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AGGIORNAMENTO AL 12.03.2018 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta
discende che il privato non può esimersi dal pagamento del
contributo e che l’amministrazione può riesaminare la
pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita
l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il
permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza
interferire con le questioni che incidono su “an” e
“quantum” dell’obbligazione pecuniaria.
Più in particolare, “la giurisprudenza amministrativa, ha
già avuto modo di affrontare la questione della
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono
ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della
buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più
risalente determinazione degli oneri adottata
dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri
errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela
dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella
quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che
l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore
del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei
limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e
ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non
è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa
corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione
decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti
adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela.
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione
che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in
ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad
applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa
rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia
discrezionalità applicativa”;
c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne
legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta
da errore, con il solo limite della maturata prescrizione
del credito). La originaria determinazione, pertanto, può
essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore
(e fermo restando la necessità che detta originaria
erroneità della determinazione iniziale sussista
effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un
importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato
un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
L’amministrazione, dunque, qualora rilevi un errore nel
calcolo, può procedere alla rettifica entro il termine di
prescrizione, che nel caso in esame -come visto- non risulta
decorso”.
---------------
Nell’ipotesi in esame la rideterminazione dell’importo
dovuto è avvenuta entro i termini di prescrizione,
nell’ambito di un’attività di verifica di regolare
versamento dei tributi da parte dei contribuenti.
Sicché, il Comune ha comunicato l’avvio del procedimento
relativo “alla determinazione degli oneri concessori sulla
base dei reali costi unitari vigenti al momento del rilascio
del permesso di costruire con l’applicazione di quanto
disposto dall’art. 16, comma 9, secondo periodo del DPR
380/2001”, indicando le modalità di calcolo delle somme
dovute.
In sostanza l’ente locale ha avviato un procedimento volto
alla rettifica della misura del contributo, riportandolo a
quanto effettivamente dovuto sulla base vigenti
disposizioni.
Tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché
svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo
è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica
Amministrazione.
L’atto di determinazione del contributo, vincolato e non
suscettibile di scostamenti rispetto alle previsioni
normative, è solo una intermediazione aritmetica per la sua
quantificazione.
Ne consegue che l’atto di nuova determinazione non può dirsi
viziato da eccesso di potere sotto il profilo del difetto di
motivazione e di indicazione degli interessi pubblici
prevalenti. Il diritto del Comune all'ottenimento del
contributo nella misura dovuta, così come il diritto del
titolare del premesso di costruire al rimborso del
contributo versato in eccesso, deriva, infatti, direttamente
dai parametri oggettivi e non dall’atto di determinazione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento emesso dal
responsabile del terzo settore del Comune di Chieuti nella
persona dell’arch. M.Lo. in data 11.09.2013 prot. 4345,
comunicato il 17.09.2013, con il quale a conclusione del
procedimento amministrativo instaurato con la nota del
24.06.2013 prot. n. 3076, sono rideterminati gli importi
dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione relativamente al permesso di costruire del
01.10.2008 prot. n. 2509 rilasciato in favore della
cooperativa ricorrente, cui dunque è stato intimato il
pagamento di € 17.679,22;
...
8. - Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere
respinto.
9. – Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae
(Cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n.
243).
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta
discende che il privato non può esimersi dal pagamento del
contributo e che l’amministrazione può riesaminare la
pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita
l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il
permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza
interferire con le questioni che incidono su “an” e “quantum”
dell’obbligazione pecuniaria.
Più in particolare, “la giurisprudenza amministrativa (v.
Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V, 17.09.2010
n. 6950), ha già avuto modo di affrontare la questione della
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono
ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della
buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più
risalente determinazione degli oneri adottata
dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri
errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela
dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella
quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che
l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore
del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei
limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e
ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non
è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa
corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione
decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti
adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela.
Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione
che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in
ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad
applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa
rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia
discrezionalità applicativa”;
c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne
legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta
da errore, con il solo limite della maturata prescrizione
del credito). La originaria determinazione, pertanto, può
essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore
(e fermo restando la necessità che detta originaria
erroneità della determinazione iniziale sussista
effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un
importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato
un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
L’amministrazione, dunque, qualora rilevi un errore nel
calcolo, può procedere alla rettifica entro il termine di
prescrizione, che nel caso in esame -come visto- non risulta
decorso” (Cons. stato, sez. IV, 27.09.2017 sent. 4515).
10. - Nell’ipotesi in esame la rideterminazione dell’importo
dovuto è avvenuta entro i termini di prescrizione,
nell’ambito di un’attività di verifica di regolare
versamento dei tributi da parte dei contribuenti, come si
evince dalla Delibera dalla Giunta comunale n. 74 del
23.11.2012.
Con la nota del 24.06.2013 il Comune ha comunicato l’avvio
del procedimento relativo “alla determinazione degli
oneri concessori sulla base dei reali costi unitari vigenti
al momento del rilascio del permesso di costruire con
l’applicazione di quanto disposto dall’art. 16, comma 9,
secondo periodo del DPR 380/2001”, indicando le modalità
di calcolo delle somme dovute. In data 11.09.2013 ha
riscontrato le osservazioni della ricorrente.
In sostanza l’ente locale ha avviato un procedimento volto
alla rettifica della misura del contributo, riportandolo a
quanto effettivamente dovuto sulla base vigenti
disposizioni. Tale attività, alla luce di quanto innanzi
esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione
decennale- non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la
Pubblica Amministrazione. L’atto di determinazione del
contributo, vincolato e non suscettibile di scostamenti
rispetto alle previsioni normative, è solo una
intermediazione aritmetica per la sua quantificazione.
Ne consegue che l’atto di nuova determinazione non può dirsi
viziato da eccesso di potere sotto il profilo del difetto di
motivazione e di indicazione degli interessi pubblici
prevalenti. Il diritto del Comune all'ottenimento del
contributo nella misura dovuta, così come il diritto del
titolare del premesso di costruire al rimborso del
contributo versato in eccesso, deriva, infatti, direttamente
dai parametri oggettivi e non dall’atto di determinazione.
...
11. – Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere
respinto (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 21.02.2018 n. 254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Solo con la volturazione del titolo edilizio,
concordata con l’amministrazione, il precedente titolare del
bene può essere liberato dal pagamento degli oneri
concessori.
Il contributo di costruzione, quale
prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare
l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente
nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico, anche se ha ad
oggetto un obbligo pecuniario ripartito in due quote,
commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di
urbanizzazione (oneri di urbanizzazione) e al costo di
costruzione dell’edificio assentito.
La norma definisce presupposti legali determinati per
l’esercizio del potere di riscossione, nella fase
fisiologica, e del potere sanzionatorio, nell’ipotesi in cui
il privato non adempia all’obbligo: il mancato pagamento
infatti legittima –ed obbliga secondo il principio di
doverosità cui si conforma l’esercizio del potere quando si
realizzano i presupposti previsti dalla fattispecie-
l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie
crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R.
cit.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla
riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme
vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate
(art. 43 d.P.R. cit.).
---------------
Il permesso di costruire è stato
rilasciato in favore della ricorrente e la norma individua
in capo al “titolare” del permesso il soggetto obbligato
all’adempimento della prestazione pecuniaria.
I trasferimenti della proprietà del bene su cui incide
l’attività edilizia assentita non hanno efficacia nel
rapporto pubblicistico che sorge per effetto del rilascio
del provvedimento di assenso, salvo che non vi sia una
novazione soggettiva, come tale però concordata con
l’amministrazione.
Invero, “L'originario titolare di un permesso di costruire
può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in
cui alieni il terreno da edificare —ovvero l'edificio in
costruzione— cedendo il titolo edilizio mediante apposita
volturazione. Con tale atto, il Comune autorizza
l'acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di
costruire e nello stesso tempo accetta l'accollo degli oneri
concessori da parte dell'acquirente stesso, con liberazione
del precedente titolare”.
---------------
Il giudizio verte sulla legittimità dell’atto prot. 41783
del 22.09.2010 col quale il Comune di Vibo Valentia ha
ingiunto alla ricorrente il pagamento della somma ivi
indicata, corrispondente al mancato pagamento delle rate
relative ai contributi per oneri di urbanizzazione e per
costi di costruzione, dovuti in forza del permesso di
costruire rilasciato in favore dell’interessata e alla
maggiorazione dovuta per la penale di cui all’art. 42 DPR
380/2001.
La ricorrente deduce l’illegittimità dell’atto per:
a) il difetto di legittimazione passiva della ricorrente, poiché il
terreno su cui si sarebbero dovuti realizzare le opere
oggetto di permesso di costruire sono stati ceduti ad un
terzo, chiedendo al Comune la voltura dell’atto di assenso
(richiesta però mai riscontrata dal Comune);
b) la causa di forza maggiore che ha impedito l’assolvimento degli
obblighi pecuniari, consistente in provvedimenti di
sequestro penale delle aree.
...
Il ricorso è infondato.
Non è in contestazione l’inadempimento delle prestazioni
patrimoniali che la normativa edilizia pone in capo al
beneficiario del permesso di costruire, in ossequio al
principio di onerosità che regge la disciplina
autorizzatoria delle attività comportanti la trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio (art. 11, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001.
Come anche da ultimo precisato, il contributo di
costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta
funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si
colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto
pubblico, anche se ha ad oggetto un obbligo pecuniario
ripartito in due quote, commisurate rispettivamente
all’incidenza delle spese di urbanizzazione (oneri di
urbanizzazione) e al costo di costruzione dell’edificio
assentito.
La norma definisce presupposti legali determinati per
l’esercizio del potere di riscossione, nella fase
fisiologica, e del potere sanzionatorio, nell’ipotesi in cui
il privato non adempia all’obbligo: il mancato pagamento
infatti legittima –ed obbliga secondo il principio di
doverosità cui si conforma l’esercizio del potere quando si
realizzano i presupposti previsti dalla fattispecie-
l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie
crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R.
cit.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla
riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme
vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate
(art. 43 d.P.R. cit.).
Alla luce di tale assetto normativo nessuna delle censure
sollevate dal ricorrente è condivisibile.
Il permesso di costruire è stato rilasciato in favore della
ricorrente e la norma individua in capo al “titolare”
del permesso il soggetto obbligato all’adempimento della
prestazione pecuniaria; i trasferimenti della proprietà del
bene su cui incide l’attività edilizia assentita non hanno
efficacia nel rapporto pubblicistico che sorge per effetto
del rilascio del provvedimento di assenso, salvo che non vi
sia una novazione soggettiva, come tale però concordata con
l’amministrazione (TAR Toscana, Sez. III, 12.03.2014 n. 493,
ivi, il TAR Molise, 25.07.2012 n. 27 “L'originario
titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli
obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il
terreno da edificare —ovvero l'edificio in costruzione—
cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione.
Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare
nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso
tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte
dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente
titolare”).
Nel caso di specie è lo stesso ricorrente ad affermare che
l’istanza di “voltura” del titolo non ha avuto alcun
riscontro positivo da parte dell’amministrazione.
Quanto alla impossibilità di adempimento, essa, trattandosi
di un debito pecuniario, non è configurabile tale causa di
estinzione dell’obbligazione pecuniaria, ravvisata, secondo
la prospettazione del ricorrente, in una mera “difficoltà
finanziaria” o nella limitazione del potere di
disposizione del bene immobile cui si riferisce l’attività
edilizia.
In conclusione il ricorso va pertanto rigettato (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 29.01.2018 n. 277
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, la rinuncia al permesso di costruire
per intervenuta decadenza del titolo edilizio (ad esempio
per la scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per il
sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con le
opere non ancora realizzate), oppure per fatti, giuridici o
materiali che rendano in tutto o in parte non più
realizzabile l'intervento edilizio assentito, comporta
l'obbligo dell'Amministrazione di restituire, a domanda, le
somme precedentemente corrisposte a titolo di contributo di
costruzione, in quanto questo è strettamente connesso alla
trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ove
tale trasformazione non si verifichi, il relativo pagamento
diviene privo di causa.
---------------
Come è noto, l’ambulatorietà e quindi la titolarità del
titolo edilizio incidono solo sul lato passivo
dell’obbligazione, nel senso che nel caso di trasferimento
del bene esse gravano sull'acquirente così come sullo stesso
gravano eventuali maggiori somme dovute, perché con la
voltura del titolo l’obbligo si è trasferito in capo al
cessionario (a condizione che la parte cedente non abbia
ancora iniziato l’edificazione).
Diverso è invece il caso in esame in cui rileva una
problematica di carattere civilistico di indebito oggettivo,
che trae origine dal pagamento di una somma non dovuta e che
inerisce esclusivamente al rapporto tra soggetto che ha
effettuato il versamento e chi lo ha ricevuto (come noto
l’art. 2033 c.c. dispone che “chi ha eseguito un pagamento
non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”), e che
implica che legittimato ad esigere la restituzione sia il
soggetto che ha effettuato il pagamento privo di causa,
mentre gli eventuali rapporti interni fra obbligato
principale e terzi rimangono privi di rilievo nei confronti
di chi deve restituire l’indebito ricevuto, dato che
legittimato attivo alla restituzione è sempre e solo il
titolare del patrimonio che deve essere reintegrato con la
restituzione: nell'azione di ripetizione d'indebito
oggettivo la legittimazione attiva e passiva spettano
infatti solo al solvens e all'accipiens.
Deve pertanto convenirsi con quanto ha affermato la
giurisprudenza che si è occupata di una vicenda del tutto
similare (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2014, n. 493: in
quel caso si trattava della restituzione di somme versate in
eccedenza, nel caso in esame si tratta della restituzione
dell’intera somma; in entrambi i casi si tratta di una
fattispecie di indebito oggettivo): “la titolarità del
permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della
obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla,
invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione
dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non
dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha
effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la
restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a
nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa”.
---------------
Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Come è noto la rinuncia al permesso di costruire per
intervenuta decadenza del titolo edilizio (ad esempio per la
scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per il
sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con le
opere non ancora realizzate), oppure per fatti, giuridici o
materiali che rendano in tutto o in parte non più
realizzabile l'intervento edilizio assentito, comporta
l'obbligo dell'Amministrazione di restituire, a domanda, le
somme precedentemente corrisposte a titolo di contributo di
costruzione, in quanto questo è strettamente connesso alla
trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ove
tale trasformazione non si verifichi, il relativo pagamento
diviene privo di causa (ex pluribus cfr. Tar Lazio,
Roma, Sez. II-bis, 12.03.2008, n. 2294).
La parte ricorrente svolge molteplici richiami
giurisprudenziali espressione di consolidati e condivisibili
principi secondo i quali gli oneri di urbanizzazione e il
costo di costruzione hanno natura di obbligazioni c.d. reali
o propter rem caratterizzate dalla stretta inerenza
alla res e destinate a circolare unitamente ad essa
per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue,
sicché nel caso di trasferimento del bene esse gravano
sull'acquirente.
Tali principi sono tuttavia inconferenti nel caso in esame,
perché, come è noto, l’ambulatorietà e quindi la titolarità
del titolo edilizio incidono solo sul lato passivo
dell’obbligazione, nel senso che nel caso di trasferimento
del bene esse gravano sull'acquirente così come sullo stesso
gravano eventuali maggiori somme dovute, perché con la
voltura del titolo l’obbligo si è trasferito in capo al
cessionario (a condizione che la parte cedente non abbia
ancora iniziato l’edificazione: ex pluribus cfr. Tar
Abruzzo, Pescara, 03.06.2014, n. 249; Tar Umbria,
17.09.2012, n. 363; Tar Toscana, Sez. III, 12.06.2012, n.
1126).
Diverso è invece il caso in esame in cui rileva una
problematica di carattere civilistico di indebito oggettivo,
che trae origine dal pagamento di una somma non dovuta e che
inerisce esclusivamente al rapporto tra soggetto che ha
effettuato il versamento e chi lo ha ricevuto (come noto
l’art. 2033 c.c. dispone che “chi ha eseguito un
pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha
pagato”), e che implica che legittimato ad esigere la
restituzione sia il soggetto che ha effettuato il pagamento
privo di causa, mentre gli eventuali rapporti interni fra
obbligato principale e terzi rimangono privi di rilievo nei
confronti di chi deve restituire l’indebito ricevuto, dato
che legittimato attivo alla restituzione è sempre e solo il
titolare del patrimonio che deve essere reintegrato con la
restituzione: nell'azione di ripetizione d'indebito
oggettivo la legittimazione attiva e passiva spettano
infatti solo al solvens e all'accipiens (ex
pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. III, 01.12.2009,
n. 25276; Cassazione civile, Sez. I, 09.05.2007, n. 10634;
Cassazione civile, Sez. III, 04.08.2000, n. 10227).
Deve pertanto convenirsi con quanto ha affermato la
giurisprudenza che si è occupata di una vicenda del tutto
similare (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2014, n. 493: in
quel caso si trattava della restituzione di somme versate in
eccedenza, nel caso in esame si tratta della restituzione
dell’intera somma; in entrambi i casi si tratta di una
fattispecie di indebito oggettivo): “la titolarità del
permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della
obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla,
invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione
dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non
dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha
effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la
restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a
nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa”
(sostanzialmente negli stessi termini con riguardo ad altre
fattispecie di indebito oggettivo cfr. anche Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.02.2014, n. 444; Tar Campania, Napoli,
Sez. V, 05.04.2011, n. 1916).
Ne consegue che il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 15.02.2018 n. 173 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Come noto, il P.R.G. è uno strumento programmatico di
pianificazione dell’intero territorio comunale, adottato dal
Comune ed approvato dalla Regione.
La legge prevede la possibilità che il P.R.G. venga attuato
attraverso strumenti urbanistici attuativi, finalizzati a
fornire le prescrizioni di dettaglio, per l’esecuzione delle
direttive contenute nel piano generale.
Tali piani attuativi, ai sensi dell’art. 17 della legge n.
1150/1942, hanno un termine di efficacia massimo decennale,
decorso il quale, le previsioni riamaste senza concreta
attuazione diventano inefficaci, cosicché non potranno più
eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle
opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né
si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha
efficacia ultrattiva, non verificandosi una situazione
paragonabile a quella della c.d. “zona bianca”.
---------------
Tra le prescrizioni di zona ultrattive di un piano attuativo
decaduto, «rientra anche il dimensionamento dei c.d.
standard urbanistici, disciplinato dal D.M. n. 1444 del
02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4
e 5 del citato D.M. n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad
assicurare alla collettività, insediata in una determinata
parte del territorio comunale, un livello di qualità della
vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di
efficacia decennale non sono più validi i vincoli,
preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate
nell’arco di 10 anni».
Inoltre, è pacifico che, a fronte di un piano decaduto, i
permessi di costruire possono essere rilasciati soltanto se,
non discostandosi dalle previsioni del P.R.G., rispettino
altresì la disciplina di linea fondamentale ed essenziale
della pianificazione attuativa, atteso che, per questa
parte, lo stesso conserva efficacia ultrattiva; in questo
caso, quindi, in caso di iniziativa edilizia singola,
l’urbanizzazione va valutata con riferimento al comparto e
non limitatamente all’area di cui al progetto.
---------------
Come noto, il P.R.G. è uno strumento programmatico di
pianificazione dell’intero territorio comunale, adottato dal
Comune ed approvato dalla Regione.
La legge prevede la possibilità che il P.R.G. venga attuato
attraverso strumenti urbanistici attuativi, finalizzati a
fornire le prescrizioni di dettaglio, per l’esecuzione delle
direttive contenute nel piano generale.
Tali piani attuativi, ai sensi dell’art. 17 della legge n.
1150/1942, hanno un termine di efficacia massimo decennale,
decorso il quale, le previsioni riamaste senza concreta
attuazione diventano inefficaci, cosicché non potranno più
eseguirsi gli espropri preordinati alla realizzazione delle
opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né
si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha
efficacia ultrattiva, non verificandosi una situazione
paragonabile a quella della c.d. “zona bianca” (ex multis,
cfr. Cons. Stato n. 4144/2017).
Nel caso di specie, i terreni di proprietà della sig.ra Di
To., classificati dal vigente P.R.G. come zona “ZTO G5”,
risultano compresi nel perimetro del piano particolareggiato
approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 44/2006
(“Piano attuativo in variante al Piano Regolatore Generale –
Zona G – Comparto tra Fiume Alli e Quartiere Giovino”) che,
anche nell’area “ZTO G5”, impone il previo piano di
lottizzazione.
La soggezione al piano di lottizzazione la si ricava non
solo dal fatto che l’intitolazione del verbale della
conferenza di servizi sul piano attuativo si riferisce
all’intera zona G e non solo alla zona G1 (come potrebbe
sembrare dalle prime righe del testo), ma anche dal fatto
che la delibera di approvazione, sebbene al suo interno
menzioni solo la zona G1, nel dispositivo fa inequivoco
riferimento all’intera zona G.
D’altro canto, non è senza significato la circostanza per
cui la stessa ricorrente ha presentato il proprio progetto
proprio allo scadere del termine di efficacia del piano.
Nondimeno, il piano particolareggiato del 2006 risulta ad
oggi inefficace, per decorso del termine decennale.
Pertanto, alla luce delle regole sopra indicate, l’area in
esame, si trova sottoposta ad una duplice tipologia di
prescrizioni: quelle contenute nelle N.T.A. del P.R.G. –e,
in specie, nell’art. 62, che prevede la possibilità di
effettuare interventi edilizi diretti mediante D.I.A. o
concessione edilizia, semplice o convenzionata– e quelle
contenute nella parte del piano attuativo avente efficacia ultrattiva.
A tal proposito, osserva il collegio come, tra le
prescrizioni di zona ultrattive di un piano attuativo
decaduto, «rientra anche il dimensionamento dei c.d.
standard urbanistici, disciplinato dal D.M. n. 1444 del
02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4
e 5 del citato D.M. n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad
assicurare alla collettività, insediata in una determinata
parte del territorio comunale, un livello di qualità della
vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di
efficacia decennale non sono più validi i vincoli,
preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate
nell’arco di 10 anni» (cfr. TAR Basilicata n. 99/2012).
Inoltre, è pacifico che, a fronte di un piano decaduto, i
permessi di costruire possono essere rilasciati soltanto se,
non discostandosi dalle previsioni del P.R.G., rispettino
altresì la disciplina di linea fondamentale ed essenziale
della pianificazione attuativa, atteso che, per questa
parte, lo stesso conserva efficacia ultrattiva; in questo
caso, quindi, in caso di iniziativa edilizia singola,
l’urbanizzazione va valutata con riferimento al comparto e
non limitatamente all’area di cui al progetto (cfr. Cons.
Stato n. 6170/2007, n. 5471/2008 e n. 5251/2013; TAR
Campania, Salerno, n. 488/1997 e n. 6682/2009; TAR
Sicilia, Palermo, n. 1986/2015; TAR Abruzzo, L’Aquila,
n. 810/2014; TAR Lazio, Latina, n. 367/2006).
Ne deriva quindi che, in adesione alle corrette valutazione
del C.T.U., applicando i parametri contemplati dal piano
attuativo del 2006, il lotto non possiede tutti i requisiti
per il rilascio del titolo edilizio.
Così risolta la questione sostanziale, occorre esaminare le
censure di carattere formale, che attengono: al ritardo
nell’adozione dell’atto di annullamento; al difetto di
motivazione, sotto il profilo della prevalenza
dell’interesse pubblico alla rimozione di una situazione di
fatto consolidatasi nel tempo; alla mancata comparazione
degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; al
preteso conflitto di interessi del dirigente del Settore
edilizia privata e S.U.E. del Comune di Catanzaro, il quale
a suo tempo aveva accertato la presenza delle opere di
urbanizzazione e che, nell’assumere il provvedimento
impugnato, si è trovato “a smentire se stesso”; alla
contraddittorietà dell’azione amministrativa, rispetto al
passato.
Nessuna di tale doglianza coglie nel segno.
Non la prima, che non tiene conto del periodo di tempo
resosi necessario per la risoluzione del contenzioso
instaurato sul provvedimento di diniego; non la seconda e la
terza, trattandosi di attività edilizia mai neppure
iniziata; non la quarta, che appare meramente ipotetica; non
la quinta, non potendo un’illegittimità perpetrata nel
passato legittimarne una nuova.
In definitiva, il ricorso dev’essere respinto in ogni sua
parte, poiché infondato.
Tuttavia, la obiettive difficoltà della lite, che hanno reso
necessaria una C.T.U., giustificano l’integrale
compensazione delle spese del giudizio tra le parti, fatto
salvo il compenso del consulente che, liquidato nella misura
di cui alla nota spese depositata, viene posto a carico di
entrambe le parti, nella misura di metà ciascuna, con
vincolo di solidarietà (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 21.02.2018 n. 507 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
la giurisprudenza più recente in materia di
efficacia del piano di attuazione (o di
strumenti urbanistici analoghi, quale un
piano di lottizzazione o un piano di zona
per l'edilizia economica e popolare) dopo la
scadenza del termine previsto per la sua
esecuzione, alla stregua di una corretta
interpretazione dell’art. 17 della legge n.
1150/1942 discendono i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà
privata, con specificazione delle regole di
conformazione disposte dal piano regolatore
generale;
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato, nel senso che
costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse
nel piano attuativo;
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, cosicché
non potranno più eseguirsi gli espropri
preordinati alla realizzazione delle opere
pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere
all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni
coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con le prescrizioni
del piano attuativo che per questa parte ha
efficacia ultrattiva.
---------------
Residua, perciò, esclusivamente, da
verificare se è corretta l’applicazione al
caso di specie dell’art. 17, comma 3, della
Legge 17.08.1942, n. 1150, il cui testo
nella versione ultima, è così formulato: “Decorso
il termine stabilito per la esecuzione del
piano particolareggiato questo diventa
inefficace per la parte in cui non abbia
avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l'obbligo di osservare
nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli
allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso.
Ove il Comune non provveda a presentare un
nuovo piano per il necessario assesto della
parte di piano particolareggiato che sia
rimasta inattuata per decorso di termine, la
compilazione potrà essere disposta dal
prefetto a norma del secondo comma dell'art.
14.
Qualora, decorsi due anni dal termine per
l’esecuzione del piano particolareggiato,
non abbia trovato applicazione il secondo
comma, nell’interesse improcrastinabile
dell’Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi, il comune,
limitatamente all’attuazione anche parziale
di comparti o comprensori del piano
particolareggiato decaduto, accoglie le
proposte di formazione e attuazione di
singoli sub-comparti, indipendentemente
dalla parte restante del comparto, per
iniziativa dei privati che abbiano la
titolarità dell’intero sub-comparto, purché
non modifichino la destinazione d’uso delle
aree pubbliche o fondiarie rispettando gli
stessi rapporti dei parametri urbanistici
dello strumento attuativo decaduti. I
sub-comparti di cui al presente comma non
costituiscono variante urbanistica e sono
approvati dal consiglio comunale senza
l’applicazione delle procedure di cui agli
articoli 15 e 16”.
Secondo la giurisprudenza più recente
(Consiglio di Stato, IV, 26.08.2014, n.
42781) in materia di efficacia del piano di
attuazione (o di strumenti urbanistici
analoghi, quale un piano di lottizzazione o
un piano di zona per l'edilizia economica e
popolare) dopo la scadenza del termine
previsto per la sua esecuzione, alla stregua
di una corretta interpretazione dell’art. 17
della legge n. 1150/1942 discendono i
seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà
privata, con specificazione delle regole di
conformazione disposte dal piano regolatore
generale;
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato, nel senso che
costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse
nel piano attuativo;
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, cosicché
non potranno più eseguirsi gli espropri
preordinati alla realizzazione delle opere
pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere
all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni
coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con le prescrizioni
del piano attuativo che per questa parte ha
efficacia ultrattiva.
Al riguardo e in ordine alle censure mosse
dalla parte ricorrente secondo cui il Comune
avrebbe illegittimamente ritenuto che
l’ultima versione del 3° comma dell’art. 17
postulasse l’ultrattività del vincolo
espropriativo rispetto alla scadenza del
piano particolareggiato, va condiviso
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui
l'intervenuta inefficacia di un pregresso
vincolo urbanistico di destinazione a
pubblico servizio (di natura espropriativa)
di una determinata area prevista da un piano
particolareggiato comporta la restituzione
della stessa alla precedente destinazione
urbanistica recata dal P.R.G.
Pur non dubitandosi che la novella
legislativa introdotta nel 2011, di cui al
terzo comma dell’art. 17 della legge
urbanistica, consente di adoperare lo
strumento del comparto su base volontaria,
con la connessa salvaguardia contestuale
delle originarie previsioni relative alla
destinazione di aree pubbliche, è fatto
certo che nella specie non è stata data
attuazione a tale meccanismo, e perciò
l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto
limitarsi a prendere atto della vigenza
della previsione di P.R.G. e sulla base di
essa avrebbe dovuto pronunciarsi,
accertando, però, se effettivamente
l’edificazione era, comunque, impedita dalla
vigenza delle misure di salvaguardia (art.
12, c. 3, del D.P.R. n. 380 del 2001)
scattate a seguito dell’adozione del nuovo
P.R.G. con deliberazione del Consiglio
Comunale n. 33 del 01.08.2007 alla stregua
del quale l’area di che trattasi ricade in
zona “G - Parcheggio Pubblico” ed è
sottoposta a vincolo paesaggistico.
Avrebbe dovuto altresì accertare quale era
l’indice di densità della zona e la
eventuale necessità dello strumento
attuativo qualora l’area non potesse
ritenersi dotata di sufficienti opere di
urbanizzazione primaria e secondaria,
elementi da appurare in via istruttoria e
dei quali invece il Comune ha sostenuto
l’indefettibilità soltanto in sede
difensiva, posto che di essi non si fa alcun
cenno nell’atto impugnato.
Pertanto, il Collegio reputa che
l’impugnativa de qua, con
assorbimento di ogni profilo di censura non
esaminato, debba essere accolta con
annullamento del provvedimento impugnato,
salvo il potere dell’Amministrazione di
provvedere in sede di riedizione dell’atto,
da motivare adeguatamente, tenendo conto del
dictum della presente sentenza, della
richiesta e delle prospettazioni di parte
ricorrente e della normativa urbanistica
nella specie conferente.
Sussistono giusti motivi per compensare le
spese di giudizio, attesa la peculiarità
della fattispecie (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
II,
sentenza 29.07.2015 n. 1986 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: a)
nelle zone in cui il piano particolareggiato
è decaduto deve ritenersi consentita la
costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto
della normativa urbanistico-edilizia di zona
che resta automaticamente ultrattiva a tempo
indeterminato per la parte che disciplina
l’edificazione nelle sue linee fondamentali
ed essenziali;
b) infatti, le aree all’interno del piano particolareggiato
decaduto, in forza dell’art. 17 della legge
n. 1150/1942, non sono prive di
regolamentazione urbanistica in quanto
permane la disciplina di pianificazione
generale e quella di linea fondamentale ed
essenziale di pianificazione attuativa, e
ciò a differenza delle aree sprovviste della
disciplina dello strumento urbanistico
generale o con vincoli di inedificabilità
decaduti (c.d. zone bianche o depianificate)
per le quali sono applicabili i limitati
indici d’edificabilità previsti dall’art. 4,
u.c., dell’art. 4 della legge n. 10/1977.
---------------
In ordine al regime delle aree destinate
dagli strumenti urbanistici a verde
pubblico, si registra un diffuso e
condivisibile orientamento giurisprudenziale
che ne riconosce, in via generale, il
carattere conformativo: ed è proprio questo,
in particolare, il caso del vincolo c.d. a
verde attrezzato, per il quale la
possibilità di realizzare sulle aree private
attrezzature per lo svago, chioschi, bar,
teatri all’aperto, impianti sportivi per
allenamento e spettacolo, e simili, nonché
biblioteche e giochi per bambini, e la
possibilità, altresì, di realizzarle ad
iniziativa non meno pubblica che privata
costituisce espressione della potestà
conformativa del pianificatore, avente per
tal via validità a tempo indeterminato.
Da qui la conclusione che, essendo
consentita, anche ad iniziativa del
proprietario, la realizzazione di opere e
strutture intese all’effettivo godimento del
verde, va esclusa, ex se, la configurabilità
di uno svuotamento incisivo del contenuto
del diritto di proprietà, permanendo
comunque la utilizzabilità dell’area
rispetto alla sua destinazione naturale e
non è, quindi, ravvisabile alcun vincolo
preordinato all’espropriazione né
comportante inedificabilità assoluta
(analoga natura, per inciso, riveste la
destinazione a verde agricolo, per la quale
si esclude la natura espropriativa proprio
in quanto da un lato tale destinazione ha
carattere generale e non incide in modo
speciale su singoli beni, dall’altro essa
permette una sia pur limitata
edificabilità).
Ne consegue, coerentemente, che solo
l’esclusione totale di qualsiasi possibilità
realizzativa o (in alternativa) la riserva
esclusiva della realizzazione in capo
all’ente pubblico assume valenza
espropriativa, con conseguente obbligo di
indennizzo a carico dell’amministrazione e
previsione di un termine di scadenza.
Onde, in definitiva, la qualificazione del
vincolo a verde pubblico quale
eccezionalmente pre-espropriativo (piuttosto
che ordinariamente conformativo) dipende, in
concreto, dalla effettiva incidenza che la
relativa previsione esplica sul contenuto
del diritto di proprietà.
Rientrando il caso in esame nella evocata
fattispecie generale, l’intervenuta
decadenza del piano particolareggiato non
appare, stante l’argomentata ultrattività
del vincolo a verde attrezzato, idonea a
legittimare l’auspicata iniziativa
edificatoria.
---------------
1.- Il ricorso non è fondato e va respinto.
2.- Il complessivo apparato critico di parte
ricorrente è affidato al plurimo rilievo per
cui:
a) le aree oggetto del prefigurato intervento edificatorio
ricadrebbero in zona B1, alla stregua del
vigente strumento urbanistico generale;
b) la destinazione vincolistica a verde pubblico attrezzato,
impressa dal piano particolareggiato,
sarebbe divenuta inefficace vuoi in
relazione alla sopravvenuta inefficacia
dello stesso piano (stante l’ultrattività,
scolpita dall’art. 17 della l. n. 1150/1942,
delle sole previsioni di allineamento e
delle prescrizioni di zona), vuoi in
relazione alla decadenza ex art. 2 l. n.
1187/1968, trattandosi in tesi di vincolo a
carattere ablatorio e non conformativo);
c) che le aree all’interno del piano particolareggiato decaduto non
sarebbero, per tal via, prive di
regolamentazione urbanistica, permanendo
piuttosto la disciplina di pianificazione
generale e quella di linea fondamentale ed
essenziale di pianificazione attuativa, e
ciò a differenza delle aree sprovviste della
disciplina dello strumento urbanistico
generale o con vincoli di in edificabilità
decaduti (c.d. zone bianche o depianificate),
per le quali restano applicabili i limitati
indici di edificabilità previsti dall’art. 4
della l. n. 10/1977.
3.- La tesi non persuade.
Vero è che, ancora di recente, il Tribunale
ha avuto modo di statuire (per vicenda
analoga, ma –per quanto subito si dirà– non
identica):
a) che nelle zone in cui il piano particolareggiato è decaduto deve
ritenersi consentita la costruzione di nuovi
fabbricati nel rispetto della normativa
urbanistico-edilizia di zona che resta
automaticamente ultrattiva a tempo
indeterminato per la parte che disciplina
l’edificazione nelle sue linee fondamentali
ed essenziali (TAR Salerno, sezione II, n.
1195/2008 e cfr., altresì, Cons. Stato, sez.
VI, 20.01.2003, n. 200);
b) che, infatti, le aree all’interno del piano particolareggiato
decaduto, in forza dell’art. 17 della legge
n. 1150/1942, non sono prive di
regolamentazione urbanistica in quanto
permane la disciplina di pianificazione
generale e quella di linea fondamentale ed
essenziale di pianificazione attuativa, e
ciò a differenza delle aree sprovviste della
disciplina dello strumento urbanistico
generale o con vincoli di inedificabilità
decaduti (c.d. zone bianche o depianificate)
per le quali sono applicabili i limitati
indici d’edificabilità previsti dall’art. 4,
u.c., dell’art. 4 della legge n. 10/1977.
Nel caso di specie, per l’appunto, le
ragioni del contestato diniego sono affidate
al rilievo che “il progetto intende
realizzarsi (sic!) su area destinata a verde
attrezzato, così come prescritto dalla
variante al p.r.g., approvata con il piano
particolareggiato”: onde proprio le
riassunte premesse in diritto, che vale
ribadire, chiariscono che, stante la non
contestata ultrattività delle prescrizioni
di zona previste dallo strumento urbanistico
generale (per come variato in sede di
approvazione del piano particolareggiato),
sulle aree in contestazione deve ritenersi
sussistente un vincolo (non soggetto a
decadenza) di carattere conformativo, quale
quello a verde attrezzato.
Deve, invero, chiarirsi che la tesi del
ricorrente trova fondamento nel dichiarato,
ma non corretto, presupposto che il vincolo
in questione abbia carattere ablatorio e,
come tale, sia decaduto per inutile decorso
del quinquennio di cui all’art. 2 della l.
n. 1187/1968.
Per contro, in ordine al regime delle aree
destinate dagli strumenti urbanistici a
verde pubblico, si registra un diffuso e
condivisibile orientamento giurisprudenziale
che ne riconosce, in via generale, il
carattere conformativo: ed è proprio questo,
in particolare, il caso del vincolo c.d. a
verde attrezzato, per il quale la
possibilità di realizzare sulle aree private
attrezzature per lo svago, chioschi, bar,
teatri all’aperto, impianti sportivi per
allenamento e spettacolo, e simili, nonché
biblioteche e giochi per bambini, e la
possibilità, altresì, di realizzarle ad
iniziativa non meno pubblica che privata
costituisce espressione della potestà
conformativa del pianificatore, avente per
tal via validità a tempo indeterminato
(così, per esempio, Cons. Stato, sez. IV,
25.05.2005, n. 2718).
Da qui la conclusione che, essendo
consentita, anche ad iniziativa del
proprietario, la realizzazione di opere e
strutture intese all’effettivo godimento del
verde, va esclusa, ex se, la
configurabilità di uno svuotamento incisivo
del contenuto del diritto di proprietà,
permanendo comunque la utilizzabilità
dell’area rispetto alla sua destinazione
naturale e non è, quindi, ravvisabile alcun
vincolo preordinato all’espropriazione né
comportante inedificabilità assoluta
(analoga natura, per inciso, riveste la
destinazione a verde agricolo, per la quale
si esclude la natura espropriativa proprio
in quanto da un lato tale destinazione ha
carattere generale e non incide in modo
speciale su singoli beni, dall’altro essa
permette una sia pur limitata
edificabilità).
Ne consegue, coerentemente, che solo
l’esclusione totale di qualsiasi possibilità
realizzativa o (in alternativa) la riserva
esclusiva della realizzazione in capo
all’ente pubblico assume valenza
espropriativa, con conseguente obbligo di
indennizzo a carico dell’amministrazione e
previsione di un termine di scadenza.
Onde, in definitiva, la qualificazione del
vincolo a verde pubblico quale
eccezionalmente pre-espropriativo (piuttosto
che ordinariamente conformativo) dipende, in
concreto, dalla effettiva incidenza che la
relativa previsione esplica sul contenuto
del diritto di proprietà (v. per esempio, in
tema di destinazione a parco urbano, in
ordine alla quale era vietata qualsiasi
costruzione stabile o provvisoria, TAR
Puglia, Bari, sez. III, 05.09.2007, n. 2093
e Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2004, n. 745).
Rientrando il caso in esame nella evocata
fattispecie generale, l’intervenuta
decadenza del piano particolareggiato non
appare, stante l’argomentata ultrattività
del vincolo a verde attrezzato, idonea a
legittimare l’auspicata iniziativa
edificatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.11.2009 n. 6682 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
scadenza di uno strumento attuativo, laddove
non lasci alcuna lacuna nella vigente
normativa urbanistica, comporta la
riespansione del piano regolatore generale
per la medesima zona.
---------------
La preventiva necessità di uno strumento
attuativo è superabile solo nel caso si
dimostri sia che l’area del richiedente è
l’unica a non essere stata ancora edificata
sia che la stessa si trovi in una zona
integralmente dotata delle opere di
urbanizzazione.
Ed invero, in caso di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte quindi al rischio di
compromissione di valori urbanistici, la
pianificazione attuativa può ancora
conseguire l'effetto di correggere e
compensare il disordine edilizio in atto.
---------------
Le censure sono infondate.
Sulle questioni sollevate occorre muovere
dal principio affermato in giurisprudenza
per il quale la scadenza di uno strumento
attuativo, laddove non lasci alcuna lacuna
nella vigente normativa urbanistica,
comporta la riespansione del piano
regolatore generale per la medesima zona
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 6071/2003).
Il chiaro richiamo, operato dall’art. 38 NTA
di PRG del Comune, all’applicazione, in caso
di scadenza dello strumento attuativo, delle
norme di PRG relative alla zona C determina
quindi l’applicazione automatica della
disposizione, opposta dal Comune all’istanza
edificatoria, che subordina la possibilità
edificatoria al preventivo varo di un nuovo
strumento attuativo.
Tale automatica applicazione permette di
ritenere conseguentemente infondata sia la
tesi (ipotizzata dalla perizia di parte
ricorrente) sull’applicabilità all’area del
regime previsto per le zone B, sia della
censura che invoca l’orientamento
giurisprudenziale per il quale il diniego di
concessione edilizia che si fondi sulla
necessità di uno strumento attuativo deve
essere supportato da ragioni che facciano
riferimento al livello di urbanizzazione
della zona (Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
6171/2007 e Sez. V, n. 1216/2008), atteso
che la necessità di tali valutazione non può
trovare spazio in presenza di una normativa
urbanistica sufficientemente vincolante e
dettagliata sul punto.
Inoltre è stato affermato che la preventiva
necessità di uno strumento attuativo è
superabile solo nel caso si dimostri sia che
l’area del richiedente è l’unica a non
essere stata ancora edificata sia che la
stessa si trovi in una zona integralmente
dotata delle opere di urbanizzazione (Cons.
di Stato, Sez. IV, n. 7482/2006).
Ed invero, in caso di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte quindi al rischio di
compromissione di valori urbanistici, la
pianificazione attuativa può ancora
conseguire l'effetto di correggere e
compensare il disordine edilizio in atto
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 7799/2003;
v. anche Sez. V n. 5756/2000 e 2874/2000) e
a tali ragioni si è in effetti richiamato il
giudice di prime cure.
Conclusivamente, le ragioni addotte dal
Comune nell’impugnata nota n. 41034/2003,
recante il diniego di permesso di costruire
sono da considerarsi legittime (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 03.11.2008 n. 5471 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Collegio ritiene che la disposizione
dell’articolo 17 L. 1150/1942 debba essere intesa nel senso
che l’inefficacia del piano per decorso del termine di
attuazione stabilito ex articolo 16 implichi la decadenza
dei vincoli e degli speciali poteri che la legge urbanistica
attribuisce all’amministrazione per consentire la
realizzazione del programma urbanistico; si pensi:
- al potere di ingiungere ai proprietari di eseguire le
sistemazioni previste dal piano ex articolo 20;
- alle facoltà relative alle aree che per effetto delle
sistemazioni previste cessino di far parte del suolo
pubblico previste dall’articolo 21;
- al potere di promuovere l’accordo tra i proprietari per le
opportune rettifiche dei confini ex articolo 22,
eventualmente sostituendosi agli stessi esercitando il
potere ablatorio;
- al potere di formazione dei comparti edificatori ex articolo 23
(in questo caso è anzi espressamente previsto che tale
potere debba esercitarsi nel termine di efficacia del piano
e siffatta precisazione sembra sottintendere l’ultrattività
delle disposizioni disciplinanti la edificazione).
La scadenza del termine invece non priva di efficacia le
disposizioni del piani particolareggiati disciplinanti
l’attività edilizia; in pratica le prescrizioni di zona e
quelle relative agli allineamenti sono le disposizioni che
conformano gli ambiti compresi nel piano disciplinando
modalità e limiti della edificazione ad opera dei soggetti
sia pubblici che privati.
In altri termini, scaduto il termine di efficacia del piano,
decadono i vincoli nello stesso previsti e l’amministrazione
perde i penetranti poteri dispositivi della proprietà
privata che la legge le attribuisce allo scopo di consentire
l’attuazione del piano nei termini previsti: per
esemplificare l’amministrazione non potrà ordinare ai
privati di eseguire le trasformazioni previste sotto
minaccia della avocazione delle aree alla mano pubblica ex
articolo 20; ciò tuttavia non esclude che nella costruzione
di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti
debbano continuare ad applicarsi le disposizioni del p.p.e.
a garanzia che –finché il comune non intervenga con un nuovo
piano particolareggiato– non sia alterato lo sviluppo
urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato
dallo strumento scaduto.
E’ chiaro che il punto debole di questa ricostruzione è
quello del regime delle aree oggetto di vincoli decaduti; si
tratta di un punto debole che ha la sua matrice storica nel
fatto che il legislatore del 1942 guardava ai vincoli di
inedificabilità e ai vincoli preordinati all’espropriazione
come a misure “conformative” della proprietà, la cui
indeterminatezza temporale non comportava alcun tipo di
problema giuridico costituendo un limite del diritto di
proprietà; la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha
invece –come è noto- scelto una soluzione diversa, che
impone –nel presupposto della inerenza dello ius aedificandi
al diritto di proprietà dei suoli- che i vincoli in
questione siano alternativamente imposti a tempo determinato
ovvero indennizzati, con la conseguenza che –una volta
stabilito che l’inefficacia del piano particolareggiato
determina l’inefficacia del vincolo– si pone l’esigenza di
stabilire quale sia il regime urbanistico del suolo.
---------------
6.4. Il Collegio ritiene sostanzialmente condivisibili le
posizioni dei resistenti.
6.4.1. La prima questione sulla quale è necessario
soffermarsi è quella della relazione esistente tra il citato
articolo 17 della legge urbanistica e il successivo articolo
41-quinquies (introdotto dalla cd. legge ponte), secondo cui
“nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di
programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano
consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi
per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano
consentite altezze superiori a metri 25, non possono essere
realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti
limiti, se non previa approvazione di apposito piano
particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla
intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica
degli edifici previsti nella zona stessa”.
Secondo parte della giurisprudenza la disposizione
dell’articolo 41-quinquies citata troverebbe applicazione
non soltanto nel caso –espressamente previsto– in cui il
p.p.e. non sia mai intervenuto ma anche nel caso in cui esso
sia divenuto inefficace per il decorso del termine previsto
per la sua attuazione; in quest’ultimo caso tra questa
disposizione e l’articolo 17 citato vi sarebbe un rapporto
di “integrazione”, nel senso che –anche laddove
l’edificazione possa avvenire sulla base di disposizioni di
P.R.G. che stabiliscano indici volumetrici e altezze e/o in
base alle disposizioni di p.p.e. ancora in vigore ex
articolo 17– in ogni caso non sarebbe possibile, in assenza
di un nuovo strumento particolareggiato, superare i limiti
volumetrici e di altezza stabiliti –con una sorta di norma
di salvaguardia e di chiusura del sistema– dall’articolo
41-quinqiues (TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.08.2003, n. 6937,
TAR Lazio, Roma, sez. II, 25.06.2003, n. 5578).
Il Collegio non ritiene che questa impostazione sia
applicabile alla fattispecie in esame.
In primo luogo deve osservarsi che la giurisprudenza in
materia si riferisce –come accennato sopra– prevalentemente
a casi in cui venivano in rilievo aree gravate da vincoli
preordinati all’espropriazione (cfr. ad es. TAR Sicilia,
Palermo, 11.10.2001, n. 1434).
Deve poi osservarsi che l’articolo 41-quinquies si riferisce
espressamente al solo caso di carenza originaria di piano
particolareggiato; la fattispecie del piano
particolareggiato inefficace per mancata attuazione del
termine è una fattispecie diversa per cui l’estensione dei
limiti dell’articolo 41-quinquies a tale fattispecie
presuppone che vi sia una identità di ratio
giustificatrice.
La ratio della citata disposizione dell’articolo
41-quinquies è chiaramente quella di impedire una
edificazione “intensiva” –pur in astratto consentita
dallo strumento generale- in carenza di un disegno
urbanistico di dettaglio prestabilito e di adeguate garanzie
che alla edificazione intensiva si accompagni la
realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione
primaria e secondaria; la previa redazione del piano
particolareggiato garantisce in questa prospettiva sia
l’esistenza di un valido disegno urbanistico che la certezza
dei tempi di realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Se questa è la ratio della disposizione dell’articolo
41-quinquies essa può trovare applicazione –oltre che nel
caso espressamente previsto in cui il piano
particolareggiato manchi– al solo caso di inefficacia per
decorso del termine di un piano particolareggiato che non
abbia avuto alcuna esecuzione o abbia avuto esecuzione
minima e solo relativamente agli ambiti che possano
qualificarsi come non attuati nel senso così indicato (in
specie per quanto concerne le necessarie opere di
urbanizzazione primaria e secondaria).
6.4.2. Comunque –e indipendentemente da quanto precede- è da
escludere che la disposizione citata possa trovare
applicazione nell’ipotesi in cui venga in rilievo un ambito
di piano che sia stato quasi interamente realizzato.
Questa è l’ipotesi all’esame in cui risulta documentalmente
che:
a) il comparto H della sottozona C1 è stato realizzato in misura
superiore al 80%;
b) delle sette unità attuative che lo compongono l’unica ancora da
completare è proprio quella cui si riferisce l’atto
impugnato;
c) il lotto edificabile relativo è praticamente intercluso da
strade e altri fabbricati e per di più la controinteressata
–e i suoi dante causa– hanno già adempiuto agli obblighi
assunti a mezzo della convenzione urbanistica (cedendo aree,
pagando somme per costo di costruzione e oneri di
urbanizzazione etc. …); a ciò si aggiunge che le opere di
urbanizzazione primaria relative all’intero ambito del
p.p.e. sono quasi completamente realizzate (mancano alcuni
limitati segmenti di viabilità) e che ampiamente realizzate
sono anche le opere di urbanizzazione secondaria.
6.4.3. Ad una situazione quale quella all’esame, si deve
applicare la disposizione del primo comma dell’articolo 17
della legge urbanistica che, pur in presenza
dell’inefficacia del p.p.e. per decorso del termine,
stabilisce la ultrattività a tempo indeterminato delle
prescrizioni di zona e di quelle relative agli allineamenti.
Nella fattispecie ricorre infatti la ratio della
disposizione indicata che è quella di impedire, a fronte di
un programma urbanistico in parte già realizzato, che nuovi
interventi edilizi non si coordinino con il disegno
urbanistico sino ad allora seguito così alterandolo; in
effetti, se si considera la situazione all’esame, in cui
risulta che il disegno urbanistico del p.p.e. del 1978
almeno con riferimento al comparto H è stato pressoché
integralmente attuato, sarebbe quasi paradossale negare la
ultrattività delle disposizioni di piano disciplinanti
l’edificazione e applicare i limiti generali, ciò
traducendosi nella frustrazione degli scopi della
pianificazione esecutiva e nella alterazione del disegno
urbanistico cui il p.p.e. del 1978 è ispirato.
Il Collegio ritiene che la disposizione dell’articolo 17
debba essere intesa nel senso che l’inefficacia del piano
per decorso del termine di attuazione stabilito ex articolo
16 implichi la decadenza dei vincoli e degli speciali poteri
che la legge urbanistica attribuisce all’amministrazione per
consentire la realizzazione del programma urbanistico; si
pensi:
- al potere di ingiungere ai proprietari di eseguire le
sistemazioni previste dal piano ex articolo 20;
- alle facoltà relative alle aree che per effetto delle
sistemazioni previste cessino di far parte del suolo
pubblico previste dall’articolo 21;
- al potere di promuovere l’accordo tra i proprietari per le
opportune rettifiche dei confini ex articolo 22,
eventualmente sostituendosi agli stessi esercitando il
potere ablatorio;
- al potere di formazione dei comparti edificatori ex articolo 23
(in questo caso è anzi espressamente previsto che tale
potere debba esercitarsi nel termine di efficacia del piano
e siffatta precisazione sembra sottintendere l’ultrattività
delle disposizioni disciplinanti la edificazione).
La scadenza del termine invece non priva di efficacia le
disposizioni del piani particolareggiati disciplinanti
l’attività edilizia; in pratica le prescrizioni di zona e
quelle relative agli allineamenti sono le disposizioni che
conformano gli ambiti compresi nel piano disciplinando
modalità e limiti della edificazione ad opera dei soggetti
sia pubblici che privati.
In altri termini, scaduto il termine di efficacia del piano,
decadono i vincoli nello stesso previsti e l’amministrazione
perde i penetranti poteri dispositivi della proprietà
privata che la legge le attribuisce allo scopo di consentire
l’attuazione del piano nei termini previsti: per
esemplificare l’amministrazione non potrà ordinare ai
privati di eseguire le trasformazioni previste sotto
minaccia della avocazione delle aree alla mano pubblica ex
articolo 20; ciò tuttavia non esclude che nella costruzione
di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti
debbano continuare ad applicarsi le disposizioni del p.p.e.
a garanzia che –finché il comune non intervenga con un nuovo
piano particolareggiato– non sia alterato lo sviluppo
urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato
dallo strumento scaduto.
E’ chiaro che il punto debole di questa ricostruzione è
quello del regime delle aree oggetto di vincoli decaduti
(che non a caso è il problema cui si è applicata la
giurisprudenza sopra ricordata); si tratta di un punto
debole che ha la sua matrice storica nel fatto che il
legislatore del 1942 guardava ai vincoli di inedificabilità
e ai vincoli preordinati all’espropriazione come a misure “conformative”
della proprietà, la cui indeterminatezza temporale non
comportava alcun tipo di problema giuridico costituendo un
limite del diritto di proprietà; la giurisprudenza della
Corte Costituzionale ha invece –come è noto- scelto una
soluzione diversa, che impone –nel presupposto della
inerenza dello ius aedificandi al diritto di
proprietà dei suoli- che i vincoli in questione siano
alternativamente imposti a tempo determinato ovvero
indennizzati, con la conseguenza che –una volta stabilito
che l’inefficacia del piano particolareggiato determina
l’inefficacia del vincolo– si pone l’esigenza di stabilire
quale sia il regime urbanistico del suolo.
Questo problema –la cui soluzione sul piano concreto non può
che essere rimessa alla responsabilità dell’amministrazione,
nel senso che, a fronte del rischio di una compromissione di
valori urbanistici, essa potrà utilizzare gli strumenti a
sua disposizione (approvazione di una variante, reiterazione
del vincolo nelle forme previste dalla legge …)- è tuttavia
estraneo al giudizio, per le ragioni già viste.
6.5. Deve dunque concludersi che le disposizioni del p.p.e.
sulla cui base è stato assentito il permesso di costruire
impugnato sono tuttora efficaci in forza del citato articolo
17; di conseguenza i primi due motivi sono infondati
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 10.06.2006 n. 367 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Visite mediche di controllo nei confronti dei
lavoratori assenti per infortunio sul lavoro. Risposta al
quesito della Fondazione IRCCS, Policlinico “San Matteo”.
Modalità di svolgimento – articolo 4, decreto ministeriale
17.10.2017, n. 206 (nota
20.02.2018 n. 322 di prot.). |
ARAN |
EDILIZIA PRIVATA:
Ipotesi di Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo
al personale del comparto FUNZIONI LOCALI - triennio
2016-2018 (21.02.2018). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 09.03.2018 n. 57 "Attività antincendio boschivo per
il 2018. Raccomandazioni operative per un più efficace
contrasto agli incendi boschivi, di interfaccia ed ai rischi
conseguenti" (P.C.M.,
nota 27.02.2018). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 09.03.2018 n. 57 "Regolamento recante procedure e
schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del
programma triennale dei lavori pubblici, del programma
biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei
relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali"
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 16.01.2018 n. 14). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 07.03.2018 n. 55 "Regolamento recante modifiche al
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
29.08.2014, n. 171, concernente il regolamento di
organizzazione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo, degli uffici della diretta
collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di
valutazione della performance, in attuazione dell’articolo
22, comma 7-quinquies, del decreto-legge 24.04.2017, n. 50,
convertito, con modificazioni, dalla legge 21.06.2017, n. 96"
(D.P.C.M.
01.12.2017 n. 238). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
G.U. 06.03.2018 n. 54 "Regolamento recante la definizione
delle condizioni di esercizio dei condhotel, nonché dei
criteri e delle modalità per la rimozione del vincolo di
destinazione alberghiera in caso di interventi edilizi sugli
esercizi alberghieri esistenti e limitatamente alla
realizzazione della quota delle unità abitative a
destinazione residenziale, ai sensi dell’articolo 31 del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164" (D.P.C.M.
22.01.2018 n. 13).
---------------
Di particolare interesse si legga:
- Art. 11. Rimozione del vincolo di destinazione
alberghiera. |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 23.02.2018, "Testo
coordinato del Regolamento regionale 18.10.2010, n. 9
«Regolamento
di attuazione dell’albo regionale del volontariato di
protezione civile (ai sensi dell’art. 9-ter della legge
regionale 22.05.2004, n. 16, ‘Testo unico delle disposizioni
regionali in materia di protezione civile’)»"
(testo
coordinato regolamento regionale 18.10.2010, n. 9). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U. 20.02.2018 n. 42, suppl. ord. n. 8, "Aggiornamento
delle «Norme tecniche per le costruzioni»" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 17.01.2018). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 19.02.2018 n. 41 "Regolamento recante norme di
attuazione del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58, in
materia di intermediari" (Commissione Nazionale per le
Società di Borsa,
delibera 15.02.2018 n. 20307). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 19.02.2018, "Adeguamento
del regolamento regionale 18.10.2010, n. 9 (Regolamento di
attuazione dell’albo regionale del volontariato di
protezione civile [ai sensi dell’articolo 9-ter della legge
regionale 22.05.2004, n. 16, ‘Testo unico delle disposizioni
regionali in materia di protezione civile’)] all’articolo 4,
comma 5, della legge regionale 10.08.2017, n. 22
(Assestamento al bilancio 2017/2019 - I provvedimento di
variazione con modifiche di leggi regionali), e all’articolo
2 della legge regionale 28.12.2017, n. 41 (Modifiche
all’articolo 5.1 e all’articolo 9-bis della legge regionale
22.05.2004, n. 16 ‘Testo unico delle disposizioni regionali
in materia di protezione civile’)" (regolamento
regionale 15.02.2018 n. 6). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017, "Ottavo
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 22.11.2017 n. 14640). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017, "Disposizioni
organizzative in materia di diritto di accesso documentale e
di diritto di accesso civico, semplice e generalizzato, agli
atti, informazioni e dati del Consiglio regionale della
Lombardia e determinazione dei costi di riproduzione degli
atti" (deliberazione
U.P.C.R. 13.11.2017 n. 421). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI: N.
Durante,
Pubblicità, trasparenza e FOIA: indicazioni operative
(07.03.2018 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L. Pispero,
Whistleblowing - Cassazione Penale: la segnalazione è un
vero e proprio atto di accusa e l’anonimato non è assoluto
ma cede di fronte al diritto di difesa (01.03.2018
- link a www.filodiritto.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
C. Galdenzi e F. Boezio,
IL NUOVO REGOLAMENTO SULLE TERRE E
ROCCE DA SCAVO - (D.P.R. 13.06.2017, n. 120): luci e ombre
(marzo 2018 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione: ricostruzione della
recente evoluzione normativa. - 2. Una visione d’insieme del
regolamento: la sua struttura. - 3. Brevi notazioni su
singoli aspetti: il coordinamento tra la definizione di
“suolo”, quella di “terre e rocce da scavo” e la nozione di
“materiali di riporto”. - 4. (Segue) brevi notazioni su
singoli aspetti: i criteri di individuazione e le modalità
di gestione delle terre e rocce di scavo qualificate come
sottoprodotti. - 5. (Segue) brevi notazioni su singoli
aspetti: il deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo
qualificate “rifiuti”. - 6. Conclusioni. |
APPALTI:
S. Tranquilli,
Prime riflessioni a margine di alcune recenti oscillazioni
giurisprudenziali sull’individuazione del dies a quo
per impugnare le ammissioni e le esclusioni dalle gare alla
luce della disciplina del rito “super-speciale”
(28.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso esaminato e la
soluzione giuridica accolta da una recente sentenza del TAR
Campania sulla questione della decorrenza del termine per
ricorrere contro le ammissioni alla gara – 3.
L’inafferrabilità del concetto di “piena conoscenza” e le
chiare disposizioni del diritto eurounitario sulla
decorrenza del termine per impugnare gli atti gara – 4. La
chiara indicazione del dies a quo per impugnare le
ammissioni e le esclusioni alla luce delle modifiche
apportate dall’art. 19 del decreto “correttivo” – 5. La
decorrenza del termine per ricorrere nelle diverse ipotesi
in cui (a) la gara non sia scandita dalla pubblicazione del
provvedimento di cui all’art. 29, comma 1 del Codice e (b)
l’ammissione/l’esclusione alla gara sia stata comunicata
prima della suddetta pubblicazione – 6. Verso un progressivo
(e necessario) abbandono del concetto di “piena conoscenza”. |
LAVORI PUBBLICI:
V. Manzetti,
Il “dibattito pubblico” nel nuovo codice dei
contratti (28.02.2018 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa metodologica. 2. La
istituzionalizzazione del dibattito pubblico. 3. La
disciplina nel nuovo codice dei contratti e nello schema di
dpcm: parziale richiamo al modello del débat public
francese. 4. Il dibattito pubblico quale strumento nuovo di
amministrazione partecipata: limiti. 4.1. (segue)… L’incerto
assetto normativo e la fragile configurazione di un diritto
alla partecipazione. 4.2. (segue)… Il “difficile” rapporto
tra l’art. 22 del nuovo codice dei contratti pubblici e le
leggi regionali in materia di dibattito pubblico 4.3.
(segue)… L’atecnica riduzione ai minimi termini dell’oggetto
del dibattito pubblico. 4.4. (segue)… L’ambigua
individuazione del soggetto responsabile del procedimento di
dibattito pubblico. 5. Il necessario bilanciamento tra
procedura partecipativa, semplificazione e riduzione dei
tempi del procedimento. 6. La questione aperta della tutela
dei soggetti della procedura partecipativa. 7. Alcune prime
considerazioni conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
C. Tommasi,
Le prospettive del nuovo diritto di accesso civico
generalizzato (28.02.2018 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. Il diritto di accesso
post riforma: il coordinamento tra accesso civico
generalizzato e accesso documentale - 3. L’accesso civico
nell’ordinamento dell’Unione europea - 4. Le tecniche di
bilanciamento nel Regolamento (CE) 1049/2001 - 5. Alcune
considerazioni sull’accesso civico generalizzato alla luce
del FOIA europeo - 6. Brevi note conclusive. |
APPALTI:
F. Basenghi,
Appalti, solidarietà e tutela del lavoratore: una strana
storia non ancora conclusa (21.02.2018 -
tratto da www.ipsoa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2018 –
Importi invariati (ANCE di Bergamo,
circolare 02.03.2018 n. 69). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Installazione impianti audiovisivi – Circolari
INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) n. 299/2017 e 5/2018
(ANCE di Bergamo,
circolare 02.03.2018 n. 68). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo
agli obblighi di cui all’art. 18, comma 1, lettera b), del
d.lgs. n. 81/2008 e al D.M. 10.03.1998, per un datore di
lavoro che svolga le proprie attività esclusivamente presso
unità produttive di un datore di lavoro committente – seduta
della Commissione del 14.02.2018 (Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali, Commissione per gli interpelli in
materia di salute e sicurezza sul lavoro,
interpello 28.02.2018 n. 1/2018). |
EDILIZIA PRIVATA -
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Emanate le nuove norme tecniche per le
costruzioni (ANCE di Bergamo,
circolare 23.02.2018 n. 62). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA -
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num.
8 – anno 2018 (ANCE di Bergamo,
circolare 23.02.2018 n. 60). |
A.N.AC. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Linee Guida n. 4, di attuazione del Decreto Legislativo
18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei
contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di
rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e
gestione degli elenchi di operatori economici”. Approvate
dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del
26.10.2016. Aggiornate al Decreto Legislativo 19.04.2017, n.
56 con delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018 (delibera
01.03.2018 n. 206 - link a
www.anticorruzione.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe,
sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al
31.03.2018 e attività di vigilanza dell’Autorità (delibera
21.02.2018 n. 141 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Gare
aperte a imprese fallite. Linee guida Anac in
consultazione.
Linee guida per stabilire le modalità di partecipazione alle gare e ai
subappalti da parte di imprese fallite ma autorizzate all'esercizio
provvisorio, oppure in situazione di concordato preventivo con continuità
aziendale.
Le ha definite l'Anac (Linea
guida prevista dall’art. 110, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti
pubblici, in merito ai requisiti aggiuntivi delle imprese fallite o ammesse
al concordato) e messe in consultazione sul proprio sito web fino
al 29 marzo.
L'intervento di Anac è in relazione a quanto prevede l'articolo 110, comma
3, del Codice dei contratti pubblici che ammette anche l'impresa fallita,
purché autorizzata all'esercizio provvisorio, analogamente a quella in
regime di concordato con continuità aziendale, a partecipare alle gare di
appalti e concessioni, a ricevere subappalti e ad eseguire i contratti già
sottoscritti, previa autorizzazione del giudice delegato.
La misura ha evidenti finalità di tutela dei livelli occupazionali delle
maestranze e del know-how aziendale. Il comma 5 della norma prevede che l'Anac
possa subordinare la partecipazione alle gare ad un avvalimento
obbligatorio, in forza del quale l'impresa ausiliaria si impegna, sia nei
confronti della stazione appaltante che nei confronti dell'impresa
concorrente, a mettere a disposizione le risorse per l'esecuzione del
contratto e al successivo subentro, laddove l'impresa ausiliata non sia più
in grado di eseguire correttamente l'appalto o la concessione.
Da qui l'esigenza di disciplinare tutta la procedura attraverso un'apposita
linea guida che definisca innanzitutto l'ambito di applicazione (appalti,
subappalti e concessioni anche di valore inferiore alle soglie Ue).
Al riguardo l'Anac chiarisce però che deve ritenersi inapplicabile la
disciplina tesa ad ammettere all'affidamento di contratti le imprese
dichiarate fallite senza esercizio provvisorio e a quelle in liquidazione
coatta, cioè assoggettate ad una procedura concorsuale diversa dal
concordato preventivo con continuità aziendale e dal fallimento con
esercizio provvisorio.
In merito alle modalità di intervento dell'Anac, si ipotizza che,
contestualmente all'attivazione dell'Anac da parte del giudice delegato o di
altro soggetto, l'impresa o la stessa Anac segnalino alla stazione
appaltante la pendenza del subprocedimento e la conseguente richiesta di
ammissione provvisoria dell'impresa
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2018). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI SERVIZI:
L'affidamento dei servizi.
DOMANDA:
L'art. 37 del D.Lgs. 50/2016 stabilisce che per gli
affidamenti di servizi di importo superiore a 40.000 euro e
inferiore alla soglia comunitaria, le stazioni appaltanti in
possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell'art.
38 del medesimo decreto e gli altri soggetti di cui all'art.
38, comma 1, procedono mediante utilizzo autonomo degli
strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione
dalle centrali di committenza qualificate.
Questo ente, comune non capoluogo di provincia, privo della
necessaria qualificazione di cui all'art. 38, deve affidare
un servizio di pulizia presente sul MEPA di importo
superiore a 40.000 euro ed inferiore alla soglia
comunitaria.
Si richiede se, ai sensi della normativa vigente, il Comune
possa procedere autonomamente a svolgere la procedura di
acquisto tramite MEPA (con procedura aperta) oppure se la
procedura di acquisto tramite MEPA debba necessariamente
essere svolta dalla stazione unica appaltante costituita
presso la Provincia a cui il Comune ha aderito.
RISPOSTA:
Per svolgere le procedure di importo superiore alle soglie
indicate al periodo precedente, codesto Ente, comune non
capoluogo di provincia, deve essere necessariamente in
possesso della necessaria qualificazione ai sensi
dell’articolo 38 del codice dei contratti pubblici (art. 37,
comma 1 codice).
Tuttavia, come precisato dall’ANAC stessa (v. FAQ periodo
transitorio), nel periodo transitorio (e cioè finché non
sarà in vigore il DPCM dei cui al comma 2 del cit. art. 38,
attualmente trasmesso a Regioni e Comuni per l'intesa in
conferenza unificata) tale qualificazione si intende
sostituita dall’iscrizione all’Anagrafe Unica delle Stazioni
Appaltanti di cui all’art. 33-ter del d.l. 18/12/2012 n. 179
convertito dalla legge 17/12/2012, n. 221.
In particolare, per gli acquisti di forniture e servizi di
importo superiore a 40.000 euro ed inferiore alla soglia di
cui all’art. 35, nonché per l’acquisto di lavori di
manutenzione ordinaria d’importo superiore a 150.000 e
inferiore a 1 milione di euro, i Comuni non capoluogo di
provincia, ove iscritti all’AUSA, possono procedere
all’affidamento mediante utilizzo autonomo degli strumenti
telematici di negoziazione messi a disposizione dalle
centrali di committenza qualificate secondo la normativa
vigente, se disponibili.
Al di fuori delle ipotesi sopra richiamate, detti Comuni
devono procedere secondo una delle modalità individuate al
comma 4 dell’art. 37.
Viceversa le stazioni appaltanti non iscritte all’AUSA
possono procedere all’acquisizione di lavori, servizi e
forniture solo ricorrendo a una centrale di committenza
ovvero procedendo ad una aggregazione con una stazione
appaltante iscritta all’Anagrafe citata (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sindaci negli uffici tecnici. Possono
presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli
comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può affidare al
sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale, e nominare il
responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa, avvalendosi
della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa
modifica del regolamento edilizio?
L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la
costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art.
136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha, peraltro,
dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2, del citato
dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia,
confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di
quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data
21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato
che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata
a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più
consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla
previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in
materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4 della legge 448/2001, ha
previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione
delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione,
sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione
inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del
citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la
citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso
introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza)
con sentenza n. 3490 del 26/06/2013 ha ritenuto che «il sindaco potesse
legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della
specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e
che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001,
recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà
regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza,
richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata
su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della
normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti
radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia
statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che
deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n.
267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio
(articolo
ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Sempre più caos sugli incentivi tecnici: la Corte
del conti lombarda rilancia sull’esclusione dal fondo
accessorio.
A seguito della posizione negativa assunta dalla Sezione di
controllo per la Puglia (si veda il Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 14.02.2018) sugli incentivi tecnici,
la Sezione della Lombardia, con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
modifica la questione di massima prospettando tre diversi
quesiti.
Secondo il Collegio contabile lombardo esistono tre diversi
motivi per cui gli incentivi tecnici debbano essere esclusi
dai limiti del fondo delle risorse decentrate, cui
corrispondono tre diversi quesiti da porre alla Sezione
delle Autonomie, un motivo principale e due subordinati, in
caso di esito negativo del primo.
La questione principale
Se è vero che il Dlgs 50/2016 ha escluso le attività di
progettazione e ha esteso gli incentivi, oltre ai lavori
pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture, è
altrettanto vero che le figure professionali individuate
dalla normativa sono tipizzate. Così per gli appalti dei
lavori, il personale coinvolto per l'erogazione degli
incentivi è sia quello tecnico (coinvolto nelle attività
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di Rup, di direzione dei lavori, collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico) sia il personale che abbia
concretamente con loro collaborato.
Negli appalti di servizi e forniture, gli incentivi sono
previsti esclusivamente per il «direttore dell'esecuzione».
A queste figure professionali l'amministrazione, previa
adozione di atto unilaterale (non soggetto a contrattazione
con le rappresentanze sindacali), destina una somma non
superiore al 2% dell'importo posto a base di gara. Si
tratta, pertanto, di un fondo che si autoalimenta con gli
stanziamenti in bilancio e che, quindi, non potrà mai
attingere ad altre risorse finanziarie.
Gli importi che potranno essere distribuiti devono essere,
inoltre, «comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione», nonché, va
aggiunto, al fine di evitare analogo sforamento, anche di
quelli per l'Irap (che vanno pre-dedotti dalla percentuale
massima che l'amministrazione intende riconoscere).
Effettuata questa analisi preliminare, il Collegio contabile
spiega come questi incentivi gravino su risorse autonome e
predeterminate del bilancio (da ultimo, chiarite dal comma
5-bis dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016) e posseggano due
limiti finanziari che ne impediscono l'incontrollata
espansione, uno di carattere generale (il tetto massimo al
2% dell'importo posto a base di gara) e l'altro di carattere
individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico
complessivo per gli incentivi spettante al singolo
dipendente).
Di qui la prima questione di massima rimessa alla Sezione
Autonomie sulla equivalenza dei fondi con quelli erogati per
i diritti di rogito ai segretari comunali, anche essi
esclusi dalla dinamica del salario accessorio, essendo
limitati a un quinto della loro retribuzione. In altri
termini, secondo i giudici contabili lombardi dovrebbero
essere esclusi tutti quegli incentivi che abbiano fonte in
disposizioni di legge speciale, che individuino le autonome
fonti di finanziamento e pongano dei limiti, complessivi e
individuali.
La prima questione subordinata
Il Collegio contabile integra la questione principale con
altre considerazioni precisando come, rispetto alla
precedente condizione stabilita dalle Sezione Riunite (deliberazione
04.10.2011 n. 51), nulla sembra essere mutato se
non la sola esclusione delle attività di progettazione,
mentre risultano identici i rimanenti presupposti, con il
rischio di affidare le attività all'estero rispetto a quelle
meno costose degli incentivi a un numero ristretto di
personale qualificato. Né la situazione risulterebbe diversa
rispetto agli appalti di servizi o forniture che presentano,
per loro natura, un livello di difficoltà tecnica nella
predisposizione di capitolati e bandi di gara, nonché nel
controllo sull'esecuzione delle prestazioni, non inferiore a
quelli dei lavori.
La seconda questione subordinata
In caso di risposta negativa da parte della Sezione delle
Autonomie, è necessario avere contezza delle concrete
modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici
devono adottare per osservare la regola dell'eventuale
sottoposizione degli incentivi previsti ai limiti del
salario accessorio posto dalla normativa (articolo 23, comma
2, del Dlgs n. 75 del 2017), tenendo presente che in caso di
soggezione a questi limiti la norma di finanza pubblica,
invece di avere un effetto di contenimento della spesa,
finisce non solo per decurtarla ma, addirittura, per
azzerarla, con l'effetto di un'impropria interpretazione
abrogante di una disposizione di incentivazione (articolo
113 del Dlgs n. 50 del 2016) che il legislatore non solo ha
confermato, ma anche esteso, con precisa scelta politica,
agli appalti di servizi e forniture (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 21.02.2018). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE:
Fuori dal fondo gli incentivi tecnici da fondi comunitari (in
attesa della sezione Autonomie).
Mentre alcune Sezioni regionali della Corte dei conti hanno sollecitato la
questione di massima alla Sezione delle Autonomie (si veda Il quotidiano
degli enti locali e della Pa del 21 febbraio), e si resta in attesa di una
decisione definitiva sulla inclusione o esclusione degli incentivi tecnici
dal fondo delle risorse decentrate, la Corte dei conti, Sezione regionale di
controllo per la Puglia (parere
09.02.2018 n. 18)
dichiara fuori dal fondo, in ogni caso, il pagamento degli incentivi tecnici
direttamente imputabili a finanziamenti con risorse a carico dei fondi
comunitari.
La richiesta del sindaco
In considerazione di una confusione generalizzata sulla inclusione o meno
degli incentivi tecnici nel fondo delle risorse decentrate, tanto da
spingere anche le parti sindacali e l'Aran a sottoscrivere una dichiarazione
congiunta, nell'attuale preintesa del contratto nazionale, con il forte
auspicio di una prossima decisione positiva da parte della Sezione delle
Autonomie nel considerarli al di fuori dei limiti del salario accessorio, un
sindaco interroga i magistrati contabili sulla conferma al momento che
almeno gli incentivi tecnici riferiti al pagamento del personale per le
attività finanziate da risorse europee siano da considerare al di fuori dei
limiti di crescita delle risorse decentrate.
Il sindaco, inoltre, precisa che il Comune non ha rispettato il patto di
stabilità del 2015 e che a tal fine intende fruire del regime derogatorio
previsto dall'articolo 23 del Dlgs 75/2017 secondo cui «gli enti locali
che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla
contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di
stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al
primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione
del personale in servizio nell'anno 2016».
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile pugliese precisa che, in merito al mancato rispetto
del patto di stabilità 2015, le risorse non destinate alle risorse
decentrate nell'anno 2016 rappresentano la sanzione espressamente comminata
dall'articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001 e come le risorse non
potranno essere utilizzate nell'anno 2016.
Tuttavia, il legislatore ha inserito per tutti gli enti che non avessero
potuto utilizzare le risorse variabili, di fare riferimento, nella
costituzione del fondo a partire dall'anno 2017, non al limite del fondo
dell'anno 2016, necessariamente ridotto rispetto a quello dell'anno 2015 a
seguito della sanzione disposta dal legislatore, ma a limite del valore del
fondo dell'anno 2015 diminuito in proporzione alla riduzione del personale
presente nell'anno 2016.
Avuto riguardo alla possibilità di non considerare all'interno del fondo
delle risorse decentrate gli incentivi tecnici, in base all'articolo 113,
comma 2, del Dlgs 50/2016, qualora gli incentivi risultino a carico dei
finanziamenti europei, il collegio contabile conferma quanto già indicato
dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 25.07.2017 n. 20 secondo cui «il
rispetto dei presupposti di ammissibilità ed eleggibilità della spesa
costituisca condizione sufficiente anche per legittimare l'ente ad escludere
le risorse comunitarie destinate alla valorizzazione della produttività
individuale del personale regionale addetto alla gestione e al controllo dei
fondi comunitari dalle limitazioni di spesa previste dall'art. 23, comma 2,
del d.lgs. n. 75/2017».
L'indicazione formulata nei confronti del personale regionale è chiaramente
estensibile anche al personale dei Comuni, a condizione che gli incentivi
ineriscano in via esclusiva a una spesa etero-finanziata con risorse
comunitarie, il personale individuato sia qualificato e individuato sin
dall'inizio per la sua spiccata professionalità, dovendo pur sempre essere
in presenza di attività di natura straordinaria e aggiuntiva rispetto a
quella ordinariamente resa dai dipendenti individuati.
In presenza di questi presupposti, a prescindere dalla successiva posizione
che assumerà la Sezione delle Autonomie, nella nuova questione di massima
sollecitata a fronte dell'intervento normativo operato dal legislatore con
la legge di bilancio 2018, sarà possibile sin dall'inizio considerare gli
incentivi al di fuori del fondo del salario accessorio (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.03.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Richiesta
di parere sulla applicazione dell’art. 23 D.Lgs. 75/2017 -
ai fini della determinazione del tetto del fondo delle
risorse decentrate del personale dipendente anno 2016 per
gli enti locali che non hanno rispettato il patto di
stabilità interno del 2015, nonché con riferimento agli
incentivi tecnici di cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016.
Il rispetto dei presupposti di
ammissibilità ed eleggibilità della spesa costituisce
condizione sufficiente per legittimare l’ente ad escludere
le risorse comunitarie destinate alla valorizzazione della
produttività individuale del personale regionale addetto
alla gestione e al controllo dei fondi comunitari dalle
limitazioni di spesa previste dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75/2017.
Concorrono, infatti, gli accennati requisiti dell’aggiuntività
e della straordinarietà degli incarichi, del vincolo di
destinazione qualificato e predeterminato,
dell’etero-finanziamento e dell’incremento
quali-quantitativo dei servizi connesso a prestazioni di
soggetti individuati o individuabili specificamente
documentabili.
Ne consegue, pertanto, che l’esclusione dal
limite del fondo degli incentivi tecnici finanziati con
risorse comunitarie è possibile a condizione che siano
rispettati i presupposti di ammissibilità ed eleggibilità
della spesa.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco della Città
Metropolitana di Bari richiede il parere di questa
Sezione in relazione alla portata applicativa dell’art. 23
del decreto legislativo 20.05.2017 nr. 75 ai fini della
determinazione del tetto del fondo delle risorse decentrate
del personale dipendente anno 2016 per gli enti locali che
non abbiano rispettato il patto di stabilità interno del
2015, nonché con riferimento agli incentivi tecnici di cui
all’art. 113 del d.lgs. 50/2016.
Nello specifico, il Sindaco chiede di conoscere:
- se l'Ente possa comunque avvalersi del regime derogatorio
voluto dal legislatore per gli enti locali al comma 2,
secondo periodo, del vigente art. 23 del decreto legislativo
20.05.2017 nr. 75.
Per l'effetto, si chiede conoscere se, ai fini della
costituzione del Fondo delle risorse decentrate dell'anno
2017, per la determinazione del tetto, tarato dalla legge al
precedente esercizio 2016, si possa annoverare anche
l'ammontare delle risorse variabili di cui all'art. 15,
comma 2, CCNL 01.04.1999 Comparto Regioni Autonomie locali,
che l'Ente ha comunque contabilizzato entro i limiti
consentiti in applicazione dell'art. 1, comma 236, legge
208/2015, ma prudenzialmente accantonato, in attesa di
chiarimenti sulle modalità di applicazione delle sanzioni
derivanti dal mancato conseguimento del patto di stabilità
nell'anno 2015 (esercizio, con riferimento al quale,
come detto, l'Ente ha applicato la limitazione prevista
dall'art. 40, comma 3-quinquies, del d.lgs. n. 165/2001);
- se, a seguito della pronuncia della Corte dei Conti, sez.
