell’edificazione a partire dal ciglio stradale ai sensi del D.M. 1444/1968”.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 20.02.2018 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istanza di accertamento di conformità - Comune - Adozione di provvedimenti sanzionatori prima del decorso di sessanta giorni - Valutazione della sanabilità dell’abuso - Preventivo rigetto o accoglimento dell’istanza.
Ove sia stata presentata un’istanza di accertamento di conformità dell’abuso edilizio, pur non essendovi l’obbligo del Comune di fornire una risposta espressa (in mancanza della quale s’intenderà rigettata l’istanza), ove l’Amministrazione voglia procedere con i provvedimenti sanzionatori prima del decorso del termine di sessanta giorni, ovvero rivedere la propria posizione, occorre che detta Amministrazione valuti l’istanza prodotta e, quindi, la sanabilità o meno dell’abuso, procedendo espressamente al rigetto o all’accoglimento della stessa (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 08/09/2011, n. 2182) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 20.02.2018 n. 271 - link a
www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGORisarcito pure il mobbing soft. Vessazioni sporadiche (straining) vanno indennizzate. La Cassazione amplia la tutela respingendo un ricorso del ministero dell'economia.
Devono essere risarcite a titolo di straining le azioni ostili o discriminatorie di datore o colleghi che danneggiano il lavoratore, anche se sporadiche e non continuative.

A dare ampia tutela a questa forma attenuata di mobbing è la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- che, con l'ordinanza 19.02.2018 n. 3977, ha respinto il ricorso del ministero dell'economia e delle finanze in relazione al caso di un'impiegata bersagliata dalle vessazioni del suo diretto superiore.
In particolare la donna era entrata in conflitto con il dirigente quando gli aveva palesato che per adempiere a tutte le pratiche amministrative era necessario altro personale. Lui aveva reagito sottraendole tutti gli strumenti di lavoro fino ad arrivare alla totale inattività.
Per questo la donna aveva lamentato un danno biologico che, con verdetto confermato in sede di legittimità, era stato quantificato dal consulente tecnico in 15 mila euro.
Inutile il ricorso del Ministero alla Suprema corte. Alle obiezioni della difesa in primo luogo gli Ermellini hanno risposto certificando la correttezza del ricorso che aveva utilizzato la nozione medico legale dello straining. Per il Collegio l'istituto altro non sarebbe se non se non «una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie» azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ..
Ciò in accordo con l'interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata di questa norma che la stessa Cassazione ha fornito da tempo.
L'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datare di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona.
La responsabilità del datore sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia riconducibile a un comportamento colposo, ossia all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati
(articolo ItaliaOggi del 20.02.2018).
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MASSIMA
5. i motivi di ricorso, che per la loro stretta connessione logico-giuridica possono essere unitariamente trattati, sono infondati per le ragioni già esposte da questa Corte con la sentenza n. 3291 del 19.02.2016, pronunciata in fattispecie non dissimile da quella oggetto di causa;
5.1. con la richiamata decisione si è premesso che il vizio di ultra o extra petizione ricorre solo qualora il giudice pronuncia oltre í limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, non già allorquando venga diversamente qualificata la domanda o vengano poste a fondamento della pronuncia considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate dalle parti;
5.2. si è, quindi, evidenziato che
non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'avere utilizzato «la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing» perché lo straining altro non è se non «una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie..» azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ.;
5.3.
al principio di diritto enunciato il Collegio intende dare continuità perché dell'art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo fornito un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.;
5.4.
l'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona;
5.5.
la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti;
5.6. a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale che ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la De Sa. era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell'assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità (pag. 8 della sentenza impugnata);
5.7. il ricorso, nella parte in cui censura la valutazione della prova testimoniale e della consulenza tecnica d'ufficio è inammissibile perché, pur denunciando la violazione delle norme di legge richiamate nella rubrica dei motivi, tende a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze processuali e, quindi, un giudizio di merito non consentito alla Corte di legittimità;
6. la mancata costituzione della De Sa. esime dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità;
6.1. non sussistono le condizioni richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, perché la norma non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo.

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Potere di coordinamento e incarichi aggiuntivi per il segretario comunale.
Non può configurarsi alcuna lesione delle prerogative di piena indipendenza ed autonomia dell’Avvocatura comunale per effetto dell'attribuzione al Segretario Generale del potere di individuazione e nomina di legali esterni all'ente, dal momento che l'autonomia riconosciuta agli avvocati degli enti pubblici concerne la "trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente" (cfr. art. 23, primo comma, della L. n. 247/2012 recante la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), e non attiene invece a aspetti di carattere organizzativo, come quello di cui si controverte.
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Nell'attuale assetto ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti.
In via generale è quindi pacifico che al Segretario comunale non sono affidati compiti di amministrazione c.d. attiva, limitandosi egli (cfr. art. 97, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000, c.d. Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali o T.U.E.L.) a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne l’attività qualora non sia stato nominato un direttore generale. Tale attribuzione di competenze nettamente separate risulta però per ovvie ragioni temperata nei Comuni di minori dimensioni demografiche, generalmente privi di personale di qualifica dirigenziale.
Prevede infatti l’art. 109, secondo comma, del T.U.E.L. che nei Comuni privi di dirigenti le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai responsabili degli uffici oppure demandate al Segretario comunale, in applicazione dell’art. 97, comma 4, lettera d), a mente del quale appunto il Segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal Sindaco o dal Presidente della provincia.
Invero, dall’esame della delibera risulta che l’attribuzione al Segretario Generale dell’incarico di individuare e affidare il patrocinio dell’ente si giustifica in ragione della strutturazione del Servizio autonomo di Avvocatura che non è diretto da un dirigente e non risulta inquadrato nell’area amministrativa, elementi che hanno indotto la Giunta Comunale ad attribuire al Segretario Generale, organo di vertice della struttura burocratica, l’incarico di individuare e conseguentemente affidare, in caso eccezionali, la rappresentanza in giudizio ai professionisti esterni, previa istruttoria e proposta del Responsabile dell’Ufficio Avvocatura.
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L’avv. Ti. Di Gr. premette di essere iscritta all’albo speciale di cui all’art. 3 del R.D. n. 1578/1933 e di esercitare attività professionale nell’esclusivo interesse del Comune di Marano di Napoli.
Con il ricorso in trattazione impugna, chiedendone l’annullamento, la deliberazione di Giunta n. 3 del 22.07.2013 con cui è stato modificato l’art. 20, comma 1, del Regolamento dell’Avvocatura Comunale rubricato “Affidamento degli incarichi agli iscritti nell’elenco” nei sensi di seguito indicati:
   - precedente formulazione: “Nell’ipotesi di cui al precedente art. 14 il Sindaco individua il professionista da incaricare applicando la rotazione tra gli iscritti nell’elenco con propria determinazione; su proposta del Responsabile del Servizio Avvocatura, con delibera di G.M. si provvede al conferimento dell’incarico valutando la conformità al presente regolamento…”;
   - nuova formulazione: “Nell’ipotesi di cui al precedente art. 14 il Segretario Generale individua il professionista da incaricare applicando la rotazione tra gli iscritti nell’elenco con proprio provvedimento; su proposta motivata del Responsabile del Servizio Avvocatura, il Segretario Generale, provvede con proprio provvedimento al conferimento dell’incarico”.
Al riguardo, va rammentato che l’art. 14 richiamato dalla previsione regolamentare disciplina l’affidamento di incarichi professionali ad avvocati esterni, la cui decisione compete al Sindaco, e contempla due ipotesi: 1) “su motivata relazione dell’Avvocatura comunale al Sindaco e, soltanto, per le prestazioni e le attività che non possono essere espletate dal personale dipendente per: a) coincidenza ed indifferibilità di altri impegni di lavoro; b) trattazione materie per le quali necessita idonea specializzazione; in casi di incompatibilità; 2) in casi motivati di particolare specificità e/o complessità valutata dal Sindaco, sentita l’Avvocatura, che giustifichino l’affidamento all’esterno”.
In proposito, va anche rilevato che il punto 2 del predetto testo regolamentare (approvato con delibera del Commissario Straordinario n. 19/2013) è stato attinto dalla pronuncia di questo TAR 1144/2014 che, in accoglimento di un pregresso ricorso proposto dalla medesima ricorrente, ha statuito quanto segue: “Al riguardo deve osservarsi che –alla stregua dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001– l’utilizzo di professionalità esterne da parte delle pubbliche amministrazioni, nei casi tassativi stabiliti al comma 6, assume carattere eccezionale rispetto al principio generale secondo cui le amministrazioni devono provvedere allo svolgimento dei compiti loro affidati attraverso il personale e le strutture organizzative di cui dispongono, anche in considerazione del conseguente esborso di denaro pubblico (cfr. Corte Conti reg., sez. giurisd., 05.11.2003, n. 912). Ciò posto ed alla luce dei principi generali più volte evocati, osserva il Collegio che l’ampiezza delle fattispecie già individuate dal punto 1 della norma regolamentare in discussione non giustifica la previsione di un’ulteriore ipotesi derogatoria, che per la sua genericità e vaghezza (“in casi di particolare specificità e/o complessità”) e per essere rimessa all’apprezzamento dell’organo politico (“valutata dal Sindaco, sentita l’avvocatura”), pone l’Avvocatura municipale in posizione di soggezione rispetto al Sindaco, consentendo sostanzialmente a quest’ultimo di delimitarne ad libitum la generale sfera di operatività e di svuotarne così le funzioni”.
Nello specifico parte ricorrente lamenta che, nel testo regolamentare novellato, è stato assegnato al Segretario Generale –e non al Responsabile dell’avvocatura comunale– l’individuazione e la nomina del procuratore dell’ente locale, qualora il Sindaco ritenga opportuno affidarsi a professionisti esterni di talché, prosegue la istante, la modifica persegue l’unico obiettivo di sottrarre all’ufficio legale rilevanti settori di competenza, ledendone l’autonomia ed indipendenza.
...
Il ricorso non può trovare accoglimento per i motivi di seguito illustrati.
Parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 del R.D. n. 1578/1933, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267/2000, violazione e falsa applicazione dello Statuto del Comune di Marano di Napoli, violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Costituzione, eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, carenza ed erroneità dell’istruttoria, difetto di motivazione.
Con il primo motivo di gravame l’avvocato Di Gr., in sintesi, assume l’illegittimità della modifica regolamentare –al pari di quella previgente– che, a suo dire, minerebbe l’autonomia funzionale dell’Avvocato comunale poiché rimette al Segretario Generale valutazioni (quelle, per l’appunto, concernenti la scelta del professionista esterno) che si connoterebbero per il carattere tecnico/discrezionale e che competerebbero, nella prospettazione attorea, al capo dell’ufficio legale, unica struttura dotata delle conoscenze necessarie per valutare la sussistenza degli elementi per l’esternalizzazione del servizio.
La censura non ha pregio.
Invero, parte ricorrente contesta sia la nuova formulazione dell’art. 20 (che rimette al Segretario Generale l’individuazione del professionista da incaricare) sia quella previgente (che attribuiva tale potere al Sindaco) ritenendole entrambe lesive delle prerogative dell’Avvocatura comunale. Tuttavia, è evidente che l’eventuale accoglimento del motivo di gravame non sarebbe di alcuna utilità per la ricorrente poiché avrebbe, come unica conseguenza, quella di ripristinare l’originario potere di designazione da parte del Sindaco –tale essendo la previsione antecedente alla delibera impugnata– che, in ogni caso, non sarebbe satisfattivo per la ricorrente e, pertanto, la censura è inammissibile per carenza di interesse.
Si aggiunga che, nel merito, il rilievo è comunque infondato.
Difatti, non può configurarsi alcuna lesione delle prerogative di piena indipendenza ed autonomia dell’Avvocatura comunale per effetto dell'attribuzione al Segretario Generale del potere di individuazione e nomina di legali esterni all'ente, dal momento che l'autonomia riconosciuta agli avvocati degli enti pubblici concerne la "trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente" (cfr. art. 23, primo comma, della L. n. 247/2012 recante la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), e non attiene invece a aspetti di carattere organizzativo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2434/2016), come quello di cui si controverte.
La novella è quindi riconducibile al potere generale di coordinamento attribuito al Segretario generale dall’art. 97, comma 4, del T.U.E.L. che non incide sull'autonoma organizzazione e gestione dell'attività forense dei professionisti dell'avvocatura comunale ma è unicamente volta ad attuare -per il tramite della figura di interrelazione tra l'apparato amministrativo dell'ente ed i rappresentanti politici dell'ente stesso– il necessario coordinamento del servizio legale rispetto alla complessiva organizzazione amministrativa comunale.
Inoltre, mette conto evidenziare che, riguardo alla scelta di individuazione e nomina del professionista esterno all’ente locale, l’Avvocatura comunale non è stata del tutto esautorata, visto che al Responsabile del Servizio Avvocatura compete comunque un potere di proposta motivata in ordine alla scelta del professionista esterno cui conferire l’incarico di rappresentazione dell’ente (“…su proposta motivata del Responsabile del Servizio Avvocatura, il Segretario Generale, provvede con proprio provvedimento al conferimento dell’incarico”); in altri termini, la novella regolamentare ha comunque tenuto conto della necessità di rimettere al titolare del settore avvocatura, tramite l’attribuzione del potere di proposta, l’avvio del procedimento di nomina e di contestuale formulazione del giudizio tecnico–discrezionale sul contenuto del provvedimento di nomina del professionista esterno, mostrando quindi di tenere in debita considerazione le valutazioni della struttura legale dell’ente.
Con la seconda censura l’istante lamenta la violazione degli artt. 107 e 97 del D.Lgs. n. 267/2000 evidenziando che le funzioni gestionali dell’ente locale -cui l’istante mostra di ricondurre l’individuazione del professionista esterno- appartengono esclusivamente ai dirigenti dell’ente locale, mentre al Segretario comunale non spettano compiti di amministrazione attiva, limitandosi a sovrintendere e coordinare i dirigenti medesimi.
Il motivo è infondato.
Nell'attuale assetto ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti.
In via generale è quindi pacifico che al Segretario comunale non sono affidati compiti di amministrazione c.d. attiva, limitandosi egli (cfr. art. 97, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000, c.d. Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali o T.U.E.L.) a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne l’attività qualora non sia stato nominato un direttore generale. Tale attribuzione di competenze nettamente separate risulta però per ovvie ragioni temperata nei Comuni di minori dimensioni demografiche, generalmente privi di personale di qualifica dirigenziale.
Prevede infatti l’art. 109, secondo comma, del T.U.E.L. che nei Comuni privi di dirigenti le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai responsabili degli uffici oppure demandate al Segretario comunale, in applicazione dell’art. 97, comma 4, lettera d), a mente del quale appunto il Segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal Sindaco o dal Presidente della provincia (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4858/2006; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, n. 1886/2012).
Invero, dall’esame della delibera risulta che l’attribuzione al Segretario Generale dell’incarico di individuare e affidare il patrocinio dell’ente si giustifica in ragione della strutturazione del Servizio autonomo di Avvocatura che non è diretto da un dirigente e non risulta inquadrato nell’area amministrativa, elementi che hanno indotto la Giunta Comunale ad attribuire al Segretario Generale, organo di vertice della struttura burocratica, l’incarico di individuare e conseguentemente affidare, in caso eccezionali, la rappresentanza in giudizio ai professionisti esterni, previa istruttoria e proposta del Responsabile dell’Ufficio Avvocatura.
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In conclusione, il ricorso va respinto pur stimandosi equo disporre la compensazione delle spese processuali in considerazione della novità delle questioni esaminate (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 19.02.2018 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIMeno tutela per chi compra casa sulla carta.
Meno tutela per chi compra casa sulla carta: chi firma un preliminare sul progetto, ma prima della richiesta del permesso di costruire non gode della garanzia fideiussoria prevista dal dlgs 122/2005.

