e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-AMIANTO
18-ANAC (già AVCP)
19
-APPALTI
20-ARIA
21-ASCENSORE
22-ASL + ARPA
23-ATTI AMMINISTRATIVI
24-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
25-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
26-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
27-BARRIERE ARCHITETTONICHE
28-BOSCO
29-BOX
30-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
31-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
32-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
33-CARTELLI STRADALI
34-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
35-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
36-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
37
-COMPETENZE GESTIONALI
38
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
39-CONDIZIONATORE D'ARIA
40-CONDOMINIO
41-CONSIGLIERI COMUNALI
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
43-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
45-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
46-DEBITI FUORI BILANCIO
47-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
48-DIA e SCIA
49-DIAP
50-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
51-DISTANZA dai CONFINI
52-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
53-DISTANZA dalla FERROVIA

54-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
55-DURC
56-EDICOLA FUNERARIA
57-EDIFICIO UNIFAMILIARE
58-ESPROPRIAZIONE
59-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
60-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
61-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
62-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
63-INDUSTRIA INSALUBRE
64-L.R. 12/2005
65-L.R. 23/1997
66-LEGGE CASA LOMBARDIA
67-LICENZA EDILIZIA (necessità)
68-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
69-LOTTO INTERCLUSO
70-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
71-MOBBING
72-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
73-OPERE PRECARIE
74-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
75-PATRIMONIO
76-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
85
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
86-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
87-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
88-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
89-PISCINE
90-PUBBLICO IMPIEGO
91-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
92-RIFIUTI E BONIFICHE
93-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
94-RUDERI
95-
RUMORE
96-SAGOMA EDIFICIO
97-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
98-SCOMPUTO OO.UU.
99-SEGRETARI COMUNALI
100-SEMINTERRATI
101-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
102-SICUREZZA SUL LAVORO
103
-
SILOS
104-SINDACATI & ARAN
105-SOPPALCO
106-SOTTOTETTI
107-SUAP
108-SUE
109-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
110-
TELEFONIA MOBILE
111-TENDE DA SOLE
112-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
113-TRIBUTI LOCALI
114-VERANDA
115-VINCOLO CIMITERIALE
116-VINCOLO IDROGEOLOGICO
117-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
118-VINCOLO STRADALE
119-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

120-ZONA AGRICOLA
121-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2018

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 19.02.2018

aggiornamento al 13.02.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 19.02.2018

ã

Incentivo funzioni tecniche:
la quaestio juris s'aggroviglia!!

Vediamo di ricostruire, sinteticamente, l'insorta diatriba tra i Giudici contabili ed il Legislatore:

   1) in primis, è intervenuto il D.L. 31.05.2010 n. 78, art. 9, comma 2-bis, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010 n. 122, che dispone: “2-bis. A decorrere dal 01.01.2011 e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo.”;

   2) poi, è stata promulgata la Legge 28.12.2015 n. 208, art. 1, comma 236, che statuisce: “236. Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento all'omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.”,

   3) dopodiché, la Corte dei Conti Sez. controllo Emilia Romagna -parere 07.12.2016 n. 118, dovendo riscontrare all'interrogazione formulata dal Comune di Medicina (BO)- sospende la pronuncia e rimette gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza in ordine al quesito sub 3) delle premesse in fatto, pervenendo alla conclusione seguente: "la Sezione ... ritiene che sarebbe utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possano essere esclusi dal tetto del salario accessorio di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016)";

   4) a questo punto interviene la Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 06.04.2017 n. 7, siccome investita della questione da parte della Corte felsinea, la quale ha enunciato il seguente principio di diritto: "Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”;

   5) successivamente, il suddetto comma 236 è stato abrogato dall'art. 23, comma 2, D.Lgs. 25.05.2017 n. 75, a decorrere dall’01.01.2017, che stabilisce: “2. Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016.”;

   6) investita dalla Sezione ligure con la deliberazione 29.06.2017 n. 58, interviene nuovamente  la Corte dei Conti, Sez. Autonomie, confermando indirettamente -con la deliberazione 10.10.2017 n. 24- quanto statuito precedentemente (deliberazione 06.04.2017 n. 7);

   7) dulcis in fundo, interviene il Legislatore a porre rimedio al contrasto interpretativo con l'art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017 n. 205 (Legge di Bilancio 2018) dal seguente tenore: “526. All’articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».”.

Sicché "a questo punto, una domanda sorge spontanea":

lungi dal voler peccare di presunzione, il su menzionato (risolutore - sic!) comma 526 della Legge di Bilancio 2018 non poteva (con un briciolo di accortezza, diligenza e, soprattutto, molta competenza del diritto, ma quello della "pratica" e non della "grammatica" ovverosia del facere quotidiano di un qualsiasi U.T.C.) essere formulato in maniera semplicemente diversa, intelligibile e veramente risolutrice della querelle del tipo: "526. Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, commi 2 e 3, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 non concorrono nell'«ammontare complessivo» di spesa di cui all'art. 23, comma 2, del D.Lgs. 25.05.2017, n. 75"??