Autonomie, che con
deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha enunciato il
seguente principio di diritto (recentemente confermato con
deliberazione 10.10.2017 n. 24 Sezione Autonomie:
"Gli incentivi per funzioni tecniche di
cui all'articolo 113, comma 2 del d.lgs. n. 50/2016 sono da
includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all'articolo 1, comma 236, L. n. 208/2015 (legge di
stabilità 2016)",
nel solco dell'approdo ermeneutico della Sezione Autonomie (deliberazione
25.07.2017 n. 20), possano essere considerati
fuori dal limite del fondo anche gli incentivi tecnici di
cui all'articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016,
finanziati con risorse provenienti da fondi comunitari.
...
In particolare per quanto riguarda il primo quesito,
il Collegio sottolinea che l’art. 23 del d.lgs. 25.05.2017,
n. 75, recante Modifiche e integrazioni al decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16,
commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17,
comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q),
r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche prevede,
con formulazione assai simile alle disposizioni
vincolistiche precedenti, che "Nelle more di quanto
previsto dal comma 1, al fine di assicurare la
semplificazione amministrativa, la valorizzazione del
merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli
di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa,
assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a
decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare
il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A
decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della
legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che
non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive
alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto
del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare
complessivo delle risorse di cui al primo periodo del
presente comma non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016".
La disposizione di che trattasi, chiara ed univoca, si pone
in linea di continuità con la normativa vincolistica
precedente, di contenuto pressoché analogo, (art. 9, comma
2-bis, del d.l. n. 78/2010, art. 1, comma 236, legge n.
208/2015), prevedendo esplicitamente una deroga sull’anno di
riferimento per gli enti locali che, non avendo rispettato
il patto di stabilità 2015, non avevano destinato nel 2016
risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa.
Per quanto riguarda il quesito relativo alla
possibilità di includere, per la determinazione del tetto
relativo al Fondo risorse decentrate 2017, le risorse
variabili contabilizzate, non erogate e accantonate nel 2015
per effetto del mancato rispetto nel 2015 del patto di
stabilità e quindi non considerate nella costituzione del
fondo decentrato 2016, il Collegio ritiene
che, fermo
restando che la facoltà di incremento delle risorse
variabili è preclusa dalla vigente normativa in caso di
inosservanza del patto di stabilità e che l’interpretazione
delle norme contrattuali rientra nelle funzioni che il
legislatore ha attribuito all’ARAN (delib. Sezioni riunite
n. 56/CONTR/2011), per effetto dell’utilizzo della deroga di
cui sopra, l’ammontare dell’importo non
possa superare comunque il corrispondente importo del 2015,
ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale
in sevizio nell’anno 2016.
Con riferimento al quesito relativo alla possibilità
di considerare fuori dal limite del fondo anche gli
incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs.
n. 50/2016 finanziati con risorse provenienti da fondi
comunitari, occorre richiamare le deliberazioni già assunte
dalla Sezione Autonomie sull’argomento sopracitato:
- Con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, la Sezione
Autonomie della Corte ha enunciato il principio di diritto
secondo il quale gli incentivi tecnici di
cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 sono da
includere nel tetto dei trattamenti accessori;
- Con
deliberazione 25.07.2017 n. 20, la Sezione ha
enunciato i seguenti principi di diritto: “……si
può agevolmente notare come il rispetto dei presupposti di
ammissibilità ed eleggibilità della spesa costituisca
condizione sufficiente anche per legittimare l’ente ad
escludere le risorse comunitarie destinate alla
valorizzazione della produttività individuale del personale
regionale addetto alla gestione e al controllo dei fondi
comunitari dalle limitazioni di spesa previste dall’art. 23,
comma 2, del d.lgs. n. 75/2017. Concorrono, infatti, gli
accennati requisiti dell’aggiuntività e della
straordinarietà degli incarichi, del vincolo di destinazione
qualificato e predeterminato, dell’etero-finanziamento e
dell’incremento quali-quantitativo dei servizi connesso a
prestazioni di soggetti individuati o individuabili
specificamente documentabili.”.
Ne consegue, pertanto, che l’esclusione dal
limite del fondo degli incentivi tecnici finanziati con
risorse comunitarie è possibile a condizione che siano
rispettati i presupposti di ammissibilità ed eleggibilità
della spesa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 09.02.2018 n. 18). |
NEWS |
SICUREZZA
LAVORO: Appalti,
emergenze gestite da tutti i datori di lavoro. La risposta della commissione
per gli interpelli sulla sicurezza.
La gestione delle emergenze negli appalti è un processo di cui sono
compartecipi tutti i datori di lavoro: committente, appaltatori e
subappaltatori. Il committente ha il ruolo di promotore, l'appaltatore (e
subappaltatori) l'obbligo di attenersi alle procedure operative approvate.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro
nell'interpello
28.02.2018 n. 1/2018, prot. n. 3460, rispondendo a un quesito
dell'Anip (associazione nazionale delle imprese di pulizia).
Tre questioni.
Tre i quesiti, tutti basati sulla situazione speciale in cui operano le
imprese associate dell'Anip (imprese di pulizia): l'indisponibilità dei
luoghi di lavoro. Infatti, l'attività è svolta sulla base di appalti di
pulizia, per cui le imprese erogano servizi a committenti senza avere la
disponibilità giuridica ed esclusiva dei luoghi di lavoro, ma utilizzando
locali del committente (spogliatoi, magazzini, uffici) e, soprattutto,
erogando i servizi in vari ambienti (stanze, hall, corridoi ecc.) di
proprietà esclusiva del committente. L'Anip ha posto tre quesiti.
Innanzitutto ha chiesto di sapere se, per un datore di lavoro che svolge le
proprie attività esclusivamente in unità produttive di un datore di lavoro
committente, l'obbligo della gestione delle emergenze (art. 18, comma 1,
lett. b, del dlgs 81/2008, il T.u. sicurezza) possa ritenersi assolto
attraverso la presa d'atto che il committente ha predisposto un Piano
generale delle emergenze (Pge) che coinvolge anche eventuali lavoratori di
aziende terze.
In secondo luogo ha chiesto di sapere se le squadre di emergenza e primo
soccorso del committente possano considerarsi sufficienti a tutelare tutti i
soggetti, anche appaltatori, presenti nei luoghi di lavoro.
Infine, ha chiesto di sapere se la presa d'atto che il committente ha
predisposto un Pge possa avvenire nell'ambito delle attività di cooperazione
e coordinamento delle misure di prevenzione e protezione (art. 26 T.u.
sicurezza). In poche parole, l'Anip chiede di sapere se le imprese di
pulizia, per il fatto di non avere luoghi di lavoro propri e di operare
esclusivamente mediante appalti esterni, possano ritenersi esonerate dagli
obblighi di predisposizione delle misure di prevenzione e di gestione delle
emergenze (art. 18 T.u. sicurezza).
I chiarimenti. La
commissione ricorda, innanzitutto, di non poter rispondere a casi specifici
(come ritiene i tre quesiti), per cui formula chiarimenti generali. Per
quanto attiene agli obblighi di cui all'art. 18, comma 1, lett. b, del T.u.
sicurezza, spiega, non v'è dubbio che anche il datore di lavoro che operi
presso i luoghi di lavoro di un committente sia tenuto all'adempimento degli
obblighi relativi a rischi specifici della propria attività che possano dar
luogo a situazioni d'emergenza come, ad esempio, nel caso di utilizzo di
sostanze, attrezzature o materiali pericolosi.
D'altra parte, aggiunge la commissione, tenendo conto di quanto previsto
dallo stesso T.u. (art. 26, comma 1, lett. b), il committente, in caso di
affidamento di lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi
all'interno della propria azienda, è tenuto a fornire «agli stessi
soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti
nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione
e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2018). |
ENTI LOCALI: Lombardia,
Emilia e Veneto pigliatutto sull'ambiente.
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pigliatutto in materia
ambientale. Alle tre regioni che mercoledì hanno firmato con il governo
l'accordo preliminare per il trasferimento di ulteriori fette di autonomia,
ai sensi dell'art. 116 Cost., andranno molte delle funzioni amministrative
in materia ambientale oggi esercitate dai comuni e soprattutto dalle
province.
Come per esempio l'individuazione delle zone idonee alla localizzazione
degli impianti di smaltimento rifiuti. O il controllo periodico su tutte le
attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti. O ancora
l'irrogazione delle sanzioni in materia di gestione dei rifiuti e di
bonifica dei siti contaminati. Senza dimenticare i controlli in materia di
inquinamento acustico ed elettromagnetico.
Tali funzioni saranno trasferite alle regioni che poi potranno allocarle
diversamente con una legge ad hoc, anche disciplinandone lo
svolgimento attraverso propri enti e agenzie strumentali. Tutto in ogni caso
si deciderà quando saranno approvate le leggi statali che dovranno recepire
le intese sottoscritte dai tre presidenti (Roberto Maroni, Luca Zaia e
Stefano Bonaccini) con il sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio
Bressa.
Il percorso verso il trasferimento di maggiori poteri (oltre alla tutela e
alla valorizzazione dell'ambiente, le tre regioni apripista avranno
ulteriori competenze in materia di tutela della salute, istruzione, tutela
del lavoro e rapporti internazionali) sarà comunque ancora lungo e
complesso. Perché per essere ratificata ciascuna intesa avrà di una legge
che le camere dovranno approvare a maggioranza assoluta dei propri
componenti. L'iniziativa politica per tradurre in norme le intese spetterà
al prossimo governo.
Il procedimento sarà lo stesso seguito per recepire gli accordi tra Stato e
confessioni religiose ai sensi dell'art. 8 Cost. Le intese dovranno essere
sottoposte all'esame del consiglio dei ministri ai fini dell'autorizzazione
alla firma da parte del presidente del consiglio. Dopo la firma del premier
saranno trasmesse al parlamento per la loro approvazione con legge
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).
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Il Governo della Repubblica Italiana firma con le Regioni
Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto l’accordo preliminare su maggiori forme
di autonomia ai sensi dell’art. 116, comma terzo, della Costituzione.
L'intesa fra il Governo e la Regione Lombardia per la
concessione di forme di autonomia differenziata, sottoscritta il 28 febbraio
a Palazzo Chigi è stata pubblicata sul sito del Dipartimento degli Affari
Regionali e le Autonomie.
Si riporta di seguito il testo integrale dell'accordo
28.02.2018 Governo-Regione Lombardia. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Contratti
locali con atto fai-da-te. Se manca il consenso e c'è pregiudizio all'azione
dell'ente. Il nuovo Ccnl prevede norme ad hoc in
caso di stallo nelle trattative sulle risorse.
La
preintesa del Ccnl enti locali chiarisce le procedure per
giungere alla stipulazione dei contratti decentrati e pone le basi per
adottare comunque l'atto unilaterale nel caso in cui manchi il consenso tra
le parti e spiri il termine delle sessioni contrattuali.
È l'articolo 8 a interessarsi dei tempi procedurali e ad attuare le
previsioni contenute nell'articolo 40, comma 3-ter, del dlgs 165/2001,
stabilendo casi e modi per l'adozione dell'atto unilaterale in caso di
stallo irrimediabile delle trattative.
La norma distingue due tempistiche. La prima è legata alle materie oggetto
dell'obbligo di contrattare ma non di stipulare, elencate dall'articolo 7,
comma 4, lettere k), l), m), n), o), p), q) , r), s), t). Le parti sono
tenute ad instaurare trattative, ma non necessariamente a convenire sui
contenuti. Per questa ragione, il comma 4 dell'articolo 8 della preintesa
stabilisce che «decorsi 30 giorni dall'inizio delle trattative,
eventualmente prorogabili fino a un massimo di ulteriori 30 giorni, non si
sia raggiunto l'accordo, le parti riassumono le rispettive prerogative e
libertà di iniziativa e decisione».
Più delicata è la questione delle materie soggette a obbligo non solo a
contrattare, ma anche a stipulare, elencate dall'articolo 7, comma 4,
lettere a), b), c), d), e) f), g), h), i), j), u), v), w). Si tratta
sostanzialmente delle materie attinenti alla destinazione delle risorse, che
richiedono necessariamente il consenso tra le parti. Consenso, tuttavia, che
non sempre si riesce a raggiungere in tempi accettabili, ai fini anche delle
responsabilità amministrative e contabili.
In questo caso, il comma 5 dell'articolo 8 della preintesa prevede che
qualora «il protrarsi delle trattative determini un oggettivo pregiudizio
alla funzionalità dell'azione amministrativa, nel rispetto dei principi di
comportamento di cui all'art. 10, l'ente interessato può provvedere, in via
provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva
sottoscrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire in tempi celeri
alla conclusione dell'accordo. Il termine minimo di durata delle sessioni
negoziali di cui all'art. 40, comma 3-ter del dlgs n. 165/2001 è fissato in
45 giorni, eventualmente prorogabili di ulteriori 45».
Dunque, vi sono due possibilità per ovviare al mancato accordo. La prima è
rilevare pregiudizi all'attività amministrativa, motivando adeguatamente
l'iniziativa unilaterale. La seconda è il superamento dei 45 giorni, più
eventuali altri 45 (non è chiaro come giungere alla proroga del termine); in
questo caso il mero dato del superamento del termine consente comunque agli
enti di avvalersi dell'atto unilaterale, dal momento che l'articolo 40,
comma 3-ter, del dlgs 165/2001 dispone che «i contratti collettivi nazionali
possono individuare un termine minimo di durata delle sessioni negoziali in
sede decentrata, decorso il quale l'amministrazione interessata può in ogni
caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato
accordo».
La preintesa si è avvalsa della facoltà concessa ai Ccnl dalla legge e,
quindi, le amministrazioni, spirato il termine minimo di durata delle
sessioni negoziali possono «in ogni caso», quindi anche in assenza di
pregiudizio dell'azione amministrativa, ovviare allo stallo delle trattative
con un atto unilaterale, che comunque resta provvisorio: rimane fermo
l'obbligo di perseguire il consenso anche dopo, così da sostituire l'atto
unilaterale con un contratto, proseguendo le trattative
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Performance,
caos sulle relazioni sindacali.
Confusione sulle relazioni sindacali riguardanti la
valutazione dei risultati.
La
preintesa del Ccnl delle funzioni locali se da un lato rimedia ai
vuoti creati dalla riforma Brunetta elencando le materie di confronto (ex
concertazione) e contrattazione in modo esaustivo, dall'altro produce un
certo senso di disagio operativo, quando tratta della questione della
performance. Una prima relazione sindacale contemplata sul tema è quella di
cui all'articolo 5, comma 3, lettera b), ai sensi del quale le parti si
confrontano appunto sui criteri generali dei sistemi di valutazione della
performance.
La previsione rispolvera le relazioni sindacali precedenti, sempre limitate
alla concertazione (che non richiede la stipulazione di un accordo
decentrato, ma si limita ad un confronto del quale dare conto in un verbale
finale), poiché la definizione delle modalità per valutare i risultati dei
dipendenti ha una chiara provenienza datoriale, tendenzialmente unilaterale.
Tuttavia, si parla di valutazione anche nella disposizione che elenca le
materie della contrattazione: l'articolo 7, comma 4, lettera b), assegna a
tale relazione sindacale il compito di definire «i criteri per
l'attribuzione dei premi correlati alla performance».
In apparenza i «criteri generali dei sistemi di valutazione» e i «criteri
per l'attribuzione dei premi correlati alla performance» sono la stessa
cosa. Per uscire dalla confusione derivante dalla lettura veloce delle
norme, però, occorre agganciare quanto previsto dall'articolo 7, comma 4,
lettera b), della preintesa ai successivi articoli attualmente numerati al
numero 68, comma 3 e 69, commi 2 e 3. Tali disposizioni regolano le modalità
per differenziare i premi di risultato dei dipendenti, una volta abbandonato
il sistema delle fasce, per effetto della modifica dell'articolo 19 del dlgs
150/2009 operata dalla riforma Madia.
L'articolo 68, comma 3, della preintesa dispone che le risorse di parte
variabile del fondo debbano essere destinate al salario accessorio vero e
proprio: premi individuali e di gruppo, indennità legate a determinate
condizioni di lavoro (disagio, rischio, maneggio valori), turno,
reperibilità, specifiche responsabilità, comprese quelle particolari per gli
agenti di polizia municipale. Ed è la contrattazione decentrata a
determinare gli importi da destinare a questi scopi, al netto delle
progressioni orizzontali, dell'indennità di comparto e altre specifiche
indennità indicate dal comma 1 del medesimo articolo 68. Almeno il 30% delle
risorse da destinare va riservato al risultato individuale.
Sempre la contrattazione, dunque, dovrà stabilire la misura delle
destinazioni per le altre voci. Il comma 2 dell'articolo 69 della preintesa,
inoltre, dispone che la misura della maggiorazione spettante ai dipendenti
ai quali sarà attribuita una valutazione comparativamente più elevata è
«definita in sede di contrattazione integrativa» con la precisazione che
«non potrà comunque essere inferiore al 30% del valore medio pro capite dei
premi attribuiti al personale valutato positivamente ai sensi del comma 1».
Il successivo comma 3 rimette sempre alla contrattazione integrativa il
compito di definire preventivamente «una limitata quota massima di personale
valutato» al quale assegnare la maggiorazione vista prima.
È, quindi, possibile uscire dall'equivoco cui possono indurre le materie di
confronto e concertazione. Il confronto, come sempre, riguarda il sistema di
valutazione permanente. La contrattazione riguarda esclusivamente la
destinazione delle risorse prevista dall'articolo 68, comma e la
differenziazione dei premi
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018). |
APPALTI: Fuori
gara solo con illecito certo. Il provvedimento Antitrust deve essere
inoppugnabile. L'Autorità garante per la concorrenza
e il mercato prende le distanze dall'Anac.
Per la valutazione degli illeciti antitrust come causa di esclusione dalle
gare di appalto occorre fare riferimento all'inoppugnabilità del
provvedimento sanzionatorio e non alla mera irrogazione della sanzione.
È quanto suggerisce l'Autorità garante della concorrenza e del mercato nel
parere 13.02.2018 n. AS1474 (pubblicato sul bollettino n. 6 del
19.02.2018) e riguardante le linee guida dell'Autorità nazionale
anticorruzione n. 6 inerenti i gravi illeciti professionali.
L'attenzione dell'Agcm si sofferma in particolare sulla parte delle linee
guida Anac che citano come elemento indiziale di illecito professionale
l'essere stato destinatario di «provvedimenti esecutivi dell'Autorità
garante della concorrenza e del mercato di condanna per pratiche commerciali
scorrette e per illeciti antitrust gravi aventi effetti sulla
contrattualistica pubblica e posti in essere nel medesimo mercato oggetto
del contratto da affidare».
Si tratta di provvedimenti che si sostanziano in sanzioni e le linee guida
Anac precisano che la stazione appaltante potrà eventualmente disporre
l'esclusione del concorrente all'esito di un contraddittorio e valutando
anche eventuali misure di self-cleaning adottate dall'operatore
idonee a dimostrare la sua integrità o affidabilità nell'esecuzione
dell'affidamento, nonostante l'esistenza di una causa ostativa.
Nessun automatismo, quindi, ma una valutazione caso per caso. L'Authority
presieduta da Giovanni Pitruzzella esprime una valutazione positiva rispetto
alla scelta compiuta dall'Anac di individuare negli illeciti antitrust
ipotesi di gravi illeciti professionali idonei a determinare l'esclusione di
un concorrente da una gara. Infatti, ad avviso dell'Autorità della
concorrenza, «una simile ipotesi, oltre che conforme alla normativa
europea, appare idonea ad assicurare un adeguato effetto di deterrenza nella
commissione di illeciti antitrust nell'ambito di gare pubbliche».
Però l'Agcm rileva un profilo di criticità nel passaggio delle linee guida
Anac in cui si attribuisce rilievo al provvedimento meramente «esecutivo»
dell'Autorità – e non più ai «provvedimenti di condanna divenuti
inoppugnabili o confermati con sentenza passata in giudicato» come recitava
la precedente versione delle Linee guida. La criticità viene collegata al
contenuto del comma 10 dell'articolo 80 del codice appalti che ha fissato la
durata della causa di esclusione in tre anni decorrenti dalla data del suo «accertamento
definitivo».
E in questo caso, si legge nel parere, si deve fare riferimento a quanto ha
osservato il Consiglio di stato nel parere n. 2286/2016 che ha individuato
la data «non già del fatto ma del suo accertamento giudiziale definitivo».
Da qui la proposta dell'Agcm, «per evitare una proliferazione del
contenzioso e continui effetti sulle gare in corso derivanti dal possibile
esito divergente dei giudizi», di individuare la data dell'accertamento
definitivo non in quella del provvedimento esecutivo dell'Autorità (che non
è definitivo), ma in quello dell'intervenuta inoppugnabilità
dell'accertamento da parte dell'Autorità (nell'ipotesi di provvedimenti non
impugnati) o nella pronuncia definitiva del giudice amministrativo (in caso
di impugnazione).
Infine nel suo parere l'Agcm suggerisce, ai fini della valutazione di
comportamenti di self-cleaning anche ad elementi quali la
sostituzione del management responsabile dell'illecito (anche accompagnato
dall'avvio di azioni di responsabilità nei confronti dello stesso), alla
dotazione di efficaci programmi di compliance, nonché all'adesione a
programmi di clemenza che hanno consentito l'accertamento dell'illecito o
che consentano l'accertamento di altri illeciti
(articolo
ItaliaOggi del 02.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Nuove
norme tecniche per le costruzioni. Si applicheranno dal 22 marzo. Ma sono
previste deroghe.
Nuove norme tecniche per le costruzioni applicabili dal 22.03.2018 ma si
andrà con le vecchie Ntc del 2008 per lavori in corso di esecuzione, per
lavori e progettazioni affidate prima del 22.03.2018; per le opere private
il discrimen sarà l'avvenuto deposito del progetto esecutivo.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo che si possono desumere
dalla lettura del decreto del ministero delle infrastrutture del 17.01.2018
con il quale si è provveduto ad aggiornare le norme tecniche per le
costruzioni che datavano 2008.
Il provvedimento, giunto al traguardo dopo una lunga gestazione, entrerà in
vigore il 22.03.2018 ed è importante comprendere bene la disciplina
transitoria che è stata definita in funzione dello stato delle opera che si
sta realizzando e della tipologia di committenza, pubblica a privata. La
disciplina transitoria è riportata all'articolo 2 del decreto siglato dal
ministro Delrio.
Per le per le «opere pubbliche o di pubblica utilità» viene previsto
che la disciplina previgente (le Ntc del 2008) rimarrà in vigore
limitatamente a quelle in corso di esecuzione, per i contratti pubblici di
lavori già affidati, nonché per i progetti definitivi o esecutivi già
affidati prima della data di entrata in vigore delle Ntc 2018, cioè prima
del 22 marzo.
Si tratta quindi di un criterio molto ampio basato sul principio che prende
in considerazione anche la fase di affidamento dell'incarico di
progettazione dal momento che il soggetto che ha partecipato alla gara per
la progettazione aveva studiato la propria offerta con riguardo alla
normativa tecnica vigente al momento dell'indizione della gara.
Tutto ciò, però, con una importante precisazione relativa ai contratti di
appalto o di concessione di lavori già affidati e ai progetti definitivi o
esecutivi già affidati ante 22.03.2018: le vecchie norme saranno applicabili
ma a condizione che sia disposta la «consegna dei lavori entro cinque
anni dalla data di entrata in vigore delle norme tecniche per le costruzioni»,
quindi entro il 22.03.2023.
Diverso è invece il discorso quando il committente dell'opera è privato ; in
questo caso il comma 2 dell'articolo 2 del decreto stabilisce che per le
opere private le cui opere strutturali siano in corso di esecuzione o per le
quali sia già stato depositato il progetto esecutivo, ai sensi delle vigenti
disposizioni, presso i competenti uffici prima della data di entrata in
vigore delle Norme tecniche per le costruzioni si possono continuare ad
applicare le previgenti Norme tecniche per le costruzioni fino
all'ultimazione dei lavori ed al collaudo statico degli stessi. L'elemento
distintivo è quindi quello del deposito del progetto esecutivo.
Nel merito è stata posta una maggiore attenzione ai profili inerenti le
cosiddette verifiche di duttilità e alle modalità di calcolo delle
componenti secondarie e non strutturali. Per quel che concerne le verifiche
delle strutture prefabbricate le nuove Ntc prevedono criteri di verifica più
severi di quelle precedenti. Risultano più stringenti i criteri per le prove
di accettazione dei materiali in cantiere
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2018). |
PATRIMONIO: Antincendio,
nessuna proroga. Oltre la metà delle scuole ora rischia la chiusura. Nuova
tegola sui presidi, i termini per la messa a norma sono scaduti a dicembre
2017.
Oltre la metà dei 42 mila
edifici scolastici è senza certificazione antincendi. Scuole che rischiano
di essere chiuse al pur minimo sopralluogo degli enti di vigilanza.
A lanciare l'allarme sono i presidi le cui associazioni sollecitano un
intervento del ministero dell'istruzione presso il dipartimento dei vigili
del fuoco. «Perché venga emanato un decreto ad hoc che consenta agli enti
proprietari di procedere al progressivo adeguamento alla norma degli edifici
scolastici, magari con step triennali in analogia a quanto già avviene per
le strutture sanitarie», scrive sul punto per esempio l'Andis.
La preoccupazione dei presidi nasce dalla mancata approvazione nella legge
di Bilancio 2018 della proroga dei termini per la messa a norma antincendio
delle scuole, scaduta il 31.12.2017. Esponendo così alle sanzioni previste
dalla legge i dirigenti scolastici e gli enti proprietari degli edifici,
cioè comuni per le scuole dell'infanzia, le primarie e le medie e le
province per le superiori.
Si teme, in particolare, che presto un'altra tegola possa abbattersi sulle
scuole dopo la sentenza della Corte di Cassazione (n. 190) che, il 1°
gennaio, ha sancito il principio che gli edifici scolastici non in regola
con le norme antisismiche vanno chiuse immediatamente, senza possibilità per
il sindaco di opporsi. Ecco i dati dell'ultimo Rapporto Ecosistema Scuola di
Legambiente: 52,6% di scuole prive della certificazione di prevenzione
incendi. Dato non molto diverso dal 54% fornito nel 2016 dalla Struttura di
missione sull'edilizia scolastica di Palazzo Chigi. Sebbene la norma che
imponeva alle scuole di dotarsi della certificazione antincendio risalga al
1992, ben 25 anni fa.
La scadenza per l'adeguamento era stata fissata inizialmente al 31.12.1997,
poi sempre prorogata di anno in anno. Fino al 31 dicembre scorso, appunto. «Se
è vero che», spiega Cittadinanzattiva, «negli ultimi 15 anni
l'incidenza di incendi è stata in percentuale di poco superiore allo zero,
rispetto invece a quella di crolli di solai e controsoffitti, soprattutto
per carenze manutentive, o di cedimenti strutturali per mancanti interventi
strutturali o non adeguamento sismico, occorre considerare altri aspetti non
secondari previsti dalla apposita normativa antincendio». Come
l'installazione di scale di emergenza per gli edifici a più piani, un certo
numero di vie d'uscita e parametri stringenti rispetto al numero di alunni
per aula. Provvedimenti che continuano ad essere disattesi.
Sebbene il 07.08.2017 il ministero dell'interno abbia approvato il decreto
su una nuova normativa di prevenzione incendi per le scuole nuove ed
esistenti con più di 100 persone basata sull'approccio prestazionale, che
supera i rigidi obblighi che caratterizzavano le norme precedenti e le
rendevano spesso di difficile applicazione. Una nuova normativa facoltativa
e alternativa a quella del 1992.
Scaduto lo scorso gennaio il termine per adeguarsi, dunque, comuni e
province dovranno necessariamente eseguire i lavori prescritti dalla norma
per il rilascio del certificato di prevenzione incendi. Una questione su cui
l'usr Emilia Romagna, insieme alla città metropolitana di Bologna ha chiesto
e ottenuto un incontro con il prefetto di Bologna Matteo Piantedosi.
Su proposta di questo ultimo si è concordato, spiega il direttore dell'usr
Stefano Versari, l'istituzione di un tavolo tecnico che monitori gli
interventi e «definisca, se del caso, una scansione temporale fattibile
degli adempimenti, secondo un criterio di gradualità che parta dalla
definizione delle priorità fra le varie strutture scolastiche»
(articolo
ItaliaOggi del 27.02.2018 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
edilizio, Iva ridotta con distinguo tra interventi.
La chiave per individuare il corretto regime per i lavori sul patrimonio
immobiliare.
Gli interventi rivolti al recupero del patrimonio edilizio beneficiano
dell'aliquota Iva ridotta del 10%. L'agevolazione ha però una portata
diversa a seconda del tipo di intervento: più ampia per i lavori
impegnativi, meno per le semplici manutenzioni (si veda la tabella in
pagina), in relazione alle quali è inoltre previsto il meccanismo limitativo
dei «beni significativi», oggetto di disposizioni integrative con la recente
legge n. 205/2017.
La chiave per individuare la natura dell'intervento edilizio e, di riflesso,
il regime Iva, è l'articolo 31, primo comma, della legge 05.08.1978, n. 457,
che elenca e definisce le seguenti tipologie: lettera a): manutenzioni
ordinarie; lettera b): manutenzioni straordinarie; lettera c): restauro e
risanamento conservativo; lettera d): ristrutturazione edilizia; lettera e):
ristrutturazione urbanistica.
L'agevolazione sulle manutenzioni.
Sugli interventi edilizi di livello inferiore, ossia le manutenzioni
ordinarie e straordinarie, l'aliquota del 10%, prevista dall'art. 7, lett.
b), della legge n. 488/1999, si applica soltanto alle prestazioni di servizi
realizzate su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata, e
dunque ha una portata più ristretta rispetto all'agevolazione prevista per
gli interventi di grado superiore dalle disposizioni della tabella A, parte
III, allegata al dpr n. 633/1972. È inoltre previsto, come si diceva, un
meccanismo limitativo nel caso in cui l'intervento sia realizzato con
l'impiego dei c.d. «beni significativi» (si veda l'articolo nella pagina
seguente).
Gli interventi di manutenzione rispondono alle seguenti definizioni fornite
dalle lettere a) e b) dell'art. 31 della legge n. 457/1978:
a) sono interventi di manutenzione ordinaria quelli che riguardano
le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli
edifici e quelli necessari a integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti;
b) sono interventi di manutenzione straordinaria le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali
degli edifici, nonché per realizzare e integrare i servizi igienico-sanitari
e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi
anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità
immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si
mantenga l'originaria destinazione d'uso.
In relazione alle modifiche apportate alle suddette definizioni dal dl n.
133/2014, si vedano le osservazioni formulate dal Consiglio nazionale del
notariato nello studio tributario n. 851-2014.
Edifici agevolabili.
L'agevolazione è applicabile soltanto agli interventi di manutenzione
eseguiti su «fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata»,
nozione che secondo l'amministrazione comprende: le singole unità
immobiliari classificate catastalmente nelle categorie da A1 ad A11, esclusa
la A10 (uffici e studi privati), indipendentemente dall'utilizzo di fatto;
vale pertanto la classificazione in catasto; gli edifici di edilizia
residenziale pubblica, adibiti a dimora di soggetti privati; gli edifici
destinati a residenza stabile di collettività, quali orfanotrofi,
brefotrofi, ospizi, conventi; le parti comuni di fabbricati destinati
prevalentemente ad abitazione privata, intendendo tali gli edifici la cui
superficie totale dei piani fuori terra è destinata per oltre il 50% a uso
abitativo privato; le pertinenze immobiliari (autorimesse, soffitte, cantine
ecc.) delle unità abitative, anche se ubicate in edifici destinati
prevalentemente a usi diversi.
Sono quindi escluse dall'agevolazione le unità immobiliari non abitative
(negozi, uffici ecc.), anche se situate in edifici a prevalente destinazione
abitativa.
Operazioni agevolate.
L'aliquota agevolata si applica alle «prestazioni» di manutenzione ordinaria
e straordinaria, per cui dovrebbero ritenersi escluse dal beneficio le
operazioni qualificabili «cessioni» di beni, ancorché accompagnate da una
prestazione di servizi accessoria, per esempio la posa in opera. Nella
circolare n. 71/2000, tuttavia, l'amministrazione ha sostenuto che «in
considerazione della ratio dell'agevolazione deve ritenersi che
l'aliquota Iva ridotta competa anche nell'ipotesi in cui l'intervento di
recupero si realizzi mediante cessione con posa in opera di un bene, poiché
l'apporto della manodopera assume un particolare rilievo ai fini della
qualificazione dell'operazione. L'applicazione dell'aliquota agevolata non è
preclusa dalla circostanza che la fornitura del bene assuma un valore
prevalente rispetto a quello della prestazione.
Ciò si evince dal fatto che lo stesso legislatore, disciplinando
l'applicazione dell'agevolazione in relazione ad alcuni beni cosiddetti di
valore significativo, ha contemplato l'ipotesi in cui il valore dei beni
forniti nell'ambito dell'intervento sia prevalente rispetto a quello della
prestazione. La circostanza, inoltre, che soltanto in relazione ad alcuni di
tali beni la legge ponga dei limiti per l'applicazione dell'agevolazione,
comporta che l'aliquota del 10% si applica agli altri beni forniti dal
prestatore (dovendosi ritenere tale, ai fini della agevolazione in esame,
anche colui che effettua la semplice posa in opera), a prescindere dal loro
valore.
Per esempio, la sostituzione degli infissi interni ed esterni consiste in un
lavoro edile che, a seconda che venga o meno mutato il materiale rispetto a
quello degli infissi preesistenti, configura una prestazione di manutenzione
straordinaria o ordinaria e quindi un intervento di recupero agevolato.
Conseguentemente, gli infissi che vengano forniti dal soggetto che esegue la
relativa prestazione di sostituzione rientrano nell'ambito della previsione
agevolativa entro i limiti previsti per i beni di valore cosiddetto
significativo. L'aliquota del 10%, invece, non si rende applicabile se i
beni, anche se finalizzati a essere impiegati in un intervento di
manutenzione ordinaria o straordinaria, vengono forniti da un soggetto
diverso da quello che esegue la prestazione, o vengano acquistati
direttamente dal committente dei lavori».
Questa posizione, che sembrava essere stata ridimensionata dalla circolare
n. 36 del 31.05.2007, è stata confermata dall'Agenzia delle entrate con nota
del 22.05.2014, n. 954-31/2014, ove è stato dichiarato che alle cessioni con
posa in opera di stufe a pellet, effettuate nell'ambito di interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria su immobili abitativi, si applica
l'aliquota del 10%: con le limitazioni per i beni significativi, se la stufa
è qualificabile come caldaia in quanto genera calore da utilizzare per
riscaldare l'acqua che alimenta il sistema di riscaldamento, oltre che per
produrre acqua sanitaria; senza le suddette limitazioni, qualora invece la
stufa non sia qualificabile come caldaia in quanto non alimenta il sistema
di riscaldamento, ma riscalda soltanto l'ambiente «per irraggiamento».
Da ultimo, l'orientamento è stato ribadito con risoluzione n. 25/E del
06.03.2015, riguardante il trattamento applicabile alle operazioni poste in
essere da imprese artigiane che, sulla base di contratti di appalto
commissionati dagli utenti finali, producono infissi su misura per poi
installarli, operazioni che, secondo la risoluzione, sono riconducibili alla
figura della cessione con posa in opera, dove l'obbligazione di dare
(cessione) prevale su quella di fare (prestazioni di servizi). Lo scopo
dell'impresa artigiana è, infatti, quello di produrre infissi in serie con
caratteristiche standardizzate, seppur tenendo conto di semplici variazioni
di misura in relazione alle specifiche esigenze di ogni singolo cliente, e
di cederli con posa accessoria.
Successivamente, con risoluzione n. 15/E del 04.03.2013 è stato chiarito che
l'agevolazione si applica anche alla revisione periodica dell'impianto di
riscaldamento, sia condominiale che individuale, destinato al servizio di
edifici a prevalente destinazione abitativa. Va ricordato che, nonostante la
legge agevoli genericamente le prestazioni di servizi, l'amministrazione,
seguendo una prassi consolidata, ha dichiarato che l'aliquota ridotta non è
applicabile alle prestazioni di natura professionale; sulle parcelle di
ingegneri, geometri, architetti ecc., quindi, l'Iva è dovuta nella misura
ordinaria del 22%.
È da ritenere, inoltre, che siano escluse dall'agevolazione le prestazioni
di servizi che non possono assolutamente inquadrarsi tra gli interventi
edilizi come definiti dalla legge, come la pulizia delle scale e delle altre
parti comuni degli edifici condominiali, oppure gli interventi su giardini
(articolo
ItaliaOggi Sette del 26.02.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
metallici, obblighi doc. Oneri modulati in base alla complessità
dell'attività. Decreto del ministero dell'ambiente
introduce un regime semplificato per la microraccolta.
Raccolta e trasporto di rifiuti metallici solo dietro
autorizzazione, ma con adempimenti modulati in base alla effettiva
complessità dell'attività.
Con decreto direttoriale 01.02.2018 il ministero dell'ambiente ha dettato le
semplificazioni burocratiche per chi effettua le operazioni in parola in
modalità di microraccolta, ossia mediante prelievo sequenziale dei residui
da più detentori e relativo trasporto in unica soluzione ed in giornata
verso l'impianto di destinazione, così inserendo un ulteriore tassello nella
riformulazione della disciplina sulla gestione residui metallici avviata con
il dlgs 205/2010.
Il contesto normativo.
L'attività oggetto di semplificazione ministeriale è quella rientrante nella
più generale «microraccolta» indicata dal comma 11 dell'attuale versione
dell'articolo 193 del dlgs 152/2006 come «la raccolta di rifiuti da parte di
un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori
svolta con lo stesso automezzo». Ai sensi della stessa norma del Codice
ambientale tale attività dev'essere effettuata nel più breve tempo
tecnicamente possibile e nei relativi formulari di trasporto devono essere
indicate, nello spazio relativo al percorso, tutte le tappe intermedie
previste, con indicazione a cura del trasportatore del percorso realmente
effettuato in caso di variazioni.
Ferma restando tale previsione codicistica, fonte delle neo semplificazioni
per l'esercizio delle attività di raccolta e trasporto dei rifiuti di
metalli ferrosi e non ferrosi è però la recente legge 124/2017 (il
provvedimento annuale sul mercato e la concorrenza) che ha affidato,
rispettivamente, al Minambiente la definizione di adempimenti light per
poter svolgere le operazioni ed all'Albo nazionale gestori ambientali
l'individuazione (entro 30 giorni dalla vigenza del primo provvedimento)
delle modalità semplificate per l'iscrizione allo stesso, nonché dei
quantitativi annui massimi di residui gestibili.
Nell'ambito di tale cornice normativa, il neo decreto direttoriale (G.U.
08.02.2018 n. 32) introduce per i rifiuti in parola il primo dei due citati
«pacchetti» di semplificazioni, coincidenti con un alleggerimento degli
obblighi relativi alla tenuta del formulario di trasporto dei rifiuti (il
documento che deve tracciare la movimentazione dei residui) e ai registri di
carico/scarico (i documenti che identificano dal punto di vista
quali/quantitativo e detentivo i rifiuti fin dalla loro produzione).
Le semplificazioni.
Il regime light interessa i soggetti che effettuano attività di raccolta e
trasporto di rifiuti non pericolosi di metalli ferrosi e non ferrosi a
condizione che ciò avvenga:
- presso più produttori/detentori;
- con lo stesso automezzo;
- nell'ambito della stessa giornata in cui ha avuto inizio;
- previa iscrizione all'Albo gestori ambientali in via ordinaria ex
articolo 212, comma 5, del dlgs 152/2006 o semplificata (ex emanande citate
nuove regole del Comitato nazionale dell'Albo).
Tra le semplificazioni garantite vi è quella relativa alla documentazione
del trasporto: in luogo dell'ordinario formulario di trasporto rifiuti ex
articolo 193 del dlgs 152/2006 e dm 145/1998 è consentito per ogni raccolta
effettuata presso un numero massimo di 10 produttori/utilizzatori
consecutivi l'utilizzo di un unico formulario a tal fine ottimizzato e il
cui modello è allegato al decreto.
Novità anche nella catena delle notifiche del documento, che rispetto alla
filiera ordinaria ex dlgs 152/2006 prevede maggiori obblighi in capo
destinatario, cui spetta (in luogo del trasportatore) l'onere di trasmettere
la «quarta copia» all'ultimo produttore.
Infatti, in base al nuovo decreto: per ogni raccolta effettuata il
trasportatore deve emettere (analogamente al regime ordinario) quattro copie
del formulario di identificazione; le copie devono essere compilate e
firmate da ciascun produttore/detentore lungo il percorso di raccolta; una
copia deve essere acquisita dall'ultimo produttore/detentore, le altre
firmate dal destinatario dei rifiuti che ne conserva una e (qui le novità)
ne trasmette un'altra originale (la citata «quarta copia») all'ultimo
produttore/detentore e delle semplici copie (anche tramite «Pec») agli altri
produttori/detentori; l'ultima copia originale resta al trasportatore.
Altra semplificazione è quella prevista per la tenuta registro di carico e
scarico rifiuti, cui è possibile in tale contesto adempiere tramite la
conservazione (per cinque anni) del citato formulario ad hoc. In relazione
all'informatizzazione delle scritture ambientali tradizionali si ritiene
utile ricordare che il nuovo articolo 194-bis del Codice ambientale
introdotto dalla recente legge 205/2017 riconosce formalmente già dallo
scorso 01.01.2018 la possibilità della trasmissione della quarta copia del
formulario di trasporto dei rifiuti mediante posta elettronica certificata.
Previsione, questa, che il ministero con una nota dello scorso 31.01.2018 n.
1588 ha sottolineato essere già di piena applicabilità senza necessità di
specifiche procedure, fatte salve quelle che nell'ambito dell'attuazione
dello stesso neo articolo del Codice ambientale potranno essere
successivamente introdotte.
Le super semplificazioni.
A fianco alle descritte semplificazioni, il neo decreto del ministero
dell'ambiente 01.02.2018 prevede un regime ulteriormente semplificato per le
associazioni di volontariato e gli enti religiosi che intendono effettuare
raccolta/trasporto «occasionali» di rifiuti non pericolosi di metalli
ferrosi e non ferrosi di provenienza (esclusivamente, in questo caso)
urbana.
Le condizioni da rispettare appaiono qui essere esaustive anche degli
adempimenti da onorare, coincidenti con i seguenti: raccolta/trasporto
devono avvenire in non più di quattro giornate annue anche non consecutive e
in modo da non superare le 100 tonnellate sempre annue complessive
(cosiddetta «occasionalità»); a seguito di intesa con i Comuni
territorialmente competenti; previa iscrizione ad Albo gestori secondo
emanande regole su registrazione temporanea dei veicoli utilizzati in
conformità alle norme che disciplinano l'autotrasporto di cose.
Le ulteriori novità in arrivo.
In tema di rifiuti ferrosi una stretta su oneri di produttori e gestori
arriverà con l'entrata in operatività delle modifiche apportate dall'ormai
storico e citato dlgs 205/2010 al Codice ambientale al fine di allinearne le
disposizioni al sistema di tracciamento telematico dei residui noto come
«Sistri».
L'operatività di dette modifiche, tra cui quelle inerenti ai rifiuti in
questione, è stata infatti dal 2013 ad oggi spostata di anno in anno dai
diversi decreti d'urgenza parallelamente alla proroga della piena efficacia
del sistema di tracciamento telematico Sistri ed è attualmente fissata (in
base all'articolo 11 del dl 101/2013, come riscritto dalla recente legge di
Bilancio 205/2017) nel più vicino termine tra il subentro del nuovo gestore
del Servizio ed il 01.01.2019.
Lo spirare del primo dei due termini renderà operativa la versione
dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 come modificata dal citato provvedimento
del 2010 in base alla quale produttori iniziali e detentori di rifiuti di
rame o di metalli ferrosi e non ferrosi che non provvedono direttamente al
loro trattamento dovranno consegnarli unicamente a enti/imprese autorizzate
ai sensi del Codice ambientale a raccolta/trasporto, bonifica siti
contaminati, commercio/intermediazione rifiuti, trattamento degli stessi.
Detta attività di raccolta e trasporto dei rifiuti ferrosi, stabilisce
espressamente la futura versione del suddetto articolo 188 del dlgs
152/2006, non potrà più essere effettuata dai soggetti previsti
dall'articolo 266, comma 5, del Codice ambientale, ossia dalle persone
abilitate ad attività analoghe in forma ambulante su residui che formano
oggetto del loro commercio in virtù della mera licenza rilasciata ai sensi
della disciplina economica di settore
(articolo
ItaliaOggi Sette del 26.02.2018). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Con
la p.a. preventivo scritto. La norma non distingue tra soggetti pubblici e
privati. DOTTORI COMMERCIALISTI/ Il chiarimento in
un pronto ordini del Cndcec.
Commercialisti con obbligo di preventivo scritto anche nei confronti della
pubblica amministrazione. La norma parla infatti genericamente di cliente,
relativamente all'obbligo di rendere noto il costo della prestazione, senza
specificare se pubblico o privato. Mentre nel caso in cui l'incarico
professionale sia conferito all'esito di un bando di gara, il professionista
sarà tenuto ad osservare le disposizioni del bando emanato
dall'amministrazione conferente.
La mancata forma scritta del preventivo, da parte del commercialista,
comporta la sanzione disciplinare della censura.
È quanto chiarisce il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, con il pronto ordini 292/2017 (nota
05.02.2018 n. 1743 di prot.), in risposta a un quesito posto
dall'ordine di Reggio Emilia.
In un secondo pronto ordini (n. 5/2018) in tema di rilascio del sigillo
professionale da parte di una società tra professionisti, il Cndcec afferma
invece che tale possibilità è riservata solo al professionista che
sottoscrive gli atti e non all'organizzazione professionale in cui questi
eventualmente opera.
Preventivo. Il
Cndcec, all'interno del parere sull'obbligo del preventivo in forma scritta,
fa riferimento alla legge annuale per il mercato e la concorrenza (n.
124/2017, art. 1, comma 150), dove viene disposto che «il compenso per le
prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento,
al momento del conferimento dell'incarico professionale. In particolare, il
professionista deve rendere noto al cliente, in forma scritta o digitale: il
grado di complessità dell'incarico, tutte le informazioni utili circa gli
oneri ipotizzabili dal momento del conferimento dell'incarico, i dati della
polizza assicurativa, la misura del compenso attraverso un preventivo di
massima. Ancora più stringente è il codice deontologico dei commercialisti,
con l'art. 25 che impone all'iscritto di stabilire per iscritto nell'accordo
con il cliente la misura del compenso e di accompagnare l'accordo con un
preventivo di massima comprensivo di spese, oneri e contributi. Il mancato
rispetto delle disposizioni in relazione alla stipula per iscritto del
mandato professionale, sottolinea il Cndcec, rileva solo sotto il profilo
disciplinare, mentre la mancata redazione del preventivo in forma scritta
costituisce anche violazione di legge».
Stp. Riguardo
invece alla possibilità, per una Stp iscritta nella sezione speciale
dell'albo, di rilasciare il sigillo professionale, il Cndcec evidenzia che
l'utilizzo del sigillo è diretto ad attribuire carattere distintivo agli
atti sottoscritti dal commercialista qualificandoli come atti svolti
nell'esercizio legittimo dell'attività professionale.
Il timbro sigillo, nel dettaglio, rappresenta uno strumento per identificare
il soggetto che lo detiene quale professionista iscritto all'albo e gli
elementi identificativi riguardano esclusivamente la persona che sottoscrive
gli atti in cui viene apposto il timbro e non l'organizzazione intesa come
associazione professionale, società professionale e così via, in cui opera
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Funzionari,
un solo accesso. Categoria D, neoassunti in posizione economica unica.
CONTRATTO ENTI LOCALI/ Disapplicato lo sdoppiamento in sottocategorie.
Per i funzionari di regioni ed enti locali neo assunti vi sarà una sola
posizione economica di accesso alla categoria D.
La
preintesa del Ccnl delle funzioni locali (si veda ItaliaOggi di
ieri), all'articolo 12 disapplica lo sdoppiamento della categoria D in due
sotto categorie: quelle con ingresso nella prima posizione economica (la D1)
e quelle relative a profili professionali con ingresso diretto nella terza
posizione economica (D3).
Resta confermato, invece, lo sdoppiamento dei profili professionali di
accesso nella categoria B.
La preintesa corregge il tiro sui funzionari a distanza di ben 16 anni da
quando la contrattazione collettiva avrebbe già dovuto prendere atto
dell'unitarietà della categoria D.
Infatti, l'articolo 12, comma 3, del Ccnl 31.03.1999 era la fonte che
giustificava lo sdoppiamento delle categorie B e D in sottocategorie con
profili di accesso differenziati. La norma dispone: “Fino al 31.12.2001,
la progressione economica di cui all'art. 5 del personale dei profili con
trattamento tabellare iniziale corrispondente alle posizioni economiche B1 e
D1 delle relative categorie può svilupparsi fino all'acquisizione degli
incrementi retributivi corrispondenti, rispettivamente, ai valori B4 e D3”.
Si trattava di un meccanismo che assicurava l'impossibilità per i profili di
accesso nelle posizioni economiche iniziali di ottenere posizioni economiche
di sviluppo pari o superiori a quelle delle sottocategorie con ingresso
nelle posizioni economiche B3 e D3.
Ma, come disposto espressamente, la disposizione contenuta nell'articolo 12,
comma 3, del Ccnl 31.12.1999 era a tempo determinato ed ha cessato di
produrre effetti a partire dall'01.01.2002.
Da quella data sarebbe stato necessario prendere atto che la distinzione
delle categorie B e D in sottocategorie con accessi differenziati per i
neoassunti non aveva più alcun senso e giustificazione.
L'Aran, su indicazioni dell'Anci, ha tuttavia fatto muro per oltre tre
lustri, insistendo nel considerare ancora sussistenti profili di ingresso
differenziati, nonostante con il Ccnl 22.01.2004 fosse stata anche eliminata
per i profili di ingresso in D3 (assimilati all'ex ottava qualifica
funzionale) la speciale indennità che all'epoca delle qualifiche funzionali
era assegnata ai profili dell'ottava qualifica, per un ammontare di 1,5
milioni di lire, che era l'ultimo elemento di differenziazione tra i vari
profili.
Dal 2018 si pone fine allo sdoppiamento nella categoria D e qualsiasi sia il
profilo professionale i neoassunti inizieranno con lo stipendio della
posizione iniziale.
Tuttavia, per quanto riguarda il passato, restano salvi il profilo e la
posizione economica di sviluppo acquisiti da coloro che passarono a suo
tempo direttamente dall'ottava qualifica funzionale alla categoria D3 e gli
assunti in quella categoria. La preintesa chiarisce che le risorse stabili
che finanziano le progressioni orizzontali dei dipendenti acceduti
direttamente in posizione D3 continuano ad essere quantificate sulla base
del differenziale tra la posizione economica già posseduta o da attribuire e
quella iniziale di accesso in D3. Conseguentemente, qualora il dipendente
acceduto direttamente in D3 cessi il rapporto di lavoro, a qualunque titolo
solo quel differenziale ritorna tra le risorse stabili disponibili per il
finanziamento dei vari istituti del trattamento economico del personale.
Ancora, il Ccnl fa salve le procedure concorsuali già in corso per le
assunzioni nei profili di accesso D3, la cui disapplicazione, quindi, varrà
solo per i bandi successivi alla definitiva entrata in vigore del nuovo Ccnl
delle funzioni locali.
Come detto, la categoria B, invece, manterrà la differenziazione dei profili
di accesso. Infatti, la categoria con profilo di ingresso in B1 è quella che
consente lo svolgimento di mansioni che richiedono la sola terza media, con
selezioni mediante chiamata dai centri per l'impiego ai sensi dell'articolo
16 della legge 56/1987. I profili di ingresso in B3, invece, impongono il
concorso pubblico. Finché non si incida sui profili professionali e le
modalità di reclutamento, lo sdoppiamento della categoria B difficilmente
potrà essere superato
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
sola lingua per l'edilizia. Arriva il glossario unico.
In arrivo un glossario unico in edilizia che garantirà regole omogenee e un
linguaggio comune su tutto il territorio nazionale. E che, soprattutto,
individuerà il titolo giuridico necessario per ciascuna tipologia di
intervento.
Uno
schema di decreto del 21.02.2018 del Ministero delle infrastrutture e della
semplificazione definisce una guida tabellare, consultabile in
modo agevole anche dai non addetti ai lavori, con l'individuazione della
categoria di intervento a cui appartiene un'opera edilizia e del conseguente
regime giuridico.
Sul provvedimento che ha ricevuto ieri il via libera della conferenza
unificata ed è attuativo dell'articolo, 1, 2° comma, del dlgs n. 222/2016
(cosiddetto decreto Scia 2) sono giunte le valutazioni positive degli ordini
e collegi professionali della Rete professioni tecniche che esprimono «soddisfazione»
per il glossario che «riveste una notevole importanza per il settore
edilizio, dal momento in cui riduce in modo significativo il contenzioso e
l'incertezza normativa che lo caratterizza».
Edilizia libera.
Il glossario unico, contiene un elenco non esaustivo delle principali opere
che possono essere eseguite in attività edilizia libera, senza alcun titolo
abilitativo. Le principali opere individuate possono essere eseguite senza
alcun titolo abilitativo, nel rispetto delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali e di tutte le normative di settore aventi incidenza
sulla disciplina dell'attività edilizia.
In particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di tutela
del rischio idrogeologico, delle disposizioni contenute nel codice dei beni
culturali e del paesaggio di cui al dlgs n. 42/2004). Per le opere edilizie
realizzabili mediante Cila (comunicazione di inizio lavori asseverata), Scia
(segnalazione certificata di inizio attività edilizia), permesso di
costruire e Scia alternativa al permesso di costruire, gli elenchi saranno
adottati in seguito.
A regime, si delinea un quadro di interventi edilizi basato su 5 ipotesi:
interventi in edilizia libera senza adempimenti; interventi in attività
libera ma che richiedono la Cila; interventi assoggettati a Scia; interventi
assoggettati a permesso di costruire; interventi per i quali è comunque
possibile chiedere il permesso di costruire in alternativa alla Scia. Il
regime ordinario diviene quindi quello della Cila e non più della Scia,
fatte salve le ipotesi espressamente assoggettate ad altri regimi.
Manufatti leggeri in strutture ricettive.
Rientra tra le attività in edilizia libera l'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati in strutture ricettive all'aria aperta per la
sosta e il soggiorno dei turisti. Ma previamente autorizzate dal punto di
vista urbanistico, paesaggistico e in conformità alle normative regionali di
settore. Parliamo di roulotte, camper, case mobili e. imbarcazioni.
Eliminazione barriere architettoniche.
Tra gli interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che
non comportano la realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti
che alterino la sagoma dell'edificio rientrano la realizzazione
dell'ascensore, del montacarichi, del servoscala, della rampa,
dell'apparecchio sanitario, dell'impianto igienico e idrosanitario e di
dispositivi sensoriali.
Aree ludiche. Tra
gli interventi su «le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici» rientrano le opere di
installazione, riparazione, sostituzione, rinnovamento dei seguenti
elementi: opera per arredo da giardino (per esempio, barbecue in muratura,
fontana, muretto, scultura, fioriera e panca), gazebo e pergolato (di
limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo), ripostiglio per
attrezzi, manufatto accessorio (di limitate dimensioni e non stabilmente
infisso al suolo), tenda, tenda a pergola, pergotenda, copertura leggera di
arredo e elemento divisorio verticale non in muratura, anche di tipo
ornamentale e similare
(articolo
ItaliaOggi del 23.02.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO: I
fondi locali pagano gli aumenti. Contratti decentrati in parte erosi dai
nuovi tabellari. SPECIALE CONTRATTO/ È l'effetto
della riforma Madia che li congela al 2016.
Doccia fredda per i fondi della contrattazione
decentrata di regioni ed enti locali: dovranno essere le risorse riservate
ai trattamenti accessori dei dipendenti e non i bilanci, infatti, a
finanziare i maggiori costi derivanti dal rinnovo del Ccnl, ricadenti
appunto sul salario accessorio. Per la prima volta, dunque, gli aumenti
salariali invece di incrementare il fondo, ne eroderanno le disponibilità,
ai fini della destinazione ai vari istituti.
È l'articolo 67 della
preintesa stipulata lo scorso 21 febbraio a giocare il brutto
scherzo al comparto.
Tale disposizione al comma 1 fissa le regole per la determinazione della
parte stabile del fondo delle risorse decentrate, in modo tale che restino
consolidate a regime in un importo certo. Il successivo comma 2, poi,
contiene un elenco di fonti utili per incrementare in via continuativa la
parte stabile del fondo: si va da un importo di 83,20 euro per il personale
in servizio al 31.12.2015, somma però disponibile dal 2019, agli incrementi
economici alle posizioni contrattuali di sviluppo, alle retribuzioni
individuali di anzianità del personale cessato dal servizio, fino alle
economie derivanti dalla riduzione stabile della dotazione organica di
qualifiche dirigenziali.
Il comma 2 dell'articolo 67, quindi, è scritto obbedendo alla regola che da
sempre ha caratterizzato la contrattazione: gli incrementi stipendiali
previsti dai contratti collettivi si riverberano sul salario accessorio (in
particolare sugli stipendi che hanno negli anni precedenti ricevuto
incrementi per le progressioni orizzontali) e finiscono per incrementare il
volume complessivo dei fondi.
Ma, il Ccnl deve fare i conti con la riforma Madia, il dlgs 75/2017 che
all'articolo 23, comma 2, nelle more del processo di armonizzazione dei
trattamenti stipendiali dei dipendenti pubblici, vieta che le risorse
destinate alla contrattazione decentrata superino l'ammontare del 2016.
Da qui discende la previsione dell'articolo 67, comma 7, della preintesa: «La
quantificazione del Fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate
agli incarichi di posizione organizzativa di cui all'art. 15, comma 5 deve
comunque avvenire, complessivamente, nel rispetto dell'art. 23, comma 2, del
dlgs n. 75/2017».
Quindi, gli incrementi al fondo di parte stabile non potranno avere
l'effetto di aumentare simmetricamente l'importo complessivo del fondo, ma
finiranno per eroderlo. La cosa è particolarmente importante per le
progressioni orizzontali, finanziate appunto dai fondi. Il comma 7
dell'articolo 67 pone a carico dei fondi e non dei bilanci il finanziamento
di una parte molto ponderosa delle risorse decentrate, finendo, dunque, per
sottrarre rilevanti disponibilità ad altre destinazioni, come indennità di
turno, rischio, disagio, maneggio valori, responsabilità particolari.
Per la prima volta, quindi, parte non irrilevante degli effetti obbligatori
della contrattazione vengono scaricati sulle risorse destinate ai
lavoratori.
Sul piano tecnico la previsione dell'articolo 67, comma 7, è alquanto
rischiosa. Ponendo il caso limite di un ente con un fondo già molto
ristretto e limitato che finanzia appena le progressioni orizzontali già
conseguite dai dipendenti, il divieto di incrementare il totale complessivo
del fondo in applicazione dell'articolo 67, comma 7, della preintesa
renderebbe impossibile per quell'ente adempiere alle obbligazioni
contrattuali derivanti dal contratto collettivo nazionale di comparto.
L'ente non avrebbe scelta: o arrecare danno erariale finanziando col
bilancio i maggiori oneri (in particolare delle progressioni orizzontali),
oppure, non adempiere alle previsioni del Ccnl e correre il rischio molto
forte di arrecare danno civile, esponendosi ad azioni di rivalsa dei
dipendenti.
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Facilitato il passaggio di personale alle unioni.
Rendere più facile il transito di personale dai comuni alle unioni. È questo
l'obiettivo dell'art. 70-sexies dell'accordo preliminare per il rinnovo del
Ccnl Funzioni locali. La norma disciplina il fondo risorse decentrate
unionale, consentendo alle forme associative di adeguarlo a seguito del
trasferimento di personale dai comuni aderenti. In particolare, in caso di
trasferimento di personale dai comuni all'unione, confluiscono nella
componente stabile del fondo unionale le risorse stabili destinate ai
trattamenti economici del personale trasferito, con il contratto integrativo
dell'anno precedente o, in mancanza, con l'ultimo sottoscritto.
Il fondo di parte stabile degli enti di provenienza è ridotto di un importo
corrispondente. Nel fondo dell'unione confluiscono, inoltre, limitatamente
ai mesi residui dell'anno in cui avviene il trasferimento, le risorse
variabili destinate ai trattamenti economici del personale trasferito, con
il contratto integrativo dell'anno precedente o, in mancanza, con l'ultimo
sottoscritto.
Il fondo di parte variabile degli enti di provenienza è ridotto di un
importo corrispondente. Sono fatti salvi eventuali diversi accordi tra
l'unione e gli enti che trasferiscono personale in merito all'entità delle
risorse che confluiscono nel fondo unionale e che riducono in misura
corrispondente i fondi degli enti, fermo restando il principio che il
trasferimento di personale non deve implicare, a livello aggregato, maggiori
oneri. Tali disposizioni si applicano anche nel caso di assegnazione
temporanea di personale in posizione di comando
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici fuori dal fondo decentrato.
Tenere gli incentivi per funzioni tecniche fuori dal fondo delle risorse
decentrate e dai relativi tetti.
È questo l'auspicio espresso dai sottoscrittori dell'accordo
preliminare per il rinnovo del contratto nazionale per il comparto delle
Funzioni locali.
Il documento, firmato nella notte tra martedì e mercoledì, dedica al tema la
prima delle cinque dichiarazioni congiunte: si tratta di postille prive di
effetti giuridici immediati, attraverso le quali la parti provano ad
esprimere indirizzi interpretativi ovviamente non vincolanti. Del resto, non
potrebbe essere diversamente su un tema, quello degli incentivi tecnici e
del loro trattamento contabile e finanziario, su cui regna il caos più
totale.
La materia è oggi disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016 e dall'art.
23, comma 2, del dlgs 75/2017. La prima norma definisce a chi e per quali
attività spettano i compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha,
da un lato, escluso le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli
incentivi, oltre che ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e
forniture. Mentre per i lavori, possono essere beneficiari sia i tecnici che
il restante personale che abbia prestato la propria collaborazione, per
servizi e forniture, gli incentivi sono previsti esclusivamente per il
direttore dell'esecuzione.
A tali soggetti, sulla base di un atto unilaterale dell'amministrazione (non
soggetto a contrattazione sindacale), possono essere destinate somme non
superiori al 2% dell'importo posto a base di gara ed entro un tetto pari al
50% del trattamento economico complessivo spettante al singolo dipendente.
Ma il vero nodo riguarda la portata della seconda norma, che limita la
consistenza complessiva del fondo per le risorse decentrate all'importo del
2016.
Non è chiaro se gli incentivi per funzioni tecniche siano da includere in
tale limite o se ne siano esclusi (come accadeva per i vecchi incentivi alla
progettazione). Per l'inclusione si è espressa la sezione autonomie della
Corte conti (deliberazione 7/2017), ma successivamente è intervenuta una
modifica legislativa (art. 1, comma 526, della legge 205/2017), che avrebbe
dovuto sancire l'esclusione. Anche sulla novella, però, le sezione regionali
della Corte hanno espresso avvisi diversi, rimettendo nuovamente la
questione alle Autonomie.
In questo groviglio, il Ccnl può fare poco oltre ad auspicare «il
consolidamento dell'interpretazione in base alla quale le suddette risorse
devono ritenersi escluse dal limite di legge, tenuto conto che la novella
normativa apportata dal comma 526 della legge di Bilancio 2018 è finalizzata
a considerare unitariamente la spesa complessiva destinata alla
realizzazione di lavori, servizi o forniture, includendovi anche le risorse
finanziarie per incentivi tecnici e che, conseguentemente, tali incentivi
non rientrano nei capitoli della spesa del personale, ma sono ricompresi nel
costo complessivo dell'opera».
Insomma, la palla è ancora nelle mani della magistratura contabile
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Polizia
locale, compensi mirati. Nasce l'indennità di servizio esterno. Andrà da 1 a
10. SPECIALE CONTRATTO/ La preintesa assegna molti
riconoscimenti ai vigili urbani.
Per la polizia locale indennità e compensi mirati.
La preintesa assegna alcuni riconoscimenti da molto tempo
rivendicati ai vigili urbani, che possono razionalizzare l'utilizzo delle
risorse contrattuali, ma avranno ricadute sui progetti finalizzati ed i
compensi per il risultato individuale.
Servizi aggiuntivi.
Il decreto legge 50/2017, convertito in legge 96/2017 consente al personale
di vigilanza di svolgere attività di servizio, rese al di fuori dell'orario
ordinario di lavoro, finalizzate a garantire sicurezza e polizia stradale
nel caso di iniziative private, a carico degli organizzatori privati stessi.
La preintesa chiarisce che dette attività sono remunerate con un compenso di
ammontare pari a quelli previsti per il lavoro straordinario dall'articolo
38, comma 5, del Ccnl del 14.09.2000. Fissato dal Ccnl l'ammontare del
compenso, non sarà pertanto possibile prevedere retribuzioni di importo
diverso con accordi locali, che risulterebbero nulli.
Indennità per servizi esterni.
Da anni si pone il problema della cumulabilità dell'indennità di vigilanza
con quelle di rischio e disagio.
Accordi decentrati che abbiano consentito detto cumulo sono stati sovente
oggetto degli strali dei servizi ispettivi del ministero dell'economia,
altrettanto spesso, però, smentiti da sentenze del giudice del lavoro,
secondo le quali l'operato delle amministrazioni era corretto.
Il nuovo Ccnl risolve ogni problema e introduce la nuova «indennità di
servizio esterno», da attribuire a chi rende la prestazione lavorativa
ordinaria giornaliera in servizi esterni di vigilanza, compete una indennità
giornaliera. Tale indennità sarà giornaliera e fissata dalla contrattazione
decentrata in importi giornalieri che vadano da un minimo di 1 euro a un
massimo di 10.
Anche in questo caso, la determinazione contrattuale dell'importo massimo
giornaliero dell'indennità rende nulle clausole e accordi che forfetizzino
in ammontari più elevati compensi aventi analoga natura. L'indennità
giornaliera compensa integralmente i rischi e i disagi connessi ai servizi
esterni e si cumula con quella di turno, ma non con le specifiche indennità
di turno e disagio riferite agli altri profili professionali del comparto.
Indennità di funzione.
Si introduce, poi, una nuova indennità di funzione per personale inquadrato
nelle categorie C e D, non avente incarichi di posizione organizzativa,
finalizzata a compensare compiti di responsabilità connessi al grado.
L'importo di tale indennità, oltre che del grado, dovrà tenere conto delle
peculiarità dimensionali, istituzionali, sociali e ambientali degli enti, e
potrà essere determinata fino ad un massimo di 3.000 annui lordi, da
corrispondere per dodici mensilità.
Spetta alla contrattazione decentrata stabilire la spettanza e la
graduazione dei valori. Al personale della polizia locale cui si assegni
questa indennità non sarà attribuibile quella per particolari
responsabilità, ma è espressamente consentito il cumulo col turno, con
l'indennità di servizio esterno nonché con i compensi per la produttività.
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Aumenti di stipendio in base ai risultati.
Aumenti di stipendio selettivi in base ai risultati conseguiti nel triennio
precedente. La preintesa del Ccnl delle funzioni locali ridisegna la
disciplina delle progressioni economiche, note anche come progressioni
orizzontali, cioè degli incrementi stipendiali riconosciuti stabilmente ai
dipendenti, sulla base di valutazioni selettive.
Selettività.
L'articolo 16 conferma i limiti esistenti alle progressioni economiche. Il
primo è di natura finanziaria: dunque, sarà possibile attivare le
progressioni solo nel limite delle risorse effettivamente disponibili. In
ogni caso, la progressione va riconosciuta sulla base di selezioni (il
contratto dispone in modo selettivo solo a una parte limitata dei
dipendenti, come del resto impone l'articolo 23 del dlgs 150/2009.
Tuttavia, non vi sono indicazioni per quantificare tale parte limitata.
Molti interpreti ritengono che non si possa andare oltre il 33% del
personale in servizio. Comunque, la quota dei dipendenti che potranno
accedere alla posizione economica superiore andrà determinata tenendo conto
dell'obbligo di permanere in una certa posizione economica per almeno 24
mesi, lasso di tempo comunque eventualmente incrementabile dalla
contrattazione decentrata.
Valutazione. Il
processo selettivo delle progressioni economiche è storicamente molto
complesso e defatigante, in misura oggettivamente sproporzionata rispetto
all'entità dei benefici economici derivanti.
La preintesa introduce un elemento di forte semplificazione. Si prevede,
infatti, che la selezione dei dipendenti cui incrementare il trattamento
economico si basi sulle risultanze della valutazione della performance
individuale del triennio che precede l'anno in cui è indetta la procedura
valutativa. Per determinare la graduatoria degli aspiranti, si dovrà tenere
conto anche dell'esperienza maturata negli ambiti professionali di
riferimento e delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi
formativi.
Decorrenza. Un
altro tema che ormai si trascinava da anni, creando molteplici problemi
operativi è quello della decorrenza della progressione economica. Nonostante
da tempo l'interpretazione prevalente indicasse di far scattare l'aumento
salariale dal primo gennaio dell'anno di attivazione della procedura
selettiva, di recente, al contrario, pareri della Corte dei conti e
dell'Aran avevano sancito che la decorrenza degli aumenti partisse dal primo
di gennaio dell'anno in cui la procedura valutativa andasse a conclusione.
Una soluzione, questa, difficilmente condivisibile sul piano pratico, poiché
le valutazioni debbono tenere conto necessariamente della performance
individuale e, quindi, non possono che essere effettuate a consuntivo
necessariamente l'anno solare dopo quello nel quale si sono indette le
selezioni. La preintesa pone fine all'equivoco e dispone che «l'attribuzione
della progressione economica orizzontale non può avere decorrenza anteriore
al 1° gennaio dell'anno nel quale viene sottoscritto il contratto
integrativo che prevede l'attivazione dell'istituto».
Graduatorie. Il
comma 8 dell'articolo 16 nega che dalle selezioni per le progressioni
orizzontali derivino graduatorie assimilabili a quelle concorsuali ed
aventi, dunque, durata pluriennale. Si stabilisce che i risultati delle
selezioni per le progressioni hanno effetto solo per l'anno nel quale è
stata indetta la procedura.
Oneri. Come
sempre, il finanziamento della maggiore retribuzione assegnata al personale
che abbia beneficiato delle progressione è integralmente a carico della
parte stabile del fondo delle risorse decentrate, che deve coprire gli oneri
per 13 mensilità.
La preintesa fa salve le procedure di attribuzione della progressione
economica orizzontale ancora in corso all'atto della sottoscrizione
definitiva del Ccnl
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nelle
regioni le ferie potranno essere frazionate in ore.
Più flessibilità anche per il godimento dei permessi.
La sperimentazione delle ferie assegnate a ore è uno degli elementi di
maggiore novità della
preintesa del Ccnl delle funzioni locali siglata lo scorso 21 febbraio.
L'articolo 29 dell'ipotesi di contratto collettivo nazionale introduce per
la prima volta una possibilità piuttosto diffusa nell'ambito del lavoro
privato, che potrebbe rivelarsi utile non solo alla flessibilizzazione del
rapporto di lavoro, reso più agile, ma anche alla conciliazione con i tempi
di vita e, soprattutto, alla riduzione delle assenze dal servizio.
La frazionabilità delle ferie in ore, infatti, consente potenzialmente di
ridurre il ricorso ad assenze per permessi di varia natura, comunque resi a
loro volta più flessibili dalla preintesa: infatti, come già previsto per il
comparto delle funzioni centrali, saranno utilizzabili nella misura di 18
ore i permessi per motivi personali, nel precedente regime utilizzabili solo
per tre giornate intere, così come sarà possibile avvalersi di 18 ore annue
per visite specialistiche.
Vista la natura sperimentale della fruizione delle ferie ad ore, la
previsione dell'articolo 29 della preintesa non è vincolante. Si applica,
dunque, in modo facoltativo per iniziativa dei singoli enti, che allo scopo
dovranno attivare la relazione sindacale del «confronto», che prende
il posto della vecchia concertazione. La sperimentazione, però, è ristretta
alle sole regioni ed enti regionali. In sede di relazioni sindacali, gli
enti dovranno solo decidere se avvalersi o meno della sperimentazione.
Se decideranno di istituire la fruizione delle ferie ad ore, dovranno
applicare le previsioni del comma 2 dell'articolo 29 che dei monte ore
annuali differenziati; ne toccheranno 202, corrispondenti ai 28 giorni di
ferie spettanti a chi lavora su cinque giorni settimanali; 192 ore
corrispondenti a 32 giorni di ferie per chi lavora su sei giorni la
settimana. Per i dipendenti neo assunti per i primi tre anni il monte ore
sarà di 180, corrispondenti ai 26 giorni di ferie per chi lavora su cinque
giorni la settimana e 187 ore, corrispondenti ai 30 giorni di ferie per chi
lavora su sei giorni.
Ovviamente, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, i monte ore
visti sopra debbono essere riproporzionati, simmetricamente alla riduzione
della durata dell'orario di lavoro.
Il comma 4 contiene la necessaria precisazione secondo la quale se il
dipendente fruisce delle ferie orarie in misura tale da coprire l'intera
giornata, si decurterà il monte orario annuo per un ammontare pari
all'orario ordinario che il dipendente avrebbe dovuto effettuare nella
stessa giornata.
Non tutte le ferie potranno essere utilizzate frazionate ad ore. Infatti,
allo scopo di garantire il pieno recupero psico-fisico del dipendente, ogni
anno dovranno essere fruiti almeno 20 giorni interi, nel caso di
articolazione dell'orario settimanale su cinque giorni, e almeno 24 giorni,
nel caso di articolazione dell'orario settimanale su sei giorni. Resta fermo
l'obbligo di collocazione in ferie per almeno due settimane consecutive tra
il primo giugno e il 30 settembre di ogni anno
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative più certe. Incarichi con atto motivato. Durata massima tre
anni. SPECIALE CONTRATTO/ Nei piccoli comuni
affidamenti anche a personale di categoria C.
Nuove regole per le cosiddette posizioni organizzative, i funzionari che
negli enti privi di dirigenza svolgono le funzioni dirigenziali e negli enti
con dirigenti assumono sostanzialmente la funzione dei quadri.
Gli incarichi dovranno essere conferiti con atto scritto e motivato, sulla
base della valutazione dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e
della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale
potenzialmente destinatario.
Sulla durata, il
nuovo Ccnl del comparto funzioni locali stabilisce che il periodo
massimo è di tre anni, ma non risolve, tuttavia, il problema più delicato e
diffuso, quello della durata minima, lasciata senza una specificazione. La
Corte dei conti, insieme alla dottrina, ritiene comunque che gli incarichi
non possano avere durate inferiori ad un anno almeno, per consentire un
tempo adeguato alla gestione finanziaria e alla connessa valutazione dei
risultati.
In ogni caso, gli incarichi alle posizioni organizzative potranno essere
revocati prima della scadenza, sempre con atto scritto e motivato. Le cause
giustificative restano due: intervenuti mutamenti organizzativi o
valutazione negativa.
Questa dovrà essere annuale nel rispetto del sistema vigente. Solo la
valutazione positiva dà anche titolo alla retribuzione di risultato:
dovranno essere i sistemi a stabilire quando una valutazione possa
considerarsi positiva. Nel caso risulti negativa, i titolari delle posizioni
organizzative avranno diritto a confrontarsi in contraddittorio col
valutatore, anche con l'assistenza del sindacato cui aderiscano o di persona
di propria fiducia.
Il nuovo Ccnl cancella le alte specializzazioni e prevede solo due invece
che tre tipologie di posizioni organizzative: quelle per la direzione unità
organizzative o quelle per attività professionali altamente specializzate,
che richiedano anche l'iscrizione ad albi professionali.
Retribuzione di posizione e retribuzione di risultato.
Si conferma il trattamento economico scomposto in retribuzione di posizione
e risultato. La prima avrà un minimo di 5.000 e un massimo di 16.000 annui
lordi per 13 mensilità, sulla base del sistema di graduazione deciso dagli
enti, che, se dotati di dirigenza, dovranno considerare ampiezza e contenuto
di eventuali deleghe dirigenziali. Nel caso di posizioni organizzative
assegnate invece che a funzionari di categoria D a dipendenti in categoria B
o C, la posizione minima sarà di 3.000 e la massima di 9.500 annui lordi per
13 mensilità.
Sparisce la previsione secondo la quale la retribuzione di risultato vari da
un minimo del 10% a un massimo del 25% della posizione. Col nuovo Ccnl sarà
ciascun ente a definire i criteri per determinare l'importo del risultato,
ma vi sarà l'obbligo di destinare una quota non inferiore al 20% delle
risorse complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di
posizione e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste.
Gli enti con dirigenza dovranno sottrarre dal fondo delle risorse decentrate
il finanziamento delle posizioni organizzative, che andrà a carico del
bilancio.
La preintesa regola, finalmente, il caso degli incarichi attribuiti ad
interim: la retribuzione di risultato potrà essere aumentata dal 15 al 25%
del valore economico della retribuzione di posizione goduta dall'incaricato
ad interim.
La preintesa propone una soluzione al problema dei comuni di piccole
dimensioni, nella cui dotazione organica siano previsti figure di categoria
D tutte o parzialmente vacanti o in ogni caso non tutti in possesso delle
competenze professionali richieste.
Sarà, allora, possibile, ma solo in via eccezionale e temporanea, conferire
l'incarico di posizione organizzativa anche a personale della categoria C, a
condizione che disponga delle necessarie capacità ed esperienze
professionali (per esempio, una posizione organizzativa tecnica dovrà
possedere lauree in ingegneria o architettura o un diploma e l'abilitazione
per geometra. Gli enti, però, restano obbligati ad attuare la dotazione
organica e, quindi, assumere i funzionari di categoria D necessari.
Pertanto, la facoltà eccezionale di assegnare incarichi di posizione
organizzativa a dipendenti di categoria C potrà essere esercitata per una
sola volta, a meno che non siano state avviate le procedure per
l'acquisizione di personale della categoria. In questo caso, una volta
assunto il funzionario di categoria D si potrà anche revocare
anticipatamente l'incarico assegnato al dipendente di categoria C
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali, lavoro più flessibile. Orari elastici, permessi per visite, ferie
solidali, riposi. Molte le novità ordinamentali contenute nel nuovo
contratto per il 2016-2018.
Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, dopo svariati incontri con le
organizzazioni sindacali, è stato sottoscritto l'accordo
preliminare per il rinnovo del Contratto collettivo nazione di lavoro per il
comparto funzioni locali, bloccato, si ricorda, dall'anno 2009.
Le novità più interessanti, presenti nelle prime bozze diffuse, riguardano
le ferie, i riposi solidali, i congedi per le donne vittime di violenza, la
disciplina per le assenze per espletamento di visite, terapie, prestazioni
specialistiche o esami diagnostici, gli effetti delle unioni civili sugli
istituti contrattuali.
Novità anche sul procedimento disciplinare e sulla classificazione del
personale.
Ferie e festività.
Si introduce, in via sperimentale, per le regioni e gli enti regionali, la
fruizione delle ferie a ore; l'espressa previsione della pianificazione
delle ferie dei dipendenti da parte dell'ente; l'ipotesi delle ferie
maturate e non godute per esigenze di servizio, monetizzabili solo all'atto
della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di
legge.
Ferie e riposi solidali.
L'istituto, introdotto dall'art. 24 del dlgs n. 151/2015 (cosiddetto Jobs
act), consente ai lavoratori di cedere a titolo gratuito, i riposi e le
ferie maturati, ai colleghi, che debbano assistere figli minori che, per le
condizioni di salute, necessitano di cure costanti, nella misura, alle
condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi.
L'ipotesi di contratto interviene, pertanto, sui punti di competenza, in
maniera sperimentale, fino al prossimo rinnovo contrattuale.
Unioni civili. Il
riconoscimento delle unioni civili, avvenuto con la legge n. 76/2016,
determina che tutte le disposizioni del Ccnl riferite al matrimonio, o
contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, si
applichino anche ad ognuna delle parti dell'unione civile.
Permessi orari retribuiti per particolari motivi personali
o familiari. Uniformandosi alla
disciplina già in vigore per altri comparti, con un articolo specificamente
dedicato, viene introdotta la fruizione a ore dei permessi retribuiti, per
particolari motivi personali o familiari, compatibilmente con le esigenze di
servizio, pari a 18 ore per anno.
Congedi per le donne vittime di violenza.
In attuazione dell'art. 24 del Jobs act (dlgs n. 80/20151), si riconosce
alla lavoratrice, inserita nei percorsi di protezione relativi alla violenza
di genere, la possibilità di usufruire di congedi, per un periodo massimo di
90 giorni lavorativi, nell'arco di tre anni, per motivi connessi a tali
percorsi. L'utilizzo dei congedi potrà avvenire anche su base oraria. Alle
dipendenti in queste particolari condizioni sarà consentito anche presentare
domanda di trasferimento ad altra amministrazione pubblica, ubicata in un
comune diverso da quello di residenza.
Assenze per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni
specialistiche od esami diagnostici.