La Corte Costituzionale, con sentenza 19.02.2018 n. 32, ha respinto una questione di costituzionalità, che mirava ad estendere le garanzie testualmente previste per chi compra una casa per la quale è stato richiesto il permesso o ci sia già il titolo edilizio.
Secondo la Consulta tocca al legislatore fare una scelta, che non può essere dettata per effetto della somiglianza dei due casi. Il problema sollevato consiste nel fatto che senza la estensione dell'obbligo di fideiussione, no ricorre l'ipotesi della nullità del contratto a favore dell'acquirente in caso di inadempimento del venditore
Per tutelare gli acquirenti di immobili da costruire il legislatore ha previsto a carico del costruttore l'obbligo di procurare il rilascio e di provvedere alla consegna, prima della stipula del contratto preliminare d'acquisto, di una fideiussione di importo pari alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo riscosso e da riscuotere prima della stipula del contratto definitivo di compravendita o dell'atto definitivo di assegnazione.
La norma definisce, però, restrittivamente gli immobili da costruire, considerando solo gli immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità. L'arco di tempo della garanzia fideiussoria risulta, quindi, compreso nell'intervallo che va dalla iniziale richiesta di permesso di costruire fino all'ultimazione della costruzione con il rilascio del certificato di agibilità.
La fideiussione deve garantire agli acquirenti, nel caso in cui il costruttore incorra in una situazione di crisi (per sopravvenuta esecuzione immobiliare, fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo, amministrazione straordinaria), la restituzione delle somme e del valore di ogni altro eventuale corrispettivo effettivamente riscossi e dei relativi interessi legali maturati fino al momento in cui la predetta situazione si è verificata.
La legge esclude l'applicabilità delle garanzie ai contratti preliminari relativi ad immobili esistenti «sulla carta» e cioè, muniti di progetto, ma prima della richiesta di permesso. E la Consulta non può metterci una pezza
(articolo ItaliaOggi del 20.02.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti speciali - Momento consumativo delle varie ipotesi di illecita gestione - Natura istantanea o permanente della violazione - Cessazione della permanenza del reato - Fattispecie: attività di demolizione e costruzione - Artt. 183 e 256, c. 2, d.lgs. n.152/2006.
Il momento consumativo del reato relativo al ciclo dei rifiuti varia in funzione della natura dell'attività svolta: mentre la raccolta o il trasporto si consumano nel momento e nel luogo in cui essi hanno avuto luogo, lo smaltimento può essere istantaneo o permanente a seconda che si articoli in diverse fasi e il deposito incontrollato, invece, dando luogo ad una forma di gestione del rifiuto preventiva rispetto al recupero o allo smaltimento perdura fino al compimento di tali attività.
Mentre, la cessazione della permanenza, momento dal quale inizia a decorrere la prescrizione, deve essere individuata nella cessazione dell'antigiuridicità con il conseguimento della necessaria autorizzazione, ovvero con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti, con un provvedimento cautelare di natura reale, ovvero con la sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 25429 del 01/07/2015, Gai; Sez. 3, n. 38662 del 20/05/2014, Convertino,; Sez. 3, n. 25216 del 26/05/2011, Caggiano).
Fattispecie: attività edile e deposito in modo incontrollato rifiuti speciali derivanti dalla sua attività (materiale derivante da demolizione, cemento, mattoni, mattonelle e ceramiche).
RIFIUTI - Ciclo dei rifiuti - Differenza tra deposito incontrollato e deposito controllabile - Omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti dall'art. 183, c. 1°, lett. bb), D.L.vo n.152/2006.
Il momento consumativo del reato relativo al ciclo dei rifiuti varia in funzione della natura dell'attività svolta, pertanto, nei casi in cui alla condotta di deposito incontrollato segue il mancato rispetto delle condizioni di legge per la qualificazione del medesimo come temporaneo, si è in presenza di un reato permanente, perché la condotta riguarda un'ipotesi di deposito "controllabile" cui segue l'omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti dalla norma contenuta nel d.lgs. n. 152/2006, donde l'inosservanza di dette condizioni integra un'omissione a carattere permanente, la cui antigiuridicità cessa sino allo smaltimento o al recupero.
Il deposito incontrollato, dando luogo ad una forma di gestione del rifiuto preventiva rispetto al recupero o allo smaltimento, perdura fino al compimento di tali attività, a differenza della raccolta o il trasporto che si consumano nel momento e nel luogo in cui essi hanno avuto luogo e dello smaltimento che può essere istantaneo o permanente a seconda che si articoli in diverse fasi.
Dunque, il deposito incontrollato di rifiuti è integrato dal mancato rispetto delle condizioni dettate per la sua qualificazione come temporaneo, ed ha natura permanente, perché la condotta riguarda un'ipotesi di deposito "controllabile" cui segue l'omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti dall'art. 183, comma primo, lett. bb), D.Lgs. n. 152 del 2006, la cui antigiuridicità cessa con lo smaltimento, il recupero o l'eventuale sequestro (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2018 n. 6999 - link a
www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Smaltimento rifiuti speciali non pericolosi (acque reflue di vegetazione da frantoio oleario) - Assenza di autorizzazione - Assimilazione alle acque reflue domestiche ai fini dello scarico in pubblica fognatura - Presupposti - RIFIUTI - Scarico di acque industriali - Deroga alla disciplina ordinaria - Onere probatorio - Imputato - Artt. 74, 101, 183 e 256 d.lgs. n.152/06.
L'assimilazione alle acque reflue domestiche, ai fini dello scarico in pubblica fognatura, delle acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari opera soltanto:
   a) in presenza di determinati condizioni ai fini dello scarico in pubblica fognatura;
   b) non interviene in modo automatico, sol perché si tratti di acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari.
Pertanto, solo con l'accertamento -su adempiuto onere dimostrativo dell'imputato- consente di sottrarre lo scarico delle acque in esame alla disciplina ordinaria di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 in tema di scarichi industriali. Sicché, solo con la presenza di tutti i ben definiti presupposti (tra i quali, anche, assenza di criticità nell'impianto di depurazione; provenienza esclusivamente regionale delle olive; collocazione delle aziende agricole in terreni ove metodi di fertilizzazione e irrigazione non sono praticabili in modo agevole), giustificano la previsione derogatoria stessa, soprattutto in rapporto a differenti ambiti che la medesima assimilazione non hanno ricevuto.
D'altronde, anche il precedente comma 7 dello stesso art. 101, nello stabilire che "salvo quanto previsto dall'art. 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche" determinate acque reflue (indicate nelle lettere a-f), impone sovente specifiche condizioni, oggetto di prova da parte dell'interessato, che sole consentono l'assimilazione richiamata, non risultando dunque sufficiente la mera natura del refluo di volta in volta coinvolto.
INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di scarico - Definizione di sistema stabile di collettamento - Applicabilità della disciplina sulle acque o sui rifiuti - Criterio del nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore.
La nozione di scarico di cui all'art. 183, lettera hh) rinvia all'art. 74, comma 1, lett. ff), il quale definisce, appunto, lo scarico come "qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione".
Ne consegue che la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile; in tutti gli altri casi -nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore- si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti.
Sebbene, tale nozione di scarico, non richieda la presenza di una "condotta" nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, vi è comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2018 n. 6998 - link a
www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Trasporto rifiuti in condizioni di sicurezza per l'ambiente - Verifica dell'idoneità dei mezzi - Semirimorchi e rimorchi - Iscrizione all’Albo gestori ambientali - Necessità - Art. 256, c. 4, d.lgs. n. 152/2006.
L'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali per le imprese che effettuano trasporto di rifiuti abilita allo svolgimento dell'attività soltanto con i mezzi di trasporto oggetto di specifica comunicazione. Tale previsione, non è connotata da mero formalismo, essendo necessario accertare che i mezzi di trasporto siano idonei per la tipologia di rifiuti oggetto dell'attività.
Sicché, integra il reato di cui all’art. 256, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, l’effettuazione di un’attività di trasporto di rifiuti speciali non pericolosi utilizzando un semirimorchio non inserito nella lista dei mezzi, che, il titolare di autorizzazione al trasporto di rifiuti e iscritto all’Albo dei gestori ambientali, è abilitata ad impiegare, poiché ai fini della disciplina richiamata, tra i mezzi di trasporto rientrano non soltanto le motrici, ma anche i semi-rimorchi.
RIFIUTI - Trasporto dei rifiuti - Iscrizione all'Albo dei gestori ambientali - Impiego di un mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede di iscrizione - Attività di gestione di rifiuti in «carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni - Fattispecie: rimorchi.
Nel caso di impiego di un mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede di iscrizione, all'Albo dei gestori ambientali, o di variazione il responsabile effettua un'attività di gestione di rifiuti in «carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni» come previsto dall'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006.
In particolare, nella specie, con riferimento all'idoneità dei mezzi al trasporto dei rifiuti, vale a maggior ragione per i rimorchi, le cui caratteristiche tecniche debbono essere appunto valutate ai fini di accertare che il trasporto possa svolgersi in condizioni di sicurezza per l'ambiente. Quindi, nessun dubbio, che ai fini della disciplina, ex art. 256, c. 4, d.lgs. n.152/2006, tra i mezzi di trasporto rientrino non soltanto le motrici, ma anche i (semi)rimorchi.
RIFIUTI - Abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato - Comproprietario di un terreno - Configurabile in forma omissiva del reato - Esclusione - Giurisprudenza.
In materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del comproprietario di un terreno sul quale il coniuge abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione degli stessi, non sussistendo un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017, Andrisani e a.; Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6739 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso - Attività edificatoria realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi - Responsabilità del titolare del permesso, progettista e responsabile dell'ufficio tecnico comunale - Art. 323 c.p. abuso d'ufficio giurisprudenza.
Il reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso, sussiste laddove il permesso di costruire -pur formalmente rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie, quanto al permesso di costruire in variante, è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra il titolare del permesso ed il suo progettista ed il responsabile dell'ufficio tecnico comunale) ovvero anche soltanto macroscopicamente illegittimo (Cass. Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
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MASSIMA
4. Le censurabili valutazioni della sentenza impugnata di cui si è dato conto supra, sub n. 3 incidono sul giudizio circa la sussistenza del reato urbanistico contestato al capo h) e dei delitti di abuso d'ufficio contestati ai capi a) e b).
4.1. Quanto alla contravvenzione urbanistica, la conclusione è evidente.
La contestazione, di fatti, muove dall'assunto secondo cui deve considerarsi avvenuta in assenza di titolo edilizio -e dunque riconducibile al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001- l'attività edificatoria realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi, quali nella specie ben potrebbero essere la concessione edilizia n. 11/2003, le d.i.a. del 29.07.2008 e 03.02.2009 ed il permesso di costruire in variante prot. 6641 del 30.07.2009 se fossero ritenuti sussistenti i contestati profili di macroscopica illegittimità più sopra analizzati con riguardo all'edificazione di un numero di piani ben superiore a quello consentito ed all'edificazione di volumi assai più consistenti di quelli massimi previsti (il capo h -a differenza dei capi a e b- non considera invece il profilo relativo alle altezze).
Che il reato urbanistico in parola sussista laddove il permesso di costruire -pur formalmente rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie, quanto al permesso di costruire in variante, è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra Sa.Mo. ed il suo progettista Ca.Ma. ed il responsabile dell'ufficio tecnico comunale Gi.Ze.) ovvero anche soltanto macroscopicamente illegittimo è conclusione affermata da consolidata giurisprudenza di legittimità che qui non viene neppure contestata (cfr., di recente, Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a., Rv. 263916).
Si consideri, al proposito, che il permesso di costruire in variante rilasciato il 30.07.2009 aveva in particolare ad oggetto la realizzazione di un ulteriore piano, sicché -anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso non avrebbe aumentato la volumetria qualora fossero state osservate le prescrizioni al proposito effettuate dall'Ufficio Tecnico Comunale, vale a dire la demolizione di alcuni muri perimetrali e la destinazione del nuovo piano quale porticato ad uso collettivo- certamente incrementava ulteriormente l'altezza ed il profilo di difformità dalle norme urbanistiche quanto al numero dei piani edificabili.
Quanto, poi, alle d.i.a., trattandosi di lavori in variante rispetto a quelli autorizzati con la concessione edilizia n. 11/2003, pure questi si collocavano nel solco di quelli originari e -parzialmente incidendo sia sui volumi, sia sulle altezze- ne postulavano (una nuova verifica ai fini di accertare) la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente (v. art 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, sul punto non mutato con la sostituzione operata dall'art. 1, comma 1, lett. f, n. 2, d.lgs. 25.11.2016, n. 222). Conformità che, per quanto sopra detto, era palesemente assente, soprattutto con riferimento alla d.i.a. del 29.07.2008, che incideva in modo pesante sul progetto.
Oltre a ciò -sempre con maggiore evidenza in quella da ultimo menzionata- difettavano pure i requisiti previsti dall'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, posto che
è possibile effettuare con d.i.a. (oggi s.c.i.a.) lavori in variante a permessi costruire soltanto se si tratti delle c.d. "varianti leggere", vale a dire quelle che, oltre a non violare eventuali prescrizioni contenute nel permesso, «non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni» (le parole in corsivo sono state aggiunte dall'art. 30, comma 1, lett. e, d.l. 21.06.2013, n 69 conv., con modiff., nella legge 09.08.2013, n. 98, sicché all'epoca dei fatti per cui è processo il requisito della non alterazione della sagoma era richiesto per qualsiasi tipo di edificio).
Ed invero, la stessa sentenza impugnata, richiamando le valutazioni del perito nominato in secondo grado, dà atto (v. pp. 84 s. e pp. 87-92 relazione peritale ing. Go. cui si fa espresso rinvio) che la prima d.i.a. in variante:
   - apportava modifiche alla sagoma del fabbricato nel corpo di monte a Nord (non rilevando ai fini di escludere la natura di variante "pesante" di tale modifiche e la necessità che fossero assentite con permesso di costruire il fatto che le stesse sarebbero state necessarie per assicurare il rispetto delle distanze tra il fabbricato e la villetta comunale oggetto di generiche prescrizioni riportate a penna sulle tavole allegate al progetto originario, approvato con la concessione edilizia del 2003);
   - incideva sulla volumetria (sia pur apparentemente riducendola, ma sempre senza ricondurla nell'ambito di quella effettivamente realizzabile sulla base delle previsioni urbanistiche correttamente interpretate);
   - introduceva significative modifiche alle distribuzioni interne degli spazi, modificandone la destinazione d'uso.
La Corte d'appello (p. 100 sentenza) dà altresì atto che le due denunce d'inizio attività ed il permesso di costruire in variante sono successivi all'approvazione, avvenuta dopo il rilascio della concessione edilizia originaria, del Piano di Assetto Idrogeologico, e ciò nondimeno per nessuna di dette opere fu richiesto l'obbligatorio parere preventivo dell'Autorità di bacino: un'altra palese difformità sia delle d.i.a. sia del permesso di costruire alle previsioni urbanistiche che la Corte territoriale supera con l'argomentazione, manifestamente illogica, secondo cui, trattandosi di varianti che non comportavano aumento di volumetria, le stesse non avrebbero inciso sull'assetto idrogeologico del suolo.
Ed invero -a prescindere dal fatto che l'aumento di volumetria è soltanto uno dei potenziali parametri da prendersi in considerazione per quel giudizio- così motivando la Corte territoriale ha arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella riservata invece all'Autorità di bacino, a cui debbono essere sottoposti tutti i progetti che anche solo potenzialmente incidono sull'assetto idrogeologico del suolo, quale certamente era l'ampia modifica del progetto originario oggetto della d.i.a. presentata nel 2008 (nella sentenza di primo grado riportata dalla sentenza impugnata a pag. 29 si parla di realizzazione di nuovi terrazzamenti prospicienti la villetta comunale, della costruzione di una seconda rampa di accesso ai box auto del primo piano interrato, della realizzazione di una piccola cappella, della previsione di un nuovo livello per box auto nel corpo di fabbrica a monte, con realizzazione di un solaio tra due dei piani interrati) e la costruzione di un ulteriore piano, il nono, sulla sommità del fabbricato, piano porticato destinato ad uso collettivo e, pertanto, al calpestio di un numero potenzialmente elevato di fruitori.
Questi lavori, dunque, da un lato non si sarebbero potuti fare con d.i.a. in variante, essendo invece necessario procedere con permesso di costruire, ciò che -al di là del diverso, e più garantito, iter amministrativo- avrebbe imposto di riconsiderare l'intero progetto alla luce delle previsioni delle norme tecniche di attuazione al P.R.G. e regolamentari più sopra illustrate e di bloccare le attività edificatorie essendo il manufatto palesemente contrario alla disciplina urbanistica sostanziale. D'altro lato, per le stesse ragioni, non avrebbero dovuto condurre al rilascio del permesso di costruire in variante del 30.07.2009.
Si trattò, dunque, di lavori eseguiti in forza di titoli edilizi manifestamente contra legem, da considerarsi quindi in assenza di permesso di costruire con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001.
La sentenza impugnata, che -pur dando atto dei suddetti profili di contrasto quantomeno della d.i.a. presentata nel 2008 con l'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001- non si cura di trarne le dovute conseguenze e, a fronte delle corrette valutazioni al proposito fatte nella sentenza di primo grado, laconicamente afferma che «appare mancante e/o comunque contraddittoria la prova della loro illegittimità» incorre dunque certamente in violazione di legge e vizio di motivazione.
4.2. Le argomentazioni svolte al punto che precede rendono altresì ragione degli analoghi vizi che affliggono il provvedimento impugnato in relazione al giudizio assolutorio pronunciato con riguardo al concorso nei delitti di abuso d'ufficio di cui ai capi a) ed e) di imputazione, relativi, il primo, al non aver il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale Ze. notificato a Mo., ai sensi dell'art. 23, comma 6, d.P.R. 380/2001, l'ordine motivato di non effettuare i lavori oggetto delle due d.i.a. contra legem e, il secondo, all'aver rilasciato l'illegittimo permesso di costruire in variante del 30.07.2009.
La Corte d'appello, di fatti, ha escluso la sussistenza dei contestati reati -oltre che richiamando giurisprudenza di legittimità che impone comunque la prova di rapporti singolari o atipici tra il privato (nella specie, Mo. per il tramite del professionista di fiducia Ma.) e il pubblico ufficiale (Ze.) che violando norme di legge o regolamento avrebbe procurato al primo un ingiusto vantaggio patrimoniale- anche osservando come, in radice, non sussistesse l'abuso d'ufficio proprio per la legittimità e conformità alle previsioni urbanistiche e regolamentari della concessione edilizia originaria, delle d.i.a. e del permesso di costruire in variante.
Trattandosi di presupposto erroneo, occorre dunque riconsiderare anche la sussistenza dei reati di cui all'art. 323 cod. pen., onde verificare se la macroscopica illegittimità degli atti e la loro reiterazione possano fornire prova logica della collusione, come ritenuto nella sentenza di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi pertinenziali sotto il piano di campagna naturale - Quota-parte di parcheggi obbligatori - Volumi realizzabili - Calcolo del volume massimo edificabile - Legge c.d. Tognoli - Parcheggi coperti (non interrati) - Artt. 12, 17, 22, 32, 44, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
L'art. 9, comma 1, della legge 122/1989 stabilisce, che: «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge 1150/1942 -secondo cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati- questa norma significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici.
Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell'art. 41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché -se questa fosse stata l'intenzione del legislatore- la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione. Semmai, il combinato disposto degli artt. 41-sexies legge 1150/1942 e 9, comma 1, legge 122/1989 può consentire, anche nelle nuove costruzioni, l'esecuzione di parcheggi in deroga alle norme urbanistiche e quindi, per quanto qui rileva, dei volumi realizzabili, soltanto se ulteriori a quelli obbligatori.
Nella specie, avendo, il Comune di Sant'Agata di Puglia legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti (non interrati) ai fini del calcolo del volume massimo edificabile -e non essendo detta previsione incompatibile con la successiva legge Tognoli- quei volumi si sarebbero dovuti computare quantomeno con riferimento alla quota-parte di parcheggi obbligatori richiesti dall'art. 41-sexies legge 1150/1942 rispetto al restante volume dell'edificio, potendosi soltanto escludere, ai sensi dell'art. 9, comma 1, legge 122/1989 -sempre che collocati nel sottosuolo o al piano terreno- i volumi degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a quelli obbligatori, per i quali varrebbero le limitazioni di trasferimento previste dall'art. 9, comma 5, legge 122/1989, disposizione che, facendo espressamente salva la previsione di cui all'art. 41-sexies legge n. 1159/1942, conferma come la speciale disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli obbligatori.
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, è consolidata nell'affermare che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. IV, n. 4645 del 26/09/2008; Cons. Stato, sez. IV, n. 6065 del 11/11/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1608 del 29/03/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1662 del 29/03/2004; TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, n. 3259 del 16/04/2008; TAR Campania, sez. II, n. 15731 del 23/06/2010) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9, comma 1, della legge 122/1989- stabilisce, per quanto qui rileva (l'evidenziazione in corsivo è aggiunta per enfasi), che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge 1150/1942 -secondo cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati- questa norma significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici. Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell'art. 41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché -se questa fosse stata l'intenzione del legislatore- la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione.
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La giurisprudenza amministrativa è consolidata nell'affermare che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra.
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3.2. Quanto al calcolo del volume, richiamandosi le previsioni di cui all'art. 7.8 N.T.A. e 27.11 del Regolamento edilizio, nel ricorso della parte civile ci si duole del fatto che si sarebbe dovuto tener conto di tutti i volumi che emergono dal terreno sistemato, indipendentemente dalla loro destinazione d'uso, laddove la corte territoriale -aderendo anche in questo caso all'interpretazione dell'ing. Go.- avrebbe considerato soltanto i volumi produttivi di carico urbanistico, individuati come quelli aventi destinazione d'uso residenziale.
Sarebbero quindi stati indebitamente esclusi dal computo dei volumi il c.d. "sottotetto di valle" (dal giudice d'appello ritenuto caratterizzato da ambienti non abitabili nonostante quei locali fossero dotati di impianti tecnologici, servizi igienici e finiture identiche a quelli degli immobili adibiti a residenza) ed i piani seminterrati adibiti a parcheggio, e ciò in base all'errato richiamo all'art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli), che -osserva la ricorrente- consentirebbe la deroga agli strumenti urbanistici esclusivamente per la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza delle costruzioni già esistenti e non anche per i parcheggi delle nuove costruzioni, regolate invece dall'art. 2 della stessa legge.
Tale doglianza è fondata.
L'art. 7.8 N.T.A. (riprodotto a p. 57 della sentenza impugnata) stabilisce che è considerato volume «quello del manufatto edilizio o dei manufatti edilizi che emergono dal terreno sistemato secondo il progetto approvato, con esclusione dei volumi porticati se destinati ad uso collettivo. E' compreso, però, il volume relativo al parcheggio obbligatorio ai sensi delle leggi vigenti (7) se coperto».
La sentenza impugnata osserva che l'indicazione, tra parentesi, del numero 7 rimandava ad un elenco delle leggi vigenti al momento della redazione del P.R.G., tra cui non figurava -perché successivamente approvata- la legge n. 122/1989, la quale, si osserva, oltre ad aver modificato il rapporto tra parcheggi obbligatori e volume delle nuove costruzioni (stabilito in almeno 1 mq. a fronte di 10 mc. dal nuovo testo dell'art. 41-sexies legge 17.08.1942, n. 1150, sostituito dall'art. 2, comma 2, della legge Tognoli), avrebbe consentito, all'art. 9, comma 3, l'esecuzione di parcheggi da destinare a pertinenza delle abitazioni anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, sicché gli stessi non potrebbero più essere considerati ai fini del calcolo dei volumi.
L'interpretazione e la conclusione sostenute in sentenza -ad avviso del Collegio- sono errate.
Ed invero,
la disposizione richiamata -che è l'art. 9, comma 1, e non comma 3, della legge 122/1989- stabilisce, per quanto qui rileva (l'evidenziazione in corsivo è aggiunta per enfasi), che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge 1150/1942 -secondo cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati- questa norma significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici. Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell'art. 41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché -se questa fosse stata l'intenzione del legislatore- la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione.
Semmai, il combinato disposto degli artt. 41-sexies legge 1150/1942 e 9, comma 1, legge 122/1989 può consentire, anche nelle nuove costruzioni, l'esecuzione di parcheggi in deroga alle norme urbanistiche e quindi, per quanto qui rileva, dei volumi realizzabili, soltanto se ulteriori a quelli obbligatori.
Avendo, dunque, il Comune di Sant'Agata di Puglia legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti (non interrati) ai fini del calcolo del volume massimo edificabile -e non essendo detta previsione incompatibile con la successiva legge Tognoli- quei volumi si sarebbero dovuti computare quantomeno con riferimento alla quota-parte di parcheggi obbligatori richiesti dall'art. 41-sexies legge 1150/1942 rispetto al restante volume dell'edificio, potendosi soltanto escludere, ai sensi dell'art. 9, comma 1, legge 122/1989 -sempre che collocati nel sottosuolo o al piano terreno- i volumi degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a quelli obbligatori, per i quali varrebbero le limitazioni di trasferimento previste dall'art. 9, comma 5, legge 122/1989, disposizione che, facendo espressamente salva la previsione di cui all'art. 41-sexies legge n. 1159/1942, conferma come la speciale disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli obbligatori.
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, è consolidata nell'affermare che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. IV, n. 4645 del 26/09/2008; Cons. Stato, sez. IV, n. 6065 del 11/11/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1608 del 29/03/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1662 del 29/03/2004; TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, n. 3259 del 16/04/2008; TAR Campania, sez. II, n. 15731 del 23/06/2010).
Né può condividersi la (nuova) tesi interpretativa affacciata nella memoria depositata nell'interesse dell'imputato secondo cui dovrebbe ritenersi inapplicabile (o comunque implicitamente abrogata) la disposizione di cui all'art. 7.8 N.T.A. a seguito dell'entrata in vigore della c.d. legge Tognoli, sul rilievo che l'art. 11 di tale legge avrebbe trasformato la natura giuridica dei parcheggi da mere opere pertinenziali ad opere di urbanizzazione escluse dal calcolo di onerosità ai fini del rilascio del permesso di costruire e, dunque, dalla suscettibilità d'essere considerati ai fini della volumetria.
E' ben vero, di fatti, che, nel prevedere che «le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10» -disposizione, quest'ultima, abrogata dall'art. 136, comma 2, lett. c), d.P.R. 380/2001 e testualmente riprodotta nell'art. 17, comma 3, lett. c), del medesimo testo unico- l'art. 11, comma 1, legge 122/1989 esclude i parcheggi obbligatori dal calcolo degli oneri di concessione (cfr. Cons. Stato, n. 6154 del 22/11/2011), ma il beneficio economico, che si giustifica per la ritenuta finalità di interesse pubblico che i parcheggi (pur privati) assolvono, non incide invece sulla disciplina degli standards urbanistici, la quale risponde ad altre finalità.
Salva diversa previsione, infatti, le opere indicate nell'art 17, comma 3, d.P.R. 380/2001 devono rispettare gli standards urbanistici, ivi compresi i limiti di cubatura edificabile.
Parimenti censurabile, a fronte del chiaro disposto di cui all'art. 7.8 N.T.A. è la apodittica asserzione -che la sentenza impugnata mutua dalla relazione del perito ing. Go.- secondo cui nel calcolo dei volumi dovrebbe tenersi conto della «definizione di "volume insediato" condivisa dalla letteratura tecnica (secondo cui il volume insediato è quello che produce "carico urbanistico", nel caso de quo riconducibile alla destinazione d'uso residenziale)», ciò che nella situazione in esame, come si comprende dalla relazione dell'ing. Gorgoglione a cui la sentenza fa rinvio, ha determinato la mancata considerazione addirittura di un piano di fabbricato emergente dal terreno, vale a dire il c.d. sottotetto di valle, sul rilievo che i locali (che lo steso perito riconosce essere dotati di servizi, come la parte civile ricorrente ha indicato) non potrebbero ottenere l'agibilità ai fini abitativi. Come si diceva, diversamente dalla non meglio identificata "letteratura tecnica" che fonda la conclusione (del perito e) della Corte d'appello, la norma urbanistica, contemplando addirittura i parcheggi coperti, certo non limita la considerazione dei volumi ai soli ambienti che potrebbero essere ritenuti abitabili (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività ambulante - Raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi - Deroga prevista dall'art. 266, c. 5° d.lgs. n. 152/2006 - Duplice condizione.
In tema di rifiuti, la deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi - effettuata in forma ambulante - opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Sicché, l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 20249 del 07/04/2009, Pizzimenti; conf. Sez. 3, n. 39774 del 02/05/2013, Calvaruso e altro).
RIFIUTI - Reato di gestione non autorizzata dei rifiuti - Configurabilità - Elementi.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6735 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di rifiuto e qualificazione in sottoprodotto - Esclusione della natura di rifiuto - Applicazione di un regime giuridico più favorevole - Onere della prova - Fattispecie: "deposito temporaneo" e "sottoprodotto" - Artt. 183, 184-bis e 256 d.lgs. n.152/2006 - Art. 6 L. n. 210/2008 - Giurisprudenza.
Ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi; salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
Peraltro, è onere del soggetto che ne invoca la possibile utilizzazione la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 16432 del 25/10/2016, Gaudino, Rv. 269750; Sez. 3,n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo, Rv. 264121).
Nel caso in specie, i giudici del merito hanno argomentato la natura di rifiuti del materiale depositato non potendovi essere dubbio alcuno sulla volontà dismissiva tenuto conto dell'eterogenità dei beni e delle condizioni dei materiali stessi (cfr. batterie esauste e autocarri fuori uso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6729 - link a
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APPALTI: Appalti, altra stretta sulle rotazioni.
Senza pace il principio di rotazione nelle gare di appalto, in particolare per i servizi «sotto soglia» (articolo 36 del Dlgs 50/2016). La norma, che prevede fluidità e alternanza tra soggetti esecutori, è oggetto di sentenze, pareri e linee guida, come quella dell’Anac 4/2016 in corso di revisione.
L’Anac predispone linee guida che poi il Consiglio di Stato rilegge, proponendo modifiche: questo è avvenuto con il
parere 12.02.2018 n. 361.
Questioni generali
Sui principi generali sentenze, Anac e Consiglio di Stato sono concordi, ostacolando il consolidarsi di rendite ed evitando la rinnovazione di rapporti a imprese già aggiudicatarie per i lavori sotto soglia. Il principio di rotazione impone infatti di coinvolgere sempre nuovi concorrenti, bilanciando precedenti scelte avvenute con gare a base ristretta. Fino a oggi, la rotazione è stata attuata escludendo dagli inviti il gestore uscente, ma lasciando libera la possibilità di invitare le imprese che avessero partecipato alla selezione, senza risultare aggiudicatarie.
Rotazione ed esclusione
Ora, secondo il Consiglio di Stato, rotazione ed esclusione si dovrebbero estendere anche agli operatori economici invitati e non affidatari nella precedente gara. Rotazione, infatti, significa completa sostituzione della squadra concorrente, comprensiva sia del vincitore che delle imprese collocatesi alle spalle. Quindi, ogni gara avrebbe una nuova compagine.
La severità di questo principio non è assoluta: l’amministrazione infatti può aprire la gara a qualsiasi concorrente motivando in relazione al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, alle caratteristiche del mercato stesso, alla soddisfazione generata nel precedente rapporto contrattuale.
Può escludersi la rotazione, se occorre mettere in gara un diverso genere di prodotto o servizio, se muta l’oggetto del contratto, se la commessa non è identica o analoga a quella precedente, se infine cambia la fascia di valore. Si tratta di valutazioni complesse, perché l’obbligo di rotazione riemerge se, tenendo presenti gli ultimi tre anni solari, vi sono commesse arbitrariamente frazionate o identiche fasce di valore, se vi sono ingiustificate aggregazioni nel calcolo del valore stimato dell’appalto o, infine, se vi è un’insolita alternanza sequenziale di affidamenti diretti o di inviti.
In ogni caso, l’obbligo di rotazione scatta solo quando l’amministrazione decide di limitare il numero delle imprese da invitare, perché se la gara è stata aperta, l’impresa aggiudicataria ha lealmente conquistato sul campo l’aggiudicazione. In conseguenza, il vantaggio di essere già stato aggiudicatario non è macchiato da ipotetico favoritismo e consente all’impresa, senza rotazione, di partecipare a una successiva gara (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2018).

LAVORI PUBBLICIPalazzo Spada smonta il dibattito pubblico. Per il Consiglio di stato il dpcm va cambiato in più punti.
Pesanti critiche sulla bozza di dpcm in materia di dibattito pubblico: per il Consiglio di stato va cambiato se no si vanifica l'operatività dell'istituto; non va la disciplina transitoria; troppo elevate le soglie di applicazione; il coordinatore del dibattito pubblico deve essere un soggetto terzo rispetto alla stazione appaltante ancorché facente parte di altra amministrazione.
È quanto si legge nel parere 12.02.2018 n. 359 emesso dal Consiglio di Stato sullo schema di dpcm in materia di dibattito pubblico (
Atto del Governo n. 494 - Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), testo peraltro anche all'attenzione delle commissioni parlamentari competenti che avrebbero dovuto emettere il loro parere entro fine gennaio ma si sono fermate per attendere il verdetto di palazzo Spada.
Sullo schema di decreto, predisposto dalla presidenza del consiglio dei ministri in attuazione dell'articolo 22, comma 2, del Codice dei contratti (dlgs n. 50/2016), i giudici evidenziano due questioni, la prima relativa alle soglie economiche. Per il Consiglio di stato, in rapporto alle tipologie di opere e ai parametri dimensionali delle stesse «sono di importo così elevato da finire per rendere, nella pratica, minimale il ricorso al dibattito pubblico, che rappresenta invece una delle novità di maggior rilievo del nuovo Codice dei contratti e che, se bene utilizzato, potrebbe costituire anche un valido strumento deflattivo del contenzioso».
Una seconda critica arriva poi con riguardo al monitoraggio della Commissione nazionale per il dibattito pubblico istituita dall'articolo 4 dello schema di decreto, che per il Consiglio di stato andrebbe potenziata per renderla più incisiva. Nel merito dei 10 articoli di cui si compone lo schema, diverse sono le osservazioni a partire dal numero dei componenti la Commissione nazionale per il dibattito pubblico che dovrebbero essere in numero dispari «al fine evitare situazioni di stallo nei casi in cui una decisione debba essere presa a maggioranza».
Importante anche la notazione relativa alla figura del coordinatore del dibattito pubblico: per garantire l'indipendenza e la terzietà il Consiglio di Stato propone che tale compito venga svolto «da soggetto esterno all'amministrazione aggiudicatrice o all'ente aggiudicatore, ma pur sempre da soggetto appartenente allo Stato-apparato».
Per i giudici si tratta di compiti «di estrema delicatezza che incidono direttamente sui bisogni e le aspettative dei cittadini e delle istituzioni interessate, coinvolgendo margini di valutazione e di apprezzamento che esulano da un semplice incarico tecnico professionale». Deve poi essere previsto un termine entro il quale si deve avviare il dibattito.
Si chiede anche di modificare la disciplina transitoria prevedendo che se il provvedimento o la determina a contrarre sono stati adottati prima dell'entrata in vigore del presente decreto sia consentita l'indizione volontaria del dibattito pubblico. Dal punto di vista della pubblicità del dibattito pubblico nel parere si ritiene opportuno procedimentalizzare le attività di pubblicità della indizione del dibattito pubblico, non nella fase della mera intenzione, ma in quella della indizione
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