     Ciò premesso, ecco -a seguire- il "fresco fresco" pronunciamento di un'altra Sez. regionale della Corte dei Conti, quella Lombarda che s'aggiunge a quella Pugliese -siccome intervenuta pochi giorni or sono, che rinvia anch'essa alla Sez. Autonomie (ovvero alle Sezz. Riunite in sede di controllo) l'onere di dirimere la controversia interpretativa.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La Sezione regionale di controllo Lombardia delibera sottoporre al Presidente della Corte dei conti le seguenti questioni di massima aventi carattere di interesse generale per tutte le amministrazioni aggiudicatrici sottoposte al controllo della Corte dei conti:
   1) se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione;
in via subordinata
   2) se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione, in quanto sussistono i presupposti della destinazione a predeterminate categorie di dipendenti per prestazioni professionali che potrebbero essere affidate a personale esterno, con conseguente incremento di costi per le amministrazioni;
in ulteriore subordine
   3) quali siano le concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola dell’eventuale sottoposizione degli incentivi previsti dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 75 del 2017, al limite complessivo posto al trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto alla Sezione una richiesta di parere inerente la sottoposizione ai generali limiti posti al trattamento accessorio del personale dipendente anche degli emolumenti economici erogati a titolo di incentivi dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016.
Premette che l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010 disponeva quanto segue: “
A decorrere dal 01.01.2011 e sino al 31.12.2014 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo”.
In seguito, l’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015 ha introdotto analoga limitazione, statuendo che “
Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento all’omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente".
Il ridetto comma è stato poi abrogato dall'art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017, che, a decorrere dal 1° luglio, dispone che “
l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
L’istanza ricorda, altresì, che la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha enunciato il seguente principio di diritto: "Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, comma 2, d.lgs. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'articolo 1, camma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)", affermazione confermata, indirettamente, dalla successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24 della medesima Sezione.
Di recente, l'art. 1, comma 526, della legge di bilancio per il 2018, n. 205 del 2017, ha aggiunto all'articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, un comma 5-bis, in base al quale “
Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Il Sindaco istante evidenzia come i primi commenti sulla novella normativa risultino discordanti. Alcuni propendono per l’assenza di novità o, comunque, per l’introduzione di una norma non chiara, che specifica che gli incentivi c.d. tecnici vanno finanziati dai capitoli di spesa su cui gravano i costi dell'opera, ma non esplicita la loro esclusione dai tetti posti al salario accessorio. Altri, invece, anno ritenuto che, in virtù della legge di bilancio per il 2018, gli incentivi per le funzioni tecniche espletate nelle procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti pubblici non rientrino più nella spesa per la contrattazione decentrata e non debbono essere finanziati dal relativo fondo, e, come tali, non siano soggetti ai limiti posti a queste ultime voci. Altri ancora hanno osservato che gli incentivi c.d. tecnici potrebbero essere considerati come “spese di investimento”, quantomeno ove si tratti di emolumenti collegati alla realizzazione di opere pubbliche, come tali contabilizzati nel pertinente titolo di bilancio, ed esclusi dai vincoli posti alla spesa per il personale (fra cui quelli diretti a limitare il trattamento economico accessorio).
Il Comune di Cisano Bergamasco, sottolineando, pertanto, che non paiono sussistere certezze, in punto di diritto, sul corretto modus operandi da seguire, chiede alla scrivente Sezione regionale di controllo se la novella introdotta dalla legge n. 205 del 2017 consenta di affermare che, con decorrenza 01.01.2018, gli incentivi per le attività di cui all'art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 non siano da includere nel generale tetto posto, ai trattamenti accessori del personale dipendente da amministrazioni pubbliche, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, sia che si tratti di appalti di lavori che di servizi o forniture.
...
MERITO
   I. Inquadramento normativo alla luce delle novità recentemente intervenute
L’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, riproducendo, salvo alcune variazioni, previgenti similari norme di finanza pubblica (art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010; art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015), dispone che “
a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
Il Comune istante chiede se debbano essere incluse nel predetto limite generale posto al trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici anche gli incentivi per le attività, tecniche o amministrative, espletate dal personale interno delle PA (fra le quali, gli enti locali) nei procedimenti di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, forniture e servizi, previsti e disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Appare utile analizzare, in primo luogo, il contenuto letterale della norma. L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, riproducendo analoghe disposizioni previgenti (art. 18 della legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed integrazioni, e art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo), permette, previa adozione di un regolamento interno (che deve individuare il quantum del fondo distribuibile, entro i limiti posti dalla medesima norma) e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata (che deve disciplinare i criteri di ripartizione fra i dipendenti considerati dalla disposizione), di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle PA espletante attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Nello specifico il comma 1 dell’art. 113 in commento, oggetto di integrazione ad opera del d.lgs. 56 del 2017 (emanato successivamente alla deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione delle Autonomie, che si è pronunciata sul dubbio posto dal Comune istante, con valenza interpretativa vincolante per le Sezioni regionali) prevede che “gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”. La novella apportata dall’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, in particolare, ha precisato che l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa riguarda non solo gli appalti di lavori (come da formulazione originaria della norma), ma anche quelli di fornitura di beni e di servizi.
Il comma 1 in esame, va precisato, non è riferito alle, sole, attività espletate da dipendenti interni, ma disciplina l’imputazione di tutte le spese per attività tecniche e amministrative strumentali ad un appalto pubblico, anche se affidate a professionisti esterni (nella ricorrenza dei presupposti e delle procedure indicate agli artt. 24, 31, comma 6, 102, comma 6, del d.lgs. 50 del 2016). Una norma analoga era contenuta nell’art. 92, comma 7, del previgente d.lgs. n. 163 del 2016 (disposizione che, fra l’altro, stimava nel 10% del valore complessivo delle spese destinate a investimenti l’importo degli oneri tecnici strumentali).
La disciplina relativa agli incentivi erogabili ai dipendenti interni prende avvio, nello specifico, dal comma 2 dell’art. 113 in esame, che permette alle amministrazioni aggiudicatrici (fra cui, gli enti locali) di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara” (non più dei soli lavori, come prescritto, invece, dai previgenti abrogati articoli della legge n. 109 del 1994 e del d.lgs. n. 163 del 2006). In particolare il ridetto fondo può essere finalizzato a premiare le seguenti (“esclusivamente”) funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni: “attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico” (oltre che dei rispettivi “collaboratori”, come da successivo comma 3 della medesima disposizione).
L’art. 76, comma 1, lett. b), del citato d.lgs. n. 56 del 2017, correttivo del d.lgs. n. 50 del 2016, ha in seguito precisato, limitandolo, l’ambito di estensione della costituzione del predetto fondo, nel caso di appalti relativi a servizi o forniture, alle sole ipotesi in cui “è nominato il direttore dell'esecuzione”. Tale nomina è obbligatoria per gli appalti aventi base d’asta superiore a 500.000 euro (importo desumibile dalle Linee guida ANAC n. 3/2016, approvate con deliberazione n. 1092/2016, che riprende quanto stabilito dal previgente art. 300 del DPR n. 97 del 2010).
L’esposto art. 113, comma 2, pertanto, permette alle amministrazioni aggiudicatrici, previa adozione di atto unilaterale (non soggetto a contrattazione con le rappresentanze sindacali) di destinare una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara per ogni singolo appalto alla remunerazione delle sopra elencate attività, prevalentemente tecniche (come indicato nella rubrica della norma) ma anche amministrative (“programmazione”, “predisposizione e controllo delle procedure di gara”, “esecuzione dei contratti pubblici” e “RUP” nei servizi e forniture, dovendo nei lavori essere un “tecnico”).
Sul punto può essere ricordato come, anche nella vigenza delle norme precedenti, limitate ai soli appalti di lavori, sia le Sezioni regionali (cfr., per esempio, SRC Lombardia, parere 08.10.2012 n. 425) che la Sezione delle autonomie (deliberazione 13.05.2016 n. 18) hanno riconosciuto la legittima erogabilità dell’incentivo in parola anche alle attività amministrative connesse all’aggiudicazione, esecuzione e collaudo.
Il profilo maggiormente rilevante ai fini dell’odierno quesito, che deriva dalla novella apportata dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, attiene all’esplicitazione del finanziamento del predetto fondo che viene, espressamente, fatto gravare sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame precisa, infatti, che “
gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, puntualizzando quanto già prescritto dal comma 1 del medesimo art. 113 (che, in particolare dopo il d.lgs. n. 56 del 2017, imputa i fondi per le attività strumentali agli “stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”).
Si tratta, in sostanza, di un fondo che non può attingere a generiche risorse di bilancio, ma solo a quelle specificatamente destinate da un’amministrazione, in sede di approvazione del bilancio di previsione (o dei budget d’esercizio, per gli enti utilizzanti la contabilità economico-patrimoniale priva di carattere autorizzatorio), alla copertura delle spese per appalti di lavori, servizi e forniture, sia che abbiano fonte in trasferimenti finalizzati da parte di terzi o nella contrazione di mutui che nell’autonoma allocazione, destinazione o vincolo. Si tratta di un fondo che si auto-alimenta dalle medesime, e sole, risorse che gli enti pubblici hanno stanziato per il finanziamento di appalti di lavori, servizi e forniture, senza poter intaccare altri aggregati del bilancio, e nel limite massimo del 2% dell’importo posto a base di gara, discrezionalmente e preventivamente determinato, in sede di regolamento interno, dalle singole amministrazioni. Queste ultime ben possono fermarsi, come la prassi palesa (cfr., per esempio, DM Infrastrutture 17.03.2008 n. 84) ad una percentuale inferiore, eventualmente modulabile in ragione della diversa natura dell’appalto o del relativo importo.
Mentre l’illustrato comma 2 (unitamente al comma 1) dell’art. 113 in esame definisce le risorse che possono affluire al fondo per l’incentivazione delle attività espletate dai dipendenti interni (dirigenti esclusi) in relazione alle procedure di appalto pubblico, il successivo comma 3 prevede che “l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2” possa essere ripartito, per ciascuna lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”, “tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”. Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Come può notarsi, il tenore letterale del comma 3 (oltre alla novità di permettere l’erogazione dell’incentivo anche per gli appalti di fornitura di beni e di servizi), palesa, in aderenza al precedente comma 2, la legittima erogabilità dell’incentivo a favore del responsabile unico del procedimento (anche se, negli appalti di forniture e servizi, non possiede necessariamente il profilo di “tecnico”), dei “soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2”, nonché “tra i loro collaboratori” (senza distinguere, come nell’elencazione delle attività incentivabili di cui al precedente comma 2, fra profili tecnici e amministrativi).
Anche il comma 3 dell’art. 113 introduce, tuttavia, una serie di limiti, atti ad evitare che l’erogazione dei predetti incentivi possa impegnare, impropriamente, risorse del bilancio destinate ad altre finalità. Oltre al generale potere di auto-limitazione avente fonte nei singoli accordi di contrattazione decentrata (da recepire in regolamenti interni), che potrebbero ulteriormente ridurre la percentuale effettiva dell’importo a base di gara destinabile agli incentivi (o modularla diversamente in ragione della natura o del valore dell’appalto), il comma 3 precisa che gli importi indicati devono essere “comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”, nonché, va aggiunto, al fine di evitare analogo sforamento, anche di quelli per l’IRAP (che vanno pre-dedotti dalla percentuale massima che l’amministrazione intende riconoscere, cfr. Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, deliberazione 30.06.2010 n. 33, nonché, più di recente, SRC Lombardia, parere 18.12.2015 n. 469).
Sempre al fine di evitare il rischio di un incremento di spesa (o meglio, di un impiego non proficuo di quest’ultima), l'amministrazione aggiudicatrice deve stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”, condizione che consente di beneficiare dell’incentivo solo se l’attività espletata abbia permesso di completare l’opera, o eseguire l’appalto di fornitura di beni e di servizi, in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti. Il comma 3 in esame introduce, pertanto, un requisito (l’ancoramento ad una specifica perfomance individuale o organizzativa) che conferisce agli incentivi in parola il carattere selettivo proprio del salario di produttività.
Infine, sempre sul piano della delimitazione generale della spesa, il comma 3 prevede che “le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima” (o prive del predetto accertamento di conformità ai tempi ed ai costi preventivati) costituiscano economie che re-incrementano il fondo di cui al comma 2 (con successiva destinazione, ove non si voglia privare di effetto pratico la “sanzione” della confluenza in economia, alle finalità indicate dal comma 4 dell’art. 113, quali acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture, attivazione di tirocini formativi e svolgimento di dottorati di ricerca, e non, nuovamente, all’incentivazione dei dipendenti ex art. 113, comma 3).
Il medesimo comma 3 introduce, infine, un limite individuale alla corresponsione degli incentivi in parola, prescrivendo che, complessivamente, nel corso dell'anno, un singolo dipendente non possa percepire emolumenti di importo superare al 50 per cento del proprio trattamento economico annuo lordo.
   II. La questione di massima principale
La scrivente Sezione regionale di controllo ritiene le esposte limitazioni finanziarie, complessive ed individuali, particolarmente rilevanti ai fini della risposta all’odierno quesito.
Gli incentivi c.d. tecnici, infatti, oltre a essere previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche (a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto), gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (da ultimo, chiarite dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) e posseggono due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione, uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
La concorrenza degli illustrati presupposti (fonte in specifica disposizione di legge, discrezionalmente attribuente un compenso ad una predeterminata categoria di dipendenti; auto-finanziamento dell’emolumento; tetto complessivo rapportato al valore del singolo appalto; limite individuale ancorato agli emolumenti economici percepiti annualmente) mostra come il legislatore, unitamente alla scelta di attribuire il ridetto incentivo al personale impegnato nelle procedure di aggiudicazione, esecuzione e collaudo dei contratti pubblici, si è preoccupato di individuare le specifiche fonti di finanziamenti ed i vincoli finanziari, complessivi ed individuali, propri del predetto incentivo. Trattandosi, infatti, di emolumento che non ha fonte nelle norme dei vari contratti collettivi nazionali di comparto (alcune di questi ultimi lo richiamano al solo fine di ripartire le complessive risorse a favore dei dipendenti), la legge individua direttamente i vincoli atti ad evitare un aumento non controllato della spesa.
Tale caratteristica, va precisato, è propria anche di altro emolumento economico accessorio escluso dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (deliberazione 04.10.2011 n. 51) dal generale limite di finanza pubblica posto al complessivo trattamento economico accessorio (pro tempore avente fonte nell’art. 9, comma 2-bis, del citato d.l. n. 78 del 2010), i compensi agli avvocati dipendenti da pubbliche amministrazioni. Tali emolumenti, infatti, in particolare dopo la rivisitazione intervenuta con l’art. 9 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014, hanno anch’essi specifici e autonomi limiti finanziari, sia in relazione alle fonti di finanziamento che ai tetti complessivi ed individuali: 50% delle somme recuperate in caso di sentenza favorevole (con cristallizzazione, invece, agli impegni del 2013 per le fattispecie di spese compensate) e tetto del trattamento economico annuo complessivo spettante al singolo dipendente (oltre che quello, generale, espressamente richiamato, posto a tutti i dipendenti pubblici dall’art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011).
Analoghe caratteristiche si rinvengono, altresì, per i c.d. diritti di rogito spettanti ai segretari degli enti locali (o meglio, ad una parte di essi, dopo l’art. 10 del citato d.l. n. 90 del 2014), pure esclusi, in aderenza ai principi di diritto affermati dalla citata deliberazione delle Sezioni riunite, dal limite generale posto al trattamento economico accessorio (cfr. SRC Puglia, parere 15.02.2012 n. 22). La pertinente norma di legge (art. 10 d.l. n. 90 del 2014), infatti, oltre a restringere la platea dei segretari percettori, delimita le risorse finanziarie utilizzabili a tal fine (una quota del provento annuale di cui all'art. 30, comma 2, della legge n. 734 del 1973) e introduce un limite individuale (il quinto dello stipendio in godimento).
In entrambi i ridetti emolumenti economici, come per gli incentivi c.d. tecnici, anch’essi esclusi dal generale limite posto al trattamento economico accessorio complessivo dalla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite , ricorre un’ulteriore caratteristica, quella della congenita e fisiologica variabilità nel corso del tempo. Infatti, le norme di finanza pubblica che si sono succedute nel porre un limite generale al complessivo trattamento economico accessorio (dall’art. 9, comma 2-bis, del citato d.l. n. 78 del 2010 fino al vigente art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 175 del 2016), come messo in luce dalle stesse Sezioni riunite nella deliberazione 04.10.2011 n. 51, hanno avuto come scopo quello “di cristallizzare al 2010 il tetto di spesa relativo all’ammontare complessivo delle risorse presenti nei fondi unici”, cercando di “porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell’ente pubblico”.
Questi ultimi hanno un andamento temporale sostanzialmente stabile (come evincibile dalla natura delle risorse che li alimentano, facenti prevalente riferimento a dati storici, cfr. art. 15 del CCNL enti locali 01.04.1999, nonché, in concreto, dalle tabelle inviate dalle singole amministrazioni pubbliche al MEF-RGS, confluenti nel conto annuale del personale, cfr. da ultimo circolare 27.04.2017 n. 19). Invece, gli incentivi c.d. tecnici ed i compensi agli avvocati dipendenti sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente suscettibili di essere soggetti ad una norma di finanza pubblica di carattere generale, che ha come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici (l’assoluta prevalenza dei quali non è composta da ministeri o organismi aventi struttura analoga, quali regioni o enti pubblici non economici, ma da amministrazioni di piccole dimensioni e limitato bilancio). I lavori di costruzione o ristrutturazione, l’acquisto di un’apparecchiatura diagnostica, il servizio di aggiornamento di una rete informatica, etc. non sono appalti aggiudicati, eseguiti o collaudati in modo costante nel tempo (per non pensare al caso, ancora più significativo, di un’amministrazione che, per esempio, nel 2018, pubblichi il bando di gara per la realizzazione della propria nuova sede), ma in maniera estemporanea.
Il legislatore, conscio di tale differenza, nel prevedere l’erogazione di incentivi al personale espletante attività funzionali all’esecuzione di appalti pubblici, ha, tuttavia, data l’estemporanea cadenza temporale e la conseguente irregolare evoluzione quantitativa, introdotto dei limiti finanziari, complessivi e individuali, riferiti esclusivamente ai ridetti emolumenti (la sostanziale omogeneità e contiguità di disciplina con i compensi attribuiti agli avvocati dipendenti o i diritti di rogito è evidente nel parallelo intervento operato, a suo tempo, dal d.l. n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014 con gli artt. 9, 10, 13 e 13-bis, la cui disciplina, per gli incentivi c.d. tecnici, è stata trasfusa nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016).
Pertanto, alla luce dell’evoluzione normativa, nonché delle concrete problematiche interpretative che sono medio tempore emerse, la scrivente Sezione regionale di controllo ritiene che il principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite in sede di controllo nella citata deliberazione 04.10.2011 n. 51, in base al quale le sole risorse da ritenere non ricomprese nell’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010 (e, oggi, mutatis mutandis, dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017) sono solo quelle destinate a “remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti”, possa essere aggiornato (non superato) facendo più preciso riferimento agli emolumenti economici accessori erogabili ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni che abbiano fonte in disposizioni di legge speciale, che individuino le autonome fonti di finanziamento e pongano dei limiti, complessivi ed individuali, preordinati ad un’analoga (e autonoma) funzione di vincolo di finanza pubblica.
I ridetti presupposti ricorrono, come visto, per entrambi gli emolumenti oggetto di considerazione da parte delle Sezioni riunite nella deliberazione 04.10.2011 n. 51 (sia per gli incentivi c.d. tecnici sia per i compensi agli avvocati dipendenti), che, in base alla prospettazione interpretativa proposta, troverebbero solo un ulteriore ancoramento ad omogenee esigenze di finanza pubblica (i compensi economici accessori in parola, come altri aventi analoga natura e strutturazione, in quanto previsti da una specifica disposizione di legge, si trovano in rapporto di specie a genere rispetto a quelli aventi fonte nelle norme dei contratti collettivi di comparto, con limiti finanziari propri discendenti dalla medesima fonte legislativa).
Invero, il mero condivisibile ancoramento alle “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione” rischia di divenire criterio avente effetto potenzialmente espansivo della spesa tutte le volte in cui gli emolumenti economici accessori erogati ai dipendenti delle PA, pur possedendo i due indicati presupposti, non sono previsti da specifiche disposizioni di legge che individuino le risorse a cui devono essere imputati ed i limiti finanziari, complessivi ed individuali, da osservare.
Le amministrazioni pubbliche, come noto, hanno all’interno del proprio organico plurimi profili professionali, quali medici, psicologi, veterinari, biologi, chimici, informatici, restauratori, etc. Per i compensi accessori ad ognuno di questi spettante potrebbe essere replicata l’esigenza di esclusione fondata sulla ricorrenza di prestazioni professionali tipiche erogate da soggetti predeterminati, che potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno. Inoltre, posto che la maggior parte delle funzioni o dei servizi erogati dagli enti pubblici sono legittimamente acquisibili dall’esterno nella ricorrenza dei presupposti prescritti dalla legge (artt. 6-bis e 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2016, nonché, ove si ricorra a società controllate, art. 3, commi 30 e seguenti, legge n. 244 del 2007), la legittimazione dell’eventuale esclusione dei compensi accessori erogati ai dipendenti interni collocati in settori o servizi passibili di esternalizzazione produrrebbe un conseguente incremento incontrollato della spesa (e il sostanziale venir meno dei limiti posti dalla norma generale di contenimento del complessivo trattamento economico accessorio).
Anche gli incarichi, amministrativi o tecnici, necessari alla programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo degli appalti pubblici sono affidabili (tutti, tranne quello di RUP) a professionisti esterni nella ricorrenza dei presupposti previsti dal codice dei contratti pubblici (cfr. artt. 23, 24, 31, commi 7, 8 e 11, e 102 comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016), ma il quid pluris che legittima l’erogazione, in caso di espletamento interno, di un incentivo ai dipendenti dell’amministrazione è la presenza di un’espressa previsione di legge, in assenza della quale, prima ancora della sottrazione ai vincoli di finanza pubblica, si porrebbe il problema della legittima attribuzione (in quanto il trattamento economico, fondamentale ed accessorio, dei dipendenti pubblici, deve trovare fondamento in norme di legge, del contratto collettivo nazionale o di quello decentrato di ente, cfr. artt. 2, 40 e 45 d.lgs. n. 165 del 2001).
Il mero ancoramento allo svolgimento di attività professionali che, ove richieste all’esterno, produrrebbero un aggravio di costi per l’ente pubblico, impedirebbe, inoltre, ove il principio giurisprudenziale fosse applicato alla lettera, di sottrarre al limite di finanza pubblica gli incentivi corrisposti al RUP. Quest’ultimo costituisce il funzionario intorno a cui ruota tutta la procedura di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo degli appalti pubblici (cfr. artt. 31, 101 e 102 del d.lgs. n. 50 del 2016) ed è nominativamente indicato come uno dei legittimi percettori dell’incentivo (cfr. art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016), come fra l’altro chiarito, nella vigenza della normativa precedente, sia dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti (cfr. deliberazione 13.05.2016 n. 18) che dalla giurisprudenza in materia di responsabilità (cfr. Sez. giur. Toscana, sentenza 21.09.2017 n. 214).
Sulla base di quanto esposto, considerato che la questione involge l’interesse non solo del Comune istante, ma di tutte le “amministrazioni aggiudicatrici” aventi natura di ente pubblico (ministeri, enti pubblici non economici, università, aziende sanitarie, etc.), la scrivente Sezione regionale di controllo ritiene opportuno deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente questione interpretativa di massima di carattere generale: “
se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione”.
   III. La questione di massima subordinata
Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra illustrata venga definita nel senso dell’irrilevanza dei nuovi argomenti interpretativi prospettati, la scrivente Sezione regionale di controllo dovrebbe valutare se, anche alla luce novità apportate all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, dopo l’intervento nomofilattico della Sezione delle autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7), dal d.lgs. n. 56 del 2017 e dalla legge n. 205 del 2017, ricorrano negli incentivi in parola i presupposti per poterli escludere dal generale tetto posto al trattamento economico accessorio complessivo dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Come noto, quest’ultima disposizione non prevede, letteralmente, alcuna eccezione all’ambito applicativo, soggettivo e oggettivo, del precetto. Tuttavia, come già esposto, le Sezioni riunite della Corte dei conti, nella citata deliberazione 04.10.2011 n. 51, valorizzando la ratio dell’intervento di finanza pubblica e l’esigenza di evitare antieconomiche distorsioni applicative, avevano escluso dal limite i compensi remunerativi di “prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali “potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”. Sulla base del ridetto principio di diritto, avevano sottratto al vincolo, all’interno della platea di compensi accessori prospettati dalle Sezioni regionali remittenti, gli incentivi previsti dall’abrogato art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006 (poi refluiti nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo) ed i compensi agli avvocati dipendenti (oggi disciplinati dall’esposto art. 9 del d.l. n. 90 del 2014).
L’applicazione del ridetto principio di diritto ha permesso alla giurisprudenza contabile successiva di escludere dal limite i compensi accessori aventi le medesime o analoghe caratteristiche, come quota parte dei compensi aventi fonte nelle economie da piani triennali di razionalizzazione della spesa (cfr. Sezione delle autonomie, deliberazione 21.01.2013 n. 2 e deliberazione 07.12.2016 n. 34; SRC Emilia Romagna, parere 12.09.2017 n. 136), i compensi corrisposti a valere sui fondi strutturali e di investimento europei (cfr. Sezione delle autonomie, deliberazione 25.07.2017 n. 20) ed i diritti di rogito ai segretari degli enti locali (cfr. Corte conti, SRC Puglia, parere 15.02.2012 n. 22).
In aderenza, la scrivente Sezione regionale di controllo ritiene che gli incentivi erogabili ai sensi dell’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016 posseggano, alla luce del tenore letterale della disposizione, le medesime caratteristiche di destinazione alla remunerazione di prestazioni professionali specifiche e di perseguimento di risparmi rispetto all’affidamento di incarichi all’esterno, riconosciuti, negli incentivi erogabili ai sensi della previgente normativa, della pronuncia nomofilattica delle Sezioni riunite in sede di controllo (deliberazione 04.10.2011 n. 51).
Sul punto, tuttavia, si è mostrata di contrario avviso la Sezione delle autonomie, che, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha ritenuto che gli incentivi per le “funzioni tecniche” di cui all'art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 si presentano con caratteristiche diverse rispetto a quelli disciplinati dal previgente codice degli appalti, per cui, non essendo sovrapponibili al compenso incentivante “per la progettazione” di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, (e, in precedenza, 92, comma 5) del d.lgs. n. 163 del 2006, vanno inclusi nel generale tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici (oggi avente fonte nell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). A conforto, la medesima deliberazione ha evidenziato come gli emolumenti indicati nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 “si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e, quindi, di personale”.
Alla luce di quanto affermato dalla citata deliberazione 06.04.2017 n. 7, avente forza interpretativa vincolante ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012, anche la scrivente Sezione regionale si è adeguata nella resa dei propri pareri (cfr., per esempio, parere 09.06.2017 n. 185), come ricordato dalla stessa Sezione delle autonomie nella successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24. Quest’ultima, nel dichiarare inammissibile un’istanza di rivisitazione avanzata dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria (deliberazione 29.06.2017 n. 58), ha confermato l’orientamento espresso in precedenza, senza, tuttavia, alla luce della natura della pronuncia, prendere espressamente posizione su tutte le argomentazioni prospettate dalla Sezione remittente.
Nella citata deliberazione 06.04.2017 n. 7 viene evidenziato, in primo luogo, che nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr), legge n. 11 del 2016) è stato precisato che l’incentivo in esame deve andare a “remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto”, escludendolo la progettazione.
Invero, l’incentivo in parola, in gergo denominato, in maniera impropria ed incompleta, “alla progettazione”, remunera, da circa vent’anni, una serie di ulteriori attività, amministrative e tecniche, funzionali all’aggiudicazione, esecuzione e collaudo degli appalti pubblici. Il riferimento alla sola progettazione era contenuto nella rubrica dell’abrogato art. 18 della legge n. 109 del 1994, che, tuttavia, nel corpo della disposizione, già dopo la novella apportata dalla legge n. 144 del 1999, prevedeva l’incentivazione anche delle attività di RUP, direttore lavori, collaudatore e rispettivi collaboratori (“responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori”). Allo stesso modo l’art. 92, comma 5, del previgente d.lgs. n. 163 del 2006 permetteva la ripartizione del fondo incentivante “tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori” (pressoché identica la formulazione dell’omologo art. 93, comma 7-bis, introdotto dalla legge n. 114 del 2014).
Pertanto, sotto questo profilo l’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016 non introduce alcun elemento di sostanziale novità, rispetto all’articolazione normativa precedente (contenuta nella legge n. 109 del 1994 e nel d.lgs. n. 163 del 2016), in punto di individuazione delle categorie di personale e delle attività incentivabili, se non quella di escludere l’attività di progettazione (mentre le ulteriori specificazioni che sembrano ampliare, pur mantenendola predeterminata, la platea di soggetti interessati, era già in precedenza assorbita dalla generica espressione “collaboratori”, poi esplicitata dal legislatore per doverosa maggior chiarezza).
L’esclusione dall’ambito delle attività incentivabili ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 di quelle di progettazione costituisce una mera scelta politica (probabilmente opinabile, in quanto finalizzata a stimolare il mercato degli affidamenti a progettisti esterni, e che, come tale, rischia di depauperare il patrimonio di conoscenze tecniche interno all’amministrazione, necessario al professionale espletamento delle attività di RUP; direzione lavori, collaudo, etc.), ma che non indebolisce, anzi rafforza, il presupposto, valorizzato dalle sezioni riunite (deliberazione 04.10.2011 n. 51), della destinazione dell’incentivo verso categorie predeterminate di dipendenti.
Come nel precedente sistema normativo, infatti, l’incentivo in parola è teso a remunerare una serie di attività., amministrative e tecniche, necessarie ai fini della programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo degli appalti pubblici (“programmazione della spesa”, “valutazione preventiva dei progetti”, “predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici”, “RUP”, “direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione”, “collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità” e “collaudatore statico”).
In aderenza alla lettera della (previgente) norma, la stessa Sezione delle Autonomie, nella citata recente deliberazione 13.05.2016 n. 18, aveva condivisibilmente ritenuto non necessario, ai fini dell’erogazione dell’incentivo a RUP e collaboratori, l’affidamento della progettazione a dipendenti interni (analogo orientamento è stato adottato, in sede di giudizio di responsabilità, dalla Sezione giurisdizionale per la Toscana, sentenza 21.09.2017 n. 214).
Oltre ad essere richiedibili ad un limitato contingente di personale interno qualificato (cfr., artt. 25, 26, 31, 101, 102 e 111 del d.lgs. n. 50 del 2016, nonché le linee guida ANAC n. 3/2016, paragrafi 4 e 7, e linee guida n. 5/2016, paragrafo 2), le prestazioni elencate dai commi 2 e 3 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 sono tutte (tranne quella di RUP, se non per le attività di supporto, cfr. art. 31, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016), acquisibili all’esterno previa adozione di apposite procedure di gara (cfr. artt. 31, comma 8, e 102, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016). Ricorrono, pertanto, entrambi i presupposti richiesti dalla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite per poter legittimare l’esclusione dai limiti generali posti al trattamento economico accessorio.
Nella citata deliberazione 06.04.2017 n. 7 la Sezione delle autonomie fonda, inoltre, il proprio orientamento sul fatto che gli emolumenti aventi fonte nell’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, sono “erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture”, elemento che paleserebbe “l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa”.
Si tratta di due affermazioni, entrambe corrette, che, tuttavia, non fanno venir meno, in base all’esame della norma, i presupposti richiesti dalla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite, i cui principi di diritto non vengono messi in discussione nell’indicata deliberazione della Sezione delle autonomie. Infatti, l’estensione, da parte dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, dell’incentivo già previsto dall’art. 18 della legge 109 del 1994 e dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006, anche alle attività, amministrative e tecniche, connesse alla programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo degli appalti di servizi e di fornitura di beni non muta la struttura e la natura degli emolumenti in discorso, che, anche per gli appalti di lavori, mirano a remunerare (per scelta politica) i funzionari che si occupano di predeterminate attività connesse al corretto andamento delle commesse pubbliche.
L’estensione dell’incentivo anche alle attività espletate all’interno delle procedure di appalto dei servizi e della fornitura di beni è diretta conseguenza della scelta del legislatore, contenuta nel medesimo decreto (che fa seguito a provvedimenti normativi precedenti, cfr., per es., art. 9 del d.l. n. 66 del 2014, convertito dalla legge n. 89 del 2014) di ridurre il numero delle stazioni appaltanti.
Queste ultime, infatti, oltre a dover ricorrere, nei casi previsti dalla legge, alla CONSIP o a centrali d’acquisto regionali (cfr. artt. 1, commi 449 e 450, della legge n. 296 del 2006; art. 1, commi 1 e 7, del d.l. n. 95 del 2012, convertito dalla legge n. 135 del 2012), per espletare autonomamente una gara d’appalto sopra una predeterminata soglia, devono essere “qualificate” (cfr. artt. 37, comma 1, e 38 d.lgs. n. 50 del 2016), pena, in caso contrario, il necessario ricorso ad altre amministrazione aggiudicatrici in funzione di “soggetti aggregatori” (cfr. art. 37 del d.lgs. n. 50 del 2016). Il legislatore, pertanto, preso atto dell’innalzamento, in prospettiva, dell’importo media delle gare per appalti di servizi e forniture e, di conseguenza, dell’accresciuta difficoltà di gestione procedurale, amministrativa e tecnica di queste ultime (con incremento del numero di quelle “sopra soglia”), ha deciso di estendere anche ai funzionari coinvolti nel processo di aggiudicazione, esecuzione e verifica di conformità degli appalti di forniture e servizi gli incentivi previsti in precedenza per i soli lavori.
Va considerato, inoltre, che una serie di appalti di servizi e forniture presentano, per loro natura, un livello di difficoltà tecnica nella predisposizione di capitolati e bandi di gara, nonché nel controllo sull’esecuzione delle prestazioni, non inferiore a quelli dei lavori (si pensi ai servizi di ristorazione presso un’azienda ospedaliera o un asilo nido; al servizio di manutenzione di apparecchiature elettro-medicali; alla fornitura di farmaci e vaccini; ai servizi informatici; alla fornitura e posa in opera di un’apparecchiatura diagnostica, etc.).
In queste ipotesi, allo stesso modo che per gli appalti di lavori, i funzionari interessati che possono beneficiare, in base ai regolamenti interni redatti dalle amministrazioni, dell’incentivo di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 sono solo coloro che espletano le attività indicate nei commi 2 e 3 della ridetta norma, nonché i loro collaboratori (individuabili sulla base dell’ordine di servizio di assegnazione all’ufficio, nonché del formale provvedimento di individuazione da parte del RUP, ex artt. 25, 26, 31, 101 e 102 del d.lgs. n. 50 del 2016). Si tratta di una platea ugualmente ristretta e predeterminata di funzionari, costituente un’esigua minoranza all’interno dell’organico di una qualunque pubblica amministrazione (salvo quelle che espletano istituzionalmente, per legge, funzioni di centrali di committenza o di soggetti aggregatori), alla quale va, peraltro, sottratto il personale con qualifica dirigenziale (per espressa previsione normativa, cfr. art. 113, comma 3, ultimo periodo, d.lgs. n. 50 del 2016).
Pertanto, in base alla lettera della norma, anche per gli incentivi riferibili all’espletamento di attività connesse agli appalti di forniture e servizi, rimangono presenti entrambi i presupposti alla base della deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite (e, al limite, dovrebbero rimanere comunque in piedi per gli appalti di lavori, continuando a legittimare, per questi ultimi, l’esclusione dal tetto complessivo posto al trattamento accessorio, opzione interpretativa che introdurrebbe, tuttavia, una disparità di trattamento che non trova alcun ancoramento letterale né nella norma del codice dei contratti pubblici né in quella di finanza pubblica).
Per quanto riguarda l’ulteriore profilo, valorizzato dalla deliberazione 06.04.2017 n. 7, della prospettata assenza nell’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, del presupposto della remunerazione di prestazioni professionali tipiche “che potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi” (Sezioni riunite, deliberazione 04.10.2011 n. 51), anche in questo caso non sembra che il legislatore abbia introdotto elementi di novità rispetto alla disciplina precedente. Infatti, sia nel sistema previgente che nell’attuale, le prestazioni indicate dai commi 2 e 3 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (come quelle elencate dall’art. 92, comma 5, prima, e 93, comma 7-ter, poi, del d.lgs. n. 163 del 2006) possono essere espletate da personale interno ovvero, in caso di assenza di professionalità adeguate o nelle altre ipotesi previste dalla legge, affidate a professionisti esterni (cfr. artt. 24, comma 1, 26, comma 6, art. 31, commi 7, 8 e 11, 102, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), con conseguente potenziale incremento di costi per l’amministrazione aggiudicatrice.
La ratio di premio alle prestazioni rese da dipendenti interni che, altrimenti, sarebbero procacciate dalle PA mediante ricorso a professionisti esterni, risulta esplicitata anche dal medesimo art. 113, che, in maniera similare ai previgenti art. 92, comma 5 (prima), e 93, comma 7-bis (poi), del d.lgs. n. 163 del 2006, dispone che “le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2”, tornando, pertanto, a beneficio dell’amministrazione.
Nella deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione delle Autonomie, riprendendo un inciso motivazionale contenuto anche nella deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni Riunite, si evidenzia, altresì, come il c.d. “incentivo alla progettazione” (rectius, alle attività strumentali), previsto dal previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006, andava “a compensare prestazioni professionali afferenti ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti”, mentre negli incentivi aventi fonte nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2006 “non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti”. Anche in questo caso, tale ultima affermazione appare corretta, ma non sufficiente ad escludere la ricorrenza, per gli incentivi di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, dei presupposti indicati dalla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite per la sottrazione ai limiti generali di finanza pubblica posti al trattamento economico accessorio.
Questi ultimi, infatti, sono stati individuati nella presenza di prestazioni professionali espletabili da predeterminate categorie di personale interno pena l’acquisizione dall’esterno a costi più elevati, mentre la qualificazione come sostanziale spesa di investimento costituiva un argomento a contorno non decisivo.
Nella stessa deliberazione, infatti, le Sezioni riunite avevano escluso la sottoposizione al limite, sulla base della ricorrenza dei due presupposti indicati, dei compensi spettanti ai dipendenti avvocati interni, emolumenti non costituenti spesa di investimento. Allo stesso modo, la medesima Sezione delle autonomie, in successive pronunce, rifacendosi al principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite, ha escluso la sottoposizione a limite per parte dei compensi finanziati dalle economie dei piani di razionalizzazione della spesa (cfr. deliberazione 21.01.2013 n. 2 e deliberazione 07.12.2016 n. 34) e da compensi corrisposti al personale impegnato nelle attività connesse alla gestione di fondi strutturali e di investimento europei (deliberazione 25.07.2017 n. 20), emolumenti entrambi non costituenti spesa di investimento.
Inoltre, analizzando la lettera delle norme succedutesi nel tempo, traspare che l’incentivo previsto dal d.lgs. n. 163 del 2006 era già finalizzato a compensare, non la sola attività di progettazione, ma anche quella di RUP, direttore lavori, collaudatore e rispettivi collaboratori, anche amministrativi (cfr. Sezione delle autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18). Anche nella vigenza della disposizione che ha dato luogo alla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite, gli emolumenti in discorso non erano qualificabili, nella maggior parte dei casi, come spesa di investimento, ma di funzionamento per il personale (spesa che il legislatore, per scelta politica, aveva, e ha, ritenuto meritevole di incentivazione, allo stesso modo di quanto accade per i compensi agli avvocati interni).
Traendo le conclusioni da quanto esposto, la scrivente Sezione regionale di controllo ritiene che l’art. 113, commi 2 e 3, del vigente d.lgs. n. 50 del 2016 riproduca, senza variazioni significative ai fini del dubbio interpretativo in esame (sottoposizione al limite generale di finanza pubblica posto al trattamento accessorio), le disposizioni contenute nel previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006 (poi sostituito dall’art. 93, commi 7-bis e seguenti). Come illustrato, il personale dipendente interessato dalla norma è sostanzialmente il medesimo, quello, in prevalenza tecnico, coinvolto nelle fasi di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo di un appalto pubblico.
La nuova norma ha come elementi di distinzione, rispetto alla precedente, la sola esclusione per le attività di progettazione e l’esplicitazione nominativa di una serie di attività prima comprese nella generica dizione di “collaboratori”, come tali considerate nei regolamenti interni delle varie stazioni appaltanti (cfr., altresì, Sezione delle autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18). Pertanto, se la ratio dell’esclusione rimane, in aderenza al pronunciamento nomofilattico delle Sezioni riunite (deliberazione 04.10.2011 n. 51), quella della destinazione a predeterminate categorie di dipendenti, pena il ricorso a più onerosi incarichi esterni, nulla è mutato fra la precedente e la nuova normativa (in entrambi i casi il legislatore rimette ai regolamenti interni ed alla contrattazione decentrata la puntuale individuazione dei funzionari beneficiari).
Sulla base delle considerazioni esposte, la scrivente Sezione regionale di controllo intende, pertanto, sottoporre, in subordine alla prima, la seguente ulteriore questione di massima: “
se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione, in quanto sussistono i presupposti della destinazione a predeterminate categorie di dipendenti per prestazioni professionali che potrebbero essere affidate a personale esterno, con conseguente incremento di costi per le amministrazioni”.
   IV. La questione di massima in ulteriore subordine
La formulazione precettiva dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, allo stesso modo dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 9, comma 2-bis, del citato d.l. n. 78 del 2010, è strutturata (come, per esempio, dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge n. 296 del 2006, in materia di limiti alla spesa per il personale) in modo da porre un limite, avente base storica, ai trattamenti economici accessori complessivi, la cui evoluzione ha un andamento sostanzialmente regolare nel corso del tempo, quali, in primo luogo, i fondi per la contrattazione integrativa (come palesato dalla circolare MEF-RSG 15.04.2011 n. 12, richiamata dalle successive, cfr., per esempio, circolare 23.03.2016 n. 12, il cui orientamento era stato seguito dalle Sezioni Riunite nella deliberazione 04.10.2011 n. 51), la cui costituzione è ancorata, in prevalenza, a risorse predeterminate dai vari CCNL di comparto (cfr., per gli enti locali, l’art. 15 del contratto del 01.04.1999).
Pur avendo ritenuto che la disposizione limitativa, in aderenza al suo tenore letterale (non modificato sul punto), deve essere osservata anche nel caso di emolumenti accessori non aventi copertura nei fondi per la contrattazione integrativa (Corte dei conti, Sezione delle autonomie, deliberazione 21.10.2014 n. 26), produce effetti distorsivi nel caso di estensione ad emolumenti accessori per loro natura variabili nel corso del tempo (per i quali l’ancoramento, quale anno base, ad un esercizio precedente, non assume significato).
Gli incentivi c.d. tecnici di cui all’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016 (come anche i compensi agli avvocati dipendenti o i diritti di rogito ai segretari comunali, ex artt. 9 e 10 del d.l. n. 90/2014) hanno, come già esposto, un andamento fisiologicamente oscillante (in ragione dell’esecuzione, o meno, in un esercizio di un’opera o dell’avvenuta aggiudicazione di forniture di beni o di servizi con contratti pluriennali, etc.). La sottoposizione a regole di finanza pubblica concepite per aggregati sostanzialmente omogenei nel tempo (quali i fondi per la contrattazione integrativa) anche degli emolumenti accessori aventi naturale andamento temporale ondulatorio, pone le premesse per un inevitabile, non colpevole, superamento del limite nell’esercizio, in cui, per puro caso, un’amministrazione pubblica deve appaltare un’opera o un servizio (problema che si pone, soprattutto, per gli enti locali di medio-piccole dimensioni, la maggioranza della platea delle PA presenti sul territorio nazionale).
L’inclusione degli incentivi c.d. tecnici nel generale limite posto ai trattamenti economici accessori produce un ulteriore effetto paradossale, quello di premiare gli enti pubblici che, per un evento altrettanto casuale, hanno aggiudicato una serie di opere (o una sola di importo considerevole) nell’esercizio base del 2016, e che, di conseguenza, dal 2017, beneficiano di un tetto più elevato, che, fra l’altro, può essere utilizzato per fare crescere, in modo permanente, anche gli altri compensi accessori (aventi fonte nella contrattazione integrativa di ente).
Entrambi gli effetti distorsivi evidenziati determinano una non giustificata disparità di trattamento fra dipendenti di diverse amministrazioni pubbliche (alcune delle quali, a fronte di appalti aggiudicati ed eseguiti, potranno erogare l’incentivo, mentre altre no), che non si limita ai soli incentivi c.d. tecnici, ma rischia di estendersi a qualunque emolumento economico accessorio (come meglio analizzato più avanti).
Inoltre, come messo in evidenza dalla deliberazione 29.06.2017 n. 58 della Sezione Liguria, l’inclusione degli incentivi c.d. tecnici ex art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 all’interno del tetto generale posto al salario accessorio complessivo (cfr. Sezione delle autonomie, deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24) pone dei considerevoli problemi applicativi finora irrisolti (che si riverberano sul controllo che deve operare la Corte).
La scrivente Sezione regionale di controllo ritiene necessario, infatti, che, con una pronuncia di carattere generale, esplicante efficacia su tutto il territorio nazionale, siano fornite adeguate e puntuali indicazioni a regioni, enti locali ed enti del servizio sanitario nazionale (oltre che a tutte le altre amministrazioni pubbliche, nazionali e territoriali) su come procedere, in concreto, alla sottoposizione degli incentivi c.d. tecnici al generale limite di finanza pubblica posto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 (esigenza rilevante, in particolare, per le Sezioni regionali di controllo ai fini del successivo esame dei questionari sui rendiconti, ex artt. 1, commi 3, 4 e 7, del d.l. n. 174 del 2012 e 148-bis del d.lgs. n. 267 del 2000).
Il primo problema attiene alla modalità di computo degli incentivi erogati nel 2016 (anno base), ai sensi del d.lgs. n. 163 del 2006, in modo da avere un omogeneo termine di riferimento per l’esercizio di osservazione (per es., il 2018), in cui andrebbero inseriti gli emolumenti spettanti ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016. Tuttavia, come più volte affermato, mentre i primi erano riferiti ai soli appalti di lavori, i secondi premiano anche agli appalti di forniture e di servizi, e, come tali, dovrebbero, fisiologicamente, essere di un importo superiore rispetto a quanto impegnato/erogato nel 2016 per i soli lavori (elemento che prefigura, già in astratto, un potenziale sforamento del limite).
Il secondo dubbio attiene al computo degli incentivi in discorso, ai fini del limite di finanza pubblica, sia nell’anno base (2016) che in quello oggetto di limitazione (per es. 2018), in termini di cassa o di competenza (o sulla base di altro eventuale criterio).
Se si propende per la cassa, occorrerebbe inserire anche emolumenti che derivano da attività aggiudicate o eseguite in anni precedenti, esercizi per i quali l’orientamento delle Sezioni riunite avevano escluso la soggezione al limite di finanza pubblica (e, facendo affidamento su tale principio, le singole PA avevano costituito i vari fondi). Se si ragiona, invece, per competenza (come accade, in generale, per l’applicazione delle regole limitative di spesa), occorre chiarire a quale esercizio imputarle.
Una prima ipotesi potrebbe essere di imputarle a quello di costituzione del fondo (in cui l’attività incentivata, tuttavia, potrebbe non essere stata ancora espletata). In alternativa, si potrebbe imputarle a quelli di effettivo espletamento dell’attività tecnica incentivata, proponendosi però un problema applicativo per gli incarichi per natura coinvolgenti più esercizi (quali il RUP, la direzione dell’esecuzione del contratto, il collaudo in corso d’opera, etc.) in ragione della necessità di individuare un parametro affidabile di ripartizione (non sempre omogenea allo stato di avanzamento delle opere), anche al fine di evitare interpretazioni elusive del dettato normativo. In alternativa, per avere un ancoramento puntuale, si potrebbe imputare la spesa all’esercizio di formale affidamento dell’incarico (con conseguenti dubbi, tuttavia, per le attività che devono, per loro natura, essere concretamente eseguite in esercizi successivi).
Ulteriore problema attiene al trattamento giuridico da accordare ai compensi incentivanti collegati al medesimo lavoro, servizio o fornitura per attività, tuttavia, espletate su più esercizi. L’ancoramento del limite generale di finanza pubblica posto al trattamento economico accessorio ad un anno base di riferimento, determina il rischio, per gli appalti aventi esecuzione o efficacia pluriennale, dell’erogabilità dell’incentivo a favore di alcune attività strumentali espletate dai dipendenti interni, e non di altre, in ragione dell’esercizio di imputazione (se capiente o meno), con riferimento, tuttavia, al medesimo lavoro, servizio o fornitura (con conseguente necessità di adottare un criterio per es. decurtazione proporzionale, che non determini disparità di trattamento fra dipendenti interni, fonte di potenziale contenzioso).
Si tratta di alcuni esempi delle problematiche applicative estremamente complesse, a cui si sommano i profili di potenziale conflitto fra categorie di dipendenti della medesima amministrazione. La sottoposizione al limite generale posto agli emolumenti accessori anche degli incentivi c.d. tecnici (fino al 2016, invece, sottratti) influenza, indirettamente, specie per i comuni medio-piccoli (la maggioranza della platea delle amministrazioni pubbliche sul territorio), anche la concreta erogazione della restante parte del salario accessorio, avente fonte nei fondi per la contrattazione integrativa (e la stessa loro costituzione).
Se occorre rispettare il limite del 2016, ma, nel corso del 2018, vengono espletate attività tecniche incentivabili, in conformità al regolamento interno da adottare ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, il dirigente preposto dovrebbe ridurre il salario accessorio connesso alle performance spettante agli altri dipendenti (una delle poche leve di intervento, posto che i fondi sono prevalentemente impegnati, di fatto, per erogare indennità e posizioni economiche orizzontali), ma si tratterebbe di un’opzione in controtendenza rispetto alla valorizzazione della produttività individuale e collettiva perseguita dalla legislazione sul pubblico impiego. In alternativa, potrebbe ridurre altre indennità fisse e continuative o le progressioni economiche orizzontali, che, tuttavia, potrebbero essere intangibili in quanto avere fonte in contratti integrativi stipulati in anni precedenti.
Dati i ridotti margini di manovra che hanno gli enti medio-piccoli (i cui fondi per la contrattazione decentrata sono prevalentemente rigidi), l’effetto pratico della soggezione degli incentivi c.d. tecnici, aventi fonte nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (aventi limiti suoi propri), anche al tetto generale posto al trattamento economico accessorio è quello della mancata erogazione. In tal modo, tuttavia, la norma di finanza pubblica, invece di avere un effetto di contenimento della spesa, finisce non solo per decurtarla (obiettivo nemmeno presente nella formulazione dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, che mira alla stabilità nel tempo), ma, addirittura, per azzerarla, con l’effetto di un’impropria interpretazione abrogante di una disposizione di incentivazione (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) che il legislatore non solo ha confermato, ma anche esteso, con precisa scelta politica, agli appalti di servizi e forniture.
PQM
la Sezione regionale di controllo, in considerazione dell’integrazione apportata all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 dall’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, nonché dell’introduzione del comma 5-bis, all’interno della ridetta disposizione, da parte dell’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, delibera sottoporre al Presidente della Corte dei conti, ai sensi ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009, e dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012, le seguenti questioni di massima aventi carattere di interesse generale per tutte le amministrazioni aggiudicatrici sottoposte al controllo della Corte dei conti:
   1) se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione;
in via subordinata
   2) se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione, in quanto sussistono i presupposti della destinazione a predeterminate categorie di dipendenti per prestazioni professionali che potrebbero essere affidate a personale esterno, con conseguente incremento di costi per le amministrazioni;
in ulteriore subordine
   3) quali siano le concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola dell’eventuale sottoposizione degli incentivi previsti dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 75 del 2017, al limite complessivo posto al trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 16.02.2018 n. 40).