Nel nuovo contratto si disciplina il cosiddetto «permesso per malattia ad
ore», legato alle visite e prestazioni specialistiche. L'art. 55-septies,
comma 5-ter del dlgs n. 165/2001, introdotto con la riforma Brunetta del
2009, ha definito l'assenza come permesso e il contratto interviene a
disciplinarne i contenuti, come era stato chiarito anche dalla
giurisprudenza.
Si riconoscono, pertanto, specifici permessi per l'espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici, fruibili su base
sia giornaliera che oraria, nella misura massima di 18 ore annuali,
comprensive anche dei tempi di percorrenza da e per la sede di lavoro. Al
dipendente sarà consentito, tuttavia, di utilizzare anche i permessi brevi a
recupero, dei permessi per motivi familiari e personali, dei riposi connessi
alla banca delle ore, dei riposi compensativi per le prestazioni di lavoro
straordinario, con il corrispondente trattamento economico e giuridico.
Procedimento disciplinare.
Le previsioni dei precedenti contratti sono integrate con le disposizioni
normative intervenute negli anni, sia per quanto attiene alle tipologie di
sanzioni, sia in ordine alle modalità di svolgimento del procedimento
disciplinare.
Importanti novità per la classificazione del personale.
Si conferma il sistema, ma se ne prevede la revisione, con una commissione
paritetica. Viene superata la distinzione nell'ambito della categoria D,
eliminando la posizione di ingresso D3, mentre per la categoria B, restano
particolari profili professionali, per i quali l'accesso dall'esterno
avviene nella posizione economica B3. Le risorse per le posizioni
organizzative sono estrapolate dal fondo per il salario accessorio e poste a
carico del bilancio
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2018). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe
stradali, sanzioni digitali. Per imprese e
professionisti. circolare dell'interno.
Le multe stradali viaggeranno via Pec in modalità ridotta almeno fino
all'attivazione dell'elenco dei domicili digitali delle persone fisiche. Ma
per imprese e professionisti via libera immediato alle sanzioni notificate
in digitale e senza spese. E in caso di notifica tradizionale ad un soggetto
munito di Pec la notifica resterà valida ma con possibilità di richiedere il
rimborso delle spese postali.
Lo ha precisato il ministero dell'interno con la
circolare 20.02.2018 n. 300/A1500/18/127/9 di prot..
Con il decreto interministeriale del 18.12.2017, pubblicato sulla G.U. del
16/01/2018, è diventato obbligatorio notificare le multe stradali tramite
posta elettronica certificata, ai soggetti che abbiano un domicilio
digitale. In caso contrario i destinatari sono legittimati a chiedere il
rimborso delle spese di notificazione tradizionale. Se non è stata
effettuata la contestazione immediata o se il trasgressore o i responsabili
in solido non hanno comunicato l'indirizzo di posta elettronica certificata,
questo va ricercato dagli organi accertatori negli elenchi pubblici di cui
all'art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 18.10.2012 e in ogni altro
registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle comunicazioni
aventi valore legale.
Già da alcuni anni le caselle di posta elettronica certificata di società e
professionisti sono contenute nella banca dati Ini-Pec, l'indice nazionale
degli indirizzi di posta elettronica certificata istituito dal ministero
dello sviluppo economico, mentre invece la banca dati Ipa contiene gli
indirizzi di Pec degli enti pubblici.
Invece, i cittadini che possiedono un indirizzo di posta elettronica
certificata possono scegliere di eleggere tale recapito come domicilio
digitale, mediante l'inserimento nell'Indice nazionale delle persone fisiche
e degli altri enti di diritto privato, che l'Agenzia per l'Italia digitale
realizzerà entro l'anno. Ogni indice nazionale dovrà confluire nell'Anagrafe
della popolazione residente. Il messaggio di Pec inviato al destinatario del
verbale dovrà contenere nell'oggetto la dizione di atto amministrativo
relativo ad una sanzione prevista dal codice della strada, con tanto di
numero di verbale e in allegato una relazione di notificazione su documento
informatico sottoscritto con firma digitale e la copia su supporto
informatico del documento analogico o del documento informatico del verbale
di contestazione con attestazione di conformità all'originale. I termini per
la notificazione sono quelli già previsti dal codice della strada. I verbali
si considerano notificati nel momento in cui viene generata la ricevuta di
accettazione della Pec, a prescindere dalla successiva lettura del contenuto
del messaggio.
Con la circolare in commento il Viminale evidenzia che in seguito al decreto
ministeriale è diventato obbligatorio notificare tramite Pec i verbali di
contestazione di violazioni stradali. E tale procedura va applicata sia per
gli illeciti sul cronotachigrafo sia alle sanzioni amministrative accessorie
che siano parte integrante del verbale di contestazione. Soltanto se non è
possibile risalire a una valido indirizzo di Pec la notifica sarà effettuata
nelle tradizionali forme, con oneri a carico del destinatario.
Secondo il Viminale, se in presenza di un valido domicilio digitale l'organo
accertatore procede a notificare la multa stradale tramite posta o messi, la
consegna non è viziata, tuttavia il destinatario può richiedere la
restituzione delle spese di notificazione addebitate con il verbale,
provando di avere una casella di Pec inserita in uno degli elenchi ufficiali
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo
Ccnl per gli enti locali. Dopo 10 anni. Aumenti medi di 85 euro dal 1°
marzo. Siglata la preintesa per il Contratto 2016-2018. Norme ad hoc sulla
polizia locale.
Dopo 10 anni di attesa, i 470 mila dipendenti di regioni, province, comuni,
città metropolitane e camere di commercio hanno un nuovo contratto.
L'accordo
sulla preintesa per il rinnovo del Ccnl relativo al triennio 2016-2018
è stato raggiunto nella notte tra martedì e mercoledì dopo una lunga
trattativa all'Aran tra parte datoriale e sindacati. Dal 01.03.2018 i
lavoratori del comparto delle funzioni locali avranno in busta paga aumenti
medi mensili dello stipendio tabellare pari a 85 euro, in ossequio
all'accordo del 30.11.2016 che ha guidato tutti i rinnovi contrattuali del
pubblico impiego.
Nello specifico gli aumenti mensili andranno da un minimo di 52 euro per i
lavoratori di categoria A1 a 90,3 euro per quelli di categoria D6. Ai nuovi
stipendi dovrà poi aggiungersi l'indennità di vacanza contrattuale
decorrente dal 01.07.2010 che andrà da un minimo di 122,4 euro per gli A1
fino a un massimo di 212,52 euro per i D6.
I contenuti
Oltre agli aumenti, il nuovo contratto porta in dote ai lavoratori locali
molte novità. A cominciare dal riconoscimento «storico» delle funzioni di
polizia locale, destinatarie di un'apposita sezione del Ccnl. Ma non solo.
Viene rivista l'indennità di funzione dei vigili che sarà parametrata sia
alle responsabilità del grado sia alle mansioni legate ai servizi operativi.
Norme ad hoc anche per gli avvocati (i cui compensi professionali
vengono espressamente indicati tra i trattamenti accessori erogabili in
aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato) e per i giornalisti.
Per questi ultimi si prevede esplicitamente l'inquadramento nella categoria
D dei contenuti professionali di base dell'attività di comunicazione
istituzionale, giornalismo pubblico e rapporti con i media.
Molte le novità in materia di orario di lavoro che sarà più flessibile (in
entrata e in uscita) e potrà essere rimodulato in funzione delle esigenze
del lavoratore di prendersi cura di familiari portatori di handicap e figli
piccoli. Sulle ferie, il nuovo contratto prevede la possibilità per il
dipendente statale di fruirle ad ore o cederle a colleghi che ne abbiano
bisogno per prendersi cura di familiari e figli. E ancora, vengono recepite
nel nuovo Ccnl le norme del Jobs act sulla tutela delle lavoratrici vittime
di violenze di genere che avranno diritto ad astenersi dal lavoro per un
massimo di 90 giorni lavorativi nell'arco di un triennio.
Il nuovo contratto risolve anche alcuni problemi specifici relativi alle
figure apicali nei comuni di minori dimensioni demografiche, chiarendo la
possibilità di conferire gli incarichi di posizione organizzativa anche al
personale appartenente alla categoria C.
Le reazioni
Il mondo delle autonomie festeggia per un accordo che, come ha dichiarato il
presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, «restituisce dignità
ai dipendenti». «Si premia chi è disposto ad assumersi maggiori
responsabilità, con la possibilità di individuare posizioni organizzative
con delega di firma di provvedimenti finali aventi rilevanza esterna. Si
semplifica la costituzione del fondo per la contrattazione integrativa
attraverso il consolidamento della parte stabile e tramite regole più chiare
per l'alimentazione della parte variabile del fondo, risolvendo cosi
l'annosa questione delle difformità applicative dell'istituto che ha
generato i rilievi ispettivi del ministero dell'economia».
Concluso l'accordo, tuttavia, resta per i sindaci il nodo risorse, visto il
rifiuto da parte del governo a erogare maggiori fondi ai comuni proprio
finalizzati a gestire gli oneri degli aumenti contrattuali. «Affronteremo
l'incremento mettendo mano ai nostri bilanci, senza aiuti statali ma non
avremmo potuto fare altrimenti, se non al prezzo, per noi inaccettabile, di
bloccare la progressione economica a chi ogni giorno offre servizi ai
cittadini», ha osservato Decaro. E a proposito di coperture, un altro tema
spinoso, destinato a tenere banco nei prossimi mesi, riguarda la possibilità
per gli enti in disavanzo di utilizzare gli accantonamenti degli anni scorsi
al fine di coprire l'aumento contrattuale.
«Si deve avere dal governo un definitivo chiarimento, vista la posizione
discordante di alcune sezioni regionali della Corte dei conti», ha
commentato il presidente del comitato di settore enti locali e
vicepresidente Anci, Umberto Di Primio. «I comuni hanno sempre più bisogno
di dare risposte in merito alle aumentate competenze. Per questo salutiamo
con favore la possibilità di destinare un premio in termini economici a chi
decide di assumersi maggiori responsabilità, ampliando le attività legate al
conferimento delle posizioni organizzative con delega alla firma di atti che
abbiano il crisma del provvedimento finale».
Positivo anche il giudizio delle province. Secondo il presidente dell'Upi e
sindaco di Vincenza Achille Variati, il nuovo contratto pone le basi per una
maggiore autonomia organizzativa e gestionale, premia chi è disposto ad
assumersi responsabilità e semplifica e incentiva la possibilità di
stipulare i contratti decentrati a livello territoriale».
Soddisfazione è stata espressa anche dalle regioni che, chiusa la partita
sul contratto dei dipendenti, possono ora concentrarsi su quello della
sanità, anch'esso in dirittura d'arrivo, ma non ancora firmato (si veda
ItaliaOggi del 16/02/2018). «Abbiamo portato a casa un risultato
importante», ha commentato Massimo Garavaglia, presidente del Comitato di
settore-Sanità e assessore al bilancio della regione Lombardia.
«Credo che vada apprezzato il fatto che ciascuno, dall'Aran ai sindacati,
dalle regioni agli enti locali, abbia fatto la propria parte. Ora resta un
altro importante tassello, quello del comparto sanità. Mi auguro che il
risultato odierno sia di buon auspicio». «Tra l'altro», ha aggiunto
Garavaglia, «dopo aver sbloccato l'atto integrativo per il comparto sanità,
il 19 febbraio abbiamo sbloccato anche l'atto integrativo di medicina
convenzionata e di dirigenza sanitaria per cui si può procedere a chiudere
tutto il pacchetto sanità».
Per i sindacati, il Ccnl siglato è «un contratto di valore, che produce
miglioramenti concreti per le lavoratrici e i lavoratori» (così la
segretaria generale della Funzione pubblica Cgil, Serena Sorrentino). «È
stata una trattativa lunga e articolata su più punti», ha osservato Maurizio
Petriccioli, segretario generale Cisl Fp. «Abbiamo realizzato un aumento
medio al tabellare di 85 euro lordi, una sezione che valorizza le
specificità della polizia locale, la revisione del sistema di
classificazione del personale, a partire da una sezione specifica per il
settore educativo e scolastico, nonché l'incentivo al lavoro agile»
(articolo
ItaliaOggi del 22.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Sisma,
sicurezza semplificata. Requisiti meno severi per l'adeguamento degli
edifici. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto
che incentiva l'utilizzo dei sismabonus.
Dal 15.03.2018 in arrivo semplificazioni per i lavori di messa in sicurezza
degli «edifici esistenti», anche al fine di incentivare l'utilizzo del
sismabonus 2018. L'adeguamento antisismico degli edifici esistenti dovrà
rispettare requisiti meno stringenti rispetto a quelli che saranno applicati
alle nuove costruzioni. Per gli edifici in classe d'uso IV e per quelli in
classe d'uso III di tipo scolastico è obbligatorio raggiungere un livello di
sicurezza sismico pari al 60% di quello richiesto per l'adeguamento. Per
edifici in classe d'uso III non di tipo scolastico e per quelli in classe II,
quando si effettua un intervento di miglioramento è obbligatorio conseguire
un incremento di sicurezza sismica pari ad almeno il 10% del livello
richiesto per l'adeguamento.
Queste alcune delle novità contenute nel decreto del 17.01.2018 (pubblicato
sulla gazzetta ufficiale del 20.02.2018 n. 42) del ministero delle
infrastrutture e dei trasporti sulle nuove norme tecniche delle costruzioni
2018 che contengono regole finalizzate al miglioramento sismico degli
edifici esistenti attraverso il raggiungimento di parametri più realistici.
L'articolo 1, commi 2 e 3, della legge di stabilità 2017 (l. n. 232/2016) ha
introdotto per il periodo compreso tra il 01.01.2017 e il 31.12.2021 una
detrazione di imposta del 50%, fruibile in cinque rate annuali di pari
importo, per le spese sostenute per l'adozione di misure antisismiche su
edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1, 2 e 3).
La detrazione va calcolata su un importo complessivo di 96.000 euro per
unità immobiliare per ciascun anno. La detrazione fiscale sale al 70% della
spesa sostenuta, se dalla realizzazione degli interventi deriva una
riduzione del rischio sismico che determina il passaggio a una classe di
rischio inferiore. Aumenta all'80% se dall'intervento deriva il passaggio a
due classi di rischio inferiori. Se le spese sono sostenute per interventi
sulle parti comuni degli edifici condominiali le detrazioni sono ancora più
elevate. Le detrazioni si applicano su un ammontare delle spese non
superiore a 96.000 euro moltiplicato per il numero delle unità immobiliari
di ciascun edificio e vanno ripartite in 5 quote annuali di pari importo.
Dal 2018 (articolo 1, 3° comma, della legge 27/12/2017 n. 205 c.d. legge
stabilità 2018), per le spese relative agli interventi su parti comuni di
edifici condominiali ricadenti nelle zone sismiche 1, 2 e 3, è possibile
richiedere una detrazione dell'80%, se i lavori determinano il passaggio a 1
classe di rischio inferiore; o dell'85%, se gli interventi determinano il
passaggio a 2 classi di rischio inferiori. La detrazione va ripartita in 10
quote annuali di pari importo e si applica su un ammontare delle spese non
superiore a 136.000 euro moltiplicato per il numero delle unità immobiliari
di ciascun edificio
(articolo
ItaliaOggi del 21.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Oneri
urbanistici svincolati. Arconet.
Gli oneri di urbanizzazione non sono cassa vincolata, poiché per tali
entrate non è previsto un vincolo specifico, ma una generica destinazione ad
una categoria di spese.
È questa la posizione della Commissione Arconet sulla contabilizzazione dei
proventi dei titoli abilitativi edilizi (e delle relative sanzioni), alla
luce della nuova disciplina entrata in vigore lo scorso 1° gennaio.
Dal 2018, infatti, la materia è regolamentata dal comma 460 della l.
232/2016, che circoscrive le spese finanziabili con gli oneri alla
realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria e altre fattispecie meno frequenti (fra
cui nuovamente la progettazione). È quindi venuta meno la possibilità di
destinare tali entrate a spese diverse da quelle elencate espressamente dal
legislatore.
Il problema è stabilire se ciò comporti anche l'obbligo di considerarle
vincolate anche in termini di cassa. In caso di risposta affermativa, gli
enti dovrebbero applicare il combinato disposto degli artt. 195 e 222 del
Tuel, che limitano la possibilità di attingere alla cassa vincolata per
finalità di spesa diverse da quelle stabilite. In tali casi, inoltre,
scatterebbe l'obbligo di contabilizzare nelle scritture finanziarie i
movimenti di utilizzo e di reintegro. Si tratterebbe di un notevole
appesantimento procedurale, per cui è da accogliere con favore la decisione
di Arconet di sposare la scuola di pensiero alternativa (anticipata da
ItaliaOggi del 30/01/2018), secondo cui sarebbe errato considerare gli oneri
entrate vincolate, dato che il legislatore ha stabilito solo una loro
generica destinazione (anche se più restrittiva del passato).
In tal senso, soccorre anche la deliberazione n. 31/2015 della Corte dei
conti, sezione delle autonomie che ha chiarito che il regime vincolistico
della gestione di cassa è caratterizzato dall'eccezionalità delle ipotesi,
che devono essere circoscritte a quelle indicate agli artt. 180, comma 3,
lett. d) e dall'art. 185, comma 2, lett. i). Per i giudici contabili, cassa
vincolata è solo quella che deriva da entrate con destinazione specifica
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2018). |
APPALTI: Un
galateo per gli appalti. In ballo 225 mld. Codice di condotta alle p.a..
La Commissione europea chiede nuove regole per i funzionari
pubblici.
La Commissione europea chiede un codice di comportamento
per gli appalti pubblici. Infatti, la fase preparatoria di una procedura di
appalto mira a progettare un processo solido per la consegna dei lavori, dei
servizi o delle forniture richiesti. Ed è questa, di gran lunga, la fase più
cruciale del processo per evitare conflitti di interesse.
La richiesta è contenuta nella nuova guida Ue (datata febbraio 2018) sugli
appalti pubblici, che detta anche le regole su come evitare gli errori più
comuni in progetti finanziati dall'Europa, attraverso i fondi strutturali e
di investimento (Fie).
La motivazione. «Un
codice di condotta relativo alle attività di appalto pubblico dovrebbe
essere istituito e pubblicizzato ampiamente in tutte le organizzazioni
pubbliche», sostiene Bruxelles. Soprattutto perché i compiti dei
pubblici dipendenti comportano normalmente spesa di denaro pubblico. In più,
gli stessi funzionari sono chiamati a operare in ambiti in cui è essenziale
trattare tutte le parti in gara in maniera equa.
Il codice di comportamento dovrebbe, quindi, richiedere standard minimi di
comportamento, in particolare al personale addetto agli appalti. I fondi Sie
hanno come obiettivo immettere oltre 450 miliardi di euro nell'economia
reale dell'Ue durante il periodo di finanziamento 2014-2020. Metà di questi
fondi viene investito tramite appalti pubblici. Le cui soglie sono cambiate
dal primo gennaio (si veda ItaliaOggi del 22/12/2017)
Consultazione senza distorcere la concorrenza.
Nel documento, i funzionari Ue ricordano che occorre prestare attenzione a
non falsare la concorrenza, fornendo a taluni operatori economici conoscenza
precoce di una procedura di appalto pianificata o suoi parametri. Nel
preparare i bandi di gara, le amministrazioni aggiudicatrici possono
condurre consultazioni di mercato, ma devono garantire che il coinvolgimento
di una società precedentemente consultata non falsi la concorrenza
all'interno del procedura di gara. Devono, inoltre, garantire che qualsiasi
informazione condivisa con un'azienda, a seguito di un suo precedente
coinvolgimento, va reso disponibile anche alle altre società partecipanti.
L'appalto congiunto implica la combinazione delle procedure di due o più
amministrazioni aggiudicatrici. In termini concreti, è prevista una sola
procedura di appalto, lanciato a nome di tutte le amministrazioni
aggiudicatrici partecipanti, per acquistare servizi, beni o lavori comuni.
Questo può essere fatto tra più autorità dello stesso Stato membro, o tra
amministrazioni aggiudicatrici di diversi Stati membri, attraverso gli
appalti transfrontalieri.
Pianificare l'appalto.
In questa fase, l'Ue consiglia di redigere una pianificazione dell'intera
procedura di appalto, per organizzare la futura implementazione e gestione
del contratto stesso. Tutto ciò, secondo Bruxelles, potrà essere fatto sulla
base di elementi chiave, già definiti: squadra e parti interessate, oggetto,
durata e valore del contratto, procedura. La pianificazione, però, non dovrà
comportare processi onerosi e lunghi. Infine, la commissione Ue avverte:
l'impostazione errata del processo, molto probabilmente, genererà alle p.a.
errori e problemi
(articolo
ItaliaOggi del 20.02.2018). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Conferenza di servizi preliminare e tutela paesaggistica.
---------------
●
Processo amministrativo – Atto impugnabile - Conferenza di
servizi preliminare – Determinazione conclusiva – E’
impugnabile.
●
Paesaggio – Tutela – Autorità statale preposta alla gestione
del vincolo - Finalità esclusiva.
●
L’atto conclusivo della conferenza di servizi preliminare è
impugnabile (1).
●
La tutela dei valori paesaggistici costituisce,
per l’autorità statale preposta alla gestione del vincolo,
una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che
l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di
comparazione, da parte della medesima autorità, con altri
interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per il preminente
valore costituzionale del paesaggio, sia perché la funzione
di tutela del paesaggio si svolge attraverso valutazioni di
carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non
prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della
discrezionalità amministrativa pura (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che gli effetti giuridici essenziali
riconducibili alla determinazione conclusiva della
conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3,
sesto periodo, l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui “Ove si
sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione
procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo,
indice la conferenza simultanea nei termini e con le
modalità di cui agli artt. 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in
sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in
sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente
modificate o integrate solo in presenza di significativi
elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito
delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”.
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza
preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro
atto di assenso necessario ai fini della approvazione
dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano
sulla successiva approvazione sia dei progetti di
fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e
possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze
(di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento
degli effetti della conferenza preliminare, nei termini
sinteticamente descritti, implica la necessità, per i
soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni
giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
(2) Nel caso di specie, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio
aveva rilasciato parere favorevole di compatibilità
paesaggistica, per il progetto preliminare di un’opera
pubblica di notevole impatto in quanto la soluzione proposta
non sembra avere alternative. La Sezione ha ritenuto che in
tal modo si pone illegittimamente in comparazione “l’inserimento
paesaggistico delle opere”, che attiene alla tutela del
paesaggio, con la mancanza di alternative alla soluzione
proposta, che attiene a interessi diversi e non affidati
alla Soprintendenza
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 08.03.2018 n. 185
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
13. - Con il secondo motivo, i ricorrenti –denunciando
«Eccesso di potere. Difetto d'istruttoria. Illogicità
manifesta. Erroneità dei presupposti. Travisamento dei
fatti. Contraddittorietà. Perplessità. Difetto di
motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3
della L. n. 241/1990»- fanno valere i vizi di legittimità che
inficerebbero i pareri, rilasciati in sede di conferenza di
servizi svoltasi il 29.06.2016, da parte delle autorità
deputate alla tutela dei vincoli paesaggistici esistenti
sull’area in cui dovranno essere eseguiti i lavori.
In primo
luogo, nei confronti del parere favorevole all’intervento
reso dal “Servizio tutela del paesaggio” per le provincie di
Cagliari e Iglesias, ufficio della Regione Sardegna, si
deduce il difetto di istruttoria e di motivazione sia perché
mancherebbe una valutazione specifica dell’impatto
paesaggistico di un intervento che si caratterizza per
l’imponenza della struttura (in specie, del viadotto), sia
perché le considerazioni svolte sarebbero, oltre che
generiche, del tutto tautologiche.
Nei confronti del parere favorevole espresso dalla
Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio si rileva, in
particolare, la contraddittorietà della motivazione. Il
delegato in conferenza di servizi, infatti, osserva in primo
luogo che la soluzione proposta «non appare soddisfacente in
relazione all’inserimento paesaggistico delle opere»,
indicando anche le rilevanti modifiche che andrebbero
apportate al progetto. Peraltro, osservano i ricorrenti, il
parere si conclude apoditticamente con l’affermazione che la
soluzione progettuale non sembra avere alternative e che non
vengono ravvisati elementi ostativi alla realizzazione
dell’opera.
Con il terzo motivo, i ricorrenti contestano la stessa
possibilità di un corretto inserimento paesaggistico
dell’intervento progettato, sulla scorta della
considerazione che si intendono realizzare delle opere di
dimensioni sproporzionate rispetto sia alla natura del tutto
eccezionale degli eventi alluvionali paventati, sia al
notevole pregiudizio che subirebbe il pregio paesaggistico
della zona coinvolta in relazione alla finalità perseguita,
ossia la regolarità del traffico veicolare in una località
abitata da poco più di mille persone.
Con il quarto motivo i ricorrenti sollevano ulteriori
profili di illegittimità del progetto approvato, per il
difetto di istruttoria emerso in conferenza di servizi con
riferimento alla considerazione che il viadotto progettato
sarebbe stato reso necessario dalla situazione di
irregolarità dei ponti esistenti; e con riferimento al
rilievo secondo cui le opere progettate sarebbero funzionali
alla realizzazione di un parco che metta in collegamento la
zona sportiva con la biblioteca. Entrambi i rilievi
sarebbero sganciati dalla realtà di fatto e dimostrerebbero
che il progetto è stato redatto in assenza della necessaria
conoscenza dei luoghi.
Infine, con il medesimo motivo, si deduce l’errore in cui
sarebbe occorso il responsabile unico del procedimento nel
ritenere che il Comune di Capoterra avrebbe espresso, in
epoca precedente alla conferenza di servizi del 29.06.2016, parere favorevole al progetto.
Sostengono i ricorrenti
che l’amministrazione comunale si è espressa esclusivamente
in relazione alla versione definitiva dello Studio Hy.
avente ad oggetto l'analisi idrologica del territorio, con
specifico riferimento soltanto alla “soluzione 2” (si rinvia
al doc. 4, pagg. 32-34, di parte ricorrente), riguardante il
territorio c.d. “a valle”, verso la foce del Rio San
Girolamo.
Nessun voto favorevole è mai stato espresso con
riferimento all'intervento riguardante la realizzazione del
nuovo attraversamento del lago di Poggio dei Pini, che
rientrava tra quelli inerenti il territorio “a monte”.
13.1. - I motivi possono essere esaminati congiuntamente,
data la loro stretta connessione.
13.2. - Peraltro, prima di affrontare il merito delle
censure, si pone una questione di rito che deriva dalla
natura della conferenza di servizi tenutasi per l’esame e la
valutazione del progetto.
Si è trattato, infatti, di una
conferenza preliminare finalizzata (secondo la definizione
di cui all’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del 1990) «a
indicare al richiedente, prima della presentazione di una
istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per
ottenere, alla loro presentazione, i necessari pareri,
intese, concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o
altri atti di assenso, comunque denominati», in relazione
alla quale si potrebbe prospettare il problema della
impugnabilità della determinazione conclusiva, considerato
che l’oggetto della conferenza preliminare non è ravvisabile
nell’approvazione del progetto sottoposto al suo esame ma,
piuttosto, quella di prefigurare le condizioni della
(futura) approvazione del progetto definitivo o esecutivo.
La questione si traduce, quindi, nel verificare il reale
contenuto lesivo della determinazione conclusiva della
conferenza preliminare, sia quando essa si esprima nel senso
di rilevare le criticità del progetto esaminato, che non
consentirebbero una sua positiva valutazione, ipotesi
rispetto alla quale si profila l’interesse del proponente a
impugnare l’esito negativo della conferenza); sia quando
(come nel caso di specie) l’esito della conferenza
preliminare sia favorevole all’iniziativa progettuale
(perché in tal caso l’impugnabilità della determinazione
conclusiva si sorreggerebbe sull’interesse a ricorrere di
terzi controinteressati che si ritengano lesi dalla
conclusione della conferenza).
Ciò premesso in linea di principio, gli effetti giuridici
essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva
della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma
3, sesto periodo, della legge n. 241/1990, secondo cui «Ove
si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione
procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo,
indice la conferenza simultanea nei termini e con le
modalità di cui agli articoli 14-bis, comma 7, e 14-ter e,
in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse
in sede di conferenza preliminare possono essere
motivatamente modificate o integrate solo in presenza di
significativi elementi emersi nel successivo procedimento
anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul
progetto definitivo».
Pertanto, le acquisizioni maturate
nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla
osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della
approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si
riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti
di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e
possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze
(di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento
degli effetti della conferenza preliminare, nei termini
sinteticamente descritti, implica la necessità, per i
soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni
giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
Nel caso in
esame, trattandosi di esito favorevole che si inserisce nel
procedimento di approvazione del progetto preliminare,
correttamente i vizi della determinazione conclusiva della
conferenza preliminare vengono fatti valere, in via
derivata, quali vizi dell’ordinanza (più volte citata) con
la quale è stato approvato il progetto preliminare (mentre
la immediata impugnabilità della determinazione conclusiva
della conferenza preliminare si rende necessaria, per il
soggetto che propone l’intervento, solo in caso di esito
negativo, assimilabile a una sorta di «arresto
procedimentale»).
13.3. - Nel merito, sono fondate le censure con le quali si
denuncia il difetto di motivazione del parere favorevole
espresso dall’ufficio regionale sul paesaggio, nonché la
illogicità e contraddittorietà del parere favorevole reso
dalla Soprintendenza.
13.4. - L’area interessata dall’intervento è tutelata sotto
il profilo paesaggistico per l’operare di diversi vincoli,
per effetto –in primo luogo- del D.M. 15.06.1981, e,
successivamente, dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004,
dell’art. 142 del medesimo codice dei beni culturali (con
riferimento alla fascia dei 150 metri del rio San Girolamo),
delle previsioni contenute nel piano paesaggistico regionale
del 2006 (in quanto la zona ricade all’interno della fascia
costiera, art. 17 delle n.t.a. del PPR).
Ciò premesso, è opportuno riferire il contenuto dei pareri
con i quali le autorità preposte alla tutela dei vincoli
hanno positivamente valutato il progetto preliminare.
13.5. - Per quanto concerne il parere del servizio regionale
di tutela del paesaggio (cfr. nota del 16.06.2016, doc.
13 di parte ricorrente), sul presupposto che «l’ipotesi
progettuale prevede la formazione di una sede più ampia
dell’attuale corso d’acqua, atta a rendere maggiormente
funzionale e in sicurezza il sistema fluviale [e che] gli
interventi sono improntati [alle] buone pratiche della
ingegneria naturalistica in armonia con il quadro
paesaggistico di riferimento», conclude esprimendo «parere
preliminare favorevole all’intervento proposto, riservandosi
eventuali ulteriori approfondimenti in sede di progettazione
definitiva, alla quale si rimanda, per l’ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del D.Lgs.
42/2004».
Il parere della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio è
stato reso in sede di conferenza di servizi preliminare del
29.06.2016, nei seguenti termini:
«Il rappresentante della Soprintendenza fa presente che la
soluzione proposta non sembra avere alternative; essa,
peraltro, non appare soddisfacente in relazione
all'inserimento paesaggistico delle opere. Pertanto, la
condivisione del progetto preliminare deve intendersi
limitata alle opere infrastrutturali e che il progetto
definitivo, al fine di conseguire l’approvazione da parte
della Soprintendenza, dovrà contemplare alcune modifiche per
mitigare l’inserimento dell’opera nel contesto ambientale di
Poggio dei Pini; in particolare si prescrive quanto segue:
- dettagliato progetto degli interventi di mitigazione e
compensazione comprensivo dell'indicazione della morfologia
delle aree interessate e delle essenze da impiantare,
contestuale alle altre opere;
- se possibile eliminare la rotatoria;
- definire e indicare le essenze arbustive e/o arboree da
impiantare per mitigare gli impatti;
- adozione di un sistema di illuminazione della nuova
viabilità volto a limitarne l’inquinamento luminoso;
l'indicazione di tutti gli elementi di arredo, delle
armature stradali e dei corpi illuminanti (al riguardo, è
indispensabile che vengano prodotte le relative schede
tecniche […];
- le mantellate di protezione spondale previste dal progetto
sono caratterizzate da un notevole impatto visivo che deve
essere mitigato mediante opere a verde, tenendo conto del
conseguente incremento della rugosità e della scabrezza
dell’alveo;
- negli attraversamenti dei corsi d’acqua minori si chiede
di eliminare il belvedere per limitare l’ingombro dei
manufatti;
- arretrare le spalle del ponte al fine di ottenere il
mascheramento delle stesse e consentire la prosecuzione
della sistemazione delle sponde dell’alveo anche in
corrispondenza del ponte medesimo.[…] L’ing. Ga.To.
conferma che la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le
province di Cagliari, Oristano, Medio Campidano,
Carbonia-Iglesias, Ogliastra non ha ravvisato la presenza di
elementi ostativi alla realizzazione dell’opera».
13.6. - La mancanza di una adeguata motivazione delle
ragioni che consentirebbero di derogare al vincolo
paesaggistico operante sull’area, emerge in maniera del
tutto evidente dall’esame del parere dell’ufficio regionale
per il paesaggio, atteso che si fa genericamente riferimento
all’intervento proposto, senza tenere nel dovuto conto le
dimensioni delle opere da realizzare (essendo palesemente
insufficiente affermare che «gli interventi sono improntati
[alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica»), né
viene in alcun modo affrontata ed esaminata la fondamentale
questione (in cui si traduce il potere di valutazione
tecnica riservato all’autorità che gestisce, o co-gestisce,
il vincolo) di come inserire l’intervento nel contesto
paesaggistico di riferimento.
Alla luce del preminente
valore costituzionale della tutela del paesaggio (art. 9
della Costituzione), ribadito costantemente dalla copiosa
giurisprudenza della Corte Costituzionale e del Consiglio di
Stato (tra le più recenti, si veda Cons. St., sez. VI, 23.07.2015, n. 3652, ed ivi i richiami alle fondamentali
sentenza della Corte Costituzionale e dello stesso giudice
d’appello; in precedenza, si veda soprattutto Cons. St.,
sez. VI, 23.12.2013, n. 6223), il dovere di
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica deve
necessariamente articolarsi secondo «un modello che
contempli, in modo dettagliato, la descrizione: i)
dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati; ii) del
contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni; iii) del rapporto tra
edificio e contesto, anche mediante l’indicazione
dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si
inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535)» (così la citata sez. VI, n.
6223/2013).
La motivazione, in particolare quando sono in
gioco fondamentali valori costituzionali, deve dare conto in
modo circostanziato sia delle premesse in fatto, sia del
percorso logico e valutativo che l’amministrazione ha
seguito per giungere alla decisione.
Nel parere favorevole
reso dall’ufficio regionale sono sostanzialmente omessi
tutti i passaggi sopra descritti.
13.7. - Quanto al parere della Soprintendenza, esso si
caratterizza non solo per la insufficiente valutazione dei
profili di compatibilità tra il progetto presentato e i
valori paesaggistici implicati, ma anche per la intima
contraddittorietà tra le considerazioni svolte in premessa,
nelle quali sono comprese incisive richieste di modifica del
progetto, e la conclusione formulata dal Soprintendente nel
senso di non ravvisare «elementi ostativi alla realizzazione
dell’opera».
Affermazione, quest’ultima, in patente
contrasto anche con la premessa generale relativa
all'inserimento paesaggistico delle opere, ritenuto non
soddisfacente. Il che avrebbe dovuto indurre la
Soprintendenza a esprimere parere contrario o a condizionare
espressamente il rilascio del parere alle modifiche
progettuali esplicitate in conferenza preliminare o a
condizionare espressamente il parere favorevole alla
adozione delle predette modifiche in sede di elaborazione e
approvazione del progetto definitivo (ferma restando la
necessità di motivare in ordine alla compatibilità
dell’opera, pur modificata, con il vincolo paesaggistico).
Occorre far notare, infatti,
come la tutela dei valori
paesaggistici costituisca, per l’autorità (statale) preposta
alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente
esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può
essere oggetto di comparazione, da parte della medesima
autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò
sia per le ragioni costituzionali sopra menzionate, sia
perché la funzione di tutela del paesaggio (come ha
ricordato il Consiglio di Stato nella pronuncia della sez. VI, n. 3652/2015, sopra citata)
si svolge attraverso
valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui
processo formativo non prevede quella comparazione tra
interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa
pura.
Pertanto, quando nel parere reso dalla Soprintendenza
si sostiene, in premessa, che «la soluzione proposta […] non
appare soddisfacente in relazione all'inserimento
paesaggistico delle opere», in effetti si profila una
ragione da sola sufficiente a motivare l’espressione di un
parere contrario alla realizzazione dell’opera, essendo
escluso che la Soprintendenza debba farsi carico di una
comparazione dell’interesse paesaggistico (unico interesse
attribuito alle sue cure) con altri interessi
contestualmente presenti nella vicenda. Una deviazione da
tali principi concretizzerebbe un vizio di eccesso di potere
per sviamento, ovvero una classica ipotesi di esercizio del
potere per una finalità diversa da quella prevista dalla
norma.
Il che sembra ricorrere nel caso di specie, quando la
Soprintendenza pone in comparazione «l’inserimento
paesaggistico delle opere» (che attiene alla tutela del
paesaggio) con la mancanza di alternative alla soluzione
proposta (che attiene a interessi diversi e non affidati
alla Soprintendenza).
14. - Dalle osservazioni che hanno portato all’accoglimento
dei vizi sopra esaminati, deriva come conseguenza
l’infondatezza del terzo motivo, poiché la valutazione della
compatibilità paesaggistica dell’opera (in assenza di un
vincolo di inedificabilità assoluta) è riservata alle
autorità titolari della funzione di tutela, che si dovranno
nuovamente pronunciare sul punto.
15. - Sono infondate, altresì, le censure di difetto di
istruttoria di cui al quarto motivo, poiché si tratta di
profili irrilevanti ai fini della decisione di realizzare le
opere in questione. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Istanza di rimborso di
imposte - Ufficio non competente - Trasmissione dell'istanza
all'ufficio competente - Collaborazione tra uffici della
pubblica amministrazione e tra questa ed il contribuente -
Art. 12 d.lgs. n. 347/1990 - Statuto dei diritti del
contribuente - Art. 111 Cost. - Impugnazione del
silenzio-rifiuto dell'amministrazione finanziaria -
Decadenza del contribuente dal diritto al rimborso -
Interruzione.
In tema di rimborso delle imposte sui redditi, disciplinato
dall'art. 38, secondo comma, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602,
la presentazione di un'istanza di rimborso ad un organo
diverso da quello territorialmente competente a provvedere
costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza
del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a
determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile
dinanzi al giudice tributario, sia perché l'ufficio non
competente (quando non estraneo all'Amministrazione
finanziaria e, nella specie, coincidente con una diversa
direzione regionale) è tenuto a trasmettere l'istanza
all'ufficio competente, in conformità delle regole di
collaborazione tra organi della stessa Amministrazione, sia
alla luce dell'esigenza di una sollecita definizione dei
diritti delle parti, ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n.
4773 del 2009; conf. n. 15180/2009, n. 2810/2009, n.
27117/2016) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 06.03.2018 n. 5203 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche il principio di tassatività
delle cause di esclusione comporta che l'esclusione dalla
gara può essere disposta in modo legittimo solo quando il
concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli
interessi sostanziali della Pubblica amministrazione o a
protezione della par condicio tra i concorrenti in quanto il suddetto principio “… è
finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle
imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando
questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli
obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza
pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico,
attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le
ragioni di esclusione dalle gare, incentrate non già sulla
qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con
cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi
a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex
specialis. Il legislatore ha così ridotto la discrezionalità
della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione
del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il
potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la
previsione che un determinato adempimento sostanziale,
formale o documentale, sia richiesto a pena di esclusione.
In quest'ottica è stata eliminata in radice la possibilità
per l'Amministrazione di prescindere dall'onere di una
preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente
sulla base della riscontrata carenza documentale,
indipendentemente da ogni verifica sulla valenza
«sostanziale» della forma documentale risultata carente”.
---------------
La Lu.Co.So. a r.l. ha, in primo luogo, dedotto
l’illegittimità dell’aggiudicazione della gara al
controinteressato Co.So. Il Mo., in quanto
quest’ultimo avrebbe, a suo dire, dovuto essere escluso
dalla procedura per non essersi attenuto alle prescrizioni
dettate dal bando in relazione alla presentazione
dell’offerta, avendo prodotto un documento, denominato
“Allegato 3”, non conforme a quanto ivi previsto “perché non
riportava il timbro di congiunzione tra le pagine, così come
richiesto dal punto 2 delle Istruzioni per la compilazione
del modello stesso e in spregio di quanto previsto dall’art.
9 .1 capoverso 3) … che testualmente recita <<Redatto a pena
di esclusione conformemente al modello Allegato 3>>”.
...
Tali censure non sono fondate e devono essere rigettate.
Da un lato, proprio a norma delle Istruzioni per la
compilazione dell’Allegato n. 3, dettate in calce
all’allegato stesso, il timbro di congiunzione tra le pagine
di tale documento non era previsto, in realtà, “a pena di
esclusione”: all’art. 11 del bando –tra le “Avvertenze”-
era, infatti, sì stabilito che “la documentazione di gara …
(avrebbe dovuto) … essere prodotta secondo le modalità e le
prescrizioni contenute nel bando e nel capitolato e
allegati” e che “le dichiarazioni e la documentazione non
conforme, parziale, errata o mancata … (avrebbero
comportato)… l’automatica esclusione dalla gara”, ma poi,
nelle suddette istruzioni, inserite, come anticipato, in
calce al modello per l’allegato 3, la richiesta di
apposizione del timbro di congiunzione tra le pagine non era
più accompagnata –a differenza di altri adempimenti, come
l’allegazione alla dichiarazione datata e sottoscritta della
fotocopia di un documento d’identità in corso di validità
del sottoscrittore, in grado di incidere, evidentemente,
sulla individuazione e sulla riferibilità stesse
dell’offerta– dalla medesima “sanzione”.
D’altro lato la apposizione del suddetto timbro non risulta
neppure prescritta come essenziale dal codice dei contratti,
o dal regolamento o da altre disposizioni vigenti e la sua
mancanza non appare, in questo caso, idonea a determinare
incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell’offerta, o dubbi sulla non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o,
ancora, pregiudizio al principio di segretezza delle
offerte, cosicché un’esclusione da parte
dell’Amministrazione del Consorzio concorrente per tale
circostanza –pur richiesta dalla ricorrente- sarebbe stata
certamente illegittima, in quanto contraria al principio di
tassatività delle cause di esclusione introdotto al comma 1-bis dell’art. 46 del Codice dei contratti dal d.l. n.
70/2011, ma, in realtà, codificazione di una regola basilare
delle gare, diretta conseguenza dell’applicazione dei
principi fondamentali di concorrenza e di massima
partecipazione.
Come evidenziato al riguardo dalla costante giurisprudenza
amministrativa, “nelle gare pubbliche il principio di
tassatività delle cause di esclusione comporta che
l'esclusione dalla gara può essere disposta in modo
legittimo solo quando il concorrente abbia violato
previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali della
Pubblica amministrazione o a protezione della par condicio
tra i concorrenti” (Consiglio di Stato sez. V 30.10.2017 n. 4976), in quanto il suddetto principio “… è
finalizzato a ridurre gli oneri formali gravanti sulle
imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando
questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli
obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza
pubblica, conducendo a privare di rilievo giuridico,
attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le
ragioni di esclusione dalle gare, incentrate non già sulla
qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con
cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi
a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex
specialis. Il legislatore ha così ridotto la discrezionalità
della stazione appaltante nella c.d. (auto)regolamentazione
del soccorso istruttorio, atteso che essa non ha più il
potere di inserire nel bando, al di fuori della legge, la
previsione che un determinato adempimento sostanziale,
formale o documentale, sia richiesto a pena di esclusione.
In quest'ottica è stata eliminata in radice la possibilità
per l'Amministrazione di prescindere dall'onere di una
preventiva interlocuzione e di escludere il concorrente
sulla base della riscontrata carenza documentale,
indipendentemente da ogni verifica sulla valenza
«sostanziale» della forma documentale risultata carente”
(Consiglio di Stato sez. VI 15.09.2017 n. 4350) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.03.2018 n. 2555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Per la Pa più poteri nel valutare le imprese.
Consiglio
di Stato. Le amministrazioni hanno un margine di discrezionalità nel
giudicare i curricula.
Più margini per le Pa in fase di valutazione dei requisiti delle imprese che
partecipano alle gare: potranno escludere dagli appalti gli operatori
economici che abbiano mostrato carenze nell' esecuzione di precedenti
contratti. Anche in ipotesi non tipizzate dal Dlgs n. 50 del 2016 (Codice
appalti).
È quanto ha spiegato il Consiglio di Stato, con la
sentenza
02.03.2018 n. 1299. Nella quale, però, è precisato che, in queste situazioni, sarà
richiesta alle amministrazioni una motivazione più approfondita e articolata
del consueto.
Palazzo Spada, nella pronuncia appena depositata, analizza uno degli
istituti più contestati del nuovo Codice appalti: quello che, tramite l'articolo 80, comma 5, lettera c), consente alla Pa di escludere le imprese
per «gravi illeciti professionali». Sono macchie nel curriculum legate all'esecuzione di contratti precedenti, che siano tali da rendere dubbia l'integrità o l'affidabilità della società.
Un tema sul quale, dopo il Codice appalti, si è espressa anche l'Autorità
anticorruzione di Raffaele Cantone, con la linea guida n. 6. La legge
contiene alcune ipotesi nelle quali è possibile estrarre il cartellino rosso
che, però, i giudici del Consiglio di Stato considerano semplicemente
«esemplificative».
In sostanza, resta un margine di «valutazione discrezionale da parte della
stazione appaltante» sulla «gravità di inadempienze che, pur non
immediatamente riconducibili a quelle tipizzate, quanto agli effetti
prodotti, siano tuttavia qualificabili come gravi illeciti professionali e
siano perciò ostative alla partecipazione alla gara perché rendono dubbie l'
integrità o l' affidabilità del concorrente». Se questa affidabilità viene
considerata discutibile, la pubblica amministrazione può escludere dalla
partecipazione alla gara l'operatore economico, perché considerato
colpevole di un grave illecito professionale non compreso nell' elenco del
Codice appalti. In questi casi, però, «la stazione appaltante dovrà
adeguatamente motivare in merito all'esercizio di siffatta
discrezionalità».
Quindi, tramite «mezzi adeguati», bisognerà dimostrare la sussistenza e la
gravità dell' illecito professionale a carico dell' impresa. Una
ricostruzione che, secondo i giudici, è anche compatibile con i principi del
diritto comunitario (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.03.2018). |
APPALTI:
Carattere esemplificativo e non tassativo dell’elencazione
contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei
contatti.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Cause di esclusione ex lett. c) del comma 5
dell’art. 80 – Elenco esemplificativo e non tassativo.
L’elencazione contenuta nell’art.
80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (rimasto
invariato dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 56 del
19.04.2017) –nella parte in cui fa rientrare tra i “gravi
illeciti professionali”, dei quali la stazione appaltante
deve dimostrare “con mezzi adeguati” che l’operatore
economico si sia reso colpevole, anche “le significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata
all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una
condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”– ha
carattere meramente semplificativo (1).
---------------
(1)
Ad avviso della Sezione l’elencazione dei gravi illeciti
professionali rilevanti contenuta nella lett. c) del comma 5
dell’art. 80 è meramente esemplificativa, per come si evince
sia dalla possibilità della stazione appaltante di fornirne
la dimostrazione “con mezzi adeguati”, sia dall’incipit del
secondo inciso (“Tra questi -(id est, gravi illeciti
professionali- rientrano: […]”) che precede l’elencazione.
La norma, oltre ad individuare, a titolo esemplificativo,
gravi illeciti professionali rilevanti, ha anche lo scopo di
alleggerire l’onere della stazione appaltante di fornirne la
dimostrazione con “mezzi adeguati”.
Ha aggiunto la Sezione che “le significative carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione” rilevano “[…] se anche singolarmente
costituiscono un grave illecito professionale ovvero se sono
sintomatici di persistenti carenze professionali”, come
specificato al punto 2.2.1.2 e delle linee guida ANAC n. 6
del 2016/2017; il successivo punto 2.2.1.3 delle stesse
linee guida comprende nell’elencazione delle significative
carenze rilevanti, tra le altre, il singolo inadempimento di
una obbligazione contrattuale o l’adozione di comportamenti
scorretti o il ritardo nell’adempimento.
La sussistenza e la gravità dell’inadempimento o del ritardo
ovvero del comportamento scorretto ai fini dell’esclusione
dalla gara sono dimostrate, per tabulas, ed obbligano
all’esclusione, ogniqualvolta essi abbiano prodotto gli
effetti tipizzati dalla norma; con la precisazione –contenuta al punto 2.2.1.1 delle dette linee guida- che
costituisce mezzo adeguato di dimostrazione (da valutarsi a
cura della stazione appaltante, ma non automaticamente
escludente) anche il provvedimento esecutivo di risoluzione
o di risarcimento, prima che esso sia passato in giudicato.
Siffatta ricostruzione della portata della norma, tuttavia,
non comporta, a parere del Collegio, una preclusione
automatica della valutazione discrezionale da parte della
stazione appaltante della gravità di inadempienze che, pur
non immediatamente riconducibili a quelle tipizzate, quanto
agli effetti prodotti, siano tuttavia qualificabili come
“gravi illeciti professionali” e siano perciò ostative alla
partecipazione alla gara perché rendono dubbie l’integrità o
l’affidabilità del concorrente.
Piuttosto, in tale
eventualità –vale a dire quando esclude dalla
partecipazione alla gara un operatore economico perché
considerato colpevole di un grave illecito professionale non
compreso nell’elenco dell’art. 80, comma 5, lett. c)- la
stazione appaltante dovrà adeguatamente motivare in merito
all’esercizio di siffatta discrezionalità (che concerne la
gravità dell’illecito, non la conseguenza dell’esclusione,
che è dovuta se l’illecito è considerato grave) e dovrà
previamente fornire la dimostrazione della sussistenza e
della gravità dell’illecito professionale contestato con
“mezzi adeguati”.
La Sezione ha escluso un contrasto di tale interpretazione
con i principi comunitari.
Ha affermato che la Direttiva 2014/24/UE del 26.02.2014, sugli appalti pubblici, recepita con il nuovo codice
dei contratti pubblici, all’art. 57 comma 4, nel prevedere
le cause di esclusione facoltative di un concorrente,
distingue diverse ipotesi, disponendo che: “4. Le
amministrazioni aggiudicatrici possono escludere, oppure gli
Stati membri possono chiedere alle amministrazioni
aggiudicatrici, di escludere dalla partecipazione alla
procedura di appalto un operatore economico in una delle
seguenti situazioni: […omissis…] c) se l’amministrazione
aggiudicatrice può dimostrare con mezzi adeguati che
l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, il che rende dubbia la sua integrità;
[…omissis…]; g) se l’operatore economico ha evidenziato
significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un
requisito sostanziale nel quadro di un precedente contratto
di appalto pubblico, di un precedente contratto di appalto
con un ente aggiudicatore, o di un precedente contratto di
concessione che hanno causato la cessazione anticipata di
tale contratto precedente, un risarcimento danni o altre
sanzioni comparabili; [...]”.
Sebbene con la direttiva siano state delineate due distinte
cause di esclusione facoltative, assoggettate a due
differenti regimi probatori, non appare incompatibile la
scelta compiuta dal legislatore italiano che ha disciplinato
l’esclusione per grave illecito professionale in termini di
obbligatorietà ed ha costruito la figura come un genus
(pressoché coincidente con la causa di esclusione
individuata dall’art. 57, comma 4, lett. c), della
direttiva) all’interno della quale è possibile collocare le
più diverse fattispecie, alcune delle quali sono
esemplificate nello stesso art. 80, comma 5 (con inclusione
nell’elenco di ipotesi che la direttiva ha considerato
separatamente).
La scelta del Codice dei contratti pubblici, oltre a non
contrastare con la previsione dell’art. 57, comma 4, della
direttiva (che, d’altronde, contempla ipotesi escludenti
facoltative) è conforme ai principi desumibili dal
considerando 101 della stessa direttiva.
In particolare, rileva l’indicazione ivi contenuta che le
amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero continuare ad
avere la possibilità di escludere operatori economici che si
sono dimostrati inaffidabili, tra l’altro a causa di grave
violazione dei doveri professionali (col chiarimento che
“una grave violazione dei doveri professionali può mettere
in discussione l’integrità di un operatore economico e
dunque rendere quest’ultimo inidoneo ad ottenere
l’aggiudicazione di un appalto pubblico indipendentemente
dal fatto che abbia per il resto la capacità tecnica ed
economica per l’esecuzione dell’appalto”) e rileva altresì
il riconoscimento alle amministrazioni aggiudicatrici della
“facoltà di ritenere che vi sia stata grave violazione dei
doveri professionali qualora, prima che sia stata presa una
decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi
di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi
mezzo idoneo che l’operatore economico ha violato i suoi
obblighi”.
In coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia
formatasi sulla previgente direttiva del 2004/18/UE, del 31.03.2004, art. 45 (cfr., per tutte, la sentenza 14.12.2016, in causa C-171/15) il considerando 101 si
conclude con esplicito richiamo del principio di
proporzionalità, al fine di escludere qualsivoglia
automatismo nei confronti della stazione appaltante,
consentendole di esercitare, sia pure entro limiti definiti,
i propri poteri discrezionali nella valutazione della
sussistenza dell’elemento fiduciario nella controparte
contrattuale (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.03.2018 n. 1299 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Interesse ad impugnare la revoca della procedura
espropriativa.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità – Revoca –
Impugnazione – Interesse all’annullamento – Individuazione.
L’effettivo interesse azionato dal
soggetto che impugna la revoca della procedura di esproprio,
chiedendo che il procedimento si svolga fino all’esito
dell’espropriazione delle aree di proprietà, è relativo agli
effetti patrimoniale della procedura, e cioè alla
riscossione dell’intera indennità di esproprio e al
risarcimento dei danni che l’interessato pretende gli siano
fin qui derivati (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che i provvedimenti di revoca si
configurano in generale come tipici atti di natura
discrezionale, come tali sindacabili solo per vizi esterni e
la discrezionalità in merito dell’Amministrazione risulta
ancor più ampia quando la revoca va ad incidere su rapporti
non ancora consolidati.
Ciò posto, se del tutto ragionevolmente e legittimamente è
stata disposta la revoca, anche il recupero di quanto già
liquidato, deciso dall’amministrazione con il provvedimento
impugnato in principalità risulta coerente con il diritto di
ripetere il pagamento eseguito a favore del privato a titolo
di indennità di espropriazione A tale proposito valgono,
infatti, le regole della ripetizione dell'indebito, essendo
l'art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di
sopravvenienza della causa che rende indebito il pagamento
(Cass., s.u., nn. 5624 e 14886 del 2009).
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla mancata
previsione, nell’impugnato provvedimento di revoca,
dell’indennizzo che l’art. 21-quinquies, comma 1, ultima
parte, l. 07.08.1990, n.241 stabilisce quale obbligo a
carico dell’amministrazione, vale innanzitutto premettere
che la revoca che non prevede l’indennizzo non è
illegittima, non avendo tale omissione effetto viziante o
invalidante della revoca, ma semplicemente legittimando il
privato ad azionare in giudizio la pretesa patrimoniale.
In disparte il fatto che l’indennizzo, quale rimedio a
valenza latu sensu risarcitoria è per sua natura
connesso alla revoca di provvedimenti favorevoli, mentre,
come si è premesso, nella fattispecie viene revocato un atto
di una procedura tipicamente sfavorevole, vale, tuttavia,
fin d’ora anche puntualizzare che la revoca in esame incide,
come si è detto, in una fase del procedimento di esproprio
non ancora concluso con il provvedimento finale (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 02.03.2018 n. 50
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Emissioni rumorose -
Sfogo con impeti iracondi - Reato di cui all'art. 659 c.p. -
Natura di reato di pericolo presunto - Potenziale disturbo
delle occupazioni o il riposo di un numero indiscriminato di
persone - Reato di cui all'art. 659 c.p. - Configurabilità -
Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 659, comma 1 cod. pen. si configura
come reato di pericolo presunto, occorrendo ai fini del
perfezionamento della fattispecie criminosa che le emissioni
sonore siano potenzialmente idonee a disturbare le
occupazioni o il riposo di un numero indiscriminato di
persone secondo il parametro della normale tollerabilità,
indipendentemente da quanti se ne possano in concreto
lamentare (Cass. Sez. 1, n. 7748, 28/02/2012; Sez. 1, n.
44905, 02/12/2011, Sez. 1, n. 246, 07/01/2008; Sez. 1, n.
40393, 14/10/2004; Sez. 3, n. 27366, 06/07/2001; Sez. 1, n.
1284, 13/02/1997; Sez. 1, n. 12418, 17/12/1994).
Essendo invero l'interesse tutelato dal legislatore quello
della pubblica quiete, la quale implica di per sé l'assenza
di disturbo per la pluralità dei consociati, è necessario
che i rumori abbiano una tale diffusività che l'evento di
disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito dalla
collettività, in tale accezione ricomprendendosi ovviamente
il novero dei soggetti che si trovino nell'ambiente o
comunque in zone limitrofe alla provenienza della fonte
sonora, atteso che la valutazione circa l'entità del
fenomeno rumoroso va fatta in relazione alla sensibilità
media del gruppo sociale in cui il fenomeno stesso si
verifica (Sez. 3, n. 3678 del 01/12/2005 - dep. 31/01/2006,
Giusti).
Fattispecie: configurabilità del reato ex art. 659 c.p. per
avere mediante rumori, urla e schiamazzi durante l'orario
notturno all'interno di un edificio condominiale disturbato
il riposo dei condomini.
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo della
pubblica quiete - Verifica del superamento della soglia
della normale tollerabilità - Necessità di perizia o
consulenza tecnica - Esclusione.
In ordine all'accertamento della fattispecie criminosa, di
cui all'art. 659 c.p., non è necessario che la verifica del
superamento della soglia della normale tollerabilità sia
effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben
potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine
alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare
oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, (Cass. Sez. 1, n. 20954
del 18/01/2011 - dep. 25/05/2011, Torna), occorrendo ciò
nondimeno accertare la diffusa capacità offensiva del rumore
in relazione al caso concreto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 01.03.2018 n. 9361 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Per le mansioni superiori dirigenziali niente automatismi sulla
retribuzione di risultato.
Il dipendente pubblico che svolge mansioni superiori in
relazione a un ufficio dirigenziale non ha diritto alla retribuzione di
risultato per il solo fatto di aver svolto funzioni dirigenziali. Questa
voce retributiva è, infatti, connessa alla verifica dei risultati di
gestione, il cui raggiungimento deve essere previamente determinato.
Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la
sentenza 28.02.2018 n. 4622.
Il caso
All'origine della controversia c'è la richiesta da parte di una dipendente
del ministero dell'Interno del pagamento delle differenze retributive per lo
svolgimento di mansioni superiori. La lavoratrice, con qualifica di
direttore amministrativo contabile - III fascia retributiva, infatti, era
stata incaricata di sostituire l'allora dirigente del servizio contabilità e
gestione finanziaria del Commissariato di Governo presso cui lavorava, il
quale era stato trasferito ad altra sede, in attesa dell'assegnazione di un
altro dirigente di II fascia.
Dopo il diniego del ministero, la vicenda arrivava dinanzi ai giudici di
merito, i quali accertavano lo svolgimento delle funzioni superiori e
condannavano il Viminale al pagamento delle differenze retributive
spettanti. Quest'ultimo, tuttavia, ricorreva in Cassazione lamentando la
violazione degli articoli 21, 35 e 52 del testo unico sul pubblico impiego (Dlgs
165/2001), nonché di una serie di disposizioni del contratto 1998/2001 e
2002/2005 applicabili alla fattispecie, dai quali emergeva l'impossibilità
del riconoscimento in favore della dipendente della retribuzione di
risultato nella sua parte fissa: questa poteva essere erogata «solo a
seguito della positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi
previamente determinati cui la stessa è correlata», che nel caso di
specie mancavano.
In sostanza, non essendo stati attribuiti con l'incarico obiettivi
individuali difettava il presupposto normativo e contrattuale per la
retribuzione di risultato.
La decisione
Il ricorso del ministero coglie nel segno e la Cassazione ribalta il
verdetto di merito. Per i giudici di legittimità è vero che, in linea di
principio, in tema di lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di reggenza
del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare,
vanno incluse, nel trattamento differenziale la retribuzione di posizione e
quella di risultato, anche in osservanza del principio di adeguatezza di cui
all'articolo 36 Cost.
È però vero anche, prosegue il collegio, che gli articoli 44 del contratto
1998-2001 e 57 del Ccnl 2002-2005 stabiliscono che «la retribuzione di
risultato può essere erogata solo a seguito di preventiva, tempestiva
determinazione degli obiettivi annuali», nonché «della positiva
verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza
con detti obiettivi».
In altri termini, la retribuzione di risultato è correlata «all'effettivo
raggiungimento, anche sotto il profilo qualitativo, da parte del dirigente,
degli obiettivi preventivamente determinati», con la conseguenza che, se
manca tale predeterminazione, tale voce retributiva non può essere presa in
considerazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.03.2018).
---------------
MASSIMA
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 21, 35 e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001,
dell'accordo collettivo 31.01.2001 e del CCNL-Ministeri/dirigenti
21.04.2006, in particolare artt. 44, 48, 49, 52, 54, 57 e 58, nonché
dell'art. 67, comma 3, del CCNL 2002/2003, in relazione all'art. 360, n. 3,
cod. proc. civ..
La difesa dello Stato censura il riconoscimento alla lavoratrice, a titolo
di differenze retributive per l'esercizio delle mansioni superiori
dirigenziali, della retribuzione di risultato nella sua parte fissa, in
quanto ciò si porrebbe in contrasto con le disposizioni contrattuali
richiamate.
A sostegno della censura, il ricorrente richiama Cass., n. 20796 del 2011,
che ha affermato che in tema di lavoro pubblico contrattualizzato e di
trattamento economico del personale con qualifica dirigenziale, l'art. 44,
comma 3, del CCNL del personale dirigente dell'Area 1, 1998-2001, Comparto
Ministeri, stabilisce che la retribuzione di risultato, comprensiva della
quota fissa minima di cui si compone, è erogata solo a seguito della
positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi previamente determinati
cui la stessa è correlata.
Ne consegue che deve escludersi che tale retribuzione possa spettare per il
solo fatto dello svolgimento di funzioni superiori.
Nella specie la Di Gi. non apparteneva al ruolo dirigenziale, né le era
stato attribuito alcun incarico dirigenziale con i relativi obiettivi
individuali, per cui non poteva essere sottoposta a valutazione ai sensi
dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001, costituente presupposto normativo e
contrattuale anche per la corresponsione della retribuzione di risultato.
Pertanto alla lavoratrice non spettava alcun importo a titolo di
retribuzione di risultato neppure a titolo di parte fissa.
4.1. Il motivo è fondato.
Deve premettersi che, in linea di principio, in tema di lavoro pubblico
contrattualizzato, in caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto
temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento
differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione
di posizione e quella di risultato, atteso che l'attribuzione delle mansioni
dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilità
inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di fatto
assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di
adeguatezza sancito dall'art. 36 Cost., la corresponsione dell'intero
trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori (in tal
senso Cass. S.U., n. 3814 del 2011, n. 12193 del 2011, n. 7823 del 2013).
Ciò posto, tuttavia, è fondata la censura relativa all'attribuzione della
retribuzione di risultato, nella specie, parte fissa, in quanto la Corte
d'Appello ha ritenuto che non assumesse rilievo il conseguimento degli
obiettivi. Viene in rilievo, in proposito, il CCNL per il personale
dirigenziale del comparto ministeri.
Il CCNL 1998-2001 del 05.04.2001, all'art. 44, comma 3, e il CCNL 2002-2005
del 21.04.2006, all'art. 57, comma 3, stabiliscono che la retribuzione di
risultato può essere erogata solo a seguito di preventiva, tempestiva
determinazione degli obiettivi annuali, nel rispetto dei principi di cui
all'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 29/1993, e della positiva verifica e
certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza con detti
obiettivi, secondo le risultanze della valutazione dei sistemi di cui,
rispettivamente all'art. 35 e all'art. 21.
In sostanza la retribuzione in questione è correlata all'effettivo
raggiungimento, anche sotto il profilo qualitativo, da parte del dirigente,
degli obiettivi preventivamente determinati.
Quindi (in ragione dei principi già affermati da Cass., n. 13062 del 2014,
n. 20976 del 2011) il dipendente che svolge mansioni superiori in
relazione ad un ufficio dirigenziale, diversamente da quanto sostenuto nella
sentenza impugnata, non ha diritto alla retribuzione di risultato per il
solo fatto di avere svolto funzioni dirigenziali, poiché la stessa è
connessa alla verifica dei risultati di gestione. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
VIA, VAS E AIA - Valutazione di impatto
ambientale - Complessiva e approfondita analisi comparativa
di tutti gli elementi incidenti sull’ambiente - Fattispecie:
Attività di prospezione geofisica attraverso la tecnologia
cd. “air-gun”.
La valutazione di impatto ambientale non concerne una mera e
generica verifica di natura tecnica circa l'astratta
compatibilità ambientale dell'opera, ma deve implicare la
complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli
elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente
considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce
delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d.
"opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente
rispetto all'utilità socioeconomica perseguita (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 06.07.2016, n. 3000; id., 31.05.2012 n.
3254).
VIA, VAS E AIA - Profili di
discrezionalità amministrativa - Valutazione di legittimità
giudiziale - Limiti.
E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione
di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una
amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero
giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di
misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente
intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in
relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e
privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale
della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti
sia sul versante tecnico che amministrativo (cfr., Cons.
St., sez. II, 02.10.2014, n. 3938; sez. IV, 09.01.2014, n.
36; sez. IV, 17.09.2013, n. 4611 sez. VI, 13.06.2011, n.
3561; Corte giust., 25.07.2008, c-142/07; Corte cost.,
07.11.2007, n. 367).
In ragione di tali particolari profili che caratterizzano il
giudizio di valutazione di impatto ambientale, la relativa
valutazione di legittimità giudiziale deve essere limitata
ad evidenziare la sussistenza di vizi rilevabili ictu
oculi, a causa della loro abnormità, irragionevolezza,
contraddittorietà e superficialità.
VIA, VAS E AIA - Principio di
precauzione - Esistenza di un rischio specifico - Attività
foriere di rischi per la salute delle persone e per
l’ambiente - Seria e prudenziale valutazione - Attuale stato
delle conoscenze scientifiche disponibili - Giudizio
scientificamente attendibile.
Il principio di precauzione, i cui tratti giuridici si
individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio
analisi dei rischi-carattere necessario delle misure
adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico
all'esito di una valutazione quanto più possibile completa,
condotta alla luce dei dati disponibili che risultino
maggiormente affidabili e che deve concludersi con un
giudizio di stretta necessità della misura; non può
legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative,
tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne
dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non
significativamente pregiudizievoli; non conduce
automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera
ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute
delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro
oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria
e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato
delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che
potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione
consistente nella formulazione di un giudizio
scientificamente attendibile (ex multis, Consiglio di
Stato, sez. V, 27/12/2013, n. 6250; Cons. giust. amm.
Sicilia sez. giurisd., 03/09/2015, n. 581) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1240 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente,
un colpo alle regioni. Spetta al ministero stabilire cosa non è più rifiuto.
Per palazzo Spada, in assenza di normativa comunitaria,
possono decidere solo gli stati.
Spetta allo Stato (e nel caso di specie al ministero dell'ambiente) e non
alle regioni il potere di stabilire cosa non possa essere più considerato
come rifiuto in quanto oggetto di trattamento e recupero differenziato.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato nella
sentenza 28.02.2018 n. 1229
con la quale la IV Sez. di palazzo Spada, ribaltando la sentenza
del
Tar
Veneto n. 1422/2016, ha affermato in via di principio che spetta
allo Stato il potere di individuare, ad integrazione di quanto già previsto
dalle direttive comunitarie, le ulteriori tipologie di materiale da non
considerare più come rifiuti, in quanto riciclabili.
La vicenda trae origine dal ricorso di un'impresa che era stata autorizzata
a una attività sperimentale per il trattamento ed il recupero di rifiuti
costituiti da pannolini e assorbenti igienici, per un periodo di due anni.
La regione Veneto, tuttavia, aveva in seguito respinto la richiesta di
qualificare le attività svolte nel proprio impianto industriale, come
attività di recupero «R3», poiché, per tali materiali, la normativa
comunitaria al momento non lo prevedeva.
Il Tar aveva accolto il ricorso dell'impresa e conseguentemente annullato il
diniego, ritenendo che in mancanza di espresse previsioni comunitarie,
l'amministrazione potesse valutare caso per caso.
Il Consiglio di stato ha chiarito che, alle luce dell'art. 6 della direttiva
19.11.2008 n. 2008/98/Ce, la cessazione della qualifica di rifiuto è
riservata alla normativa comunitaria. Solo se questa tace (e non, dunque, in
contrasto con essa) «gli stati membri possono valutare caso per caso tale
possibile cessazione».
Ne consegue che «il destinatario del potere di
determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è lo Stato e
precisamente il ministero dell'ambiente che deve provvedere con propri
regolamenti. Non le regioni». Infatti, «la direttiva Ue non riconosce il
potere di valutazione caso per caso ad enti e/o organizzazioni interne allo
Stato, ma solo allo Stato medesimo, posto che la predetta valutazione non
può che intervenire, ragionevolmente, se non con riferimento all'intero
territorio di uno stato membro».
Sulla base di queste considerazioni,
palazzo Spada ha preso le distanze dalle sentenza del Tar Veneto che invece,
in mancanza di regolamenti comunitari o decreti ministeriali relativi alle
procedure di recupero di determinati rifiuti, aveva ritenuto sussistente il
potere («e il dovere») da parte delle regioni di procedere ad una
valutazione casistica «rilasciando l'autorizzazione integrata ambientale
quando la sostanza che si ottiene dal trattamento e dal recupero del rifiuto
soddisfi le quattro condizioni previste dall'art. 184-ter del dlgs 152/2006
per non essere più considerata come rifiuto (sostanza comunemente utilizzata
per scopi specifici; esistenza di un mercato; soddisfacimento di requisiti
tecnici per scopi specifici: assenza di impatti negativi sull'ambiente o
sulla salute umana) (articolo
ItaliaOggi del 02.03.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Competenza del Ministero dell'ambiente ad individuare
materiale da non considerare più come rifiuti, in quanto
riciclabili.
---------------
Rifiuti – Materiali riciclabili – Individuazione –
Competenza – E’ del Ministero dell’ambiente.
Spetta al Ministero dell’ambiente e
non alle Regioni individuare, ad integrazione di quanto già
previsto dalle direttive comunitarie, le ulteriori
“tipologie” di materiale da non considerare più come
rifiuti, in quanto riciclabili, sulla base di un analisi
caso per caso (1).
---------------
(1)
Il caso ha riguardato un’impresa che era già stata
autorizzata ad una attività sperimentale per il trattamento
ed il recupero dei rifiuti costituiti da pannolini,
pannoloni ed assorbenti igienici, per un periodo di due
anni, alla quale la Giunta regionale Veneto ha poi respinto
la richiesta di qualificare le attività svolte nel proprio
impianto industriale, come attività di recupero “R3”,
poiché, per tali materiali, la normativa comunitaria al
momento non lo prevede.
Il giudice di primo grado (Tar
Veneto n. 1422 del 2016) aveva accolto il ricorso
dell’impresa e conseguentemente annullato il diniego,
ritenendo che in mancanza di espresse previsioni
comunitarie, l’amministrazione potesse valutare caso per
caso.
Il giudice di appello, nella sentenza n. 1129 del 2018,
senza entrare nel merito tecnico della questione, ha
osservato, alle luce dell’art. 6 della direttiva 19.11.2008
n. 2008/98/CE riguardante la “cessazione della qualifica
di rifiuto” che: a) la disciplina della cessazione della
qualifica di “rifiuto” è riservata alla normativa
comunitaria; b) quest’ultima ha previsto che sia comunque
possibile per gli Stati membri valutare altri casi di
possibile cessazione; c) tale prerogativa tuttavia compete
allo Stato e precisamente al Ministero dell’Ambiente, che
deve provvedere con propri regolamenti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1229
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ok
al soccorso istruttorio. La sanatoria non deve gravare sull'operatore. La
Corte di giustizia europea giudica conforme l'istituto del Codice appalti.
Il Soccorso istruttorio previsto dal codice appalti italiano è conforme al
diritto comunitario, ma non deve comportare oneri per l'operatore economico
e non deve essere il mezzo per ammettere la presentazione di una nuova
offerta.
È quanto stabilisce la
sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16
della Corte di giustizia europea in merito alla compatibilità della
disciplina del soccorso istruttorio del codice appalti italiano (nella
versione precedente al decreto 56/2017) rispetto alla disciplina europea che
prevede le modalità con cui l'impresa offerente può sanare gli errori o le
incompletezze delle informazioni o dei documenti da lei stessa forniti
all'amministrazione in vista della partecipazione alla gara.
In base al diritto europeo è infatti esclusa la previsione di un onere
finanziario, come invece era previsto dal codice appalti fino al
l'emanazione del primo decreto correttivo del nuovo codice, entrato in
vigore il 20.05.2017. In particolare in base alla normativa italiana sul
«soccorso istruttorio», fino all'anno scorso era possibile procedere alla
«sanatoria» versando una sanzione pecuniaria (garantita da una cauzione
provvisoria) pari a un importo fisso, determinato dall'amministrazione in
misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del
valore della gara e comunque non superiore a 50 mila euro.
I casi decisi
dalla Corte europea riguardavano due appalti in cui due raggruppamenti di
concorrenti erano stati esclusi per la presenza di alcune irregolarità
sostanziali. Da qui il ricorso al Tar Lazio, il quale, in entrambe le cause,
ha chiesto in via pregiudiziale alla Corte di giustizia se la normativa
italiana sul «soccorso istruttorio» sia compatibile con la direttiva appalti
e con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza e di
proporzionalità, in ragione della previsione di una sanzione pecuniaria
quale presupposto per poter effettuare la sanatoria. Inoltre il Tar Lazio
chiedeva anche se fosse legittimo prevedere la sanzione in modo fisso e
predeterminato per qualsiasi tipo di errore o incompletezza, senza poterla
graduare in rapporto alla situazione concreta da disciplinare e alla gravità
dell'irregolarità sanabile.
La Corte ritiene compatibile con le direttive
appalti una disciplina come quella italiana che consente alla stazione
appagante di invitare l'impresa a regolarizzare l'offerta pagando una
sanzione, purché sia rispettato il principio di proporzionalità tra l'entità
della sanzione e l'irregolarità da sanare, ciò che il giudice nazionale (in
questo caso il TAR Lazio) dovrà verificare. Invece i giudici europei
censurano il fatto che l'ente aggiudicatore possa chiedere all'impresa di
regolarizzare, dietro pagamento di una sanzione, l'omesso deposito di un
documento, quando proprio tale omesso deposito comporta, per espressa
previsione delle regole dell'appalto, l'esclusione dell'offerente dalla
gara.
Inoltre, sempre secondo la Corte, il diritto dell'Unione non consente
che l'ente aggiudicatore possa chiedere all'impresa di correggere o
modificare l'offerta, quando le correzioni o modificazioni sarebbero in
realtà tali da costituire la presentazione di una nuova offerta (articolo
ItaliaOggi dell'01.03.2018). |
APPALTI:
Appalti, la Pa può «sanare» le offerte. Per le imprese
possibilità di rettificare parzialmente atti e documenti.
Corte di giustizia. Promosso l'istituto del soccorso istruttorio nato per
correggere gli errori di gara.
Promosso a
pieni voti il soccorso istruttorio nelle gare di appalto: lo afferma la
Corte di giustizia dell'Unione europea nella
sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16.
La pronuncia applica il regime (articolo 38, comma 2-bis, Dlgs 163/ 2006) del
precedente codice dei contratti pubblici, ma contiene principi validi anche
nell'attuale versione dell'articolo 83, comma 9, del codice appalti (Dlgs
50/2016), come modificato dall'articolo 52 Dlgs 56/2017 (attuale Codice).
Identica è infatti la finalità di garantire buon andamento e rapidità delle
procedure, evitando la caccia all'errore, cioè la ricerca degli sbagli e
delle inesattezze che potrebbero, per meri motivi formali, condurre
all'esclusione dei concorrenti avversari. La Corte di giustizia si esprime
in senso favorevole anche nei confronti del soccorso istruttorio «a
pagamento», meccanismo oggi (dal Dlgs 56/2017) non più applicabile, che
prevedeva un ticket da pagare (fino a 5mila euro) per ottenere la
possibilità di rettificare parzialmente atti e documenti di gara.
Il ragionamento svolto dai giudici europei distingue tra rettifica,
correzione e completamento dei documenti di gara, ammettendo chiarimenti e
correzioni di errori materiali manifesti. Il confine da non superare è
rappresentato dai requisiti richiesti espressamente dal bando di gara:
questi, se non rispettati, non possono essere forniti successivamente.
Occorre quindi evitare che, attraverso chiarimenti e correzioni, si
costruisca una nuova offerta, alterando la par condicio tra concorrenti.
Quasi contemporaneamente a questa pronuncia, con la stessa logica i giudici
amministrativi nazionali si stanno occupando del soccorso istruttorio
applicato agli oneri di sicurezza (Consiglio di Stato 28.02.2018 n.
1228). In particolare, i principi del soccorso istruttorio che la Corte di
giustizia ritiene diretta proiezione di esigenze di trasparenza,
proporzionalità e parità di trattamento, stanno modificando anche lo stile
delle sentenze nazionali, poiché quando il giudice si rende conto di essere
in presenza di un errore sanabile sollecita l'amministrazione ad esercitare
il soccorso istruttorio.
In tal modo, il potere di soccorso si converte in dovere di soccorso perché,
prima di arrivare ad una sentenza (che si limiterebbe ad annullare la gara
perché non è stato esercitato il soccorso istruttorio), è possibile che il
giudice ordini all'amministrazione di riesaminare gli atti ed applicare il
soccorso al concorrente che abbia fornito dati solo incompleti (Tar Napoli,
ordinanza 253/2018; Trga Trento 5/2018 ).
Princìpi analoghi, inoltre, si fanno strada anche in altri settori, come ad
esempio nell'edilizia, dove il responsabile del procedimento può suggerire
lievi rettifiche alle istanze di permesso di costruire, applicando
l'articolo 6, comma 1, lettera B, della legge 241/1990 e l'articolo 20 del
Testo unico dell'edilizia 380/2001. Il buon andamento è infatti matrice
comune di tutti i provvedimenti amministrativi
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
La Corte di giustizia UE fissa i limiti di ammissibilità del
soccorso istruttorio
---------------
●
Contratti pubblici – Gara - Soccorso istruttorio – Onerosità
– Legittimità – Misura – Proporzionalità.
●
Contratti pubblici – Gara - Soccorso istruttorio – Sanatoria
di elemento essenziale dell’offerta – Esclusione.
●
Il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 51 della
direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi, i principi relativi
all’aggiudicazione degli appalti pubblici, tra i quali
figurano i principi di parità di trattamento e di
trasparenza di cui all’articolo 10 della direttiva
2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, e all’articolo 2
della direttiva 2004/18, nonché il principio di
proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non
ostano, in linea di principio, a una normativa nazionale che
istituisce un meccanismo di soccorso istruttorio in forza
del quale l’amministrazione aggiudicatrice può, nel contesto
di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
invitare l’offerente la cui offerta sia viziata da
irregolarità essenziali, ai sensi di detta normativa, a
regolarizzare la propria offerta previo pagamento di una
sanzione pecuniaria, purché l’importo di tale sanzione
rimanga conforme al principio di proporzionalità,
circostanza questa che spetta al giudice del rinvio
verificare (1).
●
Per contro, queste stesse disposizioni e questi
stessi principi devono essere interpretati nel senso che
ostano a una normativa nazionale che istituisce un
meccanismo di soccorso istruttorio in forza del quale
l’amministrazione aggiudicatrice può imporre a un offerente,
dietro pagamento da parte di quest’ultimo di una sanzione
pecuniaria, di porre rimedio alla mancanza di un documento
che, secondo le espresse disposizioni dei documenti
dell’appalto, deve portare alla sua esclusione, o di
eliminare le irregolarità che inficiano la sua offerta in
modo tale che le correzioni o modifiche apportate
finirebbero con l’equivalere alla presentazione di una nuova
offerta (2).
---------------
(1-2) I. - Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia
dell’Unione europea, nell’esaminare le questioni ad essa
rimesse dal Tar per il Lazio–Roma, in sede di rinvio
pregiudiziale, con due distinte ordinanze, fissa alcuni
importanti principi in tema di soccorso istruttorio in
materia di procedure di appalto, sia con riferimento al c.d.
<soccorso a pagamento> (previsto dall’art. 38, comma 2-bis,
del d.lgs. n. 163 del 2006, oggetto di esame da parte della
Corte, oggi non più contemplato dal Codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, a seguito delle
modifiche operate dal d.lgs. n. 56 del 2017), sia più in
generale sull’ambito di operatività dell’istituto del
<soccorso istruttorio>, prendendo a riferimento la
disciplina europea di cui alle direttive 2004/17/CE e
2004/18/CE.
Le fattispecie poste all’esame del giudice del rinvio
riguardavano procedure di gara nelle quali la stazione
appaltante, riscontrate irregolarità essenziali in ordine a
dichiarazioni sostitutive da presentare da parte degli
offerenti, ha proceduto alla attivazione del soccorso
istruttorio di cui all’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n.