APPALTINo al soccorso istruttorio sugli oneri di sicurezza. Sentenza cds.
È inapplicabile il soccorso istruttorio alla mancata indicazione degli oneri di sicurezza interni o aziendali.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 07.02.2018 n. 815.
La vicenda riguardava la mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali in una gara indetta nella vigenza del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice degli appalti pubblici) in quanto la lettera di invito è stata inviata alle imprese potenzialmente interessate in data 29.09.2016 cui si applicava quindi l'articolo 83, comma 9, del nuovo Codice che ammette il soccorso istruttorio ad eccezione delle incompletezze e mancanze dell'offerta economica o tecnica.
In base al nuovo codice e a quanto previsto dall'articolo 95, comma 10, del decreto 50, dicono i giudici, per le gare indette all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo codice (come quella esaminata) non vi sono più i presupposti per ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri di cui all'articolo 95, comma 10. Ciò, in quanto il codice ha definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza di tale obbligo.
Più in generale, notano i giudici, il decreto 50 non ammette comunque che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e irregolarità relative all'offerta economica (in tal senso, e in modo espresso, l'articolo 95, comma 10, cit.). D'altro canto, si legge nella sentenza, l'esclusione è anche intesa ad evitare che il rimedio del soccorso istruttorio (istituto che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali) possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica a un concorrente (cui è riferita l'omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica.
Non trovano applicazione i principi di diritto formulati dalla sentenza dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di stato, 27.07.2016, n. 19 in tema di ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di mancata indicazione degli oneri per la sicurezza cosiddetti interni o aziendali
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIIl mancato incarico non è risarcibile.
Non è in alcun modo risarcibile il mancato conferimento di incarichi pubblici ad un magistrato della Corte dei conti.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la sentenza 07.02.2018 n. 814.
Nel caso in esame un magistrato della Corte dei conti aveva partecipato a un interpello per l'individuazione dell'incarico di presidente di Collegi dei revisori di enti siciliani.
Era stato, però, escluso in quanto la procedura risultava riservata ai soli magistrati in servizio in Sicilia. Aveva così impugnato e ottenuto l'annullamento della delibera con cui era stato indetto l'interpello e aveva agito dinanzi al Tribunale amministrativo regionale al fine di ottenere il ristoro del danno da perdita di chance per il mancato incarico. Dal momento che il Tar aveva respinto il ricorso risarcitorio autonomo da lui proposto, aveva proposto appello.
Il Consiglio di stato conferma la decisione di primo grado.
Infatti, la sua domanda di risarcimento dei danni per il mancato conferimento di un incarico pubblico non può essere accolta. Diversamente da quanto potrebbe configurarsi in tema di mere autorizzazioni allo svolgimento di attività private, il conferimento di incarichi pubblici avviene nell'interesse pubblico ed è, per sua natura, riservato alla sola discrezionalità dell'Amministrazione che se ne avvale. Per quanto concerne il risvolto economico, poi, non pare giuridicamente configurabile in capo al magistrato 'un'aspettativa qualificata all'attribuzione di un tale incarico remunerato', tale da giustificare il conseguente ristoro patrimoniale per aver impedito indebitamente il suo conferimento.
Non solo.
I giudici di Palazzo Spada rilevano, infine, che lo stesso ragionamento debba valere anche nel caso in cui gli organi di governo autonomo delle magistrature abbiano definito criteri o modalità di attribuzione dell'incarico. Nemmeno tale eventuale predeterminazione delle modalità, infatti, può modificare i caratteri di fondo degli incarichi pubblici, la causa della loro attribuzione e l'assenza di una pretesa, in senso proprio, alla relativa attribuzione
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e conseguenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto che ne dispone la sanatoria.
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Costituisce jus receptum il principio in base al quale la normativa sul condono, nel disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli aventi causa tra i soggetti in ogni caso legittimati dal punto di vista passivo, configurando una sorta di obbligazioni propter rem legate alla proprietà del bene, sia con riferimento alle somme dovute a titolo di oblazione sia per gli altri oneri concessori.
In tal senso, depone a titolo esemplificativo l'art. 37, comma 1, l. n. 47 del 1985, in base al quale l'obbligazione per il pagamento dei contributi concessori, se non soddisfatto dal richiedente la sanatoria, grava comunque sugli altri soggetti indicati dall'art. 31, commi 1 e 3, tra i quali è da ricomprendere l'avente causa dal richiedente la sanatoria (quale è il ricorrente, pur se acquirente da esecuzione forzata).
A quest’ultimo specifico riguardo, la giurisprudenza civile, da cui non vi sono ragioni per discostarsi, è ferma nel ritenere che l'acquisto di un bene da parte dell'aggiudicatario in sede di esecuzione forzata, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario in quanto da ricollegarsi ad un provvedimento del giudice dell'esecuzione, ha natura di acquisto a titolo derivativo e non originario, traducendosi nella trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato.
A sua volta, l'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994 contiene una analoga previsione a carico dei soggetti aventi causa per il caso di mancato integrale versamento dell'oblazione.
Pertanto, se da un lato, la legge presuppone nei richiedenti la sanatoria la qualità di soggetti obbligati in via principale al pagamento degli oneri derivanti dalla medesima, dall'altro fa emergere come l'interesse azionato con la domanda di condono di un abuso edilizio sia comunque strettamente collegato alla titolarità dell'immobile abusivo.
In definitiva la normativa sul condono (in coerenza con il principio per il quale i poteri repressivi e sanzionatori prescindono dalle vicende civilistiche del bene), nel disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli "aventi causa" tra i soggetti in ogni caso legittimati dal punto di vista passivo, configurando una sorta di obbligazioni propter rem connesse alla proprietà del bene, sia con riferimento alle somme versate a titolo di oblazione sia per gli altri oneri concessori.
La stretta connessione evidentemente sussistente tra la titolarità dell'immobile e gli obblighi derivanti dalla concessione rende questi ultimi assimilabili alle obbligazioni propter rem, appunto caratterizzate dal fatto che l'obbligato è individuabile in base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene ed implica il trasferimento di essi in concomitanza con il trasferimento del diritto reale cui accedono.
D’altronde, altrimenti opinando, se per un verso sarebbe elevato il rischio di elusione degli obblighi connessi al peculiare assenso per condono, tramite la cessione del bene condonato, per un altro verso proprio per il caso di insolvibilità dell’originario proprietario è pienamente ragionevole una normativa secondo cui il beneficio della permanenza di un bene in base all’eccezionale meccanismo del condono venga sopportato (anche) dall’effettivo titolare e beneficiario del bene.
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L'art. 35, commi 1 e 3, l. 28.02.1985, n. 47, nel disciplinare il procedimento per la sanatoria, prevede che la domanda di concessione edilizia sia corredata dalla prova dell'eseguito versamento dell'oblazione e che alla stessa debbano essere allegati i documenti che vengono specificamente indicati.
Da tale norma emerge come il silenzio-assenso si possa formare soltanto in presenza di tutti i presupposti da essa indicati e, in particolare, in presenza di una documentazione completa degli elementi richiesti dal cit. art. 35; il termine di prescrizione può decorrere soltanto nel caso in cui si sia formato un atto tacito di condono.
Pertanto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute), presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento.
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In ordine al regime applicabile nella determinazione delle tariffe, la giurisprudenza di questo Consiglio ha rilevato che l'articolo 4 l.Reg.. Lombardia n. 31 del 2004, al comma 6, prevede che in caso di condono edilizio si applichino le tabelle degli oneri di urbanizzazione vigenti all'atto del perfezionamento del procedimento di sanatoria.
Come ha osservato la Corte Costituzionale, la normativa applicabile potrebbe indifferentemente fare riferimento alla entrata in vigore della legge di condono, alla presentazione della domanda, al momento della chiusura dell'istruttoria, al momento della decisione amministrativa, al momento dell'effettivo rilascio del provvedimento favorevole.
Nella specie, la legge regionale abilita il riferimento al momento della fase decisoria ("il perfezionamento") del procedimento di sanatoria, per cui sono non accoglibili le pretese di ancorare il momento di determinazione delle tariffe a fasi precedenti, quali la fase introduttiva o di iniziativa o la fase istruttoria.
In mancanza di indicazioni in un determinato senso da parte della legge -che invece nella specie è chiaramente effettuata da parte della legge regionale, facendo riferimento al perfezionamento del procedimento di sanatoria e quindi al momento del rilascio del provvedimento favorevole- non sarebbe stato irragionevole fare riferimento alla legge vigente al momento nel quale l'istanza di condono viene esaminata, è cioè "matura", nel senso di avere effettuato tutte le valutazioni, la decisione amministrativa, oppure al momento nel quale viene presa formalmente la decisione amministrativa nel procedimento di sanatoria.
La legge regionale è però chiara, come detto, nel far riferimento alle tariffe o ai costi contributivi rilevanti al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria e tale perfezionamento non può non coincidere con l'adozione del provvedimento finale, avvenuta nella fattispecie dopo l'adeguamento tariffario.
La ratio della scelta del legislatore regionale è di privilegiare l'interesse pubblico alla adeguatezza della contribuzione ai costi reali rispetto a quello antitetico del cittadino alla piena previsione dei costi incombenti al momento della formazione del consenso.
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1. L’appello è infondato.
In linea generale, va ribadito che l'obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e conseguenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto che ne dispone la sanatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. IV, 24.02.2011, n. 1235).
2.1 In relazione al primo ordine di censure, costituisce jus receptum il principio in base al quale la normativa sul condono, nel disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli aventi causa tra i soggetti in ogni caso legittimati dal punto di vista passivo, configurando una sorta di obbligazioni propter rem legate alla proprietà del bene, sia con riferimento alle somme dovute a titolo di oblazione sia per gli altri oneri concessori.
In tal senso, depone a titolo esemplificativo l'art. 37, comma 1, l. n. 47 del 1985, in base al quale l'obbligazione per il pagamento dei contributi concessori, se non soddisfatto dal richiedente la sanatoria, grava comunque sugli altri soggetti indicati dall'art. 31, commi 1 e 3, tra i quali è da ricomprendere l'avente causa dal richiedente la sanatoria (quale è il ricorrente, pur se acquirente da esecuzione forzata).
A quest’ultimo specifico riguardo, la giurisprudenza civile, da cui non vi sono ragioni per discostarsi, è ferma nel ritenere che l'acquisto di un bene da parte dell'aggiudicatario in sede di esecuzione forzata, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario in quanto da ricollegarsi ad un provvedimento del giudice dell'esecuzione, ha natura di acquisto a titolo derivativo e non originario, traducendosi nella trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato (cfr. ancora di recente Cassazione civile, sez. I 13.03.2017, n. 6386; cfr. nei medesimi termini ad es. Cassazione civile, sez. II, 25.10.2010, n. 21830).
A sua volta, l'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994 contiene una analoga previsione a carico dei soggetti aventi causa per il caso di mancato integrale versamento dell'oblazione.
Pertanto, se da un lato, la legge presuppone nei richiedenti la sanatoria la qualità di soggetti obbligati in via principale al pagamento degli oneri derivanti dalla medesima, dall'altro fa emergere come l'interesse azionato con la domanda di condono di un abuso edilizio sia comunque strettamente collegato alla titolarità dell'immobile abusivo.
In definitiva la normativa sul condono (in coerenza con il principio per il quale i poteri repressivi e sanzionatori prescindono dalle vicende civilistiche del bene), nel disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli "aventi causa" tra i soggetti in ogni caso legittimati dal punto di vista passivo, configurando una sorta di obbligazioni propter rem connesse alla proprietà del bene, sia con riferimento alle somme versate a titolo di oblazione sia per gli altri oneri concessori.
La stretta connessione evidentemente sussistente tra la titolarità dell'immobile e gli obblighi derivanti dalla concessione rende questi ultimi assimilabili alle obbligazioni propter rem, appunto caratterizzate dal fatto che l'obbligato è individuabile in base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene ed implica il trasferimento di essi in concomitanza con il trasferimento del diritto reale cui accedono.
D’altronde, altrimenti opinando, se per un verso sarebbe elevato il rischio di elusione degli obblighi connessi al peculiare assenso per condono, tramite la cessione del bene condonato, per un altro verso proprio per il caso di insolvibilità dell’originario proprietario è pienamente ragionevole una normativa secondo cui il beneficio della permanenza di un bene in base all’eccezionale meccanismo del condono venga sopportato (anche) dall’effettivo titolare e beneficiario del bene.
2.2 In relazione al secondo ordine di censure, concernente l’invocazione del silenzio-assenso a fini di decorrenza del termine di prescrizione, oltre a quanto statuito in termini esecutivi dalla precedente sentenza del Tar Brescia (da cui è scaturito anche il rilascio in parte qua del titolo di sanatoria), assume rilievo dirimente il principio consolidato (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.01.2017, n. 187) per il quale l'art. 35, commi 1 e 3, l. 28.02.1985, n. 47, nel disciplinare il procedimento per la sanatoria, prevede che la domanda di concessione edilizia sia corredata dalla prova dell'eseguito versamento dell'oblazione e che alla stessa debbano essere allegati i documenti che vengono specificamente indicati; da tale norma emerge come il silenzio-assenso si possa formare soltanto in presenza di tutti i presupposti da essa indicati e, in particolare, in presenza di una documentazione completa degli elementi richiesti dal cit. art. 35; il termine di prescrizione può decorrere soltanto nel caso in cui si sia formato un atto tacito di condono.
Pertanto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute), presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento (cfr. in tal senso anche Consiglio di Stato, sez. IV, 28.01.2016, n. 314).
2.3 Parimenti infondato è il terzo ordine di censure, sollevato in due direzioni in merito ai parametri di determinazione del quatum debeatur.
2.3.1 Nella prima direzione, in ordine al regime applicabile nella determinazione delle tariffe, la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ad es. sez. IV, 11.09.2012, n. 4825) ha rilevato che l'articolo 4 l.Reg.. Lombardia n. 31 del 2004, al comma 6, oggetto della ordinanza della Corte Costituzionale n. 105 del 2010, prevede che in caso di condono edilizio si applichino le tabelle degli oneri di urbanizzazione vigenti all'atto del perfezionamento del procedimento di sanatoria.
Come ha osservato la Corte Costituzionale, la normativa applicabile potrebbe indifferentemente fare riferimento alla entrata in vigore della legge di condono, alla presentazione della domanda, al momento della chiusura dell'istruttoria, al momento della decisione amministrativa, al momento dell'effettivo rilascio del provvedimento favorevole.
Nella specie, la legge regionale abilita il riferimento al momento della fase decisoria ("il perfezionamento") del procedimento di sanatoria, per cui sono non accoglibili le pretese di ancorare il momento di determinazione delle tariffe a fasi precedenti, quali la fase introduttiva o di iniziativa o la fase istruttoria.
In mancanza di indicazioni in un determinato senso da parte della legge -che invece nella specie è chiaramente effettuata da parte della legge regionale, facendo riferimento al perfezionamento del procedimento di sanatoria e quindi al momento del rilascio del provvedimento favorevole- non sarebbe stato irragionevole fare riferimento alla legge vigente al momento nel quale l'istanza di condono viene esaminata, è cioè "matura", nel senso di avere effettuato tutte le valutazioni, la decisione amministrativa, oppure al momento nel quale viene presa formalmente la decisione amministrativa nel procedimento di sanatoria.
La legge regionale è però chiara, come detto, nel far riferimento alle tariffe o ai costi contributivi rilevanti al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria e tale perfezionamento non può non coincidere con l'adozione del provvedimento finale, avvenuta nella fattispecie dopo l'adeguamento tariffario.
La ratio della scelta del legislatore regionale è, come osservato anche dalla Corte nella sua ordinanza n. 105 del 17.03.2010, di privilegiare l'interesse pubblico alla adeguatezza della contribuzione ai costi reali rispetto a quello antitetico del cittadino alla piena previsione dei costi incombenti al momento della formazione del consenso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.02.2018 n. 753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del t.u. edilizia di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituiscono nuova costruzione gli interventi di trasformazione urbanistica comportanti la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Di conseguenza è "a fortiori" qualificabile come opera edile di nuova costruzione la realizzazione di un piazzale in cemento, la quale determina un "consumo di suolo" (con una cementificazione che si sostituisce al piano naturale di campagna) e dunque una trasformazione tendenzialmente irreversibile di quest'ultimo.
Il medesimo orientamento è seguito dalla giurisprudenza penale secondo cui integra un illecito edilizio l'esecuzione, in assenza del permesso di costruire, di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività, pur non comportando un'edificazione in senso stretto, determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio.
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2.3.2 Nella seconda direzione risulta corretto l’argomentare della sentenza appellata in merito alla corretta qualificazione dell’intervento in termini di trasformazione del territorio per quanto concerne l’intero piazzale.
Infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del t.u. edilizia di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituiscono nuova costruzione gli interventi di trasformazione urbanistica comportanti la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato; di conseguenza è "a fortiori" qualificabile come opera edile di nuova costruzione la realizzazione di un piazzale in cemento, la quale determina un "consumo di suolo" (con una cementificazione che si sostituisce al piano naturale di campagna) e dunque una trasformazione tendenzialmente irreversibile di quest'ultimo (cfr. in termini Consiglio di Stato, sez. V, 15.07.2014, n. 3700).
Il medesimo orientamento è seguito dalla giurisprudenza penale (Cassazione penale sez. III 15.11.2016, n. 1308) secondo cui integra un illecito edilizio l'esecuzione, in assenza del permesso di costruire, di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività, pur non comportando un'edificazione in senso stretto, determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio.
3. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.02.2018 n. 753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO - VARI: FAUNA E FLORA - Animali domestici - Divieto di condurre cani sugli arenili durante la stagione balneare - Legittimità.
E’ legittimo il divieto di condurre sugli arenili cani o altri animali, anche se muniti di museruola e guinzaglio, durante la stagione balneare.
L’obbligo dei comuni, previsto dall’art. 4, lett. i), della L.R. n. 23/2000, di individuare durante la stagione balneare “aree debitamente attrezzate” ove poter accedere con i cani non comprende anche la ulteriore facoltà di condurre i cani su tutto l’arenile, posto che, secondo la stessa disposizione regionale, devono essere comunque assicurate le necessarie condizioni igieniche (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 06.02.2018 n. 117 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9 d.m. n. 1444/1968 stabilisce in modo inequivoco l’obbligo di osservare la distanza prevista quando anche una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e, nella disposizione, non vi è alcun vuoto normativo che possa lasciar spazio a un’integrazione da parte della normazione locale (come invece pretendono i resistenti).
In definitiva, l’esistenza di una finestra è un dato di fatto, che non può essere sovvertito da alcuna diversa previsione di un regolamento edilizio.
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E' giurisprudenza consolidata che:
   a) l’art. 9 del d.m. ha un valore precettivo e inderogabile e prevale sulla disciplina legislativa regionale salvo che questa preveda deroghe al regime generale delle distanze nel senso di porre limiti maggiori, nel rispetto del criterio di ragionevolezza, o altrimenti -ai sensi dell’ultimo comma, secondo periodo, di tale comma 9- se “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”;
   b) lo stesso art. 9, essendo stato emanato su delega del ricordato art. 41-quinquies della legge urbanistica, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, le quali devono essere annullate se oggetto di impugnazione o comunque disapplicate per l’effetto di sostituzione dovuto all’automatico inserimento della clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Resta così definitivamente superata una risalente giurisprudenza orientata in senso contrario alla disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico (fattispecie parallela a quella qui vagliata), la quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. n. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
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Il Collegio ritiene che eventuale natura abusiva dell’edificio e violazione delle norme inderogabili sulle distanze si muovano su piani diversi e destinati a non interferire reciprocamente.
Difatti, la finalità del d.m. n. 1444/1968 è quella di tutelare sia l'interesse pubblico a un ordinato sviluppo dell'edilizia, sia l'interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili.
Le relative distanze sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico, e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
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18. In punto di diritto, la sentenza va egualmente confermata nella parte in cui ha ritenuto il R.E.C. in contrasto con il d.m. n. 1444/1968.
L’art. 9 di questo stabilisce in modo inequivoco l’obbligo di osservare la distanza prevista quando anche una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata (cfr. Cass. civ., sez. II, 28.09.2007, n. 20574; Id., sez. II, 27.05.2011, n. 11842; Id., sez. II, 20.06.2011, n. 13547; Id., sez. VI, 27.06.2012, n. 10753; Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929) e, nella disposizione, non vi è alcun vuoto normativo che possa lasciar spazio a un’integrazione da parte della normazione locale (come invece pretendono i resistenti). In definitiva, l’esistenza di una finestra è un dato di fatto, che non può essere sovvertito da alcuna diversa previsione di un regolamento edilizio.
19. Il thema decidendum, quindi, è se questo giudice di appello possa conoscere d’ufficio di tale acclarato conflitto tra norme, disapplicando la norma locale o comunque (in qualunque modo si voglia ricostruire l’operazione ermeneutica relativa) facendo prevalere la prescrizione del d.m., o al contrario questo gli sia precluso dal divieto dei nova in appello posto dall’art. 104 c.p.a., non essendo stato il motivo dedotto con l’originario ricorso introduttivo del giudizio.
20. Per chiarezza sistematica, è opportuno rammentare che il d.m. n. 1444/1968 discende dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, che ha aggiunto un art. 41-quinquies alla legge 17.08.1942, n. 1150 (legge urbanistica).
L’art. 41-quinquies assoggetta a specifiche limitazioni la edificazione a scopo residenziale nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione.
Gli ultimi due commi stabiliscono: “In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.
I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima
".
21. Sul piano del rapporto tra fonti, è giurisprudenza consolidata che:
   a) l’art. 9 del d.m. ha un valore precettivo e inderogabile e prevale sulla disciplina legislativa regionale salvo che questa preveda deroghe al regime generale delle distanze nel senso di porre limiti maggiori, nel rispetto del criterio di ragionevolezza, o altrimenti -ai sensi dell’ultimo comma, secondo periodo, di tale comma 9- se “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio” (cfr. Corte cost., sentenze 16.06.2005, n. 232; 21.05.2014, n. 134; 15.07.2016, n. 178; 20.07.2016, n. 185; 03.11.2016, n. 231; 24.02.2017, n. 41; da ultimo anche Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2017, n. 5895);
   b) lo stesso art. 9, essendo stato emanato su delega del ricordato art. 41-quinquies della legge urbanistica, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, le quali devono essere annullate se oggetto di impugnazione o comunque disapplicate per l’effetto di sostituzione dovuto all’automatico inserimento della clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cass. civ., sezioni unite, 07.07.2011, n. 14953; Id., sez. II, 12.02.2016, n. 2848; Id., sez. II, 23.02.2017, n. 4683; Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2011, n. 5759; Id., sez. IV, 22.01.2013, n. 354; Id., sez. IV, 21.10.2013, n. 5108; Id., sez. IV, 04.08.2016, n. 3522).
22. Resta così definitivamente superata una risalente giurisprudenza orientata in senso contrario alla disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico (fattispecie parallela a quella qui vagliata), la quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. n. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929; sez. IV, 19.04.2005, n. 1795).
23. In virtù di tali principi, era insussistente l’invocato carattere derogatorio del regolamento comunale, che il primo giudice ha erroneamente escluso di potere conoscere d’ufficio pure in mancanza della domanda di parte.
24. Rimane solo da valutare se, ad applicare l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, faccia ostacolo l’asserito carattere abusivo, totale o parziale, della parte degli appellanti.
Il TAR ha dato atto della questione sollevata, ma non l’ha sviluppata e decisa ritenendo evidentemente prevalente ed esaustivo il dato dell’omessa impugnazione del R.E.C. in parte qua.
25. Premesso che -come prima si è ricordato- la questione è ancora sub iudice di fronte a questo Consiglio di Stato, e nonostante alcuni precedenti di segno contrario, ricordati nella memoria dei resistenti in data 16.12.2017 e nella discussione orale, il Collegio ritiene che eventuale natura abusiva dell’edificio e violazione delle norme inderogabili sulle distanze si muovano su piani diversi e destinati a non interferire reciprocamente. Difatti, la finalità del d.m. n. 1444/1968 è quella di tutelare sia l'interesse pubblico a un ordinato sviluppo dell'edilizia, sia l'interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili.
Le relative distanze sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico, e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 856; sez. IV, 03.08.2016, n. 3510; sez. IV, 08.05.2017, n. 2086).
Ciò posto, il carattere abusivo dell’edificio di riferimento non può essere una scusante per sottrarsi al rispetto della normativa pubblicistica sulle distanze, ferma restando per i controinteressati la possibilità di attivare gli strumenti che, sotto profili differenti, l’ordinamento mette loro a diposizione per tutelarne il buon diritto (segnalazioni e diffide all’autorità competente, domande esperibili di fronte al G.O.).
26. Il primo motivo dell’appello è fondato e va pertanto accolto. Restano assorbiti i motivi ulteriori.
Ne segue la riforma della sentenza del Tribunale regionale con l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e l’annullamento, per l’effetto, del permesso di costruire impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.02.2018 n. 702 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per giurisprudenza costante, le osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà.
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Con il secondo e terzo motivo l’istante si duole della violazione dell’art. 7 della LR n. 12/2005, degli artt. 3 e 6 della L. n. 241/1990, dell’art. 118 della Costituzione e del Trattato di Maastricht per la violazione del principio di sussidiarietà, nonché dell’eccesso di potere per carenza dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità, contraddittorietà ed ingiustizia manifesta, atteso che il Comune avrebbe proceduto all’approvazione del PGT senza considerare minimamente l’apporto fornito dalle osservazioni presentate dal ricorrente e senza fornire un’adeguata motivazione sul punto.
In proposito si osserva che, per giurisprudenza costante, le osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle singole destinazioni di zona del piano regolatore generale, sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà (Cons. Stato, Sez. IV. Sent. n. 874, 24.02.2017).
Tali vizi non si riscontrano nella fattispecie all’esame del Collegio, nella quale l’Amministrazione comunale ha analizzato le osservazioni dell’istante e ha controdedotto in merito alle stesse mediante la specificazione delle ragioni che ne hanno determinato la reiezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.02.2018 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Sito di Interesse nazionale - Edilizia su aree ubicate all'interno del perimetro (SIN) - Divieto di frazionamento degli impianti fotovoltaici - Effetti di una falsa attestazione - Vizio ab origine - DIRITTO DELL'ENERGIA - Realizzazione e autorizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili - Procedura autorizzatoria semplificata - Limiti - AGRICOLTURA - Impianti fotovoltaici in ambito agricolo - Moduli collocati a terra in aree agricole - Esclusione all'accesso agli incentivi statali - Artt. 12, 22, 23, 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
Le disposizioni in tema di autorizzazione alla realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono contenute d.lgs. 29.12.2003, n. 387, di attuazione della direttiva 2001/77/CE, il cui art. 12 stabilisce, al comma 3, che la costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili sono soggetti ad un'autorizzazione unica rilasciata dalla Regione, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico - artistico, che costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico.
Il successivo. comma 5 dello stesso articolo ha anche previsto una procedura autorizzatoria semplificata in relazione agli impianti con una capacità di generazione inferiore rispetto alle soglie di cui alla tabella A, allegata al medesimo decreto, diversificate per ciascuna fonte rinnovabile: agli impianti rientranti nelle suddette soglie si applica la disciplina della d.i.a., di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 22 e 23.
Solo con la nuova regolamentazione del 2011, il legislatore statale ha dato facoltà alle Regioni di estendere l'ambito di applicazione del procedimento autorizzatorio semplificato fino ad una soglia massima di potenza di energia elettrica pari a 1 Mw; fermo restando il vincolo per la legislazione regionale costituito dai limiti posti dall'art. 6 citato, che, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 99 del 2012), esprime un principio fondamentale, sicché il legislatore regionale è tenuto a rispettarlo nell'esercizio della sua potestà legislativa concorrente.
Un'ulteriore disposizione specifica per gli impianti fotovoltaici in ambito agricolo è stata poi prevista dal d.l. 24.01.2012, n. 1, art. 65, convertito dalla legge 24.03.2012, n. 27, che, nel prescrivere in generale che agli impianti solari fotovoltaici con moduli collocati a terra in aree agricole non è più consentito l'accesso agli incentivi statali di cui al d.lgs. 03.03.2011, n. 28, ha comunque fatto salve le situazioni pregresse, confermando la perdurante applicabilità del d.lgs. 28 del 2011, art. 10, comma 6 (inizialmente abrogato dallo stesso d.l., ma fatto rivivere dalla legge di conversione).
Nella specie, il principio secondo il quale il divieto di frazionamento degli impianti fotovoltaici era da considerarsi già vigente prima dell'approvazione della legge regionale 31/2008, in virtù di quanto statuito dalla legislazione statale, segnatamente dall'art. 12, comma 3 del d.lgs. 387/2003 (Cass. Sez. 3, n. 40561 del 25/06/2014, Buglisi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Interventi realizzabili alternativamente con denunzia di inizio attività ovvero con permesso di costruire - Assenza della denunzia o la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla d.i.a. - Reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Integrazione - Rilevanza della consistenza concreta dell'intervento.
In materia edilizia, nel caso di interventi realizzabili alternativamente con denunzia di inizio attività ovvero con permesso di costruire di cui all'art. 22, comma terzo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, l'assenza della denunzia o la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla d.i.a. effettivamente presentata integrano il reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b), del decreto e ciò in quanto la disciplina sanzionatoria penale non è correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell'intervento (Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano; Conf. Sez. 5, n. 23668 del 26/04/2005, Giordano ed altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie - Permesso di costruire - Interventi eseguiti in totale difformità - Differenza tra interventi in "totale" o "parziale" difformità - Giurisprudenza.
L'articolo 31 del d.P.R. 380/2001, precisa che sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
Pertanto, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentite per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione, mentre, invece, in "parziale difformità" l'intervento che, sebbene contemplato dal titolo abilitativo, all'esito di una valutazione analitica delle singole difformità risulti realizzato secondo modalità diverse da quelle previste a livello progettuale (Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e altri; Conf. Sez. 3, n. 49669 del 24/09/2015, lngmar e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Siti di interesse nazionale (SIN) - Interventi di caratterizzazione o bonifica - Edificabilità delle aree ricomprese nel SIN - Subordine alla completa bonifica dei suoli - Giurisprudenza amministrativa - Artt. 242 e 252 d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, la stessa procedura di individuazione dei siti di interesse nazionale ne evidenzia la potenziale contaminazione, con la conseguenza che il presupposto indicato dall'art. 242 d.lgs. 152/2006 del "verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito" che obbliga all'attivazione delle procedure operative ed amministrative indicate nel medesimo articolo resta assorbito dall'inclusione dell'area nel sito di interesse nazionale (TAR Lazio (RM), Sez. I, n. 8920 del 15/10/2008), giungendo anche a ritenere che l'edificabilità delle aree ricomprese nel sito inquinato d'interesse nazionale è subordinata alla completa bonifica dei suoli (TRGA Trento, Sez. Unica, n. 382, del 20/11/2013).
Ne consegue che la inclusione di una determinata area all'interno del perimetro di un sito di interesse nazionale ne presuppone la potenziale contaminazione rendendola soggetta a caratterizzazione.
RIFIUTI - Bonifica di siti di interesse nazionale (SIN) - Caratteristiche del sito, quantità e pericolosità degli inquinanti - Rischio sanitario ed ecologico - Procedura perimetrazione e bonifica del sito.
Secondo quanto disposto dall'art. 252, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, i siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono individuabili in relazione alle caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell'impatto sull'ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di pregiudizio per i beni culturali ed ambientali.
All'individuazione di tali siti si provvede, secondo quanto dispone il comma 2 del medesimo articolo, con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, d'intesa con le regioni interessate, secondo principi e criteri direttivi specificamente indicati.
Inoltre, specifica il comma 3 dell'art. 252, ai fini della perimetrazione del sito sono sentiti i comuni, le province, le regioni e gli altri enti locali, assicurando la partecipazione dei responsabili nonché dei proprietari delle aree da bonificare, se diversi dai soggetti responsabili. Il successivo comma 4 attribuisce al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministero delle attività produttive, la procedura di bonifica di cui all'art. 242 d.lgs. 152/2006 dei siti di interesse nazionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: RISARCIMENTO DANNO - Condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile - Accertamento relativo all'esistenza di un danno risarcibile - Fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose - Esclusione dell'esistenza stessa di un danno eziologicamente connesso con il fatto illecito.
In tema di risarcimento del danno, l'accertamento relativo all'esistenza di un danno risarcibile, come, per la condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non sia necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose e ciò in quanto la pronuncia, in tal caso, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo tanto alla misura quanto alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione, che può peraltro pervenire eventualmente anche alla esclusione dell'esistenza stessa di un danno eziologicamente connesso con il fatto illecito (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta e altri; Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio e altri; Sez. 5, n. 36657 del 05/06/2008, Ballandi ed altre prec. conf.).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Pronuncia assolutoria - Reato dichiarato estinto per amnistia o per prescrizione - Presenza della parte civile e statuizioni civili - Valutazione del giudice - RISARCIMENTO DANNO - Risarcimento dei danni cagionati cagionati ambito di operatività degli artt. 129 e 578 cod. proc. pen. - Giurisprudenza.
La pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. è consentita al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento ed appartenga, pertanto, più al concetto di «Constatazione», ossia di percezione «ictu oculi», che a quello di «apprezzamento».
L'«evidenza» richiesta dal menzionato art. 129, comma 2, cod. proc. pen. «presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia».
Sicché, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, evidenziando quindi la necessità di un raccordo tra l'art. 129 e l'art. 578 cod. proc. pen..
Tale ultima disposizione, come è noto, prevede che il giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o per prescrizione il reato per il quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Ai principi appena ricordati si sono uniformate le sentenze successive (cfr. Sez. 2, n. 29499 del 23/05/2017, PC. in proc. Ambrois; Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N.; Sez. 5, n. 3869 del 07/10/2014 (dep. 2015), Lazzari; Sez. 2, n. 38049 del 18/07/2014, De Vuono; Sez. 1, n. 42039 del 14/01/2014, Simigliani; Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013, Galati e altri; Sez. 6, n. 4855 del 07/01/2010, Damiani e altro), ribadendo la necessità, in caso di condanna in primo grado al risarcimento dei danni, di un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Motivazione del provvedimento mediante la tecnica del cd. "copia e incolla" o motivazione per relationem - Motivazione meramente apparente.
In tema processuale, la compilazione della motivazione del provvedimento mediante la tecnica del cd. "copia e incolla" si traduce, nella sostanza, nella redazione di una motivazione per relationem, laddove l'atto, anziché essere richiamato, viene testualmente trascritto nel provvedimento che lo "richiama" e che ciò che non è ammesso è la pedissequa riproduzione del provvedimento impugnato, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione a censura delle soluzioni adottate dal giudice di primo grado e senza argomentare sull'inconsistenza o sulla non pertinenza degli stessi, poiché in tal caso la motivazione sarebbe meramente apparente (così, in motivazione, Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014. Barone e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
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INCARICHI PROFESSIONALIParcella legali anche al ribasso. Liquidazione su un documento recante prezzo diverso. Secondo la Corte di cassazione in mancanza d'accordo cade il carattere vincolante.
Professionisti e compensi: il giudice può liquidare una parcella in luogo di un'altra, quand'anche, dagli atti, risulti un documento nel quale inizialmente è stato praticato un prezzo diverso.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 02.02.2018 n. 2575: a parere dei giudici della II sezione civile «la parcella per il pagamento dei compensi non ha carattere vincolante salvo che la stessa sia conforme a un pregresso accordo o espressamente accettata dal cliente».
Intervenuto sul ricorso di una società di diritto spagnolo che, tra gli altri motivi di censura, lamentava l'eccessività del compenso richiesto, il collegio giudicante ha chiarito che il giudice di merito chiamato a decidere laddove lo stesso professionista, dopo aver presentato al proprio cliente una parcella per il pagamento dei compensi spettantigli, redatta in conformità dei minimi tabellari, richieda, per le stesse attività svolte, un pagamento maggiore sulla base di una nuova parcella fatta salva l'ipotesi nella quale la prima abbia carattere vincolante, ben può valutare l'esistenza di «elementi –discrezionalmente apprezzabili– che facciano ritenere giustificata e legittima la maggior richiesta, fermo restando il necessario apprezzamento di congruità degli onorari pretesi sulla base e in funzione dei parametri previsti dalla tariffa professionale, il quale, se adeguatamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità».
Questo, ha continuato il collegio, perché nella sua formulazione iniziale la parcella è stata redatta tenendo conto, oltre alla valutazione dell'adeguatezza dell'opera svolta, anche di altre circostanze, sia di natura oggettiva che soggettiva (come il rapporto amichevole con il cliente, la situazione di difficoltà economica, l'attesa di un immediato soddisfacimento della pretesa), che lo hanno indotto a contenere particolarmente la richiesta e che, tuttavia, in sede di giudizio hanno finito con il non sussistere più; in altre parole circostanze che hanno finito con l'assumere un ruolo determinante o, quanto meno, concorrente.
Così argomentando ha dunque rigettato il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018).