     Staremo a vedere quale sarà l'epilogo ...
19.02.2018 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Convenzione urbanistica e sinallagma contrattuale.
Il TAR Milano esclude che in una convenzione urbanistica tra l’Amministrazione e i privati possa instaurarsi un vincolo sinallagmatico che, all’opposto, l’art. 28 della legge urbanistica fondamentale non avalla in alcuna misura.
Conseguentemente non è rinvenibile nell’ordinamento di settore un principio che dia unilateralmente titolo al soggetto attuatore di venire meno all’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione, fosse anche in misura significativamente superiore (ma convenuta rispetto) a quella tabellare.
Le considerazioni esposte trovano, ad avviso del TAR, riscontro nell'orientamento giurisprudenziale secondo cui:
   - gli impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni stessi;
   - in altri termini, la causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione;
   - un operatore può nella convenzione urbanistica assumersi oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale, non contrastante di per sé con norme imperative
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
... per l’accertamento della nullità parziale della convenzione stipulata in data 18.04.2005 con il Comune di Assago, avente ad oggetto il piano particolareggiato “PP D4”, della prima variante del 3.6.2008 e della seconda variante del 30.06.2011, e ciò “nella parte in cui addossano loro obblighi superiori a ciò che la legge permette nel quadro di un piano particolareggiato (p.p.) conforme a legge e p.r.g.” (con “conseguente condanna del resistente a rifondere quanto già prestato dalle ricorrenti e quanto ancora esse presteranno, oltre a rivalutazione e interessi sino al pagamento, sia in termini di opere realizzate sia in termini pagamenti di contributi urbanizzativi e di costruzione”), e, in subordine, per l’accertamento del diritto alla riduzione delle prestazioni convenzionali o a “riequilibrarne modalità e oneri attuativi” (con “conseguente condanna del Comune alle restituzioni inerenti a quanto già prestato dalle ricorrenti e a quanto ancora esse presteranno oltre a rivalutazione e interessi sino al pagamento”), e, in ogni caso, per “l’accertamento e la declaratoria delle plurime inadempienze comunali agli obblighi che la legge pone in capo al resistente”; “la conseguente condanna del Comune a risarcire alle ricorrenti i danni loro arrecati dalle citate inadempienze” e, in ulteriore subordine, per la condanna ex art. 2041 c.c. del Comune a rifondere alle ricorrenti le somme a titolo di spese per incombenti professionali, tecnici e di ogni altra natura da esse sopportati.
...
Ciò premesso il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto per le ragioni che seguono.
In linea di principio, può affermarsi che la disciplina amministrativa dei piani particolareggiati, delineata dall’art. 13 e seguenti della legge 1150/1942, ha ormai stabilmente recepito i modelli convenzionali tipici dell’urbanistica consensuale, espressione degli accordi disciplinati dall’art. 11 della legge 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.06.2008, n. 3255) e, sul piano della loro interpretazione e concreta attuazione, dei profili di regolazione privatistica ancorché nella peculiare dimensione dell’interesse pubblico sotteso al razionale governo del territorio.
Sulla base di tale impostazione risulta giustificata, da un lato, la possibilità che l’Amministrazione imponga un particolare contenuto all’accordo (che, una volta accettato dal privato attuatore, diviene vincolante, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2040), dall’altro che gli atti con cui i privati assumono l’impegno ad attuare le previsioni urbanistiche e, quindi, a cedere delle aree per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, debbano strettamente collegarsi agli obiettivi della convenzione.
Ne deriva che la causa di tali atti è di norma costituita dalla cessione alla P.A. delle aree o a scomputo degli oneri di urbanizzazione o dietro rilascio di permessi di costruire o di permessi in sanatoria o, ancora, mediante monetizzazione, ma sempre in una dialettica aperta tra le parti contraenti in ordine alle modalità di attuazione della trasformazione urbana.
La presente controversia investe il tema della proporzione della sinallagmaticità delle prestazioni e, in particolare, dell’importo degli oneri di urbanizzazione, questi ultimi rimasti invariati, in misura notevolmente superiore ai minimi tabellari, nella convenzione stipulata in data 18.04.2005 con il Comune di Assago e nelle successive varianti del 03.06.2008 e del 30.06.2011: risultanze evincibili dagli atti di causa e, comunque, incontestate tra le parti ai sensi dell’art. 64, comma 4, del codice del processo amministrativo.
La domanda proposta in via principale è finalizzata ad ottenere l’accertamento della nullità parziale delle citate convenzioni in ragione del fatto che la causa degli obblighi contratti dalle ricorrenti sarebbe unicamente da riferire al carico urbanistico oggetto del programma costruttivo (cfr. pag. 3 del ricorso), mentre sarebbe, all’opposto, da ritenere “inconcepibile l'esistenza di una causa degli impegni correlabile a supposti vantaggi o volontà” insiti nell’assunzione dell’impegno a dover corrispondere “€ 77.379.417,88 in luogo degli €. 27.553.011,69 dovuti” (cfr. pag. 5).
Parafrasando le affermazioni contenute nel ricorso, il Comune di Assago ha invece eccepito che all’atto della stipulazione della convenzione del 2005 le ricorrenti hanno reputato che l’eccezionale livello degli impegni potesse trovare una compensazione nei “ritorni stimati sulla base di una prospettiva di mercato (…) sia per la clientela imprenditoriale sia per quella costituita da persone fisiche o famiglie”, ma che, tuttavia, tale compensazione si sarebbe rivelata “neppure comparabile a quella odierna”.
Ciò detto, il Collegio ritiene che le deduzioni delle ricorrenti non depongano per l’illiceità della causa della convenzione, dovendosi a tal riguardo distinguere tra i motivi soggettivi delle parti e la funzione economico-sociale che mediante il citato accordo si intendeva realizzare; un’indagine da condurre in concreto, onde verificare –secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 del codice civile– la legittimità dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, 14.09.2012, n. 15449 e giurisprudenza ivi richiamata).
Le convenzioni come quelle oggetto del contendere, anzitutto, costituiscono attuazione di accordi la cui disciplina trova fondamento –come peraltro correttamente ricostruito dalle stesse ricorrenti– nell’art. 28 della legge 1150/1942, una norma, questa, che regola un procedimento finalizzato alla trasformazione urbana mediante il diretto coinvolgimento di soggetti attuatori in un disegno amministrativo fondato, ovviamente, sull’assenso del Comune alla realizzazione di un imponente progetto e, da parte privata, sull’assunzione di obblighi inerenti l’urbanizzazione, primaria e secondaria, delle aree interessate dall’intervento edificatorio.
Il tutto, però, in un contesto di reciproco confronto, addirittura di una copianificazione, ben testimoniata, nel caso di specie, dalla condivisa scelta dei progettisti e dalla concordata previsione di oneri di urbanizzazione ben superiori ai limiti tabellari: elementi che –in uno a quanto sopra rilevato circa l’inquadramento della disciplina giuridica sostanziale– avvalorano l’infondatezza dell’assunto secondo cui “l’assenza di effettiva negoziazione connotante la convenzione che acceda a un p.p. di iniziativa pubblica (…) conferma a ulteriore titolo l'illegittimità degli extra oneri che con essa siano addossati al privato(cfr. pag. 13 della memoria dei ricorrenti del 04.11.2017).
L’elemento qualificante di tale modello, infatti, è dato dal superamento di una concezione meramente corrispettiva tra gli oneri incombenti sui privati e l’utilità pubblica –direttamente proporzionata (cfr., contra, TAR Lombardia–Brescia, 17.12.2012, n. 1949)– che ne possa trarre l’Amministrazione comunale (essendo, infatti, la concezione corrispettiva già ascritta all’ordinario procedimento di rilascio del titolo abilitante all’esercizio dell’attività edilizia), venendo in rilievo, piuttosto, una singolare relazione tra il potere autorizzatorio e la libertà negoziale sottesa alla stipulazione convenzionale quale soluzione ritenuta preferibile per meglio garantire la cura dell’interesse pubblico, in linea con l’evoluta definizione dell’accordo amministrativo quale sintesi tra i principi di autoritarietà e consensualità nell’urbanistica.
La tesi delle ricorrenti, all’opposto, muove dal presupposto della corrispettività tra gli obblighi delle parti inerenti l’urbanizzazione e l’edificazione delle aree oggetto di convenzionamento. Ma una siffatta prospettiva, ad avviso del Collegio, non supera il vaglio critico sotteso all’obiettiva realtà dei fatti, cioè alla postuma presa d’atto, da parte delle ricorrenti, dell’insussistenza –forse anche dell’originario travisamento– degli stimati ricavi che l’attuazione del piano particolareggiato avrebbe dovuto produrre, da cui ha tratto ragion d’essere l’odierno giudizio, sostanzialmente volto a rimettere in discussione una regolazione negoziale sostanziatasi in tre convenzioni (2005; 2008; 2011), tutte connotate dall’immutazione dell’originario programma realizzativo e delle condizioni fondamentali del relativo accordo, oneri compresi.
Non a caso nel corso dell’udienza pubblica del 05.12.2017 il Collegio ha chiesto al difensore delle ricorrenti –senza, tuttavia, ricevere sul punto alcuna spiegazione– di illustrare le ragioni che abbiano a queste impedito di avvalersi della disciplina introdotta dal D.L. 70/2011, il cui art. 5, comma 8-bis ha modificato l’art. 17 della legge 1150/1942, prevedendo, in tema di “validità dei piani particolareggiati”, che “qualora, decorsi due anni dal termine per l'esecuzione del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione il secondo comma, nell'interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi, il comune, limitatamente all'attuazione anche parziale di comparti o comprensori del piano particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di formazione e attuazione di singoli sub-comparti, indipendentemente dalla parte restante del comparto, per iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduti”.
La configurazione dei rapporti in termini di stretta corrispettività, sulla scorta della quale è stata dedotta l’illegittimità degli importi degli oneri da corrispondere al Comune di Assago, sembra, pertanto, mirare ad un obiettivo più sagace e ambizioso, quello, cioè, di ottenere –a programma invariato dell’edificazione approvata– l’accertamento di un presupposto che possa consentire alle stesse ricorrenti di disporre di appropriati strumenti contro l’inadempimento delle convenzioni, in primo luogo mediante l'exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 del codice civile.
Una prospettazione, tuttavia, che il Collegio non può affatto condividere,
dovendosi escludere che tra l’Amministrazione e i privati possa instaurarsi un vincolo di sinallagmaticità che, all’opposto, l’art. 28 della legge urbanistica fondamentale non avalla in alcuna misura, essendo previsto in tale disposizione che “l’autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni
”.