163 del 2006, invitando gli offerenti a porre fine alle
irregolarità in un termine assegnato nonché disponendo il
pagamento di sanzione pecuniaria, come stabilita dalla
disciplina di gara.
Più in particolare nel primo caso (causa C-253/16) si
trattava di procedura indetta da società facente parte del
Gruppo Ferrovie dello Stato, avente ad oggetto
l’aggiudicazione di appalto per “attività integrate di
manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché del servizio
energia presso i complessi immobiliari delle stazioni
ferroviarie” e l’elemento mancante era la <dichiarazione di
impegno>, sottoscritta da tutte le imprese facenti parte di
costituendo RTI, a conferire mandato speciale collettivo con
rappresentanza alla impresa capogruppo; nel secondo caso
(causa C-536/16) si trattava invece della gara indetta dalla
Cassa di Previdenza e Assistenza dei Ragionieri e Periti
commerciali (CNPR) per la stipula di accordo quadro per la
gestione di patrimonio immobiliare e l’elemento mancante era
la <dichiarazione sull’onore> circa l’assenza di condanne
penali a carico dei legali rappresentanti dell’offerente.
Gli operatori economici interessati, in entrambi i casi,
provvedevano a integrare la documentazione mancante, ma
contestavano in sede giurisdizionale l’obbligo di pagamento
della sanzione.
Il Tar per il Lazio–Roma sez. III, rispettivamente con
l’ordinanza n. 10012 del
03.10.2016 nel primo caso
(oggetto della
News US in data
05.10.2016) e con
l’ordinanza n. 10222 del 13.10.2016 nel secondo caso,
ha investito la Corte di giustizia dell’Unione europea, in
sede di rinvio pregiudiziale, dei seguenti identici quesiti:
I) “se, pur essendo facoltà degli Stati membri imporre il carattere
oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, sia,
o meno, contrastante con il diritto comunitario l’art. 38,
comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo vigente alla
data del bando di cui trattasi laddove è previsto il
pagamento di una “sanzione pecuniaria”, nella misura che
deve essere fissata dalla stazione appaltante (“non
inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per
cento del valore della gara e comunque non superiore a
50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione
provvisoria”), sotto il profilo dell’importo eccessivamente
elevato e del carattere predeterminato della sanzione
stessa, non graduabile in rapporto alla situazione concreta
da disciplinare, ovvero alla gravità dell’irregolarità
sanabile”;
II) “se, al contrario, il medesimo art. 38, comma 2-bis, del d.lgs.
n. 163 del 2006 sia contrastante con il diritto comunitario,
in quanto la stessa onerosità del soccorso istruttorio può
ritenersi in contrasto con i principi di massima apertura
del mercato alla concorrenza, cui corrisponde il predetto
istituto, con conseguente riconducibilità dell’attività, al
riguardo imposta alla commissione aggiudicatrice, ai doveri
imposti alla medesima dalla legge, nell’interesse pubblico
al perseguimento della finalità sopra indicata”.
II. - La Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. VIII, nella
sentenza 28.02.2018, nelle cause riunite C-523/16 e
536/16, procede in primo luogo, in seno alle “osservazioni
preliminari“, alla esatta ricognizione della normativa
europea applicabile nelle fattispecie in esame, passando
quindi ad affrontare le “questioni pregiudiziali”, nel qual
contesto la Corte risponde ai quesiti posti con le ordinanze
di rimessione e svolge importanti considerazioni sull’ambito
oggettivo di operatività del <soccorso istruttorio>.
In sede di “osservazioni preliminari” la Corte UE rileva
quanto segue:
a) sebbene nelle ordinanze di rimessione il giudice del rinvio
abbia precisato di nutrire dubbi circa la compatibilità
dell’articolo 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006,
sia con l’articolo 51 della direttiva 2004/18 sia con
l’articolo 59, paragrafo 4, secondo comma, della direttiva
n. 2014/24/UE, che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve
evidenziarsi che, tenuto conto delle date di pubblicazione
dei bandi di gara di cui trattasi, vale a dire gennaio 2016
per la causa C 523/16 e ottobre 2014 per la causa C 536/16,
la direttiva 2014/24, il cui termine di trasposizione, ai
sensi del suo articolo 90, è scaduto il 18.04.2016, non
è applicabile ratione temporis alle controversie principali;
infatti, secondo la giurisprudenza costante della Corte, la
direttiva applicabile nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici è, in linea di
principio, quella vigente nel momento in cui
l’amministrazione aggiudicatrice opera la scelta della
procedura da indire, mentre sono inapplicabili le
disposizioni di una direttiva il cui termine di
trasposizione sia scaduto dopo tale data;
b) tenuto conto dell’oggetto dell’appalto di cui al procedimento
principale nella causa C 523/16 (“attività integrate di
manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché del servizio
energia presso i complessi immobiliari delle stazioni
ferroviarie”), in relazione ad essa è verosimilmente la
direttiva 2004/17, e non la direttiva 2004/18, che trova
applicazione;
c) sebbene la direttiva 2004/17 non contenga disposizioni
equivalenti a quelle dell’articolo 51 della direttiva
2004/18, tuttavia la Corte ha ammesso che l’amministrazione
aggiudicatrice possa invitare un concorrente a chiarire
un’offerta o a rettificare un errore materiale manifesto
contenuto in quest’ultima, a patto di rispettare determinati
requisiti e, in particolare, che un tale invito sia rivolto
a qualsiasi offerente che si trovi nella stessa situazione,
che tutti gli offerenti siano trattati in modo uguale e
leale e che tale chiarimento o tale rettifica non possa
essere assimilato alla presentazione di una nuova offerta;
d) sebbene il giudice del rinvio abbia, dal punto di vista formale,
limitato le sue domande di pronuncia pregiudiziale
all’interpretazione dell’articolo 51 della direttiva
2004/18, tale circostanza non osta a che la Corte gli
fornisca tutti gli elementi interpretativi del diritto
dell’Unione che possano essere utili per la soluzione delle
controversie di cui è investito, indipendentemente dal fatto
che esso vi abbia fatto o meno riferimento nella
formulazione delle suddette questioni.
Nella disamina delle questioni propriamente pregiudiziali la
Corte svolge il seguente percorso argomentativo:
e) sulla ammissibilità del <soccorso a pagamento>:
e1) l’articolo 51 della direttiva 2004/18 prevede
che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice può
invitare gli operatori economici a integrare o chiarire i
certificati e i documenti presentati ai sensi degli articoli
da 45 a 50 di tale direttiva, ma né tale disposizione né
alcun altra disposizione della direttiva 2004/18 contengono
precisazioni sulle modalità in base alle quali una siffatta
regolarizzazione può avvenire o sulle condizioni alle quali
essa può eventualmente essere soggetta;
e2) ne consegue che, nell’ambito delle misure di
trasposizione della direttiva 2004/18 che gli Stati membri
devono adottare, questi ultimi sono liberi, in linea di
principio, non solo di prevedere una siffatta possibilità di
regolarizzazione delle offerte nel loro diritto nazionale,
ma anche di regolamentarla e quindi, a tale titolo, gli
Stati possono decidere di subordinare la possibilità di
regolarizzazione al pagamento di una sanzione pecuniaria,
come prevede nella fattispecie l’articolo 38, comma 2-bis,
del d.lgs. n. 163 del 2006;
e3) tuttavia gli Stati membri devono fare in modo
di non compromettere la realizzazione degli obiettivi
perseguiti da tale direttiva e di non pregiudicare né
l’effetto utile delle sue disposizioni né le altre
disposizioni e gli altri principi pertinenti del diritto
dell’Unione, in particolare i principi di parità di
trattamento e di non discriminazione, di trasparenza e di
proporzionalità;
f) sui limiti entro i quali un’offerta può essere regolarizzata o
chiarita:
f1) l’articolo 51 della direttiva 2004/18 non può
essere interpretato nel senso di consentire
all’amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi
rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni
dei documenti dell’appalto, devono portare all’esclusione
dell’offerente, e a conclusioni analoghe la Corte è giunta
in relazione all’applicazione della direttiva 2004/17; la
Corte ha infatti chiarito che nessuna delle due direttive
ostava a che i dati relativi a un’offerta potessero essere
corretti o chiariti (specie per correggere errori materiali
manifesti), fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di
requisiti;
f2) una richiesta di chiarimenti non può così
ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione
la cui comunicazione fosse richiesta dai documenti
dell’appalto, dovendo l’amministrazione aggiudicatrice
osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati né
una siffatta richiesta può condurre alla presentazione, da
parte dell’offerente interessato, di quella che in realtà
sarebbe una nuova offerta;
f3) spetta al giudice del rinvio, il solo
competente ad accertare e valutare i fatti delle
controversie principali, esaminare se, tenuto conto delle
circostanze, le regolarizzazioni richieste dalle
amministrazioni aggiudicatrici riguardassero la
comunicazione di documenti la cui mancanza doveva comportare
l’esclusione degli offerenti o se, al contrario,
costituissero con tutta evidenza semplici richieste di
chiarimenti in merito a offerte che dovevano essere corrette
o completate su singoli punti o essere oggetto di una
correzione di errori materiali manifesti;
f4) ciò premesso, si deve constatare che la
nozione stessa di irregolarità essenziale, che non è
definita nell’articolo 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163
del 2006, non appare compatibile né con le disposizioni
dell’articolo 51 della direttiva 2004/18 né con i requisiti
ai quali è subordinato, ai sensi della giurisprudenza della
Corte, il chiarimento di un’offerta nell’ambito di un
appalto pubblico soggetto alla direttiva 2004/17;
f5) soltanto nell’ipotesi in cui il giudice del
rinvio dovesse pervenire alla conclusione che le domande di
regolarizzazione o di chiarimento formulate dalle
amministrazioni aggiudicatrici soddisfacevano i requisiti
richiamati, egli sarà tenuto ad esaminare se le sanzioni
pecuniarie inflitte nei due procedimenti principali, in
applicazione dell’articolo 38, comma 2-bis, del codice dei
contratti pubblici, rispettino il principio di
proporzionalità;
g) sulla proporzionalità delle sanzioni inflitte:
g1) è vero che la fissazione anticipata da parte
dell’amministrazione aggiudicatrice dell’importo della
sanzione nel bando di gara risponde alle esigenze derivanti
dai principi di parità di trattamento tra gli offerenti, di
trasparenza e di certezza del diritto, in quanto
oggettivamente consente di evitare qualsiasi trattamento
discriminatorio o arbitrario di questi ultimi da parte della
suddetta amministrazione aggiudicatrice; cionondimeno,
l’applicazione automatica della sanzione così prestabilita,
indipendentemente dalla natura delle regolarizzazioni
operate dall’offerente negligente e quindi anche in assenza
di qualsiasi motivazione individuale, non appare compatibile
con le esigenze derivanti dal rispetto del principio di
proporzionalità;
g2) importi di sanzioni come quelli stabiliti nei
bandi di gara da parte delle amministrazioni aggiudicatrici
nei due procedimenti principali appaiono di per sé
manifestamente esorbitanti, tenuto conto dei limiti entro i
quali devono mantenersi sia la regolarizzazione di
un’offerta a titolo dell’articolo 51 della direttiva 2004/18
sia il chiarimento di un’offerta nell’ambito della direttiva
2004/17;
g3) ciò è particolarmente evidente nel caso di
una sanzione, come quella inflitta dall’amministrazione
aggiudicatrice nella causa C-523/16, che appare
manifestamente eccessiva rispetto ai fatti censurati, vale a
dire l’omessa firma di una dichiarazione di impegno recante
la designazione della società capogruppo del raggruppamento
offerente.
III. - Per completezza si segnala quanto segue:
h) sulla precedente giurisprudenza della Corte
UE, coerente con le statuizioni della sentenza in rassegna:
h1)
Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 10.05.2017, C-131/16, Archus (oggetto
della
News US in data 19.05.2017) in Foro amm. 2017, 999
che, nel dettare i requisiti del soccorso istruttorio,
esclude espressamente, da un lato, che la richiesta di
chiarimenti possa condurre alla presentazione di quella che
sarebbe in realtà una nuova offerta e, dall’altro, che essa
possa ovviare alla mancanza di un documento o di
un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai
documenti dell’appalto;
h2)
Corte di giustizia UE, sez. VI, sentenza
02.06.2016, in causa C-27/15, Pippo Pizzo
(oggetto della
News US in data
05.07.2016, in Foro it.,
2017, IV, 206 con nota di CONDORELLI), in punto di
necessaria chiarezza della disciplina di gara e sulla
conseguente necessità di soccorso istruttorio ove
l’operatore economico sia caduto in errore per ambiguità
della normativa di gara o errore della stazione appaltante;
h3) Corte di giustizia
UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera d’Adda in Urb.
e app., 2015, 137 con nota di PATRITO e Dir. proc. amm.,
2015, 1006 con nota di MAMELI;
i) sulla applicabilità del soccorso istruttorio
alla fattispecie della esclusione dalla gara per mancata
separata indicazione degli oneri di sicurezza aziendale
interni:
i1) Cons. Stato, Ad. plen., 20.03.2015, n. 3, in Foro it., 2016, III, 114, con nota di
TRAVI, secondo cui l’omessa specificazione nelle offerte per
lavori dei costi di sicurezza interni comporta la loro
esclusione dalla gara, senza possibilità di ricorrere al
soccorso istruttorio ed a prescindere dal fatto che la lex
specialis di gara esplicitasse o meno l’obbligo di
allegazione dei suddetti costi;
i2) Cons. Stato, Ad. plen.
02.11.2015, n. 9, in Foro it., 2016, III, 65, con nota
di CONDORELLI, ove si chiarisce la portata meramente
interpretativa della sopra citata sentenza n. 3 del 2015,
con conseguente applicabilità del principio da quest’ultima
sancito anche alle gare bandite prima della sua emanazione;
i3)
Cons. Stato, Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (oggetto della
News US in data
01.08.2016, in Foro it., 2017, III, 309 con nota di GAMBINO) la
quale, facendo tesoro delle considerazioni di cui alla già
citata sentenza della Corte di giustizia UE del 02.06.2016, Pippo Pizzo, ha affermato il principio di diritto
secondo cui “per le gare bandite anteriormente all’entrata
in vigore del d.lgs. 18.04.2016 n. 50, nelle ipotesi in
cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza
aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e
non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale
l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale,
l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non
dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare
l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio
dei poteri di soccorso istruttorio”;
i4) Corte di giustizia UE, sez.
VI, sentenza 10.11.2016,
C-140/16,
C-697/15,
C-162/16,
Spinosa (oggetto della
News US in data 25.11.2016, in
Appalti & Contratti, 2016, fasc. 12, 80 (m), che ha avallato
nella sostanza la soluzione raggiunta dalla sentenza della
Adunanza plenaria n. 19 del 2016 (statuendo che le norme
europee “ostano all’esclusione di un offerente dalla
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti. I principi della parità
di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere
interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere
a un tale offerente la possibilità di rimediare alla
situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine
fissato dall’amministrazione aggiudicatrice”);
i5) nel nuovo codice degli
appalti pubblici la materia trova una più puntuale
disciplina nell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016:
I)
il Consiglio di Stato ha affermato che ai sensi dell’art.
95, comma 10, cit. l’indicazione degli oneri per la
sicurezza aziendale nell’ambito dell’offerta economica è
doverosa, con l’effetto che l’eventuale carente indicazione
non può essere sanata mediante il potere di soccorso
istruttorio, espressamente escluso dall’art. 83, comma 9,
del medesimo codice, per elementi relativi all’offerta
(Cons. Stato, sez. V, 07.02.2018, n. 815 e Cons. Stato,
sez. V, 28.02.2018, n. 1228);
II) è invece divisa la
giurisprudenza di primo grado: un orientamento, in linea di
continuità con la giurisprudenza anteriore all’entrata in
vigore del nuovo codice appalti, ammette, a certe
condizioni, anche in relazione alla disciplina del nuovo
codice il soccorso istruttorio per la mancata indicazione
degli oneri della sicurezza aziendale (Tar per il Lazio-Roma - Sez. II-ter, 20.07.2017, n. 8819; Tar per il Lazio–Roma - sez. I-bis, 15.06.2017, n. 7042; Tar per la
Sicilia–Catania - sez. III, 20.11.2017, n. 2705); altro
orientamento ritiene invece operante l’esclusione automatica
per il concorrente che non abbia specificato gli oneri della
sicurezza interna nell’offerta economica (Tar per la
Calabria-Reggio Calabria - 25.02.2017, n. 166, Tar per
la Campania–Salerno - 06.07.2016 n. 1604, Tar per il
Molise 09.12.2016, n. 513);
j) sull’evoluzione normativa dell’istituto del
soccorso istruttorio e del correlato principio di
tassatività delle cause di esclusione si veda R. DE NICTOLIS,
I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1054-1088, che
analizza dettagliatamente i singoli passaggi disciplinari ed
interpretativi, la cui scansione può essere sintetizzata con
richiamo alle fonti succedutisi nel tempo:
j1) art. 46, comma 1, d.lgs. n.
163 del 2006 nella sua originaria versione, sulla quale si è
pronunciato Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9
(in Foro it., 2014, III, 429 con note di TRAVI e SIGISMONDI
e Dir. proc. amm., 2014, 544, nota di BERTONAZZI), ove è
esposta una lettura dell’istituto del soccorso istruttorio
in materia di appalti che corrisponde a quella fatta propria
dalla Corte di giustizia nella sentenza in rassegna (infatti
nella richiamata pronuncia dell’Adunanza Plenaria si afferma
che il potere di soccorso “non consente la produzione
tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la
sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano
prescritti a pena di esclusione dal codice dei contratti
pubblici o dal suo regolamento d'attuazione o dalle leggi
dello Stato”);
j2) disciplina del d.lgs. n.
163 del 2006 novellata dal decreto-legge n. 90 del 2014, che
introduce il comma 1-ter all’art. 46 e il comma 2-bis
all’art. 38, ampliando significativamente le possibilità di
soccorso istruttorio e introducendo il soccorso a pagamento;
è la disciplina sulla quale si è pronunciata la Corte di
giustizia nella sentenza in esame; su tale disciplina A.
CASTELLI, Il soccorso istruttorio <a pagamento> tra
contrasti giurisprudenziali e riforma codicistica in Urb. e
app., 2016, 1251;
j3) artt. 56, par. 3, direttiva
2014/24/UE e 76, par. 4, direttiva 2014/25/UE su cui C.
LAMBERTI e S. VILLAMENA, Nuove direttive appalti: <sistemi
di selezione> e <criteri di aggiudicazione> in Urb. e app.
2015, 873;
j4) art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, sulla quale S.
USAI, Il soccorso istruttorio integrativo nel nuovo codice
degli appalti in Urb. e app., 2016, 1139 e L. TARANTINO, Il
soccorso istruttorio nel vecchio e nel nuovo codice dei
contratti pubblici in Urb. e app. 2017, 127;
j5) infine la disciplina del
codice del 2016 novellata dal d.lgs. n. 57 del 2017, sul
quale F.A BELLA, Le novità in tema di soccorso istruttorio
in M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI (a cura di), Il
correttivo al codice dei contratti pubblici, Milano, 2017,
227 e F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e soccorso
istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti
pubblici in Urb. e app., 2017, 745;
k) sui più recenti orientamenti
giurisprudenziali:
k1) per una panoramica
generale: S. CRESTA e L. POLITO, Percorsi di giurisprudenza
– Il soccorso istruttorio nella contrattualistica pubblica
in Giur. it., 2017, 2516 e, per gli anni precedenti, A.
MANZI, Percorsi di giurisprudenza – il soccorso istruttorio
negli appalti e negli altri procedimenti in Giur. it., 2016,
2520;
k2) Cons. Stato, sez. V, 14.07.2017, n. 3645, ove si afferma che, rispetto ai
requisiti di partecipazione, la stazione appaltante è libera
di attivare il soccorso istruttorio in favore dell’impresa
concorrente anche in un momento successivo
all’aggiudicazione in favore di quest’ultima, configurando
quindi una sorta di soccorso istruttorio “postumo”;
k3) in tema di c.d. <soccorso
istruttorio processuale>:
I) Cons. Stato, sez. III,
02.03.2017, n. 976, affronta funditus il tema della ammissibilità
anche di un soccorso istruttorio “processuale”, con
riferimento all’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia
illegittimamente ammesso alla gara un’offerta carente, sotto
il profilo meramente formale, del prescritto supporto
documentale e si evidenzi che la riscontrata carenza
documentale e probatoria, se accertata tempestivamente nel
corso dello svolgimento della procedura di gara, non avrebbe
consentito l’immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe
imposto alla stazione appaltante l’attivazione del
procedimento del soccorso istruttorio; a fronte della
contestazione in sede giudiziaria della altrui ammissione
alla procedura, per carenza formale, ad avviso della
sentenza in esame, il giudice non ha il potere di rilevare
d’ufficio la sanabilità del vizio di forma e la concreta
sussistenza del requisito controverso, non è neppure
necessario però che l’aggiudicatario illegittimamente
ammesso alla gara articoli un ricorso incidentale, teso ad
evidenziare l’ulteriore illegittimità commessa dalla
stazione appaltante, consistente nella omessa attivazione
del procedimento di soccorso istruttorio, potendosi invece
limitare ad una deduzione difensiva, in seno alla quale però
deve assolvere l’onere della prova (ex art. 2697 c.c.) circa
la sanabilità o meno dell’irregolarità commessa;
II)
l’ammissibilità del c.d. “soccorso istruttorio processuale”
è stato successivamente confermata anche da Cons. Stato,
sez. V, 27.12.2017, n. 6078 e da Cons. Stato, sez. V,
11.12.2017, n. 5826 (Corte
giust. comm. ue, sez. VIII,
sentenza 28.02.2018, nn. C-523/16 e C-536/16 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Corte Ue: la Via postuma è ammissibile. Marche. Nel 2012 un
impianto di energia a biogas era stato autorizzato senza essere stato
sottoposto a valutazione impatto ambientale.
L'esame "postumo" di un progetto già realizzato per verificare se vada
sottoposto a Via è possibile, ma nel rispetto di precise condizioni.
Questo
è il principio espresso dalla Corte di Giustizia Ue con
sentenza 28.02.2018 n. C‑117/17 sulla domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dal Tar
Marche.
Nel 2012 un impianto di energia a biogas di potenza inferiore a 1 Mw era stato
autorizzato senza essere stato sottoposto a Via poiché non prevista dalla
legge regionale Marche 3/2012, ma contemplata dalle norme Ue.
Il Comune territorialmente competente aveva impugnato l'autorizzazione
rilasciata per violazione delle norme Ue sulla Via. Nel frattempo, nel 2013
la Corte Costituzionale aveva dichiarato il legittima la legge marchigiana
(sentenza 93/2013) e con DM 30.03.2015 erano state date ulteriori
indicazioni sui criteri di assoggettamento degli impianti a screening o a
Via (in aggiunta ai criteri già presenti nel Dlgs 152/2006, parte II).
In
ragione del mutato quadro normativo il 03.06.2015 la Regione Marche, su
istanza dell'impresa, dichiarava che l'impianto non doveva essere sottoposto
a Via e confermava l'autorizzazione rilasciata nel 2012. Il Comune impugnava
questa decisione delle Marche e il Tar investiva la Corte Ue in materia
chiedendo se fosse compatibile col diritto Ue una valutazione "ex post"
sulla sottoposizione di un impianto a verifica di assoggettabilità a Via o a
Via. I giudici hanno risposto che la mancanza di Via, quando prevista, è
un'omissione illegittima.
Inoltre, poiché gli Stati membri devono adottare tutte le misure necessarie
ad eliminare le conseguenze illecite dell'omissione, tra queste ci può
essere anche un esame postumo sulla necessità o meno della Via, a due
condizioni: la regolarizzazione postuma sia un modo per eludere le norme Ue;
l'esame sulla necessità della Via ex post consideri anche il concreto
impatto ambientale eventualmente già verificatosi per effetto della
costruzione.
L'esame "postumo" potrebbe anche, in ipotesi, condurre perla non necessità
della Via in base alle norme nazionali, purché compatibili con la direttiva
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La
Corte di giustizia UE detta ulteriori condizioni in tema di
c.d. V.I.A. postuma.
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Ambiente – V.i.a. – Impianti produzione energia elettrica
– Omissione – Costruzione e messa in esercizio –
Regolarizzazione – Ammissibilità – Condizioni.
Qualora un progetto di potenziamento
di un impianto per la produzione di energia elettrica, come
quello di cui trattasi nel procedimento principale, non sia
stato sottoposto a una verifica preliminare di
assoggettabilità a una valutazione di impatto ambientale ai
sensi di disposizioni nazionali successivamente dichiarate
incompatibili quanto a tale aspetto con la direttiva
2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
13.12.2011, concernente la valutazione dell’impatto
ambientale di determinati progetti pubblici e privati, il
diritto dell’Unione prescrive che gli Stati membri eliminino
le conseguenze illecite di detta violazione e non osta a che
tale impianto formi oggetto, dopo la realizzazione di tale
progetto, di una nuova procedura di valutazione da parte
delle nuove autorità competenti al fine di verificare la
conformità ai requisiti di tale direttiva e, eventualmente,
di sottoporlo a una valutazione di impatto ambientale,
purché le norme nazionali che consentono tale
regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione
di eludere le norme di diritto dell’Unione o di esimersi
dall’applicarle.
Occorre altresì tenere conto dell’impatto ambientale
intervenuto a partire dalla realizzazione del progetto. Tali
autorità nazionali possono considerare, ai sensi delle
disposizioni nazionali in vigore alla data in cui esse sono
chiamate a pronunciarsi, che una tale valutazione di impatto
ambientale non risulti necessaria, nei limiti in cui dette
disposizioni siano compatibili con la direttiva di cui
trattasi (1).
--------------
(1)
I. - Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di giustizia ha
risolto i dubbi sollevati dal Tar per le Marche (cfr.
sentenza non definitiva 10.02.2017, n. 114),
pronunciando sulla possibilità di sottoporre a verifica di
assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed
eventualmente alla stessa VIA) un impianto già realizzato
nel caso di annullamento dell’autorizzazione proprio a
cagione della mancata sottoposizione a verifica di
assoggettabilità a VIA.
La decisione in oggetto si riconnette a quella resa dalla
medesima
Corte il 26.07.2017 (oggetto della
News in data 28.02.2018), sempre su rimessione
del Tar per le Marche in una fattispecie analoga.
Per maggiore chiarezza va evidenziato come, nella vicenda
decisa dalla sentenza della Corte del luglio 2017, venisse
in rilievo la problematica della c.d. VIA postuma,
caratterizzata dall’annullamento -in applicazione della
sentenza della Corte costituzionale 22.05.2013, n. 93 (in
Giur. costit, 2013, 3, 1592 con nota di CALZOLAIO e LONGO;
Dir. e giur. agr. e ambiente, 2013, 520, con nota di SAVINI)-
dell’autorizzazione unica alla realizzazione
dell’infrastruttura energetica, dopo che i proponenti
avevano attivato la procedura di VIA, che si era conclusa
favorevolmente e che in alcuni casi era stata già seguita
dal rilascio di una nuova autorizzazione unica (tali
provvedimenti erano stati impugnati dai soggetti pubblici o
privati che avevano ottenuto l’annullamento delle
autorizzazioni originarie).
Nella presente controversia la questione veniva reputata
ancor più rilevante in quanto nei casi precedenti la VIA era
stata quantomeno svolta (sia pure ad impianto già
realizzato), mentre nella specie la valutazione di impatto
ambientale non era stata svolta né ab origine -in
applicazione di una norma poi dichiarata incostituzionale-
né in via postuma.
II.- Nell’impostare il ragionamento che ha portato alla soluzione
di cui alla massima, la sentenza parte dal richiamo a quanto
evidenziato nella precedente sentenza del 26.07.2017, con
particolare riferimento al fatto che, in caso di omissione
di una VIA prescritta dal diritto dell’Unione, gli Stati
membri hanno l’obbligo di eliminare le conseguenze illecite
di detta omissione e che il diritto dell’Unione non osta a
che una tale valutazione sia effettuata a titolo di
regolarizzazione, dopo la costruzione e la messa in servizio
dell’impianto interessato, alla duplice condizione, da un
lato, che le norme nazionali che consentono tale
regolarizzazione non offrano agli interessati l’occasione di
eludere le norme di diritto dell’Unione o di disapplicarle
e, dall’altro, che la valutazione effettuata a titolo di
regolarizzazione non si limiti all’impatto futuro di tale
impianto sull’ambiente, ma prenda in considerazione altresì
l’impatto ambientale intervenuto a partire dalla sua
realizzazione.
La Corte prosegue, sempre richiamando il precedente
predetto, ribadendo le condizioni in presenza delle quali il
diritto dell’Unione non osta, qualora un progetto non sia
stato sottoposto alla verifica preliminare
dell’assoggettabilità a VIA in applicazione di disposizioni
incompatibili con la direttiva 2011/92, a che tale progetto,
anche successivamente alla sua realizzazione, sia oggetto di
una verifica delle autorità competenti per determinare se
esso debba o meno essere sottoposto a VIA, eventualmente in
base a una normativa nazionale sopravvenuta, a condizione
che quest’ultima sia compatibile con tale direttiva.
A fronte delle peculiarità del caso di specie, la Corte
fornisce poi ulteriori precisazioni. Qualora un progetto di
potenziamento di un impianto per la produzione di energia
elettrica, come quello di cui trattasi nel procedimento
principale, non sia stato sottoposto a una verifica
preliminare di assoggettabilità a VIA ai sensi di
disposizioni nazionali successivamente dichiarate
incompatibili con la direttiva 2011/92 quanto a tale
aspetto, il diritto dell’Unione prescrive che gli Stati
membri eliminino le conseguenze illecite di detta violazione
e non osta a che tale impianto formi oggetto, dopo la
realizzazione di tale progetto, di una nuova procedura di
valutazione da parte delle autorità competenti al fine di
verificare la conformità ai requisiti di tale direttiva e,
eventualmente, di sottoporlo a VIA, purché le norme
nazionali che consentono tale regolarizzazione non
forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme
di diritto dell’Unione o di esimersi dall’applicarle.
Occorre altresì tenere conto dell’impatto ambientale
intervenuto a partire dalla realizzazione del progetto. Tali
autorità nazionali possono considerare, ai sensi delle
disposizioni nazionali in vigore alla data in cui esse sono
chiamate a pronunciarsi, che una tale VIA risulta
necessaria, nei limiti in cui dette disposizioni siano
compatibili con la direttiva di cui trattasi.
III. - A fini di completezza si richiama:
a) la precedente decisione della
Corte di giustizia dell’UE, Sez. I, 26.07.2017, C-196/16 e
C-197/16, Comune di Corridonia, su cui cfr.
News US 28.02.2018 ai cui approfondimenti si
rinvia, secondo la quale “nel caso di omessa valutazione
di impatto ambientale di un progetto di impianto per la
produzione di energia elettrica da biogas, ottenuto dalla
digestione anaerobica di biomasse, le norme di diritto
dell'Unione Europea (art. 2 della Direttiva 85/337/CEE, poi
sostituito dall'art. 2 della Direttiva 2011/92/UE), da un
lato, impongono agli Stati membri di rimuovere le
conseguenze illecite derivanti da tale omissione e,
dall'altro, non ostano a che tale valutazione venga
effettuata a titolo di regolarizzazione dopo la costruzione
e la messa in esercizio dell'impianto, purché le norme
nazionali che consentono tale regolarizzazione non offrano
agli interessati l'occasione di eludere le norme di diritto
dell'Unione o di disapplicarle e sempre che la valutazione
effettuata a titolo di regolarizzazione non si limiti a
valutare le ripercussioni future dell'impianto
sull'ambiente, ma prenda in considerazione anche l'impatto
ambientale intervenuto a partire dal momento della sua
realizzazione”;
b) Cons. Stato sez. IV, 09.022016, n. 521,
secondo cui “il giudizio di compatibilità ambientale può
essere rifiutato dall'Amministrazione preposta nel caso in
cui le opere oggetto di verifica siano già state iniziate
dal soggetto proponente, atteso che il procedimento di Via è
un mezzo preventivo di tutela dell'ambiente, che si svolge
prima dell'approvazione del progetto e quindi prima della
realizzazione dell'opera; ne consegue che una Via postuma
all'autorizzazione dell'opera e allo svolgimento dei lavori
è illegittima”
(Corte giust.
comm. ue., sez. VI,
sentenza 28.02.2018 n. C‑117/17 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il riserbo sull’identità del whistleblower rileva
ai soli fini disciplinari e non penali. Pertanto, una
segnalazione anonima di cui sia successivamente reso noto
l’autore non osta al compimento di atti di indagine.
La sentenza in
epigrafe, che per vero affronta numerose questioni per le
quali si rimanda al testo del provvedimento, offre lo spunto
per alcune riflessioni sul rapporto tra whistleblowing
e processo penale, con specifico riferimento al settore del
pubblico impiego.
Segnalava, infatti, il ricorrente una discrasia, in realtà
solo apparente, tra la tutela del dipendente pubblico che
segnala illeciti, garantita dal riserbo delle sue generalità
previsto dall’art. 54-bis del D.lgs. 165/2001 come
recentemente modificato dalla Legge n. 179/2017, e i
principi del processo penale, racchiusi negli artt. 240 e
333 c.p.p., che impongono l’inutilizzabilità ai fini
investigativi delle dichiarazioni anonime in ogni forma
pervenute all’Autorità giudiziaria (su tali principi, si
veda il contributo di
G. Morgese, I limiti di utilizzabilità della denuncia “anonima”
ai fini investigativi, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 9).
Parrebbe insomma che una segnalazione anonima da parte di un
dipendente pubblico non costituisca una vera e propria
notitia criminis, e non dia diritto all’Autorità
requirente a disporre mezzi di ricerca della prova, quali
l’ispezione, la perquisizione, il sequestro probatorio,
ovvero –come nel caso di specie– le intercettazioni
telefoniche. Conseguentemente, ogni misura investigativa che
sia invece adottata, sarebbe inutilizzabile.
In realtà, ragiona la Corte, la doglianza non coglie nel
segno. Infatti, il secondo comma dell’art. 54-bis del D.lgs.
n. 165/2001 –nella formulazione vigente prima
dell’intervenuta novella– è esplicito nel significare che
l’anonimato del denunciante –che, in realtà, è solo riserbo
sulle generalità, salvo ovviamente il consenso
dell’interessato alla loro divulgazione– opera unicamente in
ambito disciplinare, essendo peraltro subordinato al fatto
che la contestazione “sia fondata su accertamenti
distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione“,
giacché, ove detta contestazione si basi, in tutto o in
parte, sulla segnalazione stessa, “l’identità può essere
rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente
indispensabile per la difesa dell’incolpato“: ne
consegue –né potrebbe essere diversamente– che, in caso di
utilizzo della segnalazione in ambito penale, non vi è
alcuno spazio per l’anonimato –rectius: per il
riserbo sulle generalità– in tal senso essendo altresì
significativa l’espressa salvezza delle ordinarie previsioni
di legge operata dal comma 1 della succitata norma, per il
caso che la denuncia integri gli estremi dei reati di
calunnia o diffamazione, ovvero ancora sia fonte di
responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 di quel
codice.
Il che trova ancor più tangibile riscontro nella
recentissima modifica del detto art. 54-bis di cui alla
legge 30.11.2017 n. 179 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
del 14.12.2017), ove, con disciplina più puntuale,
coerentemente alla perseguita finalità di apprestare
un’efficace tutela del dipendente pubblico che riveli
illeciti, è precisato espressamente che, “nell’ambito del
procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal
segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del
codice di procedura penale”.
In buona sostanza, l’anonimato teso a proteggere il
whistleblower ha rilievo unicamente interno all’azienda,
quando si tratti di instaurare un procedimento ed applicare
sanzioni disciplinari al dipendente oggetto della
segnalazione. Diversamente, qualora il fatto denunciato
costituisca reato e sia portato a conoscenza della
competente Procura della Repubblica, sono salvi e
applicabili i principi del segreto istruttorio ex art. 329
c.p.p., che evidentemente è opposto solo all’esterno e non
all’interno della Procura e che comunque cessa alla
conclusione delle indagini, nonché le regole più sopra
citate in tema di inutilizzabilità di dichiarazioni anonime
e di atti di indagine che su di esse si fondino.
Concludendo, qualora un esposto alla Procura da parte di un
whistleblower sia anonimo, esso non costituisce
notitia criminis e non può dare avvio ad indagini
penali. Tuttavia, la legge su whistleblowing, come
recentemente modificata, non impone che una tale
segnalazione all’Autorità giudiziaria sia anonima
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 27.02.2018 n. 9047 -
commento tratto da
www.giurisprudenzapenale.com).
---------------
MASSIMA
1. Il proposto ricorso deve essere disatteso, alla stregua
delle considerazioni che seguono.
2. Va innanzi tutto rigettata l'eccezione d'inutilizzabilità
delle risultanze delle intercettazioni in atti, in ordine
alla quale è appena il caso di osservare che essa va
ricondotta innanzi tutto alla lettera c) dell'art. 606 cod.
proc. pen.
2.1 In relazione al requisito della gravità
indiziaria, del tutto correttamente il Tribunale napoletano
ha valutato l'esposto interno al Reparto servizi di
pubblicità immobiliare dell'Agenzia del Territorio di Santa
Maria Capua Vetere -il cui autore è stato individuato nel
dipendente Ro.BE. e che il g.i.p. ha considerato
alla stregua di un anonimo, salvo di fatto recuperarne il
contenuto attraverso la nota della Direzione Centrale Audit
dell'Agenzia delle Entrate di cui infra e la successiva
informativa di p.g.- come pienamente utilizzabile ai fini
dell'integrazione del requisito medesimo, poiché estraneo
alla sfera di operatività del pur invocato art. 203 dello
stesso codice.
Ciò in quanto -come leggesi nel
provvedimento impugnato- il c.d. "canale del
whistleblowing", deputato alla segnalazione all'ufficio
del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC)
di possibili violazioni commesse da colleghi e di cui si è
avvalso il detto BE., realizza "un sistema che
garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il
dipendente che utilizza una casella di posta elettronica
interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha
necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la
segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi
individuabile seppure protetto".
D'altro canto, la lettura della norma dettata dall'art.
54-bis del d.l.vo
30.03.2001 n. 165 -nella formulazione vigente all'epoca dei
fatti- offre
puntuale conferma dell'esattezza dell'impostazione seguita
dai giudici napoletani,
atteso che il secondo comma dell'articolo in questione è
esplicito nel significare
che l'anonimato del denunciante -che, in realtà, è solo
riserbo sulle generalità,
salvo ovviamente il consenso dell'interessato alla loro
divulgazione- opera
unicamente in ambito disciplinare, essendo peraltro
subordinato al fatto che la
contestazione "sia fondata su accertamenti distinti e
ulteriori rispetto alla
segnalazione", giacché, ove detta contestazione si basi, in
tutto o in parte, sulla
segnalazione stessa, "l'identità può essere rivelata ove la
sua conoscenza sia
assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato":
ne consegue -né
potrebbe essere diversamente- che, in caso di utilizzo
della segnalazione in
ambito penale, non vi è alcuno spazio per l'anonimato -rectius: per il riserbo
sulle generalità- in tal senso essendo altresì
significativa l'espressa salvezza
delle ordinarie previsioni di legge operata dal comma 1
della succitata norma,
per il caso che la denuncia integri gli estremi dei reati di
calunnia o diffamazione,
ovvero ancora sia fonte di responsabilità civile, ai sensi
dell'art. 2043 di quel
codice.
Il che trova ancor più tangibile riscontro nella
recentissima modifica del
detto art. 54-bis di cui alla legge 30.11.2017 n. 179
(pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale del 14.12.2017), ove, con disciplina più puntuale,
coerentemente alla
perseguita finalità di apprestare un'efficace tutela del
dipendente pubblico che
riveli illeciti, è precisato espressamente che, "Nell'ambito
del procedimento
penale, l'identità del segnalante è coperta dal segreto nei
modi e nei limiti
previsti dall'articolo 329 del codice di procedura penale".
La prospettazione difensiva va, dunque, senz'altro
disattesa, per l'effetto
risultando irrilevanti i copiosi richiami alla condivisibile
giurisprudenza, anche del
Consiglio di Stato, in tema di anonimato.
2.2 Non ha alcun pregio neppure l'eccezione comunque mossa
in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di reità.
Alla stregua di quanto appena sopra rilevato, va innanzi
tutto ribadito che,
al di là di quanto opinato dallo stesso g.i.p., il contenuto
delle rivelazioni del
"whistleblower" circa le compravendite di visure immobiliari
in uso nell'ufficio di
Santa Maria Capua Vetere, quale trasfuso nella segnalazione
16.09.2015 inviata
dalla Direzione Centrale Audit dell'Agenzia delle Entrate
cui fa riferimento il
contestato decreto del 07.11.2015, non costituisce mero
spunto investigativo,
bensì assurge al rango di vera e propria dichiarazione
accusatoria, cui si
sommano le (valorizzate) risultanze degli accertamenti
compiuti dalla detta
Direzione Centrale Audit, aventi valenza di riscontro nei
confronti dei dipendenti
Gr.CA. e Ra.GA., ossia giusto
dell'odierno ricorrente e
di altro addetto al suo stesso reparto, a carico dei quali
veniva rilevato un
numero assolutamente abnorme di visure richieste per uso
ufficio o in esenzione
di pagamento nei mesi immediatamente precedenti (CA.),
ovvero un
numero comunque inopinatamente elevato di tali visure
(GA.).
Per finire
con le inequivoche indicazioni tratte dalla pure richiamata
informativa del
27.10.2015, in cui si dà conto, sulla scorta di pregresse
intercettazioni
ambientali debitamente autorizzate, della condotta illecita
tenuta dal CA.,
che si appropriava, inserendola nel proprio portafoglio,
della banconota
consegnatagli da ignote terze persone, dopo aver eseguito
alla loro presenza una
visura uso ufficio ed aver consegnato la relativa stampa, a
probante conferma
della generale veridicità della segnalazione eseguita,
prima, dal "whistleblower",
e, poi, dalla Direzione Centrale Audit.
Da ultimo, va inoltre debitamente evidenziato che, per
insegnamento
consolidato della giurisprudenza di legittimità, "In tema di
intercettazione di
conversazioni o comunicazioni, il presupposto della
sussistenza dei gravi indizi di
reato, non va inteso in senso probatorio (ossia come
valutazione del fondamento
dell'accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle
ipotesi delittuose
configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche"
(così, da ultimo,
Sez. 3, sent. n. 14954 del 02.12.2014 - dep. 13.04.2015, Rv.
263044; conf.
Sez. 6, sent. n. 10902 del 26.02.2010, Rv. 246688): ciò che,
alla stregua di
quanto precede, non può essere seriamente posto in
discussione nella presente
fattispecie.
...
4. Quanto, poi, alla tematica sollevata in tema di
qualificazione giuridica dei fatti, è agevole rilevare, in
via preliminare, che la prospettazione difensiva si basa su
di un gratuito frazionamento della condotta posta in essere
dal CA., tesa ad isolare indebitamente l'innegabile
potere di rilascio delle certificazioni, esistente in capo
allo stesso in ragione delle mansioni svolte all'interno
dell'ufficio di cui era capo reparto, dalla preordinata
violazione di tutta la normativa inerente alla legittima
richiesta di atti da parte dell'utenza, così al contempo
mercificando, di concerto con il singolo privato, le proprie
funzioni (badando altresì di non lasciare, ovvero di
limitare le tracce del proprio comportamento) e frodando
l'Amministrazione statale, privata dell'incasso dei tributi
ad essa spettanti.
4.1 Non ha dunque alcun pregio la pretesa di ricondurre i
fatti ascritti nell'alveo della figura di reato disciplinata
dall'art. 318 cod. pen., per giurisprudenza consolidata
destinata a venir meno -così come il Tribunale non ha
mancato opportunamente di richiamare- in presenza di un atto
contrario ai doveri d'ufficio (cfr. di recente, peraltro con
riferimento all'ipotesi, diversa dal caso di specie, di atti
formalmente legittimi, ma frutto dell'asservimento della
discrezionalità del p.u. agli interessi del terzo, Sez. 6,
sent. n. 46492 del 15.09.2017, Rv. 271383, nonché Sez. 6,
sent. n. 40237 del 07.07.2016, Rv. 267634, con riguardo
all'ipotesi dello stabile asservimento del p.u. in cui
s'inseriscano, appunto, atti contrari ai doveri d'ufficio).
Essendo appena il caso di aggiungere che quanto precede
comporta l'automatico superamento del connesso assunto della
irrilevanza penale delle condotte oggetto di contestazione
provvisoria al CA., per via della dedotta modestia
delle singole dazioni di denaro, che nulla hanno a che
vedere con le regalie d'uso disciplinate dall'art. 4 del
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a cui la
difesa vorrebbe ricondurle.
4.2 Allo stesso modo, è senza meno destituita di fondamento
la tesi difensiva della qualificazione -s'intende esclusiva-
dei fatti medesimi in termini di truffa aggravata, atteso
che la giurisprudenza di questa Corte, con ripetute pronunce
anche assai risalenti nel tempo ma sempre valide, ha avuto
modo di affermare che "È configurabile il concorso
materiale tra il reato di corruzione ed il reato di truffa
in danno dello Stato in quanto l'accordo corruttivo non può
integrare l'induzione in errore nei confronti del pubblico
ufficiale che partecipa all'accordo, ma può ben indurre in
errore gli altri funzionari dell'ente pubblico ed in
particolare gli organi di controllo" (così Sez. 1, sent.
n. 10371 dell'08.07.1995, Rv. 202738; ma v. già, in senso
conforme, Sez. 3, sent. n. 8116 del 25.06.1984, Rv. 165961
e, prima ancora, Sez. 6, sent. n. 851 del 15.10.1971, Rv.
119544 e n. 104 del 29.01.1971, Rv. 117478).
Il che comporta l'ovvia inconsistenza dell'ulteriore
obiezione per cui i capi da 6) a 10) e 14), appunto per
truffa aggravata, sarebbero la "riscrittura di una parte
della condotta di cui ai capi da 1) a 5)" -in realtà,
tanto vale per i capi da 6) a 9), con riferimento a quelli
da 1) a 4)- in violazione del principio del ne bis in idem.
Trattandosi di violazione di legge, in entrambi i casi, si
ribadisce essere irrilevante che il Tribunale abbia omesso
di motivare sul punto, stante l'inconsistenza della tesi
difensiva. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Picconata
al whistleblowing. Rivelabile in sede disciplinare il nome di chi denuncia.
Cassazione: se la segnalazione ha un impatto penale
l'anonimato è da escludere.
Una picconata al whistleblowing. Ben può essere rivelata anche in sede
disciplinare l'identità del dipendente pubblico che denuncia, senza esporsi
pubblicamente, il collega al responsabile per la prevenzione della
corruzione dell'amministrazione. La condizione è che sia assolutamente
indispensabile per la difesa dell'incolpato conoscere il nome di chi lo
accusa. E se la segnalazione viene utilizzata in senso penale «non vi è
alcuno spazio per l'anonimato», a maggior ragione dopo che la legge 179/2017
ha modificato il testo unico del pubblico impiego.
È quanto emerge dalla
sentenza 27.02.2018 n. 9041
dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione, che offre chiarimenti in
materia civilistica e lavoristica.
Accertamenti ulteriori
Nella specie il whistleblower utilizza la casella di posta elettronica
interna per segnalare l'abuso all'ufficio anticorruzione Rpc e non ha
bisogno di firmarsi: utilizza tuttavia le sue credenziali e dunque ben può
essere individuato, sebbene debba essere protetto dal rischio di ritorsioni.
E in effetti durante il procedimento penale il nome dell'accusatore salta
fuori.
«Né potrebbe essere diversamente», puntualizzano gli Ermellini. Il
riserbo sull'identità del whistleblower nel pubblico impiego opera soltanto
in ambito disciplinare e risulta pure subordinato al fatto che la
contestazione «sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto
alla segnalazione» (c'è anche l'ipotesi in cui l'interessato dia il
consenso alla divulgazione delle proprie generalità).
Limiti al segreto
In sede penale la trasparenza è assicurata dal richiamo contenuto al primo
comma dell'articolo 54-bis del decreto legislativo 165/2001 che fa «espressa
salvezza» delle ordinarie previsioni di legge per il caso che la
denuncia integri gli estremi dei reati di calunnia o diffamazione oppure sia
fonte di responsabilità civile ex articolo 2043 Cc. Specialmente dopo la
legge 179/2017, secondo cui nel procedimento penale l'identità del
segnalante «è coperta dal segreto dei modi e nei limiti ex articolo 329
Cpp».
Dichiarazione accusatoria
Resta ai domiciliari, nella specie, il dipendente dell'ex Catasto indagato
per truffa aggravata, falso ideologico e corruzione in atti d'ufficio:
secondo l'accusa alcuni impiegati intascano soldi dagli utenti per le visure
immobiliari evitando loro il pagamento dei diritti perché gli accessi sono
fatti figurare come operazioni esenti o d'ufficio.
E in questo caso il contenuto delle rivelazioni fatte dal whistleblower
trasfuse nella segnalazione inviate all'audit delle Entrate costituisce non
mero spunto investigativo ma assurge al rango di vera e propria
dichiarazione accusatoria (articolo
ItaliaOggi del
28.02.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed
accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che,
dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa,
tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa
utilizzazione economica.
Occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo
avente efficacia equivalente), quando si tratti di un
"manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su
un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata
dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi
opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
---------------
Con particolare riferimento alla tettoia, invero, la stessa
è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, solo nella misura in cui realizzi "l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti", mentre è subordinata al regime
del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma
primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove, come nel
caso in esame, comporti una modifica della sagoma o del
prospetto del fabbricato cui accede.
---------------
5.2. L’appello è infondato.
5.3. Secondo quanto accertato nel corso del sopralluogo del
21.07.2006 (accertamento che ha dato luogo alla
impugnata ordinanza), "sul terrazzino prospiciente il
prospetto Nord dell'immobile di proprietà Giordano-Tremante
è stato realizzato, in assenza di titoli abilitanti, un
manufatto tipo tettoia aperta con struttura metallica
poggiante anteriormente su piastrini rivestiti in legno e
posteriormente fissata nella muratura del fabbricato,
controsoffittata all'intradosso e coperta da lamiere
coibentate, conformate a manto di tegole rosse. Tale
manufatto all'intradosso ha altezza massima dal pavimento di
metri 2,30 circa misurata in corrispondenza del fabbricato
ed altezza minima di metri 2,12 misurata in prossimità della
ringhiera di delimitazione del terrazzino. Esso è posto a
copertura di un preesistente terrazzo pavimentato che
costituisce la copertura dell'ambiente ubicato al livello
sottostante".
5.4. Al contempo, dalla documentazione prodotta in primo
grado, risulta che la tettoia in esame, per di più
realizzando di fatto una chiusura del terrazzino sul quale è
ubicata, è tale da determinare un incremento di volumetria
ovvero, ad ogni modo, un’alterazione della sagoma
dell’edificio.
5.5. Al riguardo, il Collegio ritiene di condividere il
principio di diritto costantemente richiamato nella
giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. ad es.
Consiglio di Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; 16.02.2017, n. 694), secondo cui, la qualifica di
pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di
modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera
principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che,
dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa,
tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa
utilizzazione economica.
Va peraltro condiviso il principio generale per il quale
occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo
avente efficacia equivalente), quando si tratti di un
"manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su
un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata
dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi
opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Con particolare riferimento alla tettoia, invero, la stessa
è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, solo nella misura in cui realizzi "l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti", mentre è subordinata al regime
del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma
primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove, come nel
caso in esame, comporti una modifica della sagoma o del
prospetto del fabbricato cui accede (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 27.02.2018 n. 1156 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Com’è noto, l’art. 3, comma 1, lett. c), del d.p.r.
del 06.06.2001 n. 380, definisce il “restauro e
risanamento conservativo” come l’insieme degli «interventi
edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali
elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste
dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio».
Tale categoria di intervento ha la precipua
funzione di conservare un immobile esistente –seppur
consolidandone, ripristinandone o rinnovandone elementi
costitutivi– e per ciò stesso si differenzia dalla
ristrutturazione edilizia, volta invece alla trasformazione
dell’edificio.
Proprio in ragione della suddetta funzione conservativa, la
giurisprudenza ha ripetutamente escluso che, nell’ambito del
risanamento conservativo, possano essere realizzati nuovi
volumi, anche di modesta entità.
---------------
Il presupposto imprescindibile per ricondurre al risanamento
conservativo gli interventi eseguiti sul sottotetto ed
involgenti la copertura dell’immobile è il mantenimento
della quota d’imposta della copertura stessa.
Ne deriva che, nel caso di specie (in cui la suddetta quota
è stata variata in aumento per statuizione incontroversa tra
le parti), le modifiche apportate all’immobile non rientrano
nella definizione di risanamento conservativo dettata dallo
strumento urbanistico vigente all’epoca dell’abuso e
pertanto manca un presupposto imprescindibile (la conformità
urbanistica dell’intervento rispetto alla normativa
dell’epoca di realizzazione) per l’assentimento della
sanatoria richiesta, dal che discende la legittimità del
diniego di accertamento di conformità e del contestuale
ordine di demolizione.
---------------
12.2 - Fermo quanto sopra, si osserva che –secondo l’art. 20 delle NTA del R.U. vigente all’epoca degli interventi– «sono
edifici di classe 3 gli edifici con rilevanti caratteri
tipologici o che si configurano come "Punti Nodali" dei
tessuti storici e consolidati della città e dei centri
minori, coevi ed omogenei ai centri stessi».
La norma
precisa che su tali edifici sono consentiti «gli interventi
finalizzati al recupero del patrimonio edilizio esistente
fino al risanamento conservativo di cui all'art. 6 punto
6.3, con le limitazioni previste all'art. 5, punto 5.2
relativo alla manutenzione straordinaria».
Ebbene, com’è noto, l’art. 3, comma 1, lett. c), del d.p.r.
del 06.06.2001 n. 380, definisce il “restauro e
risanamento conservativo” come l’insieme degli «interventi
edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali
elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste
dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio».
Tale categoria di intervento ha la precipua
funzione di conservare un immobile esistente –seppur
consolidandone, ripristinandone o rinnovandone elementi
costitutivi– e per ciò stesso si differenzia dalla
ristrutturazione edilizia, volta invece alla trasformazione
dell’edificio (Cons. Stato, Sez. VI, 04.082016, n.
3532).
Proprio in ragione della suddetta funzione
conservativa, la giurisprudenza ha ripetutamente escluso
che, nell’ambito del risanamento conservativo, possano
essere realizzati nuovi volumi, anche di modesta entità (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI,
09.02.2016, n. 554).
Orbene, come evidenziato in narrativa, l’intervento
realizzato dalla signora Tr. sull’immobile situato in
viale ... 111 ha comportato l’innalzamento di una falda
del tetto in modo da pareggiarne la quota d’imposta rispetto
a quella delle altre due falde, con conseguente aumento
volumetrico. Dal che deriva che le opere oggetto della
domanda di sanatoria del 12.10.2012 non sono
qualificabili come intervento di restauro e risanamento
conservativo, avendo prodotto un aumento volumetrico e
perciò ecceduto i limiti entro cui tale intervento è
confinato dalla sopra citate norme.
Tali conclusioni sono viepiù confermate dalla disciplina contenuta nel
Regolamento Urbanistico del Comune di Firenze vigente
all’epoca della realizzazione degli abusi, il cui art.
6.3.2, lett. h), se da un lato ricomprende nella nozione di
restauro e risanamento conservativo «la utilizzazione di
spazi sottotetto esistenti, anche con consolidamento e/o
sostituzione delle strutture orizzontali, con tecnologie
conformi alle caratteristiche storico-architettoniche
dell'organismo edilizio», d’altro lato precisa che tali
interventi sono consentiti «ferma restando la quota di
imposta delle medesime».
In altri termini, secondo tale
norma il presupposto imprescindibile per ricondurre al
risanamento conservativo gli interventi eseguiti sul
sottotetto ed involgenti la copertura dell’immobile è il
mantenimento della quota d’imposta della copertura stessa
(TAR Toscana, Sez. III, 28.04.2015, n. 670).
Ne deriva
che, nel caso di specie (in cui la suddetta quota è stata
variata in aumento per statuizione incontroversa tra le
parti), le modifiche apportate all’immobile non rientrano
nella definizione di risanamento conservativo dettata dallo
strumento urbanistico vigente all’epoca dell’abuso e
pertanto manca un presupposto imprescindibile (la conformità
urbanistica dell’intervento rispetto alla normativa
dell’epoca di realizzazione) per l’assentimento della
sanatoria richiesta dalla signora Tr., dal che discende la
legittimità del diniego di accertamento di conformità e del
contestuale ordine di demolizione di cui al provvedimento n.
2037/2014, nonché della consequenziale ordinanza 67/2016
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.02.2018 n. 314 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di destinazione d’uso, anche solo
funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico,
quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato
tra gli interventi di tipo oneroso.
Nella specie è
stato posto in essere una modifica della destinazione d’uso
degli immobili da artigianale a commerciale ed è passaggio urbanisticamente significativo, stante il maggiore carico
urbanistico determinato dalla destinazione commerciale
rispetto a quella artigianale (come si ricava dall’art. 5
del DM 1444 del 1968).
---------------
1 - Con il ricorso introduttivo del giudizio la Società La Ni.
s.r.l. espone di aver proceduto ad effettuare cambio di
destinazione d’uso, senza opere, su locali di sua proprietà
posti in San Giuliano Terme, trasformati da artigianali a
commerciali e contesta la nota comunale del 29.01.2001, prot.
n. 5041, con la quale l’Amministrazione comunale le chiede
il pagamento degli oneri di urbanizzazione, non dovuti in
assenza di piano di localizzazione o distribuzione delle
funzioni, come da circolare della Giunta Regionale n. 767
del 2000, chiedendo l’accertamento della non debenza e la
ripetizione di quanto medio tempore pagato.
2 - A sostegno della sua pretesa parte ricorrente articola
due motivi di ricorso:
- il cambio di destinazione d’uso meramente funzionale
costituisce attività libera e gratuita, salvo diversa
previsione della legge regionale e adozione di specifici
strumenti comunali attuativi della stessa, ex art. 25 delle
legge n. 47 del 1985; nella specie manca il necessario piano
di distribuzione e localizzazione delle funzioni, solo in
presenza del quale è prevista la onerosità del mutamento di
destinazione meramente funzionale;
- manca una adeguata motivazione della pretesa, non
facendosi menzione della adozione degli strumenti
urbanistici attuativi previsti dalla legge.
3 - Il Comune di San Giuliano Terme si è costituito in
giudizio per resistere al ricorso.
4 – Il ricorso è infondato.
La Sezione ha già affermato che il mutamento di destinazione
d’uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico
urbanistico, quando implica un passaggio tra categorie
urbanisticamente differenti e deve quindi essere annoverato
tra gli interventi di tipo oneroso (in tal senso le
sentenze: 938/2017, 132/2017, 1387/2015). Nella specie è
stato posto in essere una modifica della destinazione d’uso
degli immobili da artigianale a commerciale ed è passaggio
urbanisticamente significativo, stante il maggiore carico
urbanistico determinato dalla destinazione commerciale
rispetto a quella artigianale (come si ricava dall’art. 5
del DM 1444 del 1968).
Alla luce di tale inquadramento, le
censure formulate risultano infondate, la onerosità del
cambio di destinazione funzionale, alle condizioni dette,
non presupponendo l’adozione degli atti urbanistici
richiamati da parte ricorrente.
5 – Il ricorso deve quindi essere respinto, con spese a
carico di parte ricorrente, liquidate come da dispositivo
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.02.2018 n. 309 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nello speciale
procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di un
permesso di costruire in deroga al PRGC, così come delineato
dal combinato disposto degli artt. 5 comma 9 del D.L. n. 70
del 2011 e 14 del D.P.R. n. 380 del 2001, il parere del
consiglio comunale è atto meramente endoprocedimentale, e
come tale impugnabile unitamente al provvedimento
conclusivo, costituito dalla determinazione dirigenziale di
rilascio o -come nel caso di specie- di diniego del permesso
di costruire.
E benché si tratti di un parere
obbligatorio e vincolante, e quindi idoneo, ove negativo, a
determinare un arresto procedimentale e quindi una lesione
immediata della sfera giuridica dell’interessato, ciò,
tuttavia, può comportare esclusivamente la facoltà per
quest’ultimo di impugnarlo direttamente senza attendere il
provvedimento conclusivo, ma non certamente l’obbligo di
farlo a pena di decadenza, al punto di precludergli la
successiva impugnazione congiunta del diniego conclusivo e
del presupposto parere consiliare, secondo principi
generali.
Tanto più che nel caso di specie al parere del
consiglio comunale ha fatto seguito un’ulteriore fase
procedimentale con la comunicazione alle proponenti del
preavviso di diniego da parte del responsabile del
procedimento, l’acquisizione delle osservazioni presentate
da queste ultime, e infine, il diniego conclusivo del
dirigente del Settore Urbanistica contenente una articolata
confutazione delle deduzioni delle interessate.
---------------
12. L’eccezione preliminare formulata dalla difesa
dell’amministrazione è infondata.
Nello speciale
procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di un
permesso di costruire in deroga al PRGC, così come delineato
dal combinato disposto degli artt. 5 comma 9 del D.L. n. 70
del 2011 e 14 del D.P.R. n. 380 del 2001, il parere del
consiglio comunale è atto meramente endoprocedimentale, e
come tale impugnabile unitamente al provvedimento
conclusivo, costituito dalla determinazione dirigenziale di
rilascio o -come nel caso di specie- di diniego del
permesso di costruire; e benché si tratti di un parere
obbligatorio e vincolante, e quindi idoneo, ove negativo, a
determinare un arresto procedimentale e quindi una lesione
immediata della sfera giuridica dell’interessato, ciò,
tuttavia, può comportare esclusivamente la facoltà per
quest’ultimo di impugnarlo direttamente senza attendere il
provvedimento conclusivo, ma non certamente l’obbligo di
farlo a pena di decadenza, al punto di precludergli la
successiva impugnazione congiunta del diniego conclusivo e
del presupposto parere consiliare, secondo principi
generali.
Tanto più che nel caso di specie al parere del
consiglio comunale ha fatto seguito un’ulteriore fase
procedimentale con la comunicazione alle proponenti del
preavviso di diniego da parte del responsabile del
procedimento, l’acquisizione delle osservazioni presentate
da queste ultime, e infine, il diniego conclusivo del
dirigente del Settore Urbanistica contenente una articolata
confutazione delle deduzioni delle interessate.
L’eccezione va quindi respinta (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 270 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La formazione del silenzio-assenso sulla domanda
di permesso di costruire postula, non soltanto l’avvenuta
presentazione dell’istanza e il decorso del termine di
conclusione del procedimento normativamente previsto, ma
pure che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti
previsti per il suo accoglimento, e, in particolare, che
essa sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti.
Da tale principio consegue che l’operatività dell’istituto
del silenzio-assenso nella materia edilizia deve ritenersi
confinata all’ipotesi in cui la richiesta del privato abbia
ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire
“ordinario”, in relazione al quale l’amministrazione si
limita a verificare la conformità del progetto edilizio alla
normativa di settore e alla strumentazione urbanistica
vigente, attraverso un’attività sostanzialmente vincolata
nei propri contenuti, avendo l’amministrazione già esaurito
la propria discrezionalità in sede pianificatoria, all’atto
di redigere lo strumento urbanistico.
Per contro, l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art.
20 del Testo Unico dell’Edilizia non è applicabile alla
diversa fattispecie della richiesta di rilascio di un
permesso di costruire “in deroga al vigente PRGC” di cui
all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011, dal momento che
in tal caso l’amministrazione, lungi dal limitarsi a
verificare la mera conformità del progetto edilizio allo
strumento urbanistico vigente, è tenuta a valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità, se
sussistano i presupposti di interesse pubblico per
modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra
l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al
procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale
soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e
programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al
rilascio di un permesso di costruire in deroga allo
strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n.
70 del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto
del silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non
fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli
interessi pubblici coinvolti nella pianificazione
urbanistica.
---------------
Non ha pregio l’argomento sviluppato secondo cui a seguito
della L. n. 125 del 2015 (cosiddetta Legge “Madia”) non vi
sarebbe più una diretta correlazione tra silenzio-assenso e
carattere vincolato dei provvedimenti amministrativi in
materia edilizia, dal momento che la novella legislativa
avrebbe esteso l’applicabilità dell’istituto a tutti i
provvedimenti di carattere tecnico-discrezionale, salvo il
caso in cui sussistano vincoli a tutela di interessi
pubblici sensibili, nel caso di specie insussistenti.
L’argomento è infondato dal momento che la novella
legislativa di cui alla L. n. 125 del 2015, pur avendo
ampliato l’applicabilità dell’istituto della SCIA e del
silenzio-assenso in materia edilizia, ha disciplinato
unicamente il procedimento generale di rilascio dei titoli
edilizi “ordinari”, riferiti a progetti conformi alla
strumentazione urbanistica vigente, laddove nel caso dei
permessi di costruire “in deroga” alla vigente
strumentazione urbanistica l’amministrazione è chiamata a
svolgere valutazioni innovative di carattere latamente
politico in ordine all’opportunità, o meno, di modificare la
pianificazione urbanistica nella prospettiva di
razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e di
riqualificare aree urbane degradate: valutazioni connotate
da amplissima discrezionalità e che nessuna norma consente
di pretermettere sul solo presupposto del tempo trascorso
dalla data di presentazione dell’istanza del privato.
D’altra parte, il parere del consiglio comunale previsto
dall’art. 14 del D.P.R. n. 380 del 2011 (norma richiamata
dall’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011) non è
soggetto a termini predeterminati, considerata l’ampiezza
delle valutazioni di merito affidate all’organo consiliare,
così come non è soggetto a termini predeterminati il
procedimento di adozione e di approvazione dello strumento
urbanistico generale e delle sue successive varianti.
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi
osservando che “né l’art. 5 del D.L. n. 70/2011 né l’art. 14
del D.P.R. n. 380/2001 stabiliscono il termine entro cui il
consiglio comunale deve provvedere a rendere il parere di
sua competenza, il quale costituisce non l’atto conclusivo
ma un atto interno, benché essenziale, del procedimento
amministrativo delineato dalle predette due norme.
Considerata la peculiarità e l’oggettiva complessità delle
valutazioni demandate al consiglio comunale nella
fattispecie procedimentale di cui si discute, valutazioni
che assumono un carattere pianificatorio nella misura in cui
possono determinare deroghe più o meno estese alla vigente
strumentazione urbanistica, ritiene il collegio che non sia
ragionevolmente applicabile a tale fase procedimentale né il
termine speciale di 90 giorni previsto dal D.P.R. n.
380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, né
quello residuale di 30 giorni previsto dalla disciplina
generale del procedimento amministrativo (art. 2 L.
241/1990)".
---------------
La giurisprudenza è concorde nell’affermare che il permesso
di costruire in deroga allo strumento urbanistico è un
istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario
titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere
ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione
di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la
necessità di una previa delibera del consiglio comunale.
In tale procedimento il consiglio comunale è chiamato ad
operare una comparazione tra l’interesse pubblico al
rispetto della pianificazione urbanistica e quello del
privato ad attuare l’interesse costruttivo, che assume
peraltro rilievo pubblicistico nella misura in cui è volto a
razionalizzare o a riqualificare aree urbane degradate.
La decisione che ne scaturisce è espressione di
discrezionalità molto lata sulla quale il sindacato del
giudice deve mantenersi esterno e limitato a vizi
sintomatici manifesti, quali l’illogicità o il travisamento
del fatto, e non sostitutivo di valutazioni ontologicamente
opinabili.
---------------
La presenza, all’interno di un contesto urbanizzato, di
un’area a verde con alcune serre dismesse, non pare elemento
sufficiente per ritenere sussistente il presupposto cui
all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2001, e cioè
l’esistenza di un’”area urbana degradata”, tanto più alla
luce delle linee politiche espresse dalla nuova
amministrazione comunale, preordinate alla conservazione
delle aree a verde e alla riduzione dello sfruttamento
edilizio del suolo (così a pag. 4 della delibera consiliare
impugnata: “La riduzione del consumo di suolo privilegerà la
tutela delle aree di maggior valore (agricolo, ambientale,
paesaggistico), ma sarà comunque un processo ragionato che
intende garantire in primis la permanenza sul territorio di
attività produttive anche qualora esse volessero ampliarsi
per esigenze diverse”).
In tale contesto programmatico, il mantenimento di un’area a
verde all’interno di un contesto edificato non pare
costituire un elemento “dissonante”, sintomo di “degrado
funzionale” dell’area.
---------------
13. Nel merito, peraltro, il ricorso è infondato sotto tutti
i profili dedotti.
13.1. Con il primo motivo, le ricorrenti hanno dedotto
l’intervenuta formazione del silenzio-assenso sulla propria
istanza del 23.06.2015, ai sensi dell’art. 20 del D.P.R.
n. 380 del 2001, essendo decorsi quasi ventuno mesi tra la
data di presentazione della domanda e il provvedimento
conclusivo di diniego, più del triplo di quello massimo di
180 giorni previsto dalla norma citata; né il predetto
termine sarebbe stato interrotto dalle plurime richieste di
integrazione documentale dell’amministrazione, dal momento
che ciò sarebbe potuto avvenire una volta soltanto nel corso
dell’intero procedimento amministrativo; secondo le
ricorrenti, l’istituto del silenzio-assenso sarebbe
inapplicabile soltanto nei casi in cui il sito oggetto del
progetto edificatorio sia assoggettato a vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, nel caso di specie insussistenti.
La censura, osserva il collegio, non può essere condivisa
Secondo noti principi, la formazione del silenzio-assenso
sulla domanda di permesso di costruire postula, non soltanto
l’avvenuta presentazione dell’istanza e il decorso del
termine di conclusione del procedimento normativamente
previsto, ma pure che l'istanza sia assistita da tutti i
presupposti previsti per il suo accoglimento, e, in
particolare, che essa sia conforme agli strumenti
urbanistici vigenti (da ultimo, TAR Piemonte, II, 03.01.2018, n. 12).
Da tale principio consegue che l’operatività dell’istituto
del silenzio-assenso nella materia edilizia deve ritenersi
confinata all’ipotesi in cui la richiesta del privato abbia
ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire
“ordinario”, in relazione al quale l’amministrazione si
limita a verificare la conformità del progetto edilizio alla
normativa di settore e alla strumentazione urbanistica
vigente, attraverso un’attività sostanzialmente vincolata
nei propri contenuti, avendo l’amministrazione già esaurito
la propria discrezionalità in sede pianificatoria, all’atto
di redigere lo strumento urbanistico.
Per contro, l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art.
20 del Testo Unico dell’Edilizia non è applicabile alla
diversa fattispecie della richiesta di rilascio di un
permesso di costruire “in deroga al vigente PRGC” di cui
all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011, dal momento che
in tal caso l’amministrazione, lungi dal limitarsi a
verificare la mera conformità del progetto edilizio allo
strumento urbanistico vigente, è tenuta a valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità, se
sussistano i presupposti di interesse pubblico per
modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra
l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al
procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale
soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e
programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al
rilascio di un permesso di costruire in deroga allo
strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n.
70 del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto
del silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non
fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli
interessi pubblici coinvolti nella pianificazione
urbanistica (in tal senso, su fattispecie analoghe, Cons.
Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3680; TAR Pescara, I, 11.12.2017, n. 352).
Né ha pregio l’argomento sviluppato -per la prima volta,
peraltro– dalla difesa di parte ricorrente nella memoria
conclusiva depositata in prossimità dell’udienza di merito,
secondo cui a seguito della L. n. 125 del 2015 (cosiddetta
Legge “Madia”) non vi sarebbe più una diretta correlazione
tra silenzio-assenso e carattere vincolato dei provvedimenti
amministrativi in materia edilizia, dal momento che la
novella legislativa avrebbe esteso l’applicabilità
dell’istituto a tutti i provvedimenti di carattere tecnico-discrezionale, salvo il caso in cui sussistano vincoli a
tutela di interessi pubblici sensibili, nel caso di specie
insussistenti.
L’argomento, osserva il collegio, è infondato
dal momento che la novella legislativa di cui alla L. n. 125
del 2015, pur avendo ampliato l’applicabilità dell’istituto
della SCIA e del silenzio-assenso in materia edilizia, ha
disciplinato unicamente il procedimento generale di rilascio
dei titoli edilizi “ordinari”, riferiti a progetti conformi
alla strumentazione urbanistica vigente, laddove nel caso
dei permessi di costruire “in deroga” alla vigente
strumentazione urbanistica l’amministrazione è chiamata a
svolgere valutazioni innovative di carattere latamente
politico in ordine all’opportunità, o meno, di modificare la
pianificazione urbanistica nella prospettiva di
razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e di
riqualificare aree urbane degradate: valutazioni connotate
da amplissima discrezionalità e che nessuna norma consente
di pretermettere sul solo presupposto del tempo trascorso
dalla data di presentazione dell’istanza del privato.
D’altra parte, il parere del consiglio comunale previsto
dall’art. 14 del D.P.R. n. 380 del 2011 (norma richiamata
dall’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011) non è soggetto a
termini predeterminati, considerata l’ampiezza delle
valutazioni di merito affidate all’organo consiliare, così
come non è soggetto a termini predeterminati il procedimento
di adozione e di approvazione dello strumento urbanistico
generale e delle sue successive varianti.
Sul punto la Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi nella
sentenza n. 286 del 27.02.2017, osservando che “né
l’art. 5 del D.L. n. 70/2011 né l’art. 14 del D.P.R. n.
380/2001 stabiliscono il termine entro cui il consiglio
comunale deve provvedere a rendere il parere di sua
competenza, il quale costituisce non l’atto conclusivo ma un
atto interno, benché essenziale, del procedimento
amministrativo delineato dalle predette due norme (cfr. TAR
Piemonte, sez. II, 29.01.2016 n. 91). Considerata la
peculiarità e l’oggettiva complessità delle valutazioni
demandate al consiglio comunale nella fattispecie
procedimentale di cui si discute, valutazioni che assumono
un carattere pianificatorio nella misura in cui possono
determinare deroghe più o meno estese alla vigente
strumentazione urbanistica, ritiene il collegio che non sia
ragionevolmente applicabile a tale fase procedimentale né il
termine speciale di 90 giorni previsto dal D.P.R. n.
380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, né
quello residuale di 30 giorni previsto dalla disciplina
generale del procedimento amministrativo (art. 2 L.
241/1990)”.
In tale contesto, eventuali ritardi o inerzie ingiustificate
dell’amministrazione restano azionabili dall’interessato
attraverso lo strumento processuale di cui all’art. 117
c.p.a., che consente al giudice di valutare la fattispecie
sottoposta al suo esame secondo canoni di equità e di
proporzionalità, tenendo conto da un lato della complessità
delle valutazioni demandate all’organo consiliare e
dall’altro dei doveri di correttezza e di buona
amministrazione che incombono sulla parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 della Costituzione.
Nel caso di specie, il parere sfavorevole del consiglio
comunale è stato formulato a distanza di circa un anno e
mezzo dalla presentazione dell’istanza delle proponenti:
termine durante il quale non sembra al collegio che
l’amministrazione abbia mantenuto un atteggiamento inerte,
tenuto conto delle ripetute richieste di integrazioni
documentali intervenute in conferenza dei servizi, della
complessità delle valutazioni demandate al consiglio, e,
infine, del mutamento intercorso nella rappresentanza
politica dell’amministrazione a seguito delle elezioni
amministrative del giugno 2016.
Alla luce di tali considerazioni, la censura in esame va
quindi disattesa.
...
13.3. Con il terzo motivo, le ricorrenti hanno dedotto vizi
di eccesso di potere per contraddittorietà, carenza di
motivazione e sviamento di potere: la decisione del
consiglio comunale di ribaltare completamente le articolate
considerazioni formulate dagli uffici tecnici
dell’amministrazione nella prima bozza di delibera
consiliare, favorevole all’istanza, non sarebbe stata in
alcun modo motivata e sarebbe dipesa unicamente dalla
volontà politica del nuovo assessore e dei consiglieri di
maggioranza di disapplicare la legge n. 106 del 2011 nel
Comune di Pinerolo; la nuova delibera consiliare sarebbe
dipesa unicamente dall’indirizzo politico-ideologico della
nuova amministrazione, pregiudizialmente contrario
all’intervento edilizio.
Anche tale censura, osserva il collegio, non può essere
condivisa.
La giurisprudenza è concorde nell’affermare che il permesso
di costruire in deroga allo strumento urbanistico è un
istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario
titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere
ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione
di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la
necessità di una previa delibera del consiglio comunale (TAR
Napoli, Sez. VII, 22.06.2016, n. 3180; TAR Catania, sez. II, 15.12.2015, n. 2890); in tale procedimento il consiglio
comunale è chiamato ad operare una comparazione tra
l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione
urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse
costruttivo, che assume peraltro rilievo pubblicistico nella
misura in cui è volto a razionalizzare o a riqualificare
aree urbane degradate (TAR Torino, II, 29.01.2016, n.
91); la decisione che ne scaturisce è espressione di
discrezionalità molto lata sulla quale il sindacato del
giudice deve mantenersi esterno e limitato a vizi
sintomatici manifesti, quali l’illogicità o il travisamento
del fatto, e non sostitutivo di valutazioni ontologicamente
opinabili (TAR Pescara, se. I, 11.12.2017, n. 351).
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare impugnata è
stata affidata ad una motivazione articolata e diffusa, che
non appare intaccata da percepibili profili di illogicità,
irragionevolezza o travisamento del fatto; e se pure è vero
che la prima bozza di deliberazione predisposta dagli uffici
tecnici comunali era favorevole all’istanza, ciò non toglie
tuttavia, che essa non vincolava le valutazioni di merito di
esclusiva competenza dell’organo consiliare in ordine alla
sussistenza dell’interesse pubblico all’intervento edilizio.
Il consiglio comunale ha ritenuto che nel caso di specie non
vi fossero sufficienti presupposti di interesse pubblico per
autorizzare un intervento edilizio implicante una modifica
del vigente PRGC, e tale valutazione è stata supportata da
una motivazione sufficientemente analitica e argomentata,
sia in ordine alle ragioni per le quali non è stata ritenuta
sussistente una situazione di “degrado” dell’area tale da
giustificare la realizzazione di un intervento di
riqualificazione, sia in ordine alla incompatibilità del
progetto edificatorio delle proponenti con le linee
programmatiche della nuova amministrazione insediatasi a
seguito delle elezioni del giugno 2016, dirette a perseguire
una riduzione del consumo del suolo, con particolare
riferimento alle aree agricole (laddove il progetto
presentato dalle interessate avrebbe comportato la
sostituzione di un’ampia area a verde con alcuni fabbricati
residenziali, senza fornire adeguate indicazioni su come
sarebbe migliorata la qualità del tessuto edilizio nell’area
interessata).
Si tratta, osserva il collegio, di valutazioni ampiamente
discrezionali, non illogiche né irragionevoli, anche perché
coerenti con le linee di indirizzo programmatico formulate
dalla nuova amministrazione insediatasi a giugno 2016,
soprattutto in relazione all’obiettivo di contenimento
dell’uso del suolo: valutazioni che, in quanto tali,
sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, afferendo alle scelte di merito
dell’amministrazione in materia di gestione del territorio.
13.4. Con il quarto motivo, le ricorrenti hanno contestato,
nel merito, i singoli capi della motivazione contenuta nella
delibera consiliare; le censure proposte possono essere così
sintetizzate:
- la presenza di serre non utilizzate da oltre 10 anni
costituirebbe un elemento dissonante rispetto al contesto
urbano circostante, ormai tutto residenziale, il che sarebbe
sufficiente ad integrare il presupposto del “degrado
funzionale” di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del
2011;
- il consumo di suolo sull’area in questione sarebbe già
avvenuto, come dimostrerebbe l’esistenza delle serre;
l’intervento progettato avrebbe rilievo pubblicistico nella
misura in cui concorrerebbe a razionalizzare il contesto
urbano e a riqualificare aree degradate; il consiglio
comunale avrebbe dovuto limitarsi a valutare se il progetto
delle ricorrenti risponda o meno alla finalità di legge di
rendere la destinazione dell’area di proprietà delle
ricorrenti coerente con quella del contesto urbano
circostante, che è residenziale, alla luce dei dati
oggettivi indicati puntualmente nella prima bozza di
delibera consiliare;
- l’offerta, contenuta nel progetto, di cessione gratuita al
Comune di un’area di 700 mq, previa realizzazione di 23
piazzole di sosta, sarebbe stata svalutata immotivatamente
nella delibera consiliare impugnata;
- non sarebbe stato spiegato per quale motivo, secondo il
consiglio comunale, il progetto non avrebbe migliorato la
qualità del tessuto edilizio;
- il riferimento al comunicato assessorile (regionale) del
16.10.2014 sarebbe del tutto erroneo, dal momento che
questo non impone che il nuovo intervento edilizio venga
realizzato sull’area di sedime degli edifici preesistenti
(le serre, nel caso di specie), ma solo che venga realizzato
sull’area di proprietà del privato proponente;
- manifestamente illogico e contraddittorio sarebbe il capo
di motivazione in cui si afferma che l’intervento non
consentirebbe di superare la presenza di funzioni eterogenee
e di tessuti edilizi disorganici in quanto sul fronte
prospiciente di Via Ca. non verrebbero eliminate tutte
le serre presenti; in tal modo si imputa al privato di non
trasformare tutto il contesto, il che non è richiesto dalla
legge ed è in contrasto con altra affermazione in cui si
imputa alle ricorrenti di voler ridurre, anziché ampliare,
l’attività florovivaistica.