ENTI LOCALI - VARIMulte, annulli sistematici ko. No a motivazioni copincolla da parte dei giudici di pace. Sentenza del Tar del Lazio pone anche l'accento sull'incompatibilità ambientale.
Finisce fuori strada il magistrato onorario che annulla sistematicamente le multe per eccesso di velocità con motivazioni copia incolla. In particolare se risulta evidente anche una sua manifesta incompatibilità ambientale.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 01.02.2018 n. 1210.
Un giudice di pace del comune di Rieti non è stato confermato nell'incarico dal Consiglio superiore della magistratura a causa di una serie di pareri negativi espressi dai suoi superiori. Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure al Tar ma senza successo.
Il presidente del Tribunale, in particolare, ha evidenziato che molte sentenze adottate dal magistrato non togato in materia di autovelox risultavano particolarmente originali e non allineate al dettato normativo e alla giurisprudenza denotando un insufficiente aggiornamento professionale dell'estensore.
Inoltre a parere del Consiglio giudiziario di Roma il giudice di pace ha adottato troppi rinvii delle udienze e sono state evidenziate numerose incompatibilità ambientali con alcuni avvocati del luogo. Ma anche sullo svolgimento della sua attività di avvocato nello stesso circondario
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'ordinanza che inibisce le emissioni sonore deve essere temporanea e provvisoria.
L’art. 9 della legge 26.10.1995, n. 447 stabilisce che “Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco (…) con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività”.
La norma pare, pertanto, eloquente: sancisce, infatti, espressamente che in presenza di una situazione di eccezionale necessità ed urgenza, legata all'inquinamento acustico, il sindaco, per salvaguardare la salute pubblica o l'ambiente, può disporre il ricorso a speciali forme di contenimento e addirittura di abbattimento delle emissioni sonore, compresa l'inibitoria, parziale o totale, di una determinata attività. Non ritiene, però, sufficiente che sussista l'urgenza di provvedere, ma richiede che si tratti di situazione eccezionale, che non può sussistere laddove le circostanze da cui deriva la situazione dannosa abbiano carattere permanente, giacché la nozione stessa di eccezionalità richiama l'idea di imprevedibilità di una situazione. E soprattutto deve trattarsi di un pericolo attuale.
Nell'intento del legislatore, in armonia con la "categoria generale" di appartenenza (ovvero quella delle ordinanze contingibili e urgenti), la misura in questione dev'essere connotata da temporaneità, per cui la sua efficacia è provvisoria, potendo al massimo persistere finché il pericolo (imprevedibile) non sia cessato: il termine, anche quando non venga indicato nell'ordinanza sotto la forma di una data certa, può comunque ritenersi individuato implicitamente nel superamento della situazione eccezionale.

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Oggetto del presente giudizio è l’ordinanza contingibile e urgente n. 73/2017, prot. n. 23077, in data 08.08.2017, con cui il Sindaco del Comune di Tavagnacco, sulla scorta degli esiti delle rilevazioni effettuate dall’ARPA FVG dal 10 al 14.04.2017, dal 9 al 15.05.2017 e in data 04.05.2017, con ultimo accesso per tutte in data 21.06.2017, ha ordinato alla ricorrente l’immediata adozione di “tutti gli accorgimenti tecnici necessari a limitare le emissioni sonore inquinanti, riportandole entro i limiti di legge”, nonché la predisposizione di un “piano di bonifica, redatto da tecnico competente in acustica, che indichi interventi/modalità e accorgimenti tecnico-operativi finalizzati al contenimento e abbattimento delle emissioni sonore inquinanti collegate precipuamente allo scarico dei materiali e alla movimentazione degli stessi sullo spazio esterno posto sul retro della proprietà, su via Cadore, oltre che al transito di autocarri e camion, entro e non oltre 20 gg. dalla data di notifica del presente provvedimento”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio non ravvisa, infatti, sussistere valide ragioni per discostarsi dalla prognosi formulata nella fase cautelare, atteso, tra l’altro, che il Comune resistente non ha offerto nemmeno con la memoria conclusionale alcun ulteriore spunto di riflessione, idoneo a indurre questo giudice a mutare orientamento, essendosi, invero, limitato a richiamare alcuni precedenti giurisprudenziali e a svolgere generiche deduzioni sul potere di ordinanza, senza pur tuttavia soffermarsi su quello in concreto esercitato e, in particolare, sulle circostanze fattuali specifiche, omettendo, dunque, di svolgere persuasive considerazioni circa l’eventuale sussumibilità della fattispecie concreta in quella astratta legale.
Non può prescindersi, invero, dal rilevare che l’art. 9 della legge 26.10.1995, n. 447 stabilisce che “Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco (…) con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività”.
La norma pare, pertanto, eloquente: sancisce, infatti, espressamente che in presenza di una situazione di eccezionale necessità ed urgenza, legata all'inquinamento acustico, il sindaco, per salvaguardare la salute pubblica o l'ambiente, può disporre il ricorso a speciali forme di contenimento e addirittura di abbattimento delle emissioni sonore, compresa l'inibitoria, parziale o totale, di una determinata attività. Non ritiene, però, sufficiente che sussista l'urgenza di provvedere, ma richiede che si tratti di situazione eccezionale, che non può sussistere laddove le circostanze da cui deriva la situazione dannosa abbiano carattere permanente, giacché la nozione stessa di eccezionalità richiama l'idea di imprevedibilità di una situazione. E soprattutto deve trattarsi di un pericolo attuale (C.d.S., V, 10.02.2010, n. 670).
Nell'intento del legislatore, in armonia con la "categoria generale" di appartenenza (ovvero quella delle ordinanze contingibili e urgenti), la misura in questione dev'essere connotata da temporaneità, per cui la sua efficacia è provvisoria, potendo al massimo persistere finché il pericolo (imprevedibile) non sia cessato: il termine, anche quando non venga indicato nell'ordinanza sotto la forma di una data certa, può comunque ritenersi individuato implicitamente nel superamento della situazione eccezionale (in termini TAR Campania, Napoli, V, 30.12.2016, n. 6035).
Orbene, nel caso di specie, l’ordine emesso è, però, carente sia sotto il profilo della situazione di eccezionale (e attuale) necessità e urgenza, sia sotto quello della sua temporaneità.
Al di là del fatto che la situazione in cui opera la società Ca. è nota e che i problemi di asserito inquinamento acustico, cui la medesima ha, peraltro, cercato di porre rimedio, eseguendo, nel tempo, vari interventi di contenimento e mitigazione del rumore lungo il perimetro del comparto, sono ascrivibili più all’irragionevolezza e incoerenza delle scelte urbanistiche del Comune medesimo, che alle modalità in cui essa esercita la propria attività, il Collegio non può assolutamente omettere di rilevare che l’ordinanza emessa si fonda su rilievi fonometrici risalenti ad alcuni mesi prima della sua emissione e non consta che, da allora, i privati presso le cui abitazioni i medesimi sono stati effettuati abbiano denunciato l’aggravarsi o il mero reiterarsi del problema, sebbene in tal senso espressamente invitati dal personale dell’ARPA che ha proceduto alle misurazioni.
E’ palese, dunque, che il provvedimento non costituisce assolutamente il giusto e legittimo rimedio a una situazione di inquinamento acustico di carattere urgente, eccezionale e attuale.
Del pari, il provvedimento medesimo difetta sotto il presupposto della temporaneità, essendo evidente che mira, unicamente, a “spostare” in capo alla ricorrente l’onere di adottare gli accorgimenti tecnico-operativi necessari per ovviare, in via definitiva, alle problematiche di “convivenza” insorte tra la ricorrente medesima e gli abitanti delle aree contermini, riconducibili, tuttavia, più che all’effettiva eccessiva rumorosità dell’attività posta in essere dalla medesima, al disordinato sviluppo urbanistico che è stato impresso alla zona, ove, per l’appunto, accanto all’area a vocazione industriale, nell’ambito della quale da sempre la società Ca. svolge la propria attività produttiva, è stata successivamente consentita la realizzazione di una zona a vocazione urbanistica residenziale.
Le considerazioni sin qui svolte consentono, quindi, di concludere per la fondatezza del I motivo di gravame, che va, dunque, accolto.
Sicché, assorbite tutte le ulteriori censure dedotte da parte ricorrente, dal cui eventuale accoglimento la parte medesima non potrebbe, comunque, trarre maggiore utilità, il ricorso va, in definitiva, accolto e, per l’effetto, annullata l’ordinanza impugnata (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 01.02.2018 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela dei beni culturali e ambientali - Reato di cui all'art. 181, d.lgs. n.42/2004 - Offensività della condotta - Reato paesaggistico - Natura di pericolo formale ed astratto - Irrilevanza condizioni dell'area - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Autorizzazione e controllo.
Il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 è di pericolo formale ed astratto per la cui sussistenza non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le condotte relative ad interventi di entità talmente minima da non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione degli adempimenti formali, quali la richiesta di autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale funzione in maniera efficace e tempestiva (Cass. Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci; Sez. 3, n. 39049 del 20/03/2013, Bortini; Sez. 3, n. 38051 del 03/06/2004, Caletta; Sez. 3, n. 40862 del 02/10/2001, Fara).
Configurabilità del reato paesaggistico - Luoghi già urbanizzati o compromessi - Irrilevanza condizioni dell'area.
Ai fini della configurazione del reato paesaggistico, di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, non ha rilevanza alcuna il fatto che l’opera sia stata realizzata in zona fortemente abitata e urbanizzata, servita da pubblica illuminazione e fornitura idrica.
Una simile deduzione si fonda sull’erroneo presupposto che il vincolo paesaggistico comporti sempre e comunque l’inedificabilità assoluta delle aree che ne sono oggetto o che comunque non possa riguardare luoghi già urbanizzati o addirittura “compromessi” e ciò al fine di evitarne l’ulteriore “compromissione” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.01.2018 n. 4567 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 è di pericolo formale ed astratto per la cui sussistenza non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le condotte relative ad interventi di entità talmente minima da non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione degli  adempimenti formali, quali la richiesta di autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale funzione in maniera efficace e tempestiva.
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3.2. Quanto alla eccepita inoffensività della condotta integrante il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 è di pericolo formale ed astratto per la cui sussistenza non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le condotte relative ad interventi di entità talmente minima da non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione degli  adempimenti formali, quali la richiesta di autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale funzione in maniera efficace e tempestiva (in questo senso, Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3, n. 39049 del 20/03/2013, Bortini, Rv. 256426; Sez. 3, n. 38051 del 03/06/2004, Coletta, Rv. 230038; Sez. 3, n. 40862 del 02/10/2001, Fara, Rv. 220356).
3.3. Nel caso in esame è escluso che l'intervento edilizio descritto nella premessa possa essere definito di "minima entità" ed inidoneo in astratto a compromettere i valori tutelati dal vincolo. Né ha rilevanza alcuna il fatto che l'opera sia stata realizzata in zona fortemente abitata e urbanizzata, servita da pubblica illuminazione e fornitura idrica.
Una simile deduzione si fonda sull'erroneo presupposto che il vincolo paesaggistico comporti sempre e comunque l'inedificabilità assoluta delle aree che ne sono oggetto o che comunque non possa riguardare luoghi già urbanizzati o addirittura "compromessi" e ciò al fine di evitarne l'ulteriore "compromissione" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.01.2018 n. 4567).

EDILIZIA PRIVATA: È necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell’immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico.
La disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile.
In linea con l’indirizzo suindicato si dispiega la giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente, evidenziato come la realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Tanto è a dirsi nel caso di specie, anche in ragione della destinazione d’uso dell’ambiente realizzato che, quale cabina armadio, costituisce un’estensione della superficie utile dell’appartamento.
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... per l'annullamento della disposizione dirigenziale n. 369 del 29.09.2011, con la quale il Comune di Napoli ha ordinato il ripristino dello stato dei luoghi tramite demolizione di un soppalco di 9,00 mq., realizzato nell'appartamento in via ...  n. 6, piano II;
...
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal Comune attraverso i propri organi.
Risulta, invero, acquisito agli atti di causa che il ricorrente ha realizzato, in assenza dei prescritti titoli abilitativi, un soppalco in legno sorretto da travi di acciaio di mq 9,00.
Il provvedimento impugnato, contrariamente a quanto dedotto, riflette con particolare nitore la traiettoria argomentativa su cui riposa.
Ed, invero, oppone l’assenza di titoli abilitativi, la mancanza dei requisiti di abitabilità, la riconducibilità della fattispecie di illecito qui in rilievo alla specie della cd. ristrutturazione abusiva.
Orbene, mette conto evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto, il soppalco qui in rilievo non risulta affatto preceduto da una d.i.a., riferendosi il suddetto titolo su cui indugia il ricorrente riferito ad altra analoga opera rinvenuta all’interno dell’appartamento.
Segnatamente, all’interno dell’unità immobiliare di pertinenza del ricorrente sono state rinvenuti 4 soppalchi, risultando solo 3 supportati da una dia (un soppalco di mq. 9 risulta assentito con D.I.A. n. 2390 del 2009 e successiva integrazione prot. 4113 del 2009, due ulteriori soppalchi di mq. 15 e di mq. 8 sono stati assentiti con D.I.A. n. 547 del 2001) mentre quello qui in rilievo, adibito a cabina armadio, è sprovvisto di titolo abilitativo.
Allo stesso modo, prive di pregio si rivelano le contestazioni con le quali il ricorrente deduce che vi sarebbe un evidente errore di misurazione, essendo stato il soppalco realizzato nel pieno rispetto dell'altezza prevista dalla vigente normativa, e cioè in ragione di m. 2,40 e non 2,30 m. L'altezza del soppalco, secondo il ricorrente, andrebbe misurata prescindendo dagli elementi di rifinitura e cioè scorporando le dimensioni di tali elementi, costituiti dalla controsoffittatura all'intradosso del soppalco e dal rivestimento in parquet posto sul piano di calpestio dell'appartamento.
Il costrutto giuridico di parte ricorrente non può, di contro, essere condiviso in quanto, ed indipendentemente dal materiale e dalle tecniche costruttive utilizzate, ciò che assume rilievo ai fini della misurazione è la distanza che separa il pavimento dal soffitto nella definitiva conformazione degli ambienti sottoposti a misurazione.
E’, infatti, il suddetto assetto, nella sua attuale versione, che va validato rispetto ai parametri di abilità prescritti dalla disciplina di settore.
Tanto refluisce in negativo sulla vivibilità degli spazi realizzati, sia al di sotto che al di sopra del soppalco, tenuto altresì conto della sua destinazione a cabina armadio.
Infine, va condivisa la qualificazione dell’illecito come ristrutturazione abusiva e la spedizione della misura ripristinatoria.
Com’è noto, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile (Consiglio di Stato, sez. VI, 02/03/2017, n. 985).
In linea con l’indirizzo suindicato si dispiega la giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente, evidenziato come la realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 23.09.2011, n. 952; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 11.07.2011, n. 1863; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 21.03.2011, n. 1586).
Tanto è a dirsi nel caso di specie, anche in ragione della destinazione d’uso dell’ambiente realizzato che, quale cabina armadio, costituisce un’estensione della superficie utile dell’appartamento.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso va respinto siccome infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 31.01.2018 n. 693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una foto aerea di Google Earth non è sufficiente per dichiarare la decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori.
Per giurisprudenza risalente, l’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con licenza edilizia incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante.
Nel caso di specie detto onere probatorio è stato assolto dall’ufficio comunale esclusivamente con riferimento alla foto aerea estratta dal sito Google Earth recante come data del volo il 07.04.2014.
Sennonché la questione del valore processuale di tale mezzo è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, presso la quale si è consolidato un orientamento maggioritario –dal quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi- nel senso di non ritenere che tali riscontri fotografici assicurino con certezza la data del rilevamento.
In particolare si è precisato che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio non possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi (che nel caso di specie l’amministrazione non ha fornito), documenti idonei allo scopo di indicare la data di realizzazione di un abuso e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio risultano essere tratte dalla versione “base” del software e non da quelle più evolute predisposte per scopi commerciali).