Non è, pertanto, rinvenibile nell’ordinamento di settore un principio che dia unilateralmente titolo al soggetto attuatore di venire meno all’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione fosse anche –come nell’odierno giudizio– in misura significativamente superiore (ma convenuta rispetto) a quella tabellare.
Le considerazioni esposte trovano, del resto, riscontro nella giurisprudenza secondo cui:
   a)
“gli impegni assunti in sede convenzionale non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni stessi. In altri termini, la causa della convenzione urbanistica e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che della pubblica amministrazione” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5603, richiamata in TAR Lombardia–Milano, sez. II, 10.02.2017, n. 346);
   b) “
un operatore possa, nella convenzione urbanistica, assumersi oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale, non contrastante di per sé con norme imperative (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.09.2011, n. 2193 e 03.04.2014, n. 879” (cfr. TAR Lombardia–Milano, 17.02.2015, n. 504, opportunamente citata dalla difesa comunale).
La neutralizzazione del principio di libera negoziazione, peraltro, è soggetta ad un limite di logicità nell’ordinamento dell’urbanistica consensuale.
Se, infatti, si ritenesse condivisibile che l’esercizio dei poteri abilitanti l’attività edificatoria, trasfuso nell’accordo convenzionale, possa o perfino debba atteggiarsi a ragione direttamente giustificativa del sacrificio economico posto a carico del lottizzante privato, finirebbe per venire meno qualsiasi ostacolo, normativo o di principio, alla possibilità di paralizzare (legittimamente) la richiesta di puntuale corresponsione di oneri urbanizzativi rimasti inadempiuti ogni qual volta sorgano contestazioni che impediscano di portare avanti l’edificazione.