Osserva il collegio che l’articolata censura appena esposta
non può essere condivisa:
- la presenza, all’interno di un contesto urbanizzato, di
un’area a verde con alcune serre dismesse, non pare elemento
sufficiente per ritenere sussistente il presupposto cui
all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 70 del 2001, e cioè
l’esistenza di un’”area urbana degradata”, tanto più alla
luce delle linee politiche espresse dalla nuova
amministrazione comunale, preordinate alla conservazione
delle aree a verde e alla riduzione dello sfruttamento
edilizio del suolo (così a pag. 4 della delibera consiliare
impugnata: “La riduzione del consumo di suolo privilegerà la
tutela delle aree di maggior valore (agricolo, ambientale,
paesaggistico), ma sarà comunque un processo ragionato che
intende garantire in primis la permanenza sul territorio di
attività produttive anche qualora esse volessero ampliarsi
per esigenze diverse”); in tale contesto programmatico, il
mantenimento di un’area a verde all’interno di un contesto
edificato non pare costituire un elemento “dissonante”,
sintomo di “degrado funzionale” dell’area;
- il richiamo contenuto nella delibera consiliare alla
circolare regionale 09.05.2012 n. 7/UOL appare
pertinente, dal momento che essa esclude l’applicazione
dell’art. 5, comma 9, del d.l. 70 del 2011 e dell’art. 14 del
TUE con riferimento alle “aree libere…a destinazione
agricola”, tenuto conto che l’area in questione è appunto
inserita in zona agricola nel vigente PRGC del Comune di
Pinerolo;
- l’utilità pubblica ritraibile dall’offerta di
realizzazione nell’area in questione di 23 piazzole di sosta
è stata ritenuta recessiva rispetto al complessivo impatto
urbanistico dell’intervento, con motivazione che non appare
né illogica né irragionevole (“l’ampliamento di standard,
comunque dovuto, non giustifica l’impatto urbanistico che
l’intervento proposto comporterebbe”, cfr. delibera
consiliare, pag. 5);
- sarebbe stato onere delle ricorrenti provare in sede
procedimentale per quale motivo l’intervento edilizio
avrebbe migliorato la qualità del tessuto edilizio; ciò che
si evince dall’esame degli atti processuali è che, se il
progetto proposto dalle ricorrenti dovesse trovare
attuazione, un’area attualmente “a verde” verrebbe ad essere
edificata; non è affatto evidente quale miglioramento ne
riceverebbe il tessuto edilizio, in un contesto in cui
sembrano difettare i presupposti di un “degrado”
obiettivamente percepibile; ciò che appare è che le
ricorrenti, dismessa (o convertita, non è ben chiaro)
l’attività florovivaistica, vorrebbero realizzare sull’area
una speculazione edilizia; se è chiaro l’interesse privato
alla realizzazione del progetto, non è invece percepibile
l’interesse pubblico allo stesso, tanto più alla luce delle
linee programmatiche della nuova amministrazione comunale,
dichiaratamente dirette a perseguire il contenimento
dell’uso del suolo e la salvaguardia delle aree a verde;
- la nota assessorile del 16.10.2014 è stata applicata
correttamente nella parte in cui esclude che il permesso di
costruire in deroga possa essere rilasciato in relazione ad
aree libere: è questo il senso del richiamo contenuto nel
provvedimento impugnato;
- infine, l’ultimo punto della motivazione della delibera
consiliare (l’intervento non determinerebbe un’effettiva
riqualificazione del tessuto edilizio, dal momento che
l’eliminazione delle serre sarebbe solo parziale), appare
obiettivamente il meno convincente nel contesto del
provvedimento impugnato, ma tutto sommato il meno rilevante,
tenuto conto del carattere dirimente -e autosufficiente- dei
precedenti capi di motivazione (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 270 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Formazione del silenzio-assenso sui permessi di costruire in
deroga.
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●
Edilizia – Permesso di costruire – In deroga – Parere
Consiglio comunale – Obbligo di immediata impugnazione –
Esclusione.
●
Edilizia – Permesso di costruire – In deroga –
Silenzio-assenso – Formazione – Esclusione.
●
Nel procedimento di rilascio del permesso di costruire in
deroga, previsto dagli artt. 5, d.l. n. 70 del 2011 e 14,
d.P.R. n. 380 del 2001, il parere del Consiglio comunale è
atto meramente endoprocedimentale, impugnabile unitamente
alla determinazione conclusiva; pur essendo obbligatorio e
vincolante, ove negativo, resta facoltà dell’interessato
impugnarlo direttamente o attendere la determinazione
conclusiva del procedimento.
●
Il silenzio-assenso, in materia edilizia, può
formarsi con riferimento alla domanda di permesso di
costruire qualora l’istanza sia conforme agli strumenti
urbanistici; l’istituto non è applicabile ai permessi di
costruire in deroga, anche dopo la novella di cui alla l. n.
125 del 2015, poiché il permesso in deroga implica non
prescindibili valutazioni caratterizzate da ampia
discrezionalità da parte del consiglio comunale; si tratta
di valutazioni neppure soggette a termini predeterminati
(1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che l’istituto del silenzio-assenso di
cui all’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia non è
applicabile alla diversa fattispecie della richiesta di
rilascio di un permesso di costruire “in deroga al
vigente PRGC” di cui all’art. 5, comma 9, d.l. n. 70 del
2011, dal momento che in tal caso l’amministrazione, lungi
dal limitarsi a verificare la mera conformità del progetto
edilizio allo strumento urbanistico vigente, è tenuta a
valutare, innovativamente e con amplissima discrezionalità,
se sussistano i presupposti di interesse pubblico per
modificare lo strumento urbanistico vigente; il che, tra
l’altro, giustifica e impone l’intervento in seno al
procedimento amministrativo dell’organo consiliare, al quale
soltanto competono le scelte di carattere pianificatorio e
programmatorio in seno all’amministrazione comunale.
Pertanto, nel caso di istanze di privati preordinate al
rilascio di un permesso di costruire in deroga allo
strumento urbanistico di cui all’art. 5, comma 9, d.l. n. 70
del 2011 (convertito in l. n. 106 del 2011), l’istituto del
silenzio-assenso non è applicabile perché, se così non
fosse, verrebbe pretermessa la necessaria valutazione degli
interessi pubblici coinvolti nella pianificazione
urbanistica (in tal senso, su fattispecie analoghe,
Cons. St., sez. IV, 26.07.2017, n. 3680;
Tar Pescara 11.12.2017, n. 352).
Ha ancora affermato il Tar che in caso di inerzia il privato
può attivare il rimedio di cui all’art. 117 c.p.a.,
demandando al giudice una valutazione secondo canoni di
equità e proporzionalità (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 270 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Soccorso istruttorio in caso di pagamento del contributo
ANAC per un lotto diverso da quello per il quale è stata
presentata offerta.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio – Contributo Anac – Pagamento per lotto diverso
da quello per il quale è stata presentata offerta – Obbligo
di soccorso istruttorio - Sussiste.
Il pagamento del contributo Anac per
un lotto diverso da quello per il quale è stata presentata
offerta, dovuto ad evidente errore materiale
nell'inserimento nel sistema on-line del codice
identificativo della gara (C.I.G.), deve essere oggetto di
soccorso istruttorio al fine della regolarizzazione mediante
il versamento dell'esatto ammontare (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che rilevante, ai fini del riconoscimento
del soccorso istruttorio, è stato il preliminare adempimento
consistente nella registrazione presso i servizi informatici
per la riscossione dei contributi dell’Anac, che denota il
preciso intendimento dell’operatore economico di rispettare
l’obbligo richiesto e che è stato perfezionato prima della
scadenza del termine per partecipare alla gara.
L’accertata sussistenza della natura materiale dell’errore
commesso, non volontariamente preordinato ad omettere o
diminuire il versamento, non consente di valorizzare, in
negativo, il principio dell’autoresponsabilità dei
concorrenti (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 27.02.2018 n. 44
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Applicabilità del rito super accelerato solo se sono stati
rispettati gli obblighi di pubblicazioni.
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●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione –
Impugnazione – Dies a quo – Individuazione – Data della
seduta pubblica di apertura delle offerte – Esclusione.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Ammissione ed esclusioni –
Impugnazione – Rito superaccelerato ex art. 120, comma
2-bis, c.p.a. – Individuazione – Pubblicazione sul profilo
della stazione appaltante - Mancanza – Inapplicabilità del
rito superaccelerato.
●
Il
termine di impugnazione delle ammissioni degli altri
concorrenti in una gara di appalto non può decorrere dalla
data della seduta pubblica di apertura delle offerte,
ancorchè fosse presente un rappresentante dell’impresa
ricorrente.
●
Lo
speciale rito previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
individua espressamente il dies a quo dell’impugnativa
anticipata di ammissioni ed esclusioni nella pubblicazione
sul profilo della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50; in mancanza di tale adempimento il
rito superacelerato, per la natura derogatoria ed
eccezionale che presenta, non può operare; infatti
l’eccezionalità della previsione ne impone, in caso di
dubbio, una interpretazione favorevole all’esercizio del
diritto di difesa, nel rispetto degli artt. 24, 111 e 113
Cost. (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il nuovo comma 2-bis dell’art. 120
c.p.a. è norma processuale di stretta interpretazione,
derogatoria dei principi tradizionalmente affermati nel
contenzioso sui pubblici appalti. Pertanto, in difetto del
contestuale funzionamento del meccanismo di pubblicità degli
atti di cui si impone l’immediata impugnazione, le relativa
decadenza processuale non può operare, a causa della carenza
del presupposto adempimento pubblicitario che garantisca la
tempestiva informazione degli interessati circa l’identità
delle imprese ammesse e la decorrenza del termine accelerato
per l’impugnativa.
In presenza di dubbi esegetici sull’applicabilità del più
rigoroso regime decadenziale, gli stessi devono essere
risolti preferendo l’opzione meno sfavorevole per
l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente
conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24,
111 e 113 Cost., nonché al principio di effettività della
tutela giurisdizionale nel settore degli appalti pubblici
secondo le direttive europee (si veda, in proposito,
Tar Piemonte, sez. I, 17.01.2018, n. 88, ove sono
denunciati i profili di possibile incompatibilità del nuovo
rito speciale con la direttiva 1989/665/CE e con l’art. 47
della Carta dei diritti UE).
Pertanto, una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito
accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non vi
è che da richiamare l’orientamento giurisprudenziale
consolidato che ha sempre negato valore provvedimentale
autonomo all’atto di ammissione alla gara, consentendone
l’impugnazione solo unitamente al provvedimento finale di
aggiudicazione definitiva dell’appalto.
E ciò vale anche in presenza di quelle norme sostanziali e
processuali di recente introduzione (l’art. 29, d.lgs. n. 50
del 2016, l’art. 120 c.p.a.), che pretendono di qualificare
alla stregua di “provvedimento” l’ammissione alla
gara dei concorrenti, a conclusione della fase di verifica
della documentazione amministrativa e dei requisiti di
partecipazione. Il legislatore, nella sua discrezionalità,
può sì perseguire la maggiore celerità del procedimento di
gara e prevedere più ristretti termini di impugnazione,
sempre che siano rispettati i principi del giusto processo e
dell’effettività della tutela. Ma il legislatore non può
arbitrariamente alterare la natura delle cose. L’ammissione
alla gara, come l’ammissione a qualsivoglia procedura
concorsuale di evidenza pubblica, conserva il carattere di
atto endoprocedimentale, che non attribuisce alcuna
immediata utilità ai concorrenti ammessi e non arreca alcun
pregiudizio immediato agli altri concorrenti.
L’onere di immediata impugnazione delle ammissioni altrui
previsto dall’art. 120 c.p.a., anche qualora il nuovo rito
speciale superi il vaglio di legittimità comunitaria e
costituzionale, non vale a conferire natura provvedimentale
all’atto di ammissione.
Ne consegue che, in assenza dell’adempimento pubblicitario
prescritto dall’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016, nessun onere
di impugnazione sorge in capo ai concorrenti fino al momento
dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto, allorquando
l’interesse ad estromettere (in via principale o
incidentale) altri concorrenti può invece assumere
consistenza reale, in vista del conseguimento dell’utilità
correlata all’aggiudicazione del contratto (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 26.02.2018 n. 262 -
commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha costantemente affermato che
l’autolavaggio e le strutture ad esso connesse non si
configurano come costruzione temporanea o precaria, ma quale
nuova costruzione: si tratta, infatti, di manufatti
stabilmente infissi al suolo, dotati di allacciamenti
fognari, elettrici e idrici e, sotto il profilo funzionale,
di strutture stabilmente destinate all'attività di
autolavaggio e quindi prive del carattere della precarietà.
Invero, l’'art. 3, lett. e.5), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
(correttamente richiamato nel provvedimento impugnato)
riconduce, tra l'altro, alla nozione di “intervento di nuova
costruzione” proprio “l'installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere… che
siano utilizzati come … “ambienti di lavoro…” e che non
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
---------------
Il ricorrente è proprietario di un’area ubicata nel Comune di Motta
Sant'Anastasia della complessiva superficie di mq. 167, sulla
quale grava un vincolo di inedificabilità, essendo stata la
relativa superficie asservita alla costruzione di un
adiacente edifico.
In relazione al predetto terreno, il ricorrente presentava,
in data 07.03.2016, richiesta di autorizzazione per
l'esecuzione di lavori per la realizzazione di un
autolavaggio manuale con relativa autorizzazione allo
scarico delle acque reflue nella pubblica rete fognante,
ritenendo tale opera non contrastante con il vincolo di inedificabilità.
Con preavviso di diniego del 13.06.2016 il Comune
rappresentava che l'attività di autolavaggio non poteva
essere esercitata ed autorizzata in ragione del preesistente
vincolo di asservimento, che impediva l'esecuzione di
qualunque intervento edilizio; nello specifico veniva
dedotto che la tettoia di copertura non poteva qualificarsi
quale struttura precaria volta a soddisfare esigenze di
natura temporanea; per la stessa non era stato poi
documentato il deposito dei calcoli.
Il ricorrente presentava, con nota del 07.07.2017,
controdeduzioni e sosteneva che l'autolavaggio, privo di
alcuna cubatura, non comportava alcuna attività edilizia.
Con provvedimento n. 12215 del 25.07.2016 il Comune
denegava l’istanza con una articolata motivazione a
contenuto plurimo che si può riassumere nei termini
seguenti: “(…)nel ricordare che questo Comune è stato
elencato tra le zone sismiche si evidenzia la necessità che
ogni opera e/o struttura che si intende realizzare dovrà
essere sottoposta alla disciplina di cui alla legge n.
64/1974, in particolare quando queste possono interessare
(come il caso di specie) la pubblica incolumità (…). La
struttura metallica realizzata, definita da codesta ditta
una pertinenza in relazione alla natura funzionale e
strumentale che la lega all’impianto in questione, risulta,
invece, una nuova costruzione la quale è destinata ad uso
continuativo perché connessa all’espletamento dell’attività
stessa di autolavaggio, configurandone il luogo di questo al
punto di attribuirne una specifica destinazione e
localizzazione…Il detto intervento (di nuova costruzione) è
stato realizzato peraltro in area sottoposta a vincolo di
asservimento. Detta area, proprio per il vincolo alla quale
soggiace, non può essere utilizzata allo scopo…”.
...
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Va innanzitutto rilevato che non coglie nel segno il
richiamo normativo all’art. 20 della l.r. 4/2003
(erroneamente indicato in ricorso con art. 20 della l.r.
37/1985) poiché la struttura in questione (che copre una
superficie di mq. 50,00 all’interno della quale è stato
ricavato anche una vano servizi) non integra i connotati
oggettivi richiesti dalla norma (vale a dire opera interna o
terrazza di collegamento).
Viene in rilievo, invece, l’'art. 3, lett. e.5), del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (correttamente richiamato nel
provvedimento impugnato) che riconduce, tra l'altro, alla
nozione di “intervento di nuova costruzione” proprio
“l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere… che siano utilizzati
come … “ambienti di lavoro…” e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee”.
In tale scia interpretativa, la giurisprudenza ha
costantemente affermato che l’autolavaggio e le strutture ad
esso connesse, non si configurano come costruzione
temporanea o precaria, ma quale nuova costruzione: si
tratta, infatti, di manufatti stabilmente infissi al suolo,
dotati di allacciamenti fognari, elettrici e idrici e, sotto
il profilo funzionale, di strutture stabilmente destinate
all'attività di autolavaggio e quindi prive del carattere
della precarietà (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.2012,
n. 4214; sez. V, 20.06.2011 n. 3683; sez. VI, 16.02.2011 n. 986).
Nel caso in esame, quindi, la struttura in questione,
stabilmente destinata all'attività di autolavaggio non
poteva essere considerata quale opera precaria e quindi non
realizzabile in area soggetta a vincolo di asservimento.
Infine si può prescindere dall’esame dell’ulteriore censura
concernente il deposito dei calcoli della struttura portante
tenuto conto che la rilevata difformità della costruzione
rispetto al vincolo di asservimento dell’area, rappresenta
un'autonoma e sufficiente ragione ostativa alla
realizzazione del progetto e costituisce nucleo
motivazionale del tutto sufficiente a sorreggere, di per sé,
il rigetto della domanda di autorizzazione all’esecuzione
dei lavori per la realizzazione dell’impianto.
Nel caso in
esame, infatti, trattandosi di provvedimento di diniego
fondato su una motivazione plurima, esso non può essere
annullato qualora anche uno solo dei motivi posti a
fondamento fornisca autonomamente la legittima e congrua
giustificazione della determinazione adottata (cfr. TAR
Palermo, Sez. II 30.05.2013 n. 1193; TAR Milano, sez. IV
12.11.2013 n. 2511).
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 23.02.2018 n. 417 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Il risarcimento del danno non è cumulabile con gli
emolumenti di carattere indennitario (fattispecie
concernente corresponsione di somme a titolo di risarcimento
danni causati dall’esposizione prolungata all’amianto).
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Risarcimento danni – Quantificazione – Detrazione
indennità versate da assicuratori privati – Vanno detratte.
La presenza di un’unica condotta
responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto
illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli
diversi aventi la medesima finalità compensativa del
pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto,
determina la costituzione di un rapporto obbligatorio
sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione
della regola della causalità giuridica e in coerenza con la
funzione compensativa e non punitiva della responsabilità,
il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre
dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno
contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario (1).
---------------
(1)
La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. IV, ordinanza 06.06.2017, n. 2719
[si legga anche:
Alla Adunanza plenaria la possibilità di cumulo tra
risarcimento del danno ed emolumenti di carattere
indennitario. Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 06.06.2017, n. 2719:
●
Risarcimento danni – Quantificazione – Detrazione indennità
versate da assicuratori privati – Dubbio in giurisprudenza –
Devoluzione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
●
Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se
sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo
dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli
emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori
privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie
previdenziali].
Ha chiarito l’Alto Consesso che la soluzione della questione
all’esame dell’Adunanza plenaria presuppone la previa
individuazione dei titoli delle obbligazioni che vengono in
rilievo e della loro natura, nonché dei soggetti del
rapporto obbligatorio.
L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi
ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in
rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non
possono essere cumulate.
Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una
condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni
da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del
medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto
determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente
unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto
unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare
la sfera personale della parte lesa.
In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità
giuridica impone che venga compensato e liquidato soltanto
il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che le
suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.
Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della
compensatio nella sua versione “tradizionale”,
che presuppone che la medesima condotta determini un “danno”
e un “vantaggio”. Come già esposto, tale regola non
ha una sua autonomia ed è riconducibile alle tecniche di
determinazione del danno che, nella specie, trovano
applicazione in modo ancora più lineare e diretto. In questo
caso, infatti, la medesima condotta ha determinato solo
“danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza
che occorre evitare il “cumulo di voci risarcitorie”
e non “il cumulo di danno e di lucro”.
Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento
del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità
contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti,
di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe
per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a
quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato
con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo.
Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto
dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una
espressa previsione legislativa che contempli un illecito
punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovracompensativo
e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa
dell’attribuzione patrimoniale.
In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata
finalità compensativa di entrambi i titoli delle
obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo
risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le
possibili complicazioni ricostruttive connesse al
funzionamento della surrogazione, impedisce che possa
operare il cumulo tra danno e indennità (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 23.02.2018 n. 1
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
AREE PROTETTE - Opere abusive realizzate
all’interno di parchi e aree protette - Ante parco - Potere
sanzionatorio finalizzato alla rimessione in pristino -
Artt. 13 e 29 l. n. 394/1991 - Art. 28 l.r. Lazio n.
29/1997.
Nei casi di opere abusive realizzate all'interno di parchi o
aree protette, sussiste la competenza dell'ente parco ad
adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi, dovendosi considerare il potere di
ordinanza esercitato dal predetto Ente fondato sulle
specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento
della sua stessa istituzione, tramite l'esercizio di un
potere incardinato in virtù della legislazione in materia
urbanistico -ambientale e finalizzato a proteggere le aree
sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla
normativa.
Proprio la legge n. 394/1991 (legge sulle aree naturali
protette) all’art. 13 prescrive infatti, ai fini del
rilascio di autorizzazioni o di concessioni relative ad
interventi, impianti ed opere all'interno del parco, sia la
presentazione di una richiesta di rilascio preventivo di
nulla osta all'Ente parco, sia (art. 29) la titolarità di un
potere sanzionatorio finalizzato alla rimessione in pristino
dello stato dei luoghi in caso di interventi edilizi
difformi dal nulla osta o dalle previsioni di tutela
dell’ente parco.
Tale potere sanzionatorio ha trovato ulteriore conferma
nella l.r. Lazio n. 29/1997, che all’art. 28 statuisce che “3.
Qualora nelle aree naturali protette venga esercitata
un'attività in difformità del piano, del regolamento o del
nulla osta, il direttore dell'ente di gestione dispone la
sospensione dell'attività medesima ed ordina la riduzione in
pristino o la ricostituzione di specie vegetali o animali ai
sensi dell'articolo 29 della l. 394/1991” (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 22.02.2018 n. 2056 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione - Proprietario della
costruzione abusiva - Legittimazione passiva all’esecuzione
dell’ordine di demolizione - Accertamento della
responsabilità - Non è richiesto - Art. 31 d.p.r. n.
380/2001.
Affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa
essere destinatario dell'ordine di demolizione non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, posto che in
materia di abusi edilizi la normativa nazionale di cui
all’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001 si limita a prevedere la
legittimazione passiva del proprietario non responsabile
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere
l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Da ciò discende che il provvedimento demolitorio trae il
proprio presupposto non dall'accertamento di responsabilità
nella commissione dell'illecito, ma dall'esistenza di una
situazione fattuale contrastante con la normativa
urbanistica ed edilizia, mediante l'individuazione di un
soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine
ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo
diritto dominicale (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 22.02.2018 n. 2056 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Affidamento
senza gara se c'è interesse comune. Sentenza Cds.
È legittimo un affidamento di servizi senza gara fra due amministrazioni se
riguarda interessi comuni.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 22.02.2018 n. 1132 in merito alla legittimità di un accordo di
cooperazione fra due amministrazioni pubbliche.
In particolare era stata
impugnato un provvedimento con il quale la Regione Liguria aveva affidato
senza gara il servizio di elisoccorso al Corpo nazionale dei vigili del
fuoco, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, del decreto-legge n. 101 del 2013
(che ammetteva l'affidamento in «contesti di particolare difficoltà
operativa e di pericolo per l'incolumità delle persone»).
L'affidamento
sarebbe stato disposto peraltro a condizioni economiche peggiori di quelle
dei precedenti affidamenti (dal 2007 in poi) e di quelle derivanti da un
aperto confronto concorrenziale. Il Tar Liguria ha rigettato il ricorso e il
Consiglio di stato ha confermato la decisione di primo grado affermando che
il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, sia per la sua natura che in
relazione all'attività oggetto dell'accordo, non riveste la qualità di
«operatore economico», cioè di un soggetto che offre in generale i suoi
servizi sul mercato e, certamente, non i servizi oggetto della convenzione.
Pertanto, il servizio reso in materia dai Vigili del fuoco non può essere
assoggettato alla disciplina prevista dalla direttiva 2004/18/Ce, art. 1,
par. 8 perché l'art. 4, n. 1, della stessa direttiva riconosce agli Stati
membri la valutazione circa la compatibilità o meno, rispetto ai fini
istituzionali propri di ciascun soggetto pubblico, di consentire allo stesso
di offrire i propri beni o servizi sul mercato. Il giudice di primo grado ha
anche escluso che la convezione in esame comporti una duplicazione di costi
per i cittadini atteso che, ciò che viene riconosciuto nella convenzione è
soltanto il costo vivo per il servizio di elisoccorso prestato.
I giudici
aggiungono che alla luce della valenza generale rivestita dagli accordi
organizzativi di cui all'art. 15 della legge 241/1990, gli enti pubblici
possono «sempre» utilizzare lo strumento convenzionale per concludere tra
loro accordi organizzativi volti a disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune (articolo
ItaliaOggi del 02.03.2018).
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MASSIMA
Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione.
Non rileva, nel caso in esame, accertare se la norma in questione abbia o
meno natura interpretativa, essendo evidente che proprio il tenore letterale
della stessa non consente di pervenire alle conclusioni di parte appellante.
L’inciso “in contesti di particolare difficoltà operativa e di pericolo
per l’incolumità delle persone” limita, infatti, l’attività di
elisoccorso che i Vigili del fuoco possono svolgere alle ipotesi di “difficoltà
operative”, ma solo se sono “particolari”, e alle situazioni “di
pericolo per l’incolumità delle persone”; nella prima ipotesi non sono
circoscritte le “particolari difficoltà operative” agli eventi di gravi
calamità naturali e, nella seconda ipotesi, le situazioni “di pericolo per
l’incolumità delle persone” non devono essere eccezionali o
particolarmente gravi.
Si tratta di previsione al quale la convenzione si è strettamente attenuta,
atteso che, come si è detto, il servizio affidato ai Vigili del fuoco è
finalizzato ad assicurare il tempestivo intervento di soccorso per garantire
l’incolumità e la tutela delle funzioni vitali delle persone che, per
condizioni sanitarie e/o ambientali, necessitano di un urgente intervento di
soccorso tecnico e sanitario, nonché l’eventuale trasporto assistito al
presidio ospedaliero idoneo a consentire nel modo più rapido e razionale
l’intervento diagnostico–terapeutico. “L’intervento dell’elicottero in
sostituzione di altri mezzi di emergenza dovrà realizzarsi unicamente in
funzione di estrema urgenza, legata alle condizioni sanitarie e/o
ambientali, per cui deve essere portato il primo soccorso alla persona e
alla rapidità del trasporto ai fini della tutela delle funzioni vitali”.
Tale essendo l’oggetto normativamente e pattiziamente previsto per gli
interventi di elisoccorso da parte dei Vigili del fuoco, il Collegio ritiene
che siano ancora attuali –nonché condivisibili– le osservazioni rese dalla
sez. III (16.12.2013, n. 6014, che ha, a sua volta, richiamato il precedente
della sez. V 13.07.2010, n. 4539) in occasione dell’impugnazione della
delibera della Giunta regionale ligure n. 318/2009, concernente una
precedente approvazione di schema di convenzione per l'effettuazione del
servizio di elisoccorso integrato tecnico sanitario 2009-2011 tra la stessa
Regione ed il Ministero dell'Interno, Dipartimento dei vigili del fuoco.
Ha affermato la Sezione che, alla luce della normativa
comunitaria, il Corpo dei vigili del fuoco non rientra nel concetto di
operatore economico rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva n.
2004/18/CE, in quanto esso non è soggetto che offra servizi sul mercato o,
quantomeno, che offra sul mercato i servizi oggetto della convenzione
impugnata.
Ha aggiunto che l’attività oggetto della convenzione è
riconducibile ad interventi di soccorso pubblico, caratterizzati dal
requisito dell'immediatezza della prestazione, che i Vigili del fuoco, a
differenza dei servizi a pagamento per soccorso non urgente previsti dal
secondo periodo del comma 1 dell'art. 25, d.lgs. 08.03.2006, n. 139 (sul
riassetto delle disposizioni relative alle funzioni ed ai compiti del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco), sono tenuti ad assicurare alla collettività
(al fine, tra l'altro, di salvaguardare l'incolumità delle persone), senza "oneri
finanziari per il soggetto o l'ente che ne beneficia" (primo periodo del
comma 1, cit.).
Il servizio oggetto di convenzione non può considerarsi
attività che il Corpo nazionale dei vigili del fuoco è autorizzato dalla
normativa nazionale ad offrire sul mercato, sì che, in relazione al suo
espletamento, non può ravvisarsi, in capo a detto Corpo, la qualità di
operatore economico che, sola, come si è detto, può valere a configurare un
appalto di servizi assoggettato alla disciplina della direttiva 2004/18/CE e
a quella codicistica.
Ha aggiunto il giudice di appello che, a livello di
normativa nazionale, l'art. 15, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, richiamato
nelle premesse della convenzione di cui si tratta, dispone che "le
amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per
disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse
comune". L’accordo tra amministrazioni rappresenta lo strumento utile
per soddisfare il pubblico interesse, il coordinamento, in un quadro
unitario, di interessi pubblici di cui ciascuna amministrazione è
portatrice.
Del resto, in materia di accordi tra Pubbliche amministrazioni, al di fuori
dell’ipotesi più ricorrente di svolgimento di funzioni comuni (quali, ad
esempio, la costituzione di un consorzio tra enti per la gestione tecnica ed
amministrativa di aree industriali o la gestione di un servizio comune), è
possibile ricorrere all’art. 15, l. n. 241 del 1990 quando una Pubblica
amministrazione intenda affidare a titolo oneroso ad altra Amministrazione
un servizio, ove questo ricada tra i compiti dell’ente.
In tale quadro è stato, ad esempio, ritenuto legittimo l’affidamento del
servizio di trasporti intra–inter ospedalieri da parte di un’azienda
ospedaliera alla Croce Rossa Italiana, ente di diritto pubblico avente, tra
i propri compiti, quello di effettuare, con propria organizzazione, il
servizio di pronto soccorso e trasporto infermi, concorrendo all’adempimento
delle finalità del Servizio sanitario nazionale attraverso apposite
convenzioni (Cons. St., sez. V,
12.04.2007, n. 1707; 16.09.2011, n. 5207).
Alla luce, quindi, della valenza generale rivestita dagli accordi
organizzativi di cui al citato art. 15, gli enti pubblici
possono "sempre" utilizzare lo strumento convenzionale per concludere
tra loro accordi organizzativi volti a disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune e in particolare, per quanto
qui ne occupa, al fine di programmare e di realizzare un servizio pubblico
di soccorso alla persona in situazioni di emergenza.
Ha ancora chiarito la sez. III (sentenza n. 6014 del 2013) che
una cooperazione del genere tra autorità pubbliche non può
interferire con l'obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di
appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e
l'apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, "poiché
l'attuazione di tale cooperazione è retta unicamente da considerazioni e
prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico e
poiché viene salvaguardato il principio della parità di trattamento degli
interessati di cui alla direttiva 92/50, cosicché nessun impresa privata
viene posta in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti"
(Corte giust. Comm. ue 09.06.2009 in C480/06, Stadt Halle e RPL Lochau,
punti 50 e 51).
In conclusione, sia applicando i principi comunitari che tracciano i casi in
cui non è obbligatorio l’affidamento di un servizio tramite gara pubblica,
che i principi della legge sul procedimento amministrativo in materia di
accordi tra Pubbliche amministrazioni, era possibile affidare direttamente,
con convenzione, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco il servizio di
elisoccorso, nei casi previsti.
Per completezza espositiva il Collegio ricorda come, con sentenza
18.12.2007, in C532/03, la Corte di Giustizia, pronunciandosi su una
fattispecie del tutto analoga a quella qui in trattazione, abbia ritenuto
non contrastante con gli obblighi nascenti dal Trattato un accordo tra
un'amministrazione pubblica ed il servizio dei Vigili del fuoco a Dublino
per il trasporto d'urgenza in ambulanza nell'esercizio delle rispettive
competenze, come nella specie derivanti dalla legge, con contestuale
corresponsione di un contributo destinato a coprire parte dei costi del
servizio. |
ENTI
LOCALI:
Giurisdizione Ago nella controversia risarcitoria proposta
dal creditore di società fallita rimasto insoddisfatto in
sede fallimentare.
---------------
●
Giurisdizione – Risarcimento danni – Azione risarcitoria
proposta dal creditore di una società fallita rimasto
insoddisfatto in sede fallimentare – Giurisdizione Ago.
●
Società – Società per azioni – Azioni possedute da una
Pubblica amministrazione- Resta società di diritto privato.
●
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia avente ad oggetto l'azione risarcitoria
proposta dal creditore di una società fallita, rimasto
insoddisfatto in sede fallimentare, contro gli Enti pubblici
che ne posseggano l'intero capitale sociale e la cui
condotta, attiva o missiva, si assuma essere stata causa
dell'insolvenza (1).
●
La società per azioni con partecipazione pubblica
non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, solo
perché la Pubblica amministrazione ne possegga –in tutto o
in parte– le azioni, in quanto il rapporto tra società ed
ente locale è di assoluta autonomia, al soggetto pubblico
non essendo consentito incidere unilateralmente sullo
svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività mediante
l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, potendo
solo avvalersi degli strumenti previsti dal diritto
societario (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Collegio che l’attività censurata s’inquadri
nell’ambito di moduli di carattere privatistico, riguardando
le forme dell’esercizio (o del mancato esercizio) degli
ordinari poteri dell’azionista pubblico.
Non potrebbe, peraltro, invocarsi la giurisdizione esclusiva
prevista nel settore di pubblici servizi, che richiede il
necessario concorso di due presupposti:
a) l’uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto
intimato fra le “pubbliche amministrazioni”, come
definite dal comma 2 dell’art. 7 del c.p.a.;
b) l’altro oggettivo, consistente nell’avere la controversia
ad oggetto, non qualsivoglia atto o attività dei soggetti
suindicati, ma atti o condotte riconducibili all’esercizio
delle funzioni istituzionali del soggetto procedente (cfr.
Cass. civ., Sez. un., 23.10.2017, n. 24968 e 24.07.2013 n.
17935; Cons. St., sez. IV, 12.03.2015, n. 1299).
(2) Sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 14.09.2017, n. 21299; id.
01.12.2016, n. 24591; id. 23.01.2015, n. 1237 (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 21.02.2018 n. 496 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
il permesso di costruire vale il silenzio-assenso. Edilizia. Il Tar
Catanzaro illustra con la sentenza 491/2018 le modalità di formazione del
titolo abilitativo tacito.
Si attua finalmente il silenzio-assenso anche per i permessi di costruire.
Lo conferma il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, nella
sentenza
21.02.2018 n.
491.
In questi stessi giorni diventa più agevole l'edilizia libera: è infatti in
corso la pubblicazione in Gazzetta ufficiale di un dettagliato elenco di
opere che non necessitano di autorizzazione.
Per gli interventi di maggior peso, su aree libere o con demolizioni
integrali senza piani di dettaglio, il permesso edilizio è però necessario.
Di qui l'importanza del permesso, anche se formatosi tramite silenzio.
La norma di riferimento è l'articolo 20 del Dpr n. 380/2001: si prevedono,
partendo dal deposito della richiesta, 60 giorni per acquisire pareri e
valutare la conformità del progetto alla normativa vigente, con proposta di
provvedimento o suggerimento di lievi modifiche. Il termine può essere
interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro 30 giorni
dalla presentazione della domanda.
Se non sono chiesti documenti integrativi, il provvedimento finale è
adottato dal dirigente entro 30 giorni. Il primo ed il secondo termine (60 e
30 giorni) si raddoppiano nei Comuni con più di 100mila abitanti o per
progetti particolarmente complessi. Di conseguenza, una volta decorso
inutilmente il termine per la definizione del procedimento di rilascio del
permesso di costruire, pari a 90 o 180 giorni (ossia 6o giorni per la
conclusione dell'istruttoria + 30 per la determinazione finale), si forma il
titolo abilitativo tacito.
Una volta maturato il silenzio-assenso, l'amministrazione non può più
impedire l'attività edilizia: qualora emergano circostanze non valutate, il
Comune dovrà prima procedere all'annullamento del provvedimento formatosi in
modo silenzioso. Ad esempio, se il vicino protesta con il Comune con validi
argomenti, il Comune stesso può agire in autotutela, se sussistono motivi di
interesse generale (Tar Napoli 2972/2014; Tar Catania 572/2005).
Ma, in autotutela, il Comune non può limitarsi a emanare una diffida che
sospenda i lavori, bensì deve percorrere in senso inverso tutto il
procedimento che ha condotto al rilascio del permesso di costruire.
In particolare, seguendo l'articolo 21-nonies della legge 241/1990, entro un
termine ragionevole (comunque non superiore a 18 mesi), il permesso di
costruire illegittimo può essere annullato se sussistono le ragioni di
interesse pubblico, comparando gli interessi dei destinatari e dei
controinteressati.
Solo se il permesso di costruire è stato ottenuto sulla base di false
rappresentazioni di fatti o di dichiarazioni non vere, il termine per
annullare il permesso di costruire si prolunga oltre i 18 mesi (articolo
Il Sole 24 Ore del
28.02.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al procedimento di rilascio del permesso di
costruire è applicabile la disciplina del silenzio-assenso,
sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la
definizione del procedimento di rilascio del titolo
edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso
di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza
che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali
sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni
dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di
permesso di costruire deve intendersi formato il titolo
abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U.
06.06.2001 n. 380.
Sicché, è illegittimo il provvedimento di diniego emesso dal
Comune dopo la formazione del silenzio-assenso sulla
richiesta del permesso di costruire potendo, in tale
ipotesi, essere adottato soltanto un provvedimento di ritiro
in autotutela, ove sussistano gli altri presupposti
richiesti per l’adozione di atti di secondo grado, da
accertarsi con le stesse forme e con le stesse modalità
procedimentali previste per l’adozione dell’atto da
annullare.
---------------
- Premesso che, al procedimento di rilascio del permesso di
costruire, è applicabile la disciplina del silenzio-assenso,
sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la
definizione del procedimento di rilascio del titolo
edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso
di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza
che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali
sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni
dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di
permesso di costruire deve intendersi formato il titolo
abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
07/02/2018 e n. 384 e 17/06/2015, n. 1095; TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 29/05/2014, n. 2972);
-
Rilevato, di conseguenza, che è illegittimo il provvedimento
di diniego emesso dal Comune dopo la formazione del
silenzio-assenso sulla richiesta del permesso di costruire
(TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07/02/2018 e
17/06/2015, n. 1095);
-
Ritenuto che al 14/11/2018 –data di adozione del formale
provvedimento di rigetto– era ampiamente decorso il termine
di formazione del silenzio-assenso, decorrente dal
07/07/2017 –data di completamento della documentazione a
corredo della richiesta di permesso di costruire in data
28/03/2017–, risultando in atti sull’area né l’esistenza di
vincoli diversi da quelli per il quale è stato acquisito il
nulla-osta in data 25/05/2017, né l’adozione di una
“motivata risoluzione del responsabile del procedimento” di
particolare complessità dell’affare, ai fini del raddoppio
dei termini ex comma 7;
-
Considerato, pertanto, che l’atto impugnato, con cui il
comune di Squillace ha negato il rilascio del titolo
edilizio dopo la sua formazione tacita, va dichiarato
illegittimo, potendo, in tale ipotesi, essere adottato
soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove
sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di
atti di secondo grado (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.05.2014 n. 2972; TAR Sicilia, Catania,
07.04.2005 n. 572), da accertarsi con le stesse forme e con
le stesse modalità procedimentali previste per l’adozione
dell’atto da annullare (cfr. TAR Calabria, Reggio
Calabria, 06.04.2000 n. 304);
-
Ritenuto, pertanto, che il ricorso è manifestamente fondato
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 21.02.2018 n. 491 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal combinato disposto degli art. 32, 33 e 35,
della legge 28.02.1985 n. 47, può desumersi
il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita
immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale,
essendo all'uopo in ogni caso richiesto il parere espresso
dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione
per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione
del silenzio-assenso sull'istanza di condono e inoltre, ai sensi
del richiamato art. 2, comma 43, della legge 23.12.1996, n.
662, nel testo risultante a seguito delle modifiche
successivamente apportate, nel caso di abusi realizzati in
zone sottoposte al vincolo, il decorso del termine di
centottanta giorni senza che l'Amministrazione preposta alla
gestione del vincolo stesso abbia espresso il proprio parere
non comporta la formazione del silenzio assenso, ma
legittima l'interessato all'eventuale impugnazione del
silenzio rifiuto.
---------------
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo con il quale la ricorrente sostiene che la
domanda di condono deve ritenersi accolta per silenzio-assenso è infondata.
Infatti, come è noto, dal combinato disposto degli art. 32,
33 e 35, della legge 28.02.1985 n. 47, può desumersi
il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita
immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all'uopo in ogni caso
richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla
gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è
configurabile la formazione del silenzio-assenso
sull'istanza di condono (ex pluribus cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 08.08.2014, n. 4226) e inoltre, ai sensi
del richiamato art. 2, comma 43, della legge 23.12.1996, n. 662, nel testo risultante a seguito delle modifiche
successivamente apportate, nel caso di abusi realizzati in
zone sottoposte al vincolo, il decorso del termine di
centottanta giorni senza che l'Amministrazione preposta alla
gestione del vincolo stesso abbia espresso il proprio parere
non comporta la formazione del silenzio assenso, ma
legittima l'interessato all'eventuale impugnazione del
silenzio rifiuto (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez.
VI, 03.12.2009, n. 7566) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.02.2018 n. 202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legge
104, il part-time non taglia i permessi.
Il lavoratore part-time ha diritto a tre giorni di permesso mensile per
l'assistenza a familiari con grave handicap (legge n. 104/1992).
Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza
20.02.2018 n. 4069, disapprovando il comportamento di un
datore di lavoro che, sulla base delle istruzioni Inps (circolare n.
133/2000), aveva invece ridotto i giorni in proporzione all'orario di lavoro
svolto in un rapporto a tempo parziale di tipo verticale.
La Cassazione, in
pratica, ripropone l'interpretazione fornita qualche mese fa con la sentenza
n. 22925/2017. La questione decisa nel giudizio è se i permessi mensili
attribuiti al lavoratore (genitore di un figlio con grave handicap) debbano
o meno essere riproporzionati in misura di due, invece di tre (la misura
intera), nell'ipotesi in cui il genitore osservi un orario di lavoro su
quattro giorni a settimana, in un part-time di tipo verticale.
La Corte spiega che l'art. 4 del dlgs n. 61/2000 (Tu sul part-time) prevede
un principio di non discriminazione, in base al quale il lavoratore occupato
a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto
al lavoratore a tempo pieno. Lo stesso art. 4, poi, da una parte elenca i
«diritti» del lavoratore a tempo parziale che non devono subire decurtazioni
a causa del ridotto orario di lavoro svolto; dall'altra stabilisce che il
trattamento economico (la retribuzione globale e le singole voci; la paga
feriale; i trattamenti per malattia, infortunio, maternità ecc.) possono
essere riproporzionati.
Il fine della distinzione, spiega la Corte, è quella
di distinguere gli istituti che hanno una connotazione patrimoniale
(riproporzionabili) da quelli che appartengono a un ambito di diritti aventi
una connotazione non strettamente patrimoniale, salvaguardati da qualsiasi
riduzione. I permessi per assistenza a familiari disabili, nel silenzio
della norma (non sono declinati nell'art. 4 del dlgs n. 61/2000), vanno
fatti rientrare nel secondo ambito (diritti non riproporzionabili) (articolo ItaliaOggi del
21.02.2018).
---------------
MASSIMA
Ritiene il Collegio di dover confermare l'interpretazione già accolta da
questa Corte nella recente sentenza n. 22925/2017.
L'art. 33 L. n. 104/1992 riconosce al lavoratore
dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in
situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado,
ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona
con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni
di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano
deceduti o mancanti, il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile
retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera
continuativa.
La questione che si pone nel presente giudizio è se detti permessi mensili
attribuiti al genitore debbano o meno essere riproporzionati nella misura di
due i invece di tre, nell'ipotesi in cui il genitore osservi un orario di
lavoro articolato su 4 giorni alla settimana con orario 8,30-14,30, cd
part-time verticale.
L'art. 4 del dlgs n. 61/2000 (Testo unico sul part-time), dopo aver sancito
al primo comma il principio di non discriminazione in base al quale il
lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole
rispetto al lavoratore a pieno, elenca alla lettera a) "i diritti"
del lavoratore a tempo parziale ed "in particolare" stabilisce che
deve beneficiare della medesima retribuzione oraria, del medesimo periodo di
prova e di ferie annuali, della medesima durata del periodo di astensione
obbligatoria e facoltativa per maternità , del periodo di conservazione del
posto di lavoro a fronte di malattia, dei diritti sindacali, ivi compresi
quelli di cui al titolo III della legge 20.05.1970, n. 300, e successive
modificazioni.
L'art. 4 citato alla lettera b) stabilisce che "il trattamento del
lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta
entità della prestazione lavorativa" in particolare per quanto riguarda
l'importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa;
l'importo della retribuzione feriale; l'importo dei trattamenti economici
per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità. La
lettera a) individua, dunque, "i diritti" del lavoratore con orario
part-time, mentre la successiva lettera b) esamina "i trattamenti"
economici. Questi ultimi possono essere riproporzionati.
Il legislatore, in dichiarata attuazione del principio di non
discriminazione, ha inteso distinguere fra quegli istituti che hanno una
connotazione patrimoniale e che si pongono in stretta corrispettività
con la durata della prestazione lavorativa, istituti rispetto ai quali è
stato ammesso il riproporzionamento del trattamento del lavoratore,
(addirittura, sia pure con la mediazione delle parti collettive, in misura
più che proporzionale alla minore entità della prestazione in base
all'ultima parte della lettera b), ed istituti riconducibili ad un ambito di
diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso
salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della
durata della prestazione lavorativa.
In assenza di specifica disciplina, [né la lettera a) né la lettera b)
menzionano i permessi in esame] l'interprete deve ricercare tra le possibili
opzioni offerte dal dato normativo quella maggiormente aderente al rilievo
degli interessi in gioco ed alla sottese esigenze di effettività di tutela,
in coerenza con le indicazioni comunitarie (cfr. in tal senso Cass. citata).
Il precedente citato di questa Corte ha messo in luce che "il
permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3, L. 104/1992
costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in
forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno
carico dell'assistenza di un parente disabile grave.
Come evidenziato da Corte cost. n. 213 del 2016, trattasi
di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del
congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del
2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in
situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle
relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale. La tutela
della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita
dalla legge n. 104 del 1992, postula anche l'adozione di interventi
economici integrativi di sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta
fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di
handicap» (sentenze n. 203 del
2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
In questa prospettiva è innegabile che la ratio legis dell'istituto in esame
consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in
ambito familiare. "...Risulta, pertanto, evidente che l'interesse primario
cui è preposta la norma in questione -come già affermato da questa Corte con
riferimento al congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs.
n. 151 del 2001- è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità
nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito
familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio
dell'assistito» (sentenze n. 19
del 2009 e n. 158 del 2007)" (Corte cost. n. 213 del 2016).
Si tratta, in definitiva, di una misura destinata alla tutela della
salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell'individuo
tutelato dall'art. 32 Cost., che rientra tra i diritti inviolabili che la
Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo che nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.)".
Tenuto conto, pertanto, delle finalità dell'istituto disciplinato dall'ad 33
della L. n. 104/1992, come sopra evidenziate attinenti a diritti
fondamentali dell'individuo, deve concludersi che il
diritto ad usufruire dei permessi costituisce un diritto del lavoratore non
comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a
tempo pieno.
Accanto a tali considerazioni si possono, altresì, richiamare gli ulteriori
rilievi svolti nel precedente citato da questa Corte che, in fattispecie del
tutto simile di part-time verticale con orario 8,30-14,30 per quattro giorni
a settimana, ha escluso che la fruizione dei permessi in oggetto
costituisca un irragionevole sacrificio per la parte datoriale.
Si è affermato, infatti, che "dal complesso delle fonti
richiamate emerge la necessità, comunque, di una valutazione comparativa
delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, anche alla luce del
principio di flessibilità concorrente con quello di non discriminazione, e
della esigenza di promozione, su base volontaria, del lavoro a tempo
parziale, dichiarato nell'Accordo quadro, alla base della Direttiva (v. in
particolare clausola 1 lett. b) nella quale si evidenzia che scopo
dell'Accordo è quello di "di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo
parziale su base volontaria e di contribuire all'organizzazione flessibile
dell'orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori
e dei lavoratori.")... Il criterio che può ragionevolmente desumersi da tali
indicazioni è quello di una distribuzione in misura paritaria degli
oneri e dei sacrifici connessi all'adozione del rapporto di lavoro part-time
e, nello specifico, del rapporto part-time verticale. In coerenza con tale
criterio, valutate le opposte esigenze, appare ragionevole distinguere
l'ipotesi in cui la prestazione di lavoro part-time sia articolata sulla
base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di
giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una
prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura
limitata solo ad alcuni periodi nell'anno e riconoscere, solo nel primo
caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di
effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei
permessi in oggetto".
In applicazione di tale criterio, così come affermato nel precedente di
questa Corte, tenuto conto della modalità dell'orario di lavoro osservato,
la sentenza impugnata deve essere confermata. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
APPALTI - Contratto di appalto - Rovina e difetti
di cose immobili ex art. 1669 cod. civ. - Gravi difetti -
Costruttore committente - Obblighi delle società
partecipanti alla fusione - Chiamata in manleva - Acquirente
contro venditore - Responsabilità extracontrattuale di
ordine pubblico - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Difetti
dell'immobile - Risarcimento danni subiti dal Condominio.
La disposizione di cui all'art. 1669 c.c., configura una
responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico, sancita
per finalità di interesse generale, che trascende i confini
dei rapporti negoziali tra le parti.
Pertanto, l'azione di responsabilità prevista dalla suddetta
norma può essere esercitata, non solo dal committente contro
l'appaltatore, ma anche dall'acquirente contro il venditore
che abbia costruito l'immobile sotto la propria
responsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto
nei confronti dei terzi e degli stessi acquirenti una
posizione di diretta responsabilità nella costruzione
dell'opera e sempre che si tratti di gravi difetti i quali
al di fuori dell'ipotesi di rovina ed evidente pericolo di
rovina, pur senza influire sulla stabilità dell'edificio,
pregiudicano o menomano in modo rilevante il normale
godimento, la funzionalità o l'abitabilità del medesimo (v.
Cass. n. 9370 del 2013 n. 8140 del 2004).
In altri termini, l'art. 1669 cod. civ. trova applicazione,
oltre che nei casi in cui il venditore abbia provveduto alla
costruzione con propria gestione di uomini e mezzi, anche
nelle ipotesi in cui, pur avendo utilizzato l'opera di
soggetti estranei, la costruzione sia, comunque, a lui
riferibile in tutto o in parte per avere ad essa partecipato
in posizione di autonomia decisionale, mantenendo il potere
di coordinare lo svolgimento dell'altrui attività o di
impartire direttive o di sorveglianza, sempre che la rovina
o i difetti dell'opera siano riconducibili all'attività da
lui riservatasi (Cass. n. 16202/2007).
Con l'ulteriore specificazione che chi abbia deciso di far
costruire un immobile da destinare alla successiva vendita
(intera o frazionata) a terzi, e che per far questo appalti
l'opera ad un diverso soggetto (impresa edile) è tenuto alla
garanzia prevista dall'art. 1669 cod. civ. (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 20.02.2018 n. 4055 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Impugnazione
della segnalazione all’A.N.A.C..
Il TAR Milano ritiene che l’impugnazione
della segnalazione all’A.N.AC. ai fini dell’annotazione nel
casellario risulta inammissibile, per difetto di un
interesse attuale e concreto; soltanto con l’iscrizione
della notizia segnalata nel casellario, infatti, il soggetto
riceverà un danno diretto e concreto rispetto alle future
gare cui intende partecipare nei termini di un potenziale
pregiudizio alla partecipazione stessa, previa valutazione
della stazione appaltante.
L’eventuale vincolo valutativo
imposto all’ANAC va considerato unicamente sotto il profilo
dei vizi rilevabili e non anche sotto il profilo della
possibilità di impugnazione immediata di un atto che ha
semplicemente dato avvio ad un iter procedimentale
complesso, in quanto coinvolgente due diverse
amministrazioni
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
... per l'annullamento della comunicazione inviata dal
Comune convenuto in data 20/07/2016, in pretesa applicazione
dell'art. 8 del D.P.R. 207/2010, per notizie ritenute utili
riguardanti la fase di esecuzione di contratti pubblici di
lavori e in relazione dalla precedente determina
dirigenziale n. 470 del 21/03/2014,
...
Preliminarmente, occorre rilevare che il ricorso in esame
non concerne l’affidamento di gara pubbliche (trattandosi di
segnalazione successiva ad una risoluzione contrattuale per
inadempimento) e che quindi i termini da rispettare erano
quelli imposti dal rito ordinario del codice del processo
amministrativo; ne consegue che la memoria di merito del
Comune di Monza è stata depositata tardivamente.
Ad ogni modo, l’amministrazione convenuta ha eccepito
formalmente, mettendola a verbale, l’inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse all’udienza pubblica di
trattazione del merito, e su tale eccezione, rilevabile
peraltro anche di ufficio, il difensore della società
ricorrente ha potuto adeguatamente articolare le proprie
controdeduzioni nel corso della discussione, come risultante
anche dal verbale di udienza.
Nello specifico, la difesa di Impresa Sa. ha sostenuto
che la successiva annotazione dell’A.N.AC. costituirebbe atto
dovuto e che quindi la corrispondente segnalazione
effettuata dalla stazione appaltante sarebbe già di per sé
lesiva dell’interesse sostanziale della ricorrente.
Il Collegio ritiene tale tesi infondata, con conseguente
dichiarazione di inammissibilità del proposto gravame, per
quanto di ragione.
La comunicazione impugnata è stata inviata dal Comune
resistente all’A.N.AC. ai sensi dell’art. 8, comma 2, lett. dd),
ovvero rientra nella categoria delle “altre notizie
riguardanti le imprese che, anche indipendentemente
dall'esecuzione dei lavori, sono dall'Autorità ritenute
utili ai fini della tenuta del casellario”.
Tale comunicazione, per sua natura, non presenta una
immediata e autonoma lesività, configurandosi quale atto
prodromico ed endoprocedimentale, come tale non impugnabile,
potendo essere fatti valere suoi eventuali vizi solo in via
derivata, tramite l’impugnazione del provvedimento finale
dell’A.N.AC. di iscrizione nel casellario.
Il Collegio ritiene pertanto di conformarsi, anche nel caso
di specie, alla giurisprudenza consolidata secondo cui
l’impugnazione della segnalazione all’A.N.AC. ai fini
dell’annotazione nel casellario risulta inammissibile, per
difetto di un interesse attuale e concreto.
La circostanza che il successivo provvedimento dell’Autorità
(peraltro non ancora emesso) possa essere un atto dovuto non
ha alcun rilievo sull’attualità della lesione dell’interesse
perseguito in giudizio.
Soltanto con l’iscrizione della notizia segnalata nel
casellario, infatti, la società ricorrente riceverà un danno
diretto e concreto rispetto alle future gare cui intende
partecipare –nei termini di un potenziale pregiudizio alla
partecipazione stessa, previa valutazione della stazione
appaltante-, dovendosi considerare l’eventuale vincolo
valutativo imposto all’A.N.AC. unicamente sotto il profilo dei
vizi rilevabili (che, nel caso di specie, e nella
prospettazione della ricorrente, sarebbero soltanto quelli
afferenti alla legittimità della segnalazione) e non anche
sotto il profilo della possibilità di impugnazione immediata
di un atto che ha semplicemente dato avvio ad un iter
procedimentale complesso, in quanto coinvolgente due diverse
amministrazioni.
Deve dunque essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso,
con spese del giudizio che seguono la soccombenza, liquidate
come da dispositivo (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.02.2018 n. 488
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza pacifica, non è sanabile la
trasformazione di un garage interrato, realizzato in base
alla L. 24.03.1989 n. 122, e quindi
gravato ope legis del vincolo di destinazione espressamente
previsto dall'art. 9 della stessa legge, in un locale abitabile, non potendo
infatti la stessa ritenersi urbanisticamente irrilevante.
Infatti, solo qualora un cambio di destinazione d'uso abbia
luogo tra categorie edilizie omogenee non necessita di
permesso di costruire, mentre allorché, come nel caso di
specie, lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome, così come avviene tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una
modificazione edilizia, con effetti incidenti sul carico
urbanistico.
---------------
Il cambio di destinazione d'uso di un garage in locale
abitativo costituisce, in realtà, un cambio di categoria
edilizia incompatibile con l'uso precedente, in quanto
implicante una variazione degli standards urbanistici di cui
al D.M. n. 1444/1968, ed un aggravio del carico urbanistico.
---------------
Con il provvedimento impugnato il Comune di Livigno ha
ordinato il ripristino del piano interrato di un fabbricato
originariamente autorizzato a garage pertinenziale, ai sensi
della L. n. 122/1989, sito in -OMISSIS-, a seguito della sua
trasformazione a magazzino e deposito (mq 247,92), e
monolocale dotato di bagni (mq 27,91).
...
I) Osserva il Collegio che, per giurisprudenza pacifica, non
è sanabile la trasformazione di un garage interrato,
realizzato in base alla L. 24.03.1989 n. 122, e quindi
gravato ope legis del vincolo di destinazione espressamente
previsto dall'art. 9 della stessa legge (C.S. Sez. V,
24.04.2009, n. 2609), in un locale abitabile, non potendo
infatti la stessa ritenersi urbanisticamente irrilevante.
Infatti, solo qualora un cambio di destinazione d'uso abbia
luogo tra categorie edilizie omogenee non necessita di
permesso di costruire, mentre allorché, come nel caso di
specie, lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome, così come avviene tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una
modificazione edilizia, con effetti incidenti sul carico
urbanistico (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.04.2017, n.
4225).
...
III) Sotto altro profilo, l’istante evidenzia l’erroneità
del richiamo all’art. 33 D.P.R. n. 380/2001, dettato in
materia di interventi di ristrutturazione, laddove quello
oggetto del presente giudizio, a suo dire, configurerebbe un
mero cambio di destinazione d’uso, di una porzione interrata
del fabbricato.
Il motivo è infondato atteso che, come sopra già
evidenziato, il cambio di destinazione d'uso di un garage in
locale abitativo, costituisce in realtà un cambio di
categoria edilizia incompatibile con l'uso precedente, in
quanto implicante una variazione degli standards urbanistici
di cui al D.M. n. 1444/1968, ed un aggravio del carico
urbanistico (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n.
695) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.02.2018 n. 483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ingiunzione a demolire
le opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal
parere della Commissione edilizia comunale, essendo l'ordine
di ripristino un atto vincolato, e non inficiato, ai sensi
dell'art. 21-octies L. 241/1990, da supposte violazioni
procedimentali.
---------------
Con il provvedimento impugnato il Comune di Livigno ha
ordinato il ripristino del piano interrato di un fabbricato
originariamente autorizzato a garage pertinenziale, ai sensi
della L. n. 122/1989, sito in -OMISSIS-, a seguito della sua
trasformazione a magazzino e deposito (mq 247,92), e
monolocale dotato di bagni (mq 27,91).
...
IV) Ulteriormente, il ricorrente deduce la violazione
dell’art. 38 del Regolamento Edilizio Comunale, richiamato
nel provvedimento impugnato, che a suo dire avrebbe imposto
la preventiva consultazione della competenti Commissioni
Comunali, al fine di accertare la sussistenza o meno di un
grave contrasto tra l’intervento di che trattasi e gli
interessi urbanistici o ambientali.
Ritiene il Collego che, contrariamente a quanto ritenuto
dall’istante, la consultazione di dette Commissioni non è in
realtà obbligatoria per il Comune, che in base al tenore
letterale della norma asseritamente violata, vi deve
ricorrere solo “quando sia necessario accertare il contrasto
con rilevanti interessi urbanistici o ambientali”.
Nella fattispecie per cui è causa, come detto, il ricorrente
ha trasformato un garage, su cui insisteva, in forza della
L. n. 122/1989 e del rogito notarile, un vincolo di
destinazione, in un magazzino di circa 250 mq, aggiungendovi
un monolocale dotato di bagni, ciò che rende evidentemente
superfluo, in ragione del rilievo qualitativo e quantitativo
dell’abuso, qualsiasi accertamento volto a verificare il
contrasto di tale intervento con gli interessi urbanistici,
non essendo pertanto stato violato il citato art. 38.
Fermo restando quanto precede, di per sé ostativo
all’accoglimento del motivo, osserva inoltre il Collegio, ad abundantiam, che secondo un orientamento giurisprudenziale,
l'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusive non deve
essere preceduta dal parere della Commissione edilizia
comunale, essendo l'ordine di ripristino un atto vincolato,
e non inficiato, ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990,
da supposte violazioni procedimentali (TAR Puglia, Bari,
Sez. III, 12.03.2015, n. 402, TAR Puglia, Lecce, Sez. III,
18.04.2012, n. 702).
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.02.2018 n. 483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Poiché
tutti gli elementi strutturali concorrono al
computo della volumetria del manufatto,
siano essi interrati o meno, fra di essi
deve intendersi ricompresa anche una
piscina, non qualificabile come pertinenza
in senso urbanistico, in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere
rispetto a quella propria dell'edificio al
quale accede.
In particolare,
malgrado la giurisprudenza riconduca
effettivamente all’ambito delle pertinenze
le piscine prefabbricate quelle di
dimensioni modeste o prive di
pavimentazione di contorno, nel caso di specie, al
contrario, il manufatto è stato realizzato
in muratura, dispone di un “camminamento
perimetrale” largo m. 1,20, ed ha dimensioni
tutt’altro che trascurabili (m. 12 di
lunghezza e m. 6 di larghezza), dovendo
pertanto essere considerato quale nuova
costruzione.
---------------
Osserva il Collegio che l’opera
abusiva oggetto del provvedimento impugnato
consiste in una piscina in muratura
interrata, avente lunghezza di m. 12,
larghezza di m. 6, e profondità di m. 1,20,
contornata da un camminamento laterale di m.
1,20, posta a m. 19,30 dal muro perimetrale
dell’abitazione dell’istante.
Ritiene il Collegio che, a prescindere dalla
correttezza dell’affermazione contenuta nel
provvedimento impugnato, secondo cui il
manufatto ricadrebbe nella fascia di
rispetto stradale di cui all’art. 27, c. 2,
delle Norme tecniche di Attuazione allegate
al P.R.G., contestata nell’ambito del
secondo motivo, il medesimo risulta in ogni
caso legittimo, nella parte in cui ha
qualificato gli interventi di che trattasi
in termini di “nuova costruzione” eseguita
in assenza di permesso di costruire,
dovendosi pertanto respingere il primo
motivo.
Infatti, poiché tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi
interrati o meno, fra di essi deve
intendersi ricompresa anche una piscina, non
qualificabile come pertinenza in senso
urbanistico, in ragione della funzione
autonoma che è in grado di svolgere rispetto
a quella propria dell'edificio al quale
accede (TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
16.03.2017, n. 1503).
In particolare, evidenzia il Collegio che,
malgrado la giurisprudenza riconduca
effettivamente all’ambito delle pertinenze
le piscine prefabbricate (C.S., Sez. V,
16.04.2014, n. 1951, TAR Sicilia, Palermo,
Sez. III, 13.02.2015, n. 441, TAR Liguria,
Sez. I, 21.07.2014, n. 1142), quelle di
dimensioni modeste, o prive di
pavimentazione di contorno (C.S., Sez. I,
15.01.2014, n. 3601), nel caso di specie, al
contrario, il manufatto è stato realizzato
in muratura, dispone di un “camminamento
perimetrale” largo m. 1,20, ed ha
dimensioni tutt’altro che trascurabili (m.
12 di lunghezza e m. 6 di larghezza),
dovendo pertanto essere considerato quale
nuova costruzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.02.2018 n. 482 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza pacifica,
l’attività di repressione degli abusi
edilizi non costituisce attività
discrezionale, ma del tutto vincolata, che
non abbisogna di particolare motivazione,
essendo sufficiente fare riferimento
all'accertata abusività delle opere che si
ingiunge di demolire, quantomeno, nei casi
in cui non risulti intercorso un lungo lasso
di tempo tra la realizzazione dell'abuso e
l'adozione del provvedimento repressivo,
come avvenuto nel caso di specie.
---------------
Né infine risultano fondate le censure
sollevate nell’ultimo motivo, in cui
l’istante deduce la violazione dell’art. 3
L. n. 241/1990.
Come sopra evidenziato, il provvedimento
impugnato ha infatti dettagliatamente
descritto la consistenza dell’opera abusiva,
che è stata dal medesimo qualificata in
termini di “nuova costruzione”, ed indicato
le norme giuridiche violate.
Per giurisprudenza pacifica, l’attività di
repressione degli abusi edilizi non
costituisce attività discrezionale, ma del
tutto vincolata, che non abbisogna di
particolare motivazione, essendo sufficiente
fare riferimento all'accertata abusività
delle opere che si ingiunge di demolire
(C.S., Sez. VI, 06.09.2017, n. 4243),
quantomeno, nei casi in cui non risulti
intercorso un lungo lasso di tempo tra la
realizzazione dell'abuso e l'adozione del
provvedimento repressivo, come avvenuto nel
caso di specie.
In conclusione, il ricorso va pertanto
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.02.2018 n. 482 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale,
"il
calcolo dei volumi edificabili deve essere compiuto
comprendendo le eventuali zone di rispetto o vincolate a
verde privato" in virtù della circostanza che il vincolo derivante
da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico
di prescrivere un semplice obbligo di distanza.
Invero, "il vincolo derivante da una fascia di rispetto
stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice
obbligo di distanza, ma non quello di rendere inedificabile
l'area che vi ricade, pertanto, posto che la "ratio" delle
disposizioni che danno origine alla c.d. "zona di rispetto
viario" sono quelle di garantire la sicurezza della
circolazione stradale, tali aree possono essere computabili
ai fini della volumetria edificabile e deve conseguentemente
ritenersi illegittimo il diniego di concessione edilizia
adottato per l'insufficienza del possesso del lotto minimo
necessario poiché la porzione di lotto compresa nella fascia
di rispetto stradale non è stata ritenuta computabile come
superficie edificabile".
In definitiva, se anche può ritenersi l’inedificabilità
dell'area compresa nella fascia di rispetto stradale,
tuttavia ciò conferma la computabilità di detta area ai fini
della volumetria assentibile nell'area adiacente.
Invero, “l'area sita in fascia di rispetto, sebbene inedificabile,
esprime una volumetria concentrabile sulle aree adiacenti
esterne a detta fascia, secondo i parametri nelle stesse
fissate e, quindi, concorre per intero alla determinazione
della superficie utile ai fini del calcolo della cubatura
assentibile e della superficie che può essere coperta. Ciò
corrisponde ad un principio pacifico e consolidato in
giurisprudenza, secondo cui la fascia di rispetto partecipa,
come regola generale e salvi gli specifici obblighi da essa
nascenti, della natura e della disciplina della zona nella
quale essa è inserita, concorrendo alla determinazione delle
capacità edificatorie della più vasta area in cui essa è
inclusa".
---------------
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Riveste carattere assorbente la censura con la quale si
rileva che l’area compresa nella fascia di rispetto stradale
non rappresenta zonizzazione del territorio comunale e che
la stessa è computabile ai fini dell’applicazione degli
indici di utilizzazione pertinenti alle contigue aree della
zona omogenea confinante, costituente il lotto d’intervento
dello stesso proprietario.
Secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale, "il
calcolo dei volumi edificabili deve essere compiuto
comprendendo le eventuali zone di rispetto o vincolate a
verde privato" (Cons. St., sez. V, 14.01.1991, n. 44, CS, 1991,
I, 40) in virtù della circostanza che il vincolo derivante
da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico
di prescrivere un semplice obbligo di distanza.
Invero, "il vincolo derivante da una fascia di rispetto
stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice
obbligo di distanza, ma non quello di rendere inedificabile
l'area che vi ricade, pertanto, posto che la "ratio" delle
disposizioni che danno origine alla c.d. "zona di rispetto
viario" sono quelle di garantire la sicurezza della
circolazione stradale, tali aree possono essere computabili
ai fini della volumetria edificabile e deve conseguentemente
ritenersi illegittimo il diniego di concessione edilizia
adottato per l'insufficienza del possesso del lotto minimo
necessario poiché la porzione di lotto compresa nella fascia
di rispetto stradale non è stata ritenuta computabile come
superficie edificabile" (in tal senso TAR Toscana
Firenze 22.09.2000, n. 1982, TAR Toscana, 2000).
In definitiva, se anche può ritenersi l’inedificabilità
dell'area compresa nella fascia di rispetto stradale,
tuttavia ciò conferma la computabilità di detta area ai fini
della volumetria assentibile nell'area adiacente. Invero,
(Tar Sicilia palermo Sez. II, Sent., 02/10/2012, n. 1939) “l'area sita in fascia di rispetto, sebbene inedificabile,
esprime una volumetria concentrabile sulle aree adiacenti
esterne a detta fascia, secondo i parametri nelle stesse
fissate e, quindi, concorre per intero alla determinazione
della superficie utile ai fini del calcolo della cubatura
assentibile e della superficie che può essere coperta. Ciò
corrisponde ad un principio pacifico e consolidato in
giurisprudenza, secondo cui la fascia di rispetto partecipa,
come regola generale e salvi gli specifici obblighi da essa
nascenti, della natura e della disciplina della zona nella
quale essa è inserita, concorrendo alla determinazione delle
capacità edificatorie della più vasta area in cui essa è
inclusa" (conf.: Cons. Stato Sez. IV 31.01.2005 n. 253; TAR
Campania-Salerno, Sez. I, 27/11/2006, n. 2178; TAR
Catania, I, 15.10.2007 n. 1663, in cui si richiama Cass.
Civ., Sez. I 06.09.2006 n. 19132; TAR Toscana n. 1982 del
2000).
Peraltro, nella specie, come rilevato dal ricorrente, ciò è
confermato dall’art. 24 delle NN.TT.AA. il quale qualifica
le fasce di rispetto della rete viaria “distanze minime da
osservarsi nell’edificazione a partire dal ciglio stradale
ai sensi del D.M. 1444/1968”.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 20.02.2018 n. 312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istanza di accertamento di conformità - Comune -
Adozione di provvedimenti sanzionatori prima del decorso di
sessanta giorni - Valutazione della sanabilità dell’abuso -
Preventivo rigetto o accoglimento dell’istanza.
Ove sia stata
presentata un’istanza di accertamento di conformità
dell’abuso edilizio, pur non essendovi l’obbligo del Comune
di fornire una risposta espressa (in mancanza della quale
s’intenderà rigettata l’istanza), ove l’Amministrazione
voglia procedere con i provvedimenti sanzionatori prima del
decorso del termine di sessanta giorni, ovvero rivedere la
propria posizione, occorre che detta Amministrazione valuti
l’istanza prodotta e, quindi, la sanabilità o meno
dell’abuso, procedendo espressamente al rigetto o
all’accoglimento della stessa (TAR Sicilia–Catania, Sez. I,
08/09/2011, n. 2182) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 20.02.2018 n. 271 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Risarcito
pure il mobbing soft. Vessazioni sporadiche (straining) vanno indennizzate.
La Cassazione amplia la tutela respingendo un ricorso del
ministero dell'economia.
Devono essere risarcite a titolo di straining le azioni ostili o
discriminatorie di datore o colleghi che danneggiano il lavoratore, anche se
sporadiche e non continuative.
A dare ampia tutela a questa forma attenuata di mobbing è la Corte di
Cassazione -Sez. lavoro- che, con l'ordinanza
19.02.2018 n. 3977, ha respinto il ricorso del ministero dell'economia e
delle finanze in relazione al caso di un'impiegata bersagliata dalle
vessazioni del suo diretto superiore.
In particolare la donna era entrata in conflitto con il dirigente quando gli
aveva palesato che per adempiere a tutte le pratiche amministrative era
necessario altro personale. Lui aveva reagito sottraendole tutti gli
strumenti di lavoro fino ad arrivare alla totale inattività.
Per questo la donna aveva lamentato un danno biologico che, con verdetto
confermato in sede di legittimità, era stato quantificato dal consulente
tecnico in 15 mila euro.
Inutile il ricorso del Ministero alla Suprema corte. Alle obiezioni della
difesa in primo luogo gli Ermellini hanno risposto certificando la
correttezza del ricorso che aveva utilizzato la nozione medico legale dello
straining. Per il Collegio l'istituto altro non sarebbe se non se non «una
forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della
continuità delle azioni vessatorie» azioni che, peraltro, ove si rivelino
produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano
la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ..
Ciò in accordo con l'interpretazione estensiva e costituzionalmente
orientata di questa norma che la stessa Cassazione ha fornito da tempo.
L'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non
circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso
stretto, perché si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datare di
tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli
impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere
detti beni ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano
verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità
della persona.
La responsabilità del datore sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso
sia riconducibile a un comportamento colposo, ossia all'inadempimento di
specifici obblighi legali o contrattuali o al mancato rispetto dei principi
generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere
osservati (articolo ItaliaOggi del
20.02.2018).
----------------
MASSIMA
5. i motivi di ricorso, che per la loro stretta connessione
logico-giuridica possono essere unitariamente trattati, sono infondati per
le ragioni già esposte da questa Corte con la sentenza n. 3291 del
19.02.2016, pronunciata in fattispecie non dissimile da quella oggetto di
causa;
5.1. con la richiamata decisione si è premesso che il vizio di ultra o extra
petizione ricorre solo qualora il giudice pronuncia oltre í limiti delle
pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni
estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un
bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, non già
allorquando venga diversamente qualificata la domanda o vengano poste a
fondamento della pronuncia considerazioni di diritto diverse da quelle
prospettate dalle parti;
5.2. si è, quindi, evidenziato che non integra violazione
dell'art. 112 cod. proc. civ. l'avere utilizzato «la nozione
medico-legale dello straining anziché quella del mobbing» perché lo
straining altro non è se non «una forma attenuata di mobbing nella
quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni
vessatorie..» azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno
all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa
risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ.;
5.3. al principio di diritto enunciato il Collegio intende
dare continuità perché dell'art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo
fornito un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al
rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la
dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt.
32, 41 e 2 Cost.;
5.4. l'ambito di applicazione della norma è stato, quindi,
ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica
in senso stretto, perché si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del
datore di lavoro di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale
del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia
finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell'ambiente di
lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la
salute e la dignità della persona;
5.5. la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087
cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia
eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o
all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al
mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che
devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti;
5.6. a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte
territoriale che ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in
quanto la De Sa. era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e
provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione
ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell'assegnazione di mansioni non
compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una
condizione umiliante di totale inoperosità (pag. 8 della sentenza
impugnata);
5.7. il ricorso, nella parte in cui censura la valutazione della prova
testimoniale e della consulenza tecnica d'ufficio è inammissibile perché,
pur denunciando la violazione delle norme di legge richiamate nella rubrica
dei motivi, tende a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze
processuali e, quindi, un giudizio di merito non consentito alla Corte di
legittimità;
6. la mancata costituzione della De Sa. esime dal provvedere sulle spese del
giudizio di legittimità;
6.1. non sussistono le condizioni richieste dall'art. 13, comma 1-quater,
del d.p.r. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17,
della l. n. 228 del 2012, perché la norma non può trovare applicazione nei
confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo
della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e
tasse che gravano sul processo. |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Potere
di coordinamento e incarichi aggiuntivi per
il segretario comunale.
Non può configurarsi alcuna lesione delle
prerogative di piena indipendenza ed
autonomia dell’Avvocatura comunale per
effetto dell'attribuzione al Segretario
Generale del potere di individuazione e
nomina di legali esterni all'ente, dal
momento che l'autonomia riconosciuta agli
avvocati degli enti pubblici concerne la "trattazione esclusiva e stabile degli
affari legali dell'ente" (cfr. art. 23,
primo comma, della L. n. 247/2012 recante la
nuova disciplina dell'ordinamento della
professione forense), e non attiene invece a
aspetti di carattere organizzativo,
come quello di cui si controverte.
---------------
Nell'attuale assetto ordinamentale, al
Segretario comunale sono affidati compiti di
collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli
organi dell'ente locale, in ordine alla
conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, allo statuto ed ai regolamenti.
In via generale è quindi pacifico che al
Segretario comunale non sono affidati
compiti di amministrazione c.d. attiva,
limitandosi egli (cfr. art. 97, comma 4, del
D.Lgs. n. 267/2000, c.d. Testo Unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali o
T.U.E.L.) a sovrintendere allo svolgimento
delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne
l’attività qualora non sia stato nominato un
direttore generale. Tale attribuzione di
competenze nettamente separate risulta però
per ovvie ragioni temperata nei Comuni di
minori dimensioni demografiche, generalmente
privi di personale di qualifica
dirigenziale.
Prevede infatti l’art. 109, secondo comma,
del T.U.E.L. che nei Comuni privi di
dirigenti le funzioni dirigenziali possono
essere attribuite ai responsabili degli
uffici oppure demandate al Segretario
comunale, in applicazione dell’art. 97,
comma 4, lettera d), a mente del quale
appunto il Segretario comunale esercita ogni
altra funzione attribuitagli dallo statuto o
dai regolamenti, o conferitagli dal Sindaco
o dal Presidente della provincia.
Invero, dall’esame della delibera risulta
che l’attribuzione al Segretario Generale
dell’incarico di individuare e affidare il
patrocinio dell’ente si giustifica in
ragione della strutturazione del Servizio
autonomo di Avvocatura che non è diretto da
un dirigente e non risulta inquadrato
nell’area amministrativa, elementi che hanno
indotto la Giunta Comunale ad attribuire al
Segretario Generale, organo di vertice della
struttura burocratica, l’incarico di
individuare e conseguentemente affidare, in
caso eccezionali, la rappresentanza in
giudizio ai professionisti esterni, previa
istruttoria e proposta del Responsabile
dell’Ufficio Avvocatura.
---------------
L’avv. Ti. Di Gr. premette di
essere iscritta all’albo speciale di cui
all’art. 3 del R.D. n. 1578/1933 e di
esercitare attività professionale
nell’esclusivo interesse del Comune di
Marano di Napoli.
Con il ricorso in trattazione impugna,
chiedendone l’annullamento, la deliberazione
di Giunta n. 3 del 22.07.2013 con cui è
stato modificato l’art. 20, comma 1, del
Regolamento dell’Avvocatura Comunale
rubricato “Affidamento degli incarichi agli
iscritti nell’elenco” nei sensi di seguito
indicati:
- precedente formulazione: “Nell’ipotesi di
cui al precedente art. 14 il Sindaco
individua il professionista da incaricare
applicando la rotazione tra gli iscritti
nell’elenco con propria determinazione; su
proposta del Responsabile del Servizio
Avvocatura, con delibera di G.M. si provvede
al conferimento dell’incarico valutando la
conformità al presente regolamento…”;
- nuova formulazione: “Nell’ipotesi di cui
al precedente art. 14 il Segretario Generale
individua il professionista da incaricare
applicando la rotazione tra gli iscritti
nell’elenco con proprio provvedimento; su
proposta motivata del Responsabile del
Servizio Avvocatura, il Segretario Generale,
provvede con proprio provvedimento al
conferimento dell’incarico”.
Al riguardo, va rammentato che l’art. 14
richiamato dalla previsione regolamentare
disciplina l’affidamento di incarichi
professionali ad avvocati esterni, la cui
decisione compete al Sindaco, e contempla
due ipotesi: 1) “su motivata relazione
dell’Avvocatura comunale al Sindaco e,
soltanto, per le prestazioni e le attività
che non possono essere espletate dal
personale dipendente per: a) coincidenza ed
indifferibilità di altri impegni di lavoro;
b) trattazione materie per le quali
necessita idonea specializzazione; in casi
di incompatibilità; 2) in casi motivati di
particolare specificità e/o complessità
valutata dal Sindaco, sentita l’Avvocatura,
che giustifichino l’affidamento
all’esterno”.
In proposito, va anche rilevato che il punto
2 del predetto testo regolamentare
(approvato con delibera del Commissario
Straordinario n. 19/2013) è stato attinto
dalla pronuncia di questo TAR 1144/2014
che, in accoglimento di un pregresso ricorso
proposto dalla medesima ricorrente, ha
statuito quanto segue: “Al riguardo deve
osservarsi che –alla stregua dell’art. 7
del D.Lgs. n. 165 del 2001– l’utilizzo di
professionalità esterne da parte delle
pubbliche amministrazioni, nei casi
tassativi stabiliti al comma 6, assume
carattere eccezionale rispetto al principio
generale secondo cui le amministrazioni
devono provvedere allo svolgimento dei
compiti loro affidati attraverso il
personale e le strutture organizzative di
cui dispongono, anche in considerazione del
conseguente esborso di denaro pubblico (cfr.