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... per l'annullamento dell'ordinanza 13.09.2016, n. 22 con la quale il dirigente del Settore Pianificazione e gestione del territorio, Edilizia privata e pubblica, Servizio Controllo edilizia e prevenzione abusi, ha ordinato la demolizione di una casa colonica e il ripristino dello status quo ante;
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Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Il rapporto 07.06.2016 n. 53417 del Servizio controllo edilizia del Comune di Olbia, posto a fondamento dell’ordine demolitorio impugnato, afferma che il fabbricato della sig.ra Bo. era stato realizzato in assenza di titolo edilizio in quanto la concessione edilizia n. 354/12 rilasciata al suo dante causa era decaduta per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio del titolo.
Nell’assunto del predetto Servizio di controllo edilizio l’accertamento del mancato tempestivo inizio dei lavori risulterebbe dalla foto aeree tratte dal sito Google Earth (data del volo 07.04.2014).
Orbene, per giurisprudenza risalente, l’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con licenza edilizia incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante (cfr: Cons. Stato, sez. V, 11.04.1990).
Nel caso di specie detto onere probatorio è stato assolto dall’ufficio comunale esclusivamente con riferimento alla foto aerea estratta dal sito Google Earth recante come data del volo il 07.04.2014.
Sennonché la questione del valore processuale di tale mezzo è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, presso la quale si è consolidato un orientamento maggioritario –dal quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi- nel senso di non ritenere che tali riscontri fotografici assicurino con certezza la data del rilevamento (cfr. TAR Campania, Napoli, n. 6118/2014).
In particolare si è precisato che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio non possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi (che nel caso di specie l’amministrazione non ha fornito), documenti idonei allo scopo di indicare la data di realizzazione di un abuso e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio risultano essere tratte dalla versione “base” del software e non da quelle più evolute predisposte per scopi commerciali).
A quanto sopra consegue, quindi, tenuto conto che le foto tratte da Google Earth hanno costituito l’unico elemento probatorio posto dall’ufficio comunale a fondamento della sua decisione, l’accoglimento del ricorso per difetto di motivazione del provvedimento impugnato, con assorbimento di ogni altra censura (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 31.01.2018 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Distinzione tra sottoprodotto e rifiuto - Gli sfabbricidi provenienti da demolizione devono sempre essere considerati rifiuti - Artt.184, 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006.
Affinché una determinata sostanza od oggetto possa considerarsi un sottoprodotto e non già un rifiuto è necessario che soddisfi le condizioni fissate dall'art. 184-bis d.lgs. 152/2006 e dunque:
   a) che tragga origine da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza o oggetto;
   b) che è certo che sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
   c) che possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
   d) che l'ulteriore utilizzo sia legale, ossia soddisfi, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porti a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Premessa la rilevanza della suddetta distinzione posto che mentre il rifiuto implica un obbligo da parte del detentore di disfarsene avviandolo al recupero o allo smaltimento con tutti gli obblighi (e controlli) conseguenti, quali l'autorizzazione, l'iscrizione all'Albo Nazionale etc., nessun obbligo sussiste per contro allorquando si tratti di un bene qualificabile come sottoprodotto, deve tuttavia osservarsi che i materiali da demolizione non possono, a monte, essere ricompresi nel novero dei sottoprodotti non soltanto perché l'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006 li qualifica espressamente come rifiuti speciali, ma soprattutto perché non derivano da un processo di produzione così come richiesto dall'art. 184-bis lett. a), ovverosia da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali, e dunque non costituendo un quid novi derivante dall'elaborazione del prodotto originario (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015 - dep. 28/07 /2015, Giulivi).
Di conseguenza, la demolizione di un edificio, che può avvenire per motivi diversi, non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì all'eliminazione dell'edificio medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da questa Corte, il fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato il prodotto finale della demolizione, in quanto tale attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che può essere effettuata anche indipendentemente da precedenti demolizioni. Ne deriva quindi che gli sfabbricidi, indipendentemente dall'attività probatoria svolta dall'interessato, debbano sempre essere considerati rifiuti.
RIFIUTI - Trasporto illecito di rifiuti - Confisca obbligatoria del mezzo - Sopravvenuta iscrizione all'Albo gestori ambientali - Ininfluenza - Natura costitutiva del fatto - Data di consumazione del reato - Illegittima pregressa utilizzazione - Giurisprudenza - Artt. 259, 256, c. 1°, D.Lgs. n.152/2006.
L'art. 259, 2 comma d.Lgs. n. 152/2006 prevede la confisca obbligatoria del mezzo utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti, con conseguente estensione alla materia ambientale del disposto dell'art. 240, comma 2, cod. pen. e rendendo perciò un bene che sarebbe stato altrimenti soggetto a confisca facoltativa (in quanto utilizzato per commettere il reato) ricompreso nel novero di quelli per i quali è sempre ordinata la suddetta misura ablatoria.
Né d'altra parte la sopravvenuta iscrizione all'Albo gestori ambientali del titolare dell'automezzo adibito al trasporto di rifiuti configura circostanza rilevante ai fini dell'inapplicabilità della confisca atteso che il provvedimento amministrativo, sulla data della cui pronuncia nulla viene peraltro indicato in ricorso, con il quale l'autocarro è stato inserito fra i mezzi lecitamente utilizzabili dalla società per il trasporto dei rifiuti, non fa venir meno, avendo natura costitutiva, la sua illegittima pregressa utilizzazione, ovverosia in assenza della suddetta iscrizione, alla data di consumazione del reato, perfezionatosi in epoca antecedente alla stessa richiesta.
Pertanto, la sopravvenuta iscrizione all'Albo gestori ambientali del titolare dell'automezzo adibito al trasporto di rifiuti non esclude la confisca del mezzo stesso (Sez. 3, n. 1635 del 18/11/2015 - dep. 18/01/2016, Cifaldi e altro; Sez. 3, n. 5353 del 12/01/2011 - dep. 14/02/2011, Elisei) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.01.2018 n. 4200 - link a
www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Trasporto e abbandono sul suolo di rifiuti speciali non pericolosi - Trasporto di rifiuti senza autorizzazione - Natura di reato istantaneo - Consapevolezza dell'illiceità del fatto - Art. 256, c. 1°, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di trasporto di rifiuti senza autorizzazione (art. 256, comma primo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) ha natura istantanea, in quanto si perfeziona nel momento in cui si realizza la singola condotta tipica, essendo sufficiente un unico trasporto ad integrare la fattispecie incriminatrice (Cass. Sez. 3, n. 41529 del 15/12/2016).
Nella specie, l'imputato non poteva invocare la buona fede, ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non ravvisandosi mancanza di consapevolezza dell'illiceità del fatto nella sua condotta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.01.2018 n. 4189 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Produzione dei rifiuti e deposito temporaneo - Collegamento funzionale tra aree diverse - Condizioni - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Oneri e controlli dei competenti uffici comunali - APPALTI - Contratto di appalto - Allontanamento dei rifiuti dal cantiere edile - Vincolo di asservimento funzionale al cantiere di altre aree - Assenza di autorizzazioni - Giurisprudenza.
Ad integrare la nozione di collegamento funzionale concorre non soltanto dal punto di vista spaziale la contiguità dell'area a tal fine utilizzata rispetto a quella di produzione dei rifiuti, ma altresì la destinazione originaria della medesima in ragione dello strumento urbanistico e dell'assenza di una sua autonoma utilizzazione in concreto diversa da quella accertata, elementi in relazione ai quali la difesa nulla deduce.
Sicché, ai fini della nozione di deposito temporaneo è stato ritenuto non solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma anche quello in disponibilità dell'impresa produttrice nel quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato a quello di produzione.
Nella specie, la disposizione data dall'amministrazione comunale nell'ambito del contratto di appalto stipulato con la ditta di allontanamento dal cantiere edile, sito nel centro storico del paese del materiale non utilizzato, non vale ad imprimere all'area adoperata dagli imputati, di cui il contratto di appalto non fa menzione, per l'accantonamento del materiale di scarto alcun vincolo di asservimento funzionale al cantiere nel quale i rifiuti venivano prodotti, al cui smaltimento il titolare dell'impresa appaltatrice avrebbe dovuto provvedere autonomamente con l'organizzazione di mezzi idonei in conformità alle disposizioni di legge.
RIFIUTI - Accumulo di quantità consistente di materiali vari - Deposito temporaneo o controllato - Esclusione - Art. 6, c. 1, lett. b), L. 210/2008 - Configurabilità.
L'accumulo di una quantità consistente di materiali vari (nel caso di specie, materiali ferrosi, da scavo, da demolizione) non corrisponde alla ipotesi di deposito temporaneo o controllato, bensì alla ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti.
RIFIUTI - Reati ambientali - Raggruppamento di rifiuti - Deposito controllato o temporaneo - Sussistenza delle condizioni fissate dall'art. 183 del D.Lgs. n. 152/2006 - Onere della prova - Regolamento 850/2004/CE - Condizioni - Luogo di produzione dei rifiuti.
In materia di reati ambientali, l'onere della prova in ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dall'art. 183 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per la liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria.
La norma in esame pone una serie di indefettibili condizioni, tutte concorrenti, per la configurabilità, in presenza di raggruppamento di rifiuti, di un deposito temporaneo, con la conseguenza che in difetto anche di uno di essi il deposito non può ritenersi temporaneo e segnatamente: «1) i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento; 2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno; 3) il «deposito temporaneo» deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute; 4) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose; 5) per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo».
Condizioni queste cui si aggiunge quale requisito principale, immanente rispetto agli elementi indicati, il raggruppamento dei rifiuti nel luogo in cui gli stessi sono prodotti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.01.2018 n. 4181 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Varianti in senso proprio e varianti essenziali - Titoli abilitativi - Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali - Accertamento di conformità - Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - Artt. 27, 31, 36, 44 d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, le "varianti in senso proprio" non determinano un sostanziale e radicale mutamento della progettazione originaria (come accade, ad esempio, nelle ipotesi di sensibile spostamento della localizzazione del manufatto, aumento del numero dei piani, creazione di un piano seminterrato, modifica del prospetto esterno etc.) e si sostanziano, quindi, in modificazioni qualitative o quantitative di irrilevante consistenza rispetto al progetto originario.
Sicché, il titolo abilitativo che le riguarda, viene rilasciato con lo stesso procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire e si pone, rispetto al titolo originario, in rapporto di accessorietà e complementarietà.
Mentre, le "varianti essenziali" si distaccano, dalla progettazione originaria in modo radicale sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e si risolvono nella realizzazione di un'opera completamente diversa da quella assentita. Esse non sono specificamente disciplinate e presuppongono, per la loro realizzazione, un diverso e autonomo permesso di costruire (Cass., Sez. 3, n. 7241 del 09/02/2011, Pm in proc. Morozzi e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria condizionata - Esclusione - Requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia - Necessità - Attività vincolata della P.A. - Giurisprudenza.
In materia edilizia è sempre esclusa la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Cass. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù e altro; Sez. 3, n. 7 405 del 15/01/2015, Bonarota; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chi sci e altro; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e altro; Sez. 3 n. 23726 del 24/2/2009, Peoloso; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro ed altre prec. conf.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Rilascio di un titolo abilitativo edilizio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio - Art. 323 cod. pen..
Integra il reato di abuso d’ufficio, il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita o il mantenimento di un immobile abusivo mediante l'omessa adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del titolo indebitamente conseguito o dell'inerzia del pubblico ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto il quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio - Collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro ed il richiamo è certamente pertinente, ma va considerato tenendo conto dell'ulteriore precisazione, pure fornita dalla medesima giurisprudenza, che, ai fini di tale accertamento vanno anche considerati i profili inerenti al contesto fattuale, ai rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, idonei a dimostrare che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale, se non da pressioni dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto illegittimo (Cass., Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altro; Conf. Sez. 6, n. 37880 del 1117/2014, Savini e altro; Sez. 6, n. 40499 del 21/05/2009, Bonito e altri; Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri; Sez. 6, n. 2844 del 01/12/2003 (dep. 2004), Celiano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'ampliamento di un fabbricato preesistente non può essere considerato pertinenza - Mancanza di autonomia rispetto all'edificio medesimo - Giurisprudenza - Artt. 3, 10 e 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Artt. 134, 136 e 181 d.lgs. 42/2004.
L'ampliamento di un fabbricato preesistente non può essere considerato pertinenza, diventando parte dell'edificio di cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo (Sez. 3, n. 20349 del 16/03/2010, Catania; Sez. 3, n. 28504 del 29/05/2007, Rossi; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi ed altre prec. conf.).
Esecutore dei lavori edilizi - Obbligo di preventiva verifica dell'esistenza del titolo abilitativo - Responsabilità, a titolo di dolo, nel reato urbanistico - Reato proprio nel reato paesaggistico - Sanziona chiunque trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei vincoli.
Sull'esecutore dei lavori edilizi incomba l'obbligo di una preventiva verifica dell'esistenza del titolo abilitativo, la violazione del quale comporta responsabilità, a titolo di dolo, nel reato urbanistico in caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento negativo e a titolo di colpa nell'ipotesi di omesso accertamento (Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carata e altro; Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004 (dep. 2005), Cima), ricordando anche, con riferimento al reato paesaggistico, che lo stesso non disciplina una ipotesi di "reato proprio" e non ha quindi come destinatari soltanto i proprietari del bene vincolato ed i soggetti a questi equiparati ovvero i committenti di "lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici", ma sanziona chiunque trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei vincoli (Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino).
Reati edilizi - Incertezza assoluta sulla data di commissione del reato - Inizio del termine di prescrizione - Applicazione del principio del favor rei - Motivazione - Necessità.
In tema di reati edilizi, l'incertezza assoluta sulla data di commissione del reato o, comunque, sull'inizio del termine di prescrizione che consente l'applicazione del principio del favor rei non ammette alcun automatismo e deve risultare da dati obiettivi.
Il giudice è comunque tenuto all'indicazione delle ragioni per le quali non è possibile pervenire, anche sulla base di deduzioni logiche, ad una più puntuale collocazione temporale dell'intervento abusivo (Sez. 3, n. 7065 del 07/02/2012, Croce) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2018 n. 4139 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Natura dei materiali da classificare o meno rifiuti - Valutazione oggettiva - Cessione a titolo oneroso - Non esclude la natura di rifiuto - Artt. 183 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
Ogni valutazione soggettiva in merito alla natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti, è inaccettabile. Poiché è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore in relazione a tale bene ovvero sulla scorte di un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, inerente, appunto, alla necessità di disfarsi del suddetto materiale.
Inoltre, al fine della valutazione oggettiva non rileva, che detti materiali siano, almeno in parte, ancora suscettibili di utilizzazione economica attraverso la loro cessione a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la loro natura di rifiuto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.01.2018 n. 3299 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Decadenza del permesso di costruire.
La decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine di inizio e di ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.
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L’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto, i lavori devono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso a interventi fittizi e simbolici
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E' da ricordare in generale che il verbale redatto dai pubblici ufficiali fa piena prova in ordine ai fatti materiali ivi rappresentati ma non nelle parti in cui esprime giudizi soggettivi (cioè mere valutazioni) del verbalizzante.
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6.1. Deve innanzitutto chiarirsi che il procedimento per il rilascio del permesso di costruire ed il procedimento di accertamento dell’intervenuta decadenza dello stesso ai sensi dell’art. 15, d.P.R. n. 380/2001, sono procedimenti autonomi che sfociano in autonomi e distinti provvedimenti. Da ciò inevitabilmente deriva che il ricorso, infruttuosamente, spiegato nei confronti del primo non spiega effetti nei confronti del ricorso proposto avverso il secondo.
Al contrario, l’esito favorevole del ricorso proposto in caso di mancato accertamento dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire fa venire meno l’interesse alla decisione del ricorso proposto avverso quest’ultimo atto. Infatti, la decadenza del permesso di costruire impone che ne venga rilasciato uno nuovo, situazione quest’ultima che determina il venir meno di quella lesione, su cui fonda l’interesse del ricorrente all’impugnazione del permesso.
Occorre, altresì, rammentare che la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine di inizio e di ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo (cfr. Cons. St., Sez. VI, 20.11.2017, n. 5324).
Tanto premesso, non può convenirsi con quanto affermato dall’amministrazione comunale, secondo la quale il primo giudice avrebbe errato nell’esaminare il ricorso per motivi aggiunti per primo. Infatti, la ricostruzione sopra operata dei rapporti tra i due procedimenti, unitamente, al principio di economicità, che anima il processo amministrativo, impongono di esaminare prioritariamente quella domanda, che se fondata, consente il raggiungimento del bene della vita, in questo caso l‘interesse oppositivo dell’originario ricorrente alla realizzazione dell’intervento edilizio oggetto del permesso di costruire. Rispetto a ciò, appare perfino superfluo rammentare che il ricorso per motivi aggiunti già nella versione dell’abrogato art. 21, l. TAR, era concepito come strumento di concentrazione processuale delle domande tese al soddisfacimento di un comune interesse sostanziale. Struttura e funzione mantenute dal vigente art. 43 c.p.a.
6.2. Superata la censura avente ad oggetto l’ordine processuale di esame delle domande da parte del TAR, deve passarsi ad esaminare la bontà della conclusione raggiunta da quest’ultimo in ordine all’intervenuta decadenza del permesso di costruire.
Al riguardo, deve rammentarsi che la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che l’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto. Pertanto i lavori debbono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 19.09.2017).
Nella fattispecie in esame la documentazione in atti milita nel senso che alla data del 17.05.2011 i lavori non fossero stati in concreto iniziati. Ad una simile conclusione si giunge attraverso un raffronto dei luoghi sulla base delle foto prodotte in primo grado dalle parti, dalle quali si evince che a quella data non vi fosse alcuna significativa attività edilizia in corso, pur a fronte delle particolarità urbanistiche della zona, per l’assenza di qualsivoglia tipo di macchinario o di strumentazione all’uopo necessaria o di qualsivoglia traccia di attività edilizia in corso.
Né in senso opposto può argomentarsi sulla scorta del verbale del sopraluogo dei tecnici comunali, atteso che quest’ultimo, da un lato, testimonia con efficacia fidefaciente soltanto lo stato dei luoghi al 30.05.2011, ossia in data successiva all’inutile decorso del termine per l’intrapresa dei lavori; dall’altro, anche in forza della sua laconicità, non consente di ritenere che ivi fossero stati effettuati lavori non realizzabili nel lasso temporale intercorrente tra la data di intervenuta decadenza del permesso e la data di sopraluogo.
In ogni caso è da ricordare in generale che il verbale redatto dai pubblici ufficiali fa piena prova in ordine ai fatti materiali ivi rappresentati ma non nelle parti in cui esprime giudizi soggettivi (cioè mere valutazioni) del verbalizzante.
Ancora non può giungersi alle conclusioni invocate dalle appellanti neanche sulla scorta di quanto meramente dichiarato nel diario del Direttore dei lavori, che indica l’effettuazione di attività meramente preparatorie all’intervento edilizio assentito.
Infine, del tutto neutro è il dato relativo alla stipulazione da parte dell’orignaria controinteressata in data 21.04.2011 del contratto (registrato il 13/05/2011) d’appalto relativo alla esecuzione di tutte le opere necessarie alla realizzazione dell’intervento edilizio assentito, poiché la stipula del contratto non prova in concreto l’inizio dei lavori.
7. Entrambi gli appelli devono, dunque, essere respinti. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Necessità del piano attuativo.
Non è sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano attuativo, l'esistenza di opere di urbanizzazione, rispondendo detto strumento anche alla necessità di garantire l'equilibrato sviluppo del territorio, talché la sua necessità può risultare dalle opere pubbliche che interessano l'area, la cui realizzazione comporta, secondo una valutazione effettuata dall'amministrazione, la necessità di un raccordo armonico, affidato alla pianificazione attuativa, o al titolo edilizio convenzionato.
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II.2) Infine, le ricorrenti deducono la violazione dell’art. 12, c. 1, L.R. n. 12/2005, per avere gli atti impugnati subordinato l’ammissibilità degli interventi edilizi nelle aree di che trattasi, all’adozione di un piano attuativo, ed al rilascio di un permesso di costruire “convenzionato”, illegittimo in quanto atipico, considerato altresì che le stesse si trovano in una zona urbanizzata ed edificata.
In linea generale, osserva sul punto il Collegio che non è sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano attuativo, l'esistenza di opere di urbanizzazione, rispondendo detto strumento anche alla necessità di garantire l'equilibrato sviluppo del territorio, talché la sua necessità può risultare dalle opere pubbliche che interessano l'area, la cui realizzazione comporta, secondo una valutazione effettuata dall'amministrazione, la necessità di un raccordo armonico, affidato alla pianificazione attuativa, od al titolo edilizio convenzionato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 29.07.2009, n. 4494).
In particolare, contrariamente a quanto dedotto dalle ricorrenti, il rilascio di un permesso di costruire convenzionato, oggi espressamente menzionato nell’art. 28-bis D.P.R. 06.06.2001 n. 380, introdotto dall’art. 17, c. 1, lett. q), della L. n. 164/2014, all’epoca dell’emanazione dei provvedimenti impugnati, era previsto dall’art. 10, c. 2, della L.R. n. 12/2005 cit., di cui le istanti deducono l’illegittimità, nella loro memoria finale, senza tuttavia minimamente motivare tale assunto, che risulta conseguentemente generico.
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Circa l'espressione del parere di compatibilità del P.I.I. con il sopraordinato P.T.C.P. la competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale.
Nel silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la compatibilità del programma integrato di intervento predisposto dal Comune con il sopraordinato piano territoriale di coordinamento provinciale, senza però precisare a quale organo provinciale spetti tale potere, trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il programma comunale ed il piano territoriale provinciale.
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Il Collegio può prescindere dallo scrutinio del ricorso incidentale proposto dal Comune resistente, essendo il presente ricorso infondato nel merito.
I) Con il primo motivo le istanti deducono il vizio di incompetenza avverso il parere di compatibilità al PTCP del Documento di Piano del PGT, espresso dalla Provincia con la delibera di Giunta n. 436 del 17.06.2008, che avrebbe invece dovuto essere adottata dal Consiglio, come previsto dall’art. 42, c. 2, lett. b), del T.U.E.L.
Il motivo è infondato atteso che, nel silenzio dell'art. 92, L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la compatibilità del programma integrato di intervento predisposto dal Comune con il sopraordinato piano territoriale di coordinamento provinciale, senza però precisare a quale organo provinciale spetti tale potere, trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett. h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il programma comunale ed il piano territoriale provinciale (C.S., Sez, IV, 28.05.2009 n. 3333, che ha riformato TAR Lombardia, Milano, Sez., II, 29.10.2008 n. 5219) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per giurisprudenza pacifica, le osservazioni presentate da un privato allo strumento urbanistico adottato dall'ente costituiscono meri apporti collaborativi allo stesso, e non danno luogo a peculiari aspettative, potendo essere respinte, o accolte solo in parte, senza necessità di specifica motivazione.
Nel caso in cui il previgente strumento urbanistico abbia classificato un’area come edificabile, in capo al privato sussiste effettivamente un legittimo affidamento che deve essere valutato dal Comune, diversamente da quanto invece avvenuto nel caso di specie in cui, come detto, gli immobili delle ricorrenti, sulla base del previgente p.g.t., avevano destinazione produttiva.

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Per giurisprudenza pacifica, le scelte effettate dall'Amministrazione comunale all'atto dell'adozione del piano regolatore costituiscono inoltre apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità.
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II.1) Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano che, a seguito del parziale accoglimento delle osservazioni dalle stesse presentate, il Comune avrebbe illegittimamente modificato “in peius” il P.G.T., violando il loro affidamento.
II.1.1) In primo luogo, osserva il Collegio che il Comune ha in realtà accolto le richieste delle ricorrenti, con cui le stesse hanno chiesto “che l’intera area di proprietà possa essere inserita nel nuovo P.G.T. in zona a destinazione residenziale”, ciò che, come detto, ha puntualmente avuto luogo.
II.1.2) In ogni caso, per giurisprudenza pacifica, le osservazioni presentate da un privato allo strumento urbanistico adottato dall'ente costituiscono meri apporti collaborativi allo stesso, e non danno luogo a peculiari aspettative, potendo essere respinte, o accolte solo in parte, senza necessità di specifica motivazione (C.S., Sez. IV, 08.05.2017 n. 2089, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.02.2015, n. 358), ciò che, di per sé, dà luogo al rigetto del motivo.
Nel caso in cui il previgente strumento urbanistico abbia classificato un’area come edificabile, in capo al privato sussiste effettivamente un legittimo affidamento che deve essere valutato dal Comune (C.S. Sez. IV, 22.06.2004, n. 4399), diversamente da quanto invece avvenuto nel caso di specie in cui, come detto, gli immobili delle ricorrenti, sulla base del previgente p.g.t., avevano destinazione produttiva.
II.1.3) Fermo restando quanto precede, ad abundantiam, osserva il Collegio che le aree di che trattasi si trovano all’interno del Parco Regionale della Valle del Lambro, e sono pertanto soggette a vincolo paesaggistico, ex art. 142 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, ciò che non rende irragionevole la loro parziale destinazione a “verde privato”.
Analogamente, anche la prevista cessione di 485 mq da destinare a parcheggi, su una superficie complessiva di oltre 3.000 mq, non pare ingiustificata, essendo le aree in questione collocate in un ambito contiguo al centro storico, caratterizzate da una cronica mancanza di detti spazi, come dettagliatamente evidenziato nel paragrafo 4.1c della relazione allegata al Piano dei Servizi.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte effettate dall'Amministrazione comunale all'atto dell'adozione del piano regolatore costituiscono inoltre apprezzamenti di merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità (C.S. Sez. IV, 12.06.2017, n. 2822), ciò che, ulteriormente, depone per l’infondatezza delle doglianze in questa sede articolate (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività abusiva di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi (rottami ferrosi) - Occasionale attività di trasporto - Obblighi di comunicazione, autorizzazione o iscrizione - Inadempimento - Natura di reato istantaneo - Iscrizione nell'Albo nazionale gestori ambientali - Necessità - Artt. 212, 256, 258 e 260 d.lgs. n. 152/2006.
Anche l'occasionale attività di trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti nell'esercizio della propria attività d'impresa richiede l'iscrizione nell'Albo nazionale gestori ambientali, sia pur nell'apposita sezione di cui all'art. 212, comma 8, d.lgs. 152/2006 e secondo la procedura semplificata ivi descritta, che presuppone una comunicazione.
L'inadempimento di tali obblighi di comunicazione e iscrizione integra, per pacifico orientamento, la contravvenzione di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 (Sez. 3, n. 26435 del 23/03/2016, Pagliuch, secondo cui «nelle ipotesi di trasporti occasionali o episodici di rifiuti propri non pericolosi, risponde del reato di cui all'art. 256, comma primo, D.Lgs. n. 152 del 2006, chiunque vi provveda con mezzi propri e non autorizzati, anziché attraverso imprese esercenti servizi di smaltimento iscritte all'Albo nazionale dei gestori ambientall».
Il reato ascritto è istantaneo e, con riguardo alla condotta del trasporto rifiuti contestata all'imputato, si consuma in occasione di ogni singolo trasporto effettuato da soggetto non autorizzato, posto che una continuativa ed organizzata attività abusiva di trasporti, ricorrendone gli altri presupposti, potrebbe invece integrare il ben più grave delitto di cui all'art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006 (Sez. 3, n. 26614/2013 del 12/07/2012, Trevisan) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.01.2018 n. 2290 - link a
www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, su cui l’Amministrazione si esprime (principio applicabile anche ai piani attuativi).
Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo strumento attuativo perde efficacia.
È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante.