Il che condurrebbe, nel caso del progetto delle società ricorrenti, a poter (altrettanto legittimamente) lasciar languire le opere in uno stato di incompiutezza (l’Amministrazione ha persuasivamente evidenziato che sarebbero state realizzate le residenze e gli uffici, ma non la viabilità extra comparto) fino a che non si modifichi l’importo degli oneri fissati nelle tre, successive, convenzioni (si tratta, in particolare, della disciplina prevista dall’art. 9 della convenzione originaria, confermata nell’art. 3 della prima variante e lievemente modificata, ma non nella sostanza, nell’art. 6 della seconda variante).
Reputa, pertanto, il Collegio che alla luce delle considerazioni sopra formulate il Comune di Assago non ha oltrepassato, mediante i citati accordi, i confini del potere discrezionale di cui disponeva, e che, quindi, la prefigurazione, da parte delle ricorrenti, di un’asimmetria delle posizioni trasfuse nella convenzione, addirittura qualificando la fattispecie come sussumibile nel contratto con obblighi a carico di una sola parte ex art. 1468 del codice civile (mentre –a differenza di quanto sostenuto dal difensore delle ricorrenti in pubblica udienza– l’art. 16 della convenzione originaria, nel prevedere l’assunzione delle “obbligazioni tutte” in capo alla “parte attuatrice”, ha inteso riferirsi agli obblighi legali di cessione delle aree a standard e di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria), in realtà ha espresso un assetto dei reciproci interessi che le imprese attuatrici hanno consapevolmente accettato e persistentemente confermato, denunciandone l’insostenibilità soltanto in via sopravvenuta.
La causa della convenzione è, dunque, perfettamente lecita, con conseguente reiezione della domanda, proposta in via principale, di nullità parziale.
Considerazioni in parte simili vanno estese all’esame della subordinata domanda di reductio ad aequitatem della convenzione, che le ricorrenti hanno invocato richiamando la crisi economica, mondiale e nazionale, che ha travolto settori nevralgici per la loro attività: una situazione non pronosticabile nel 2005, che integrerebbe un avvenimento straordinario ed imprevedibile e, quindi, giustificherebbe la pretesa ad una riduzione degli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art. 1468 del codice civile, diretta ad equilibrare uno squilibrio tra le prestazioni, imprevisto al momento della conclusione del primo accordo ed esorbitante dalla normale alea contrattuale.
Sul piano ricostruttivo, l’indagine da condurre in concreto sul nesso di interdipendenza tra gli interessi dei contraenti non può, anzitutto, prescindere dalla rilevanza oggettiva della sopportazione, consapevolmente assunta dalle ricorrenti al momento della conclusione della convenzione originaria e ribadita nelle successive varianti del 2008 e del 2011, degli oneri di urbanizzazione nella (pur notevole) misura fissata d’intesa con l’Amministrazione.
Le circostanze illustrate nel ricorso, in aggiunta, attengono al mutamento di fattori concorrenziali o di mercato, non avulsi –in generale– dal rischio di impresa e, soprattutto, non eccedenti –nel caso particolare– rispetto all’ambito di interlocuzione di cui le ricorrenti hanno disposto nel corso delle varianti alla convenzione del 18.04.2005. Le sopravvenienze di cui si discute, insomma, non possono rappresentare elementi di apprezzamento disomogenei rispetto al novero dei prevedibili fattori di rischio imprenditoriale, rientranti nella fenomenologia della conoscenza delle società ricorrenti, tenuto conto di quanto fosse ambizioso il progetto da realizzare.
Non è secondario rilevare, inoltre, che le ricorrenti non hanno allegato in giudizio alcun elemento che consentisse di ponderare i ricavi originariamente stimati nella convenzione del 2005, e ciò mediante la produzione del piano economico e finanziario dell’operazione, che, ad esempio, in tema di lavori pubblici costituisce un complemento essenziale per la valutazione dei soggetti proponenti un project financing (cfr. art. 96, comma 4, del DPR 207/2010, in cui si prevede che il piano economico e finanziario va valutato alla luce “degli elementi economici e finanziari, quali costi e ricavi del progetto e composizione delle fonti di finanziamento” e “della capacità di generare flussi di cassa positivi e della congruenza dei dati con la bozza di convenzione”).
Non è stata, dunque, provata, neppure a livello indiziario, la lamentata lesione né, tantomeno, che la regolazione degli interessi trasfusa nella convenzioni non abbia perdurantemente espresso gli intenti delle parti.
Per tali ragioni, non può essere accolta la domanda di ammissione di una CTU, la quale non potrebbe supplire all’onere probatorio incombente sulle ricorrenti, né tantomeno potrebbe essere disposta per rimettere al consulente d’ufficio l’accertamento sulla rilevanza della “peggiore crisi economica degli ultimi cent’anni” (cfr. pag. 6 del ricorso) rispetto alle vicende controverse.
Ma c’è di più.
Le ricorrenti non hanno dedotto la violazione dell’art. 1467 del codice civile: una disposizione in cui si prevede che “se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto” (comma 1), soggiungendosi che “la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto” (comma 3).
Ciò, si può presumere, in ragione del fatto che nella serrata dialettica con il Comune di Assago sia rimasta irrisolta la questione del mancato adempimento –confermato nella convenzione del 30.06.2011 (seconda variante)– all’obbligo delle parti attuatrici di realizzare, sebbene progettata e previa indizione di procedura di evidenza pubblica, la viabilità di connessione autostradale.
È quindi suggestivo, ma destituito di fondamento, l’assunto secondo cui “a otto anni dall'approvazione del PPD4 il Comune non è riuscito a procurare l'approvazione di una viabilità (quella di connessione autostradale che permetta l'accesso da nord al PPD4 sia per il traffico affluente da Genova sia per quello in uscita da Milano) attorno alla quale il PPD4 è stato concepito e progettato nelle sue componenti private” (cfr. pag. 24 del ricorso).
Di contro, nella convenzione del 03.06.2008 (prima variante) il Comune di Assago, pur avendo rilevato “che una parte degli interventi non è ancora stata realizzata dalla parte attuatrice”, ha, comunque concordato di “rimodulare le destinazioni d'uso da inserire nell'ambito del comparto D4, convertendo parte delle destinazioni d’uso commerciali, paracommerciali e ricettive ancora da insediare in terziario e in residenza” (cfr. pag. 2), a riprova di una condotta non negativamente preconcetta verso le ricorrenti.
Stesso dicasi per il concorso finanziario di 3 milioni di euro, poi ridotto a 2,5 (ferme restando le risorse stanziate da Regione, Provincia e Comune di Milano), per la realizzazione del prolungamento della linea 2 della metropolitana finalizzata al collegamento della fermata “Milano Famagosta” a quella “Assago Milanofiori”, oggetto della convenzione sottoscritta in data 07.05.2003 e successivamente trasfusa nell’accordo del 28.07.2009 (si tratta, quindi, di impegni assunti prima della stipulazione della seconda variante con le ricorrenti; resta impregiudicata, perché attinente a domanda estranea all’ambito di cognizione del presente giudizio, la res controversa riguardante il pendente ricorso R.G. 2464/2014 tra la società Milanofiori 2000 s.r.l. e il Comune di Assago).
Ad ogni modo, non è provato l’inadempimento contestato all’Amministrazione comunale.
Pare, invero, al Collegio che l’insostenibilità dell’attuazione del piano particolareggiato abbia quale genesi l’incapacità delle società ricorrenti di dare seguito agli impegni assunti, presumibilmente per un’errata valutazione sulla remuneratività dell’intervento e per una mal calibrata articolazione dei mezzi finanziari a programma sostanzialmente invariato dal 2005 al 2011.
Sotto tale profilo, nulla può imputarsi all’Amministrazione comunale, sulla quale, se mai, potrebbe gravare l’onere di pronunciarsi su futuri e diversi accordi, ma di carattere novativo, nell’ipotesi in cui si voglia evitare il degrado dell’area oggetto di intervento.
Neppure accoglibile è, infine, la domanda di accertamento dell’indebito arricchimento, proposta in via ulteriormente subordinata dalle ricorrenti ai sensi dell’art. 2041 del codice civile.
Pure a voler prescindere dal carattere residuale dell’azione processuale, tale istituto giuridico presuppone un nesso di correlazione tra l’arricchimento e l’impoverimento di chi invoca l’indennizzo, in merito al quale le sezioni unite della Cassazione si sono espresse, con la storica sentenza del 02.02.1963, n. 183, affermando che la condizione perché possa configurarsi il diritto in questione è che l’impoverimento e l’arricchimento derivino, in via immediata, dal medesimo fatto causativo (c.d. teoria del fatto unico, sebbene non pacifica in dottrina).
Ma nella specie si discute di un piano particolareggiato, oggetto di una convenzione aggiornata per ben due volte su concorde volontà delle parti contraenti, la cui inattuazione è legata –per le ragioni sopra illustrate– alle difficoltà finanziarie che hanno condotto le ricorrenti a non poter corrispondere gli oneri pattuiti, i cui riflessi, peraltro, non hanno affatto determinato un ingiusto arricchimento del Comune di Assago (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 08.10.2008, n. 24772), essendo quest’ultimo esposto al rischio che la realizzazione delle opere assentite non venga portata a conclusione.
Per le ragioni esposte, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.01.2018 n. 45 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 – Chiarimenti PCM – Ufficio per la semplificazione e la sburocratizzazione su SCIA di agibilità (Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione Generale per il Mercato, la Concorrenza, il Consumatore, la Vigilanza e la Normativa Tecnica - Divisione IV - Promozione della concorrenza e semplificazioni per le imprese, risoluzione 14.09.2017 n. 375622).
---------------
Scia di agibilità. «Le modifiche recate al Testo unico edilizia dal d.lgs. n. 69 del 2013 hanno esteso la facoltà prevista per l'edilizia produttiva di presentare la dichiarazione o attestazione di agibilità da parte del direttore dei lavori o dal professionista abilitato (articolo 10, dpr n. 160 del 2010) in alternativa al certificato di agibilità (articolo 25 del T.u. edilizia), all'edilizia residenziale (articolo 25, comma 5-bis, dpr n. 380 del 2001).
In attuazione della delega di cui all'articolo 5 del d.lgs. n. 124/2015, l'articolo del d.lgs. n. 222/2016 e la tabella allegata hanno individuato un unico regime amministrativo per l'agibilità.
Infatti, è stato abrogato l'articolo 25 e sostituito l'articolo 24 del dpr n. 380 del 2001 introducendo la segnalazione certificata di inizio di attività ai fini dell'agibilità.
Tale nuovo regime, che supera quello previgente (ivi compreso quello di cui all'art. 10 del dpr n. 160 del 2010) si applica, in tutti i casi, sia all'edilizia produttiva che all'edilizia residenziale
».
Questo è quanto si legge nella risoluzione 14.09.2017 n. 375622 del Ministero dello Sviluppo economico in merito alle disposizioni in materia di Scia di agibilità (articolo ItaliaOggi del 17.02.2018).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2018, "Prime determinazioni per la definizione dei criteri di individuazione del rappresentante unico della Regione, di cui all’articolo 14-ter, comma 3, della legge 241/1990, e delle modalità per l’espressione della posizione univoca e vincolante regionale in conferenza di servizi, ai sensi dell’articolo 2 della l.r. 36/2017" (deliberazione G.R. 12.02.2018 n. 7844).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 7 del 14.02.2018, "Primo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 09.02.2018 n. 1671).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 30.04.2018. Servizio di ANCE Bergamo per la compilazione e presentazione del MUD (ANCE di Bergamo, circolare 09.02.2018 n. 49).

APPALTI: Oggetto: Convegno “Il codice dei contratti pubblici dopo il correttivo: prassi applicative e future prospettive”. Documentazione (ANCE di Bergamo, circolare 30.01.2018 n. 39).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Linee guida per la messa in opera del calcestruzzo strutturale (ANCE di Bergamo, circolare 26.01.2018 n. 38).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Incentivi regionali per l’avvio dei processi di rigenerazione di aree potenzialmente contaminate (ANCE di Bergamo, circolare 26.01.2018 n. 36.

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: Oggetto: Regola tecnica per contenitori distributori mobili, ad uso privato, per l’erogazione di carburante liquido (ANCE di Bergamo, circolare 26.01.2018 n. 34).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sentenza della Corte Costituzionale n. 232 del 26.09.2017. Illegittimità costituzionale dell'articolo 16, comma 1, della legge regionale 10.08.2016, n. 16. Effetti della sentenza sui procedimenti pendenti. Parere reso dall'Ufficio Legislativo e Legale con nota protocollo n. 27218/150.11.2017 del 20.12.2017 (Regione Sicilia, nota 04.01.2018 n. 1651 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

SEGRETARI COMUNALI: Dopo gli incentivi ai tecnici, i diritti di rogito. Prosegue il conflitto della Corte dei conti (15.02.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi ai tecnici: ma la Corte dei conti applica la legge, oppure legifera? (14.02.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Senatore, L’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo fra ordinamento interno e comunitario (14.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario:  1. La tendenza del nostro ordinamento a ridurre il ruolo del  principio di legalità a vantaggio  di quello di efficienza: l’influenza sulla motivazione del provvedimento amministrativo. 2. Il problema  della integrazione postuma della motivazione: l’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990 fra innovazione  e tradizione.  3. La motivazione nell’atto amministrativo europeo. 3.1. L’orientamento della  giurisprudenza comunitaria sull’obbligo della motivazione postuma. 4. I più recenti arresti  giurisprudenziali: aggiornamento interno. 5. Per un controllo case by case del giudice amministrativo.

APPALTI: R. Casini - G. Gagliardini - B. Biancardi, L’onere di immediata impugnazione del bando e la necessità (o meno) di partecipare alla gara: dall’Adunanza plenaria n. 1/2003 ai recenti sviluppi giurisprudenziali (07.02.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
A. Sull’onere di immediata impugnazione del bando di gara. 
   1. L’ordinanza n. 2406 del 06.05.2002  – 2. La sentenza n. 1 del 29.01.2003 dell’Adunanza plenaria – 2.1. Il principio di  attualità e concretezza della lesione  – 2.2. Le clausole soggettivamente escludenti  – 2.3. Quale interesse  leso?  – 2.4. Ulteriore ipotesi limite in caso di  “oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente  sproporzionati” – 3. L’evoluzione giurisprudenziale dopo la sentenza n. 1 del 2003 dell’Adunanza plenaria – 3.1. L’ampliamento delle ipotesi limite  “escludenti” – 3.2. Gli ulteriori interventi dell’Adunanza plenaria  – 4. Il recente revirement del Consiglio di Stato: la sentenza n. 2014 del 02.05.2017 ed il riemergere  della prospettiva concorrenziale  – 5. Contrasti successivi e nuova rimessione all’Adunanza plenaria:  l’ordinanza n. 5138 del 07.11.2017  – 6. Considerazioni conclusive.
B. Sulla necessità o meno di  partecipare alla gara.
   1.  La legittimazione al ricorso avverso il bando di gara  – 2.  L’onere di partecipazione  alla gara sussiste per l’impugnazione della clausola del bando sul criterio di aggiudicazione?  – 3. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: Breve la strada dal Foia alla denuncia per danni (07.02.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: l'impegno di spesa definitivo non può che derivare dalla sottoscrizione del contratto, non dall'aggiudicazione (02.02.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Aggiornamento questione incentivi tecnici (Ufficio Studi CODAU - 31.01.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’incentivo per funzioni tecniche nei contratti pubblici rientra nel tetto di spesa per il salario accessorio: la Corte dei conti conferma l’interpretazione (Ufficio Studi CODAU - 24.11.2017).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIBilancio consolidato per micro-partecipazioni. La Corte conti del Piemonte sugli affidamenti in house.
Se una regione o un comune detengono una partecipazione, anche infinitesimale, in una società in house o che sia comunque destinataria di un affidamento diretto, tali soggetti devono rientrare nel bilancio consolidato dell'ente territoriale. Ciò anche nel caso in cui l'affidamento non sia stato effettuato direttamente da quest'ultimo, ma da un ente strumentale dallo stesso partecipato.

Il chiarimento arriva dalla sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti, che nella parere 02.02.2018 n. 19 analizza la portata delle modifiche introdotte dal dm 11.08.2017 (recante il settimo correttivo al dlgs 118/2011) al principio contabile applicato sul bilancio consolidato (allegato 4/4).
La nuova disciplina prevede termini di decorrenza scaglionati nel tempo e, per alcuni aspetti, deve già essere applicata al bilancio consolidato relativo al 2017, per il quale (lo ricordiamo) la scadenza è il 30.09.2018 e riguarda tutti gli enti, indipendentemente dalla dimensione demografica.
La principale novità riguarda l'obbligo di consolidare tutti gli enti e le società totalmente partecipati dalla capogruppo, le società in house e gli enti partecipati titolari di affidamento diretto da parte dei componenti del gruppo, a prescindere dalla quota di partecipazione. Al di là dell'inclusione dei soggetti posseduti al 100%, ciò comporta che nel gruppo e (soprattutto) nel perimetro devono essere inserite anche tutte le società che rientrano nel regime dell'«in house».
Inoltre, occorrerà verificare se i soggetti inclusi nel gruppo hanno disposto affidamenti diretti ad altri soggetti partecipati, perché in tal caso anche questi ultimi andranno necessariamente consolidati. In entrambi i casi (in house dirette e indirette) non ci saranno scappatoie neppure per partecipazioni detenuta irrisorie. Ad esempio, per stare al caso concreto esaminato dai giudici contabili piemontesi, se un comune ha una partecipazione minima in una società che gestisce il servizio idrico integrato in regime di in house (nella fattispecie, si tratta della Smat, un colosso che serve tutti i comuni della Città metropolitana di Torino) dovrà obbligatoriamente consolidarla.
In tal caso, infatti, non varrà più la facoltà di escludere le partecipazioni sotto l'1%. Per la stessa ragione, nei medesimi casi, non servirà più calcolare le soglie di rilevanza (10% dell'attivo, dei ricavi e del patrimonio netto), perché comunque vi è l'obbligo di consolidamento. A nulla rileva il fatto che l'affidamento sia disposto non dal comune, ma da un ente strumentale (come, sempre per tornare al caso in esame, un'autorità di ambito territoriale ottimale). Diverso potrebbe essere, invece, il caso in cui l'affidamento diretto sia disposto da un altro ente locale (regione o provincia).
Un brutto colpo per gli enti, che invece speravano in un alleggerimento o almeno in un nuovo rinvio dell'adempimento, che quest'anno ha messo a dura prova anche le amministrazioni più strutturate. Al contrario, dovranno rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro fin da subito per evitare di ritrovarsi fra qualche mese con le assunzioni bloccate.
Da notare che, malgrado la pronuncia, Smat non sarà consolidata, almeno per il 2017, poiché avendo emesso titoli obbligazionari, potrà essere esclusa in base ad un'altra deroga a favore delle quotate (si veda ItaliaOggi del 5 gennaio). Ma dal 2018, non ci saranno scappatoie (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

A.N.AC.