Corte Conti reg., sez. giurisd., 05.11.2003,
n. 912). Ciò posto ed alla luce dei principi
generali più volte evocati, osserva il
Collegio che l’ampiezza delle fattispecie
già individuate dal punto 1 della norma
regolamentare in discussione non giustifica
la previsione di un’ulteriore ipotesi
derogatoria, che per la sua genericità e
vaghezza (“in casi di particolare
specificità e/o complessità”) e per essere
rimessa all’apprezzamento dell’organo
politico (“valutata dal Sindaco, sentita
l’avvocatura”), pone l’Avvocatura municipale
in posizione di soggezione rispetto al
Sindaco, consentendo sostanzialmente a
quest’ultimo di delimitarne ad libitum la
generale sfera di operatività e di svuotarne
così le funzioni”.
Nello specifico parte ricorrente lamenta
che, nel testo regolamentare novellato, è
stato assegnato al Segretario Generale –e
non al Responsabile dell’avvocatura comunale– l’individuazione e la nomina del
procuratore dell’ente locale, qualora il
Sindaco ritenga opportuno affidarsi a
professionisti esterni di talché, prosegue
la istante, la modifica persegue l’unico
obiettivo di sottrarre all’ufficio legale
rilevanti settori di competenza, ledendone
l’autonomia ed indipendenza.
...
Il ricorso non può trovare accoglimento per
i motivi di seguito illustrati.
Parte ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 3 del R.D. n. 1578/1933,
violazione e falsa applicazione del D.Lgs.
n. 267/2000, violazione e falsa applicazione
dello Statuto del Comune di Marano di
Napoli, violazione e falsa applicazione
dell’art. 97 Costituzione, eccesso di potere
per illogicità e contraddittorietà, carenza
ed erroneità dell’istruttoria, difetto di
motivazione.
Con il primo motivo di gravame l’avvocato Di Gr., in sintesi, assume l’illegittimità
della modifica regolamentare –al pari di
quella previgente– che, a suo dire,
minerebbe l’autonomia funzionale
dell’Avvocato comunale poiché rimette al
Segretario Generale valutazioni (quelle, per
l’appunto, concernenti la scelta del
professionista esterno) che si
connoterebbero per il carattere
tecnico/discrezionale e che competerebbero,
nella prospettazione attorea, al capo
dell’ufficio legale, unica struttura dotata
delle conoscenze necessarie per valutare la
sussistenza degli elementi per
l’esternalizzazione del servizio.
La censura non ha pregio.
Invero, parte ricorrente contesta sia la
nuova formulazione dell’art. 20 (che rimette
al Segretario Generale l’individuazione del
professionista da incaricare) sia quella
previgente (che attribuiva tale potere al
Sindaco) ritenendole entrambe lesive delle
prerogative dell’Avvocatura comunale.
Tuttavia, è evidente che l’eventuale
accoglimento del motivo di gravame non
sarebbe di alcuna utilità per la ricorrente
poiché avrebbe, come unica conseguenza,
quella di ripristinare l’originario potere
di designazione da parte del Sindaco –tale
essendo la previsione antecedente alla
delibera impugnata– che, in ogni caso, non
sarebbe satisfattivo per la ricorrente e,
pertanto, la censura è inammissibile per
carenza di interesse.
Si aggiunga che, nel merito, il rilievo è
comunque infondato.
Difatti, non può configurarsi alcuna lesione
delle prerogative di piena indipendenza ed
autonomia dell’Avvocatura comunale per
effetto dell'attribuzione al Segretario
Generale del potere di individuazione e
nomina di legali esterni all'ente, dal
momento che l'autonomia riconosciuta agli
avvocati degli enti pubblici concerne la
"trattazione esclusiva e stabile degli
affari legali dell'ente" (cfr. art. 23,
primo comma, della L. n. 247/2012 recante la
nuova disciplina dell'ordinamento della
professione forense), e non attiene invece a
aspetti di carattere organizzativo (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2434/2016),
come quello di cui si controverte.
La novella è quindi riconducibile al potere
generale di coordinamento attribuito al
Segretario generale dall’art. 97, comma 4,
del T.U.E.L. che non incide sull'autonoma
organizzazione e gestione dell'attività
forense dei professionisti dell'avvocatura
comunale ma è unicamente volta ad attuare -per il tramite della figura di
interrelazione tra l'apparato amministrativo
dell'ente ed i rappresentanti politici
dell'ente stesso– il necessario
coordinamento del servizio legale rispetto
alla complessiva organizzazione
amministrativa comunale.
Inoltre, mette conto evidenziare che,
riguardo alla scelta di individuazione e
nomina del professionista esterno all’ente
locale, l’Avvocatura comunale non è stata
del tutto esautorata, visto che al
Responsabile del Servizio Avvocatura compete
comunque un potere di proposta motivata in
ordine alla scelta del professionista
esterno cui conferire l’incarico di
rappresentazione dell’ente (“…su proposta
motivata del Responsabile del Servizio
Avvocatura, il Segretario Generale, provvede
con proprio provvedimento al conferimento
dell’incarico”); in altri termini, la
novella regolamentare ha comunque tenuto
conto della necessità di rimettere al
titolare del settore avvocatura, tramite
l’attribuzione del potere di proposta,
l’avvio del procedimento di nomina e di
contestuale formulazione del giudizio
tecnico–discrezionale sul contenuto del
provvedimento di nomina del professionista
esterno, mostrando quindi di tenere in
debita considerazione le valutazioni della
struttura legale dell’ente.
Con la seconda censura l’istante lamenta la
violazione degli artt. 107 e 97 del D.Lgs.
n. 267/2000 evidenziando che le funzioni
gestionali dell’ente locale -cui l’istante
mostra di ricondurre l’individuazione del
professionista esterno- appartengono
esclusivamente ai dirigenti dell’ente
locale, mentre al Segretario comunale non
spettano compiti di amministrazione attiva,
limitandosi a sovrintendere e coordinare i
dirigenti medesimi.
Il motivo è infondato.
Nell'attuale assetto ordinamentale, al
Segretario comunale sono affidati compiti di
collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti
degli organi dell'ente locale, in ordine
alla conformità dell'azione amministrativa
alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti.
In via generale è quindi pacifico che al
Segretario comunale non sono affidati
compiti di amministrazione c.d. attiva,
limitandosi egli (cfr. art. 97, comma 4, del
D.Lgs. n. 267/2000, c.d. Testo Unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali o
T.U.E.L.) a sovrintendere allo svolgimento
delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne
l’attività qualora non sia stato nominato un
direttore generale. Tale attribuzione di
competenze nettamente separate risulta però
per ovvie ragioni temperata nei Comuni di
minori dimensioni demografiche, generalmente
privi di personale di qualifica
dirigenziale.
Prevede infatti l’art. 109,
secondo comma, del T.U.E.L. che nei Comuni
privi di dirigenti le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite ai responsabili
degli uffici oppure demandate al Segretario
comunale, in applicazione dell’art. 97, comma
4, lettera d), a mente del quale appunto il
Segretario comunale esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai
regolamenti, o conferitagli dal Sindaco o
dal Presidente della provincia (Consiglio di
Stato, Sez. IV, n. 4858/2006; TAR
Campania, Napoli, Sez. VII, n. 1886/2012).
Invero, dall’esame della delibera risulta
che l’attribuzione al Segretario Generale
dell’incarico di individuare e affidare il
patrocinio dell’ente si giustifica in
ragione della strutturazione del Servizio
autonomo di Avvocatura che non è diretto da
un dirigente e non risulta inquadrato
nell’area amministrativa, elementi che hanno
indotto la Giunta Comunale ad attribuire al
Segretario Generale, organo di vertice della
struttura burocratica, l’incarico di
individuare e conseguentemente affidare, in
caso eccezionali, la rappresentanza in
giudizio ai professionisti esterni, previa
istruttoria e proposta del Responsabile
dell’Ufficio Avvocatura.
...
In conclusione, il ricorso va respinto pur
stimandosi equo disporre la compensazione
delle spese processuali in considerazione
della novità delle questioni esaminate (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 19.02.2018 n. 1068 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Meno
tutela per chi compra casa sulla carta.
Meno tutela per chi compra casa sulla carta: chi firma un preliminare sul
progetto, ma prima della richiesta del permesso di costruire non gode della
garanzia fideiussoria prevista dal dlgs 122/2005.
La Corte Costituzionale, con
sentenza 19.02.2018 n. 32, ha respinto una questione di costituzionalità, che
mirava ad estendere le garanzie testualmente previste per chi compra una
casa per la quale è stato richiesto il permesso o ci sia già il titolo
edilizio.
Secondo la Consulta tocca al legislatore fare una scelta, che non può essere
dettata per effetto della somiglianza dei due casi. Il problema sollevato
consiste nel fatto che senza la estensione dell'obbligo di fideiussione, no
ricorre l'ipotesi della nullità del contratto a favore dell'acquirente in
caso di inadempimento del venditore
Per tutelare gli acquirenti di immobili
da costruire il legislatore ha previsto a carico del costruttore l'obbligo
di procurare il rilascio e di provvedere alla consegna, prima della stipula
del contratto preliminare d'acquisto, di una fideiussione di importo pari
alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo riscosso e da
riscuotere prima della stipula del contratto definitivo di compravendita o
dell'atto definitivo di assegnazione.
La norma definisce, però,
restrittivamente gli immobili da costruire, considerando solo gli immobili
per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora
da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando
in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di
agibilità. L'arco di tempo della garanzia fideiussoria risulta, quindi,
compreso nell'intervallo che va dalla iniziale richiesta di permesso di
costruire fino all'ultimazione della costruzione con il rilascio del
certificato di agibilità.
La fideiussione deve garantire agli acquirenti,
nel caso in cui il costruttore incorra in una situazione di crisi (per
sopravvenuta esecuzione immobiliare, fallimento, liquidazione coatta
amministrativa, concordato preventivo, amministrazione straordinaria), la
restituzione delle somme e del valore di ogni altro eventuale corrispettivo
effettivamente riscossi e dei relativi interessi legali maturati fino al
momento in cui la predetta situazione si è verificata.
La legge esclude
l'applicabilità delle garanzie ai contratti preliminari relativi ad immobili
esistenti «sulla carta» e cioè, muniti di progetto, ma prima della richiesta
di permesso. E la Consulta non può metterci una pezza (articolo ItaliaOggi del
20.02.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti
speciali - Momento consumativo delle varie ipotesi di
illecita gestione - Natura istantanea o permanente della
violazione - Cessazione della permanenza del reato -
Fattispecie: attività di demolizione e costruzione - Artt.
183 e 256, c. 2, d.lgs. n.152/2006.
Il momento consumativo del reato relativo al ciclo dei
rifiuti varia in funzione della natura dell'attività svolta:
mentre la raccolta o il trasporto si consumano nel momento e
nel luogo in cui essi hanno avuto luogo, lo smaltimento può
essere istantaneo o permanente a seconda che si articoli in
diverse fasi e il deposito incontrollato, invece, dando
luogo ad una forma di gestione del rifiuto preventiva
rispetto al recupero o allo smaltimento perdura fino al
compimento di tali attività.
Mentre, la cessazione della permanenza, momento dal quale
inizia a decorrere la prescrizione, deve essere individuata
nella cessazione dell'antigiuridicità con il conseguimento
della necessaria autorizzazione, ovvero con l'ultimo abusivo
conferimento di rifiuti, con un provvedimento cautelare di
natura reale, ovvero con la sentenza di primo grado (Sez. 3,
n. 25429 del 01/07/2015, Gai; Sez. 3, n. 38662 del
20/05/2014, Convertino,; Sez. 3, n. 25216 del 26/05/2011,
Caggiano).
Fattispecie: attività edile e deposito in modo incontrollato
rifiuti speciali derivanti dalla sua attività (materiale
derivante da demolizione, cemento, mattoni, mattonelle e
ceramiche).
RIFIUTI - Ciclo dei rifiuti - Differenza
tra deposito incontrollato e deposito controllabile - Omessa
rimozione nei tempi e nei modi previsti dall'art. 183, c.
1°, lett. bb), D.L.vo n.152/2006.
Il momento consumativo del reato relativo al ciclo dei
rifiuti varia in funzione della natura dell'attività svolta,
pertanto, nei casi in cui alla condotta di deposito
incontrollato segue il mancato rispetto delle condizioni di
legge per la qualificazione del medesimo come temporaneo, si
è in presenza di un reato permanente, perché la condotta
riguarda un'ipotesi di deposito "controllabile" cui
segue l'omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti dalla
norma contenuta nel d.lgs. n. 152/2006, donde l'inosservanza
di dette condizioni integra un'omissione a carattere
permanente, la cui antigiuridicità cessa sino allo
smaltimento o al recupero.
Il deposito incontrollato, dando luogo ad una forma di
gestione del rifiuto preventiva rispetto al recupero o allo
smaltimento, perdura fino al compimento di tali attività, a
differenza della raccolta o il trasporto che si consumano
nel momento e nel luogo in cui essi hanno avuto luogo e
dello smaltimento che può essere istantaneo o permanente a
seconda che si articoli in diverse fasi.
Dunque, il deposito incontrollato di rifiuti è integrato dal
mancato rispetto delle condizioni dettate per la sua
qualificazione come temporaneo, ed ha natura permanente,
perché la condotta riguarda un'ipotesi di deposito "controllabile"
cui segue l'omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti
dall'art. 183, comma primo, lett. bb), D.Lgs. n. 152 del
2006, la cui antigiuridicità cessa con lo smaltimento, il
recupero o l'eventuale sequestro (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 14.02.2018 n. 6999 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Smaltimento rifiuti
speciali non pericolosi (acque reflue di vegetazione da
frantoio oleario) - Assenza di autorizzazione -
Assimilazione alle acque reflue domestiche ai fini dello
scarico in pubblica fognatura - Presupposti - RIFIUTI -
Scarico di acque industriali - Deroga alla disciplina
ordinaria - Onere probatorio - Imputato - Artt. 74, 101, 183
e 256 d.lgs. n.152/06.
L'assimilazione alle acque reflue domestiche, ai fini dello
scarico in pubblica fognatura, delle acque reflue di
vegetazione dei frantoi oleari opera soltanto:
a) in presenza di determinati condizioni ai fini dello scarico in
pubblica fognatura;
b) non interviene in modo automatico, sol perché si tratti di acque
reflue di vegetazione dei frantoi oleari.
Pertanto, solo con l'accertamento -su adempiuto onere
dimostrativo dell'imputato- consente di sottrarre lo scarico
delle acque in esame alla disciplina ordinaria di cui al
d.lgs. n. 152 del 2006 in tema di scarichi industriali.
Sicché, solo con la presenza di tutti i ben definiti
presupposti (tra i quali, anche, assenza di criticità
nell'impianto di depurazione; provenienza esclusivamente
regionale delle olive; collocazione delle aziende agricole
in terreni ove metodi di fertilizzazione e irrigazione non
sono praticabili in modo agevole), giustificano la
previsione derogatoria stessa, soprattutto in rapporto a
differenti ambiti che la medesima assimilazione non hanno
ricevuto.
D'altronde, anche il precedente comma 7 dello stesso art.
101, nello stabilire che "salvo quanto previsto dall'art.
112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle
autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche"
determinate acque reflue (indicate nelle lettere a-f),
impone sovente specifiche condizioni, oggetto di prova da
parte dell'interessato, che sole consentono l'assimilazione
richiamata, non risultando dunque sufficiente la mera natura
del refluo di volta in volta coinvolto.
INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di scarico
- Definizione di sistema stabile di collettamento -
Applicabilità della disciplina sulle acque o sui rifiuti -
Criterio del nesso funzionale e diretto delle acque reflue
con il corpo recettore.
La nozione di scarico di cui all'art. 183, lettera hh)
rinvia all'art. 74, comma 1, lett. ff), il quale definisce,
appunto, lo scarico come "qualsiasi immissione effettuata
esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento
che collega senza soluzione di continuità il ciclo di
produzione del refluo con il corpo ricettore acque
superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche
sottoposte a preventivo trattamento di depurazione".
Ne consegue che la disciplina delle acque sarà applicabile
in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico
di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla
legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro
sistema stabile; in tutti gli altri casi -nei quali manchi
il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il
corpo recettore- si applicherà, invece, la disciplina sui
rifiuti.
Sebbene, tale nozione di scarico, non richieda la presenza
di una "condotta" nel senso proprio del termine,
costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, vi
è comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo
e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di
continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al
corpo ricettore (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2018 n. 6998 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Trasporto rifiuti in condizioni di
sicurezza per l'ambiente - Verifica dell'idoneità dei mezzi
- Semirimorchi e rimorchi - Iscrizione all’Albo gestori
ambientali - Necessità - Art. 256, c. 4, d.lgs. n. 152/2006.
L'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali per le imprese
che effettuano trasporto di rifiuti abilita allo svolgimento
dell'attività soltanto con i mezzi di trasporto oggetto di
specifica comunicazione. Tale previsione, non è connotata da
mero formalismo, essendo necessario accertare che i mezzi di
trasporto siano idonei per la tipologia di rifiuti oggetto
dell'attività.
Sicché, integra il reato di cui all’art. 256, comma 4,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, l’effettuazione di un’attività di
trasporto di rifiuti speciali non pericolosi utilizzando un
semirimorchio non inserito nella lista dei mezzi, che, il
titolare di autorizzazione al trasporto di rifiuti e
iscritto all’Albo dei gestori ambientali, è abilitata ad
impiegare, poiché ai fini della disciplina richiamata, tra i
mezzi di trasporto rientrano non soltanto le motrici, ma
anche i semi-rimorchi.
RIFIUTI - Trasporto dei rifiuti -
Iscrizione all'Albo dei gestori ambientali - Impiego di un
mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede di
iscrizione - Attività di gestione di rifiuti in «carenza dei
requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o
comunicazioni - Fattispecie: rimorchi.
Nel caso di impiego di un mezzo di trasporto diverso da
quello comunicato in sede di iscrizione, all'Albo dei
gestori ambientali, o di variazione il responsabile effettua
un'attività di gestione di rifiuti in «carenza dei
requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o
comunicazioni» come previsto dall'art. 256, comma 4,
d.lgs. 152/2006.
In particolare, nella specie, con riferimento all'idoneità
dei mezzi al trasporto dei rifiuti, vale a maggior ragione
per i rimorchi, le cui caratteristiche tecniche debbono
essere appunto valutate ai fini di accertare che il
trasporto possa svolgersi in condizioni di sicurezza per
l'ambiente. Quindi, nessun dubbio, che ai fini della
disciplina, ex art. 256, c. 4, d.lgs. n.152/2006, tra i
mezzi di trasporto rientrino non soltanto le motrici, ma
anche i (semi)rimorchi.
RIFIUTI - Abbandonato o depositato
rifiuti in modo incontrollato - Comproprietario di un
terreno - Configurabile in forma omissiva del reato -
Esclusione - Giurisprudenza.
In materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva
il reato di cui all'art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del comproprietario di un terreno sul quale il
coniuge abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione degli stessi, non sussistendo un obbligo giuridico
di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n.
28704 del 05/04/2017, Andrisani e a.; Sez. 3, n. 50997 del
07/10/2015, Cucinella e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6739 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso
- Attività edificatoria realizzata sulla base di titoli
illeciti o macroscopicamente illegittimi - Responsabilità
del titolare del permesso, progettista e responsabile
dell'ufficio tecnico comunale - Art. 323 c.p. abuso
d'ufficio giurisprudenza.
Il reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso,
sussiste laddove il permesso di costruire -pur formalmente
rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa
(nella specie, quanto al permesso di costruire in variante,
è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra il titolare
del permesso ed il suo progettista ed il responsabile
dell'ufficio tecnico comunale) ovvero anche soltanto
macroscopicamente illegittimo (Cass. Sez. 3, n. 7423 del
18/12/2014, Cervino e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
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MASSIMA
4. Le
censurabili valutazioni della sentenza impugnata di cui si è
dato
conto supra, sub n. 3 incidono sul giudizio circa la
sussistenza del reato
urbanistico contestato al capo h) e dei delitti di abuso
d'ufficio contestati ai capi
a) e b).
4.1. Quanto alla contravvenzione urbanistica, la conclusione
è evidente.
La contestazione, di fatti, muove dall'assunto secondo cui
deve considerarsi
avvenuta in assenza di titolo edilizio -e dunque
riconducibile al reato di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001- l'attività
edificatoria realizzata
sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente
illegittimi, quali nella specie ben
potrebbero essere la concessione edilizia n. 11/2003, le
d.i.a. del 29.07.2008 e 03.02.2009 ed il permesso di costruire in variante prot. 6641
del 30.07.2009 se
fossero ritenuti sussistenti i contestati profili di
macroscopica illegittimità più sopra analizzati con riguardo
all'edificazione di un numero di piani ben superiore
a quello consentito ed all'edificazione di volumi assai più
consistenti di quelli
massimi previsti (il capo h -a differenza dei capi a e b-
non considera invece il
profilo relativo alle altezze).
Che il reato urbanistico in parola sussista laddove il
permesso di costruire
-pur formalmente rilasciato- sia illecito perché frutto di
attività criminosa (nella
specie, quanto al permesso di costruire in variante, è
contestato l'abuso d'ufficio
in concorso tra Sa.Mo. ed il suo progettista
Ca.Ma. ed il
responsabile dell'ufficio tecnico comunale Gi.Ze.)
ovvero anche
soltanto macroscopicamente illegittimo è conclusione
affermata da consolidata
giurisprudenza di legittimità che qui non viene neppure
contestata (cfr., di
recente, Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a., Rv.
263916).
Si consideri,
al proposito, che il permesso di costruire in variante
rilasciato il 30.07.2009 aveva
in particolare ad oggetto la realizzazione di un ulteriore
piano, sicché -anche a
voler prescindere dal fatto che lo stesso non avrebbe
aumentato la volumetria
qualora fossero state osservate le prescrizioni al proposito
effettuate dall'Ufficio
Tecnico Comunale, vale a dire la demolizione di alcuni muri
perimetrali e la
destinazione del nuovo piano quale porticato ad uso
collettivo- certamente
incrementava ulteriormente l'altezza ed il profilo di
difformità dalle norme
urbanistiche quanto al numero dei piani edificabili.
Quanto, poi, alle d.i.a., trattandosi di lavori in variante
rispetto a quelli
autorizzati con la concessione edilizia n. 11/2003, pure
questi si collocavano nel
solco di quelli originari e -parzialmente incidendo sia sui
volumi, sia sulle altezze- ne postulavano (una nuova verifica ai fini di accertare)
la conformità alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente (v. art 22, comma 2, d.P.R.
380/2001, sul punto non
mutato con la sostituzione operata dall'art. 1, comma 1,
lett. f, n. 2, d.lgs. 25.11.2016, n. 222). Conformità che, per quanto sopra
detto, era
palesemente assente, soprattutto con riferimento alla d.i.a.
del 29.07.2008,
che incideva in modo pesante sul progetto.
Oltre a ciò -sempre con maggiore
evidenza in quella da ultimo menzionata- difettavano pure i
requisiti previsti
dall'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, posto che
è
possibile effettuare con
d.i.a. (oggi s.c.i.a.) lavori in variante a permessi
costruire soltanto se si tratti
delle c.d. "varianti leggere", vale a dire quelle che, oltre
a non violare eventuali
prescrizioni contenute nel permesso, «non incidono sui
parametri urbanistici e
sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e
la categoria edilizia,
non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a
vincolo ai sensi del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni»
(le parole in corsivo
sono state aggiunte dall'art. 30, comma 1, lett. e, d.l. 21.06.2013, n 69 conv., con modiff., nella legge
09.08.2013, n. 98, sicché all'epoca dei fatti per
cui è processo il requisito della non alterazione della
sagoma era richiesto per
qualsiasi tipo di edificio).
Ed invero, la stessa sentenza
impugnata, richiamando
le valutazioni del perito nominato in secondo grado, dà atto
(v. pp. 84 s. e pp.
87-92 relazione peritale ing. Go. cui si fa espresso
rinvio) che la prima
d.i.a. in variante:
-
apportava modifiche alla sagoma del fabbricato nel corpo di
monte a Nord
(non rilevando ai fini di escludere la natura di variante
"pesante" di tale
modifiche e la necessità che fossero assentite con permesso
di costruire il
fatto che le stesse sarebbero state necessarie per
assicurare il rispetto
delle distanze tra il fabbricato e la villetta comunale
oggetto di generiche
prescrizioni riportate a penna sulle tavole allegate al
progetto originario,
approvato con la concessione edilizia del 2003);
-
incideva sulla volumetria (sia pur apparentemente
riducendola, ma
sempre senza ricondurla nell'ambito di quella effettivamente
realizzabile
sulla base delle previsioni urbanistiche correttamente
interpretate);
-
introduceva significative modifiche alle distribuzioni
interne degli spazi,
modificandone la destinazione d'uso.
La Corte d'appello (p. 100 sentenza) dà altresì atto che le
due denunce
d'inizio attività ed il permesso di costruire in variante
sono successivi
all'approvazione, avvenuta dopo il rilascio della
concessione edilizia originaria,
del Piano di Assetto Idrogeologico, e ciò nondimeno per
nessuna di dette opere
fu richiesto l'obbligatorio parere preventivo dell'Autorità
di bacino: un'altra
palese difformità sia delle d.i.a. sia del permesso di
costruire alle previsioni
urbanistiche che la Corte territoriale supera con
l'argomentazione,
manifestamente illogica, secondo cui, trattandosi di
varianti che non
comportavano aumento di volumetria, le stesse non avrebbero
inciso sull'assetto
idrogeologico del suolo.
Ed invero -a prescindere dal fatto
che l'aumento di
volumetria è soltanto uno dei potenziali parametri da
prendersi in considerazione
per quel giudizio- così motivando la Corte territoriale ha
arbitrariamente
sostituito la propria valutazione a quella riservata invece
all'Autorità di bacino, a
cui debbono essere sottoposti tutti i progetti che anche
solo potenzialmente
incidono sull'assetto idrogeologico del suolo, quale
certamente era l'ampia
modifica del progetto originario oggetto della d.i.a.
presentata nel 2008 (nella
sentenza di primo grado riportata dalla sentenza impugnata a
pag. 29 si parla di
realizzazione di nuovi terrazzamenti prospicienti la
villetta comunale, della
costruzione di una seconda rampa di accesso ai box auto del
primo piano
interrato, della realizzazione di una piccola cappella,
della previsione di un nuovo
livello per box auto nel corpo di fabbrica a monte, con
realizzazione di un solaio tra due dei piani interrati) e la
costruzione di un ulteriore piano, il nono, sulla
sommità del fabbricato, piano porticato destinato ad uso
collettivo e, pertanto, al
calpestio di un numero potenzialmente elevato di fruitori.
Questi lavori, dunque, da un lato non si sarebbero potuti
fare con d.i.a. in
variante, essendo invece necessario procedere con permesso
di costruire, ciò che
-al di là del diverso, e più garantito, iter amministrativo- avrebbe imposto di
riconsiderare l'intero progetto alla luce delle previsioni
delle norme tecniche di
attuazione al P.R.G. e regolamentari più sopra illustrate e
di bloccare le attività
edificatorie essendo il manufatto palesemente contrario alla
disciplina urbanistica
sostanziale. D'altro lato, per le stesse ragioni, non
avrebbero dovuto condurre al
rilascio del permesso di costruire in variante del
30.07.2009.
Si trattò, dunque, di
lavori eseguiti in forza di titoli edilizi manifestamente
contra legem, da
considerarsi quindi in assenza di permesso di costruire con
conseguente
integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett.
b), d.P.R. 380/2001.
La
sentenza impugnata, che -pur dando atto dei suddetti
profili di contrasto
quantomeno della d.i.a. presentata nel 2008 con l'art. 22,
comma 2, d.P.R.
380/2001- non si cura di trarne le dovute conseguenze e, a
fronte delle corrette
valutazioni al proposito fatte nella sentenza di primo
grado, laconicamente
afferma che «appare mancante e/o comunque contraddittoria la
prova della loro
illegittimità» incorre dunque certamente in violazione di
legge e vizio di
motivazione.
4.2. Le argomentazioni svolte al punto che precede rendono
altresì
ragione degli analoghi vizi che affliggono il provvedimento
impugnato in
relazione al giudizio assolutorio pronunciato con riguardo
al concorso nei delitti di
abuso d'ufficio di cui ai capi a) ed e) di imputazione,
relativi, il primo, al non aver
il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale Ze.
notificato a Mo., ai
sensi dell'art. 23, comma 6, d.P.R. 380/2001, l'ordine
motivato di non effettuare
i lavori oggetto delle due d.i.a. contra legem e, il
secondo, all'aver rilasciato
l'illegittimo permesso di costruire in variante del 30.07.2009.
La Corte
d'appello, di fatti, ha escluso la sussistenza dei
contestati reati -oltre che
richiamando giurisprudenza di legittimità che impone
comunque la prova di
rapporti singolari o atipici tra il privato (nella specie, Mo. per il tramite
del professionista di fiducia Ma.) e il pubblico
ufficiale (Ze.) che violando
norme di legge o regolamento avrebbe procurato al primo un
ingiusto vantaggio
patrimoniale- anche osservando come, in radice, non
sussistesse l'abuso
d'ufficio proprio per la legittimità e conformità alle
previsioni urbanistiche e
regolamentari della concessione edilizia originaria, delle
d.i.a. e del permesso di
costruire in variante.
Trattandosi di presupposto erroneo,
occorre dunque riconsiderare anche la sussistenza dei reati
di cui all'art. 323 cod. pen., onde
verificare se la macroscopica illegittimità degli atti e la
loro reiterazione possano
fornire prova logica della collusione, come ritenuto nella
sentenza di primo grado
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi pertinenziali sotto il piano di
campagna naturale - Quota-parte di parcheggi obbligatori -
Volumi realizzabili - Calcolo del volume massimo edificabile
- Legge c.d. Tognoli - Parcheggi coperti (non interrati) -
Artt. 12, 17, 22, 32, 44, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
L'art. 9,
comma 1, della legge 122/1989 stabilisce,
che: «i proprietari di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge 1150/1942 -secondo
cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli
spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati- questa norma
significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici
per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in
linea con le finalità della legge, per gli edifici
esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i
nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano
terreno degli edifici.
Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali
obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove
costruzioni ai sensi dell'art. 41-sexies legge 1150/1942
possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché -se
questa fosse stata l'intenzione del legislatore- la
possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in
quella disposizione. Semmai, il combinato disposto degli
artt. 41-sexies legge 1150/1942 e 9, comma 1, legge 122/1989
può consentire, anche nelle nuove costruzioni, l'esecuzione
di parcheggi in deroga alle norme urbanistiche e quindi, per
quanto qui rileva, dei volumi realizzabili, soltanto se
ulteriori a quelli obbligatori.
Nella specie, avendo, il Comune di Sant'Agata di Puglia
legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti
(non interrati) ai fini del calcolo del volume massimo
edificabile -e non essendo detta previsione incompatibile
con la successiva legge Tognoli- quei volumi si sarebbero
dovuti computare quantomeno con riferimento alla quota-parte
di parcheggi obbligatori richiesti dall'art. 41-sexies legge
1150/1942 rispetto al restante volume dell'edificio,
potendosi soltanto escludere, ai sensi dell'art. 9, comma 1,
legge 122/1989 -sempre che collocati nel sottosuolo o al
piano terreno- i volumi degli eventuali ulteriori parcheggi
realizzati in aggiunta a quelli obbligatori, per i quali
varrebbero le limitazioni di trasferimento previste
dall'art. 9, comma 5, legge 122/1989, disposizione che,
facendo espressamente salva la previsione di cui all'art.
41-sexies legge n. 1159/1942, conferma come la speciale
disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli
obbligatori.
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, è consolidata
nell'affermare che la realizzazione di autorimesse e
parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è
soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove
costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. IV, n. 4645 del
26/09/2008; Cons. Stato, sez. IV, n. 6065 del 11/11/2006;
Cons. Stato, sez. V, n. 1608 del 29/03/2006; Cons. Stato,
sez. V, n. 1662 del 29/03/2004; TAR Lazio, sede di Roma,
sez. I, n. 3259 del 16/04/2008; TAR Campania, sez. II, n.
15731 del 23/06/2010) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9,
comma 1,
della legge 122/1989- stabilisce, per quanto qui
rileva
(l'evidenziazione in corsivo è aggiunta per enfasi),
che «i
proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed
ai regolamenti edilizi
vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge
1150/1942 -secondo cui nelle
nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi
obbligatori di parcheggio ivi
indicati- questa norma significa soltanto che la deroga
agli strumenti urbanistici
per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in
linea con le finalità della
legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare
detti spazi e purché i nuovi
parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno
degli edifici. Non
significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori
che debbono essere
realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell'art.
41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti
urbanistici, giacché -se questa fosse stata
l'intenzione del legislatore- la possibilità di deroga
sarebbe stata inserita
direttamente in quella disposizione.
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La giurisprudenza
amministrativa è consolidata nell'affermare che
la realizzazione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al
di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla
disciplina urbanistica che
regola le nuove costruzioni fuori terra.
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3.2. Quanto al calcolo del volume, richiamandosi le previsioni di cui
all'art.
7.8 N.T.A. e 27.11 del Regolamento edilizio, nel ricorso
della parte civile ci si
duole del fatto che si sarebbe dovuto tener conto di tutti i
volumi che emergono
dal terreno sistemato, indipendentemente dalla loro
destinazione d'uso, laddove
la corte territoriale -aderendo anche in questo caso
all'interpretazione dell'ing.
Go.- avrebbe considerato soltanto i volumi
produttivi di carico
urbanistico, individuati come quelli aventi destinazione
d'uso residenziale.
Sarebbero quindi stati indebitamente esclusi dal computo dei
volumi il c.d.
"sottotetto di valle" (dal giudice d'appello ritenuto
caratterizzato da ambienti non
abitabili nonostante quei locali fossero dotati di impianti
tecnologici, servizi igienici e finiture identiche a quelli
degli immobili adibiti a residenza) ed i piani
seminterrati adibiti a parcheggio, e ciò in base all'errato
richiamo all'art. 9 della
legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli), che -osserva la ricorrente-
consentirebbe la deroga agli strumenti urbanistici
esclusivamente per la
realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza delle
costruzioni già esistenti
e non anche per i parcheggi delle nuove costruzioni,
regolate invece dall'art. 2
della stessa legge.
Tale doglianza è fondata.
L'art. 7.8 N.T.A. (riprodotto a p. 57 della sentenza
impugnata) stabilisce che
è considerato volume «quello del manufatto edilizio o dei
manufatti edilizi che
emergono dal terreno sistemato secondo il progetto
approvato, con esclusione
dei volumi porticati se destinati ad uso collettivo. E'
compreso, però, il volume
relativo al parcheggio obbligatorio ai sensi delle leggi
vigenti (7) se coperto».
La
sentenza impugnata osserva che l'indicazione, tra parentesi,
del numero 7
rimandava ad un elenco delle leggi vigenti al momento della
redazione del
P.R.G., tra cui non figurava -perché successivamente
approvata- la legge n.
122/1989, la quale, si osserva, oltre ad aver modificato il
rapporto tra parcheggi
obbligatori e volume delle nuove costruzioni (stabilito in
almeno 1 mq. a fronte
di 10 mc. dal nuovo testo dell'art. 41-sexies legge 17.08.1942, n. 1150,
sostituito dall'art. 2, comma 2, della legge Tognoli),
avrebbe consentito, all'art.
9, comma 3, l'esecuzione di parcheggi da destinare a
pertinenza delle abitazioni
anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi, sicché gli
stessi non potrebbero più essere considerati ai fini del
calcolo dei volumi.
L'interpretazione e la conclusione sostenute in sentenza -ad avviso del Collegio- sono errate.
Ed invero, la disposizione richiamata -che è l'art. 9,
comma 1, e non
comma 3, della legge 122/1989- stabilisce, per quanto qui
rileva
(l'evidenziazione in corsivo è aggiunta per enfasi),
che «i
proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed
ai regolamenti edilizi
vigenti».
Letta unitamente all'art. 41-sexies legge
1150/1942 -secondo cui nelle
nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi
obbligatori di parcheggio ivi
indicati- questa norma significa soltanto che la deroga
agli strumenti urbanistici
per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in
linea con le finalità della
legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare
detti spazi e purché i nuovi
parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno
degli edifici. Non
significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori
che debbono essere
realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell'art.
41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti
urbanistici, giacché -se questa fosse stata
l'intenzione del legislatore- la possibilità di deroga
sarebbe stata inserita
direttamente in quella disposizione.
Semmai, il combinato
disposto degli artt. 41-sexies legge 1150/1942 e 9, comma 1, legge 122/1989 può
consentire, anche
nelle nuove costruzioni, l'esecuzione di parcheggi in deroga
alle norme
urbanistiche e quindi, per quanto qui rileva, dei volumi
realizzabili, soltanto se
ulteriori a quelli obbligatori.
Avendo, dunque, il Comune di
Sant'Agata di Puglia
legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti
(non interrati) ai fini del
calcolo del volume massimo edificabile -e non essendo detta
previsione
incompatibile con la successiva legge Tognoli- quei volumi
si sarebbero dovuti
computare quantomeno con riferimento alla quota-parte di
parcheggi obbligatori
richiesti dall'art. 41-sexies legge 1150/1942 rispetto al
restante volume
dell'edificio, potendosi soltanto escludere, ai sensi
dell'art. 9, comma 1, legge
122/1989 -sempre che collocati nel sottosuolo o al piano
terreno- i volumi
degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a
quelli obbligatori, per i
quali varrebbero le limitazioni di trasferimento previste
dall'art. 9, comma 5,
legge 122/1989, disposizione che, facendo espressamente
salva la previsione di
cui all'art. 41-sexies legge n. 1159/1942, conferma come la
speciale disciplina
valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli
obbligatori.
La giurisprudenza
amministrativa, peraltro,
è consolidata nell'affermare che
la realizzazione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al
di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla
disciplina urbanistica che
regola le nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. IV, n. 4645 del
26/09/2008; Cons. Stato, sez. IV, n. 6065 del 11/11/2006;
Cons. Stato, sez. V,
n. 1608 del 29/03/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1662 del
29/03/2004; TAR
Lazio, sede di Roma, sez. I, n. 3259 del 16/04/2008; TAR
Campania, sez. II, n.
15731 del 23/06/2010).
Né può condividersi la (nuova) tesi interpretativa
affacciata nella memoria
depositata nell'interesse dell'imputato secondo cui dovrebbe
ritenersi
inapplicabile (o comunque implicitamente abrogata) la
disposizione di cui all'art.
7.8 N.T.A. a seguito dell'entrata in vigore della c.d. legge Tognoli, sul rilievo che
l'art. 11 di tale legge avrebbe trasformato la natura
giuridica dei parcheggi da
mere opere pertinenziali ad opere di urbanizzazione escluse
dal calcolo di
onerosità ai fini del rilascio del permesso di costruire e,
dunque, dalla
suscettibilità d'essere considerati ai fini della
volumetria.
E' ben vero, di fatti,
che, nel prevedere che «le opere e gli interventi previsti
dalla presente
legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi
dell'articolo 9, primo
comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10» -disposizione,
quest'ultima, abrogata dall'art. 136, comma 2, lett. c),
d.P.R. 380/2001 e testualmente riprodotta nell'art. 17,
comma 3, lett. c), del medesimo testo unico- l'art. 11, comma 1, legge 122/1989 esclude i parcheggi
obbligatori dal calcolo
degli oneri di concessione (cfr. Cons. Stato, n. 6154 del
22/11/2011), ma il
beneficio economico, che si giustifica per la ritenuta
finalità di interesse pubblico
che i parcheggi (pur privati) assolvono, non incide invece
sulla disciplina degli
standards urbanistici, la quale risponde ad altre finalità.
Salva diversa previsione,
infatti, le opere indicate nell'art 17, comma 3, d.P.R.
380/2001 devono rispettare
gli standards urbanistici, ivi compresi i limiti di cubatura
edificabile.
Parimenti censurabile, a fronte del chiaro disposto di cui
all'art. 7.8 N.T.A. è
la apodittica asserzione -che la sentenza impugnata mutua
dalla relazione del
perito ing. Go.- secondo cui nel calcolo dei volumi
dovrebbe tenersi
conto della «definizione di "volume insediato" condivisa
dalla letteratura tecnica
(secondo cui il volume insediato è quello che produce
"carico urbanistico", nel
caso de quo riconducibile alla destinazione d'uso
residenziale)», ciò che nella
situazione in esame, come si comprende dalla relazione
dell'ing. Gorgoglione a
cui la sentenza fa rinvio, ha determinato la mancata
considerazione addirittura di
un piano di fabbricato emergente dal terreno, vale a dire il
c.d. sottotetto di
valle, sul rilievo che i locali (che lo steso perito
riconosce essere dotati di servizi,
come la parte civile ricorrente ha indicato) non potrebbero
ottenere l'agibilità ai
fini abitativi. Come si diceva, diversamente dalla non
meglio identificata
"letteratura tecnica" che fonda la conclusione (del perito
e) della Corte d'appello,
la norma urbanistica, contemplando addirittura i parcheggi
coperti, certo non
limita la considerazione dei volumi ai soli ambienti che
potrebbero essere ritenuti abitabili
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività ambulante - Raccolta e
trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi -
Deroga prevista dall'art. 266, c. 5° d.lgs. n. 152/2006 -
Duplice condizione.
In tema di rifiuti, la deroga prevista dall'art. 266, comma
5, d.lgs. n. 152 del 2006, per l'attività di raccolta e
trasporto dei rifiuti prodotti da terzi - effettuata in
forma ambulante - opera qualora ricorra la duplice
condizione che il soggetto sia in possesso del titolo
abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma
ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si
tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Sicché, l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante,
non integra il reato di gestione non autorizzata dei
rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto
sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che
si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio
(Sez. 3, n. 20249 del 07/04/2009, Pizzimenti; conf. Sez. 3,
n. 39774 del 02/05/2013, Calvaruso e altro).
RIFIUTI - Reato di gestione non
autorizzata dei rifiuti - Configurabilità - Elementi.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152
del 2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra
quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche
di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio
di una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6735 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di rifiuto e qualificazione in
sottoprodotto - Esclusione della natura di rifiuto -
Applicazione di un regime giuridico più favorevole - Onere
della prova - Fattispecie: "deposito temporaneo" e
"sottoprodotto" - Artt. 183, 184-bis e 256 d.lgs. n.152/2006
- Art. 6 L. n. 210/2008 - Giurisprudenza.
Ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del
2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di
disfarsi; salva la possibilità della diversa qualificazione
in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152
del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
Peraltro, è onere del soggetto che ne invoca la possibile
utilizzazione la prova della sussistenza dei presupposti
previsti dalla legge per l'applicazione di un regime
giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito
temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n.
16432 del 25/10/2016, Gaudino, Rv. 269750; Sez. 3,n. 29084
del 14/05/2015, Favazzo, Rv. 264121).
Nel caso in specie, i giudici del merito hanno argomentato
la natura di rifiuti del materiale depositato non potendovi
essere dubbio alcuno sulla volontà dismissiva tenuto conto
dell'eterogenità dei beni e delle condizioni dei materiali
stessi (cfr. batterie esauste e autocarri fuori uso) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6729 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Appalti, altra stretta sulle rotazioni.
Senza pace il principio di rotazione nelle gare di appalto,
in particolare per i servizi «sotto soglia» (articolo
36 del Dlgs 50/2016). La norma, che prevede fluidità e
alternanza tra soggetti esecutori, è oggetto di sentenze,
pareri e linee guida, come quella dell’Anac 4/2016 in corso
di revisione.
L’Anac predispone linee guida che poi il Consiglio di Stato
rilegge, proponendo modifiche: questo è avvenuto con il
parere 12.02.2018 n. 361.
Questioni generali
Sui principi generali sentenze, Anac e Consiglio di Stato
sono concordi, ostacolando il consolidarsi di rendite ed
evitando la rinnovazione di rapporti a imprese già
aggiudicatarie per i lavori sotto soglia. Il principio di
rotazione impone infatti di coinvolgere sempre nuovi
concorrenti, bilanciando precedenti scelte avvenute con gare
a base ristretta. Fino a oggi, la rotazione è stata attuata
escludendo dagli inviti il gestore uscente, ma lasciando
libera la possibilità di invitare le imprese che avessero
partecipato alla selezione, senza risultare aggiudicatarie.
Rotazione ed esclusione
Ora, secondo il Consiglio di Stato, rotazione ed esclusione
si dovrebbero estendere anche agli operatori economici
invitati e non affidatari nella precedente gara. Rotazione,
infatti, significa completa sostituzione della squadra
concorrente, comprensiva sia del vincitore che delle imprese
collocatesi alle spalle. Quindi, ogni gara avrebbe una nuova
compagine.
La severità di questo principio non è assoluta:
l’amministrazione infatti può aprire la gara a qualsiasi
concorrente motivando in relazione al numero ridotto di
operatori presenti sul mercato, alle caratteristiche del
mercato stesso, alla soddisfazione generata nel precedente
rapporto contrattuale.
Può escludersi la rotazione, se occorre mettere in gara un
diverso genere di prodotto o servizio, se muta l’oggetto del
contratto, se la commessa non è identica o analoga a quella
precedente, se infine cambia la fascia di valore. Si tratta
di valutazioni complesse, perché l’obbligo di rotazione
riemerge se, tenendo presenti gli ultimi tre anni solari, vi
sono commesse arbitrariamente frazionate o identiche fasce
di valore, se vi sono ingiustificate aggregazioni nel
calcolo del valore stimato dell’appalto o, infine, se vi è
un’insolita alternanza sequenziale di affidamenti diretti o
di inviti.
In ogni caso, l’obbligo di rotazione scatta solo quando
l’amministrazione decide di limitare il numero delle imprese
da invitare, perché se la gara è stata aperta, l’impresa
aggiudicataria ha lealmente conquistato sul campo
l’aggiudicazione. In conseguenza, il vantaggio di essere già
stato aggiudicatario non è macchiato da ipotetico
favoritismo e consente all’impresa, senza rotazione, di
partecipare a una successiva gara
(articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 26.02.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Palazzo
Spada smonta il dibattito pubblico. Per il Consiglio
di stato il dpcm va cambiato in più punti.
Pesanti critiche sulla bozza di dpcm in materia di dibattito pubblico: per
il Consiglio di stato va cambiato se no si vanifica l'operatività
dell'istituto; non va la disciplina transitoria; troppo elevate le soglie di
applicazione; il coordinatore del dibattito pubblico deve essere un soggetto
terzo rispetto alla stazione appaltante ancorché facente parte di altra
amministrazione.
È quanto si legge nel
parere 12.02.2018 n. 359
emesso dal Consiglio di Stato sullo schema di dpcm in materia di dibattito
pubblico (Atto
del Governo n. 494 -
Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante
modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere
sottoposte a dibattito pubblico, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), testo peraltro anche all'attenzione delle commissioni parlamentari
competenti che avrebbero dovuto emettere il loro parere entro fine gennaio
ma si sono fermate per attendere il verdetto di palazzo Spada.
Sullo schema di decreto, predisposto dalla presidenza del consiglio dei
ministri in attuazione dell'articolo 22, comma 2, del Codice dei contratti (dlgs
n. 50/2016), i giudici evidenziano due questioni, la prima relativa alle
soglie economiche. Per il Consiglio di stato, in rapporto alle tipologie di
opere e ai parametri dimensionali delle stesse «sono di importo così elevato
da finire per rendere, nella pratica, minimale il ricorso al dibattito
pubblico, che rappresenta invece una delle novità di maggior rilievo del
nuovo Codice dei contratti e che, se bene utilizzato, potrebbe costituire
anche un valido strumento deflattivo del contenzioso».
Una seconda critica arriva poi con riguardo al monitoraggio della
Commissione nazionale per il dibattito pubblico istituita dall'articolo 4
dello schema di decreto, che per il Consiglio di stato andrebbe potenziata
per renderla più incisiva. Nel merito dei 10 articoli di cui si compone lo
schema, diverse sono le osservazioni a partire dal numero dei componenti la
Commissione nazionale per il dibattito pubblico che dovrebbero essere in
numero dispari «al fine evitare situazioni di stallo nei casi in cui una
decisione debba essere presa a maggioranza».
Importante anche la notazione relativa alla figura del coordinatore del
dibattito pubblico: per garantire l'indipendenza e la terzietà il Consiglio
di Stato propone che tale compito venga svolto «da soggetto esterno
all'amministrazione aggiudicatrice o all'ente aggiudicatore, ma pur sempre
da soggetto appartenente allo Stato-apparato».
Per i giudici si tratta di compiti «di estrema delicatezza che incidono
direttamente sui bisogni e le aspettative dei cittadini e delle istituzioni
interessate, coinvolgendo margini di valutazione e di apprezzamento che
esulano da un semplice incarico tecnico professionale». Deve poi essere
previsto un termine entro il quale si deve avviare il dibattito.
Si chiede
anche di modificare la disciplina transitoria prevedendo che se il
provvedimento o la determina a contrarre sono stati adottati prima
dell'entrata in vigore del presente decreto sia consentita l'indizione
volontaria del dibattito pubblico. Dal punto di vista della pubblicità del
dibattito pubblico nel parere si ritiene opportuno procedimentalizzare le
attività di pubblicità della indizione del dibattito pubblico, non nella
fase della mera intenzione, ma in quella della indizione (articolo ItaliaOggi del
23.02.2018). |
APPALTI: No
al soccorso istruttorio sugli oneri di sicurezza.
Sentenza cds.
È inapplicabile il soccorso istruttorio alla mancata indicazione degli oneri
di sicurezza interni o aziendali.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
07.02.2018 n. 815.
La vicenda riguardava la mancata indicazione
degli oneri di sicurezza aziendali in una gara indetta nella vigenza del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice degli appalti pubblici) in
quanto la lettera di invito è stata inviata alle imprese potenzialmente
interessate in data 29.09.2016 cui si applicava quindi l'articolo 83,
comma 9, del nuovo Codice che ammette il soccorso istruttorio ad eccezione
delle incompletezze e mancanze dell'offerta economica o tecnica.
In base al
nuovo codice e a quanto previsto dall'articolo 95, comma 10, del decreto 50,
dicono i giudici, per le gare indette all'indomani dell'entrata in vigore
del nuovo codice (come quella esaminata) non vi sono più i presupposti per
ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri
di cui all'articolo 95, comma 10. Ciò, in quanto il codice ha
definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza
di tale obbligo.
Più in generale, notano i giudici, il decreto 50 non ammette comunque che il
soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e
irregolarità relative all'offerta economica (in tal senso, e in modo
espresso, l'articolo 95, comma 10, cit.). D'altro canto, si legge nella
sentenza, l'esclusione è anche intesa ad evitare che il rimedio del soccorso
istruttorio (istituto che corrisponde al rilievo non determinante di
violazioni meramente formali) possa contrastare il generale principio della
par condicio concorrenziale, consentendo in pratica a un concorrente (cui è
riferita l'omissione) di modificare ex post il contenuto della propria
offerta economica.
Non trovano applicazione i principi di diritto formulati dalla sentenza
dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di stato, 27.07.2016, n. 19
in tema di ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di mancata
indicazione degli oneri per la sicurezza cosiddetti interni o aziendali (articolo ItaliaOggi del
23.02.2018). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Il
mancato incarico non è risarcibile.
Non è in alcun modo risarcibile il mancato conferimento di incarichi
pubblici ad un magistrato della Corte dei conti.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la
sentenza 07.02.2018 n. 814.
Nel caso in esame un magistrato della Corte dei conti aveva partecipato a un
interpello per l'individuazione dell'incarico di presidente di Collegi dei
revisori di enti siciliani.
Era stato, però, escluso in quanto la procedura risultava riservata ai soli
magistrati in servizio in Sicilia. Aveva così impugnato e ottenuto
l'annullamento della delibera con cui era stato indetto l'interpello e aveva
agito dinanzi al Tribunale amministrativo regionale al fine di ottenere il
ristoro del danno da perdita di chance per il mancato incarico. Dal momento
che il Tar aveva respinto il ricorso risarcitorio autonomo da lui proposto,
aveva proposto appello.
Il Consiglio di stato conferma la decisione di primo grado.
Infatti, la sua domanda di risarcimento dei danni per il mancato
conferimento di un incarico pubblico non può essere accolta. Diversamente da
quanto potrebbe configurarsi in tema di mere autorizzazioni allo svolgimento
di attività private, il conferimento di incarichi pubblici avviene
nell'interesse pubblico ed è, per sua natura, riservato alla sola
discrezionalità dell'Amministrazione che se ne avvale. Per quanto concerne
il risvolto economico, poi, non pare giuridicamente configurabile in capo al
magistrato 'un'aspettativa qualificata all'attribuzione di un tale incarico
remunerato', tale da giustificare il conseguente ristoro patrimoniale per
aver impedito indebitamente il suo conferimento.
Non solo.
I giudici di Palazzo Spada rilevano, infine, che lo stesso ragionamento
debba valere anche nel caso in cui gli organi di governo autonomo delle
magistrature abbiano definito criteri o modalità di attribuzione
dell'incarico. Nemmeno tale eventuale predeterminazione delle modalità,
infatti, può modificare i caratteri di fondo degli incarichi pubblici, la
causa della loro attribuzione e l'assenza di una pretesa, in senso proprio,
alla relativa attribuzione (articolo ItaliaOggi
Sette del
19.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligazione pecuniaria del pagamento
dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del
titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto
accessoria e conseguenziale rispetto all'atto autoritativo
con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento
edilizio nel contesto delle condizioni normativamente
contemplate per l'emissione dell'atto che ne dispone la
sanatoria.
---------------
Costituisce jus receptum il principio in base al quale la
normativa sul condono, nel disciplinare le obbligazioni ad
esso connesse, include gli aventi causa tra i soggetti in
ogni caso legittimati dal punto di vista passivo,
configurando una sorta di obbligazioni propter rem legate
alla proprietà del bene, sia con riferimento alle somme
dovute a titolo di oblazione sia per gli altri oneri
concessori.
In tal senso, depone a titolo esemplificativo l'art. 37,
comma 1, l. n. 47 del 1985, in base al quale l'obbligazione
per il pagamento dei contributi concessori, se non
soddisfatto dal richiedente la sanatoria, grava comunque
sugli altri soggetti indicati dall'art. 31, commi 1 e 3, tra
i quali è da ricomprendere l'avente causa dal richiedente la
sanatoria (quale è il ricorrente, pur se acquirente da
esecuzione forzata).
A quest’ultimo specifico riguardo, la giurisprudenza civile,
da cui non vi sono ragioni per discostarsi, è ferma nel
ritenere che l'acquisto di un bene da parte
dell'aggiudicatario in sede di esecuzione forzata, pur
essendo indipendente dalla volontà del precedente
proprietario in quanto da ricollegarsi ad un provvedimento
del giudice dell'esecuzione, ha natura di acquisto a titolo
derivativo e non originario, traducendosi nella trasmissione
dello stesso diritto del debitore esecutato.
A sua volta, l'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994 contiene
una analoga previsione a carico dei soggetti aventi causa
per il caso di mancato integrale versamento dell'oblazione.
Pertanto, se da un lato, la legge presuppone nei
richiedenti la sanatoria la qualità di soggetti obbligati in
via principale al pagamento degli oneri derivanti dalla
medesima, dall'altro fa emergere come l'interesse
azionato con la domanda di condono di un abuso edilizio sia
comunque strettamente collegato alla titolarità
dell'immobile abusivo.
In definitiva la normativa sul condono (in coerenza con il
principio per il quale i poteri repressivi e sanzionatori
prescindono dalle vicende civilistiche del bene), nel
disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli
"aventi causa" tra i soggetti in ogni caso legittimati dal
punto di vista passivo, configurando una sorta di
obbligazioni propter rem connesse alla proprietà del bene,
sia con riferimento alle somme versate a titolo di oblazione
sia per gli altri oneri concessori.
La stretta connessione evidentemente sussistente tra la
titolarità dell'immobile e gli obblighi derivanti dalla
concessione rende questi ultimi assimilabili alle
obbligazioni propter rem, appunto caratterizzate dal fatto
che l'obbligato è individuabile in base alla titolarità di
un diritto reale su un determinato bene ed implica il
trasferimento di essi in concomitanza con il trasferimento
del diritto reale cui accedono.
D’altronde, altrimenti opinando, se per un verso sarebbe
elevato il rischio di elusione degli obblighi connessi al
peculiare assenso per condono, tramite la cessione del bene
condonato, per un altro verso proprio per il caso di
insolvibilità dell’originario proprietario è pienamente
ragionevole una normativa secondo cui il beneficio della
permanenza di un bene in base all’eccezionale meccanismo del
condono venga sopportato (anche) dall’effettivo titolare e
beneficiario del bene.
---------------
L'art. 35, commi 1 e 3, l. 28.02.1985, n. 47, nel
disciplinare il procedimento per la sanatoria, prevede che
la domanda di concessione edilizia sia corredata dalla prova
dell'eseguito versamento dell'oblazione e che alla stessa
debbano essere allegati i documenti che vengono
specificamente indicati.
Da tale norma emerge come il silenzio-assenso si possa
formare soltanto in presenza di tutti i presupposti da essa
indicati e, in particolare, in presenza di una
documentazione completa degli elementi richiesti dal cit.
art. 35; il termine di prescrizione può decorrere soltanto
nel caso in cui si sia formato un atto tacito di condono.
Pertanto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma
18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la
formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono
edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale
diritto al conguaglio delle somme dovute), presuppone in
ogni caso la completezza della domanda di sanatoria,
accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di
quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la
formazione del silenzio-accoglimento.
---------------
In ordine al regime applicabile nella determinazione delle
tariffe, la giurisprudenza di questo Consiglio ha rilevato
che l'articolo 4 l.Reg.. Lombardia n. 31 del 2004, al comma
6, prevede che in caso di condono edilizio si applichino le
tabelle degli oneri di urbanizzazione vigenti all'atto del
perfezionamento del procedimento di sanatoria.
Come ha osservato la Corte Costituzionale, la normativa
applicabile potrebbe indifferentemente fare riferimento alla
entrata in vigore della legge di condono, alla presentazione
della domanda, al momento della chiusura dell'istruttoria,
al momento della decisione amministrativa, al momento
dell'effettivo rilascio del provvedimento favorevole.
Nella specie, la legge regionale abilita il riferimento al
momento della fase decisoria ("il perfezionamento") del
procedimento di sanatoria, per cui sono non accoglibili le
pretese di ancorare il momento di determinazione delle
tariffe a fasi precedenti, quali la fase introduttiva o di
iniziativa o la fase istruttoria.
In mancanza di indicazioni in un determinato senso da parte
della legge -che invece nella specie è chiaramente
effettuata da parte della legge regionale, facendo
riferimento al perfezionamento del procedimento di sanatoria
e quindi al momento del rilascio del provvedimento
favorevole- non sarebbe stato irragionevole fare riferimento
alla legge vigente al momento nel quale l'istanza di condono
viene esaminata, è cioè "matura", nel senso di avere
effettuato tutte le valutazioni, la decisione
amministrativa, oppure al momento nel quale viene presa
formalmente la decisione amministrativa nel procedimento di
sanatoria.
La legge regionale è però chiara, come detto, nel far
riferimento alle tariffe o ai costi contributivi rilevanti
al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria
e tale perfezionamento non può non coincidere con l'adozione
del provvedimento finale, avvenuta nella fattispecie dopo
l'adeguamento tariffario.
La ratio della scelta del legislatore regionale è di
privilegiare l'interesse pubblico alla adeguatezza della
contribuzione ai costi reali rispetto a quello antitetico
del cittadino alla piena previsione dei costi incombenti al
momento della formazione del consenso.
---------------
1. L’appello è infondato.
In linea generale, va ribadito che l'obbligazione pecuniaria
del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di
rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come
del tutto accessoria e conseguenziale rispetto all'atto
autoritativo con il quale è stata valutata la conformità
dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni
normativamente contemplate per l'emissione dell'atto che ne
dispone la sanatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. IV,
24.02.2011, n. 1235).
2.1 In relazione al primo ordine di censure,
costituisce jus receptum il principio in base al
quale la normativa sul condono, nel disciplinare le
obbligazioni ad esso connesse, include gli aventi causa tra
i soggetti in ogni caso legittimati dal punto di vista
passivo, configurando una sorta di obbligazioni propter
rem legate alla proprietà del bene, sia con riferimento
alle somme dovute a titolo di oblazione sia per gli altri
oneri concessori.
In tal senso, depone a titolo esemplificativo l'art. 37,
comma 1, l. n. 47 del 1985, in base al quale l'obbligazione
per il pagamento dei contributi concessori, se non
soddisfatto dal richiedente la sanatoria, grava comunque
sugli altri soggetti indicati dall'art. 31, commi 1 e 3, tra
i quali è da ricomprendere l'avente causa dal richiedente la
sanatoria (quale è il ricorrente, pur se acquirente da
esecuzione forzata).
A quest’ultimo specifico riguardo, la giurisprudenza civile,
da cui non vi sono ragioni per discostarsi, è ferma nel
ritenere che l'acquisto di un bene da parte
dell'aggiudicatario in sede di esecuzione forzata, pur
essendo indipendente dalla volontà del precedente
proprietario in quanto da ricollegarsi ad un provvedimento
del giudice dell'esecuzione, ha natura di acquisto a titolo
derivativo e non originario, traducendosi nella trasmissione
dello stesso diritto del debitore esecutato (cfr. ancora di
recente Cassazione civile, sez. I 13.03.2017, n. 6386; cfr.
nei medesimi termini ad es. Cassazione civile, sez. II,
25.10.2010, n. 21830).
A sua volta, l'art. 39, comma 6, l. n. 724 del 1994 contiene
una analoga previsione a carico dei soggetti aventi causa
per il caso di mancato integrale versamento dell'oblazione.
Pertanto, se da un lato, la legge presuppone nei richiedenti
la sanatoria la qualità di soggetti obbligati in via
principale al pagamento degli oneri derivanti dalla
medesima, dall'altro fa emergere come l'interesse azionato
con la domanda di condono di un abuso edilizio sia comunque
strettamente collegato alla titolarità dell'immobile
abusivo.
In definitiva la normativa sul condono (in coerenza con il
principio per il quale i poteri repressivi e sanzionatori
prescindono dalle vicende civilistiche del bene), nel
disciplinare le obbligazioni ad esso connesse, include gli "aventi
causa" tra i soggetti in ogni caso legittimati dal punto
di vista passivo, configurando una sorta di obbligazioni
propter rem connesse alla proprietà del bene, sia con
riferimento alle somme versate a titolo di oblazione sia per
gli altri oneri concessori.
La stretta connessione evidentemente sussistente tra la
titolarità dell'immobile e gli obblighi derivanti dalla
concessione rende questi ultimi assimilabili alle
obbligazioni propter rem, appunto caratterizzate dal
fatto che l'obbligato è individuabile in base alla
titolarità di un diritto reale su un determinato bene ed
implica il trasferimento di essi in concomitanza con il
trasferimento del diritto reale cui accedono.
D’altronde, altrimenti opinando, se per un verso sarebbe
elevato il rischio di elusione degli obblighi connessi al
peculiare assenso per condono, tramite la cessione del bene
condonato, per un altro verso proprio per il caso di
insolvibilità dell’originario proprietario è pienamente
ragionevole una normativa secondo cui il beneficio della
permanenza di un bene in base all’eccezionale meccanismo del
condono venga sopportato (anche) dall’effettivo titolare e
beneficiario del bene.
2.2 In relazione al secondo ordine di censure,
concernente l’invocazione del silenzio-assenso a fini di
decorrenza del termine di prescrizione, oltre a quanto
statuito in termini esecutivi dalla precedente sentenza del
Tar Brescia (da cui è scaturito anche il rilascio in
parte qua del titolo di sanatoria), assume rilievo
dirimente il principio consolidato (cfr. ad es. Consiglio di
Stato, sez. IV, 18.01.2017, n. 187) per il quale l'art. 35,
commi 1 e 3, l. 28.02.1985, n. 47, nel disciplinare il
procedimento per la sanatoria, prevede che la domanda di
concessione edilizia sia corredata dalla prova dell'eseguito
versamento dell'oblazione e che alla stessa debbano essere
allegati i documenti che vengono specificamente indicati; da
tale norma emerge come il silenzio-assenso si possa formare
soltanto in presenza di tutti i presupposti da essa indicati
e, in particolare, in presenza di una documentazione
completa degli elementi richiesti dal cit. art. 35; il
termine di prescrizione può decorrere soltanto nel caso in
cui si sia formato un atto tacito di condono.
Pertanto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35, comma
18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la
formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono
edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale
diritto al conguaglio delle somme dovute), presuppone in
ogni caso la completezza della domanda di sanatoria,
accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di
quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la
formazione del silenzio-accoglimento (cfr. in tal senso
anche Consiglio di Stato, sez. IV, 28.01.2016, n. 314).
2.3 Parimenti infondato è il terzo ordine di censure,
sollevato in due direzioni in merito ai parametri di
determinazione del quatum debeatur.
2.3.1 Nella prima direzione, in ordine al regime applicabile
nella determinazione delle tariffe, la giurisprudenza di
questo Consiglio (cfr. ad es. sez. IV, 11.09.2012, n. 4825)
ha rilevato che l'articolo 4 l.Reg.. Lombardia n. 31 del
2004, al comma 6, oggetto della ordinanza della Corte
Costituzionale n. 105 del 2010, prevede che in caso di
condono edilizio si applichino le tabelle degli oneri di
urbanizzazione vigenti all'atto del perfezionamento del
procedimento di sanatoria.
Come ha osservato la Corte Costituzionale, la normativa
applicabile potrebbe indifferentemente fare riferimento alla
entrata in vigore della legge di condono, alla presentazione
della domanda, al momento della chiusura dell'istruttoria,
al momento della decisione amministrativa, al momento
dell'effettivo rilascio del provvedimento favorevole.
Nella specie, la legge regionale abilita il riferimento al
momento della fase decisoria ("il perfezionamento")
del procedimento di sanatoria, per cui sono non accoglibili
le pretese di ancorare il momento di determinazione delle
tariffe a fasi precedenti, quali la fase introduttiva o di
iniziativa o la fase istruttoria.
In mancanza di indicazioni in un determinato senso da parte
della legge -che invece nella specie è chiaramente
effettuata da parte della legge regionale, facendo
riferimento al perfezionamento del procedimento di sanatoria
e quindi al momento del rilascio del provvedimento
favorevole- non sarebbe stato irragionevole fare riferimento
alla legge vigente al momento nel quale l'istanza di condono
viene esaminata, è cioè "matura", nel senso di avere
effettuato tutte le valutazioni, la decisione
amministrativa, oppure al momento nel quale viene presa
formalmente la decisione amministrativa nel procedimento di
sanatoria.
La legge regionale è però chiara, come detto, nel far
riferimento alle tariffe o ai costi contributivi rilevanti
al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria
e tale perfezionamento non può non coincidere con l'adozione
del provvedimento finale, avvenuta nella fattispecie dopo
l'adeguamento tariffario.
La ratio della scelta del legislatore regionale è,
come osservato anche dalla Corte nella sua ordinanza n. 105
del 17.03.2010, di privilegiare l'interesse pubblico alla
adeguatezza della contribuzione ai costi reali rispetto a
quello antitetico del cittadino alla piena previsione dei
costi incombenti al momento della formazione del consenso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.02.2018 n. 753 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del t.u.
edilizia di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituiscono
nuova costruzione gli interventi di trasformazione
urbanistica comportanti la realizzazione di depositi di
merci o di materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione
di lavori cui consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato.
Di conseguenza è "a fortiori" qualificabile come opera edile
di nuova costruzione la realizzazione di un piazzale
in cemento, la quale determina un "consumo di suolo" (con
una cementificazione che si sostituisce al piano naturale di
campagna) e dunque una trasformazione tendenzialmente
irreversibile di quest'ultimo.
Il medesimo orientamento è seguito dalla giurisprudenza
penale secondo cui integra un illecito edilizio
l'esecuzione, in assenza del permesso di costruire, di
interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante
apporto di terreno e materiale inerte e successivo
sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale
attività, pur non comportando un'edificazione in senso
stretto, determina una modificazione permanente dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio.
---------------
2.3.2 Nella seconda direzione risulta corretto l’argomentare
della sentenza appellata in merito alla corretta
qualificazione dell’intervento in termini di trasformazione
del territorio per quanto concerne l’intero piazzale.
Infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), del t.u.
edilizia di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituiscono
nuova costruzione gli interventi di trasformazione
urbanistica comportanti la realizzazione di depositi di
merci o di materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione
di lavori cui consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato; di conseguenza è "a fortiori"
qualificabile come opera edile di nuova costruzione
la realizzazione di un piazzale in cemento, la quale
determina un "consumo di suolo" (con una
cementificazione che si sostituisce al piano naturale di
campagna) e dunque una trasformazione tendenzialmente
irreversibile di quest'ultimo (cfr. in termini Consiglio di
Stato, sez. V, 15.07.2014, n. 3700).
Il medesimo orientamento è seguito dalla giurisprudenza
penale (Cassazione penale sez. III 15.11.2016, n. 1308)
secondo cui integra un illecito edilizio l'esecuzione, in
assenza del permesso di costruire, di interventi finalizzati
a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e
materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del
terreno, in quanto tale attività, pur non comportando
un'edificazione in senso stretto, determina una
modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli è proprio.
3. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.02.2018 n. 753 - link a
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ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - VARI:
FAUNA E FLORA - Animali domestici - Divieto di
condurre cani sugli arenili durante la stagione balneare -
Legittimità.
E’ legittimo il divieto di condurre sugli arenili cani o
altri animali, anche se muniti di museruola e guinzaglio,
durante la stagione balneare.
L’obbligo dei comuni, previsto dall’art. 4, lett. i), della
L.R. n. 23/2000, di individuare durante la stagione balneare
“aree debitamente attrezzate” ove poter accedere con
i cani non comprende anche la ulteriore facoltà di condurre
i cani su tutto l’arenile, posto che, secondo la stessa
disposizione regionale, devono essere comunque assicurate le
necessarie condizioni igieniche (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 06.02.2018 n. 117 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9 d.m. n. 1444/1968 stabilisce in modo
inequivoco l’obbligo di osservare la distanza prevista
quando anche una sola delle pareti fronteggiantisi sia
finestrata e, nella disposizione, non vi è alcun vuoto
normativo che possa lasciar spazio a un’integrazione da
parte della normazione locale (come invece pretendono i
resistenti).
In definitiva, l’esistenza di una finestra è un dato di
fatto, che non può essere sovvertito da alcuna diversa
previsione di un regolamento edilizio.
---------------
E' giurisprudenza consolidata che:
a) l’art. 9 del d.m. ha un valore precettivo e inderogabile e
prevale sulla disciplina legislativa regionale salvo che
questa preveda deroghe al regime generale delle distanze nel
senso di porre limiti maggiori, nel rispetto del criterio di
ragionevolezza, o altrimenti -ai sensi dell’ultimo comma,
secondo periodo, di tale comma 9- se “inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo
e unitario di determinate zone del territorio”;
b) lo stesso art. 9, essendo stato emanato su delega del ricordato
art. 41-quinquies della legge urbanistica, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti edilizi, le quali devono essere annullate se
oggetto di impugnazione o comunque disapplicate per
l’effetto di sostituzione dovuto all’automatico inserimento
della clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Resta così definitivamente superata una risalente
giurisprudenza orientata in senso contrario alla
disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico
(fattispecie parallela a quella qui vagliata), la quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. n.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
---------------
Il Collegio ritiene che eventuale natura abusiva
dell’edificio e violazione delle norme inderogabili sulle
distanze si muovano su piani diversi e destinati a non
interferire reciprocamente.
Difatti, la finalità del d.m. n. 1444/1968 è quella di
tutelare sia l'interesse pubblico a un ordinato sviluppo
dell'edilizia, sia l'interesse pubblico alla salute dei
cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e
lesive della salute degli abitanti degli immobili.
Le relative distanze sono dunque coerenti con il
perseguimento dell'interesse pubblico, e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
---------------
18. In punto di diritto, la sentenza va egualmente
confermata nella parte in cui ha ritenuto il R.E.C. in
contrasto con il d.m. n. 1444/1968.
L’art. 9 di questo stabilisce in modo inequivoco l’obbligo
di osservare la distanza prevista quando anche una sola
delle pareti fronteggiantisi sia finestrata (cfr. Cass.
civ., sez. II, 28.09.2007, n. 20574; Id., sez. II,
27.05.2011, n. 11842; Id., sez. II, 20.06.2011, n. 13547;
Id., sez. VI, 27.06.2012, n. 10753; Cons. Stato, sez. IV,
12.07.2002, n. 3929) e, nella disposizione, non vi è alcun
vuoto normativo che possa lasciar spazio a un’integrazione
da parte della normazione locale (come invece pretendono i
resistenti). In definitiva, l’esistenza di una finestra è un
dato di fatto, che non può essere sovvertito da alcuna
diversa previsione di un regolamento edilizio.
19. Il thema decidendum, quindi, è se questo giudice
di appello possa conoscere d’ufficio di tale acclarato
conflitto tra norme, disapplicando la norma locale o
comunque (in qualunque modo si voglia ricostruire
l’operazione ermeneutica relativa) facendo prevalere la
prescrizione del d.m., o al contrario questo gli sia
precluso dal divieto dei nova in appello posto dall’art. 104
c.p.a., non essendo stato il motivo dedotto con l’originario
ricorso introduttivo del giudizio.
20. Per chiarezza sistematica, è opportuno rammentare che il
d.m. n. 1444/1968 discende dall’art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, che ha aggiunto un art. 41-quinquies
alla legge 17.08.1942, n. 1150 (legge urbanistica).
L’art. 41-quinquies assoggetta a specifiche limitazioni la
edificazione a scopo residenziale nei Comuni sprovvisti di
piano regolatore generale o di programma di fabbricazione.
Gli ultimi due commi stabiliscono: “In tutti i Comuni, ai
fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati
limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi.
I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono
definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del
Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per
l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori
pubblici. In sede di prima applicazione della presente
legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi
dall'entrata in vigore della medesima".
21. Sul piano del rapporto tra fonti, è giurisprudenza
consolidata che:
a) l’art. 9 del d.m. ha un valore precettivo e
inderogabile e prevale sulla disciplina legislativa
regionale salvo che questa preveda deroghe al regime
generale delle distanze nel senso di porre limiti maggiori,
nel rispetto del criterio di ragionevolezza, o altrimenti
-ai sensi dell’ultimo comma, secondo periodo, di tale comma
9- se “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio” (cfr. Corte cost., sentenze
16.06.2005, n. 232; 21.05.2014, n. 134; 15.07.2016, n. 178;
20.07.2016, n. 185; 03.11.2016, n. 231; 24.02.2017, n. 41;
da ultimo anche Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2017, n. 5895);
b) lo stesso art. 9, essendo stato emanato su
delega del ricordato art. 41-quinquies della legge
urbanistica, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le
sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, le quali
devono essere annullate se oggetto di impugnazione o
comunque disapplicate per l’effetto di sostituzione dovuto
all’automatico inserimento della clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata (cfr. Cass. civ., sezioni unite,
07.07.2011, n. 14953; Id., sez. II, 12.02.2016, n. 2848;
Id., sez. II, 23.02.2017, n. 4683; Cons. Stato, sez. IV,
27.10.2011, n. 5759; Id., sez. IV, 22.01.2013, n. 354; Id.,
sez. IV, 21.10.2013, n. 5108; Id., sez. IV, 04.08.2016, n.
3522).
22. Resta così definitivamente superata una risalente
giurisprudenza orientata in senso contrario alla
disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico
(fattispecie parallela a quella qui vagliata), la quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. n.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929; sez. IV,
19.04.2005, n. 1795).
23. In virtù di tali principi, era insussistente l’invocato
carattere derogatorio del regolamento comunale, che il primo
giudice ha erroneamente escluso di potere conoscere
d’ufficio pure in mancanza della domanda di parte.
24. Rimane solo da valutare se, ad applicare l’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, faccia ostacolo l’asserito carattere
abusivo, totale o parziale, della parte degli appellanti.
Il TAR ha dato atto della questione sollevata, ma non l’ha
sviluppata e decisa ritenendo evidentemente prevalente ed
esaustivo il dato dell’omessa impugnazione del R.E.C. in
parte qua.
25. Premesso che -come prima si è ricordato- la questione è
ancora sub iudice di fronte a questo Consiglio di
Stato, e nonostante alcuni precedenti di segno contrario,
ricordati nella memoria dei resistenti in data 16.12.2017 e
nella discussione orale, il Collegio ritiene che eventuale
natura abusiva dell’edificio e violazione delle norme
inderogabili sulle distanze si muovano su piani diversi e
destinati a non interferire reciprocamente. Difatti, la
finalità del d.m. n. 1444/1968 è quella di tutelare sia
l'interesse pubblico a un ordinato sviluppo dell'edilizia,
sia l'interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando
il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute
degli abitanti degli immobili.
Le relative distanze sono dunque coerenti con il
perseguimento dell'interesse pubblico, e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
29.02.2016, n. 856; sez. IV, 03.08.2016, n. 3510; sez. IV,
08.05.2017, n. 2086).
Ciò posto, il carattere abusivo dell’edificio di riferimento
non può essere una scusante per sottrarsi al rispetto della
normativa pubblicistica sulle distanze, ferma restando per i
controinteressati la possibilità di attivare gli strumenti
che, sotto profili differenti, l’ordinamento mette loro a
diposizione per tutelarne il buon diritto (segnalazioni e
diffide all’autorità competente, domande esperibili di
fronte al G.O.).
26. Il primo motivo dell’appello è fondato e va
pertanto accolto. Restano assorbiti i motivi ulteriori.
Ne segue la riforma della sentenza del Tribunale regionale
con l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di
primo grado e l’annullamento, per l’effetto, del permesso di
costruire impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.02.2018 n. 702 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per giurisprudenza costante, le osservazioni
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una
dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state
esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le
scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione
urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle
singole destinazioni di zona del piano regolatore generale,
sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino
inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà.
---------------
Con il secondo e terzo motivo l’istante si
duole della violazione dell’art. 7 della LR n. 12/2005,
degli artt. 3 e 6 della L. n. 241/1990, dell’art. 118 della
Costituzione e del Trattato di Maastricht per la violazione
del principio di sussidiarietà, nonché dell’eccesso di
potere per carenza dei presupposti, difetto di istruttoria e
di motivazione, illogicità, contraddittorietà ed ingiustizia
manifesta, atteso che il Comune avrebbe proceduto
all’approvazione del PGT senza considerare minimamente
l’apporto fornito dalle osservazioni presentate dal
ricorrente e senza fornire un’adeguata motivazione sul
punto.
In proposito si osserva che, per giurisprudenza costante, le
osservazioni costituiscono un mero apporto collaborativo
alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno
luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e
ragionevole, in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano.
Sono, invero, riservate alla pubblica amministrazione le
scelte discrezionali operate nell’esercizio della funzione
urbanistica di pianificazione del territorio in ordine alle
singole destinazioni di zona del piano regolatore generale,
sindacabili in sede di legittimità solo ove risultino
inficiate da evidenti errori di fatto o da vizi di manifesta
illogicità o contraddittorietà (Cons. Stato, Sez. IV. Sent.
n. 874, 24.02.2017).
Tali vizi non si riscontrano nella fattispecie all’esame del
Collegio, nella quale l’Amministrazione comunale ha
analizzato le osservazioni dell’istante e ha controdedotto
in merito alle stesse mediante la specificazione delle
ragioni che ne hanno determinato la reiezione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 04.02.2018 n. 418 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Sito di
Interesse nazionale - Edilizia su aree ubicate all'interno
del perimetro (SIN) - Divieto di frazionamento degli
impianti fotovoltaici - Effetti di una falsa attestazione -
Vizio ab origine - DIRITTO DELL'ENERGIA - Realizzazione e
autorizzazione di impianti di produzione di energia da fonti
rinnovabili - Procedura autorizzatoria semplificata - Limiti
- AGRICOLTURA - Impianti fotovoltaici in ambito agricolo -
Moduli collocati a terra in aree agricole - Esclusione
all'accesso agli incentivi statali - Artt. 12, 22, 23, 31 e
44 d.P.R. n. 380/2001.
Le disposizioni in tema di autorizzazione alla realizzazione
di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili
sono contenute d.lgs. 29.12.2003, n. 387, di attuazione
della direttiva 2001/77/CE, il cui art. 12 stabilisce, al
comma 3, che la costruzione e l'esercizio degli impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili sono
soggetti ad un'autorizzazione unica rilasciata dalla
Regione, nel rispetto delle normative vigenti in materia di
tutela dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico
- artistico, che costituisce, ove occorra, variante allo
strumento urbanistico.
Il successivo. comma 5 dello stesso articolo ha anche
previsto una procedura autorizzatoria semplificata in
relazione agli impianti con una capacità di generazione
inferiore rispetto alle soglie di cui alla tabella A,
allegata al medesimo decreto, diversificate per ciascuna
fonte rinnovabile: agli impianti rientranti nelle suddette
soglie si applica la disciplina della d.i.a., di cui al
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 22 e 23.
Solo con la nuova regolamentazione del 2011, il legislatore
statale ha dato facoltà alle Regioni di estendere l'ambito
di applicazione del procedimento autorizzatorio semplificato
fino ad una soglia massima di potenza di energia elettrica
pari a 1 Mw; fermo restando il vincolo per la legislazione
regionale costituito dai limiti posti dall'art. 6 citato,
che, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost.
n. 99 del 2012), esprime un principio fondamentale, sicché
il legislatore regionale è tenuto a rispettarlo
nell'esercizio della sua potestà legislativa concorrente.