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L’approvazione di una Variante ad un Piano particolareggiato non determina di per sé la proroga dell’efficacia dell’originario strumento di pianificazione secondaria, ancorché per ampia parte modificato, potendo tale effetto riconoscersi soltanto alle Varianti che approvano una operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa rispetto a quella originariamente prevista per la stessa zona, nonché alle Varianti che si riferiscano all’intero programma urbanistico, implicandone una positiva valutazione di attualità e di persistente conformità all’interesse pubblico.
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Ritiene tuttavia il collegio che debbano trovare applicazione anche nel caso di specie, i principi affermati in materia secondo cui “Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d. factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire l’indirizzo giurisprudenziale affermato -principio affermato in materia di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in esame di sospensione del termine di validità della lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore”.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1, lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga.
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis, di attivarsi nel termine di validità del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti (eventuale provvedimento di proroga) di competenza dell’amministrazione medesima.
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Pur prendendo atto che in numerose sentenze si rileva che il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione, deve ritenersi che ciò si ricolleghi, in primo luogo, al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione.
Deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato,
   - sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato”;
   - sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria”.
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Considerato che la deliberazione di giunta municipale impugnata si fonda, in primo luogo, sull’intervenuta decadenza e perdita di efficacia del piano di risanamento urbanistico per scadenza del termine decennale, ritiene il collegio che tale rilievo dell’Amministrazione comunale sia fondato.
Ritiene il collegio di dovere ribadire, anche nel caso di specie, i principi giurisprudenziali in materia affermati da questo Tribunale e confermati dal Consiglio di Stato, secondo cui:
   - “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo strumento attuativo perde efficacia” (Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, sez. II, n. 553 del 2013).
   - “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante” (Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
Infondate risultano le censure di violazione dell’articolo 17 della legge 1150/1942 e di violazione degli articoli 11 e 15 delle NTA del PPR, di cui al punto primo del ricorso, non potendo essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui, a seguito della variante al PUC adottata nel 2006 e approvata nel 2009 e a seguito della successiva variante del 2012, la durata decennale di validità del piano di risanamento inizierebbe nuovamente a decorrere dall’approvazione delle varianti medesime.
Ritiene il collegio che lo stesso precedente di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1574/2013, invocato dalla ricorrente, deponga, in realtà, in senso contrario a quanto sostenuto dalla ricorrente.
In tale sentenza si precisa infatti che “Né il Collegio dubita dell’ulteriore circostanza che l’approvazione di una Variante ad un Piano particolareggiato non determina di per sé la proroga dell’efficacia dell’originario strumento di pianificazione secondaria, ancorché per ampia parte modificato, potendo tale effetto riconoscersi soltanto alle Varianti che approvano una operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa rispetto a quella originariamente prevista per la stessa zona (Cass. Civ., Sez. I, 09.11.1983 n. 6622), nonché alle Varianti che si riferiscano all’intero programma urbanistico, implicandone una positiva valutazione di attualità e di persistente conformità all’interesse pubblico”.
Ciò stante, alla luce dei dati forniti al riguardo in ricorso dalla stessa parte ricorrente (che non indica elementi idonei a provare la sussistenza di una “operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa rispetto a quella originariamente prevista per la stessa zona”) e alla luce delle specifiche precisazioni fornite in proposito dall’Amministrazione comunale resistente nella propria memoria difensiva del 28/10/2017, deve ritenersi che le varianti invocate dalla ricorrente non abbiano determinato “una operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa rispetto a quella originariamente prevista per la stessa zona”, per cui, avuto riguardo al caso di specie, deve essere ribadito il principio di carattere generale secondo cui “l’approvazione di una Variante ad un Piano particolareggiato non determina di per sé la proroga dell’efficacia dell’originario strumento di pianificazione secondaria, ancorché per ampia parte modificato…”.
Ugualmente infondate risultano le ulteriori censure prospettate dalla ricorrente, secondo cui dal periodo decennale di validità del piano di risanamento urbanistico andrebbero scomputati i tempi di “attivazione dell’intesa ex art. 11 delle NTA del PPR”.
La ricorrente, in sostanza, invoca la sussistenza di cause di forza maggiore, indipendenti dalla volontà della società ricorrente, idonee a determinare la sospensione dei termini di validità del piano di risanamento urbanistico e quindi la sussistenza di un’ipotesi di “factum principis”, che impedirebbe la decadenza del piano di risanamento.
Ritiene tuttavia il collegio che debbano trovare applicazione anche nel caso di specie, i principi affermati in materia da questo Tribunale, sezione seconda, con la sentenza n. 352 del 23.05.2017, secondo cui “Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d. factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire l’indirizzo giurisprudenziale affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 04/04/2013 n. 1870, recepito e ribadito da questo tribunale con la sentenza TAR Sardegna, sez. II, 08.11.2016 n. 848 -principio affermato in materia di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in esame di sospensione del termine di validità della lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)”.
Si confronti altresì al riguardo: Consiglio di Stato sez. IV 18.05.2012 n. 2915; TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Liguria sez. I, 31.08.2016 n. 922 ; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 04.08.2016 n. 1564.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1, lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga (TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Veneto n. 375 del 2016).
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis, di attivarsi nel termine di validità del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti (eventuale provvedimento di proroga) di competenza dell’amministrazione medesima.
Non risultando essere stati adottati formali provvedimenti di proroga del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione …omissis…, non può che prendersi atto che il termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione in questione risultava ampiamente scaduto di oltre 15 anni …. omissis…..”.
Tali principi affermati con riferimento ad un piano di lottizzazione, devono ritenersi validi anche nel caso di specie, avuto riguardo al piano di risanamento urbanistico in questione, per cui le censure al riguardo mosse dalla ricorrente devono essere disattese perché infondate.
Infondata risulta la censura di violazione dell’articolo 17, comma terzo, della legge 1150/1942.
Non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui, in forza della norma sopra richiamata, “il Comune, prima di riapprovare il piano, deve analizzare le proposte, relative ai sub-comparti presentate dai privati”.
La disposizione invocata dalla ricorrente di cui al comma terzo dell’articolo 17 della legge 1150/1942, stabilisce che “Qualora, decorsi due anni dal termine per l'esecuzione del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione il secondo comma, nell'interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi, il comune, limitatamente all'attuazione anche parziale di comparti o comprensori del piano particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di formazione e attuazione di singoli sub-comparti, indipendentemente dalla parte restante del comparto, per iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduti. I sub-comparti di cui al presente comma non costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal consiglio comunale senza l'applicazione delle procedure di cui agli articoli 15 e 16”.
Deve rilevarsi che tale disposizione è posta “nell'interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi”, per cui deve ritenersi che trattasi di valutazioni esclusivamente rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione comunale medesima, la quale, evidentemente, nel caso di specie, non ha ritenuto di avvalersi della facoltà concessa dalla norma in questione di approvare le proposte relative a sub-comparti presentate dai privati, preferendo invece procedere alla integrale di approvazione del piano, stante il lungo tempo trascorso dalla sua adozione, al fine di procedere ad una valutazione attuale e aggiornata degli interessi pubblici e privati coinvolti, scelta che, a seguito della scadenza del termine decennale di validità del piano di risanamento urbanistico, deve ritenersi rimessa -si ribadisce- alle valutazioni discrezionali dell’amministrazione, non potendosi rinvenire alcuna illegittimità o irragionevolezza nella predetta scelta dell’amministrazione comunale di procedere alla integrale riapprovazione del piano, stante il lungo tempo trascorso dalla sua adozione, al fine di procedere ad una valutazione attuale e aggiornata degli interessi pubblici e privati coinvolti.
Per quanto concerne la censura mossa dalla società ricorrente nella propria successiva memoria difensiva di replica, secondo cui il termine di validità del piano decorrerebbe esclusivamente dalla stipula della convenzione, la censura medesima risulta inammissibile in quanto non contenuta nell’atto introduttivo del gravame e avanzata solo successivamente con memoria non notificata all’amministrazione.
Qualora fosse stato possibile esaminare nel merito tale censura, la stessa sarebbe risultata comunque, nel caso di specie, infondata.
Pur prendendo atto che in numerose sentenze si rileva che il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione, deve ritenersi che ciò si ricolleghi, in primo luogo, al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione.
Deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato”; sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria” (Consiglio di Stato n. 1574/2013).
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza delle censure avanzate, il ricorso deve essere respinto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 18.01.2018 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Autolavaggio - Scarichi delle acquee reflue nella rete fognaria in assenza di autorizzazione - Diniego della concessione delle attenuanti generiche per tenuità del fatto - Giurisprudenza - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Tenuità del fatto - Valutazione del giudice - Fattispecie - Art. 133, 1° c., cod. pen - Art. 137 d.lgs. n. 152/2006.
Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen, richiedendosi una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta e non solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto.
Sicché, la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull'accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell'imputato.
Ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposti alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell'istanza - l'onere di motivazione per il diniego dell'attenuante è soddisfatto con il richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio.
Nella specie, non sono state concesse le attenuanti generiche per tenuità del fatto al responsabile del reato di cui all'art. 137 d.lgs. n. 152 del 2006 perché, quale titolare della ditta di autolavaggio, effettuava scarichi di acquee reflue provenienti dalla suindicata attività nella rete fognaria in assenza di autorizzazione allo scarico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2018 n. 1574 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proroga del permesso di costruire richiede adeguata istruttoria e congrua motivazione.
L’atto di proroga dei permessi di costruire rappresenta certamente un atto autonomo e dotato di natura provvedimentale, in quanto rende legittima la prosecuzione dei lavori edilizi non completati nel termine originariamente previsto dal titolo (avente durata massima triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale, soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa richiede la proposizione della domanda anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla consolidata giurisprudenza che si è formata sulle controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente impugnabili: sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la differente natura, con tutte le conseguenze di natura processuale, di un atto a seconda del contenuto negativo (diniego di proroga del termine) o del contenuto positivo (ammissione della predetta proroga).

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Il mancato completamento dei lavori nei termini impone il rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, con la possibilità che, l’eventuale entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe la stessa possibilità di completamento e potrebbe addirittura condurre alla riduzione in pristino della parte di opere prive di una loro idoneità di tipo funzionale.
Infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente, senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico.
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E' stato affermato in giurisprudenza che la proroga è disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione”.
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione.
Nella fattispecie de qua, tale atto di proroga risulta assolutamente immotivato e rinvia, del tutto genericamente, al contenuto della richiesta di proroga e alla tipologia dei lavori da eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non imputabilità al soggetto privato del ritardo nella conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che l’hanno determinata.
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2. Sempre in via preliminare, vanno scrutinate le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla difesa comunale.
2.1. Le eccezioni sono infondate.
Con una prima eccezione si contesta la carenza di interesse dei ricorrenti per mancata tempestiva impugnazione degli originari permessi di costruire quali atti da cui discenderebbe l’effettiva lesione, essendo gli atti di proroga sforniti di propria autonomia provvedimentale e pertanto inoppugnabili, se isolatamente intesi.
La prospettazione della difesa comunale non può essere condivisa.
L’atto di proroga dei permessi di costruire rappresenta certamente un atto autonomo e dotato di natura provvedimentale, in quanto rende legittima la prosecuzione dei lavori edilizi non completati nel termine originariamente previsto dal titolo (avente durata massima triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale, soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa richiede la proposizione della domanda anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla consolidata giurisprudenza che si è formata sulle controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente impugnabili (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564; per una fattispecie in cui è stata impugnata la proroga del termine di ultimazione dei lavori edilizi, TAR Lombardia, Milano, II, 11.01.2018, n. 48): sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la differente natura, con tutte le conseguenze di natura processuale, di un atto a seconda del contenuto negativo (diniego di proroga del termine) o del contenuto positivo (ammissione della predetta proroga).
Pertanto, la suesposta eccezione va respinta.
2.2. Anche l’eccezione fondata sulla impossibilità per i ricorrenti di ritrarre alcun vantaggio da un eventuale annullamento degli atti di proroga, stante l’avvenuto pressoché integrale completamento delle opere, deve essere respinta.
In realtà, in giudizio non è stato affatto dimostrato che le opere siano state sostanzialmente completate, quanto piuttosto sembra emergere l’esatto contrario, sia in ragione dell’avvenuta presentazione della richiesta di proroga, altrimenti non necessaria, sia sulla base delle produzioni della difesa dei ricorrenti da cui emerge –senza alcuna smentita sul punto– il mancato completamento dei lavori alla data odierna (cfr. all. 11 al ricorso).
Risulta evidente perciò che sussiste l’interesse al ricorso, atteso che il mancato completamento dei lavori nei termini impone il rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, con la possibilità che, l’eventuale entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe la stessa possibilità di completamento e potrebbe addirittura condurre alla riduzione in pristino della parte di opere prive di una loro idoneità di tipo funzionale; infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente, senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico (Consiglio di Stato, I, parere n. 1852/2017 dell’08.08.2017; TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564).
Quindi, anche la predetta eccezione va respinta.
...
3. Passando al merito del ricorso, lo stesso è fondato.
4. Con l’unica censura di ricorso si assume l’illegittimità della proroga del termine di ultimazione dei lavori di cui ai permessi di costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, in quanto la stessa sarebbe stata assunta sulla base di una carente istruttoria e si presenterebbe come sostanzialmente immotivata, contrariamente alle previsioni della normativa di settore che consentirebbe la proroga dei termini, di natura perentoria, con provvedimento motivato ed esclusivamente per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso, debitamente accertati; in aggiunta, si deduce anche l’illegittimità della reiterazione dell’invito alla società controinteressata a presentare la denuncia per opere in cemento armato, che invece avrebbe dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori.
4.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato in precedenza, al fine di poter procedere al completamento dei lavori edilizi non ultimati nel termine previsto dal titolo, al massimo di durata triennale, la normativa richiede che la domanda debba essere proposta anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga possa essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Nella fattispecie de qua la società controinteressata ha chiesto al Comune, in data 09.02.2007, la proroga del termine di ultimazione dei lavori relativi ai permessi di costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, giustificandola con la circostanza “che le operazioni preliminari per la realizzazione di sottopasso alla Strada Statale e relativa deviazione stradale hanno interessato il fermo dei lavori di cui alla premessa [e] che la natura, la quantità e consistenza del terreno da asportare (Roccia dura) si sono protratti nel tempo per oltre anni uno” (all. 9 al ricorso); l’Ufficio Tecnico comunale, in data 19.02.2007, ha accordato la proroga richiesta, indicando la data entro la quale avrebbero dovuto essere ultimati i lavori.
Tale atto di proroga risulta assolutamente immotivato e rinvia, del tutto genericamente, al contenuto della richiesta di proroga e alla tipologia dei lavori da eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non imputabilità al soggetto privato del ritardo nella conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che l’hanno determinata.
Difatti, è stato affermato in giurisprudenza che la proroga è disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione” (Consiglio di Stato, IV, 04.03.2014, n. 1013).
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564; 29.01.2016, n. 201; TAR Friuli-Venezia Giulia, I, 22.04.2015, n. 186).
4.2. Anche la reiterazione della richiesta di presentazione della denuncia per opere in cemento armato appare illegittima, visto che la stessa avrebbe dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001. Anzi la mancata presentazione della denuncia avrebbe dovuto condurre alla inibizione anche dei lavori avviati in seguito al rilascio degli originari permessi di costruire.
4.3. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura determina l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.01.2018 n. 122  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia per opere in cemento armato appare deve essere prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Sicché, la mancata presentazione della denuncia de qua conduce alla inibizione dei lavori (eventualmente) già avviati in seguito al rilascio del titolo edilizio abilitativo.

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4.2. Anche la reiterazione della richiesta di presentazione della denuncia per opere in cemento armato appare illegittima, visto che la stessa avrebbe dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001. Anzi la mancata presentazione della denuncia avrebbe dovuto condurre alla inibizione anche dei lavori avviati in seguito al rilascio degli originari permessi di costruire.
4.3. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura determina l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.01.2018 n. 122  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Intervento in zona vincolata - Assenza di autorizzazione - Violazioni paesaggistiche - Integrazione del reato - Natura di reato formale di pericolo e permanente - Fattispecie: strada in terra battuta e muretto di cemento di confine - Art. 181, c. 1, d.lvo n. 42/2004.
La contravvenzione paesaggistica è un reato formale e di pericolo, è integrata indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio e sanziona la violazione del divieto di intervento in determinate zone vincolate senza la preventiva autorizzazione amministrativa, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Cass. Sez. 3, n. 37472 del 06/05/2014, Coniglio; Sez. 3, n. 14746 del 28/03/2012, Mattera; Sez. 3, n 40265 del 26/05/2015, Amitrano).
Fattispecie: realizzazione, in assenza di autorizzazione ambientale ed in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una strada in terra battuta, di uno scavo e un muretto di cemento di confine con una recinzione con rete saldata al suolo con getto di cemento lungo il confine.
Violazioni urbanistiche e paesaggistiche - Incidenza sul carico urbanistico - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Diniego di concessione della speciale causa di non punibilità - Art. 131-bis cod. pen. - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, deve aversi riguardo alla consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- alla destinazione dell'immobile, all'incidenza sul carico urbanistico (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso).
Fattispecie, in relazione al diniego di concessione della speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. ancorata, alla consistenza dell'intervento abusivo, tale da escludere il fatto di particolare tenuità, avuto riguardo alla tipologia, dimensioni e caratteristiche degli interventi, nonché dell'incidenza del carico urbanistico giacché, era stato modificato il declivio della scarpata, la strada era divenuta carrozzabile e le opere avevano, in parte, interessato anche il demanio comunale modificando i confini di una strada comunale (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2018 n. 1497 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Autocarrozzeria, raccolta, recupero o gestione non autorizzata di rifiuti anche pericolosi - Nozione di veicolo fuori uso - Art. 3 D.Lgs. n. 209/2003 - Art. 256, c. 1, lett. b), d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, deve essere considerato "fuori uso" in base alla disciplina di cui all'art. 3 del D.Lgs. n. 209 del 2003, sia il veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, sia quello destinato alla demolizione, ufficialmente privo delle targhe di immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un centro di raccolta, sia quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se giacente in area privata (Sez. 3, n. 40747 del 02/04/2013, dep. 02/10/2013, De Mariani; Sez. 3, n. 22035 del 13/04/2010, dep. 10/06/2010, Brilli; Sez. 3, n. 21963 del 04/03/2005, dep. 10/06/2005, D'Agostino; Sez. 3, n. 33789 del 23/06/2005, dep. 22/09/2005, Bedini).
Fattispecie: raccolta, recupero o comunque gestione non autorizzata di rifiuti anche pericolosi, costituiti da autoveicoli fuori uso, (effettuata dal titolare dell'autocarrozzeria), direttamente appoggiati sul terreno, contenenti liquidi pericolosi quali oli esausti, liquidi refrigeranti, liquidi di batteria nonché materiale ferroso, materiali di risulta e pneumatici fuori uso, all'interno di un'area parzialmente recintata adiacente e senza che fossero state adottate misure di protezione come l'impermeabilizzazione del terreno volte ad evitare il percolamento delle sostanze nocive.
RIFIUTI - Gestione di rifiuti - Natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso - Sversamento delle sostanze pericolose - Mancato accertamento fattuale - Ininfluenza.
In tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti, quando risulti, anche soltanto per le modalità di raccolta e deposito, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi o delle altre componenti pericolose (Sez. 3, n. 11030 del 05/02/2015, dep. 16/03/2015, Andreoni).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria - Terzo estraneo al reato - Buona fede - Onere della prova.
Il terzo estraneo al reato che, qualificandosi come proprietario o come titolare di altro diritto reale sul mezzo sottoposto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria, ne invochi la restituzione in suo favore, ha l'onere di provare la propria buona fede, ovvero che l'uso illecito della res gli era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento colpevole o negligente (Sez. 3, n. 12473 del 02/12/2015, dep. 24/03/2016, Liguori) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.01.2018 n. 809 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una piscina - Necessità di titoli abilitativi - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Zona vincolata a vincolo paesaggistico - Sequestro preventivo di una piscina fuori terra - Artt. 6, 44, lett. b), DPR 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
La previsione di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U. 380/2001, che ha liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di pertinenza degli edifici, non può mai estendersi all'installazione di piscine, occorrendo per esse lavori di scavo, rivestimento e dotazione di impianti tecnologici (Sez. 3, 18.06.2003 n. 26197, Agresti), a fortiori da escludersi allorquando si verta, come nel caso di specie, dell'installazione di una piscina fuori terra.
Nella specie, inoltre, non vale a scriminare il ricorrente per la pregressa comunicazione inoltrata al Comune per l'installazione di un'area ludica, peraltro del tutto irrilevante ai fini del contestato reato paesaggistico, non costituendo i manufatti in questione, stanti le loro stesse caratteristiche strutturali tali da escluderne la precarietà ed il conseguente utilizzo temporaneo limitato alla stagione estiva, elementi di arredo delle aree ludiche sussumibili tra gli interventi cd. di edilizia libera, non richiedenti cioè alcun titolo abilitativo.
Sicché, il carattere permanente dei manufatti, attesa la dotazione di impianto elettrico ed idraulico che ne implica lo stabile ancoraggio al suolo, nonché la loro attitudine alla modifica dello stato dei luoghi in quanto ubicati in area sottoposta vincolo paesaggistico confermano la legittimità del sequestro preventivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 264 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Costruzione abusiva - Diritto all'abitazione - Stato di necessità e violazione della disciplina urbanistica - Art. 54 cod. pen. - Scriminante - Esclusione - Interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente Artt. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
L'applicabilità dell'art. 54 cod. pen. (stato di necessità), in tema di costruzione abusiva è stata costantemente esclusa sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo di restare senza abitazione, sussistendo la possibilità concreta di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello stato sociale ed in considerazione dell'ulteriore elemento, necessario per l'applicazione della scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed il pericolo che l'agente intende evitare.
Pertanto, per escludere l'applicabilità della scriminante in questione, si è posto l'accento sulla mancanza dell'ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo, osservando che l'attività edificatoria non è vietata in modo assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a tutela di beni di rilevanza collettiva, quali il territorio, l'ambiente ed il paesaggio, che sono salvaguardati anche dall'articolo 9 della Costituzione.
Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 259 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Immobile abusivo - Ordine di demolizione impartito dal giudice - Alienazione a terzi - Effetti - Esecuzione dell'ordine di demolizione - Giurisprudenza - Art. 31, c. 9, d.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione. Quindi, l'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Pertanto, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep. 2011, Giustino e altri; Sez. 3, n. 45301 del 07/10/2009, Roscetti).
Caratteristiche dell'ordine di demolizione - Funzione di riparazione effettiva di un danno - Esclusione - Confisca - Giurisprudenza della Corte EDU.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen., atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali.
Sicché, le caratteristiche dell'ordine di demolizione, escludono la sua riconducibilità alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge, che ribadendo il principio in questione ha ritenuto infondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 249 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - APPALTI - Contratto di appalto - Smaltimento dei rifiuti - Obblighi dell'appaltatore - Qualità di produttore del rifiuto - Obblighi connessi - Svolgimento dei lavori - Ingerenza o controllo diretto del committente - Eccezione - Fattispecie: Raccolta e trasporto di materiali di risulta di opere di demolizione edile in assenza di autorizzazione - Art. 256 del d.lgs. n. 152/2006.
Nell'ipotesi di esecuzione di lavori attraverso un contratto di appalto, è l'appaltatore che -per la natura del rapporto contrattuale da lui stipulato ed attraverso il quale egli è vincolato al compimento di un'opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio dell'intera attività- riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto; da ciò ne deriva che gravano su di lui, ed in linea di principio esclusivamente su di lui, gli obblighi connessi al corretto smaltimento dei rifiuti rivenienti dallo svolgimento della sua prestazione contrattuale, salvo il caso in cui, per ingerenza o controllo diretto del committente sullo svolgimento dei lavori, i relativi obblighi si estendano anche a carico di tale soggetto (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16/03/2015, n. 11029).
Nella specie, l'appaltatore aveva provveduto alla raccolta ed al trasporto con il proprio autocarro di rifiuti speciali non pericolosi, consistenti in materiali di risulta di opere di demolizione edile, in assenza della prescritta autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 223 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di recupero dei rifiuti - Iscrizione dell'impresa nell'apposito registro - Trasmissione della comunicazione - Procedura semplificata - Atto contraffatto - Gestione d'impresa - Responsabilità dell'imprenditore - Obbligo di vigilanza - Artt. 214, 216 e 256 d.l.vo n.152/2006.
Chi consapevolmente assuma, ancorché in maniera esclusivamente apparente, la gestione di un'impresa è tenuto, ove non voglia incorrere nelle sanzioni penali derivanti dalle illecite condotte poste in essere nello svolgimento della attività imprenditoriale, a vigilare sul corretto adempimento, da parte di chi de facto operi come dominus, degli obblighi imposti dalla normativa vigente sugli amministratori delle imprese.
Pertanto, ai sensi dell'art. 216, comma 1, del dlgs n. 152 del 2006, l'attività di recupero dei rifiuti non pericolosi, rispettate le norme tecniche e le prescrizioni di cui ai commi 1, 2 e 3, dell'art. 214 del dlgs n. 152 del 2006, può essere iniziata, a seguito di una procedura semplificata al fine di conseguire un titolo a ciò legittimante, anche solo sulla base di una comunicazione trasmessa alla Amministrazione provinciale competente e successivamente all'avvenuto decorso del termine di 90 giorni dall'inoltro della predetta comunicazione, termine questo entro il quale la Amministrazione pubblica di cui sopra, operata la iscrizione della impresa impegnata nella attività di recupero dei rifiuti in un apposito registro, deve verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti per lo svolgimento della predetta attività.
Nella specie, l'imprenditore aveva affidato l'incarico di trasmissione della comunicazione da parte del consulente in relazione alle tematiche di carattere ambientale della impresa in questione, e fatto affidamento su una nota della Provincia di Milano da cui emergeva l'avvenuto rinnovo della prescritta comunicazione ai fini del legittimo svolgimento della attività di recupero in discorso, nota poi rivelatasi essere un falso dolosamente predisposto (dall'incaricato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 222 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla non configurabilità quale "edificio unifamiliare" della ristrutturazione di un fabbricato urbano (ex fabbricato colonico), con cambio di destinazione d’uso del piano terra originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.).
L’intervento di ristrutturazione nel caso di specie, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
La lett. d) dell'art. 9 l. n. 10/1977 non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura.