PUBBLICO IMPIEGOPortale Anac contro gli illeciti. Garantita la riservatezza sull'identità di chi segnala i reati. Attiva dall'8 febbraio l'app Whistleblower che raccoglie le denunce dei dipendenti pubblici.
Dall'8 febbraio è attiva l'applicazione informatica Whistleblower che consentirà ai pubblici dipendenti di denunciare reati di cui il funzionario pubblico sia venuto a conoscenza nello svolgimento delle proprie funzioni, anche nel settore degli appalti pubblici.
Lo ha annunciato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) informando che il sistema attivato nei giorni scorsi servirà all'acquisizione e alla gestione, nel rispetto delle garanzie di riservatezza previste dalla normativa vigente, delle segnalazioni di illeciti da parte dei pubblici dipendenti come definiti dalla nuova versione dell'art. 54-bis del dlgs 165/2001.
Proprio per garantire la tutela della riservatezza in sede di acquisizione della segnalazione, l'identità del segnalante verrà segregata e lo stesso, grazie all'utilizzo di un codice identificativo univoco generato dal sistema, potrà dialogare con l'Anac in maniera spersonalizzata tramite la piattaforma informatica.
Il portale attivato da Anac permetterà quindi la massima riservatezza esclusivamente alle segnalazioni pervenute tramite il sistema. In una nota, l'Anac ha consigliato, per le segnalazioni inoltrate a partire dall'entrata in vigore della legge n. 179/2017 (29.12.2017) tramite ogni altro canale (telefono, posta elettronica, certificata e non, protocollo generale), di inviarle nuovamente utilizzando solo e unicamente la piattaforma Anac.
L'avvio del sistema riguarda la disciplina dettata dalla legge n. 179/2017, sulla «tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato». Il provvedimento, che modifica l'art. 54-bis del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), tutela i cosiddetti whistleblower, prevedendo fra l'altro che il dipendente che segnala illeciti, oltre ad avere garantita la riservatezza dell'identità (anche nei procedimenti penali e di fronte alla corte dei conti), non possa essere sanzionato, demansionato, licenziato o trasferito.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, in caso di misure ritorsive dovute alla segnalazione, l'Anac informerà il dipartimento della funzione pubblica per gli eventuali provvedimenti di competenza e potrà irrogare sanzioni da 5 mila a 30 mila euro nei confronti del responsabile, mentre in caso di licenziamento il lavoratore sarà reintegrato nel posto di lavoro. Sarà poi onere del datore di lavoro dimostrare che eventuali provvedimenti adottati nei confronti del dipendente motivati da ragioni estranee alla segnalazione.
Nessuna tutela sarà tuttavia prevista nei casi di condanna, anche con sentenza di primo grado, per i reati di calunnia, diffamazione o comunque commessi tramite la segnalazione e anche qualora la denuncia, rivelatasi infondata, sia stata effettuata con dolo o colpa grave.
In precedenza, con il decreto legge 24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito nella legge 11.08.2014, n. 114 era stato previsto che l'Anac, quale soggetto destinatario delle segnalazioni, «riceve notizie e segnalazioni di illeciti, anche nelle forme di cui all'art. 54-bis del decreto legislativo 30.03.2011, n. 165».
L'Anac, pertanto, era stata chiamata a gestire, oltre alle segnalazioni provenienti dai propri dipendenti per fatti illeciti avvenuti all'interno della propria struttura, anche le segnalazioni che i dipendenti di altre amministrazioni possono indirizzarle ai sensi del richiamato articolo 54-bis (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

LAVORI PUBBLICIGare, requisiti richiesti anche ai subappaltatori. Precisazione dell'Autorità anticorruzione su quesito dell'Ance.
Per appalti di lavori è illegittimo fare riferimento a elementi soggettivi dell'impresa in fase di valutazione delle offerte; le dichiarazioni sulle cause di esclusione vanno rese anche dalla terna dei subappaltatori indicati in sede di gara.

È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il Parere di Precontenzioso 24.01.2018 n. 70 - rif. PREC 329/17/L riguardo ad una istanza di precontenzioso presentata dall'Ance e relativa all'affidamento dei lavori di manutenzione di fabbricati ferroviari (una gara da più di 340 milioni affidata da Rfi).
Nella richiesta veniva in primo luogo eccepita la presunta illegittimità dei criteri di valutazione dell'offerta tecnica così come definiti dalla stazione appaltante, sulla base esclusivamente di elementi attinenti alla struttura e affidabilità dell'offerente di natura quantitativa e non su una valutazione qualitativa dell'offerta.
In secondo luogo, si ponevano alcune questioni inerenti alle prescrizioni contenute nella lex specialis di gara in merito al previsto obbligo di indicazione della terna dei subappaltatori in sede di domanda di partecipazione.
Sul primo punto l'Anac ha ricordato che va valutato «il grado di adeguatezza di ciascuna offerta rispetto al singolo obiettivo» e quindi alla connessione degli elementi di valutazione rispetto all'oggetto della gara. Si ricorda anche che nelle linee guida n. 2 (delibera n. 1005 del 21.09.2016) sull'offerta economicamente più vantaggiosa, è stato chiarito che si considerano «connessi all'oggetto dell'appalto quei criteri che attengono alle caratteristiche dei lavori, dei beni o dei servizi ritenute più rilevanti dalla stazione appaltante ai fini della soddisfazione delle proprie esigenze e della valorizzazione degli ulteriori profili indicati dal Codice».
Questo per dire che i criteri individuati devono concretamente «evidenziare le caratteristiche migliorative delle offerte presentate dai concorrenti e differenziare le stesse in ragione della rispondenza alle esigenze della stazione appaltante». È vero che l'articolo 95 del codice cita a titolo esemplificativo criteri quali «organizzazione, qualifiche ed esperienza del personale effettivamente utilizzato nell'appalto, qualora la qualità del personale incaricato possa avere un'influenza significativa sul livello dell'esecuzione dell'appalto», ma nel caso esaminato, ha detto l'Anac, i riferimenti a struttura di impresa, organizzazione del personale e organizzazione tecnica «sembrano riferibili ai requisiti di partecipazione del concorrente piuttosto che quali elementi relativi alle caratteristiche migliorative dell'offerta tecnica sotto un profilo qualitativo della prestazione offerta».
Con ciò si violerebbe il principio generale di divieto di commistione fra requisiti di qualificazione e elementi di valutazione delle offerte, principio che ha delle eccezioni, come ha notato anche il Consiglio di stato, per servizi e forniture.
Per quel che invece attiene alla terna dei subappaltatori da indicare in offerta per l'Anac l'assenza di cause di esclusione deve essere autodichiarata (e poi dimostrata) anche con riguardo ai subappaltatori: le dichiarazioni circa il possesso dei requisiti di cui all'art. 80, dlgs 50/2016 «sono richieste, pertanto, sia per il concorrente principale che per i subappaltatori indicati» (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Informative in consiglio. Ammesse le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto, e quello delle repliche dei consiglieri, va verbalizzato.
È legittima la norma regolamentare che, in materia di funzionamento del consiglio comunale, affida al presidente del consiglio comunale (sindaco) la facoltà di eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su fatti e avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo al sindaco di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio, potrebbe presentare profili di illegittimità?

L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.
u tali questioni, soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art. 43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa; gli stessi hanno, altresì, diritto di presentare interrogazioni e mozioni. Nel caso di specie, la norma regolamentare affida al presidente la facoltà di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione.
Ferma restando la riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti alla seduta.
Dalla lettura di tali verbali, qualora emergano aspetti ritenuti di interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti offerti dall'ordinamento, stimolando una eventuale deliberazione (in presenza dei relativi presupposti di competenza), con la richiesta di inserimento della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi funzioni tecniche.
Domanda
Nel nostro ente, alcuni dipendenti hanno chiesto l’avvio delle procedure per l’approvazione del regolamento per la corresponsione degli incentivi di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016, in quanto dal 2018 non sarebbero più soggetti ai limiti sul salario accessorio. E’ vera tale circostanza?
Risposta
La questione riferita agli incentivi per funzioni tecniche, ad oggi, risulta alquanto controversa e dibattuta. In particolare, pare opportuno un breve excursus:
   • a seguito della riscrittura del Codice dei Contratti, ad opera del d.lgs. 50/2016, i cc.dd. “incentivi per la progettazione” sono stati disciplinati dal nuovo art. 113;
   • la disposizione, per molti aspetti, si è posta in discontinuità rispetto al regime previgente, sia in riferimento alle attività incentivabili sia in relazione ai soggetti potenzialmente percettori dei compensi ivi previsti;
   • in ragione di tali innovazioni, dunque, molti enti si sono chiesti se fosse ancora valido il precetto che considerava esclusi dal limite del salario accessorio i compensi erogati a tale titolo, in aderenza a quanto affermato dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (con deliberazione n. 51/2011);
   • in risposta ai dubbi interpretativi, infatti, è intervenuta la Sezione delle Autonomie la quale, con due successivi pronunciamenti (n. 7/2017/QMIG e n. 24/2017/QMIG), ha statuito il principio secondo cui “Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”;
   • ciò in quanto il compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice non sarebbe affatto sovrapponibile all’incentivo per la progettazione del sistema previgente. Nella specie, non si ravviserebbero i presupposti delineati dalle Sezioni Riunite per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente (oggi art. 23 del d.lgs. 75/2017), in quanto essi non andrebbero a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla PA, come risulterebbe anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3.
Questa, quindi, la fotografia al 31.12.2017.
Tuttavia, sull’argomento è intervenuta la finanziaria 2018 (l. 205/2017), che al comma 526 recita “All’articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».“.
Sugli effetti di tale inciso integrativo si sono già pronunciate due sezioni regionali della Corte dei Conti (Umbria, n. 14/2018/PAR e Friuli Venezia Giulia, n. 6/2018/PAR), a mente delle quali l’intervento del legislatore sarebbe dettato dalla chiara volontà di confermare che gli incentivi in discorso non fanno carico ai capitoli della spesa del personale, ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera. Con l’evidente conseguenza che gli stessi non confluirebbero nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente), ma farebbero capo al capitolo di spesa dell’appalto.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art 113, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, dovessero trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforzerebbe tale intendimento e individuerebbe come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto.
In ogni caso, con deliberazione n. 9/2018/QMIG del 09.02.2018, la Sezione Puglia ha sollevato perplessità in merito a tale lettura, con richiesta di deferimento della questione interpretativa ad una delle sezioni centrali della Corte dei Conti. In via prudenziale, dunque, si consiglia di attendere l’eventuale ulteriore pronunciamento della giurisprudenza contabile, al fine di orientare correttamente le conseguenti scelte gestionali (15.02.2018 - link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La proroga del contratto.
Domanda
È possibile avere una sintesi delle prerogative connesse con la proroga del contratto?
Risposta
Il nuovo codice dei contratti –per la prima volta– disciplina la fattispecie della proroga come opzione di prosecuzione del contratto delineandone i caratteri essenziali che esigono l’attento rispetto da parte del RUP per evitare una affidamento illegittimo.
Il comma 11 dell’art. 106 prevede espressamente che “La durata del contratto può essere modificata esclusivamente per i contratti in corso di esecuzione se è prevista nel bando e nei documenti di gara una opzione di proroga. La proroga è limitata al tempo strettamente necessario alla conclusione delle procedure necessarie per l’individuazione di un nuovo contraente. In tal caso il contraente è tenuto all’esecuzione delle prestazioni previste nel contratto agli stessi prezzi, patti e condizioni o più favorevoli per la stazione appaltante”.
Da quanto, sotto il profilo istruttorio, si deve desumere:
   a) che un differimento del termine di scadenza del contratto deve essere preventivamente fissato già in fase di bando/lettera di invito e che il relativo “costo” deve essere compreso nella base d’asta per evitare l’elusione delle norme del sopra soglia comunitario. Si pensi al caso non infrequente in cui sommando base d’asta (relativa alla durata ordinaria dell’appalto) ed il costo della proroga –al netto dell’IVA– la cifra complessiva risulti pari o superiore ai 40 mila euro. In tale ipotesi il RUP non potrà suggerire l’affidamento diretto ai sensi della lett. a), comma 2, art. 36 ma, al massimo –fatta salva la possibilità dell’evidenza pubblica– l’ipotesi successiva ad inviti (lett. b) comma 2, art. 36);
   b) la previsione nel bando/lettera di invito, non da luogo ad alcun “diritto” per l’affidatario ma semplicemente ad una aspettativa nei confronti della quale il RUP –la stazione appaltante– deve tenere un comportamento corretto comunicando all’appaltatore l’intenzione o meno di prorogare (in caso di necessità) secondo tempistica fisiologica (non attendere mai l’imminenza della scadenza);
   c) riguarda alla previsione espressa dell’opzione proroga non si pone –evidentemente– alcun problema di rotazione in quanto l’affidatario, nell’aggiudicarsi l’appalto, si è aggiudicato anche la possibilità dell’estensione;
   d) la proroga deve essere temporalmente limitata all’espletamento della nuova gara ed al “reperimento” del nuovo affidatario, pertanto ben difficilmente si potrà ammettere una proroga di durata annuale o addirittura reiterata. Il tempo della durata della proroga andrà proporzionato al tipo di procedimento che il RUP intende avviare. In base all’esperienza si ritiene che una proroga non possa andare oltre i 3 o 4 mesi. Può essere tollerabile una previsione di proroga per un massimo di 6 mesi dalla scadenza del contratto. E’ chiaro –pur nella consapevolezza che le implicazioni pratiche sono tantissime anche a causa di carenza negli organici– che il RUP si deve attivare per evitare uno “sforamento” dei termini di durata del contratto ed in ogni caso aggiudicare entro e non oltre il periodo di proroga.
Particolare attenzione occorre porre sull’inciso finale della norma a memoria del quale in caso di prevista proroga “il contraente è tenuto all’esecuzione delle prestazioni previste nel contratto agli stessi prezzi, patti e condizioni o più favorevoli per la stazione appaltante”.
Questa indicazione deve essere chiaramente esplicitata nel bando/lettera di invito anche se –a parere di chi scrive– non si può affatto ritenere che il contraente sia obbligato ad eseguire la richiesta di proroga. Si pensi al caso di un rapporto contrattuale biennale e a prezzi che, oggettivamente, sono diventati insostenibili per il contraente. Pare logico pensare che innanzi ad una situazione di eccessiva onerosità sopravvenuta, l’affidatario possa declinare la proposta (non potendo al contempo avere un aumento dei prezzi circostanza che integrerebbe una ipotesi di affidamento diretto e non di continuazione del rapporto contrattuale).
Proprio per evitare che la stazione appaltante si trovi in difficoltà nell’assicurare la prestazione è necessario che la richiesta di utilizzazione del periodo di proroga, il RUP la espliciti in maniera chiara nel momento in cui si renda conto che non è possibile concludere la nuova gara ed avere il nuovo affidatario entro i termini di scadenza (originaria) dell’affidamento.
Al di fuori della disposizione normativa delineata non si può parlare di proroga –in senso tecnico– ma, caso mai, di un affidamento diretto (o con procedura negoziata senza pubblicazione di bando) che dovrà rispettare le norme codicistiche non ultimo, il RUP si dovrà porre la questione della rotazione (14.02.2018 - link a www.publika.it).

APPALTI: Quesito: Nell'ipotesi di procedure ristretta, è possibile ridurre il termino minimo di ricezione delle offerte se tutte le ditte sono d'accordo? E se una dovesse rifiutare la riduzione dei termini?
Risposta: È senz'altro possibile nell'ipotesi di procedura ristretta concordare con le ditte da invitare a presentare offerta un termine inferiore a quello previsto dall'art. 61.
Con il nuovo Codice dei contratti pubblici tale ipotesi è stata espressamente disciplinata al comma 5 nel quale si dispone che "Le amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma 1, lettera c), possono fissare il termine per la ricezione delle offerte di concerto con i candidati selezionati, purché questi ultimi dispongano di un termine identico per redigere e presentare le loro offerte".
L'ultimo periodo disciplina anche l'ipotesi di rifiuto da parte di uno o alcuni dei concorrenti e dispone che "In assenza di un accordo sul termine per la presentazione delle offerte, il termine non può essere inferiore a dieci giorni dalla data di invio dell'invito a presentare offerte" (tratto dalla newsletter 14.02.2018 n. 195 di http://asmecomm.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Competenza all’introito dei proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie.
   1) I criteri, le modalità di incasso e di gestione delle somme introitate derivanti da sanzioni amministrative elevate dagli operatori del Corpo di polizia locale sono regolati dagli atti organizzativi dell’Unione e dalle intese con i Comuni partecipanti, considerato che l’Unione ha pieno titolo ad incassare e gestire tali entrate in seguito al conferimento della funzione di polizia locale ai sensi dell’articolo 26 della legge regionale 12.12.2014 n. 26.
   2) In considerazione della natura speciale della disciplina della Polizia locale, il cui ordinamento è retto in Friuli Venezia Giulia dalla legge regionale 29.04.2009 n. 9, non appare derogabile il principio di separazione delle funzioni sancito dall’art. 107 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, con conseguente impossibilità per il Presidente dell’Unione di firmare le ordinanze ingiunzione in luogo del Comandante della Polizia locale.
Diversa è la possibilità che a sottoscrivere tali atti sia altro dirigente amministrativo (non graduato), competente per materia, dipendendo un tanto dalla discrezionalità organizzativa dell’ente locale, purché sia salvaguardata la piena autonomia del Comandante limitatamente alla sfera di competenze che con carattere di tassatività la legge gli attribuisce.