Un'ulteriore disposizione specifica per gli impianti
fotovoltaici in ambito agricolo è stata poi prevista dal
d.l. 24.01.2012, n. 1, art. 65, convertito dalla legge
24.03.2012, n. 27, che, nel prescrivere in generale che agli
impianti solari fotovoltaici con moduli collocati a terra in
aree agricole non è più consentito l'accesso agli incentivi
statali di cui al d.lgs. 03.03.2011, n. 28, ha comunque
fatto salve le situazioni pregresse, confermando la
perdurante applicabilità del d.lgs. 28 del 2011, art. 10,
comma 6 (inizialmente abrogato dallo stesso d.l., ma fatto
rivivere dalla legge di conversione).
Nella specie, il principio secondo il quale il divieto di
frazionamento degli impianti fotovoltaici era da
considerarsi già vigente prima dell'approvazione della legge
regionale 31/2008, in virtù di quanto statuito dalla
legislazione statale, segnatamente dall'art. 12, comma 3 del
d.lgs. 387/2003 (Cass. Sez. 3, n. 40561 del 25/06/2014,
Buglisi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi realizzabili alternativamente con
denunzia di inizio attività ovvero con permesso di costruire
- Assenza della denunzia o la totale difformità delle opere
eseguite rispetto alla d.i.a. - Reato previsto dall'art. 44,
comma primo, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Integrazione -
Rilevanza della consistenza concreta dell'intervento.
In materia edilizia, nel caso di interventi realizzabili
alternativamente con denunzia di inizio attività ovvero con
permesso di costruire di cui all'art. 22, comma terzo, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, l'assenza della denunzia o la
totale difformità delle opere eseguite rispetto alla d.i.a.
effettivamente presentata integrano il reato previsto
dall'art. 44, comma primo, lett. b), del decreto e ciò in
quanto la disciplina sanzionatoria penale non è correlata
alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla
consistenza concreta dell'intervento (Sez. 3, n. 47046 del
26/10/2007, Soldano; Conf. Sez. 5, n. 23668 del 26/04/2005,
Giordano ed altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie - Permesso di costruire -
Interventi eseguiti in totale difformità - Differenza tra
interventi in "totale" o "parziale" difformità -
Giurisprudenza.
L'articolo 31 del d.P.R. 380/2001, precisa che sono
interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di
costruire quelli che comportano la realizzazione di un
organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi
edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da
costituire un organismo edilizio o parte di esso con
specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
Pertanto, si considera in "totale difformità"
l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentite per caratteristiche tipologiche,
plano-volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione,
mentre, invece, in "parziale difformità" l'intervento
che, sebbene contemplato dal titolo abilitativo, all'esito
di una valutazione analitica delle singole difformità
risulti realizzato secondo modalità diverse da quelle
previste a livello progettuale (Sez. 3, n. 40541 del
18/06/2014, Cinelli e altri; Conf. Sez. 3, n. 49669 del
24/09/2015, lngmar e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Siti di interesse nazionale (SIN) -
Interventi di caratterizzazione o bonifica - Edificabilità
delle aree ricomprese nel SIN - Subordine alla completa
bonifica dei suoli - Giurisprudenza amministrativa - Artt.
242 e 252 d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, la stessa procedura di individuazione
dei siti di interesse nazionale ne evidenzia la potenziale
contaminazione, con la conseguenza che il presupposto
indicato dall'art. 242 d.lgs. 152/2006 del "verificarsi
di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare
il sito" che obbliga all'attivazione delle procedure
operative ed amministrative indicate nel medesimo articolo
resta assorbito dall'inclusione dell'area nel sito di
interesse nazionale (TAR Lazio (RM), Sez. I, n. 8920 del
15/10/2008), giungendo anche a ritenere che l'edificabilità
delle aree ricomprese nel sito inquinato d'interesse
nazionale è subordinata alla completa bonifica dei suoli (TRGA
Trento, Sez. Unica, n. 382, del 20/11/2013).
Ne consegue che la inclusione di una determinata area
all'interno del perimetro di un sito di interesse nazionale
ne presuppone la potenziale contaminazione rendendola
soggetta a caratterizzazione.
RIFIUTI - Bonifica di siti di interesse
nazionale (SIN) - Caratteristiche del sito, quantità e
pericolosità degli inquinanti - Rischio sanitario ed
ecologico - Procedura perimetrazione e bonifica del sito.
Secondo quanto disposto dall'art. 252, comma 1, d.lgs. n.
152/2006, i siti di interesse nazionale, ai fini della
bonifica, sono individuabili in relazione alle
caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli
inquinanti presenti, al rilievo dell'impatto sull'ambiente
circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico,
nonché di pregiudizio per i beni culturali ed ambientali.
All'individuazione di tali siti si provvede, secondo quanto
dispone il comma 2 del medesimo articolo, con decreto del
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare, d'intesa con le regioni interessate, secondo principi
e criteri direttivi specificamente indicati.
Inoltre, specifica il comma 3 dell'art. 252, ai fini della
perimetrazione del sito sono sentiti i comuni, le province,
le regioni e gli altri enti locali, assicurando la
partecipazione dei responsabili nonché dei proprietari delle
aree da bonificare, se diversi dai soggetti responsabili. Il
successivo comma 4 attribuisce al Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministero
delle attività produttive, la procedura di bonifica di cui
all'art. 242 d.lgs. 152/2006 dei siti di interesse nazionale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
RISARCIMENTO DANNO - Condanna generica al
risarcimento dei danni in favore della parte civile -
Accertamento relativo all'esistenza di un danno risarcibile
- Fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose -
Esclusione dell'esistenza stessa di un danno eziologicamente
connesso con il fatto illecito.
In tema di risarcimento del danno, l'accertamento relativo
all'esistenza di un danno risarcibile, come, per la condanna
generica al risarcimento dei danni in favore della parte
civile, non sia necessario che il danneggiato dia la prova
della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di
causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito,
essendo sufficiente l'accertamento di un fatto
potenzialmente produttivo di conseguenze dannose e ciò in
quanto la pronuncia, in tal caso, costituisce una mera
declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento
relativo tanto alla misura quanto alla stessa esistenza del
danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione, che
può peraltro pervenire eventualmente anche alla esclusione
dell'esistenza stessa di un danno eziologicamente connesso
con il fatto illecito (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di
Fatta e altri; Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio e
altri; Sez. 5, n. 36657 del 05/06/2008, Ballandi ed altre
prec. conf.).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Pronuncia
assolutoria - Reato dichiarato estinto per amnistia o per
prescrizione - Presenza della parte civile e statuizioni
civili - Valutazione del giudice - RISARCIMENTO DANNO -
Risarcimento dei danni cagionati cagionati ambito di
operatività degli artt. 129 e 578 cod. proc. pen. -
Giurisprudenza.
La pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma
secondo, cod. proc. pen. è consentita al giudice solo quando
emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile,
le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la
commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua
rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il
giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con
qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento ed
appartenga, pertanto, più al concetto di «Constatazione»,
ossia di percezione «ictu oculi», che a quello di «apprezzamento».
L'«evidenza» richiesta dal menzionato art. 129, comma
2, cod. proc. pen. «presuppone la manifestazione di una
verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere
superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un
accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in
qualcosa di più di quanto la legge richiede per
l'assoluzione ampia».
Sicché, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel
merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della
prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di
una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello,
sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia
chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il
compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili,
evidenziando quindi la necessità di un raccordo tra l'art.
129 e l'art. 578 cod. proc. pen..
Tale ultima disposizione, come è noto, prevede che il
giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare
estinto per amnistia o per prescrizione il reato per il
quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle
restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono
tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti dei capi
della sentenza che concernono gli interessi civili. Ai
principi appena ricordati si sono uniformate le sentenze
successive (cfr. Sez. 2, n. 29499 del 23/05/2017, PC. in
proc. Ambrois; Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N.; Sez. 5,
n. 3869 del 07/10/2014 (dep. 2015), Lazzari; Sez. 2, n.
38049 del 18/07/2014, De Vuono; Sez. 1, n. 42039 del
14/01/2014, Simigliani; Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013,
Galati e altri; Sez. 6, n. 4855 del 07/01/2010, Damiani e
altro), ribadendo la necessità, in caso di condanna in primo
grado al risarcimento dei danni, di un esaustivo
apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Motivazione
del provvedimento mediante la tecnica del cd. "copia e
incolla" o motivazione per relationem - Motivazione
meramente apparente.
In tema processuale, la compilazione della motivazione del
provvedimento mediante la tecnica del cd. "copia e
incolla" si traduce, nella sostanza, nella redazione di
una motivazione per relationem, laddove l'atto,
anziché essere richiamato, viene testualmente trascritto nel
provvedimento che lo "richiama" e che ciò che non è
ammesso è la pedissequa riproduzione del provvedimento
impugnato, senza dare conto degli specifici motivi di
impugnazione a censura delle soluzioni adottate dal giudice
di primo grado e senza argomentare sull'inconsistenza o
sulla non pertinenza degli stessi, poiché in tal caso la
motivazione sarebbe meramente apparente (così, in
motivazione, Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014. Barone e
altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.02.2018 n. 5075 - link a
www.ambientediritto.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Parcella
legali anche al ribasso. Liquidazione su un documento recante prezzo
diverso. Secondo la Corte di cassazione in mancanza d'accordo cade il
carattere vincolante.
Professionisti e compensi: il giudice può liquidare una parcella in luogo di
un'altra, quand'anche, dagli atti, risulti un documento nel quale
inizialmente è stato praticato un prezzo diverso.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella
sentenza 02.02.2018 n. 2575: a parere dei giudici della II
sezione civile «la parcella per il pagamento dei compensi non ha
carattere vincolante salvo che la stessa sia conforme a un pregresso accordo
o espressamente accettata dal cliente».
Intervenuto sul ricorso di una società di diritto spagnolo che, tra gli
altri motivi di censura, lamentava l'eccessività del compenso richiesto, il
collegio giudicante ha chiarito che il giudice di merito chiamato a decidere
laddove lo stesso professionista, dopo aver presentato al proprio cliente
una parcella per il pagamento dei compensi spettantigli, redatta in
conformità dei minimi tabellari, richieda, per le stesse attività svolte, un
pagamento maggiore sulla base di una nuova parcella fatta salva l'ipotesi
nella quale la prima abbia carattere vincolante, ben può valutare
l'esistenza di «elementi –discrezionalmente apprezzabili– che facciano
ritenere giustificata e legittima la maggior richiesta, fermo restando il
necessario apprezzamento di congruità degli onorari pretesi sulla base e in
funzione dei parametri previsti dalla tariffa professionale, il quale, se
adeguatamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità».
Questo, ha continuato il collegio, perché nella sua formulazione iniziale la
parcella è stata redatta tenendo conto, oltre alla valutazione
dell'adeguatezza dell'opera svolta, anche di altre circostanze, sia di
natura oggettiva che soggettiva (come il rapporto amichevole con il cliente,
la situazione di difficoltà economica, l'attesa di un immediato
soddisfacimento della pretesa), che lo hanno indotto a contenere
particolarmente la richiesta e che, tuttavia, in sede di giudizio hanno
finito con il non sussistere più; in altre parole circostanze che hanno
finito con l'assumere un ruolo determinante o, quanto meno, concorrente.
Così argomentando ha dunque rigettato il ricorso e condannato la società
ricorrente al pagamento delle spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe,
annulli sistematici ko. No a motivazioni copincolla da parte dei giudici di
pace. Sentenza del Tar del Lazio pone anche
l'accento sull'incompatibilità ambientale.
Finisce fuori strada il magistrato onorario che annulla sistematicamente le
multe per eccesso di velocità con motivazioni copia incolla. In particolare
se risulta evidente anche una sua manifesta incompatibilità ambientale.
Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la
sentenza 01.02.2018 n. 1210.
Un giudice di pace del comune di Rieti non è stato confermato nell'incarico
dal Consiglio superiore della magistratura a causa di una serie di pareri
negativi espressi dai suoi superiori. Contro questa decisione l'interessato
ha proposto censure al Tar ma senza successo.
Il presidente del Tribunale, in particolare, ha evidenziato che molte
sentenze adottate dal magistrato non togato in materia di autovelox
risultavano particolarmente originali e non allineate al dettato normativo e
alla giurisprudenza denotando un insufficiente aggiornamento professionale
dell'estensore.
Inoltre a parere del Consiglio giudiziario di Roma il giudice di pace ha
adottato troppi rinvii delle udienze e sono state evidenziate numerose
incompatibilità ambientali con alcuni avvocati del luogo. Ma anche sullo
svolgimento della sua attività di avvocato nello stesso circondario
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.02.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'ordinanza che inibisce le emissioni sonore deve essere
temporanea e provvisoria.
L’art. 9 della legge 26.10.1995, n. 447
stabilisce che “Qualora sia richiesto da eccezionali ed
urgenti necessità di tutela della salute pubblica o
dell'ambiente il sindaco (…) con provvedimento motivato,
possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore,
inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate
attività”.
La norma pare, pertanto, eloquente: sancisce, infatti,
espressamente che in presenza di una situazione di
eccezionale necessità ed urgenza, legata all'inquinamento
acustico, il sindaco, per salvaguardare la salute pubblica o
l'ambiente, può disporre il ricorso a speciali forme di
contenimento e addirittura di abbattimento delle emissioni
sonore, compresa l'inibitoria, parziale o totale, di una
determinata attività. Non ritiene, però, sufficiente che
sussista l'urgenza di provvedere, ma richiede che si tratti
di situazione eccezionale, che non può sussistere laddove le
circostanze da cui deriva la situazione dannosa abbiano
carattere permanente, giacché la nozione stessa di
eccezionalità richiama l'idea di imprevedibilità di una
situazione. E soprattutto deve trattarsi di un pericolo
attuale.
Nell'intento del legislatore, in armonia con la "categoria
generale" di appartenenza (ovvero quella delle ordinanze
contingibili e urgenti), la misura in questione dev'essere
connotata da temporaneità, per cui la sua efficacia è
provvisoria, potendo al massimo persistere finché il
pericolo (imprevedibile) non sia cessato: il termine, anche
quando non venga indicato nell'ordinanza sotto la forma di
una data certa, può comunque ritenersi individuato
implicitamente nel superamento della situazione eccezionale.
---------------
Oggetto del presente giudizio è l’ordinanza contingibile e
urgente n. 73/2017, prot. n. 23077, in data 08.08.2017, con
cui il Sindaco del Comune di Tavagnacco, sulla scorta degli
esiti delle rilevazioni effettuate dall’ARPA FVG dal 10 al
14.04.2017, dal 9 al 15.05.2017 e in data 04.05.2017, con
ultimo accesso per tutte in data 21.06.2017, ha ordinato
alla ricorrente l’immediata adozione di “tutti gli
accorgimenti tecnici necessari a limitare le emissioni
sonore inquinanti, riportandole entro i limiti di legge”,
nonché la predisposizione di un “piano di bonifica,
redatto da tecnico competente in acustica, che indichi
interventi/modalità e accorgimenti tecnico-operativi
finalizzati al contenimento e abbattimento delle emissioni
sonore inquinanti collegate precipuamente allo scarico dei
materiali e alla movimentazione degli stessi sullo spazio
esterno posto sul retro della proprietà, su via Cadore,
oltre che al transito di autocarri e camion, entro e non
oltre 20 gg. dalla data di notifica del presente
provvedimento”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio non ravvisa, infatti, sussistere valide ragioni
per discostarsi dalla prognosi formulata nella fase
cautelare, atteso, tra l’altro, che il Comune resistente non
ha offerto nemmeno con la memoria conclusionale alcun
ulteriore spunto di riflessione, idoneo a indurre questo
giudice a mutare orientamento, essendosi, invero, limitato a
richiamare alcuni precedenti giurisprudenziali e a svolgere
generiche deduzioni sul potere di ordinanza, senza pur
tuttavia soffermarsi su quello in concreto esercitato e, in
particolare, sulle circostanze fattuali specifiche,
omettendo, dunque, di svolgere persuasive considerazioni
circa l’eventuale sussumibilità della fattispecie concreta
in quella astratta legale.
Non può prescindersi, invero, dal rilevare che l’art. 9
della legge 26.10.1995, n. 447 stabilisce che “Qualora
sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco (…) con
provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso
temporaneo a speciali forme di contenimento o di
abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria
parziale o totale di determinate attività”.
La norma pare, pertanto, eloquente: sancisce, infatti,
espressamente che in presenza di una situazione di
eccezionale necessità ed urgenza, legata all'inquinamento
acustico, il sindaco, per salvaguardare la salute pubblica o
l'ambiente, può disporre il ricorso a speciali forme di
contenimento e addirittura di abbattimento delle emissioni
sonore, compresa l'inibitoria, parziale o totale, di una
determinata attività. Non ritiene, però, sufficiente che
sussista l'urgenza di provvedere, ma richiede che si tratti
di situazione eccezionale, che non può sussistere laddove le
circostanze da cui deriva la situazione dannosa abbiano
carattere permanente, giacché la nozione stessa di
eccezionalità richiama l'idea di imprevedibilità di una
situazione. E soprattutto deve trattarsi di un pericolo
attuale (C.d.S., V, 10.02.2010, n. 670).
Nell'intento del legislatore, in armonia con la "categoria
generale" di appartenenza (ovvero quella delle ordinanze
contingibili e urgenti), la misura in questione dev'essere
connotata da temporaneità, per cui la sua efficacia è
provvisoria, potendo al massimo persistere finché il
pericolo (imprevedibile) non sia cessato: il termine, anche
quando non venga indicato nell'ordinanza sotto la forma di
una data certa, può comunque ritenersi individuato
implicitamente nel superamento della situazione eccezionale
(in termini TAR Campania, Napoli, V, 30.12.2016, n. 6035).
Orbene, nel caso di specie, l’ordine emesso è, però, carente
sia sotto il profilo della situazione di eccezionale (e
attuale) necessità e urgenza, sia sotto quello della sua
temporaneità.
Al di là del fatto che la situazione in cui opera la società
Ca. è nota e che i problemi di asserito inquinamento
acustico, cui la medesima ha, peraltro, cercato di porre
rimedio, eseguendo, nel tempo, vari interventi di
contenimento e mitigazione del rumore lungo il perimetro del
comparto, sono ascrivibili più all’irragionevolezza e
incoerenza delle scelte urbanistiche del Comune medesimo,
che alle modalità in cui essa esercita la propria attività,
il Collegio non può assolutamente omettere di rilevare che
l’ordinanza emessa si fonda su rilievi fonometrici risalenti
ad alcuni mesi prima della sua emissione e non consta che,
da allora, i privati presso le cui abitazioni i medesimi
sono stati effettuati abbiano denunciato l’aggravarsi o il
mero reiterarsi del problema, sebbene in tal senso
espressamente invitati dal personale dell’ARPA che ha
proceduto alle misurazioni.
E’ palese, dunque, che il provvedimento non costituisce
assolutamente il giusto e legittimo rimedio a una situazione
di inquinamento acustico di carattere urgente, eccezionale e
attuale.
Del pari, il provvedimento medesimo difetta sotto il
presupposto della temporaneità, essendo evidente che mira,
unicamente, a “spostare” in capo alla ricorrente
l’onere di adottare gli accorgimenti tecnico-operativi
necessari per ovviare, in via definitiva, alle problematiche
di “convivenza” insorte tra la ricorrente medesima e
gli abitanti delle aree contermini, riconducibili, tuttavia,
più che all’effettiva eccessiva rumorosità dell’attività
posta in essere dalla medesima, al disordinato sviluppo
urbanistico che è stato impresso alla zona, ove, per
l’appunto, accanto all’area a vocazione industriale,
nell’ambito della quale da sempre la società Ca. svolge la
propria attività produttiva, è stata successivamente
consentita la realizzazione di una zona a vocazione
urbanistica residenziale.
Le considerazioni sin qui svolte consentono, quindi, di
concludere per la fondatezza del I motivo di gravame, che
va, dunque, accolto.
Sicché, assorbite tutte le ulteriori censure dedotte da
parte ricorrente, dal cui eventuale accoglimento la parte
medesima non potrebbe, comunque, trarre maggiore utilità, il
ricorso va, in definitiva, accolto e, per l’effetto,
annullata l’ordinanza impugnata (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 01.02.2018 n. 26 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela dei beni culturali e ambientali - Reato di
cui all'art. 181, d.lgs. n.42/2004 - Offensività della
condotta - Reato paesaggistico - Natura di pericolo formale
ed astratto - Irrilevanza condizioni dell'area - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Autorizzazione e controllo.
Il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 è di
pericolo formale ed astratto per la cui sussistenza non è
necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le
condotte relative ad interventi di entità talmente minima da
non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di
un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano
inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del
paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela
l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione
degli adempimenti formali, quali la richiesta di
autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta
al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale
funzione in maniera efficace e tempestiva (Cass. Sez. 3, n.
37337 del 16/04/2013, Ciacci; Sez. 3, n. 39049 del
20/03/2013, Bortini; Sez. 3, n. 38051 del 03/06/2004,
Caletta; Sez. 3, n. 40862 del 02/10/2001, Fara).
Configurabilità del reato paesaggistico
- Luoghi già urbanizzati o compromessi - Irrilevanza
condizioni dell'area.
Ai fini della configurazione del reato paesaggistico, di cui
all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, non ha rilevanza alcuna
il fatto che l’opera sia stata realizzata in zona fortemente
abitata e urbanizzata, servita da pubblica illuminazione e
fornitura idrica.
Una simile deduzione si fonda sull’erroneo presupposto che
il vincolo paesaggistico comporti sempre e comunque l’inedificabilità
assoluta delle aree che ne sono oggetto o che comunque non
possa riguardare luoghi già urbanizzati o addirittura “compromessi”
e ciò al fine di evitarne l’ulteriore “compromissione”
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.01.2018 n. 4567 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004 è di pericolo formale ed astratto per la cui
sussistenza non è necessario un effettivo pregiudizio per
l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le
condotte relative ad interventi di entità talmente minima da
non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di
un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano
inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del
paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela
l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione
degli adempimenti formali, quali la richiesta di
autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta
al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale
funzione in maniera efficace e tempestiva.
---------------
3.2. Quanto alla eccepita inoffensività della condotta
integrante il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del
2004, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza
di questa Corte secondo la quale il reato di cui all'art.
181 d.lgs. n. 42 del 2004 è di pericolo formale ed astratto
per la cui sussistenza non è necessario un effettivo
pregiudizio per l'ambiente.
Ne consegue che non sono penalmente rilevanti solo le
condotte relative ad interventi di entità talmente minima da
non potere dare luogo, neppure in astratto, al pericolo di
un pregiudizio ai beni protetti e che dunque si prospettano
inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del
paesaggio e dell'ambiente in quanto la fattispecie tutela
l'ambiente in via anticipata, sanzionando la violazione
degli adempimenti formali, quali la richiesta di
autorizzazione, che devono assicurare che la P.A. preposta
al controllo sia posta in condizioni di svolgere tale
funzione in maniera efficace e tempestiva (in questo senso,
Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3,
n. 39049 del 20/03/2013, Bortini, Rv. 256426; Sez. 3, n.
38051 del 03/06/2004, Coletta, Rv. 230038; Sez. 3, n. 40862
del 02/10/2001, Fara, Rv. 220356).
3.3. Nel caso in esame è escluso che l'intervento edilizio
descritto nella premessa possa essere definito di "minima
entità" ed inidoneo in astratto a compromettere i valori
tutelati dal vincolo. Né ha rilevanza alcuna il fatto che
l'opera sia stata realizzata in zona fortemente abitata e
urbanizzata, servita da pubblica illuminazione e fornitura
idrica.
Una simile deduzione si fonda sull'erroneo presupposto che
il vincolo paesaggistico comporti sempre e comunque l'inedificabilità
assoluta delle aree che ne sono oggetto o che comunque non
possa riguardare luoghi già urbanizzati o addirittura "compromessi"
e ciò al fine di evitarne l'ulteriore "compromissione"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.01.2018 n. 4567). |
EDILIZIA PRIVATA:
È necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia
di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale
ristrutturazione dell’immobile preesistente, con incremento
delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore
carico urbanistico.
La disciplina edilizia del soppalco,
ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di
un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo
univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle
caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire
quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti
una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente,
ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con
incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva,
ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece
nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell'immobile.
In linea con l’indirizzo suindicato si dispiega la
giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente,
evidenziato come la realizzazione di un soppalco non rientra
nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento
conservativo, ma nel novero degli interventi di
ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica
della superficie utile dell'appartamento, con conseguente
aggravio del carico urbanistico.
Tanto è a dirsi nel caso di specie, anche in ragione della
destinazione d’uso dell’ambiente realizzato che, quale
cabina armadio, costituisce un’estensione della superficie
utile dell’appartamento.
---------------
... per l'annullamento della disposizione dirigenziale n.
369 del 29.09.2011, con la quale il Comune di Napoli ha
ordinato il ripristino dello stato dei luoghi tramite
demolizione di un soppalco di 9,00 mq., realizzato
nell'appartamento in via ... n. 6, piano II;
...
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua
sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal
Comune attraverso i propri organi.
Risulta, invero, acquisito agli atti di causa che il
ricorrente ha realizzato, in assenza dei prescritti titoli
abilitativi, un soppalco in legno sorretto da travi di
acciaio di mq 9,00.
Il provvedimento impugnato, contrariamente a quanto dedotto,
riflette con particolare nitore la traiettoria argomentativa
su cui riposa.
Ed, invero, oppone l’assenza di titoli abilitativi, la
mancanza dei requisiti di abitabilità, la riconducibilità
della fattispecie di illecito qui in rilievo alla specie
della cd. ristrutturazione abusiva.
Orbene, mette conto evidenziare che, contrariamente a quanto
dedotto, il soppalco qui in rilievo non risulta affatto
preceduto da una d.i.a., riferendosi il suddetto titolo su
cui indugia il ricorrente riferito ad altra analoga opera
rinvenuta all’interno dell’appartamento.
Segnatamente, all’interno dell’unità immobiliare di
pertinenza del ricorrente sono state rinvenuti 4 soppalchi,
risultando solo 3 supportati da una dia (un soppalco di mq.
9 risulta assentito con D.I.A. n. 2390 del 2009 e successiva
integrazione prot. 4113 del 2009, due ulteriori soppalchi di
mq. 15 e di mq. 8 sono stati assentiti con D.I.A. n. 547 del
2001) mentre quello qui in rilievo, adibito a cabina
armadio, è sprovvisto di titolo abilitativo.
Allo stesso modo, prive di pregio si rivelano le
contestazioni con le quali il ricorrente deduce che vi
sarebbe un evidente errore di misurazione, essendo stato il
soppalco realizzato nel pieno rispetto dell'altezza prevista
dalla vigente normativa, e cioè in ragione di m. 2,40 e non
2,30 m. L'altezza del soppalco, secondo il ricorrente,
andrebbe misurata prescindendo dagli elementi di rifinitura
e cioè scorporando le dimensioni di tali elementi,
costituiti dalla controsoffittatura all'intradosso del
soppalco e dal rivestimento in parquet posto sul piano di
calpestio dell'appartamento.
Il costrutto giuridico di parte ricorrente non può, di
contro, essere condiviso in quanto, ed indipendentemente dal
materiale e dalle tecniche costruttive utilizzate, ciò che
assume rilievo ai fini della misurazione è la distanza che
separa il pavimento dal soffitto nella definitiva
conformazione degli ambienti sottoposti a misurazione.
E’, infatti, il suddetto assetto, nella sua attuale
versione, che va validato rispetto ai parametri di abilità
prescritti dalla disciplina di settore.
Tanto refluisce in negativo sulla vivibilità degli spazi
realizzati, sia al di sotto che al di sopra del soppalco,
tenuto altresì conto della sua destinazione a cabina
armadio.
Infine, va condivisa la qualificazione dell’illecito come
ristrutturazione abusiva e la spedizione della misura
ripristinatoria.
Com’è noto, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero
dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di un
locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo
univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle
caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire
quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti
una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente,
ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con
incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva,
ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece
nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell'immobile (Consiglio di Stato, sez. VI, 02/03/2017, n.
985).
In linea con l’indirizzo suindicato si dispiega la
giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente,
evidenziato come la realizzazione di un soppalco non rientra
nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento
conservativo, ma nel novero degli interventi di
ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica
della superficie utile dell'appartamento, con conseguente
aggravio del carico urbanistico (cfr. Tar Sardegna, Sez. II,
23.09.2011, n. 952; Tar Lombardia, Milano, Sez. II,
11.07.2011, n. 1863; Tar Campania, Napoli, Sez. II,
21.03.2011, n. 1586).
Tanto è a dirsi nel caso di specie, anche in ragione della
destinazione d’uso dell’ambiente realizzato che, quale
cabina armadio, costituisce un’estensione della superficie
utile dell’appartamento.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il
ricorso va respinto siccome infondato (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 31.01.2018 n. 693 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una foto aerea di
Google Earth non è sufficiente per dichiarare la
decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei
lavori.
Per giurisprudenza risalente, l’onere
della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con
licenza edilizia incombe al Comune che ne dichiara la
decadenza, alla stregua del principio generale in forza del
quale i presupposti dell’atto adottato devono essere
accertati dall’autorità emanante.
Nel caso di specie detto onere probatorio è stato assolto
dall’ufficio comunale esclusivamente con riferimento alla
foto aerea estratta dal sito Google Earth recante come data
del volo il 07.04.2014.
Sennonché la questione del valore processuale di tale mezzo
è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza
amministrativa, presso la quale si è consolidato un
orientamento maggioritario –dal quale il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi- nel senso di non ritenere
che tali riscontri fotografici assicurino con certezza la
data del rilevamento.
In particolare si è precisato che i rilevamenti tratti da
Google Earth prodotti in giudizio non possano costituire, di
per sé ed in assenza di più circostanziati elementi (che nel
caso di specie l’amministrazione non ha fornito), documenti
idonei allo scopo di indicare la data di realizzazione di un
abuso e ciò, in particolare, in considerazione della
provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in
merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate
(come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it–
per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte potrebbero
essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide
rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle
informazioni relative ai metodi di esecuzione del
rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro,
che le immagini depositate in giudizio risultano essere
tratte dalla versione “base” del software e non da quelle
più evolute predisposte per scopi commerciali).
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza 13.09.2016, n. 22 con
la quale il dirigente del Settore Pianificazione e gestione
del territorio, Edilizia privata e pubblica, Servizio
Controllo edilizia e prevenzione abusi, ha ordinato la
demolizione di una casa colonica e il ripristino dello
status quo ante;
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Il rapporto 07.06.2016 n. 53417 del Servizio controllo
edilizia del Comune di Olbia, posto a fondamento dell’ordine
demolitorio impugnato, afferma che il fabbricato della
sig.ra Bo. era stato realizzato in assenza di titolo
edilizio in quanto la concessione edilizia n. 354/12
rilasciata al suo dante causa era decaduta per mancato
inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio del
titolo.
Nell’assunto del predetto Servizio di controllo edilizio
l’accertamento del mancato tempestivo inizio dei lavori
risulterebbe dalla foto aeree tratte dal sito Google
Earth (data del volo 07.04.2014).
Orbene, per giurisprudenza risalente, l’onere della prova
del mancato inizio dei lavori assentiti con licenza edilizia
incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua
del principio generale in forza del quale i presupposti
dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità
emanante (cfr: Cons. Stato, sez. V, 11.04.1990).
Nel caso di specie detto onere probatorio è stato assolto
dall’ufficio comunale esclusivamente con riferimento alla
foto aerea estratta dal sito Google Earth recante
come data del volo il 07.04.2014.
Sennonché la questione del valore processuale di tale mezzo
è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza
amministrativa, presso la quale si è consolidato un
orientamento maggioritario –dal quale il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi- nel senso di non ritenere
che tali riscontri fotografici assicurino con certezza la
data del rilevamento (cfr. TAR Campania, Napoli, n.
6118/2014).
In particolare si è precisato che i rilevamenti tratti da
Google Earth prodotti in giudizio non possano
costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati
elementi (che nel caso di specie l’amministrazione non ha
fornito), documenti idonei allo scopo di indicare la data di
realizzazione di un abuso e ciò, in particolare, in
considerazione della provenienza del suddetto rilevamento,
delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle
immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito –alla
pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it–
per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte
potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono
più nitide rispetto a quelle più recenti”), della
genericità delle informazioni relative ai metodi di
esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si
osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio
risultano essere tratte dalla versione “base” del
software e non da quelle più evolute predisposte per scopi
commerciali).
A quanto sopra consegue, quindi, tenuto conto che le foto
tratte da Google Earth hanno costituito l’unico
elemento probatorio posto dall’ufficio comunale a fondamento
della sua decisione, l’accoglimento del ricorso per difetto
di motivazione del provvedimento impugnato, con assorbimento
di ogni altra censura (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.01.2018 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Distinzione tra sottoprodotto e rifiuto
- Gli sfabbricidi provenienti da demolizione devono sempre
essere considerati rifiuti - Artt.184, 184-bis, D.Lgs. n.
152/2006.
Affinché una determinata sostanza od oggetto possa
considerarsi un sottoprodotto e non già un rifiuto è
necessario che soddisfi le condizioni fissate dall'art.
184-bis d.lgs. 152/2006 e dunque:
a) che tragga origine da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è
la produzione di tale sostanza o oggetto;
b) che è certo che sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un
successivo processo di produzione o di utilizzazione, da
parte del produttore o di terzi;
c) che possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) che l'ulteriore utilizzo sia legale, ossia soddisfi, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e non porti a impatti complessivi negativi
sull'ambiente o la salute umana.
Premessa la rilevanza della suddetta distinzione posto che
mentre il rifiuto implica un obbligo da parte del detentore
di disfarsene avviandolo al recupero o allo smaltimento con
tutti gli obblighi (e controlli) conseguenti, quali
l'autorizzazione, l'iscrizione all'Albo Nazionale etc.,
nessun obbligo sussiste per contro allorquando si tratti di
un bene qualificabile come sottoprodotto, deve tuttavia
osservarsi che i materiali da demolizione non possono, a
monte, essere ricompresi nel novero dei sottoprodotti non
soltanto perché l'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs.
152/2006 li qualifica espressamente come rifiuti speciali,
ma soprattutto perché non derivano da un processo di
produzione così come richiesto dall'art. 184-bis lett. a),
ovverosia da un'attività chiaramente finalizzata alla
realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la
lavorazione o la trasformazione di altri materiali, e dunque
non costituendo un quid novi derivante dall'elaborazione del
prodotto originario (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015 - dep.
28/07 /2015, Giulivi).
Di conseguenza, la demolizione di un edificio, che può
avvenire per motivi diversi, non è finalizzata alla
produzione di alcunché, bensì all'eliminazione dell'edificio
medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da
questa Corte, il fatto che la demolizione sia finalizzata
alla realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere
considerato il prodotto finale della demolizione, in quanto
tale attività non costituisce il prodromo di una
costruzione, che può essere effettuata anche
indipendentemente da precedenti demolizioni. Ne deriva
quindi che gli sfabbricidi, indipendentemente dall'attività
probatoria svolta dall'interessato, debbano sempre essere
considerati rifiuti.
RIFIUTI - Trasporto illecito di rifiuti
- Confisca obbligatoria del mezzo - Sopravvenuta iscrizione
all'Albo gestori ambientali - Ininfluenza - Natura
costitutiva del fatto - Data di consumazione del reato -
Illegittima pregressa utilizzazione - Giurisprudenza - Artt.
259, 256, c. 1°, D.Lgs. n.152/2006.
L'art. 259, 2 comma d.Lgs. n. 152/2006 prevede la confisca
obbligatoria del mezzo utilizzato per il trasporto illecito
di rifiuti, con conseguente estensione alla materia
ambientale del disposto dell'art. 240, comma 2, cod. pen. e
rendendo perciò un bene che sarebbe stato altrimenti
soggetto a confisca facoltativa (in quanto utilizzato per
commettere il reato) ricompreso nel novero di quelli per i
quali è sempre ordinata la suddetta misura ablatoria.
Né d'altra parte la sopravvenuta iscrizione all'Albo gestori
ambientali del titolare dell'automezzo adibito al trasporto
di rifiuti configura circostanza rilevante ai fini
dell'inapplicabilità della confisca atteso che il
provvedimento amministrativo, sulla data della cui pronuncia
nulla viene peraltro indicato in ricorso, con il quale
l'autocarro è stato inserito fra i mezzi lecitamente
utilizzabili dalla società per il trasporto dei rifiuti, non
fa venir meno, avendo natura costitutiva, la sua illegittima
pregressa utilizzazione, ovverosia in assenza della suddetta
iscrizione, alla data di consumazione del reato,
perfezionatosi in epoca antecedente alla stessa richiesta.
Pertanto, la sopravvenuta iscrizione all'Albo gestori
ambientali del titolare dell'automezzo adibito al trasporto
di rifiuti non esclude la confisca del mezzo stesso (Sez. 3,
n. 1635 del 18/11/2015 - dep. 18/01/2016, Cifaldi e altro;
Sez. 3, n. 5353 del 12/01/2011 - dep. 14/02/2011, Elisei)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.01.2018 n. 4200 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Trasporto e abbandono sul suolo di
rifiuti speciali non pericolosi - Trasporto di rifiuti senza
autorizzazione - Natura di reato istantaneo - Consapevolezza
dell'illiceità del fatto - Art. 256, c. 1°, D.Lgs. n.
152/2006.
Il reato di trasporto di rifiuti senza autorizzazione (art.
256, comma primo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) ha natura
istantanea, in quanto si perfeziona nel momento in cui si
realizza la singola condotta tipica, essendo sufficiente un
unico trasporto ad integrare la fattispecie incriminatrice
(Cass. Sez. 3, n. 41529 del 15/12/2016).
Nella specie, l'imputato non poteva invocare la buona fede,
ai fini della concessione delle circostanze attenuanti
generiche, non ravvisandosi mancanza di consapevolezza
dell'illiceità del fatto nella sua condotta (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.01.2018 n. 4189 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Produzione dei rifiuti e deposito
temporaneo - Collegamento funzionale tra aree diverse -
Condizioni - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Oneri e controlli
dei competenti uffici comunali - APPALTI - Contratto di
appalto - Allontanamento dei rifiuti dal cantiere edile -
Vincolo di asservimento funzionale al cantiere di altre aree
- Assenza di autorizzazioni - Giurisprudenza.
Ad integrare la nozione di collegamento funzionale concorre
non soltanto dal punto di vista spaziale la contiguità
dell'area a tal fine utilizzata rispetto a quella di
produzione dei rifiuti, ma altresì la destinazione
originaria della medesima in ragione dello strumento
urbanistico e dell'assenza di una sua autonoma utilizzazione
in concreto diversa da quella accertata, elementi in
relazione ai quali la difesa nulla deduce.
Sicché, ai fini della nozione di deposito temporaneo è stato
ritenuto non solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma
anche quello in disponibilità dell'impresa produttrice nel
quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente
collegato a quello di produzione.
Nella specie, la disposizione data dall'amministrazione
comunale nell'ambito del contratto di appalto stipulato con
la ditta di allontanamento dal cantiere edile, sito nel
centro storico del paese del materiale non utilizzato, non
vale ad imprimere all'area adoperata dagli imputati, di cui
il contratto di appalto non fa menzione, per
l'accantonamento del materiale di scarto alcun vincolo di
asservimento funzionale al cantiere nel quale i rifiuti
venivano prodotti, al cui smaltimento il titolare
dell'impresa appaltatrice avrebbe dovuto provvedere
autonomamente con l'organizzazione di mezzi idonei in
conformità alle disposizioni di legge.
RIFIUTI - Accumulo di quantità
consistente di materiali vari - Deposito temporaneo o
controllato - Esclusione - Art. 6, c. 1, lett. b), L.
210/2008 - Configurabilità.
L'accumulo di
una quantità consistente di materiali vari (nel caso di
specie, materiali ferrosi, da scavo, da demolizione) non
corrisponde alla ipotesi di deposito temporaneo o
controllato, bensì alla ipotesi di deposito incontrollato di
rifiuti.
RIFIUTI - Reati ambientali -
Raggruppamento di rifiuti - Deposito controllato o
temporaneo - Sussistenza delle condizioni fissate dall'art.
183 del D.Lgs. n. 152/2006 - Onere della prova - Regolamento
850/2004/CE - Condizioni - Luogo di produzione dei rifiuti.
In materia di reati ambientali, l'onere della prova in
ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dall'art.
183 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per la liceità del deposito
cosiddetto controllato o temporaneo, grava sul produttore
dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e
derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina
ordinaria.
La norma in esame pone una serie di indefettibili
condizioni, tutte concorrenti, per la configurabilità, in
presenza di raggruppamento di rifiuti, di un deposito
temporaneo, con la conseguenza che in difetto anche di uno
di essi il deposito non può ritenersi temporaneo e
segnatamente: «1) i rifiuti contenenti gli inquinanti
organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e
successive modificazioni, devono essere depositati nel
rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e
l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e
gestiti conformemente al suddetto regolamento; 2) i rifiuti
devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di
recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti
modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti:
con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle
quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in
deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui
al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni
caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il
predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può
avere durata superiore ad un anno; 3) il «deposito
temporaneo» deve essere effettuato per categorie omogenee di
rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche,
nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme
che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in
essi contenute; 4) devono essere rispettate le norme che
disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze
pericolose; 5) per alcune categorie di rifiuto, individuate
con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo
sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del
deposito temporaneo».
Condizioni queste cui si aggiunge quale requisito
principale, immanente rispetto agli elementi indicati, il
raggruppamento dei rifiuti nel luogo in cui gli stessi sono
prodotti (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.01.2018 n. 4181 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Varianti in senso proprio e varianti essenziali -
Titoli abilitativi - Interventi eseguiti in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali - Accertamento di conformità - Vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia - Artt. 27, 31, 36, 44
d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, le "varianti in senso proprio"
non determinano un sostanziale e radicale mutamento della
progettazione originaria (come accade, ad esempio, nelle
ipotesi di sensibile spostamento della localizzazione del
manufatto, aumento del numero dei piani, creazione di un
piano seminterrato, modifica del prospetto esterno etc.) e
si sostanziano, quindi, in modificazioni qualitative o
quantitative di irrilevante consistenza rispetto al progetto
originario.
Sicché, il titolo abilitativo che le riguarda, viene
rilasciato con lo stesso procedimento previsto per il
rilascio del permesso di costruire e si pone, rispetto al
titolo originario, in rapporto di accessorietà e
complementarietà.
Mentre, le "varianti essenziali" si distaccano, dalla
progettazione originaria in modo radicale sia sotto il
profilo qualitativo che quantitativo e si risolvono nella
realizzazione di un'opera completamente diversa da quella
assentita. Esse non sono specificamente disciplinate e
presuppongono, per la loro realizzazione, un diverso e
autonomo permesso di costruire (Cass., Sez. 3, n. 7241 del
09/02/2011, Pm in proc. Morozzi e altri) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanatoria condizionata - Esclusione - Requisito
della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia -
Necessità - Attività vincolata della P.A. - Giurisprudenza.
In materia edilizia è sempre esclusa la possibilità della
cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto
che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di
specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle
opere il requisito della conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali
provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto
l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad
interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della P.A., consistente
nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Cass. Sez. 3,
n. 51013 del 05/11/2015, Carratù e altro; Sez. 3, n. 7 405
del 15/01/2015, Bonarota; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014,
Chi sci e altro; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e
altro; Sez. 3 n. 23726 del 24/2/2009, Peoloso; Sez. 3, n.
41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro; Sez. 3,
n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro ed altre
prec. conf.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio -
Rilascio di un titolo abilitativo edilizio - Configurabilità
del reato di abuso di ufficio - Art. 323 cod. pen..
Integra il reato di abuso d’ufficio, il rilascio di un
titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un
immobile la cui edificazione non è consentita o il
mantenimento di un immobile abusivo mediante l'omessa
adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione
ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di
legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale
ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del
titolo indebitamente conseguito o dell'inerzia del pubblico
ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto il
quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove
insiste, ha un valore intrinseco e può essere
successivamente alienato, locato o destinato comunque ad
utilizzazioni economicamente vantaggiose.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Concorso del
privato nel delitto di abuso d'ufficio - Collusione tra il
privato ed il pubblico ufficiale - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel
delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione
tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere
dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e
il provvedimento adottato dall'altro ed il richiamo è
certamente pertinente, ma va considerato tenendo conto
dell'ulteriore precisazione, pure fornita dalla medesima
giurisprudenza, che, ai fini di tale accertamento vanno
anche considerati i profili inerenti al contesto fattuale,
ai rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri
dati di contorno, idonei a dimostrare che la domanda del
privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita
dall'accordo con il pubblico ufficiale, se non da pressioni
dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto
illegittimo (Cass., Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo
Monaco e altro; Conf. Sez. 6, n. 37880 del 1117/2014, Savini
e altro; Sez. 6, n. 40499 del 21/05/2009, Bonito e altri;
Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri; Sez. 6, n.
2844 del 01/12/2003 (dep. 2004), Celiano) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ampliamento di un fabbricato preesistente non
può essere considerato pertinenza - Mancanza di autonomia
rispetto all'edificio medesimo - Giurisprudenza - Artt. 3,
10 e 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 - BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI - Artt. 134, 136 e 181 d.lgs. 42/2004.
L'ampliamento di un fabbricato preesistente non può essere
considerato pertinenza, diventando parte dell'edificio di
cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio
soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di
autonomia rispetto all'edificio medesimo (Sez. 3, n. 20349
del 16/03/2010, Catania; Sez. 3, n. 28504 del 29/05/2007,
Rossi; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi ed altre prec.
conf.).
Esecutore dei lavori edilizi - Obbligo
di preventiva verifica dell'esistenza del titolo abilitativo
- Responsabilità, a titolo di dolo, nel reato urbanistico -
Reato proprio nel reato paesaggistico - Sanziona chiunque
trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei vincoli.
Sull'esecutore dei lavori edilizi incomba l'obbligo di una
preventiva verifica dell'esistenza del titolo abilitativo,
la violazione del quale comporta responsabilità, a titolo di
dolo, nel reato urbanistico in caso di inizio delle opere
nonostante l'accertamento negativo e a titolo di colpa
nell'ipotesi di omesso accertamento (Sez. 3, n. 16802 del
08/04/2015, Carata e altro; Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004
(dep. 2005), Cima), ricordando anche, con riferimento al
reato paesaggistico, che lo stesso non disciplina una
ipotesi di "reato proprio" e non ha quindi come
destinatari soltanto i proprietari del bene vincolato ed i
soggetti a questi equiparati ovvero i committenti di "lavori
di qualsiasi genere su beni paesaggistici", ma sanziona
chiunque trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei
vincoli (Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino).
Reati edilizi - Incertezza assoluta
sulla data di commissione del reato - Inizio del termine di
prescrizione - Applicazione del principio del favor rei -
Motivazione - Necessità.
In tema di reati edilizi, l'incertezza assoluta sulla data
di commissione del reato o, comunque, sull'inizio del
termine di prescrizione che consente l'applicazione del
principio del favor rei non ammette alcun automatismo e deve
risultare da dati obiettivi.
Il giudice è comunque tenuto all'indicazione delle ragioni
per le quali non è possibile pervenire, anche sulla base di
deduzioni logiche, ad una più puntuale collocazione
temporale dell'intervento abusivo (Sez. 3, n. 7065 del
07/02/2012, Croce) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2018 n. 4139 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Natura dei materiali da classificare o
meno rifiuti - Valutazione oggettiva - Cessione a titolo
oneroso - Non esclude la natura di rifiuto - Artt. 183 e 256
d.lgs. n. 152/2006.
Ogni valutazione soggettiva in merito alla natura dei
materiali da classificare o meno quali rifiuti, è
inaccettabile. Poiché è rifiuto non ciò che non è più di
nessuna utilità per il detentore in base ad una sua
personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come
tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la
condotta del detentore in relazione a tale bene ovvero sulla
scorte di un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto,
inerente, appunto, alla necessità di disfarsi del suddetto
materiale.
Inoltre, al fine della valutazione oggettiva non rileva, che
detti materiali siano, almeno in parte, ancora suscettibili
di utilizzazione economica attraverso la loro cessione a
titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque
la loro natura di rifiuto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 24.01.2018 n. 3299 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Decadenza
del permesso di costruire.
La decadenza del
titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del
relativo presupposto, ovvero del decorso del termine di
inizio e di ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento
comunale sul punto è meramente dichiarativo.
---------------
L’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15,
comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferito a
concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi
rilevati sul posto.
Pertanto, i lavori devono ritenersi iniziati quando
consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè
nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi
portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di
scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo
edificio per evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso a interventi fittizi
e simbolici.
---------------
E' da ricordare in generale che il verbale redatto dai
pubblici ufficiali fa piena prova in ordine ai fatti
materiali ivi rappresentati ma non nelle parti in cui
esprime giudizi soggettivi (cioè mere valutazioni) del
verbalizzante.
---------------
6.1. Deve innanzitutto chiarirsi che il procedimento per il
rilascio del permesso di costruire ed il procedimento di
accertamento dell’intervenuta decadenza dello stesso ai
sensi dell’art. 15, d.P.R. n. 380/2001, sono procedimenti
autonomi che sfociano in autonomi e distinti provvedimenti.
Da ciò inevitabilmente deriva che il ricorso,
infruttuosamente, spiegato nei confronti del primo non
spiega effetti nei confronti del ricorso proposto avverso il
secondo.
Al contrario, l’esito favorevole del ricorso proposto in
caso di mancato accertamento dell’intervenuta decadenza del
permesso di costruire fa venire meno l’interesse alla
decisione del ricorso proposto avverso quest’ultimo atto.
Infatti, la decadenza del permesso di costruire impone che
ne venga rilasciato uno nuovo, situazione quest’ultima che
determina il venir meno di quella lesione, su cui fonda
l’interesse del ricorrente all’impugnazione del permesso.
Occorre, altresì, rammentare che la decadenza del titolo
edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo
presupposto, ovvero del decorso del termine di inizio e di
ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento comunale sul
punto è meramente dichiarativo (cfr. Cons. St., Sez. VI,
20.11.2017, n. 5324).
Tanto premesso, non può convenirsi con quanto affermato
dall’amministrazione comunale, secondo la quale il primo
giudice avrebbe errato nell’esaminare il ricorso per motivi
aggiunti per primo. Infatti, la ricostruzione sopra operata
dei rapporti tra i due procedimenti, unitamente, al
principio di economicità, che anima il processo
amministrativo, impongono di esaminare prioritariamente
quella domanda, che se fondata, consente il raggiungimento
del bene della vita, in questo caso l‘interesse oppositivo
dell’originario ricorrente alla realizzazione
dell’intervento edilizio oggetto del permesso di costruire.
Rispetto a ciò, appare perfino superfluo rammentare che il
ricorso per motivi aggiunti già nella versione dell’abrogato
art. 21, l. TAR, era concepito come strumento di
concentrazione processuale delle domande tese al
soddisfacimento di un comune interesse sostanziale.
Struttura e funzione mantenute dal vigente art. 43 c.p.a.
6.2. Superata la censura avente ad oggetto l’ordine
processuale di esame delle domande da parte del TAR, deve
passarsi ad esaminare la bontà della conclusione raggiunta
da quest’ultimo in ordine all’intervenuta decadenza del
permesso di costruire.
Al riguardo, deve rammentarsi che la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che l’inizio
lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del
2001 (T.U. Edilizia), deve intendersi riferito a concreti
lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati
sul posto. Pertanto i lavori debbono ritenersi iniziati
quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini,
cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di
elementi portanti, nella elevazione di muri e nella
esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni
del costruendo edificio per evitare che il termine di
decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad
interventi fittizi e simbolici (cfr. ex plurimis,
Cons. St., Sez. VI, 19.09.2017).
Nella fattispecie in esame la documentazione in atti milita
nel senso che alla data del 17.05.2011 i lavori non fossero
stati in concreto iniziati. Ad una simile conclusione si
giunge attraverso un raffronto dei luoghi sulla base delle
foto prodotte in primo grado dalle parti, dalle quali si
evince che a quella data non vi fosse alcuna significativa
attività edilizia in corso, pur a fronte delle particolarità
urbanistiche della zona, per l’assenza di qualsivoglia tipo
di macchinario o di strumentazione all’uopo necessaria o di
qualsivoglia traccia di attività edilizia in corso.
Né in senso opposto può argomentarsi sulla scorta del
verbale del sopraluogo dei tecnici comunali, atteso che
quest’ultimo, da un lato, testimonia con efficacia
fidefaciente soltanto lo stato dei luoghi al 30.05.2011,
ossia in data successiva all’inutile decorso del termine per
l’intrapresa dei lavori; dall’altro, anche in forza
della sua laconicità, non consente di ritenere che ivi
fossero stati effettuati lavori non realizzabili nel lasso
temporale intercorrente tra la data di intervenuta decadenza
del permesso e la data di sopraluogo.
In ogni caso è da ricordare in generale che il verbale
redatto dai pubblici ufficiali fa piena prova in ordine ai
fatti materiali ivi rappresentati ma non nelle parti in cui
esprime giudizi soggettivi (cioè mere valutazioni) del
verbalizzante.
Ancora non può giungersi alle conclusioni invocate dalle
appellanti neanche sulla scorta di quanto meramente
dichiarato nel diario del Direttore dei lavori, che indica
l’effettuazione di attività meramente preparatorie
all’intervento edilizio assentito.
Infine, del tutto neutro è il dato relativo alla
stipulazione da parte dell’orignaria controinteressata in
data 21.04.2011 del contratto (registrato il 13/05/2011)
d’appalto relativo alla esecuzione di tutte le opere
necessarie alla realizzazione dell’intervento edilizio
assentito, poiché la stipula del contratto non prova in
concreto l’inizio dei lavori.
7. Entrambi gli appelli devono, dunque, essere respinti. Le
spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.01.2018 n. 467 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Necessità del piano attuativo.
Non è
sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano
attuativo, l'esistenza di opere di urbanizzazione,
rispondendo detto strumento anche alla necessità di
garantire l'equilibrato sviluppo del territorio, talché la
sua necessità può risultare dalle opere pubbliche che
interessano l'area, la cui realizzazione comporta, secondo
una valutazione effettuata dall'amministrazione, la
necessità di un raccordo armonico, affidato alla
pianificazione attuativa, o al titolo edilizio convenzionato.
---------------
II.2) Infine, le ricorrenti deducono la violazione dell’art.
12, c. 1, L.R. n. 12/2005, per avere gli atti impugnati
subordinato l’ammissibilità degli interventi edilizi nelle
aree di che trattasi, all’adozione di un piano attuativo, ed
al rilascio di un permesso di costruire “convenzionato”,
illegittimo in quanto atipico, considerato altresì che le
stesse si trovano in una zona urbanizzata ed edificata.
In linea generale, osserva sul punto il Collegio che non è
sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano
attuativo, l'esistenza di opere di urbanizzazione,
rispondendo detto strumento anche alla necessità di
garantire l'equilibrato sviluppo del territorio, talché la
sua necessità può risultare dalle opere pubbliche che
interessano l'area, la cui realizzazione comporta, secondo
una valutazione effettuata dall'amministrazione, la
necessità di un raccordo armonico, affidato alla
pianificazione attuativa, od al titolo edilizio
convenzionato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 29.07.2009,
n. 4494).
In particolare, contrariamente a quanto dedotto dalle
ricorrenti, il rilascio di un permesso di costruire
convenzionato, oggi espressamente menzionato nell’art.
28-bis D.P.R. 06.06.2001 n. 380, introdotto dall’art. 17, c.
1, lett. q), della L. n. 164/2014, all’epoca dell’emanazione
dei provvedimenti impugnati, era previsto dall’art. 10, c.
2, della L.R. n. 12/2005 cit., di cui le istanti deducono
l’illegittimità, nella loro memoria finale, senza tuttavia
minimamente motivare tale assunto, che risulta
conseguentemente generico.
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
Circa l'espressione del parere di compatibilità del P.I.I.
con il sopraordinato P.T.C.P. la competenza spetta alla
Giunta provinciale, e non al Consiglio provinciale.
Nel silenzio dell'art. 92, L.R.
11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare che
spetta alla Provincia esprimere il parere circa la
compatibilità del programma integrato di intervento
predisposto dal Comune con il sopraordinato piano
territoriale di coordinamento provinciale, senza però
precisare a quale organo provinciale spetti tale potere,
trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di
governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett.
h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta
competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al
Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso
tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è
espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero
raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il
programma comunale ed il piano territoriale provinciale.
---------------
Il Collegio può prescindere dallo scrutinio del ricorso
incidentale proposto dal Comune resistente, essendo il
presente ricorso infondato nel merito.
I) Con il primo motivo le istanti deducono il vizio
di incompetenza avverso il parere di compatibilità al PTCP
del Documento di Piano del PGT, espresso dalla Provincia con
la delibera di Giunta n. 436 del 17.06.2008, che avrebbe
invece dovuto essere adottata dal Consiglio, come previsto
dall’art. 42, c. 2, lett. b), del T.U.E.L.
Il motivo è infondato atteso che, nel silenzio dell'art. 92,
L.R. 11.03.2005 n. 12, che al c. 7 si limita ad affermare
che spetta alla Provincia esprimere il parere circa la
compatibilità del programma integrato di intervento
predisposto dal Comune con il sopraordinato piano
territoriale di coordinamento provinciale, senza però
precisare a quale organo provinciale spetti tale potere,
trova applicazione il criterio di riparto fra gli organi di
governo degli enti locali fissato dall'art. 42, c. 2, lett.
h), T.U. 18.08.2000 n. 267, per effetto del quale detta
competenza spetta alla Giunta provinciale, e non al
Consiglio provinciale, trattandosi non di un parere in senso
tecnico, ma di una mera verifica di conformità, che non è
espressione di potestà pianificatoria, ma esprime un mero
raffronto, privo di ogni valutazione discrezionale, tra il
programma comunale ed il piano territoriale provinciale
(C.S., Sez, IV, 28.05.2009 n. 3333, che ha riformato TAR
Lombardia, Milano, Sez., II, 29.10.2008 n. 5219) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a
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URBANISTICA:
Per
giurisprudenza pacifica, le osservazioni presentate da un
privato allo strumento urbanistico adottato dall'ente
costituiscono meri apporti collaborativi allo stesso, e non
danno luogo a peculiari aspettative, potendo essere
respinte, o accolte solo in parte, senza necessità di
specifica motivazione.
Nel caso in cui il previgente strumento urbanistico abbia
classificato un’area come edificabile, in capo al privato
sussiste effettivamente un legittimo affidamento che deve
essere valutato dal Comune, diversamente da quanto invece
avvenuto nel caso di specie in cui, come detto, gli immobili
delle ricorrenti, sulla base del previgente p.g.t., avevano
destinazione produttiva.
---------------
Per giurisprudenza pacifica, le scelte effettate
dall'Amministrazione comunale all'atto dell'adozione del
piano regolatore costituiscono inoltre apprezzamenti di
merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità.
---------------
II.1) Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano
che, a seguito del parziale accoglimento delle osservazioni
dalle stesse presentate, il Comune avrebbe illegittimamente
modificato “in peius” il P.G.T., violando il loro
affidamento.
II.1.1) In primo luogo, osserva il Collegio che il Comune ha
in realtà accolto le richieste delle ricorrenti, con cui le
stesse hanno chiesto “che l’intera area di proprietà
possa essere inserita nel nuovo P.G.T. in zona a
destinazione residenziale”, ciò che, come detto, ha
puntualmente avuto luogo.
II.1.2) In ogni caso, per giurisprudenza pacifica, le
osservazioni presentate da un privato allo strumento
urbanistico adottato dall'ente costituiscono meri apporti
collaborativi allo stesso, e non danno luogo a peculiari
aspettative, potendo essere respinte, o accolte solo in
parte, senza necessità di specifica motivazione (C.S., Sez.
IV, 08.05.2017 n. 2089, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
26.02.2015, n. 358), ciò che, di per sé, dà luogo al rigetto
del motivo.
Nel caso in cui il previgente strumento urbanistico abbia
classificato un’area come edificabile, in capo al privato
sussiste effettivamente un legittimo affidamento che deve
essere valutato dal Comune (C.S. Sez. IV, 22.06.2004, n.
4399), diversamente da quanto invece avvenuto nel caso di
specie in cui, come detto, gli immobili delle ricorrenti,
sulla base del previgente p.g.t., avevano destinazione
produttiva.
II.1.3) Fermo restando quanto precede, ad abundantiam,
osserva il Collegio che le aree di che trattasi si trovano
all’interno del Parco Regionale della Valle del Lambro, e
sono pertanto soggette a vincolo paesaggistico, ex art. 142
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, ciò che non rende irragionevole la
loro parziale destinazione a “verde privato”.
Analogamente, anche la prevista cessione di 485 mq da
destinare a parcheggi, su una superficie complessiva di
oltre 3.000 mq, non pare ingiustificata, essendo le aree in
questione collocate in un ambito contiguo al centro storico,
caratterizzate da una cronica mancanza di detti spazi, come
dettagliatamente evidenziato nel paragrafo 4.1c della
relazione allegata al Piano dei Servizi.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte effettate
dall'Amministrazione comunale all'atto dell'adozione del
piano regolatore costituiscono inoltre apprezzamenti di
merito, sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità
(C.S. Sez. IV, 12.06.2017, n. 2822), ciò che, ulteriormente,
depone per l’infondatezza delle doglianze in questa sede
articolate (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2018 n. 205 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività abusiva di raccolta e
trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi
(rottami ferrosi) - Occasionale attività di trasporto -
Obblighi di comunicazione, autorizzazione o iscrizione -
Inadempimento - Natura di reato istantaneo - Iscrizione
nell'Albo nazionale gestori ambientali - Necessità - Artt.
212, 256, 258 e 260 d.lgs. n. 152/2006.
Anche l'occasionale attività di trasporto di rifiuti non
pericolosi prodotti nell'esercizio della propria attività
d'impresa richiede l'iscrizione nell'Albo nazionale gestori
ambientali, sia pur nell'apposita sezione di cui all'art.
212, comma 8, d.lgs. 152/2006 e secondo la procedura
semplificata ivi descritta, che presuppone una
comunicazione.
L'inadempimento di tali obblighi di comunicazione e
iscrizione integra, per pacifico orientamento, la
contravvenzione di cui all'art. 256, comma 1, lett. a),
d.lgs. 152/2006 (Sez. 3, n. 26435 del 23/03/2016, Pagliuch,
secondo cui «nelle ipotesi di trasporti occasionali o
episodici di rifiuti propri non pericolosi, risponde del
reato di cui all'art. 256, comma primo, D.Lgs. n. 152 del
2006, chiunque vi provveda con mezzi propri e non
autorizzati, anziché attraverso imprese esercenti servizi di
smaltimento iscritte all'Albo nazionale dei gestori
ambientall».
Il reato ascritto è istantaneo e, con riguardo alla condotta
del trasporto rifiuti contestata all'imputato, si consuma in
occasione di ogni singolo trasporto effettuato da soggetto
non autorizzato, posto che una continuativa ed organizzata
attività abusiva di trasporti, ricorrendone gli altri
presupposti, potrebbe invece integrare il ben più grave
delitto di cui all'art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006 (Sez.
3, n. 26614/2013 del 12/07/2012, Trevisan) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.01.2018 n. 2290 - link a
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URBANISTICA:
Il termine di durata del permesso edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, su cui l’Amministrazione si
esprime (principio applicabile anche ai piani attuativi).
Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata
decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo
strumento attuativo perde efficacia.
È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del
piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante.
---------------
L’approvazione di una Variante ad un Piano particolareggiato
non determina di per sé la proroga dell’efficacia
dell’originario strumento di pianificazione secondaria,
ancorché per ampia parte modificato, potendo tale effetto
riconoscersi soltanto alle Varianti che approvano una
operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente
nuova e radicalmente diversa rispetto a quella
originariamente prevista per la stessa zona, nonché alle
Varianti che si riferiscano all’intero programma
urbanistico, implicandone una positiva valutazione di
attualità e di persistente conformità all’interesse
pubblico.
---------------
Ritiene tuttavia il collegio che debbano trovare
applicazione anche nel caso di specie, i principi affermati
in materia secondo cui “Per quanto concerne inoltre la
rilevanza dell’insorgenza di cause di forza maggiore e
quindi della rilevanza del c.d. factum principis, ritiene il
collegio di dovere ribadire l’indirizzo giurisprudenziale
affermato -principio affermato in materia di sospensione del
termine di durata del titolo edilizio, ma da ritenersi
valido anche relativamente alla fattispecie in esame di
sospensione del termine di validità della lottizzazione-
secondo cui “il termine di durata del permesso edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di
una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che
accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e
solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un
factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza
maggiore”.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito
della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del
D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche
successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1,
lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge
n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria
la presentazione di una formale istanza di proroga.
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria
diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza
di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva
impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per
factum principis, di attivarsi nel termine di validità del
titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di
lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una
proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione
medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di
forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti
(eventuale provvedimento di proroga) di competenza
dell’amministrazione medesima.
---------------
Pur prendendo atto che in numerose sentenze si rileva che il
termine di validità decennale del piano di lottizzazione
decorre dalla data di stipula della relativa convenzione,
deve ritenersi che ciò si ricolleghi, in primo luogo, al
fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di
lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della
relativa convenzione.
Deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata
stipula della convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano di
lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato,
- sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui
all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150
relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato”;
- sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della
norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o
di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e
certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità
del piano medesimo, al fine di garantire l’adeguatezza e
rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e
privati riferiti al periodo di validità del piano, con la
conseguente e ragionevole necessità che dopo un certo
periodo di tempo (10 anni) si debba necessariamente
procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e
privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi
giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine massimo
di dieci anni di validità del piano di lottizzazione,
stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di
deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data
di completamento del complesso procedimento di formazione
del piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione è per
certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato
alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore
delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla
validità massima, prevista in legge, del sovrastante
strumento di pianificazione secondaria”.
---------------
Considerato che la deliberazione di giunta municipale
impugnata si fonda, in primo luogo, sull’intervenuta
decadenza e perdita di efficacia del piano di risanamento
urbanistico per scadenza del termine decennale, ritiene il
collegio che tale rilievo dell’Amministrazione comunale sia
fondato.
Ritiene il collegio di dovere ribadire, anche nel caso di
specie, i principi giurisprudenziali in materia affermati da
questo Tribunale e confermati dal Consiglio di Stato,
secondo cui:
- “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata
decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo
strumento attuativo perde efficacia” (Consiglio di Stato
sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, sez.
II, n. 553 del 2013).
- “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del
piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante”
(Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma
TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
Infondate risultano le censure di violazione dell’articolo
17 della legge 1150/1942 e di violazione degli articoli 11 e
15 delle NTA del PPR, di cui al punto primo del ricorso, non
potendo essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo
cui, a seguito della variante al PUC adottata nel 2006 e
approvata nel 2009 e a seguito della successiva variante del
2012, la durata decennale di validità del piano di
risanamento inizierebbe nuovamente a decorrere
dall’approvazione delle varianti medesime.
Ritiene il collegio che lo stesso precedente di cui alla
sentenza del Consiglio di Stato n. 1574/2013, invocato dalla
ricorrente, deponga, in realtà, in senso contrario a quanto
sostenuto dalla ricorrente.
In tale sentenza si precisa infatti che “Né il Collegio
dubita dell’ulteriore circostanza che l’approvazione di una
Variante ad un Piano particolareggiato non determina di per
sé la proroga dell’efficacia dell’originario strumento di
pianificazione secondaria, ancorché per ampia parte
modificato, potendo tale effetto riconoscersi soltanto alle
Varianti che approvano una operazione di sistemazione
urbanistica fondamentalmente nuova e radicalmente diversa
rispetto a quella originariamente prevista per la stessa
zona (Cass. Civ., Sez. I, 09.11.1983 n. 6622), nonché alle
Varianti che si riferiscano all’intero programma
urbanistico, implicandone una positiva valutazione di
attualità e di persistente conformità all’interesse pubblico”.
Ciò stante, alla luce dei dati forniti al riguardo in
ricorso dalla stessa parte ricorrente (che non indica
elementi idonei a provare la sussistenza di una “operazione
di sistemazione urbanistica fondamentalmente nuova e
radicalmente diversa rispetto a quella originariamente
prevista per la stessa zona”) e alla luce delle
specifiche precisazioni fornite in proposito
dall’Amministrazione comunale resistente nella propria
memoria difensiva del 28/10/2017, deve ritenersi che le
varianti invocate dalla ricorrente non abbiano determinato “una
operazione di sistemazione urbanistica fondamentalmente
nuova e radicalmente diversa rispetto a quella
originariamente prevista per la stessa zona”, per cui,
avuto riguardo al caso di specie, deve essere ribadito il
principio di carattere generale secondo cui
“l’approvazione di una Variante ad un Piano
particolareggiato non determina di per sé la proroga
dell’efficacia dell’originario strumento di pianificazione
secondaria, ancorché per ampia parte modificato…”.
Ugualmente infondate risultano le ulteriori censure
prospettate dalla ricorrente, secondo cui dal periodo
decennale di validità del piano di risanamento urbanistico
andrebbero scomputati i tempi di “attivazione dell’intesa
ex art. 11 delle NTA del PPR”.
La ricorrente, in sostanza, invoca la sussistenza di cause
di forza maggiore, indipendenti dalla volontà della società
ricorrente, idonee a determinare la sospensione dei termini
di validità del piano di risanamento urbanistico e quindi la
sussistenza di un’ipotesi di “factum principis”, che
impedirebbe la decadenza del piano di risanamento.
Ritiene tuttavia il collegio che debbano trovare
applicazione anche nel caso di specie, i principi affermati
in materia da questo Tribunale, sezione seconda, con la
sentenza n. 352 del 23.05.2017, secondo cui “Per quanto
concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di cause di
forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d. factum
principis, ritiene il collegio di dovere ribadire
l’indirizzo giurisprudenziale affermato nella sentenza del
Consiglio di Stato, sez. III, 04/04/2013 n. 1870, recepito e
ribadito da questo tribunale con la sentenza TAR Sardegna,
sez. II, 08.11.2016 n. 848 -principio affermato in materia
di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma
da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in
esame di sospensione del termine di validità della
lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del
permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente
sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine,
la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve
comunque seguire un provvedimento da parte della stessa
Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius
abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del
termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una
causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n.
974/2012, cit.)”.
Si confronti altresì al riguardo: Consiglio di Stato sez. IV
18.05.2012 n. 2915; TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR
Liguria sez. I, 31.08.2016 n. 922 ; TAR Lombardia–Milano,
sez. II, 04.08.2016 n. 1564.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito
della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del
D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche
successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1,
lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge
n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria
la presentazione di una formale istanza di proroga (TAR
Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Veneto n. 375 del
2016).
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria
diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza
di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva
impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per
factum principis, di attivarsi nel termine di validità
del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di
lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una
proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione
medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di
forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti
(eventuale provvedimento di proroga) di competenza
dell’amministrazione medesima.
Non risultando essere stati adottati formali provvedimenti
di proroga del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione …omissis…, non può che prendersi atto che il
termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione in
questione risultava ampiamente scaduto di oltre 15 anni ….
omissis…..”.
Tali principi affermati con riferimento ad un piano di
lottizzazione, devono ritenersi validi anche nel caso di
specie, avuto riguardo al piano di risanamento urbanistico
in questione, per cui le censure al riguardo mosse dalla
ricorrente devono essere disattese perché infondate.
Infondata risulta la censura di violazione dell’articolo 17,
comma terzo, della legge 1150/1942.
Non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo
cui, in forza della norma sopra richiamata, “il Comune,
prima di riapprovare il piano, deve analizzare le proposte,
relative ai sub-comparti presentate dai privati”.
La disposizione invocata dalla ricorrente di cui al comma
terzo dell’articolo 17 della legge 1150/1942, stabilisce che
“Qualora, decorsi due anni dal termine per l'esecuzione
del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione
il secondo comma, nell'interesse improcrastinabile
dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e
servizi, il comune, limitatamente all'attuazione anche
parziale di comparti o comprensori del piano
particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di
formazione e attuazione di singoli sub-comparti,
indipendentemente dalla parte restante del comparto, per
iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero
sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso
delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi
rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo
decaduti. I sub-comparti di cui al presente comma non
costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal
consiglio comunale senza l'applicazione delle procedure di
cui agli articoli 15 e 16”.
Deve rilevarsi che tale disposizione è posta “nell'interesse
improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi”, per cui deve ritenersi che
trattasi di valutazioni esclusivamente rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione comunale medesima, la
quale, evidentemente, nel caso di specie, non ha ritenuto di
avvalersi della facoltà concessa dalla norma in questione di
approvare le proposte relative a sub-comparti presentate dai
privati, preferendo invece procedere alla integrale di
approvazione del piano, stante il lungo tempo trascorso
dalla sua adozione, al fine di procedere ad una valutazione
attuale e aggiornata degli interessi pubblici e privati
coinvolti, scelta che, a seguito della scadenza del termine
decennale di validità del piano di risanamento urbanistico,
deve ritenersi rimessa -si ribadisce- alle valutazioni
discrezionali dell’amministrazione, non potendosi rinvenire
alcuna illegittimità o irragionevolezza nella predetta
scelta dell’amministrazione comunale di procedere alla
integrale riapprovazione del piano, stante il lungo tempo
trascorso dalla sua adozione, al fine di procedere ad una
valutazione attuale e aggiornata degli interessi pubblici e
privati coinvolti.
Per quanto concerne la censura mossa dalla società
ricorrente nella propria successiva memoria difensiva di
replica, secondo cui il termine di validità del piano
decorrerebbe esclusivamente dalla stipula della convenzione,
la censura medesima risulta inammissibile in quanto non
contenuta nell’atto introduttivo del gravame e avanzata solo
successivamente con memoria non notificata
all’amministrazione.
Qualora fosse stato possibile esaminare nel merito tale
censura, la stessa sarebbe risultata comunque, nel caso di
specie, infondata.
Pur prendendo atto che in numerose sentenze si rileva che il
termine di validità decennale del piano di lottizzazione
decorre dalla data di stipula della relativa convenzione,
deve ritenersi che ciò si ricolleghi, in primo luogo, al
fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di
lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della
relativa convenzione.
Deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata
stipula della convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano di
lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia
perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di
cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150
relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di
anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato”; sia perché deve comunque ritenersi
prevalente la ratio della norma per cui le previsioni
di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione
devono avere una determinata e certa durata temporale, con
conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine
di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni
agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di
validità del piano, con la conseguente e ragionevole
necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si
debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali
interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte
urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi
giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine
massimo di dieci anni di validità del piano di
lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della
L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è
suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e
decorre dalla data di completamento del complesso
procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato,
Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è
per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione,
deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto
esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli
adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può
incidere sulla validità massima, prevista in legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria”
(Consiglio di Stato n. 1574/2013).
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie
argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza
delle censure avanzate, il ricorso deve essere respinto (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 18.01.2018 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Autolavaggio -
Scarichi delle acquee reflue nella rete fognaria in assenza
di autorizzazione - Diniego della concessione delle
attenuanti generiche per tenuità del fatto - Giurisprudenza
- DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Tenuità del fatto -
Valutazione del giudice - Fattispecie - Art. 133, 1° c.,
cod. pen - Art. 137 d.lgs. n. 152/2006.
Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione
complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e
l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi
dell'art. 133, primo comma, cod. pen, richiedendosi una
equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della
fattispecie concreta e non solo di quelle che attengono
all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto.
Sicché, la concessione delle attenuanti generiche deve
essere fondata sull'accertamento di situazioni idonee a
giustificare un trattamento di speciale benevolenza in
favore dell'imputato.
Ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica
gli elementi e le circostanze che, sottoposti alla
valutazione del giudice, possano convincerlo della
fondatezza e legittimità dell'istanza - l'onere di
motivazione per il diniego dell'attenuante è soddisfatto con
il richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi
positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio.
Nella specie, non sono state concesse le attenuanti
generiche per tenuità del fatto al responsabile del reato di
cui all'art. 137 d.lgs. n. 152 del 2006 perché, quale
titolare della ditta di autolavaggio, effettuava scarichi di
acquee reflue provenienti dalla suindicata attività nella
rete fognaria in assenza di autorizzazione allo scarico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2018 n. 1574 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La proroga del permesso di costruire richiede adeguata
istruttoria e congrua motivazione.
L’atto di proroga dei permessi di
costruire rappresenta certamente un atto autonomo e dotato
di natura provvedimentale, in quanto rende legittima la
prosecuzione dei lavori edilizi non completati nel termine
originariamente previsto dal titolo (avente durata massima
triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla
circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale,
soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non
certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul
semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire
risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente
per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa
richiede la proposizione della domanda anteriormente alla
scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e
che la proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione
della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla
consolidata giurisprudenza che si è formata sulle
controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine
di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di
provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente
impugnabili: sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la
differente natura, con tutte le conseguenze di natura
processuale, di un atto a seconda del contenuto negativo
(diniego di proroga del termine) o del contenuto positivo
(ammissione della predetta proroga).
---------------
Il mancato completamento dei lavori nei termini impone il
rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire,
con la possibilità che, l’eventuale entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe la stessa
possibilità di completamento e potrebbe addirittura condurre
alla riduzione in pristino della parte di opere prive di una
loro idoneità di tipo funzionale.
Infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a
consentire quelle sole trasformazioni del territorio che
corrispondono alle esigenze attuali della collettività,
quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente,
senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei
lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta
che le trasformazioni assentite siano ritenute non più
rispondenti all’interesse pubblico.
---------------
E' stato affermato in giurisprudenza che la proroga è
disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di una
valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce
nella verifica delle condizioni oggettive che la
giustificano, tenendo presente che, proprio perché il
risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina
generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano
la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma
e sono di stretta interpretazione”.
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento
dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità
amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle
circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in
termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della
edificazione.
Nella fattispecie de qua, tale atto di proroga risulta
assolutamente immotivato e rinvia, del tutto genericamente,
al contenuto della richiesta di proroga e alla tipologia dei
lavori da eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività
istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la
sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per
concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non
imputabilità al soggetto privato del ritardo nella
conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che
l’hanno determinata.
---------------
2. Sempre in via preliminare, vanno scrutinate le eccezioni
di inammissibilità del ricorso formulate dalla difesa
comunale.
2.1. Le eccezioni sono infondate.
Con una prima eccezione si contesta la carenza di interesse
dei ricorrenti per mancata tempestiva impugnazione degli
originari permessi di costruire quali atti da cui
discenderebbe l’effettiva lesione, essendo gli atti di
proroga sforniti di propria autonomia provvedimentale e
pertanto inoppugnabili, se isolatamente intesi.
La prospettazione della difesa comunale non può essere
condivisa.
L’atto di proroga dei permessi di costruire rappresenta
certamente un atto autonomo e dotato di natura
provvedimentale, in quanto rende legittima la prosecuzione
dei lavori edilizi non completati nel termine
originariamente previsto dal titolo (avente durata massima
triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla
circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale,
soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non
certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul
semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire
risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente
per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa
richiede la proposizione della domanda anteriormente alla
scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e
che la proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso ed “esclusivamente in
considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle
sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero
quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2,
del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente
ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla
consolidata giurisprudenza che si è formata sulle
controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine
di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di
provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente
impugnabili (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano,
II, 04.08.2016, n. 1564; per una fattispecie in cui è stata
impugnata la proroga del termine di ultimazione dei lavori
edilizi, TAR Lombardia, Milano, II, 11.01.2018, n. 48):
sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la differente
natura, con tutte le conseguenze di natura processuale, di
un atto a seconda del contenuto negativo (diniego di proroga
del termine) o del contenuto positivo (ammissione della
predetta proroga).
Pertanto, la suesposta eccezione va respinta.
2.2. Anche l’eccezione fondata sulla impossibilità per i
ricorrenti di ritrarre alcun vantaggio da un eventuale
annullamento degli atti di proroga, stante l’avvenuto
pressoché integrale completamento delle opere, deve essere
respinta.
In realtà, in giudizio non è stato affatto dimostrato che le
opere siano state sostanzialmente completate, quanto
piuttosto sembra emergere l’esatto contrario, sia in ragione
dell’avvenuta presentazione della richiesta di proroga,
altrimenti non necessaria, sia sulla base delle produzioni
della difesa dei ricorrenti da cui emerge –senza alcuna
smentita sul punto– il mancato completamento dei lavori alla
data odierna (cfr. all. 11 al ricorso).
Risulta evidente perciò che sussiste l’interesse al ricorso,
atteso che il mancato completamento dei lavori nei termini
impone il rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da
eseguire, con la possibilità che, l’eventuale entrata in
vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe
la stessa possibilità di completamento e potrebbe
addirittura condurre alla riduzione in pristino della parte
di opere prive di una loro idoneità di tipo funzionale;
infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a
consentire quelle sole trasformazioni del territorio che
corrispondono alle esigenze attuali della collettività,
quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente,
senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei
lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta
che le trasformazioni assentite siano ritenute non più
rispondenti all’interesse pubblico (Consiglio di Stato, I,
parere n. 1852/2017 dell’08.08.2017; TAR Lombardia, Milano,
II, 04.08.2016, n. 1564).