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Il ricorrente impugna la concessione edilizia n. 11/1992 dallo stesso ottenuta per la ristrutturazione di un fabbricato urbano (ex fabbricato colonico), con cambio di destinazione d’uso del piano terra, nella parte in cui contiene la determinazione del contributo concessorio per oneri di urbanizzazione (£ 2.313.166) e costo di costruzione (£ 6.883.912), ritenendolo non dovuto e di cui chiede la restituzione essendo stato medio tempore versato all’amministrazione comunale per il rilascio del titolo.
Con un’unica ed articolata censura viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n. 10/1977 poiché l’intervento edilizio deve essere ricondotto alla relativa lett. d), trattandosi di edificio unifamiliare. In particolare viene dedotto che risulta irrilevante l’avvenuto cambio di destinazione d’uso, in quanto l’unico limite all’applicazione del beneficio in oggetto è che la ristrutturazione non comporti aumenti di volumetria oltre il limite del 20% di quella esistente.
La censura è infondata
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività normalmente computabili attraverso propri indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista, ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n. 1480; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto, Sez. II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.
Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR Marche, sentenza 04.01.2018 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Architetti e ingegneri dipendenti che svolgono anche attività libero professionale devono versare contributi a Inarcassa (Cassa di Previdenza privata di Architetti e Ingegneri) e alla gestione separata dell'INPS?
A dirimere ogni dubbio ci ha pensato la Suprema Corte di Cassazione -Sez. lavoro- che, con sentenza 18.12.2017 n. 30344, è intervenuta sull'argomento rigettando il ricordo presentato da un ingegnere avverso l'avviso di addebito con cui l'INPS gli aveva richiesto il pagamento di contributi omessi nell'anno 2007 in favore della gestione separata.
In particolare, il caso riguardava un ingegnere iscritto all'Albo degli Ingegneri e degli Architetti e che, oltre ad essere lavoratore dipendente iscritto al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, aveva svolto nel periodo in questione anche attività libero-professionale, per la quale aveva versato a INARCASSA il contributo integrativo.
La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, affermava che il pagamento a INARCASSA del contributo integrativo non valesse ad escludere il professionista dall'obbligo di iscrizione alla gestione separata, trattandosi di contributo dovuto per finalità solidaristiche, che non metteva capo alla costituzione di alcuna posizione previdenziale.
Da qui il ricorso in Cassazione del professionista ingegnere.
Appare utile ricordare alcune regole previste per Architetti e Ingegneri iscritti all'albo che svolgono attività libero professionale e sono quindi iscritti alla contribuzione con Inarcassa. I contributi previdenziali sono connessi all’esercizio della libera professione e sono suddivisi in:
   • contributo soggettivo, obbligatorio per gli iscritti ad Inarcassa ed è calcolato in misura percentuale (14,5%) sul reddito professionale netto dichiarato ai fini I.R.P.E.F., per l’intero anno solare di riferimento, indipendentemente dal periodo di iscrizione intervenuto nell’anno. È previsto un contributo minimo, da corrispondere indipendentemente dal reddito professionale dichiarato, il cui ammontare varia annualmente in base all’indice annuale ISTAT. Per l’anno 2017 è stato pari a € 2.280,00;
   • contributivo facoltativo, è un contributo volontario calcolato in base ad una aliquota modulare applicata sul reddito professionale netto;
   • contributo integrativo, obbligatorio per i professionisti iscritti all’albo professionale e titolari di partita IVA (individuale, associativa e societaria) e per le società di Ingegneria ed è calcolato in misura percentuale (4%) sul volume di affari professionale dichiarato ai fini IVA;
   • contributo di maternità, obbligatorio per tutti gli iscritti Inarcassa (per il 2017 è stato pari a 47 euro interamente deducibili ai fini fiscali).
Ciò premesso, gli ermellini hanno confermato che architetti e ingegneri dipendenti, quindi iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, non possono iscriversi ad Inarcassa con la conseguenza che, in caso di attività libero professionali devono versare ad Inarcassa il contributo integrativo e iscriversi presso la gestione separata INPS. Come indicato dai giudici della Cassazione, l’art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995 ha previsto che "sono tenuti all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l’INPS, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’articolo 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni".
L’iscrizione alla gestione separata è obbligatoria per i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, l’esercizio della quale non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali ovvero, se subordinato all’iscrizione ad un albo, non sia soggetto ad un versamento contributivo agli enti previdenziali di riferimento che sia suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale.
Considerato che l’iscrizione a INARCASSA è preclusa agli ingegneri e agli architetti che siano iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata, tali soggetti non sono tenuti al versamento del contributo soggettivo, bensì unicamente al versamento del contributo integrativo, dovuto da tutti gli iscritti agli albi di ingegnere e architetto, indipendentemente dall’iscrizione a INARCASSA, nella forma di una maggiorazione percentuale che dev’essere applicata dal professionista su tutti i compensi rientranti nel volume di affari e versata alla Cassa indipendentemente dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore, salva ripetizione nei confronti di quest’ultimo.
Il versamento di tale contributo, in difetto di iscrizione a INARCASSA, non attiva alcuna posizione previdenziale a beneficio del professionista che è tenuto a corrisponderlo: la cassa di previdenza eroga le prestazioni previdenziali esclusivamente agli iscritti e chi è iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria non può esserlo. Dunque, è inevitabile concludere che il suo versamento non può esonerare il professionista dall’iscrizione alla gestione separata INPS: la regola generale conseguente all’istituzione di quest’ultima è che all’espletamento di una duplice attività lavorativa, quando per entrambe è prevista una tutela assicurativa, deve corrispondere una duplicità di iscrizione alle diverse gestioni.
Né ciò comporta alcuna duplicazione di contribuzione a carico del professionista, giacché il contributo integrativo, la cui istituzione si giustifica esclusivamente in relazione alla necessità di INARCASSA di disporre di un’ulteriore fonte di entrate con cui sopperire alle prestazioni cui è tenuta, è ripetibile nei confronti del beneficiario della prestazione professionale e dunque è in realtà posto a carico di terzi estranei alla categoria professionale cui appartiene il professionista e di cui INARCASSA è ente esponenziale (commento tratto da www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha evidenziato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   e) l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile.
L’art. 338, quinto comma, del T.U. delle leggi sanitarie è, dunque, da intendersi come norma eccezionale e di stretta interpretazione, che consente di costruire in zona di rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere base legale di un’autorizzazione a costruire de futuro da rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre distinte opere.
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1. Il signor Fr.La. ha chiesto al comune di Santa Maria Capua Vetere la delocalizzazione di un impianto di distribuzione carburanti di sua proprietà fuori dal centro cittadino su un suolo privato adiacente l’asse viario di collegamento del casello autostradale con la SS 7 Appia.
2. Il Comune, con atto n. 6869 del 22.02.2010, ha respinto la sua istanza volta a ottenere il permesso di costruire il nuovo impianto, rilevando l’esistenza di un vincolo cimiteriale sull’area interessata.
3. Il signor La. ha proposto ricorso contro il provvedimento di diniego al Tar per la Campania, sede di Napoli, che, con la sentenza indicata in epigrafe, lo ha respinto unitamente alla richiesta di risarcimento dei danni.
...
8. L’appello è manifestamente infondato.
9. L’appellante ha ottenuto dal Sindaco di Santa Maria Capua Vetere, con provvedimento prot. n. 16455 del 06.05.2005, la possibilità di delocalizzare l’impianto di distribuzione carburanti di sua proprietà fuori dal centro cittadino.
Nel 2007 ha quindi chiesto l’installazione del nuovo impianto su un terreno in suo possesso posto a margine dell’asse viario di collegamento tra il casello autostradale e la SS 7 Appia (Circumvallazione Nord-Est), in un’area ricadente all’interno di un vincolo cimiteriale.
Il Comune, con nota n. 6869 del 22.02.2010, ha tuttavia respinto l’istanza tesa ad ottenere il necessario permesso di costruire, rilevando, sulla base di un parere della Commissione edilizia, che l'intervento avrebbe comportato la costruzione di edifici in area rientrante nella fascia di rispetto cimiteriale di 200 metri, individuata dall’art. 40 delle N.T.A. del P.R.G. di Santa Maria Capua Vetere, e quindi in violazione dell'art. 57 del d.P.R. n. 285 del 1990 (Regolamento di Polizia mortuaria).
10. Nei motivi di appello proposti contro la sentenza del Tar per la Campania che ha respinto il suo ricorso il signor La. evidenzia, innanzitutto, che il Comune, avendo approvato la costruzione dell’asse vario presso il quale avrebbe voluto realizzare il nuovo impianto, non ha tenuto conto che la deroga implicita al vincolo cimiteriale per la stessa opera pubblica si sarebbe dovuta estendere anche al richiesto distributore in quanto opera pertinenziale di pubblica utilità connessa alla stessa strada.
In sostanza, il Comune aveva già derogato al limite di rispetto di 200 metri dal confine del cimitero, sicché anche l’impianto di carburante, posto comunque al di fuori dalla fascia incomprimibile di 50 metri dal cimitero, avrebbe potuto e dovuto essere autorizzato in deroga. Peraltro, la stessa Amministrazione aveva autorizzato altri impianti all’interno della medesima fascia di rispetto cimiteriale.
11. La tesi dell’appellante non può essere condivisa per le seguenti ragioni:
   a) la previsione di una deroga è limitata alla realizzazione di opere pubbliche puntualmente individuate;
   b) nel caso di specie (pur volendo ammettere che l’impianto di carburante rientri nella categoria in questione), la deroga al vincolo cimiteriale ha riguardato esclusivamente la realizzazione di un’opera pubblica (cioè la realizzazione della strada di circumvallazione dell’asse viario di collegamento del casello autostradale di S. Maria Capua Vetere con la S.S. 7 Appia, direzione Caserta, a ridosso delle mura cimiteriali);
   c) la deroga non può dunque ritenersi operante per qualsiasi intervento, sussistendo invece solo per le opere pubbliche per la quale tale riduzione è richiesta e disposta;
   d) manca un atto di destinazione dell’ente proprietario della strada, ex artt. 24, comma 4, del codice della strada e 817 c.c., che qualifichi espressamente l’impianto di carburante come pertinenza dell’asse viario; contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa appellante, la disciplina del codice della strada e del regolamento attuativo (in parte qua, ovvero la dove afferma il collegamento strutturale e pertinenziale tra gli impianti di carburante e la strada su cui sono posizionati), presuppone tale atto di destinazione da parte dell’ente proprietario; ne discende la sostanziale correttezza di quanto rilevato dal giudice di primo grado, secondo cui: “Il fatto che gli impianti di distribuzione di carburanti siano pertinenze stradali non significa che essi stessi costituiscano opere pubbliche nel senso proprio del termine”;
   e) non si rinviene inoltre, come indicato nella sentenza impugnata, alcuna disparità di trattamento ai danni dell’appellante, tenuto conto che dagli atti depositati dal Comune nel corso del giudizio emerge che anche altre domande di apertura di impianti di distribuzione di carburante (indicate dall’appellante) sono state respinte.
12. Quanto poi all’evocata violazione dell’art. 388 del R.D. n. 1265/1934 (T.U. delle legge sanitarie), va rilevato quanto disposto dal suo primo comma: “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Aggiunge il quinto comma, nel testo da ultimo sostituito dall’art. 28, co. 1, lett. b), della legge n. 166/2002: “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (da ultimo Cass. civ., sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., sez. I, 17.10.2011, n. 2011; Id., sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   e) l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
L’art. 338, quinto comma, del T.U. delle leggi sanitarie, richiamato dall’appellante, è dunque da intendersi come norma eccezionale e di stretta interpretazione, che consente di costruire in zona di rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere base legale di un’autorizzazione a costruire de futuro da rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre distinte opere (cfr. Cons. Stato. Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656).
13. Tenuto conto della infondatezza della pretesa dell’appellante, il Tar ha correttamente rigettato anche la domanda risarcitoria, inclusa quella relativa al ritardo con il quale l’Amministrazione comunale ha respinto la sua istanza.
Ha, infatti, rilevato, che lo stesso appellante, pur avendo notificato due diffide a provvedere, non ha attivato l’azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a. e che comunque il Comune si era espresso, in termini negativi sostanzialmente confermati con il provvedimento finale, con la comunicazione dei motivi ostativi di cui alla nota prot. 40336 del 28.10.2008 (cioè a poca distanza di tempo dall’integrazione documentale della domanda intervenuta in data 12.07.2007).
Nessuna lesione dell’affidamento, pertanto, avrebbe potuto essere rintracciata, come invece sostenuto da parte appellante, nella successione degli atti che hanno portato al rigetto della domanda, essendo la stessa comunicazione del 28.10.2007 (al di là della sua indole di preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990), esplicitamente indicativa delle intenzioni dell’Amministrazione.
14. Ciò premesso, non può ritenersi condivisibile neppure quanto prospettato dall’appellante in ordine alla possibilità di un risarcimento da lesione dell’affidamento o comunque dalla perdita di chance anche in conseguenza di un provvedimento non illegittimo.
A prescindere dalla (indimostrata allo stato) esistenza, nel caso di specie, di un “provvedimento favorevole” -in ordine al quale l’eventuale domanda di risarcimento per lesione dell’affidamento sarebbe comunque di competenza del giudice ordinario (cfr. Cass. civ., SU, ordinanza 02.08.2017, n. 19170 e Cons. Stato, Sez. IV, 25.01.2017, n. 293)- l’accertamento della legittimità del provvedimento di rigetto adottato dall’Amministrazione e l’assenza di una prova rigorosa della spettanza del bene della vita rende non configurabile una qualunque forma di risarcimento del danno (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2017, n. 1835).
Tale prova sarebbe stata comunque necessaria anche in caso di acclarata illegittimità del diniego di costruzione dell’impianto di distribuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.04.2016, n. 1436) o di ritardo procedimentale (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25.03.2016, n. 1239).
15. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto in quanto manifestamente infondato e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata.
16. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10.03.2014, n. 55 e della non sinteticità dell’atto di appello.
17. Il Collegio rileva, inoltre, che
la pronuncia di reiezione dell’appello si basa, come sopra illustrato, su ragioni manifeste che integrano i presupposti applicativi dell’art. 26, co. 1, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. V, 21.11.2014, n. 5757; sez. V, 11.06.2013, n. 3210; sez. V, 31.05.2011, n. 3252; sez. V, 26.03.2012, n. 1733, sez. V, 09.07.2015, n. 3462, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, per altro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo sez. VI, n. 11939 del 2017 e n. 22150 del 2016)] (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2017 n. 5873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIBenefici ko per uso edificatorio. I terreni agricoli perdono le agevolazioni tributarie. Un'ordinanza della Corte di cassazione. Ici, Imu e Tasi durante le opere effettuate.
L'utilizzo a fini edificatori di un terreno agricolo fa venir meno il diritto a fruire dei benefici fiscali. Infatti, durante il periodo in cui un terreno agricolo viene distolto dall'esercizio delle attività agricole, perché su di esso sono in corso opere di costruzione, demolizione, ricostruzione o interventi di recupero edilizio, deve essere assoggettato al pagamento di Ici, Imu e Tasi anche se l'area non è qualificata edificabile dagli strumenti urbanistici. Il tributo è dovuto fino alla data di ultimazione dei lavori, poiché vengono meno le agevolazioni legate alla natura agricola del terreno.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 06.12.2017 n. 29192.
Per i giudici di legittimità, «in tema di Ici, nel periodo in cui il terreno agricolo sia distolto dall'esercizio delle attività previste dall'art. 2135 c.c., poiché su di esso sono in corso opere di costruzione, demolizione, ricostruzione o esecuzione di lavori di recupero edilizio, la base imponibile è costituita, giusta l'art. 5, comma 6, del dlgs n. 504 del 1992, dal valore dell'area utilizzata a tale scopo, la quale, per tale motivo, è considerata fabbricabile, indipendentemente dal fatto che lo sia, o non, in base agli strumenti urbanistici, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, venendo meno la ragione agevolativa della natura agricola, connessa ai rischi di tale attività».
Bisogna ricordare che il terreno sul quale venivano esercitate le attività agricole non era soggetto all'Ici come area edificabile, anche se il bene era qualificato come tale dal piano regolatore comunale, cosiddetta finzione giuridica di non edificabilità, in base a quanto disposto dagli articoli 2 e 9 del decreto legislativo 504/1992.
Il citato articolo 2, applicabile anche all'Imu, prevede che sono considerati non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale. L'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997 prevedeva però che si considerassero coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale solo le persone fisiche iscritte negli appositi elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della legge 9/1963 e soggette al corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia. Pertanto, non poteva usufruire del beneficio il pensionato per il quale non sussiste alcun obbligo di assicurazione.
La stessa regola vale per l'Imu, considerato che l'articolo 13 del dl Monti (201/2011) pur non imponendo più come per l'Ici la contribuzione obbligatoria per i coltivatori, ma solo l'iscrizione alla previdenza agricola, non consente comunque di beneficiare delle agevolazioni in quanto è lo status di pensionato a costituire un impedimento, come chiarito dalla Cassazione con la sentenza 13745/2017
(articolo ItaliaOggi del 20.02.2018).
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MASSIMA
Considerato:
   - che con il motivo d'impugnazione il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5, D.Lgs. n. 504 del 1992, giacché il Giudice di appello non ha considerato che, in base al PRG del Comune adottato nel 1973, e successiva Variante Generale approvata con deliberazione della Giunta Regionale n. 3197 del 15/07/1986, vigente negli anni oggetto di accertamento, l'area era ricompresa in Zona E, e che la normativa comunale (art. 51 delle NTA) ammetteva una limitata possibilità di realizzare in zona agricola impianti produttivi di tipo agricolo, che inoltre in base alla Variante Urbanistica Generale adottata con deliberazione del Consiglio Comunale n. 64 del 11/10/2000, e poi al Piano Particolareggiato di Iniziativa Privata autorizzato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 46 del 19/07/2001, l'area già nell'anno 2000 era definita come "comparto di attuazione di iniziativa privata" per insediamenti produttivi, qualificazione sufficiente per ritenere il terreno per cui è causa edificabile, ed ancora, che il Comune prudenzialmente aveva preteso l'imposta soltanto a partire dal mese di giugno 2002, nel periodo cioè ricompreso tra la data (04/06/2002) di rilascio della concessione edilizia, e quella (06/08/2004) di ultimazione dei lavori, calcolandola sul valore venale del bene stimato mediante perizia, evidenzia infine l'erroneità della tesi del contribuente, fatta propria dal giudice di secondo grado, secondo cui, ai fini dell'imposta, anche dopo il rilascio della concessione edilizia, nel periodo di esecuzione dei lavori di edificazione del fabbricato, e fino all'ultimazione dello stesso, il terreno non può essere qualificato come agricolo;
   - che l'intimato contribuente, nel controricorso, per contrastare le argomentazioni dell'Ente impositore, dopo aver richiamato le risultanze della relazione di stima a firma dell'Ing. Br., sostiene invece che l'area in questione, nel PRG vigente per gli anni oggetto di accertamento, era classificata in Zona Agricola E, classificazione che non è mutata nel periodo ricompreso tra il rilascio della concessione edilizia e l'ultimazione (parziale) dei lavori di edificazione del capannone per la conservazione e lavorazione dei prodotti agricoli, giusta approvazione della convenzione per l'attuazione del piano particolareggiato ad iniziativa privata proposto dal Lu., e neppure per effetto della Variante Generale al PRG adottata con deliberazione del Consiglio Comunale n. 64 del 11/10/2000, la quale si è limitata ad individuare i comparti assoggettabili a piano particolareggiato ad iniziativa privata in zona agricola;
   - che il ricorso è fondato e merita accoglimento nei termini di seguito meglio precisati;
   - che, secondo quanto affermato da questa Corte, "
In tema di ICI, nel periodo in cui il terreno agricolo sia distolto dall'esercizio delle attività previste dall'art. 2135 c.c., poiché su di esso sono in corso opere di costruzione, demolizione, ricostruzione o esecuzione di lavori di recupero edilizio, la base imponibile è costituita, giusta l'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992, dal valore dell'area utilizzata a tale scopo, la quale, per tale motivo, è considerata fabbricabile, indipendentemente dal fatto che lo sia, o non, in base agli strumenti urbanistici, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, venendo meno la ragione agevolativa della natura agricola, connessa ai rischi di tale attività" (Cass. n. 27096/2016, n. 10082/2014);
   - che, detto in altri termini,
è durante il periodo di effettiva utilizzazione edificatoria (per costruzione, per demolizione e ricostruzione, per esecuzione di lavori di recupero edilizio), che il suolo interessato deve essere considerato area fabbricabile, e ciò indipendentemente dal fatto che sia tale o meno in base ai vigenti strumenti urbanistici, per cui nel caso di terreno agricolo, che per l'art. 2, D.Lgs. n. 504 del 1992, è quello "adibito all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 codice civile", trova applicazione quanto previsto dall' art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 504 del 1992, di tal che l'area "è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito dall'art. 2, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione, ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato", tutto ciò, per utilizzare l'espressione contenuta nella Risoluzione del Ministero delle Finanze del 17.10.1997, n. 209/E, in forza di una "finzione" giuridica che non può che operare limitatamente al periodo considerato dalla disposizione, e non già dal momento del rilascio dei titoli edilizi abilitativi, mentre una volta che l'area edificabile sia stata comunque utilizzata, il valore della base imponibile ai fini dell'imposta si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata;
   - che, in conclusione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per nuovo esame, alla CTR competente, in altra composizione, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità;

TRIBUTI: Fascicoli amministrativi aperti. Documenti accessibili ai contribuenti sotto accertamento. La Corte di giustizia Ue scende in campo a tutela del diritto di accesso e di difesa.
La Corte di giustizia europea scende in campo a tutela del diritto di accesso agli atti amministrativi da parte del contribuente sottoposto ad accertamento tributario.

Secondo la Corte, infatti (Cgue, sez. III, sentenza 09.11.2017, causa C-298/16), il principio generale di diritto dell'Unione del rispetto dei diritti della difesa deve essere interpretato nel senso che, nell'ambito di procedimenti amministrativi relativi alla verifica e alla determinazione della base imponibile dell'Iva, un soggetto privato deve avere la possibilità di ricevere, a sua richiesta, le informazioni e i documenti contenuti nel fascicolo amministrativo e presi in considerazione dall'autorità pubblica per l'adozione della sua decisione, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione dell'accesso a dette informazioni e a detti documenti, sempre che tali obiettivi non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti della difesa del soggetto.
Si tratta di una pronuncia di estrema importanza destinata a incidere, in più di un profilo, nel diritto interno ove l'accesso agli atti amministrativi, seppur riconosciuto dall'articolo 22 della legge n. 241/1990 (c.d. trasparenza amministrativa) trova in concreto più di un ostacolo alla sua concreta applicazione.
Ai sensi della disposizione da ultimo ricordata infatti: «al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse diretto, concreto e attuale per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi».
Al di là dell'enunciazione di principio l'attuazione pratica della norma in ambito tributario è spesso condizionata da esigenze istruttorie e d'indagine che di fatto impediscono un accesso tempestivo e puntuale agli atti amministrativi sui quali i funzionari fiscali basano le loro ricostruzioni e le verifiche.
Per rendersi conto della situazione attuale nel quale si trova il diritto del contribuente all'accesso agli atti inerenti le verifiche e i controlli fiscali basta scorrere quanto descritto nella recente circolare n. 1/2018 della Guardia di finanza.
Secondo il comando generale delle fiamme gialle infatti, tenuto conto dell'orientamento della giurisprudenza amministrativa, il diritto di accesso agli atti delle verifiche e dei controlli fiscali deve ritenersi esperibile soltanto nel momento in cui tali controlli e verifiche sono terminati e non nel corso delle operazioni stesse.
L'accesso agli atti del procedimento deve essere avviato con la presentazione di apposita istanza da parte del contribuente da sottoporre al vaglio dell'ufficio competente che dovrà esprimersi, al termine dell'istruttoria, con un provvedimento espresso di accoglimento o di diniego.
Inoltre, si legge sempre nel nuovo manuale operativo sulle verifiche fiscali, una volta concluso il procedimento di accertamento originato a seguito di una verifica o controllo svolti dalla Guardia di finanza il destinatario dell'istanza finalizzata ad accedere agli atti dell'intervento deve individuarsi non nell'unità del Corpo che ha condotto le operazioni ispettive, bensì nell'Ufficio dell'Agenzia delle entrate che ha emanato l'avviso di accertamento o altro provvedimento conclusivo.
L'intervento della Corte di giustizia. Il fulcro centrale della sentenza della Corte di giustizia europea poggia sulle possibili limitazioni al diritto di accesso agli atti amministrativi da parte del contribuente sottoposto a verifica fiscale.
Secondo la sentenza in commento infatti le uniche limitazioni possibili a tale diritto possono trovare giustificazione in «obiettivi di interesse generale» che potrebbero essere, per esempio, quelli della tutela della riservatezza delle informazioni o del segreto professionale.
Sul contenuto di tali limitazioni al diritto di accesso la Corte di giustizia non può ovviamente entrare nel merito rimandando al giudice del rinvio l'esame della compatibilità della legislazione interna del singolo Stato.
Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante della medesima Corte di giustizia richiamata nella sentenza in commento, le restrizioni al diritto di accesso agli atti e quindi al diritto alla difesa del contribuente, può essere sottoposto a delle restrizioni a condizione però che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale e non costituiscano un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti (C-481/11; C-129/13 e C-130/13).
L'impatto della sentenza nel diritto interno. Come è noto, le leggi «ordinarie» dello Stato (e delle regioni) sono subordinate alle prescrizioni contenute in fonti sopra-legislative in particolare alla Costituzione, alla normativa della Comunità europea, alla Convenzione europea dei diritti.
Questa complessa situazione è fonte di numerose incertezze sia in quanto le tre fonti sovente si integrano e sovrappongono (specie da quando la Ce si è data una «carta dei diritti»), sia in quanto il compito di assicurare il rispetto delle norme sovra-legislative è affidato a svariati strumenti giudiziari e in particolare a quattro «Corti supreme»: la Corte di cassazione, la Corte costituzionale, la Corte Edu e la Corte di giustizia della Ce.
In relazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, è consentito alla parte (e non al giudice) che non sia soddisfatta del risultato raggiunto attraverso il ricorso ai giudici nazionali e dopo aver esperito tutti i gradi di giudizio, di rivolgersi alla Corte Edu. Mentre ove sorga (come nella vicenda di cui ci occupiamo) un problema circa l'applicazione delle norme della Comunità europea il giudice nazionale (qui della Romania) interpella direttamente la Corte di giustizia della comunità.
Quindi può accadere che questioni sostanzialmente identiche siano sottoposte alla Corte di cassazione, alla Corte costituzionale, alla Corte Edu, alla Corte europea di giustizia, alla Corte costituzionale. E sono palesi tensioni fra le varie Corti, ciascuna gelosa della propria sfera di competenza, e desiderosa di ampliarla.
Queste tensioni non hanno però finora avuto riflessi negativi sui diritti dei contribuenti, che prenderanno atto con soddisfazione che grazie alle puntuali indicazioni contenute nella sentenza della Corte di giustizia europea, se si vedranno respingere le istanze di acceso agli atti amministrativi riguardanti una verifica fiscale, avranno un'arma in più per impugnare tale diniego. E il giudice nazionale al quale verranno rivolte le eventuali lagnanze non potrà non considerare la portata della sentenza in commento soprattutto nella parte in cui la stessa specifica, limitandole, le condizioni e le ragioni per le quali il diritto di accesso agli atti amministrativi possa essere sacrificato
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018).