---------------
L’Unione territoriale intercomunale chiede se gli introiti inerenti alle sanzioni elevate dalla Polizia locale spettino all’Unione, essendo le relative funzioni dalla stessa esercitate, oppure ai Comuni nel cui territorio viene rilevata l’infrazione. Identica questione pone in merito agli introiti originati da violazione di ordinanze o regolamenti comunali.
Analogo quesito solleva inoltre con riferimento agli introiti delle sanzioni elevate nel territorio dell’Unione da altre forze di Polizia (Forestale, Carabinieri, ecc.) e dunque, nello specifico, chiede di conoscere se gli stessi spettino all’Unione oppure ai Comuni nel cui territorio l’infrazione viene rilevata.
Al fine di inquadrare la questione, si riporta preliminarmente il quadro normativo di riferimento.
Si osserva anzitutto che le funzioni di polizia locale e polizia amministrativa locale rientrano, ai sensi dell’art. 26 della legge regionale 12.12.2014 n. 26 (recante “Riordino del sistema Regione-Autonomie locali nel Friuli Venezia Giulia. Ordinamento delle Unioni territoriali intercomunali e riallocazione di funzioni amministrative”), fra le funzioni che i Comuni sono tenuti ad esercitare in forma associata tramite l’Unione cui aderiscono
[1].
Si rammenta, a tale proposito, che le Unioni territoriali intercomunali –che costituiscono forme obbligatorie di esercizio associato di funzioni comunali
[2]- sono definite dall’art. 5 della l. r. n. 26/2014 come enti dotati di personalità giuridica, aventi natura di unioni di Comuni, dotati di autonomia statutaria e regolamentare, cui si applicano i principi previsti per l’ordinamento degli enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui all’art. 32 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267.
Inoltre, l’art. 23, comma 2, della l.r. n. 26/2014 dispone che, in relazione alle funzioni esercitate dall’Unione, alla stessa competono gli introiti derivanti da tasse, tariffe e contributi sui servizi ad essa affidati.
Occorre poi tenere presente quanto specificamente disposto dalla legge regionale 29.04.2009 n. 9 (recante “Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale”), secondo cui le funzioni di polizia locale sono esercitate dai Corpi (art. 8), cui siano addetti almeno 12 operatori, ridotti a 8 qualora il Comune o la maggioranza dei Comuni di riferimento sia montana; pertanto, in assenza di tale requisito, sarà necessario procedere all’esercizio delle relative funzioni in forma associata (art. 10) mediante convenzione al fine di garantire la funzionalità del servizio di polizia locale, dotato del necessario numero di operatori.
Esaminato il quadro normativo di riferimento, si formulano le seguenti considerazioni.
Con riferimento al primo quesito, relativo agli introiti delle sanzioni elevate dalla polizia locale, si rinvia ai principi già esposti nel precedente parere
[3] rilasciato dallo scrivente Servizio alla medesima Unione riguardo l’ipotesi di convenzione fra Unione ed altri Comuni, cui si rinvia per il dettaglio, rilevando in questo caso la necessità che siano gli atti organizzativi dell’Unione e le intese con i Comuni partecipanti a regolare i criteri, le modalità di incasso e di gestione delle somme introitate derivanti da sanzioni elevate dagli operatori del Corpo di polizia locale, considerato che l’Unione ha pieno titolo ad incassare e gestire tali entrate, in seguito al conferimento della funzione di polizia locale atteso che tale gestione ricade nell’ambito della funzione conferita.
Restano ferme le disposizioni speciali e le discipline di settore che individuano quali destinatari dei proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie soggetti diversi dai Comuni.
In ulteriore punto del quesito in argomento l’Unione chiede se nei verbali elevati dalla Polizia locale “il soggetto contro il quale il ricorso va proposto” vada indicato nell’Unione o nel Comune nel cui territorio l’infrazione viene rilevata.
Al fine di fare chiarezza sul punto occorre operare una distinzione. Qualora il “ricorso” cui il richiedente fa riferimento sia quello giurisdizionale, fatte salve specifiche discipline di settore, a titolo generale legittimato passivo in giudizio e dunque destinatario del ricorso è l’ente territoriale cui appartiene il funzionario, ufficiale o agente che ha proceduto all’elevazione del processo verbale di accertamento -nei casi in cui questo sia titolo esecutivo e dunque autonomamente impugnabile- o che ha emesso la conseguente ordinanza ingiunzione di pagamento. Nel caso specifico di titoli esecutivi (verbali di accertamento o ordinanze) elevati dalla Polizia locale, essendo la funzione esercitata attraverso l’Unione, appare corretto che la stessa venga individuata quale legittimato passivo.
Qualora invece il termine “ricorso” sia stato utilizzato in senso atecnico, appare probabile che la domanda sia finalizzata a sapere quale sia il soggetto da dover indicare, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera h), della legge regionale 17.01.1984 n. 1 (recante “Norme per l’applicazione delle sanzioni amministrative regionali”), nel processo verbale di accertamento -non costituente titolo esecutivo e quindi non autonomamente impugnabile- redatto dall’organo accertatore (Polizia locale), e dunque quale sia il soggetto competente a ricevere eventuali scritti difensivi, documenti e/o richiesta di audizione del trasgressore e/o dell’obbligato solidale.
Ai sensi dell’art. 8, comma 2, della citata l.r. n. 1/1984, tali deduzioni difensive vanno presentate “all’Ufficio da cui dipende l’agente verbalizzante”, e dunque, in considerazione del nuovo assetto funzionale conseguente all’applicazione della l.r. n. 26/2014, all’Unione quale ente cui compete la funzione di Polizia locale. Sarà poi onere del medesimo Ufficio da cui dipende il verbalizzante trasmettere quanto ricevuto all’organo dell’ente delegato alla determinazione e irrogazione della sanzione, secondo quanto previsto dalle discipline di settore nonché dai rispettivi ordinamenti (artt. 9 e 10 l.r. n. 1/1984).
La procedura sanzionatoria di cui alla Legge 24.11.1981, n. 689 (recante “Modifiche al sistema penale”), normativa di riferimento a livello statale, dispone all’art. 18, in parziale difformità rispetto a quanto previsto dalla corrispondente norma regionale, che gli scritti difensivi, documenti e richiesta di audizione possano essere fatti pervenire direttamente all’autorità competente a emettere l’ordinanza di ingiunzione/archiviazione.
Infine, il richiedente chiede se, in mancanza di una P.O. della Polizia locale, l’ordinanza ingiunzione possa essere sottoscritta dal Presidente dell’Unione, ovvero, in caso negativo, chi vi possa provvedere.
Anzitutto, la giurisprudenza
[4] è ferma nel definire le sanzioni amministrative -e dunque le ordinanze ingiunzione- “tipici provvedimenti amministrativi”, trattandosi di atti autoritativi conclusivi di procedimenti amministrativi posti in essere da una pubblica amministrazione nell’esplicazione di una potestà amministrativa ed aventi rilevanza esterna, incidendo immediatamente nella sfera giuridica dei destinatari. Conseguentemente, a decorrere dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 267/2000, l’adozione delle ordinanze ingiunzione risulta devoluta alla competenza dei dirigenti degli enti locali ai sensi dell’art. 107 del decreto in parola [5]. Il comma 5 del citato art. 107 precisa infatti che da tale momento “le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III [organi di governo] l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti…”.
Il comma 4 sancisce inoltre che le competenze dirigenziali possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. Tale norma deve quindi intendersi integrata dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), come modificato dall’art. 29, comma 4, lettere a) e b) della legge 28.12.2001 n. 448, secondo cui gli enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti “anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto…dall’art. 107 [d.lgs. n. 267/2000] attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale…”, in deroga pertanto al principio di separazione delle funzioni.
Tuttavia la disposizione derogatoria di cui all’art. 53, comma 23, l. 388/2000 sopra riportato non appare applicabile al caso di specie in ragione della natura speciale della disciplina della Polizia locale, il cui ordinamento è retto in Friuli Venezia Giulia dalla succitata l.r. n. 9/2009 che dispone puntualmente quanto alla direzione del Corpo e alla responsabilità del relativo Comandante, nonché alla necessaria appartenenza dello stesso alla Polizia locale (art. 16).
[6]
La ratio di un tanto si rinviene proprio nella particolarità ed esclusività del rapporto esistente fra Sindaco e Comandante della Polizia locale “fondato sulla dualità delle funzioni, che non possono sommarsi nella medesima persona o nel medesimo organo e che va comunque assicurata…anche perché il responsabile di un ufficio di Polizia Municipale ha compiti di legge che presuppongono l’appartenenza organica all’Ente e non può quindi comunque identificarsi nel Sindaco
[7], né dunque con il Presidente dell’Unione.
In forza di tutto quanto sopra, non appare possibile che le ordinanze ingiunzione possano essere firmate dal Presidente dell’Unione in luogo della P.O. della Polizia locale mancante. Diversa è la possibilità che a sottoscrivere tali atti sia altro dirigente amministrativo (non graduato), competente per materia, dipendendo un tanto dalla discrezionalità organizzativa dell’ente locale, purché sia salvaguardata la piena autonomia del Comandante limitatamente alla sfera di competenze che con carattere di tassatività la legge gli attribuisce (gestione risorse assegnate, impiego tecnico operativo, accertamento violazione).
---------------
[1] Uniformemente, la normativa statale elenca le funzioni di polizia locale e polizia amministrativa locale fra le funzioni fondamentali dei Comuni, per le quali è prescritto l’esercizio obbligatorio in forma associata (nello specifico, cfr. l’art. 14, commi 26, 27 e 28, decreto legge 31.05.2010 n. 78, convertito in legge n. 122/2010, come modificato dall’art. 19 del decreto legge 06.07.2012 n. 95, convertito in legge n. 135/2012, e a tutt’oggi non ancora entrato in vigore), precisando fra l’altro che, qualora le funzioni siano svolte in forma associata mediante unioni di Comuni, a tali unioni si applicheranno le disposizioni di cui all’art. 32 del testo unico sugli enti locali di cui al d.lgs. n. 267/2000.
[2] Ai sensi dell’art. 11, comma 2, della legge costituzionale 31.01.1963 n.B1 recante “Statuto speciale della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia”, come indicato dall’art. 6 della l.r. n. 26/2014.
[3] Confronta parere prot. n. 3606 dd. 20.04.2017 in riferimento a quesito del 30.03.2017, in cui si evidenziava, fra l’altro, l’obbligo previsto dall’art. 10 della l.r. n. 9/2009 dell’organizzazione della polizia locale in Corpi.
[4] Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 01.04.2004, n. 6362.
[5] Né la circostanza che il combinato disposto degli artt. 17, comma 4, e 18, comma 1, della L. n. 689/1981 indichi nel Sindaco (o nel Presidente della Provincia) l’organo competente ad adottare l’ordinanza ingiunzione rappresenta un ostacolo all’individuazione della competenza dirigenziale, considerata la necessaria lettura di tali disposizioni alla luce del d.lgs. n. 267/2000.
[6] La ferma giurisprudenza sul punto si è formata con riferimento all’analoga normativa statale: la legge 07.03.1986 n. 65, invero, disciplina autonomamente -ed in maniera disomogenea rispetto alle previsioni generali di cui all’art. 107 d.lgs. n. 267/2000– quanto a responsabilità e direzione delle unità organizzative della Polizia locale. Cfr. TAR Lazio Latina, sezione I, sentenza 28.04.2007, n. 305, ma anche TAR Sicilia Palermo, sentenza 13.05.2008, n. 626 che ha a suo tempo confermato che “la disciplina della Polizia Municipale, la l. 07.03.1986, n. 65 non è subordinata alla sopravvenuta legge sulle autonomie locali, in quanto la prima riveste carattere di specialità che non consente di ritenere l’abrogazione implicita da parte della sopravvenuta legge di riforma del sistema delle autonomie locali”.
Inoltre il TAR Calabria Reggio Calabria, sezione I, sentenza 22.03.2011, n. 191, ha ribadito che la disposizione eccezionale di cui all’art. 53, comma 23, l. 388/2000 -come tale, di stretta interpretazione- consente di derogare solamente alle disposizioni generali costituite dall’art. 107 d.lgs. n. 267/2000, non permettendo alcuna interpretazione estensiva che conduca a ritenere di poter consentire la deroga alla l. n. 65/1986, né di conseguenza alle leggi regionali in materia di Polizia locale.
[7] TAR Calabria Reggio Calabria, sezione I, sentenza 22.03.2011, n. 191
(13.02.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Versamento degli oneri previdenziali a favore degli amministratori locali.
L'art. 86, comma 1, del TUEL accolla all'ente locale l'onere di effettuare, ai rispettivi istituti, il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi a favore degli amministratori locali, ivi indicati, lavoratori dipendenti (pubblici o privati) collocati in aspettativa per lo svolgimento del mandato, sulla base della retribuzione virtuale che spetterebbe loro se fossero effettivamente in servizio.
Pertanto, di tale retribuzione non dovrebbe logicamente far parte il trattamento correlato ad un incarico di posizione organizzativa, nel periodo successivo alla scadenza dello stesso.

Il Comune
[1] ha chiesto un parere in ordine ad una problematica concernente il versamento degli oneri previdenziali/contributivi relativi ad un assessore, dipendente di altro Comune della Regione Friuli Venezia Giulia, collocato in aspettativa non retribuita per l’espletamento del mandato politico, ai sensi dell’art. 81 del d.lgs. 267/2000.
In particolare, considerato che presso l’Ente di appartenenza l’interessato risultava titolare di un incarico di posizione organizzativa in scadenza al 31.12.2017, si è posta la questione sul riconoscimento, o meno, della retribuzione dovuta per il suddetto incarico nell’imponibile previdenziale, anche a decorrere dal 01.01.2018.
Com’è noto, l’art. 86, comma 1, del TUEL accolla all’ente locale l’onere di effettuare, ai rispettivi istituti, il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi a favore degli amministratori locali lavoratori dipendenti (pubblici o privati), collocati in aspettativa per lo svolgimento del mandato
[2].
Si osserva a tal proposito che l’INPDAP, a suo tempo, ha ritenuto utile rammentare che “la quantificazione degli oneri contributivi
[3] deve essere effettuata sulla retribuzione virtuale corrispondente a quella che il dipendente avrebbe percepito se fosse stato in servizio attivo[4].
Secondo quanto prospettato, a partire dal 01.01.2018 l’amministratore/dipendente non è più titolare dell’incarico di posizione organizzativa che, in virtù di specifiche previsioni contrattuali
[5], gli avrebbe in precedenza dato diritto, qualora non collocato a richiesta in aspettativa, alla corresponsione del relativo trattamento economico (retribuzione di posizione).
Fermo che la soluzione delle questioni relative al versamento degli oneri in argomento spetta all’Istituto previdenziale competente, si esprimono, in via meramente collaborativa, le seguenti considerazioni.
Atteso che, come sopra precisato, la determinazione degli oneri da versare dovrebbe essere effettuata sulla base della retribuzione che spetterebbe al dipendente se fosse effettivamente in servizio (retribuzione virtuale), si osserva che di tale retribuzione non dovrebbe logicamente far parte il trattamento correlato all’incarico scaduto il 31.12.2017: se il dipendente fosse in servizio attivo, non avrebbe infatti diritto al trattamento economico relativo ad un incarico di cui non risulta più titolare.
---------------
[1] Si tratta di Comune con popolazione superiore a 10.000 abitanti.
[2] La giurisprudenza contabile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 274/2014) ha evidenziato come la ratio del collocamento in aspettativa consista nel concedere all’amministratore la possibilità di dedicarsi a tempo pieno allo svolgimento del mandato istituzionale, garantendogli al contempo il mantenimento dei propri diritti di lavoratore.
[3] Ai fini che ci interessano.
[4] Cfr. Nota operativa 18.07.2008, n. 6.
[5] Cfr. art. 41, comma 6, e art. 44 del CCRL del 07.12.2006
(13.02.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

APPALTI: Quesito: Nella verifica dei requisiti, la Stazione appaltante è tenuta sempre ad acquisire oltre al certificato del casellario giudiziale anche il certificato dei carichi pendenti?
Risposta: Le Linee guida ANAC n. 6/2016, aggiornate con delibera ANAC n.1008/2017 prevedono espressamente, al punto 4.2, che “la dichiarazione sostitutiva del concorrente deve avere ad oggetto tutti i provvedimenti astrattamente idonei a porre in dubbio l'integrità o l'affidabilità del concorrente, anche se non ancora inseriti nel casellario informatico. E’ infatti rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla rilevanza in concreto dei comportamenti accertati ai fini dell’esclusione”.
Dunque, il concorrente mediante il DGUE deve indicare tutti i provvedimenti esecutivi e anche le condanne non definitive relative. La stazione appaltante dunque è tenuta ad effettuare «la verifica delle autodichiarazioni attraverso il casellario informatico istituito presso l'ANAC di cui all'articolo 213, comma 10, del D.lgs. 50/2016».
Ancora, la verifica della sussistenza dei carichi pendenti è effettuata dalle stazioni appaltanti “soltanto nel caso in cui venga dichiarata la presenza di condanne non definitive per i reati di cui agli artt. artt. 353, 353-bis, 354, 355 e 356 c.p. oppure nel caso in cui sia acquisita in qualsiasi modo notizia della presenza di detti provvedimenti di condanna o vi siano indizi in tal senso” (tratto dalla newsletter 31.01.2018 n. 194 di http://asmecomm.it).

LAVORI PUBBLICI: Quesito: In qualità di Rup, possono affidare un lavoro di importo sottosoglia attraverso una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando?
Risposta: Sebbene l’art. 63 disponga che le amministrazioni aggiudicatrici “possono aggiudicare appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, dando conto con adeguata motivazione, nel primo atto della procedura, della sussistenza dei relativi presupposti” esclusivamente nei casi tassativamente indicati al comma 2, la disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 36 del Codice che disciplina specificamente le procedure sotto-soglia.
Nello stesso si prevede che, fatta salva la possibilità della Stazione Appaltante di espletare una procedura ordinaria, è data la possibilità di procedere in base all’importo ad affidamento diretto, o a procedura negoziata con invito rivolto ad almeno 10 (fino a 150.000 euro) o 15 operatori economici (fino a 1.000.000 euro).
Tuttavia, in assenza di idonea qualificazione della Stazione Appaltante, il RUP potrà procedere in autonomia solo per i lavori di manutenzione ordinaria, avvalendosi di piattaforme telematiche centralizzate; negli altri casi dovrà operare attraverso una forma aggregativa di centralizzazione costituita ai sensi dell’art. 37 comma 4.
In conclusione, ad eccezione delle ipotesi di cui all’art. 63, comma 2, si potrà indire una procedura negoziata senza bando limitatamente a lavori di importo non superiore a 1.000.000 euro e non fino alla soglia europea (tratto dalla newsletter 12.01.2018 n. 193 di http://asmecomm.it).

APPALTI SERVIZI: Quesito: In una gara per l’affidamento dei servizi di mensa scolastica è obbligatorio che il concorrente indichi nella propria offerta i costi di manodopera?
Risposta: Il D.Lgs n. 56/2107 ha modificato l’art. 95 del D.lgs. n. 50/2016 introducendo al comma 10 “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
L’appalto oggetto di quesito non rientra tra le deroghe previste dal codice, pertanto, quand’anche il bando non esplicitasse tale onere, i concorrenti sono tenuti a specificare non solo gli oneri aziendali,ma anche i costi di manodopera che dovrà sostenere per l’esecuzione dell’appalto (tratto dalla newsletter 15.12.2017 n. 192 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Quesito: Si può procedere all’aggiudicazione di una gara senza aver eseguito le verifiche dei requisiti sulla ditta prima in graduatoria?
Risposta: La Stazione Appaltante non può procedere alla fase aggiudicazione definitiva senza aver eseguito la verifica dei requisiti richiesti si concorrenti.
L’art. 32, comma 5, del D.Lgs n. 50/2016 ha precisato che “la stazione appaltante, previa verifica della proposta di aggiudicazione ai sensi dell’articolo 33, comma 1, provvede all’aggiudicazione”. Il successivo comma 7 specifica che “l’aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti” (tratto dalla newsletter 15.12.2017 n. 192 di http://asmecomm.it).