Quindi, anche la predetta eccezione va respinta.
...
3. Passando al merito del ricorso, lo stesso è fondato.
4. Con l’unica censura di ricorso si assume l’illegittimità
della proroga del termine di ultimazione dei lavori di cui
ai permessi di costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, in quanto la
stessa sarebbe stata assunta sulla base di una carente
istruttoria e si presenterebbe come sostanzialmente
immotivata, contrariamente alle previsioni della normativa
di settore che consentirebbe la proroga dei termini, di
natura perentoria, con provvedimento motivato ed
esclusivamente per fatti sopravvenuti estranei alla volontà
del titolare del permesso, debitamente accertati; in
aggiunta, si deduce anche l’illegittimità della reiterazione
dell’invito alla società controinteressata a presentare la
denuncia per opere in cemento armato, che invece avrebbe
dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori.
4.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato in precedenza, al fine di poter
procedere al completamento dei lavori edilizi non ultimati
nel termine previsto dal titolo, al massimo di durata
triennale, la normativa richiede che la domanda debba essere
proposta anteriormente alla scadenza dell’originario temine
di ultimazione dei lavori e che la proroga possa essere
accordata, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso
ed “esclusivamente in considerazione della mole
dell’opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n.
380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Nella fattispecie de qua la società controinteressata
ha chiesto al Comune, in data 09.02.2007, la proroga del
termine di ultimazione dei lavori relativi ai permessi di
costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, giustificandola con la
circostanza “che le operazioni preliminari per la
realizzazione di sottopasso alla Strada Statale e relativa
deviazione stradale hanno interessato il fermo dei lavori di
cui alla premessa [e] che la natura, la quantità e
consistenza del terreno da asportare (Roccia dura) si sono
protratti nel tempo per oltre anni uno” (all. 9 al
ricorso); l’Ufficio Tecnico comunale, in data 19.02.2007, ha
accordato la proroga richiesta, indicando la data entro la
quale avrebbero dovuto essere ultimati i lavori.
Tale atto di proroga risulta assolutamente immotivato e
rinvia, del tutto genericamente, al contenuto della
richiesta di proroga e alla tipologia dei lavori da
eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività
istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la
sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per
concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non
imputabilità al soggetto privato del ritardo nella
conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che
l’hanno determinata.
Difatti, è stato affermato in giurisprudenza che la proroga
è disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di
una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si
traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la
giustificano, tenendo presente che, proprio perché il
risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina
generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano
la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma
e sono di stretta interpretazione” (Consiglio di Stato,
IV, 04.03.2014, n. 1013).
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento
dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità
amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle
circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in
termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della
edificazione (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n.
1564; 29.01.2016, n. 201; TAR Friuli-Venezia Giulia, I,
22.04.2015, n. 186).
4.2. Anche la reiterazione della richiesta di presentazione
della denuncia per opere in cemento armato appare
illegittima, visto che la stessa avrebbe dovuto essere
prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente
previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Anzi la mancata presentazione della denuncia avrebbe dovuto
condurre alla inibizione anche dei lavori avviati in seguito
al rilascio degli originari permessi di costruire.
4.3. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la
doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura determina
l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento
dell’atto impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.01.2018 n. 122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denuncia per opere in
cemento armato appare deve essere prodotta prima dell’inizio
dei lavori, come espressamente previsto dall’art. 65, comma
1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Sicché, la mancata presentazione della denuncia de qua
conduce alla inibizione dei lavori (eventualmente) già
avviati in seguito al rilascio del titolo edilizio
abilitativo.
---------------
4.2. Anche la reiterazione della richiesta di presentazione
della denuncia per opere in cemento armato appare
illegittima, visto che la stessa avrebbe dovuto essere
prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente
previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Anzi la mancata presentazione della denuncia avrebbe dovuto
condurre alla inibizione anche dei lavori avviati in seguito
al rilascio degli originari permessi di costruire.
4.3. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la
doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura determina
l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento
dell’atto impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.01.2018 n. 122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento in zona vincolata - Assenza di
autorizzazione - Violazioni paesaggistiche - Integrazione
del reato - Natura di reato formale di pericolo e permanente
- Fattispecie: strada in terra battuta e muretto di cemento
di confine - Art. 181, c. 1, d.lvo n. 42/2004.
La contravvenzione paesaggistica è un reato formale e di
pericolo, è integrata indipendentemente dal danno arrecato
al paesaggio e sanziona la violazione del divieto di
intervento in determinate zone vincolate senza la preventiva
autorizzazione amministrativa, ha natura permanente e si
consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la
cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Cass. Sez.
3, n. 37472 del 06/05/2014, Coniglio; Sez. 3, n. 14746 del
28/03/2012, Mattera; Sez. 3, n 40265 del 26/05/2015,
Amitrano).
Fattispecie: realizzazione, in assenza di autorizzazione
ambientale ed in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di
una strada in terra battuta, di uno scavo e un muretto di
cemento di confine con una recinzione con rete saldata al
suolo con getto di cemento lungo il confine.
Violazioni urbanistiche e paesaggistiche
- Incidenza sul carico urbanistico - DIRITTO PROCESSUALE
PENALE - Diniego di concessione della speciale causa di non
punibilità - Art. 131-bis cod. pen. - Art. 44, lett. c),
d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen.
nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche,
deve aversi riguardo alla consistenza dell'intervento
abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche
costruttive- alla destinazione dell'immobile, all'incidenza
sul carico urbanistico (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016,
Mancuso).
Fattispecie, in relazione al diniego di concessione della
speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen.
ancorata, alla consistenza dell'intervento abusivo, tale da
escludere il fatto di particolare tenuità, avuto riguardo
alla tipologia, dimensioni e caratteristiche degli
interventi, nonché dell'incidenza del carico urbanistico
giacché, era stato modificato il declivio della scarpata, la
strada era divenuta carrozzabile e le opere avevano, in
parte, interessato anche il demanio comunale modificando i
confini di una strada comunale (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 15.01.2018 n. 1497 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Autocarrozzeria, raccolta, recupero o
gestione non autorizzata di rifiuti anche pericolosi -
Nozione di veicolo fuori uso - Art. 3 D.Lgs. n. 209/2003 -
Art. 256, c. 1, lett. b), d.lgs. n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, deve essere considerato "fuori
uso" in base alla disciplina di cui all'art. 3 del
D.Lgs. n. 209 del 2003, sia il veicolo di cui il
proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di
disfarsi, sia quello destinato alla demolizione,
ufficialmente privo delle targhe di immatricolazione, anche
prima della materiale consegna a un centro di raccolta, sia
quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se
giacente in area privata (Sez. 3, n. 40747 del 02/04/2013,
dep. 02/10/2013, De Mariani; Sez. 3, n. 22035 del
13/04/2010, dep. 10/06/2010, Brilli; Sez. 3, n. 21963 del
04/03/2005, dep. 10/06/2005, D'Agostino; Sez. 3, n. 33789
del 23/06/2005, dep. 22/09/2005, Bedini).
Fattispecie: raccolta, recupero o comunque gestione non
autorizzata di rifiuti anche pericolosi, costituiti da
autoveicoli fuori uso, (effettuata dal titolare
dell'autocarrozzeria), direttamente appoggiati sul terreno,
contenenti liquidi pericolosi quali oli esausti, liquidi
refrigeranti, liquidi di batteria nonché materiale ferroso,
materiali di risulta e pneumatici fuori uso, all'interno di
un'area parzialmente recintata adiacente e senza che fossero
state adottate misure di protezione come
l'impermeabilizzazione del terreno volte ad evitare il
percolamento delle sostanze nocive.
RIFIUTI - Gestione di rifiuti - Natura
di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso - Sversamento
delle sostanze pericolose - Mancato accertamento fattuale -
Ininfluenza.
In tema di
gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un
veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti,
quando risulti, anche soltanto per le modalità di raccolta e
deposito, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna
operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi o delle
altre componenti pericolose (Sez. 3, n. 11030 del
05/02/2015, dep. 16/03/2015, Andreoni).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro
preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria - Terzo
estraneo al reato - Buona fede - Onere della prova.
Il terzo
estraneo al reato che, qualificandosi come proprietario o
come titolare di altro diritto reale sul mezzo sottoposto a
sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria,
ne invochi la restituzione in suo favore, ha l'onere di
provare la propria buona fede, ovvero che l'uso illecito
della res gli era ignoto e non collegabile ad un suo
comportamento colpevole o negligente (Sez. 3, n. 12473 del
02/12/2015, dep. 24/03/2016, Liguori) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 11.01.2018 n. 809 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una piscina - Necessità di
titoli abilitativi - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Zona
vincolata a vincolo paesaggistico - Sequestro preventivo di
una piscina fuori terra - Artt. 6, 44, lett. b), DPR
380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
La previsione
di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U. 380/2001, che ha
liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di
pertinenza degli edifici, non può mai estendersi
all'installazione di piscine, occorrendo per esse lavori di
scavo, rivestimento e dotazione di impianti tecnologici
(Sez. 3, 18.06.2003 n. 26197, Agresti), a fortiori da
escludersi allorquando si verta, come nel caso di specie,
dell'installazione di una piscina fuori terra.
Nella specie, inoltre, non vale a scriminare il ricorrente
per la pregressa comunicazione inoltrata al Comune per
l'installazione di un'area ludica, peraltro del tutto
irrilevante ai fini del contestato reato paesaggistico, non
costituendo i manufatti in questione, stanti le loro stesse
caratteristiche strutturali tali da escluderne la precarietà
ed il conseguente utilizzo temporaneo limitato alla stagione
estiva, elementi di arredo delle aree ludiche sussumibili
tra gli interventi cd. di edilizia libera, non richiedenti
cioè alcun titolo abilitativo.
Sicché, il carattere permanente dei manufatti, attesa la
dotazione di impianto elettrico ed idraulico che ne implica
lo stabile ancoraggio al suolo, nonché la loro attitudine
alla modifica dello stato dei luoghi in quanto ubicati in
area sottoposta vincolo paesaggistico confermano la
legittimità del sequestro preventivo (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 264 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione abusiva - Diritto all'abitazione -
Stato di necessità e violazione della disciplina urbanistica
- Art. 54 cod. pen. - Scriminante - Esclusione - Interesse
della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente
Artt. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
L'applicabilità dell'art. 54 cod. pen. (stato di necessità),
in tema di costruzione abusiva è stata costantemente esclusa
sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo di
restare senza abitazione, sussistendo la possibilità
concreta di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di
mercato e dello stato sociale ed in considerazione
dell'ulteriore elemento, necessario per l'applicazione della
scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed il
pericolo che l'agente intende evitare.
Pertanto, per escludere l'applicabilità della scriminante in
questione, si è posto l'accento sulla mancanza
dell'ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo,
osservando che l'attività edificatoria non è vietata in modo
assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a
tutela di beni di rilevanza collettiva, quali il territorio,
l'ambiente ed il paesaggio, che sono salvaguardati anche
dall'articolo 9 della Costituzione.
Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate
condizioni economiche non impediscono al cittadino di
chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è
edificabile, il diritto del cittadino a disporre di
un'abitazione non può prevalere sull'interesse della
collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 259 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Immobile abusivo - Ordine di demolizione
impartito dal giudice - Alienazione a terzi - Effetti -
Esecuzione dell'ordine di demolizione - Giurisprudenza -
Art. 31, c. 9, d.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, carattere reale e natura di
sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve
pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti
che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un
diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti
di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua
operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi
della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che
l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a
seguito dell'avvenuta demolizione. Quindi, l'eventuale
alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la
demolizione.
Pertanto, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito
dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è
esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014,
Attardi; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep. 2011, Giustino
e altri; Sez. 3, n. 45301 del 07/10/2009, Roscetti).
Caratteristiche dell'ordine di
demolizione - Funzione di riparazione effettiva di un danno
- Esclusione - Confisca - Giurisprudenza della Corte EDU.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando
un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa
a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai
sensi dell'art. 173 cod. pen., atteso che quest'ultima
disposizione si riferisce alle sole pene principali.
Sicché, le caratteristiche dell'ordine di demolizione,
escludono la sua riconducibilità alla nozione convenzionale
di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte
EDU, osservando che la demolizione, a differenza della
confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai
sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla
riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua
essenza a punire per impedire la reiterazione di
trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge, che
ribadendo il principio in questione ha ritenuto infondata la
questione di illegittimità costituzionale per violazione
degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380
del 2001 per mancata previsione di un termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo disposto con la sentenza di condanna (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 249 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - APPALTI - Contratto di appalto -
Smaltimento dei rifiuti - Obblighi dell'appaltatore -
Qualità di produttore del rifiuto - Obblighi connessi -
Svolgimento dei lavori - Ingerenza o controllo diretto del
committente - Eccezione - Fattispecie: Raccolta e trasporto
di materiali di risulta di opere di demolizione edile in
assenza di autorizzazione - Art. 256 del d.lgs. n. 152/2006.
Nell'ipotesi di esecuzione di lavori attraverso un contratto
di appalto, è l'appaltatore che -per la natura del rapporto
contrattuale da lui stipulato ed attraverso il quale egli è
vincolato al compimento di un'opera o alla prestazione di un
servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione
a proprio rischio dell'intera attività- riveste generalmente
la qualità di produttore del rifiuto; da ciò ne deriva che
gravano su di lui, ed in linea di principio esclusivamente
su di lui, gli obblighi connessi al corretto smaltimento dei
rifiuti rivenienti dallo svolgimento della sua prestazione
contrattuale, salvo il caso in cui, per ingerenza o
controllo diretto del committente sullo svolgimento dei
lavori, i relativi obblighi si estendano anche a carico di
tale soggetto (Corte di cassazione, Sezione III penale,
16/03/2015, n. 11029).
Nella specie, l'appaltatore aveva provveduto alla raccolta
ed al trasporto con il proprio autocarro di rifiuti speciali
non pericolosi, consistenti in materiali di risulta di opere
di demolizione edile, in assenza della prescritta
autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 223 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di recupero dei rifiuti -
Iscrizione dell'impresa nell'apposito registro -
Trasmissione della comunicazione - Procedura semplificata -
Atto contraffatto - Gestione d'impresa - Responsabilità
dell'imprenditore - Obbligo di vigilanza - Artt. 214, 216 e
256 d.l.vo n.152/2006.
Chi
consapevolmente assuma, ancorché in maniera esclusivamente
apparente, la gestione di un'impresa è tenuto, ove non
voglia incorrere nelle sanzioni penali derivanti dalle
illecite condotte poste in essere nello svolgimento della
attività imprenditoriale, a vigilare sul corretto
adempimento, da parte di chi de facto operi come dominus,
degli obblighi imposti dalla normativa vigente sugli
amministratori delle imprese.
Pertanto, ai sensi dell'art. 216, comma 1, del dlgs n. 152
del 2006, l'attività di recupero dei rifiuti non pericolosi,
rispettate le norme tecniche e le prescrizioni di cui ai
commi 1, 2 e 3, dell'art. 214 del dlgs n. 152 del 2006, può
essere iniziata, a seguito di una procedura semplificata al
fine di conseguire un titolo a ciò legittimante, anche solo
sulla base di una comunicazione trasmessa alla
Amministrazione provinciale competente e successivamente
all'avvenuto decorso del termine di 90 giorni dall'inoltro
della predetta comunicazione, termine questo entro il quale
la Amministrazione pubblica di cui sopra, operata la
iscrizione della impresa impegnata nella attività di
recupero dei rifiuti in un apposito registro, deve
verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti
richiesti per lo svolgimento della predetta attività.
Nella specie, l'imprenditore aveva affidato l'incarico di
trasmissione della comunicazione da parte del consulente in
relazione alle tematiche di carattere ambientale della
impresa in questione, e fatto affidamento su una nota della
Provincia di Milano da cui emergeva l'avvenuto rinnovo della
prescritta comunicazione ai fini del legittimo svolgimento
della attività di recupero in discorso, nota poi rivelatasi
essere un falso dolosamente predisposto (dall'incaricato)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 222 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non configurabilità quale "edificio unifamiliare"
della ristrutturazione di un fabbricato urbano (ex
fabbricato colonico), con cambio di destinazione d’uso del
piano terra originariamente adibito ad usi produttivi
agricoli (stalla, cantina, ecc.).
L’intervento di ristrutturazione nel
caso di specie, anche se non ha creato nuova superficie
calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una
riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella
residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando
così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente
abitativo.
La lett. d) dell'art. 9 l. n. 10/1977 non specifica come
debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo
volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in
altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie
funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare
l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di
derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione
socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie.
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura.
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Il ricorrente impugna la concessione edilizia n. 11/1992
dallo stesso ottenuta per la ristrutturazione di un
fabbricato urbano (ex fabbricato colonico), con cambio di
destinazione d’uso del piano terra, nella parte in cui
contiene la determinazione del contributo concessorio per
oneri di urbanizzazione (£ 2.313.166) e costo di costruzione
(£ 6.883.912), ritenendolo non dovuto e di cui chiede la
restituzione essendo stato medio tempore versato
all’amministrazione comunale per il rilascio del titolo.
Con un’unica ed articolata censura viene dedotta violazione
dell’art. 9 della Legge n. 10/1977 poiché l’intervento
edilizio deve essere ricondotto alla relativa lett. d),
trattandosi di edificio unifamiliare. In particolare viene
dedotto che risulta irrilevante l’avvenuto cambio di
destinazione d’uso, in quanto l’unico limite
all’applicazione del beneficio in oggetto è che la
ristrutturazione non comporti aumenti di volumetria oltre il
limite del 20% di quella esistente.
La censura è infondata
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9, lett. d), della
Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la
gratuità della concessione edilizia “per gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi
censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni,
la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse
disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr.
art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma
3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi
produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività
normalmente computabili attraverso propri indici di
edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista,
ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad
esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio
o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato
nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque
comportato una riconfigurazione delle superfici utili,
ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva,
trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo
essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato
l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova
superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il
cambio di destinazione tra categorie funzionalmente
diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio
unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione
sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione
socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano,
Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n.
1480; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto,
Sez. II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire
quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio,
la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di
progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato
contenuto entro i limiti del 20% della destinazione
residenziale originaria.
Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR Marche,
sentenza 04.01.2018 n. 9 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Architetti e ingegneri dipendenti che svolgono
anche attività libero professionale devono versare
contributi a Inarcassa (Cassa di Previdenza privata di
Architetti e Ingegneri) e alla gestione separata dell'INPS?
A dirimere ogni dubbio ci ha pensato la Suprema Corte di
Cassazione -Sez. lavoro- che, con
sentenza 18.12.2017 n. 30344, è intervenuta
sull'argomento rigettando il ricordo presentato da un
ingegnere avverso l'avviso di addebito con cui l'INPS gli
aveva richiesto il pagamento di contributi omessi nell'anno
2007 in favore della gestione separata.
In particolare, il caso riguardava un ingegnere iscritto
all'Albo degli Ingegneri e degli Architetti e che, oltre ad
essere lavoratore dipendente iscritto al Fondo Pensioni
Lavoratori Dipendenti, aveva svolto nel periodo in questione
anche attività libero-professionale, per la quale aveva
versato a INARCASSA il contributo integrativo.
La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado,
affermava che il pagamento a INARCASSA del contributo
integrativo non valesse ad escludere il professionista
dall'obbligo di iscrizione alla gestione separata,
trattandosi di contributo dovuto per finalità
solidaristiche, che non metteva capo alla costituzione di
alcuna posizione previdenziale.
Da qui il ricorso in Cassazione del professionista
ingegnere.
Appare utile ricordare alcune regole previste per Architetti
e Ingegneri iscritti all'albo che svolgono attività libero
professionale e sono quindi iscritti alla contribuzione con
Inarcassa. I contributi previdenziali sono connessi
all’esercizio della libera professione e sono suddivisi in:
• contributo soggettivo, obbligatorio per gli
iscritti ad Inarcassa ed è calcolato in misura percentuale
(14,5%) sul reddito professionale netto dichiarato ai fini
I.R.P.E.F., per l’intero anno solare di riferimento,
indipendentemente dal periodo di iscrizione intervenuto
nell’anno. È previsto un contributo minimo, da corrispondere
indipendentemente dal reddito professionale dichiarato, il
cui ammontare varia annualmente in base all’indice annuale
ISTAT. Per l’anno 2017 è stato pari a € 2.280,00;
• contributivo facoltativo, è un contributo
volontario calcolato in base ad una aliquota modulare
applicata sul reddito professionale netto;
• contributo integrativo, obbligatorio per i
professionisti iscritti all’albo professionale e titolari di
partita IVA (individuale, associativa e societaria) e per le
società di Ingegneria ed è calcolato in misura percentuale
(4%) sul volume di affari professionale dichiarato ai fini
IVA;
• contributo di maternità, obbligatorio per
tutti gli iscritti Inarcassa (per il 2017 è stato pari a 47
euro interamente deducibili ai fini fiscali).
Ciò premesso, gli ermellini hanno confermato che architetti
e ingegneri dipendenti, quindi iscritti ad altre forme di
previdenza obbligatorie, non possono iscriversi ad Inarcassa
con la conseguenza che, in caso di attività libero
professionali devono versare ad Inarcassa il contributo
integrativo e iscriversi presso la gestione separata INPS.
Come indicato dai giudici della Cassazione, l’art. 2, comma
26, della legge n. 335/1995 ha previsto che "sono tenuti
all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso
l’INPS, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione
generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i
superstiti, i soggetti che esercitano per professione
abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro
autonomo, di cui al comma 1 dell’articolo 49 del testo unico
delle imposte sui redditi, approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917, e successive
modificazioni ed integrazioni".
L’iscrizione alla gestione separata è obbligatoria per i
soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché
non esclusiva, attività di lavoro autonomo, l’esercizio
della quale non sia subordinato all’iscrizione ad appositi
albi professionali ovvero, se subordinato all’iscrizione ad
un albo, non sia soggetto ad un versamento contributivo agli
enti previdenziali di riferimento che sia suscettibile di
costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata
posizione previdenziale.
Considerato che l’iscrizione a INARCASSA è preclusa agli
ingegneri e agli architetti che siano iscritti ad altre
forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un
rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività
esercitata, tali soggetti non sono tenuti al versamento del
contributo soggettivo, bensì unicamente al versamento del
contributo integrativo, dovuto da tutti gli iscritti agli
albi di ingegnere e architetto, indipendentemente
dall’iscrizione a INARCASSA, nella forma di una
maggiorazione percentuale che dev’essere applicata dal
professionista su tutti i compensi rientranti nel volume di
affari e versata alla Cassa indipendentemente dall’effettivo
pagamento che ne abbia eseguito il debitore, salva
ripetizione nei confronti di quest’ultimo.
Il versamento di tale contributo, in difetto di iscrizione a
INARCASSA, non attiva alcuna posizione previdenziale a
beneficio del professionista che è tenuto a corrisponderlo:
la cassa di previdenza eroga le prestazioni previdenziali
esclusivamente agli iscritti e chi è iscritto ad altra forma
di previdenza obbligatoria non può esserlo. Dunque, è
inevitabile concludere che il suo versamento non può
esonerare il professionista dall’iscrizione alla gestione
separata INPS: la regola generale conseguente
all’istituzione di quest’ultima è che all’espletamento di
una duplice attività lavorativa, quando per entrambe è
prevista una tutela assicurativa, deve corrispondere una
duplicità di iscrizione alle diverse gestioni.
Né ciò comporta alcuna duplicazione di contribuzione a
carico del professionista, giacché il contributo
integrativo, la cui istituzione si giustifica esclusivamente
in relazione alla necessità di INARCASSA di disporre di
un’ulteriore fonte di entrate con cui sopperire alle
prestazioni cui è tenuta, è ripetibile nei confronti del
beneficiario della prestazione professionale e dunque è in
realtà posto a carico di terzi estranei alla categoria
professionale cui appartiene il professionista e di cui
INARCASSA è ente esponenziale (commento tratto da
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha evidenziato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che
esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
e) l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli
interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo
comma (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo
interesse pubblico -come valutato dal legislatore
nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili
ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della
fascia inedificabile.
L’art. 338, quinto comma, del T.U. delle leggi sanitarie è,
dunque, da intendersi come norma eccezionale e di stretta
interpretazione, che consente di costruire in zona di
rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche
domande edificatorie e non può essere base legale di
un’autorizzazione a costruire de futuro da rinvenirsi
implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre
distinte opere.
---------------
1. Il signor Fr.La. ha chiesto al comune di Santa Maria
Capua Vetere la delocalizzazione di un impianto di
distribuzione carburanti di sua proprietà fuori dal centro
cittadino su un suolo privato adiacente l’asse viario di
collegamento del casello autostradale con la SS 7 Appia.
2. Il Comune, con atto n. 6869 del 22.02.2010, ha respinto
la sua istanza volta a ottenere il permesso di costruire il
nuovo impianto, rilevando l’esistenza di un vincolo
cimiteriale sull’area interessata.
3. Il signor La. ha proposto ricorso contro il provvedimento
di diniego al Tar per la Campania, sede di Napoli, che, con
la sentenza indicata in epigrafe, lo ha respinto unitamente
alla richiesta di risarcimento dei danni.
...
8. L’appello è manifestamente infondato.
9. L’appellante ha ottenuto dal Sindaco di Santa Maria Capua
Vetere, con provvedimento prot. n. 16455 del 06.05.2005, la
possibilità di delocalizzare l’impianto di distribuzione
carburanti di sua proprietà fuori dal centro cittadino.
Nel 2007 ha quindi chiesto l’installazione del nuovo
impianto su un terreno in suo possesso posto a margine
dell’asse viario di collegamento tra il casello autostradale
e la SS 7 Appia (Circumvallazione Nord-Est), in un’area
ricadente all’interno di un vincolo cimiteriale.
Il Comune, con nota n. 6869 del 22.02.2010, ha tuttavia
respinto l’istanza tesa ad ottenere il necessario permesso
di costruire, rilevando, sulla base di un parere della
Commissione edilizia, che l'intervento avrebbe comportato la
costruzione di edifici in area rientrante nella fascia di
rispetto cimiteriale di 200 metri, individuata dall’art. 40
delle N.T.A. del P.R.G. di Santa Maria Capua Vetere, e
quindi in violazione dell'art. 57 del d.P.R. n. 285 del 1990
(Regolamento di Polizia mortuaria).
10. Nei motivi di appello proposti contro la sentenza del
Tar per la Campania che ha respinto il suo ricorso il signor
La. evidenzia, innanzitutto, che il Comune, avendo approvato
la costruzione dell’asse vario presso il quale avrebbe
voluto realizzare il nuovo impianto, non ha tenuto conto che
la deroga implicita al vincolo cimiteriale per la stessa
opera pubblica si sarebbe dovuta estendere anche al
richiesto distributore in quanto opera pertinenziale di
pubblica utilità connessa alla stessa strada.
In sostanza, il Comune aveva già derogato al limite di
rispetto di 200 metri dal confine del cimitero, sicché anche
l’impianto di carburante, posto comunque al di fuori dalla
fascia incomprimibile di 50 metri dal cimitero, avrebbe
potuto e dovuto essere autorizzato in deroga. Peraltro, la
stessa Amministrazione aveva autorizzato altri impianti
all’interno della medesima fascia di rispetto cimiteriale.
11. La tesi dell’appellante non può essere condivisa per le
seguenti ragioni:
a) la previsione di una deroga è limitata alla realizzazione di
opere pubbliche puntualmente individuate;
b) nel caso di specie (pur volendo ammettere che l’impianto di
carburante rientri nella categoria in questione), la deroga
al vincolo cimiteriale ha riguardato esclusivamente la
realizzazione di un’opera pubblica (cioè la realizzazione
della strada di circumvallazione dell’asse viario di
collegamento del casello autostradale di S. Maria Capua
Vetere con la S.S. 7 Appia, direzione Caserta, a ridosso
delle mura cimiteriali);
c) la deroga non può dunque ritenersi operante per qualsiasi
intervento, sussistendo invece solo per le opere pubbliche
per la quale tale riduzione è richiesta e disposta;
d) manca un atto di destinazione dell’ente proprietario della
strada, ex artt. 24, comma 4, del codice della strada e 817
c.c., che qualifichi espressamente l’impianto di carburante
come pertinenza dell’asse viario; contrariamente a quanto
sostenuto dalla difesa appellante, la disciplina del codice
della strada e del regolamento attuativo (in parte qua,
ovvero la dove afferma il collegamento strutturale e
pertinenziale tra gli impianti di carburante e la strada su
cui sono posizionati), presuppone tale atto di destinazione
da parte dell’ente proprietario; ne discende la sostanziale
correttezza di quanto rilevato dal giudice di primo grado,
secondo cui: “Il fatto che gli impianti di distribuzione
di carburanti siano pertinenze stradali non significa che
essi stessi costituiscano opere pubbliche nel senso proprio
del termine”;
e) non si rinviene inoltre, come indicato nella sentenza impugnata,
alcuna disparità di trattamento ai danni dell’appellante,
tenuto conto che dagli atti depositati dal Comune nel corso
del giudizio emerge che anche altre domande di apertura di
impianti di distribuzione di carburante (indicate
dall’appellante) sono state respinte.
12. Quanto poi all’evocata violazione dell’art. 388 del R.D.
n. 1265/1934 (T.U. delle legge sanitarie), va rilevato
quanto disposto dal suo primo comma: “I cimiteri devono
essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal
centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri
nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi,
comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”.
Aggiunge il quinto comma, nel testo da ultimo sostituito
dall’art. 28, co. 1, lett. b), della legge n. 166/2002: “Per
dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un
intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione
legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente
incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe
di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e
rispetto alla totalità dei soggetti il regime di
appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili
che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o
contiguità con i suddetti beni pubblici (da ultimo Cass.
civ., sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale
(Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che
esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti
(Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., sez.
I, 17.10.2011, n. 2011; Id., sez. I, n. 26326 del 2016,
cit.);
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
e) l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli
interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo
comma (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo
interesse pubblico -come valutato dal legislatore
nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili
ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della
fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI,
04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi
riferimenti ulteriori).
L’art. 338, quinto comma, del T.U. delle leggi sanitarie,
richiamato dall’appellante, è dunque da intendersi come
norma eccezionale e di stretta interpretazione, che consente
di costruire in zona di rispetto cimiteriale unicamente con
riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere
base legale di un’autorizzazione a costruire de futuro da
rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito
ad altre distinte opere (cfr. Cons. Stato. Sez. IV,
06.10.2017, n. 4656).
13. Tenuto conto della infondatezza della pretesa
dell’appellante, il Tar ha correttamente rigettato anche la
domanda risarcitoria, inclusa quella relativa al ritardo con
il quale l’Amministrazione comunale ha respinto la sua
istanza.
Ha, infatti, rilevato, che lo stesso appellante, pur avendo
notificato due diffide a provvedere, non ha attivato
l’azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a. e che
comunque il Comune si era espresso, in termini negativi
sostanzialmente confermati con il provvedimento finale, con
la comunicazione dei motivi ostativi di cui alla nota prot.
40336 del 28.10.2008 (cioè a poca distanza di tempo
dall’integrazione documentale della domanda intervenuta in
data 12.07.2007).
Nessuna lesione dell’affidamento, pertanto, avrebbe potuto
essere rintracciata, come invece sostenuto da parte
appellante, nella successione degli atti che hanno portato
al rigetto della domanda, essendo la stessa comunicazione
del 28.10.2007 (al di là della sua indole di preavviso di
rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990),
esplicitamente indicativa delle intenzioni
dell’Amministrazione.
14. Ciò premesso, non può ritenersi condivisibile neppure
quanto prospettato dall’appellante in ordine alla
possibilità di un risarcimento da lesione dell’affidamento o
comunque dalla perdita di chance anche in conseguenza di un
provvedimento non illegittimo.
A prescindere dalla (indimostrata allo stato) esistenza, nel
caso di specie, di un “provvedimento favorevole” -in
ordine al quale l’eventuale domanda di risarcimento per
lesione dell’affidamento sarebbe comunque di competenza del
giudice ordinario (cfr. Cass. civ., SU, ordinanza
02.08.2017, n. 19170 e Cons. Stato, Sez. IV, 25.01.2017, n.
293)- l’accertamento della legittimità del provvedimento di
rigetto adottato dall’Amministrazione e l’assenza di una
prova rigorosa della spettanza del bene della vita rende non
configurabile una qualunque forma di risarcimento del danno
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2017, n. 1835).
Tale prova sarebbe stata comunque necessaria anche in caso
di acclarata illegittimità del diniego di costruzione
dell’impianto di distribuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
13.04.2016, n. 1436) o di ritardo procedimentale (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 25.03.2016, n. 1239).
15. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto in
quanto manifestamente infondato e, per l’effetto, va
confermata la sentenza impugnata.
16. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate
secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono
liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri
stabiliti dal regolamento 10.03.2014, n. 55 e della non
sinteticità dell’atto di appello.
17. Il Collegio rileva, inoltre, che la
pronuncia di reiezione dell’appello si basa, come sopra
illustrato, su ragioni manifeste che integrano i presupposti
applicativi dell’art.
26, co. 1, c.p.a.
secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla
giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente
recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal
decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez.
V, 21.11.2014, n. 5757; sez. V, 11.06.2013, n. 3210; sez. V,
31.05.2011, n. 3252; sez. V, 26.03.2012, n. 1733, sez. V,
09.07.2015, n. 3462, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e
88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità
applicative ed alla determinazione della misura indennitaria
conformemente, per altro, ai principi elaborati dalla Corte
di cassazione (cfr. da ultimo sez. VI, n. 11939 del 2017 e
n. 22150 del 2016)] (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2017 n. 5873 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Benefici
ko per uso edificatorio. I terreni agricoli perdono le agevolazioni
tributarie. Un'ordinanza della Corte di cassazione.
Ici, Imu e Tasi durante le opere effettuate.
L'utilizzo a fini edificatori di un terreno agricolo fa venir meno il
diritto a fruire dei benefici fiscali. Infatti, durante il periodo in cui un
terreno agricolo viene distolto dall'esercizio delle attività agricole,
perché su di esso sono in corso opere di costruzione, demolizione,
ricostruzione o interventi di recupero edilizio, deve essere assoggettato al
pagamento di Ici, Imu e Tasi anche se l'area non è qualificata edificabile
dagli strumenti urbanistici. Il tributo è dovuto fino alla data di
ultimazione dei lavori, poiché vengono meno le agevolazioni legate alla
natura agricola del terreno.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
06.12.2017 n. 29192.
Per i giudici di legittimità, «in tema di Ici, nel periodo in cui il
terreno agricolo sia distolto dall'esercizio delle attività previste
dall'art. 2135 c.c., poiché su di esso sono in corso opere di costruzione,
demolizione, ricostruzione o esecuzione di lavori di recupero edilizio, la
base imponibile è costituita, giusta l'art. 5, comma 6, del dlgs n. 504 del
1992, dal valore dell'area utilizzata a tale scopo, la quale, per tale
motivo, è considerata fabbricabile, indipendentemente dal fatto che lo sia,
o non, in base agli strumenti urbanistici, fino alla data di ultimazione dei
lavori di costruzione, venendo meno la ragione agevolativa della natura
agricola, connessa ai rischi di tale attività».
Bisogna ricordare che il terreno sul quale venivano esercitate le attività
agricole non era soggetto all'Ici come area edificabile, anche se il bene
era qualificato come tale dal piano regolatore comunale, cosiddetta finzione
giuridica di non edificabilità, in base a quanto disposto dagli articoli 2 e
9 del decreto legislativo 504/1992.
Il citato articolo 2, applicabile anche all'Imu, prevede che sono
considerati non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori
diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste l'utilizzazione
agro-silvo-pastorale. L'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997
prevedeva però che si considerassero coltivatori diretti o imprenditori
agricoli a titolo principale solo le persone fisiche iscritte negli appositi
elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della legge 9/1963 e soggette al
corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e
malattia. Pertanto, non poteva usufruire del beneficio il pensionato per il
quale non sussiste alcun obbligo di assicurazione.
La stessa regola vale per l'Imu, considerato che l'articolo 13 del dl Monti
(201/2011) pur non imponendo più come per l'Ici la contribuzione
obbligatoria per i coltivatori, ma solo l'iscrizione alla previdenza
agricola, non consente comunque di beneficiare delle agevolazioni in quanto
è lo status di pensionato a costituire un impedimento, come chiarito dalla
Cassazione con la sentenza 13745/2017
(articolo ItaliaOggi del 20.02.2018).
---------------
MASSIMA
Considerato:
- che con il motivo d'impugnazione il ricorrente deduce, ai sensi
dell'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione
degli artt. 2 e 5, D.Lgs. n. 504 del 1992, giacché il Giudice di appello non
ha considerato che, in base al PRG del Comune adottato nel 1973, e
successiva Variante Generale approvata con deliberazione della Giunta
Regionale n. 3197 del 15/07/1986, vigente negli anni oggetto di
accertamento, l'area era ricompresa in Zona E, e che la normativa comunale
(art. 51 delle NTA) ammetteva una limitata possibilità di realizzare in zona
agricola impianti produttivi di tipo agricolo, che inoltre in base alla
Variante Urbanistica Generale adottata con deliberazione del Consiglio
Comunale n. 64 del 11/10/2000, e poi al Piano Particolareggiato di
Iniziativa Privata autorizzato con deliberazione del Consiglio Comunale n.
46 del 19/07/2001, l'area già nell'anno 2000 era definita come "comparto
di attuazione di iniziativa privata" per insediamenti produttivi,
qualificazione sufficiente per ritenere il terreno per cui è causa
edificabile, ed ancora, che il Comune prudenzialmente aveva preteso
l'imposta soltanto a partire dal mese di giugno 2002, nel periodo cioè
ricompreso tra la data (04/06/2002) di rilascio della concessione edilizia,
e quella (06/08/2004) di ultimazione dei lavori, calcolandola sul valore
venale del bene stimato mediante perizia, evidenzia infine l'erroneità della
tesi del contribuente, fatta propria dal giudice di secondo grado, secondo
cui, ai fini dell'imposta, anche dopo il rilascio della concessione
edilizia, nel periodo di esecuzione dei lavori di edificazione del
fabbricato, e fino all'ultimazione dello stesso, il terreno non può essere
qualificato come agricolo;
- che l'intimato contribuente, nel controricorso, per contrastare
le argomentazioni dell'Ente impositore, dopo aver richiamato le risultanze
della relazione di stima a firma dell'Ing. Br., sostiene invece che l'area
in questione, nel PRG vigente per gli anni oggetto di accertamento, era
classificata in Zona Agricola E, classificazione che non è mutata nel
periodo ricompreso tra il rilascio della concessione edilizia e
l'ultimazione (parziale) dei lavori di edificazione del capannone per la
conservazione e lavorazione dei prodotti agricoli, giusta approvazione della
convenzione per l'attuazione del piano particolareggiato ad iniziativa
privata proposto dal Lu., e neppure per effetto della Variante Generale al
PRG adottata con deliberazione del Consiglio Comunale n. 64 del 11/10/2000,
la quale si è limitata ad individuare i comparti assoggettabili a piano
particolareggiato ad iniziativa privata in zona agricola;
- che il ricorso è fondato e merita accoglimento nei termini di
seguito meglio precisati;
- che, secondo quanto affermato da questa Corte, "In
tema di ICI, nel periodo in cui il terreno agricolo sia distolto
dall'esercizio delle attività previste dall'art. 2135 c.c., poiché su di
esso sono in corso opere di costruzione, demolizione, ricostruzione o
esecuzione di lavori di recupero edilizio, la base imponibile è costituita,
giusta l'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 504 del 1992, dal valore dell'area
utilizzata a tale scopo, la quale, per tale motivo, è considerata
fabbricabile, indipendentemente dal fatto che lo sia, o non, in base agli
strumenti urbanistici, fino alla data di ultimazione dei lavori di
costruzione, venendo meno la ragione agevolativa della natura agricola,
connessa ai rischi di tale attività"
(Cass. n. 27096/2016, n. 10082/2014);
- che, detto in altri termini, è durante il
periodo di effettiva utilizzazione edificatoria (per costruzione, per
demolizione e ricostruzione, per esecuzione di lavori di recupero edilizio),
che il suolo interessato deve essere considerato area fabbricabile, e ciò
indipendentemente dal fatto che sia tale o meno in base ai vigenti strumenti
urbanistici, per cui nel caso di terreno agricolo, che per l'art. 2, D.Lgs.
n. 504 del 1992, è quello "adibito all'esercizio delle attività indicate
nell'art. 2135 codice civile", trova applicazione quanto previsto dall'
art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 504 del 1992, di tal che l'area "è considerata
fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito dall'art. 2, senza computare
il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei
lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione, ovvero, se
antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o
ristrutturato è comunque utilizzato", tutto ciò, per utilizzare
l'espressione contenuta nella Risoluzione del Ministero delle Finanze del
17.10.1997, n. 209/E, in forza di una "finzione" giuridica che non
può che operare limitatamente al periodo considerato dalla disposizione, e
non già dal momento del rilascio dei titoli edilizi abilitativi, mentre una
volta che l'area edificabile sia stata comunque utilizzata, il valore della
base imponibile ai fini dell'imposta si trasferisce dall'area stessa
all'intera costruzione realizzata;
- che, in conclusione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio,
per nuovo esame, alla CTR competente, in altra composizione, la quale
provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di
legittimità; |
TRIBUTI:
Fascicoli amministrativi aperti. Documenti accessibili ai
contribuenti sotto accertamento. La Corte di
giustizia Ue scende in campo a tutela del diritto di accesso e di difesa.
La Corte di giustizia europea scende in campo a tutela del diritto di
accesso agli atti amministrativi da parte del contribuente sottoposto ad
accertamento tributario.
Secondo la Corte, infatti (Cgue, sez. III,
sentenza 09.11.2017, causa C-298/16), il principio generale di
diritto dell'Unione del rispetto dei diritti della difesa deve essere
interpretato nel senso che, nell'ambito di procedimenti amministrativi
relativi alla verifica e alla determinazione della base imponibile dell'Iva,
un soggetto privato deve avere la possibilità di ricevere, a sua richiesta,
le informazioni e i documenti contenuti nel fascicolo amministrativo e presi
in considerazione dall'autorità pubblica per l'adozione della sua decisione,
a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione
dell'accesso a dette informazioni e a detti documenti, sempre che tali
obiettivi non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento
sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei
diritti della difesa del soggetto.
Si tratta di una pronuncia di estrema importanza destinata a incidere, in
più di un profilo, nel diritto interno ove l'accesso agli atti
amministrativi, seppur riconosciuto dall'articolo 22 della legge n. 241/1990
(c.d. trasparenza amministrativa) trova in concreto più di un ostacolo alla
sua concreta applicazione.
Ai sensi della disposizione da ultimo ricordata infatti: «al fine di
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo
svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse diretto,
concreto e attuale per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il
diritto di accesso ai documenti amministrativi».
Al di là dell'enunciazione di principio l'attuazione pratica della norma in
ambito tributario è spesso condizionata da esigenze istruttorie e d'indagine
che di fatto impediscono un accesso tempestivo e puntuale agli atti
amministrativi sui quali i funzionari fiscali basano le loro ricostruzioni e
le verifiche.
Per rendersi conto della situazione attuale nel quale si trova il diritto
del contribuente all'accesso agli atti inerenti le verifiche e i controlli
fiscali basta scorrere quanto descritto nella recente circolare n. 1/2018
della Guardia di finanza.
Secondo il comando generale delle fiamme gialle infatti, tenuto conto
dell'orientamento della giurisprudenza amministrativa, il diritto di accesso
agli atti delle verifiche e dei controlli fiscali deve ritenersi esperibile
soltanto nel momento in cui tali controlli e verifiche sono terminati e non
nel corso delle operazioni stesse.
L'accesso agli atti del procedimento deve essere avviato con la
presentazione di apposita istanza da parte del contribuente da sottoporre al
vaglio dell'ufficio competente che dovrà esprimersi, al termine
dell'istruttoria, con un provvedimento espresso di accoglimento o di
diniego.
Inoltre, si legge sempre nel nuovo manuale operativo sulle verifiche
fiscali, una volta concluso il procedimento di accertamento originato a
seguito di una verifica o controllo svolti dalla Guardia di finanza il
destinatario dell'istanza finalizzata ad accedere agli atti dell'intervento
deve individuarsi non nell'unità del Corpo che ha condotto le operazioni
ispettive, bensì nell'Ufficio dell'Agenzia delle entrate che ha emanato
l'avviso di accertamento o altro provvedimento conclusivo.
L'intervento della Corte di giustizia.
Il fulcro centrale della sentenza della Corte di giustizia europea poggia
sulle possibili limitazioni al diritto di accesso agli atti amministrativi
da parte del contribuente sottoposto a verifica fiscale.
Secondo la sentenza in commento infatti le uniche limitazioni possibili a
tale diritto possono trovare giustificazione in «obiettivi di interesse
generale» che potrebbero essere, per esempio, quelli della tutela della
riservatezza delle informazioni o del segreto professionale.
Sul contenuto di tali limitazioni al diritto di accesso la Corte di
giustizia non può ovviamente entrare nel merito rimandando al giudice del
rinvio l'esame della compatibilità della legislazione interna del singolo
Stato.
Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante della medesima Corte di
giustizia richiamata nella sentenza in commento, le restrizioni al diritto
di accesso agli atti e quindi al diritto alla difesa del contribuente, può
essere sottoposto a delle restrizioni a condizione però che queste
rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale e non
costituiscano un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere
la sostanza stessa dei diritti così garantiti (C-481/11; C-129/13 e
C-130/13).
L'impatto della sentenza nel diritto interno.
Come è noto, le leggi «ordinarie» dello Stato (e delle regioni) sono
subordinate alle prescrizioni contenute in fonti sopra-legislative in
particolare alla Costituzione, alla normativa della Comunità europea, alla
Convenzione europea dei diritti.
Questa complessa situazione è fonte di numerose incertezze sia in quanto le
tre fonti sovente si integrano e sovrappongono (specie da quando la Ce si è
data una «carta dei diritti»), sia in quanto il compito di assicurare
il rispetto delle norme sovra-legislative è affidato a svariati strumenti
giudiziari e in particolare a quattro «Corti supreme»: la Corte di
cassazione, la Corte costituzionale, la Corte Edu e la Corte di giustizia
della Ce.
In relazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, è consentito
alla parte (e non al giudice) che non sia soddisfatta del risultato
raggiunto attraverso il ricorso ai giudici nazionali e dopo aver esperito
tutti i gradi di giudizio, di rivolgersi alla Corte Edu. Mentre ove sorga
(come nella vicenda di cui ci occupiamo) un problema circa l'applicazione
delle norme della Comunità europea il giudice nazionale (qui della Romania)
interpella direttamente la Corte di giustizia della comunità.
Quindi può accadere che questioni sostanzialmente identiche siano sottoposte
alla Corte di cassazione, alla Corte costituzionale, alla Corte Edu, alla
Corte europea di giustizia, alla Corte costituzionale. E sono palesi
tensioni fra le varie Corti, ciascuna gelosa della propria sfera di
competenza, e desiderosa di ampliarla.
Queste tensioni non hanno però finora avuto riflessi negativi sui diritti
dei contribuenti, che prenderanno atto con soddisfazione che grazie alle
puntuali indicazioni contenute nella sentenza della Corte di giustizia
europea, se si vedranno respingere le istanze di acceso agli atti
amministrativi riguardanti una verifica fiscale, avranno un'arma in più per
impugnare tale diniego. E il giudice nazionale al quale verranno rivolte le
eventuali lagnanze non potrà non considerare la portata della sentenza in
commento soprattutto nella parte in cui la stessa specifica, limitandole, le
condizioni e le ragioni per le quali il diritto di accesso agli atti
amministrativi possa essere sacrificato
(articolo
ItaliaOggi Sette del 19.02.2018). |
TRIBUTI: Logo
e orari, niente imposta sul cartello.
Le affissioni o i messaggi riportati su specifici impianti recanti il logo,
il nome dell'esercizio, le indicazioni stradali di ingresso e gli orari di
apertura e chiusura, non sono soggetti all'imposta comunale sulla
pubblicità, salvo che non superino i 5 mq; l'imposta sulla pubblicità è
dovuta soltanto per espliciti messaggi pubblicitari, quali non possono
ritenersi gli elementi predetti.
Lo afferma la Ctp di Como nella
sentenza 08.11.2017 n. 274/5/2017, con cui è stato annullato un
avviso di accertamento emesso da una concessionaria per il servizio di
riscossione delle imposte relativamente all'anno 2016.
Nel caso di specie, si trattava di impianti situati nei pressi di un centro
commerciale, che riproducevano loghi dei negozi, informazioni per
l'ingresso, orari di esercizio e altre informazioni similari. Nel ricorso
introduttivo, la società precisava di aver volutamente escluso dette
affissioni dal computo di quanto dichiarato ai fini dell'imposta comunale,
poiché ritenute privi di qualsivoglia messaggio di contenuto pubblicitario.
La Ctp ha accolto il ricorso, annullando l'avviso di accertamento e
svolgendo anche una precisa disamina della fattispecie, pur considerando
alcuni orientamenti della Corte di cassazione apparentemente di senso
contrario alla decisione presa. Gli impianti in questione, spiega il
collegio, non hanno carattere e/o funzione pubblicitaria, contenendo dei
messaggi che sono delle mere informazioni che non incentivano l'acquisto del
prodotto. L'imposta, in altri termini, scatta soltanto se l'affissione ha
funzione pubblicitaria.
Questa tipologia di affissioni potrebbe, tuttavia, integrare il presupposto,
qualora la dimensione del messaggio eccedesse la soglia dei 5 mq prevista
dalla normativa sull'imposta pubblicitaria. In tal caso, infatti, la
grandezza della riproduzione del logo potrebbe risultare preordinata alla
diffusione dell'immagine dell'esercizio (con scopi «promozionali» dello
stesso, quindi). In tale contesto, spiega la Ctp, vanno lette le pronunce
della Corte di cassazione in cui si ritenevano soggetti all'imposta sulla
pubblicità i cartelli recanti gli orari di apertura dell'esercizio, con
relativa denominazione.
Il collegio provinciale, peraltro, chiarisce che la valutazione debba essere
condotta caso per caso, valutando le situazioni fattuali specifiche e non
potendo dettare un principio univoco e valido per ogni fattispecie.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'articolo 5 del decreto legislativo numero 507 del 1993 sottopone
all'imposta comunale sulla pubblicità la diffusione di messaggi pubblicitari
effettuata attraverso forme visive e acustiche se rilevanti e cioè se
diffusi nell'esercizio di un'attività economica allo scopo di promuovere la
domanda di beni e servizi ovvero di migliorare l'immagine del soggetto
pubblicizzato.
Nella fattispecie all'esame del collegio, i messaggi indicati sugli
impianti, pur riportando in alcuni (in margine o in calce) il logo della
società o il nome del centro commerciale, in verità, hanno una funzione
diversa da quella pubblicitaria e cioè di dare informazioni sulle
indicazioni stradali di ingresso al centro commerciale, di entrata
dipendenti o informazioni circa giorni e orari di apertura dell'esercizio,
locandine di servizi ( ) e comunque in tali messaggi non sono contenuti
riferimenti a merci, marche o sconti relativi a prodotti offerti all'interno
del centro commerciale. Pertanto tali messaggi non sono tendenti a
pubblicizzare nell'attività di un prodotto in particolare.
Tali considerazioni non sono in contrasto con la decisione della Suprema
corte di cassazione allegata da parte resistente. In particolare,
relativamente ai cartelli recanti informazioni indicative dei giorni orari
di apertura del centro commerciale, il principio di diritto sancito nella
decisione del giudice di legittimità deve essere verificato con riguardo
alla fattispecie concreta oggetto di controversia al fine di verificare se i
segnali e le indicazioni per la loro struttura ubicazione dimensione possano
effettivamente ritenersi strumentali al miglior esercizio dell'attività
economica interessati.
E nella specie, tenuto conto dell'ubicazione dei cartelli all'interno del
centro, delle loro dimensioni inferiori a 5 mq non si ritiene rilevante sul
piano pubblicitario la semplice comunicazione degli orari e dei giorni di
apertura dell'esercizio commerciale che non migliora fatto la domanda.
Non rivestendo i messaggi indicati alcuna valenza pubblicitaria in quanto
diretti a persone già determinate a recarsi presso il centro commerciale
Bennet e non avendo la funzione di orientare le scelte commerciali della
clientela indirizzando il potenziale acquirente all'acquisto di alcuni beni
piuttosto che di altri, deve ritenersi insussistente la rilevanza
dell'impiantistica ai fini dell'imposizione. Ne consegue che i cartelli
oggetto degli accertamenti impugnati vanno esclusi dall'applicazione
dell'imposta comunale di pubblicità ( )
(articolo
ItaliaOggi Sette del 26.02.2018). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Risulta infondata la tesi secondo cui le costruzioni in zona
sismica sono connotate sempre e comunque dalla necessità di
“risolvere problemi di rilevante complessità” tali da
giustificare esclusivamente la nomina di un ingegnere senior
iscritto alla sezione “A” dell’albo.
Nessun dato preclusivo si rinviene
espressamente nella legge all’esercizio di attività da parte
degli ingegneri juniores, con riferimento ad opere da
progettarsi e costruirsi in aree sismiche.
Tale deduzione, seppure degna di considerazione sotto il
profilo interpretativo (posto che è ben possibile affermare
che se il Legislatore avesse voluto precludere del tutto
ogni attività per opere da erigersi in area sismica alle
categorie degli ingegneri e degli architetti juniores
avrebbe potuto e dovuto affermarlo espressamente), non è
tuttavia decisiva, non potendo escludersi che, per via
ermeneutica, si pervenga ad un risultato identico,
riconducendo la progettazione ed esecuzione di opere in aree
sismiche, sempre e comunque al di fuori del perimetro
concettuale dell’espressione “costruzioni civili semplici,
con l'uso di metodologie standardizzate”.
Tuttavia il Consiglio di Stato, ma anche la Suprema Corte di
Cassazione, ha più volte chiarito la particolarità e
specificità dell’attività di progettazione direzione di
lavori, etc., con riferimento ad opere da erigersi in zona
sismica, pervenendo ad una serie di affermazioni, tra loro
legate da un comune filo conduttore, volto a valorizzare la
specificità di tale attività.
Pertanto si è condivisibilmente affermato che:
- “il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare
modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella
competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art.
16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274- consiste nel valutare
le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità occorrenti per
superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato
uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione
«non modesta» essere realizzata senza di esso), assume
significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni
intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974
n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle
competenze professionali dei geometri. - nella specie, la
S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva
dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera
stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la
trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un
complesso residenziale”;
- “la realizzazione di una struttura in cemento armato dalle
notevoli dimensioni (tre piani con fondamenta del tutto
nuove), per di più localizzata in una zona sismica, non può
farsi rientrare nella nozione di "modeste costruzioni
civili", per le quali sono abilitati alla progettazione i
geometri a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274”;
- “l'acquisizione della relazione geologica non può essere soggetta
a valutazioni discrezionali da parte della p.a., essendo
essa obbligatoriamente prevista in ciascuna delle fasi della
progettazione in zona sismica”.
Escluso quindi che una costruzione in zona sismica possa
considerarsi “modesta”, il Collegio non ritiene, in adesione
a quanto sostenuto dal giudice di appello nella menzionata
decisione n. 686/2012, di poter stabilire una equivalenza
tra la qualificazione di “non modesta” affermata dalla
giurisprudenza e quella di “semplice” individuata dalla
legge, posto che si finirebbe con l’introdurre un divieto al
di fuori non solo di un quadro legislativo e regolamentare,
ma anche giurisprudenziale.
Una simile conclusione costituirebbe, del resto, conseguenza
non voluta dalla legge, tanto più ove si consideri che, a
seguito del Decreto del Ministero delle Infrastrutture
14.01.2008, n. 29581 (recante “Approvazione delle nuove
norme tecniche per le costruzioni”), di fatto non esistono
più aree del territorio italiano non classificate quali
“zone sismiche”, ma soltanto zone a basso rischio sismico.
In conclusione, ritiene il Collegio che, pur non
sottovalutando la specificità della progettazione in area
sismica, la ricorrenza del criterio legittimante
“costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie
standardizzate” non possa essere aprioristicamente escluso
sempre e comunque, allorché si verta nel campo della
progettazione e direzione dei lavori in dette aree, e
necessiti di una valutazione caso per caso, che tenga conto
in concreto dell’opera prevista, delle metodologie di
calcolo utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida e
“preclusiva”, allorché l’area sia classificata con un
maggiore rischio sismico.
Tale valutazione deve specificamente riferirsi, di volta in
volta, al singolo progetto presentato, con motivazione che,
ancorché sintetica, faccia riferimento al caso concreto (sia
in ipotesi di favorevole delibazione, ovviamente, che in
ipotesi di riscontrata preclusione).
---------------
Con il ricorso in esame l’ing. Gi.Ca. espone di essere stato
nominato direttore dei lavori per l’abbattimento e la
ricostruzione di un fabbricato sito in Cancello Arnone e che
con nota prot. n. 675862 dell’08/09/2011, l’8° settore del
Genio civile provinciale di Caserta aveva comunicato la
necessità di sostituire il ricorrente quale direttore dei
lavori perché “non possiede le competenze necessarie di
legge per svolgere tale incarico, in base al combinato
disposto dell’art. 46, punto A del d.P.R. 328/2011 e del
parere del Consiglio Superiore dei lavori pubblici espresso
nell’adunanza del 24.09.2011”.
---
Il ricorso è fondato e va accolto.
La disamina delle censure come prospettate rende opportuno
il richiamo del quadro normativo e giurisprudenziale che
concerne la materia.
In primo luogo occorre richiamare la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha rilevato come
non sia “in contrasto né con la normativa comunitaria
specificamente riguardante la professione di architetto
(Direttiva 85/384/Cee), né con la l. 14.01.1999, n. 4
l'istituzione negli albi professionali, ad opera del d.P.R.
05.06.2001 n. 328, di due distinte Sezioni (A e B),
rispettivamente riservate ai laureati di primo e di secondo
livello (cioè in possesso di laurea specialistica o di
laurea c.d. breve), atteso che la riforma attuata con la
cit. l. n. 4 del 1999 sul valore e la durata dei corsi
universitari comportava obiettivamente l'esigenza di
ridefinire i requisiti per l'accesso alle c.d. professioni
protette, per il cui esercizio sia necessaria l'iscrizione
ad un albo o ad un ordine professionale, collegando i nuovi
titoli accademici, una volta unici per tutte le università,
con l'ordinamento vigente delle professioni” (Consiglio
Stato, sez. IV, 12.05.2008, n. 2178).
Le disposizioni di cui agli artt. 16 e 46 del d.P.R.
05.06.2001 n. 328, e delle quali si riporta il testo per
intero, individuano le competenze degli iscritti alle
Sezioni A e B, rispettivamente degli architetti e degli
ingegneri.
In particolare, l’art. 16 del predetto decreto, così
dispone: “Formano oggetto dell'attività professionale
degli iscritti nella sezione A - settore "architettura", ai
sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2,
restando immutate le riserve e attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa, le attività già stabilite dalle
disposizioni vigenti nazionali ed europee per la professione
di architetto, ed in particolare quelle che implicano l'uso
di metodologie avanzate, innovative o sperimentali.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti
nella sezione A - settore "pianificazione territoriale":
a) la pianificazione del territorio, del paesaggio, dell'ambiente e
della città;
b) lo svolgimento e il coordinamento di analisi complesse e
specialistiche delle strutture urbane, territoriali,
paesaggistiche e ambientali, il coordinamento e la gestione
di attività di valutazione ambientale e di fattibilità dei
piani e dei progetti urbani e territoriali;
c) strategie, politiche e progetti di trasformazione urbana e
territoriale.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti
nella sezione A - settore "paesaggistica":
a) la progettazione e la direzione relative a giardini e parchi;
b) la redazione di piani paesistici;
c) il restauro di parchi e giardini storici, contemplati dalla
legge 20.06.1909, n. 364, ad esclusione delle loro
componenti edilizie.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti
nella sezione A - settore "conservazione dei beni
architettonici ed ambientali":
a) la diagnosi dei processi di degrado e dissesto dei beni
architettonici e ambientali e la individuazione degli
interventi e delle tecniche miranti alla loro conservazione.
Formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti
nella sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui
all'articolo 1, comma 2, restando immutate le riserve e
attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa:
a) per il settore "architettura":
1) le attività basate sull'applicazione delle
scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle
attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e
collaudo di opere edilizie, comprese le opere pubbliche;
2) la progettazione, la direzione dei lavori, la
vigilanza, la misura, la contabilità e la liquidazione
relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di
metodologie standardizzate;
3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia
attuale e storica.
b) per il settore "pianificazione":
1) le attività basate sull'applicazione delle
scienze volte al concorso e alla collaborazione alle
attività di pianificazione;
2) la costruzione e gestione di sistemi
informativi per l'analisi e la gestione della città e del
territorio;
3) l'analisi, il monitoraggio e la valutazione
territoriale ed ambientale;
4) procedure di gestione e di valutazione di atti
di pianificazione territoriale e relativi programmi
complessi.”.
L’art. 46, invece, disciplina le competenze della figura
professionale dell’ingegnere e così prevede: “Le attività
professionali che formano oggetto della professione di
ingegnere sono così ripartite tra i settori di cui
all'articolo 45, comma 1:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale": la
pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione
lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione
di impatto ambientale di opere edili e strutture,
infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la
difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione,
di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per
l'ambiente e il territorio;
b) per il settore "ingegneria industriale": la pianificazione, la
progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima,
il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto
ambientale di macchine, impianti industriali, di impianti
per la produzione, trasformazione e la distribuzione
dell'energia, di sistemi e processi industriali e
tecnologici, di apparati e di strumentazioni per la
diagnostica e per la terapia medico-chirurgica;
c) per il settore "ingegneria dell'informazione": la
pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione
lavori, la stima, il collaudo e la gestione di impianti e
sistemi elettronici, di automazione e di generazione,
trasmissione ed elaborazione delle informazioni.
Ferme restando le riserve e le attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa e oltre alle attività indicate nel
comma 3, formano in particolare oggetto dell'attività
professionale degli iscritti alla sezione A, ai sensi e per
gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2, le attività,
ripartite tra i tre settori come previsto dal comma 1, che
implicano l'uso di metodologie avanzate, innovative o
sperimentali nella progettazione, direzione lavori, stima e
collaudo di strutture, sistemi e processi complessi o
innovativi.
Restando immutate le riserve e le attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa, formano oggetto dell'attività
professionale degli iscritti alla sezione B, ai sensi e per
gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale":
1) le attività basate sull'applicazione delle
scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle
attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e
collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche;
2) la progettazione, la direzione dei lavori, la
vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a
costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie
standardizzate;
3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia
attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque
natura;
b) per il settore "ingegneria industriale":
1) le attività basate sull'applicazione delle
scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle
attività di progettazione, direzione lavori, stima e
collaudo di macchine e impianti, comprese le opere
pubbliche;
2) i rilievi diretti e strumentali di parametri
tecnici afferenti macchine e impianti;
3) le attività che implicano l'uso di metodologie
standardizzate, quali la progettazione, direzione lavori e
collaudo di singoli organi o di singoli componenti di
macchine, di impianti e di sistemi, nonché di sistemi e
processi di tipologia semplice o ripetitiva;
c) per il settore "ingegneria dell'informazione":
1) le attività basate sull'applicazione delle
scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle
attività di progettazione, direzione lavori, stima e
collaudo di impianti e di sistemi elettronici, di
automazioni e di generazione, trasmissione ed elaborazione
delle informazioni;
2) i rilievi diretti e strumentali di parametri
tecnici afferenti impianti e sistemi elettronici;
3) le attività che implicano l'uso di metodologie
standardizzate, quali la progettazione, direzione lavori e
collaudo di singoli organi o componenti di impianti e di
sistemi elettronici, di automazione e di generazione,
trasmissione ed elaborazione delle informazioni, nonché di
sistemi e processi di tipologia semplice o ripetitiva.”.
E’ importante riportare anche il testo dell’art. 1 del
decreto citato, il cui comma 2 dispone nei seguenti termini:
“il presente regolamento modifica e integra la disciplina
dell'ordinamento, dei connessi albi, ordini o collegi,
nonché dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e
delle relative prove, delle professioni di: dottore agronomo
e dottore forestale, agrotecnico, architetto, assistente
sociale, attuario, biologo, chimico, geologo, geometra,
ingegnere, perito agrario, perito industriale, psicologo. Le
norme contenute nel presente regolamento non modificano
l'ambito stabilito dalla normativa vigente in ordine alle
attività attribuite o riservate, in via esclusiva o meno, a
ciascuna professione”.
A tal riguardo, e stante l’espresso richiamo del citato
comma 2 dell’art. 1 alle disposizioni vigenti in tema di
attività riservate a ciascuna delle citate professioni, si
rammenta che gli artt. 51 e 52 del Regio Decreto 23.10.1925,
n. 2537 così dispongono:
- (Art. 51) “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il
progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre,
trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le
industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di
trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni
di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi
geometrici e le operazioni di estimo.” ;
- (Art. 52) “Formano oggetto tanto della professione di
ingegnere quanto di quella di architetto le opere di
edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni
di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia
civile che presentano rilevante carattere artistico ed il
restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L.
20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di
spettanza della professione di architetto; ma la parte
tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto
dall'ingegnere.”.
Proprio con riferimento al sopra riportato comma 2 dell’art.
1 del d.P.R. 05.06.2001 n. 328, si segnala che il Consiglio
di Stato, con la condivisibili decisioni n. 686/2012 e n.
1473/2009 (la prima peraltro richiamata dal ricorrente
dell’odierno procedimento) ha affermato il principio
(riferito alla professione di ingegnere) per cui “l’elencazione,
compiuta all’art. 46 del decreto, delle attività attribuite
agli iscritti ai diversi settori delle sezioni “A” e “B”
dell’albo dell’Ordine degli ingegneri, ha il solo scopo di
procedere ad una siffatta ripartizione, individuando quelle
maggiormente caratterizzanti la professione, restando
immutato il quadro complessivo delle attività esercitabili
nell’ambito della professione stessa come già normativamente
definito”.
Tale affermazione costituisce utile spunto per la
interpretazione della ratio complessiva del testo
normativo in parola, secondo cui: “anzitutto, quanto alla
prevista istituzione, negli Albi professionali, di due
sezioni (A e B), riservate rispettivamente ai laureati di
primo e secondo livello, premesso che la riforma attuata con
la legge n. 4 del 1999 sul valore e la durata dei corsi
universitari comportava indubbiamente l'esigenza di
ridefinire i requisiti per l'accesso alle cosiddette
professioni protette (per le quali sia necessaria
l'iscrizione ad un albo o ad un ordine professionale), del
tutto in sintonia con quanto rilevato dalla Sezione
Consultiva per gli Atti Normativi con il parere n. 118/2001
reso nell’adunanza del 21.05.2001, va, in proposito,
precisato che la finalità del regolamento è quella di
collegare i nuovi titoli accademici (una volta unici per
tutte le Università) con l’ordinamento delle professioni
vigenti, che, precedentemente alla emanazione del contestato
d.P.R., era ancora quello anteriore, precedente alla riforma
universitaria e che, a tal fine, non sembra violare la norma
di delega la suddivisione, in sezioni e settori, degli
ordini preesistenti, attribuendo -onde evitare confusioni-
denominazioni diverse ai singoli settori, in attesa di una
riforma anche della materia degli ordini professionali.
Dette denominazioni dei settori, in cui vengono ad essere
ripartite le nuove sezioni “A” e “B” degli Albi
professionali, così come l’effettiva individuazione per
ciascuna sezione delle attività maggiormente caratterizzanti
la professione, non innovano (né potevano assolutamente
innovare, alla stregua della “delega” ed in particolare del
criterio di cui alla lettera a), che prevedeva la sola
“determinazione dell'ambito consentito di attività
professionale ai titolari di diploma universitario e ai
possessori dei titoli istituiti in applicazione
dell'articolo 17, comma 95, della legge 15.05.1997, n. 127,
e successive modificazioni”) la materia delle attività
riservate o consentite alla professione de qua (in via
esclusiva od unitamente ad altre), attuandone invece
correttamente una mera ripartizione, previa individuazione
di un criterio di carattere generale, facente riferimento
alle professionalità conseguite a compimento dei diversi
percorsi formativi di accesso, relativi, rispettivamente,
alle lauree ed alle lauree specialistiche”.
Sulla base del richiamato tessuto normativo, il ricorrente
nel secondo e terzo mezzo (che possono essere
trattati congiuntamente attesa la loro stretta connessione)
deduce il difetto di motivazione della nota impugnata, che
recherebbe solo un laconico riferimento alla mancanza delle
competenze necessarie di legge per svolgere l’incarico, in
base al combinato disposto dell’art. 46, punto A, del d.P.R.
328/2011 e del parere del Consiglio Superiore dei lavori
pubblici espresso nell’adunanza del 24.09.2011; motivazione
che l’Amministrazione (come osservato dall’interessato nella
memoria depositata l’08.11.2012) ha tentato di integrare in
sede di costituzione facendo riferimento alla circostanza
che i lavori in questione dovevano essere svolti in una zona
a bassa sismicità come quella in cui è situato il Comune di
Cancello Arnone, ritenendo che le costruzioni in zona
sismica siano connotate sempre e comunque dalla necessità di
“risolvere problemi di rilevante complessità” tali da
giustificare esclusivamente la nomina di un ingegnere senior
iscritto alla sezione “A” dell’albo.
L’interessato sostiene che dalle norme richiamate non si
possa ricavare a priori alcuna preclusione allo svolgimento
dell’incarico in esame e ciò in quanto le norme di legge
invocate non si occupino minimamente della questione
relativa alla progettazione in area sismica.
La tesi merita adesione.
Le citate disposizioni fanno esclusivo riferimento al
concetto di “costruzioni civili semplici, con l'uso di
metodologie standardizzate” senza che sussista alcun
richiamo, in senso preclusivo, alle costruzioni insistenti
in area sismica.
Ne discende all’evidenza l’esattezza delle censure
richiamate, secondo cui nessun dato preclusivo si rinviene
espressamente nella legge all’esercizio di attività da parte
degli ingegneri juniores, con riferimento ad opere da
progettarsi e costruirsi in dette aree.
Tale deduzione, seppure degna di considerazione sotto il
profilo interpretativo (posto che è ben possibile affermare
che se il Legislatore avesse voluto precludere del tutto
ogni attività per opere da erigersi in area sismica alle
categorie degli ingegneri e degli architetti juniores
avrebbe potuto e dovuto affermarlo espressamente), non è
tuttavia decisiva, non potendo escludersi che, per via
ermeneutica, si pervenga ad un risultato identico,
riconducendo la progettazione ed esecuzione di opere in aree
sismiche, sempre e comunque al di fuori del perimetro
concettuale dell’espressione “costruzioni civili
semplici, con l'uso di metodologie standardizzate”.
Tuttavia il Consiglio di Stato, ma anche la Suprema Corte di
Cassazione hanno più volte chiarito la particolarità e
specificità dell’attività di progettazione direzione di
lavori, etc., con riferimento ad opere da erigersi in zona
sismica, pervenendo ad una serie di affermazioni, tra loro
legate da un comune filo conduttore, volto a valorizzare la
specificità di tale attività.
Pertanto si è condivisibilmente affermato che:
- “il criterio per accertare se una costruzione sia da
considerare modesta -e quindi se la sua progettazione
rientri nella competenza professionale dei geometri, ai
sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274-
consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la
progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le
capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non
è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo
anche una costruzione «non modesta» essere realizzata senza
di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei
geometri. - nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza
di merito che aveva dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il
contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad
oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale
fatiscente in un complesso residenziale” (Cassazione
civile, sez. II, 08.04.2009, n. 8543);
- “la realizzazione di una struttura in cemento armato dalle
notevoli dimensioni (tre piani con fondamenta del tutto
nuove), per di più localizzata in una zona sismica, non può
farsi rientrare nella nozione di "modeste costruzioni
civili", per le quali sono abilitati alla progettazione i
geometri a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274”
(Consiglio Stato, sez. V, 30.10.2003, n. 6747);
- “l'acquisizione della relazione geologica non può essere
soggetta a valutazioni discrezionali da parte della p.a.,
essendo essa obbligatoriamente prevista in ciascuna delle
fasi della progettazione in zona sismica” (Consiglio
Stato, sez. VI, 23.09.2009, n. 5666).
Escluso quindi che una costruzione in zona sismica possa
considerarsi “modesta”, il Collegio non ritiene, in
adesione a quanto sostenuto dal giudice di appello nella
menzionata decisione n. 686/2012, di poter stabilire una
equivalenza tra la qualificazione di “non modesta”
affermata dalla giurisprudenza e quella di “semplice”
individuata dalla legge, posto che si finirebbe con
l’introdurre un divieto al di fuori non solo di un quadro
legislativo e regolamentare, ma anche giurisprudenziale.
Una simile conclusione costituirebbe, del resto, conseguenza
non voluta dalla legge, tanto più ove si consideri che, a
seguito del Decreto del Ministero delle Infrastrutture
14.01.2008, n. 29581 (recante “Approvazione delle nuove
norme tecniche per le costruzioni”), di fatto non
esistono più aree del territorio italiano non classificate
quali “zone sismiche”, ma soltanto zone a basso
rischio sismico.
In conclusione, ritiene il Collegio che, pur non
sottovalutando la specificità della progettazione in area
sismica, la ricorrenza del criterio legittimante “costruzioni
civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate”
non possa essere aprioristicamente escluso sempre e
comunque, allorché si verta nel campo della progettazione e
direzione dei lavori in dette aree, e necessiti di una
valutazione caso per caso, che tenga conto in concreto
dell’opera prevista, delle metodologie di calcolo
utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida e “preclusiva”,
allorché l’area sia classificata con un maggiore rischio
sismico.
Tale valutazione deve specificamente riferirsi, di volta in
volta, al singolo progetto presentato, con motivazione che,
ancorché sintetica, faccia riferimento al caso concreto (sia
in ipotesi di favorevole delibazione, ovviamente, che in
ipotesi di riscontrata preclusione).
Nel caso di specie tale valutazione è del tutto mancata,
posto che l’Amministrazione resistente ha fatto riferimento
ad una astratta assenza delle “competenze necessarie di
legge per svolgere tale incarico, in base al combinato
disposto dell’art. 46, punto A, del d.P.R. 328/2011 e del
parere del Consiglio Superiore dei lavori pubblici espresso
nell’adunanza del 24.09.2011”, astraendo dalla concreta
natura del progetto presentato dal ricorrente; per cui il
diniego appare viziato e deve essere annullato, spettando
comunque all’Amministrazione, in sede di riedizione del
potere, motivare in ordine al proprio convincimento sul
progetto presentato alla stregua delle indicazioni fornite
dal Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va, in
conclusione, accolto (con l'assorbimento degli altri profili
di censura dedotti dall'istante) per cui il provvedimento
avversato deve essere annullato per difetto di motivazione
con onere dell’Amministrazione di ripronunciarsi sul
progetto (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.01.2013 n. 596 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di libertà di
costruire in epoca antecedente la legge urbanistica del 1942
è stata affermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato
con espresso riguardo alla situazione di fatto dell’immobile
in contestazione, che, essendo casa colonica, doveva essere
allocato, quanto meno al momento della costruzione, in zona
agricola.
Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe certo
concordarsi con l'opinione secondo la quale la libertà di
costruire, in epoca antecedente la normazione urbanistica,
poteva essere dilatata al punto di conferire al diritto
soggettivo di proprietà valenze e prerogative che
probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini
assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato
Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del
1865).
Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò ben
presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse,
infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più
di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
Quella remota disciplina contemplava due tipi: il
piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti
rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge
25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica
utilità.
Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti
rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre
un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro
conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus
aedificandi doveva comunque tener conto.
Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo pianificatorio
altre, con diversa normativa, furono previste, soprattutto
con atti regolamentari per l’edificazione nei centri abitati
(e, in questo senso, molti furono i comuni ad avvalersi di
tale facoltà).
Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti
sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi
delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno
strumento conformativo seppure indiretto rispetto
all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali mezzi
risultano positivamente richiamati dagli articoli 109 e 111
(quest’ultimo in particolare) del regio decreto 12.02.1911,
n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione della legge
comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma utilizzato
anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915, n. 148 e il
testo unico 03.03.1934, n. 383.
Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso
episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885,
n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge
31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e
alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi
che hanno approvato i piani regolatori di grandi città
(legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n.
433 per Milano).
Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si conclude
con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art. 4) e il
successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che enunciano
l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco (podestà)
per le edificazioni.
Accanto alle considerazioni storiche e prima di esaminare
quelle inerenti la specifica area oggetto della vertenza,
occorre rammentare la modificazione di prospettive e le
evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e fino
ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed edilizia
E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma quale
l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978, n. 10
(vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante il
testo unico in materia edilizia), nel dettare norme
sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di strumenti
urbanistici, stabilisse il primato del momento
pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in
modo significativo il diritto di edificare del privato,
sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi
di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una
disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di
intensificazione.
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59. Giova, in primo luogo, sottolineare come la nozione di
libertà di costruire in epoca antecedente la legge
urbanistica del 1942 sia stata affermata dalla IV Sezione
del Consiglio di Stato con espresso riguardo alla situazione
di fatto dell’immobile in contestazione, che, essendo casa
colonica, doveva essere allocato, quanto meno al momento
della costruzione, in zona agricola.
60. Al di fuori della specifica situazione, non potrebbe
certo concordarsi con l'opinione secondo la quale la libertà
di costruire, in epoca antecedente la normazione
urbanistica, poteva essere dilatata al punto di conferire al
diritto soggettivo di proprietà valenze e prerogative che
probabilmente non ha mai avuto, quanto meno in termini
assoluti, fin dagli albori della costituzione dello Stato
Nazionale (cioè dalla legislazione unitaria fondamentale del
1865).
61. Con una visione frammentaria del problema, che si rivelò
ben presto inadeguata, il legislatore del 1865 introdusse,
infatti, per gli aggregati urbani relativi a comuni con più
di 10.000 abitanti, la materia dei piani regolatori.
62. Quella remota disciplina contemplava due tipi: il
piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento previsti
rispettivamente dagli articoli 86 e 93 della legge
25.06.1865, n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica
utilità.
63. Quelle norme non prescrivevano l’imposizione di limiti
rigorosi alla proprietà privata, ma costituivano pur sempre
un indizio non secondario dell’esistenza di un quadro
conformativo del quale, nelle zone urbane, lo jus
aedificandi doveva comunque tener conto.
64. Oltre alle assai modeste prescrizioni di tipo
pianificatorio altre, con diversa normativa, furono
previste, soprattutto con atti regolamentari per
l’edificazione nei centri abitati (e, in questo senso, molti
furono i comuni ad avvalersi di tale facoltà).
65. Tali regolamenti, nel prevedere una serie di limiti
sull’altezza, le distanze ed altri elementi connotativi
delle edificazioni urbane, costituivano anch’essi uno
strumento conformativo seppure indiretto rispetto
all’esercizio concreto dello jus aedificandi: tali
mezzi risultano positivamente richiamati dagli articoli 109
e 111 (quest’ultimo in particolare) del regio decreto
12.02.1911, n. 297 recante il regolamento per l’esecuzione
della legge comunale e provinciale 21.05.1908, n. 269, ma
utilizzato anche dopo le modifiche della legge 04.02.1915,
n. 148 e il testo unico 03.03.1934, n. 383.
66. Un ulteriore strumento di conformazione, anch’esso
episodico, va individuato, oltre che nella legge 15.01.1885,
n. 2892 sul risanamento della città di Napoli e nella legge
31.05.1903, n. 254 relativa alla costruzione, all’acquisto e
alla vendita di case popolari, nei provvedimenti legislativi
che hanno approvato i piani regolatori di grandi città
(legge 24.03.1932, n. 355 per Roma e la legge 19.02.1934, n.
433 per Milano).
67. Il richiamo alla legislazione previgente il 1942 si
conclude con i regi decreti legge 25.03.1935, n. 640 (art.
4) e il successivo 22.11.1937, n. 2105 (art. 6) che
enunciano l’obbligatorietà dell’autorizzazione del sindaco
(podestà) per le edificazioni.
68. Accanto alle considerazioni storiche e prima di
esaminare quelle inerenti la specifica area oggetto della
vertenza, occorre rammentare la modificazione di prospettive
e le evoluzioni anche concettuali maturate nel prosieguo e
fino ai giorni nostri nella legislazione urbanistica ed
edilizia
69. E’ sufficiente, in proposito, ricordare come una norma
quale l’ultimo comma dell’articolo 4 della legge 28.01.1978,
n. 10 (vedi ora l’articolo 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380
recante il testo unico in materia edilizia), nel dettare
norme sull’edificabilità dei suoli nei comuni privi di
strumenti urbanistici, stabilisse il primato del momento
pianificatorio, riducendo e quanto meno depotenziando in
modo significativo il diritto di edificare del privato,
sulla base del principio che, relativamente ai suoli privi
di qualsivoglia regolamentazione, opera pur sempre una
disciplina suppletiva di salvaguardia dagli eccessi di
intensificazione (C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6339, C.d.S.,
V, 14.10.2005, n. 5801; Cd.S., IV, 09.08.2005, n. 4232)
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 23.04.2009 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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