TRIBUTILogo e orari, niente imposta sul cartello.
Le affissioni o i messaggi riportati su specifici impianti recanti il logo, il nome dell'esercizio, le indicazioni stradali di ingresso e gli orari di apertura e chiusura, non sono soggetti all'imposta comunale sulla pubblicità, salvo che non superino i 5 mq; l'imposta sulla pubblicità è dovuta soltanto per espliciti messaggi pubblicitari, quali non possono ritenersi gli elementi predetti.

Lo afferma la Ctp di Como nella sentenza 08.11.2017 n. 274/5/2017, con cui è stato annullato un avviso di accertamento emesso da una concessionaria per il servizio di riscossione delle imposte relativamente all'anno 2016.
Nel caso di specie, si trattava di impianti situati nei pressi di un centro commerciale, che riproducevano loghi dei negozi, informazioni per l'ingresso, orari di esercizio e altre informazioni similari. Nel ricorso introduttivo, la società precisava di aver volutamente escluso dette affissioni dal computo di quanto dichiarato ai fini dell'imposta comunale, poiché ritenute privi di qualsivoglia messaggio di contenuto pubblicitario.
La Ctp ha accolto il ricorso, annullando l'avviso di accertamento e svolgendo anche una precisa disamina della fattispecie, pur considerando alcuni orientamenti della Corte di cassazione apparentemente di senso contrario alla decisione presa. Gli impianti in questione, spiega il collegio, non hanno carattere e/o funzione pubblicitaria, contenendo dei messaggi che sono delle mere informazioni che non incentivano l'acquisto del prodotto. L'imposta, in altri termini, scatta soltanto se l'affissione ha funzione pubblicitaria.
Questa tipologia di affissioni potrebbe, tuttavia, integrare il presupposto, qualora la dimensione del messaggio eccedesse la soglia dei 5 mq prevista dalla normativa sull'imposta pubblicitaria. In tal caso, infatti, la grandezza della riproduzione del logo potrebbe risultare preordinata alla diffusione dell'immagine dell'esercizio (con scopi «promozionali» dello stesso, quindi). In tale contesto, spiega la Ctp, vanno lette le pronunce della Corte di cassazione in cui si ritenevano soggetti all'imposta sulla pubblicità i cartelli recanti gli orari di apertura dell'esercizio, con relativa denominazione.
Il collegio provinciale, peraltro, chiarisce che la valutazione debba essere condotta caso per caso, valutando le situazioni fattuali specifiche e non potendo dettare un principio univoco e valido per ogni fattispecie.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'articolo 5 del decreto legislativo numero 507 del 1993 sottopone all'imposta comunale sulla pubblicità la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme visive e acustiche se rilevanti e cioè se diffusi nell'esercizio di un'attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni e servizi ovvero di migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato.
Nella fattispecie all'esame del collegio, i messaggi indicati sugli impianti, pur riportando in alcuni (in margine o in calce) il logo della società o il nome del centro commerciale, in verità, hanno una funzione diversa da quella pubblicitaria e cioè di dare informazioni sulle indicazioni stradali di ingresso al centro commerciale, di entrata dipendenti o informazioni circa giorni e orari di apertura dell'esercizio, locandine di servizi ( ) e comunque in tali messaggi non sono contenuti riferimenti a merci, marche o sconti relativi a prodotti offerti all'interno del centro commerciale. Pertanto tali messaggi non sono tendenti a pubblicizzare nell'attività di un prodotto in particolare.
Tali considerazioni non sono in contrasto con la decisione della Suprema corte di cassazione allegata da parte resistente. In particolare, relativamente ai cartelli recanti informazioni indicative dei giorni orari di apertura del centro commerciale, il principio di diritto sancito nella decisione del giudice di legittimità deve essere verificato con riguardo alla fattispecie concreta oggetto di controversia al fine di verificare se i segnali e le indicazioni per la loro struttura ubicazione dimensione possano effettivamente ritenersi strumentali al miglior esercizio dell'attività economica interessati.
E nella specie, tenuto conto dell'ubicazione dei cartelli all'interno del centro, delle loro dimensioni inferiori a 5 mq non si ritiene rilevante sul piano pubblicitario la semplice comunicazione degli orari e dei giorni di apertura dell'esercizio commerciale che non migliora fatto la domanda.
Non rivestendo i messaggi indicati alcuna valenza pubblicitaria in quanto diretti a persone già determinate a recarsi presso il centro commerciale Bennet e non avendo la funzione di orientare le scelte commerciali della clientela indirizzando il potenziale acquirente all'acquisto di alcuni beni piuttosto che di altri, deve ritenersi insussistente la rilevanza dell'impiantistica ai fini dell'imposizione. Ne consegue che i cartelli oggetto degli accertamenti impugnati vanno esclusi dall'applicazione dell'imposta comunale di pubblicità ( )
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.02.2018).

COMPETENZE PROGETTUALI: Risulta infondata la tesi secondo cui le costruzioni in zona sismica sono connotate sempre e comunque dalla necessità di “risolvere problemi di rilevante complessità” tali da giustificare esclusivamente la nomina di un ingegnere senior iscritto alla sezione “A” dell’albo.
Nessun dato preclusivo si rinviene espressamente nella legge all’esercizio di attività da parte degli ingegneri juniores, con riferimento ad opere da progettarsi e costruirsi in aree sismiche.
Tale deduzione, seppure degna di considerazione sotto il profilo interpretativo (posto che è ben possibile affermare che se il Legislatore avesse voluto precludere del tutto ogni attività per opere da erigersi in area sismica alle categorie degli ingegneri e degli architetti juniores avrebbe potuto e dovuto affermarlo espressamente), non è tuttavia decisiva, non potendo escludersi che, per via ermeneutica, si pervenga ad un risultato identico, riconducendo la progettazione ed esecuzione di opere in aree sismiche, sempre e comunque al di fuori del perimetro concettuale dell’espressione “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate”.
Tuttavia il Consiglio di Stato, ma anche la Suprema Corte di Cassazione, ha più volte chiarito la particolarità e specificità dell’attività di progettazione direzione di lavori, etc., con riferimento ad opere da erigersi in zona sismica, pervenendo ad una serie di affermazioni, tra loro legate da un comune filo conduttore, volto a valorizzare la specificità di tale attività.
Pertanto si è condivisibilmente affermato che:
   - “il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione «non modesta» essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri. - nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un complesso residenziale”;
   - “la realizzazione di una struttura in cemento armato dalle notevoli dimensioni (tre piani con fondamenta del tutto nuove), per di più localizzata in una zona sismica, non può farsi rientrare nella nozione di "modeste costruzioni civili", per le quali sono abilitati alla progettazione i geometri a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274”;
   - “l'acquisizione della relazione geologica non può essere soggetta a valutazioni discrezionali da parte della p.a., essendo essa obbligatoriamente prevista in ciascuna delle fasi della progettazione in zona sismica”.
Escluso quindi che una costruzione in zona sismica possa considerarsi “modesta”, il Collegio non ritiene, in adesione a quanto sostenuto dal giudice di appello nella menzionata decisione n. 686/2012, di poter stabilire una equivalenza tra la qualificazione di “non modesta” affermata dalla giurisprudenza e quella di “semplice” individuata dalla legge, posto che si finirebbe con l’introdurre un divieto al di fuori non solo di un quadro legislativo e regolamentare, ma anche giurisprudenziale.
Una simile conclusione costituirebbe, del resto, conseguenza non voluta dalla legge, tanto più ove si consideri che, a seguito del Decreto del Ministero delle Infrastrutture 14.01.2008, n. 29581 (recante “Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni”), di fatto non esistono più aree del territorio italiano non classificate quali “zone sismiche”, ma soltanto zone a basso rischio sismico.
In conclusione, ritiene il Collegio che, pur non sottovalutando la specificità della progettazione in area sismica, la ricorrenza del criterio legittimante “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate” non possa essere aprioristicamente escluso sempre e comunque, allorché si verta nel campo della progettazione e direzione dei lavori in dette aree, e necessiti di una valutazione caso per caso, che tenga conto in concreto dell’opera prevista, delle metodologie di calcolo utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida e “preclusiva”, allorché l’area sia classificata con un maggiore rischio sismico.
Tale valutazione deve specificamente riferirsi, di volta in volta, al singolo progetto presentato, con motivazione che, ancorché sintetica, faccia riferimento al caso concreto (sia in ipotesi di favorevole delibazione, ovviamente, che in ipotesi di riscontrata preclusione).
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Con il ricorso in esame l’ing. Gi.Ca. espone di essere stato nominato direttore dei lavori per l’abbattimento e la ricostruzione di un fabbricato sito in Cancello Arnone e che con nota prot. n. 675862 dell’08/09/2011, l’8° settore del Genio civile provinciale di Caserta aveva comunicato la necessità di sostituire il ricorrente quale direttore dei lavori perché “non possiede le competenze necessarie di legge per svolgere tale incarico, in base al combinato disposto dell’art. 46, punto A del d.P.R. 328/2011 e del parere del Consiglio Superiore dei lavori pubblici espresso nell’adunanza del 24.09.2011”.
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Il ricorso è fondato e va accolto.
La disamina delle censure come prospettate rende opportuno il richiamo del quadro normativo e giurisprudenziale che concerne la materia.
In primo luogo occorre richiamare la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha rilevato come non sia “in contrasto né con la normativa comunitaria specificamente riguardante la professione di architetto (Direttiva 85/384/Cee), né con la l. 14.01.1999, n. 4 l'istituzione negli albi professionali, ad opera del d.P.R. 05.06.2001 n. 328, di due distinte Sezioni (A e B), rispettivamente riservate ai laureati di primo e di secondo livello (cioè in possesso di laurea specialistica o di laurea c.d. breve), atteso che la riforma attuata con la cit. l. n. 4 del 1999 sul valore e la durata dei corsi universitari comportava obiettivamente l'esigenza di ridefinire i requisiti per l'accesso alle c.d. professioni protette, per il cui esercizio sia necessaria l'iscrizione ad un albo o ad un ordine professionale, collegando i nuovi titoli accademici, una volta unici per tutte le università, con l'ordinamento vigente delle professioni” (Consiglio Stato, sez. IV, 12.05.2008, n. 2178).
Le disposizioni di cui agli artt. 16 e 46 del d.P.R. 05.06.2001 n. 328, e delle quali si riporta il testo per intero, individuano le competenze degli iscritti alle Sezioni A e B, rispettivamente degli architetti e degli ingegneri.
In particolare, l’art. 16 del predetto decreto, così dispone: “Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti nella sezione A - settore "architettura", ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, restando immutate le riserve e attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, le attività già stabilite dalle disposizioni vigenti nazionali ed europee per la professione di architetto, ed in particolare quelle che implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti nella sezione A - settore "pianificazione territoriale":
   a) la pianificazione del territorio, del paesaggio, dell'ambiente e della città;
   b) lo svolgimento e il coordinamento di analisi complesse e specialistiche delle strutture urbane, territoriali, paesaggistiche e ambientali, il coordinamento e la gestione di attività di valutazione ambientale e di fattibilità dei piani e dei progetti urbani e territoriali;
   c) strategie, politiche e progetti di trasformazione urbana e territoriale.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti nella sezione A - settore "paesaggistica":
   a) la progettazione e la direzione relative a giardini e parchi;
   b) la redazione di piani paesistici;
   c) il restauro di parchi e giardini storici, contemplati dalla legge 20.06.1909, n. 364, ad esclusione delle loro componenti edilizie.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti nella sezione A - settore "conservazione dei beni architettonici ed ambientali":
   a) la diagnosi dei processi di degrado e dissesto dei beni architettonici e ambientali e la individuazione degli interventi e delle tecniche miranti alla loro conservazione.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti nella sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, restando immutate le riserve e attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa:
   a) per il settore "architettura":
      1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie, comprese le opere pubbliche;
      2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la misura, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate;
      3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica.
   b) per il settore "pianificazione":
      1) le attività basate sull'applicazione delle scienze volte al concorso e alla collaborazione alle attività di pianificazione;
      2) la costruzione e gestione di sistemi informativi per l'analisi e la gestione della città e del territorio;
      3) l'analisi, il monitoraggio e la valutazione territoriale ed ambientale;
      4) procedure di gestione e di valutazione di atti di pianificazione territoriale e relativi programmi complessi
.”.
L’art. 46, invece, disciplina le competenze della figura professionale dell’ingegnere e così prevede: “Le attività professionali che formano oggetto della professione di ingegnere sono così ripartite tra i settori di cui all'articolo 45, comma 1:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l'ambiente e il territorio;
   b) per il settore "ingegneria industriale": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di macchine, impianti industriali, di impianti per la produzione, trasformazione e la distribuzione dell'energia, di sistemi e processi industriali e tecnologici, di apparati e di strumentazioni per la diagnostica e per la terapia medico-chirurgica;
   c) per il settore "ingegneria dell'informazione": la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo e la gestione di impianti e sistemi elettronici, di automazione e di generazione, trasmissione ed elaborazione delle informazioni.
Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività, ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o innovativi.
Restando immutate le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
   a) per il settore "ingegneria civile e ambientale":
      1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche;
      2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate;
      3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque natura;
   b) per il settore "ingegneria industriale":
      1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione lavori, stima e collaudo di macchine e impianti, comprese le opere pubbliche;
      2) i rilievi diretti e strumentali di parametri tecnici afferenti macchine e impianti;
      3) le attività che implicano l'uso di metodologie standardizzate, quali la progettazione, direzione lavori e collaudo di singoli organi o di singoli componenti di macchine, di impianti e di sistemi, nonché di sistemi e processi di tipologia semplice o ripetitiva;
   c) per il settore "ingegneria dell'informazione":
      1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione lavori, stima e collaudo di impianti e di sistemi elettronici, di automazioni e di generazione, trasmissione ed elaborazione delle informazioni;
      2) i rilievi diretti e strumentali di parametri tecnici afferenti impianti e sistemi elettronici;
      3) le attività che implicano l'uso di metodologie standardizzate, quali la progettazione, direzione lavori e collaudo di singoli organi o componenti di impianti e di sistemi elettronici, di automazione e di generazione, trasmissione ed elaborazione delle informazioni, nonché di sistemi e processi di tipologia semplice o ripetitiva
.”.
E’ importante riportare anche il testo dell’art. 1 del decreto citato, il cui comma 2 dispone nei seguenti termini: “il presente regolamento modifica e integra la disciplina dell'ordinamento, dei connessi albi, ordini o collegi, nonché dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove, delle professioni di: dottore agronomo e dottore forestale, agrotecnico, architetto, assistente sociale, attuario, biologo, chimico, geologo, geometra, ingegnere, perito agrario, perito industriale, psicologo. Le norme contenute nel presente regolamento non modificano l'ambito stabilito dalla normativa vigente in ordine alle attività attribuite o riservate, in via esclusiva o meno, a ciascuna professione”.
A tal riguardo, e stante l’espresso richiamo del citato comma 2 dell’art. 1 alle disposizioni vigenti in tema di attività riservate a ciascuna delle citate professioni, si rammenta che gli artt. 51 e 52 del Regio Decreto 23.10.1925, n. 2537 così dispongono:
   - (Art. 51) “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo.” ;
   - (Art. 52) “Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere.”.
Proprio con riferimento al sopra riportato comma 2 dell’art. 1 del d.P.R. 05.06.2001 n. 328, si segnala che il Consiglio di Stato, con la condivisibili decisioni n. 686/2012 e n. 1473/2009 (la prima peraltro richiamata dal ricorrente dell’odierno procedimento) ha affermato il principio (riferito alla professione di ingegnere) per cui “l’elencazione, compiuta all’art. 46 del decreto, delle attività attribuite agli iscritti ai diversi settori delle sezioni “A” e “B” dell’albo dell’Ordine degli ingegneri, ha il solo scopo di procedere ad una siffatta ripartizione, individuando quelle maggiormente caratterizzanti la professione, restando immutato il quadro complessivo delle attività esercitabili nell’ambito della professione stessa come già normativamente definito”.
Tale affermazione costituisce utile spunto per la interpretazione della ratio complessiva del testo normativo in parola, secondo cui: “anzitutto, quanto alla prevista istituzione, negli Albi professionali, di due sezioni (A e B), riservate rispettivamente ai laureati di primo e secondo livello, premesso che la riforma attuata con la legge n. 4 del 1999 sul valore e la durata dei corsi universitari comportava indubbiamente l'esigenza di ridefinire i requisiti per l'accesso alle cosiddette professioni protette (per le quali sia necessaria l'iscrizione ad un albo o ad un ordine professionale), del tutto in sintonia con quanto rilevato dalla Sezione Consultiva per gli Atti Normativi con il parere n. 118/2001 reso nell’adunanza del 21.05.2001, va, in proposito, precisato che la finalità del regolamento è quella di collegare i nuovi titoli accademici (una volta unici per tutte le Università) con l’ordinamento delle professioni vigenti, che, precedentemente alla emanazione del contestato d.P.R., era ancora quello anteriore, precedente alla riforma universitaria e che, a tal fine, non sembra violare la norma di delega la suddivisione, in sezioni e settori, degli ordini preesistenti, attribuendo -onde evitare confusioni- denominazioni diverse ai singoli settori, in attesa di una riforma anche della materia degli ordini professionali.
Dette denominazioni dei settori, in cui vengono ad essere ripartite le nuove sezioni “A” e “B” degli Albi professionali, così come l’effettiva individuazione per ciascuna sezione delle attività maggiormente caratterizzanti la professione, non innovano (né potevano assolutamente innovare, alla stregua della “delega” ed in particolare del criterio di cui alla lettera a), che prevedeva la sola “determinazione dell'ambito consentito di attività professionale ai titolari di diploma universitario e ai possessori dei titoli istituiti in applicazione dell'articolo 17, comma 95, della legge 15.05.1997, n. 127, e successive modificazioni”) la materia delle attività riservate o consentite alla professione de qua (in via esclusiva od unitamente ad altre), attuandone invece correttamente una mera ripartizione, previa individuazione di un criterio di carattere generale, facente riferimento alle professionalità conseguite a compimento dei diversi percorsi formativi di accesso, relativi, rispettivamente, alle lauree ed alle lauree specialistiche
”.
Sulla base del richiamato tessuto normativo, il ricorrente nel secondo e terzo mezzo (che possono essere trattati congiuntamente attesa la loro stretta connessione) deduce il difetto di motivazione della nota impugnata, che recherebbe solo un laconico riferimento alla mancanza delle competenze necessarie di legge per svolgere l’incarico, in base al combinato disposto dell’art. 46, punto A, del d.P.R. 328/2011 e del parere del Consiglio Superiore dei lavori pubblici espresso nell’adunanza del 24.09.2011; motivazione che l’Amministrazione (come osservato dall’interessato nella memoria depositata l’08.11.2012) ha tentato di integrare in sede di costituzione facendo riferimento alla circostanza che i lavori in questione dovevano essere svolti in una zona a bassa sismicità come quella in cui è situato il Comune di Cancello Arnone, ritenendo che le costruzioni in zona sismica siano connotate sempre e comunque dalla necessità di “risolvere problemi di rilevante complessità” tali da giustificare esclusivamente la nomina di un ingegnere senior iscritto alla sezione “A” dell’albo.
L’interessato sostiene che dalle norme richiamate non si possa ricavare a priori alcuna preclusione allo svolgimento dell’incarico in esame e ciò in quanto le norme di legge invocate non si occupino minimamente della questione relativa alla progettazione in area sismica.
La tesi merita adesione.
Le citate disposizioni fanno esclusivo riferimento al concetto di “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate” senza che sussista alcun richiamo, in senso preclusivo, alle costruzioni insistenti in area sismica.
Ne discende all’evidenza l’esattezza delle censure richiamate, secondo cui nessun dato preclusivo si rinviene espressamente nella legge all’esercizio di attività da parte degli ingegneri juniores, con riferimento ad opere da progettarsi e costruirsi in dette aree.
Tale deduzione, seppure degna di considerazione sotto il profilo interpretativo (posto che è ben possibile affermare che se il Legislatore avesse voluto precludere del tutto ogni attività per opere da erigersi in area sismica alle categorie degli ingegneri e degli architetti juniores avrebbe potuto e dovuto affermarlo espressamente), non è tuttavia decisiva, non potendo escludersi che, per via ermeneutica, si pervenga ad un risultato identico, riconducendo la progettazione ed esecuzione di opere in aree sismiche, sempre e comunque al di fuori del perimetro concettuale dell’espressione “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate”.
Tuttavia il Consiglio di Stato, ma anche la Suprema Corte di Cassazione hanno più volte chiarito la particolarità e specificità dell’attività di progettazione direzione di lavori, etc., con riferimento ad opere da erigersi in zona sismica, pervenendo ad una serie di affermazioni, tra loro legate da un comune filo conduttore, volto a valorizzare la specificità di tale attività.
Pertanto si è condivisibilmente affermato che:
   - “il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione «non modesta» essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri. - nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un complesso residenziale” (Cassazione civile, sez. II, 08.04.2009, n. 8543);
   - “la realizzazione di una struttura in cemento armato dalle notevoli dimensioni (tre piani con fondamenta del tutto nuove), per di più localizzata in una zona sismica, non può farsi rientrare nella nozione di "modeste costruzioni civili", per le quali sono abilitati alla progettazione i geometri a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274” (Consiglio Stato, sez. V, 30.10.2003, n. 6747);
   - “l'acquisizione della relazione geologica non può essere soggetta a valutazioni discrezionali da parte della p.a., essendo essa obbligatoriamente prevista in ciascuna delle fasi della progettazione in zona sismica” (Consiglio Stato, sez. VI, 23.09.2009, n. 5666).
Escluso quindi che una costruzione in zona sismica possa considerarsi “modesta”, il Collegio non ritiene, in adesione a quanto sostenuto dal giudice di appello nella menzionata decisione n. 686/2012, di poter stabilire una equivalenza tra la qualificazione di “non modesta” affermata dalla giurisprudenza e quella di “semplice” individuata dalla legge, posto che si finirebbe con l’introdurre un divieto al di fuori non solo di un quadro legislativo e regolamentare, ma anche giurisprudenziale.
Una simile conclusione costituirebbe, del resto, conseguenza non voluta dalla legge, tanto più ove si consideri che, a seguito del Decreto del Ministero delle Infrastrutture 14.01.2008, n. 29581 (recante “Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni”), di fatto non esistono più aree del territorio italiano non classificate quali “zone sismiche”, ma soltanto zone a basso rischio sismico.
In conclusione, ritiene il Collegio che, pur non sottovalutando la specificità della progettazione in area sismica, la ricorrenza del criterio legittimante “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate” non possa essere aprioristicamente escluso sempre e comunque, allorché si verta nel campo della progettazione e direzione dei lavori in dette aree, e necessiti di una valutazione caso per caso, che tenga conto in concreto dell’opera prevista, delle metodologie di calcolo utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida e “preclusiva”, allorché l’area sia classificata con un maggiore rischio sismico.
Tale valutazione deve specificamente riferirsi, di volta in volta, al singolo progetto presentato, con motivazione che, ancorché sintetica, faccia riferimento al caso concreto (sia in ipotesi di favorevole delibazione, ovviamente, che in ipotesi di riscontrata preclusione).
Nel caso di specie tale valutazione è del tutto mancata, posto che l’Amministrazione resistente ha fatto riferimento ad una astratta assenza delle “competenze necessarie di legge per svolgere tale incarico, in base al combinato disposto dell’art. 46, punto A, del d.P.R. 328/2011 e del parere del Consiglio Superiore dei lavori pubblici espresso nell’adunanza del 24.09.2011”, astraendo dalla concreta natura del progetto presentato dal ricorrente; per cui il diniego appare viziato e deve essere annullato, spettando comunque all’Amministrazione, in sede di riedizione del potere, motivare in ordine al proprio convincimento sul progetto presentato alla stregua delle indicazioni fornite dal Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va, in conclusione, accolto (con l'assorbimento degli altri profili di censura dedotti dall'istante) per cui il provvedimento avversato deve essere annullato per difetto di motivazione con onere dell’Amministrazione di ripronunciarsi sul progetto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.01.2013 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di libertà di costruire in epoca antecedente la legge urbanistica del 1942 è stata affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona agricola.
Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe certo concordarsi con l'opinione secondo la quale la libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865).
Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse, infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
Quella remota disciplina contemplava due tipi: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus aedificandi doveva comunque tener conto.
Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio altre, con diversa normativa, furono previste, soprattutto con atti regolamentari per l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno strumento conformativo seppure indiretto rispetto all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111 (quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico 03.03.1934, n. 383.
Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco (podestà) per le edificazioni.
Accanto alle considerazioni storiche e prima di esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed edilizia
E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in modo significativo il diritto di edificare del privato, sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di intensificazione.

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59. Giova, in primo luogo, sottolineare come la nozione di libertà di costruire in epoca antecedente la legge urbanistica del 1942 sia stata affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona agricola.
60. Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe certo concordarsi con l'opinione secondo la quale la libertà di costruire, in epoca antecedente la normazione urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865).
61. Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse, infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
62. Quella remota disciplina contemplava due tipi: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge 25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità.
63. Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus aedificandi doveva comunque tener conto.
64. Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio altre, con diversa normativa, furono previste, soprattutto con atti regolamentari per l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
65. Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno strumento conformativo seppure indiretto rispetto all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111 (quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il testo unico 03.03.1934, n. 383.
66. Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885, n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge 31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi che hanno approvato i piani regolatori di grandi città (legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n. 433 per Milano).
67. Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art. 4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco (podestà) per le edificazioni.
68. Accanto alle considerazioni storiche e prima di esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed edilizia
69. E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in modo significativo il diritto di edificare del privato, sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di intensificazione (C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6339, C.d.S., V, 14.10.2005, n. 5801; Cd.S., IV, 09.08.2005, n. 4232) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 23.04.2009 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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