NEWS

VARIShopper da casa al supermercato. Via libera dallo Sviluppo economico.
Salvo diverso avviso del ministero della Salute, nei reparti di vendita di alimenti organizzati a libero servizio, la clientela può utilizzare gli shopper già in suo possesso.
Gli enti del Terzo settore, invece, in occasione di particolari eventi o manifestazioni, possono, per il periodo del loro svolgimento, somministrare alimenti e bevande, previa segnalazione di inizio attività e comunicazione, in deroga al possesso dei requisiti professionali (articolo 71 del dlgs 26.03.2010, n. 59) e di onorabilità (commi 1 e 2 del medesimo articolo 71).

Queste novità sono contenute negli ultimi pareri (risoluzione 07.02.2018 n. 537605 e risoluzione 26.09.2017 n. 398528) emessi dal Ministero dello sviluppo economico, in materia di esercizio della somministrare alimenti e bevande da parte dei nuovi enti del terzo settore (dlgs 03.07.2017, n. 11) e l'applicabilità della normativa in materia di sottocosto agli shoppers ultraleggeri commercializzati (articolo ItaliaOggi del 17.02.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Contrordine dei giudici contabili, gli incentivi tecnici non sono esclusi dal fondo del salario accessorio.
Dopo che la Corte dei conti umbra (sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 febbraio) e la Corte friulana (sul Quotidiano degli enti locali e della Pa dell’8 febbraio) avevano dato speranza di vedere esclusi dal salario accessorio gli incentivi per funzioni tecniche, arriva la doccia fredda della Sezione della Puglia (deliberazione 09.02.2018 n. 9) che va in senso opposto tanto da rimettere la questione di massima nuovamente alla Sezione delle Autonomie.
Le tesi sul superamento delle deliberazioni della Sezione Autonomie
Rispetto alle conclusioni della Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24), è nuovamente intervenuto il legislatore con l'articolo 1, comma 526, della legge di bilancio 2018, prevedendo l'allocazione della spesa per incentivi per funzioni tecniche nei capitoli di spesa destinati alle opere pubbliche; determinandone, di fatto, l'allocazione nell'ambito della spesa per investimenti.
La novità è stata oggetto di interpretazione da parte della magistratura contabile secondo cui gli incentivi tecnici non rientrerebbero nei capitoli della spesa del personale, ma dovrebbero essere ricompresi nel costo complessivo dell'opera (sezione di controllo della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, parere 02.02.2018 n. 6).
A rafforzare l'esclusione di questi incentivi dal limite di crescita dei fondi decentrati previsti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 si è anche schierata la sezione dell'Umbria, con il
parere 05.02.2018 n. 14. Secondo questa delibera l'individuazione dei soggetti che hanno diritto all'incentivo avviene tenendo conto delle funzioni “tecniche” garantendo il bonus ai dipendenti pubblici che le espletano. Non si registra un ampliamento indeterminato della spesa in quanto lo stesso sistema normativo contiene regole che consentono di determinare e contenere la spesa del personale, evitando che la stessa assuma un carattere incontrollato.
La posizione della Corte pugliese
La posizione assunta dalle Corti regionali non convince i giudici contabili pugliesi per le seguenti motivazioni:
   • l'appostazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell'ambito del «medesimo capitolo di spesa» previsto per i singoli lavori, servizi o forniture non potrebbe mutarne la natura di spesa corrente trattandosi, in ogni caso, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale;
   • secondo il glossario Siope «le entrate riguardanti i compensi erogati al personale concernenti la realizzazione di attività di progettazione finalizzate ad un investimento diretto, registrate sia tra gli investimenti diretti sia tra le spese di personale, devono essere oggetto di regolazione contabile con gli incentivi di progettazione impegnati tra gli investimenti diretti, in modo da consentire l'effettivo pagamento della spesa sui capitoli del bilancio relativi alla spesa del personale»;
   • qualora si considerassero spese di investimento e non di personale, si potrebbe configurare una violazione della disciplina di cui all'articolo 3, comma 18, della legge n. 350/2003, che ha stabilito ipotesi tipizzate di spese di investimento;
   • infine, il finanziamento di questa spesa non potrebbe comunque avvenire mediante ricorso all'indebitamento stante il disposto dell'articolo 119, ultimo comma, della Costituzione.
In considerazione del contrasto tra Sezione regionali sulla corretta imputazione degli incentivi per funzioni tecniche, la Sezione pugliese rimette nuovamente al questione di massima alla sezione delle Autonomie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2018).

APPALTIStazioni appaltanti certificate. Contratti pubblici/il dpcm attuativo del codice.
Presenza di un sistema di qualità certificato, basso livello di soccombenza nel contenzioso, laureati in economia per affidare gare di concessione o Ppp (Partenariato pubblico privato).

Sono questi alcuni dei requisiti previsti per qualificare le stazioni appaltanti contenuti nell'atteso dpcm (ex art. 38 del codice dei contratti pubblici) che si applicherà agli appalti di servizi e forniture oltre 40 mila e di lavori oltre i 150 mila euro e consentirà anche di ridurne il numero in attuazione dei principi della legge delega 1/2016.
Si tratta però di un provvedimento che, come altri previsti nel codice, ha una applicazione alquanto lenta: una volta approvato il dpcm –e per arrivarci bisognerà acquisire il parere dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), del Consiglio di stato e della Conferenza unificata- serviranno ancora altri due provvedimenti: uno dell'Anac finalizzato a definire (ex art. 38, comma 6 del codice dei contratti) le «modalità attuative del sistema di qualificazione» prevedendo anche «un congruo termine per dotarsi dei requisiti necessari alla qualificazione».
Una volta approvato questo atto, nei 90 giorni successivi il sistema entrerà a regime. Quindi senza queste indicazioni tutta la macchina rimarrà bloccata. Nel frattempo dovrà essere adottato un secondo provvedimento (entro 90 giorni dall'entrata in vigore del dpcm) che rimane in capo al ministero dell'economia e servirà a mettere a punto «apposite linee guida esplicative» dei criteri adottati per la verifica degli adempimenti organizzativi.
Assai articolata è anche la disciplina transitoria delineata nel testo che, come detto, presuppone che Anac emani l'atto di sua competenza. Si lasciano infatti 18 mesi alle stazioni appaltanti che hanno fatto domanda per attrezzarsi, quindi per un anno e mezzo potranno conservare «la capacità di espletare la propria attività, e di acquisire il codice identificativo di gara (Cig)».
Nel merito il testo uscito da Palazzo Chigi, trasmesso a regioni e comuni per acquisire l'intesa in sede di conferenza unificata, prevede requisiti di qualificazione minimi che le amministrazioni dovranno soddisfare, legati a tre ambiti operativi: programmazione e progettazione; gestione e controllo della fase di affidamento; gestione e controllo di esecuzione, collaudo e messa in opera. Le stazioni appaltanti saranno qualificate in quattro fasce di importo e in relazione alla stabilità dell'organizzazione deputata a gestire le gare in un determinato ambito territoriale (ad esempio è rilevante la presenza di sedi decentrate). Per quel che concerne le qualifiche del personale, ad esempio, viene prevista l'obbligatoria presenza di un laureato in scienze economiche per gestire affidamenti in concessione o in Ppp.
Per i lavori il personale dovrà assicurare l'utilizzo di proprio personale nell'esecuzione e nel collaudo dei lavori Per quel che riguarda il sistema di formazione interno alla stazione appaltante si fa riferimento anche alle conoscenze in materia di anticorruzione e trasparenza. Vengono previsti anche dei requisiti premianti legati alla presenza di sistemi di gestione della qualità ISO 9001 certificati da organismi accreditati, dall'utilizzo di metodi e strumenti elettronici (esempio il Bim, Building information modelling), alla valutazione da parte di Anac sull'adozione di misure di prevenzione dei rischi di corruzione e promozione della legalità.
Sarà valutato anche il livello di soccombenza nel contenzioso negli ultimi tre anni (non più del 30%). Le amministrazioni senza requisiti potranno scegliere se dotarsi di quanto previsto nel decreto o delegare una stazione appaltante qualificata (articolo ItaliaOggi del 13.02.2018).

VARITelemarketing, si azzera tutto. Revocati i precedenti consensi a ricevere le telefonate. Gli effetti della l. 5/2018 sul Registro delle opposizioni: scelta mirata e sempre revocabile.
I numeri telefonici non passano più da una lista all'altra: stop alle telefonate moleste anche sui telefonini. L'interessato ha il diritto di scegliersi da chi ricevere proposte telefoniche di acquisto di beni e prodotti. E chi chiama non può nascondersi: si deve capire subito se è una telefonata di marketing diretto.

Sono questi gli effetti attesi della legge 5/2018 (nuove disposizioni in materia di iscrizione e funzionamento del registro delle opposizioni e istituzione di prefissi nazionali per le chiamate telefoniche a scopo statistico, promozionale e di ricerche di mercato) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 28 del 03.02.2018). Nell'attesa del regolamento attuativo, ecco un vademecum per orientarsi nel nuovo registro delle opposizioni.
Le novità riguardano, infatti, proprio il registro delle opposizioni. È un elenco per evitare di ricevere le chiamate telefoniche indesiderate. È operativo dal 31.012011. Da quella data gli abbonati agli elenchi telefonici pubblici che non vogliono più ricevere chiamate dagli operatori di telemarketing per attività commerciali, promozionali o per il compimento di ricerche di mercato tramite l'uso del telefono, possono opporsi alle telefonate indesiderate iscrivendosi al registro pubblico delle opposizioni. Quel sistema ha manifestato negli anni aspetti di strutturale ineffettività e l'abbonato si è trovato esposto a telefonate promozionale senza un solido argine.
Il problema è rappresentato anche e soprattutto dalla regola della prevalenza del consenso rilasciato a un singolo operatore. Quel consenso non era superato dall'iscrizione nel registro. Se si unisce questa regola al fatto che il consenso può avere a oggetto la comunicazione a terzi dei dati per finalità di marketing di terzi, ciò aumentava a dismisura la possibilità di chiamate di marketing diretto.
Non a caso sul sito del registro (www.registrodelleopposizioni.it) si spiega che evidenzia la novità dell'annullamento dei consensi precedentemente prestati dai cittadini per finalità pubblicitarie (articolo 23 del Codice della privacy) nel momento in cui diventerà effettiva l'iscrizione nel registro. Tale previsione punta a permettere ai cittadini di liberarsi da tutte quelle chiamate commerciali per cui il consenso è stato dato con leggerezza, magari per avere una tessera sconti o la carta fedeltà del supermercato. In questo scenario compare la nuova legge 5/2018, che cambia un po' di cose. Vediamo di costruire una lista di domande e risposte per illustrare il contenuto della novella.
Da quando hanno effetto le novità?
La legge 5/2018 è in vigore formalmente dal 04.02.2018, ma sarà operativa dopo l'emanazione del regolamento attuativo (che aggiorna il regolamento originario e cioè il dpr n. 178/2010), in cui saranno definite le modalità tecniche di iscrizione degli abbonati al nuovo registro e gli obblighi di consultazione degli operatori di telemarketing.
Questo significa che, per esempio, il diritto di opposizione alle chiamate pubblicitarie indesiderate verso i cellulari e i numeri fissi non presenti negli elenchi telefonici pubblici (queste alcune delle novità) verosimilmente nel secondo semestre 2018.
Chi può iscriversi nel registro delle opposizioni ed evitare chiamate moleste?
Possono iscriversi, tutti gli interessati che vogliano opporsi al trattamento delle proprie numerazioni telefoniche effettuato mediante operatore con l'impiego del telefono per fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta, o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
L'iscrizione non è automatica, ma ci vuole una specifica richiesta, anche contemporaneamente per tutte le utenze telefoniche, fisse e mobili, loro intestate.
A contrario le utenze non iscritte possono essere utilizzate per chiamate commerciali, senza il consenso dell'interessato e fatta sempre salva la possibile opposizione.
Per le chiamate automatizzate ci vuole, invece, sempre il consenso preventivo.
Non ci vuole la specifica richiesta di iscrizione, in quanto iscritte d'ufficio, per le numerazioni fisse non pubblicate negli elenchi di abbonati.
Posso scegliere da chi ricevere telefonate?
Certo, gli interessati iscritti al registro possono revocare, anche per periodi di tempo definiti, la propria opposizione nei confronti di uno o più soggetti. Si tratta di scelte mirate a ricevere proposte telefoniche commerciali.
Inoltre rimane la possibilità di dare il consenso al trattamento dei dati personali prestato dall'interessato, ai titolari da questo indicati, successivamente all'iscrizione nel registro.
L'iscrizione al registro cancella i consensi individuali a ricevere telefonate rilasciati a singoli operatori?
Sì, è questa una delle novità più importanti.
Con l'iscrizione al registro, dice la legge, si intendono revocati tutti i consensi precedentemente espressi per ricevere pubblicità telefonica.
Inoltre con l'iscrizione al registro (altra novità) sarà precluso, per le medesime finalità, l'uso delle numerazioni telefoniche cedute a terzi dal titolare del trattamento sulla base dei consensi precedentemente rilasciati.
Attenzione, però, all'eccezione: sono fatti salvi i consensi prestati nell'ambito di specifici rapporti contrattuali in essere, o cessati da non più di 30 giorni, aventi a oggetto la fornitura di beni o servizi, per i quali è comunque assicurata, con procedure semplificate, la facoltà di revoca.
Vedremo come le autorità interpreteranno questa eccezione. C'è una lettura più garantista per l'abbonato e cioè le telefonate si possono ricevere solo per un mese a fine di un contratto e ciò per dare la possibilità all'imprenditore di recuperare il cliente; c'è poi una lettura più estensiva e cioè se c'è stato un contratto con una raccolta di un consenso in precedenza all'entrata in vigore della legge questo rimane sempre valido (sono fatti salvi i consensi forniti «nell'ambito» di contratti).
Il mio numero di telefono può passare di mano in mano?
No, a decorrere dal 04.02.2018 sono vietati, con qualsiasi forma o mezzo, la comunicazione a terzi, il trasferimento e la diffusione di dati personali degli interessati iscritti al registro, per fini di pubblicità o di vendita o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale non riferibili alle attività, ai prodotti o ai servizi offerti dal titolare del trattamento.
Quindi abbiamo una possibilità limitata di circolazione dei numeri telefonici, anche se il divieto non è assoluto (l'eccezione non è soggettiva, ma riguarda prodotti e servizi).
Posso sapere a chi sono stati trasferiti i miei dati?
Sì, in caso di cessione a terzi di dati relativi alle numerazioni telefoniche, il titolare del trattamento è tenuto a comunicare agli interessati gli estremi identificativi del soggetto a cui i medesimi dati sono trasferiti.
Se c'è una violazione chi ne risponde?
Il titolare del trattamento dei dati personali, dice la legge, è responsabile in solido delle violazioni delle disposizioni della presente legge anche nel caso di affidamento a terzi di attività di call center per l'effettuazione delle chiamate telefoniche.
L'operatore commerciale, che si affida a un call center, rimane il responsabile
Cosa cambia per gli operatori che utilizzano i sistemi di pubblicità telefonica?
Viene istituito l'obbligo di consultare mensilmente, e comunque precedentemente all'inizio di ogni campagna promozionale, il registro pubblico delle opposizioni e di provvedere all'aggiornamento delle proprie liste. Sono previste agevolazioni tariffarie e modalità semplificate di consultazione del registro.
Si possono usare compositori telefonici?
No i call center non potranno usare compositori telefonici per la ricerca automatica di numeri telefonici.
Si può mascherare l'identificazione della linea?
No, tutti i call center devono garantire la piena attuazione dell'obbligo di presentazione dell'identificazione della linea chiamante.
Si dovranno usare due codici o prefissi specifici, atti a identificare e distinguere in modo univoco le chiamate telefoniche finalizzate ad attività statistiche da quelle finalizzate al compimento di ricerche di mercato e ad attività di pubblicità, vendita e comunicazione commerciale.
Quindi i call center devono dotarsi di questi numeri (si devono attendere i provvedimenti attuativi dell'Agcom). Ma c'è un'eccezione anche qui: ci si può limitare a presentare l'identità della linea a cui possono essere contattati (articolo ItaliaOggi Sette del 12.02.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Comuni, illegittimo porre a carico del contribuente spese indebite.
È ingiustificato che un Comune possa addebitare oltre alle proprie spettanze relative alle entrate patrimoniali e tributarie, anche costi che non trovano nessun addentellato nella normativa, come la famigerata voce per «ricerca eredi».
Il caso
Un Comune in un'intimazione riguardante il pagamento di alcune spettanze per soli 26 euro ha addebitato al contribuente la voce «ricerca eredi» pari a 75 euro. Tuttavia, in nessuna parte della normativa è consentito all'ente locale di poter caricare sul contribuente voci o poste, in assenza di copertura legislativa.
La Pubblica amministrazione, difatti, è chiamata a dare applicazione alla norma e non a gravare il contribuente di costose e inutili ricerche.
Rimane da capire ancora in cosa consistano queste ricerche che sicuramente presuppongono l'utilizzo di banche dati e come si sia potuto arrivare a una cifra del genere anche in rapporto alla pretesa.
La notifica agli eredi del contribuente
Sì, perché la voce per «ricerca eredi», non ha alcun ragione giuridica, difatti, gli uffici tributi sono ampiamente garantiti dall'articolo 65, comma 4, del Dpr n. 600 del 1973 in cui è stabilito che la notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione. Quest'ultima consiste nell'informazione con cui gli eredi del dante causa, comunicano le loro generalità e il loro domicilio fiscale. Questo significa che l'ente non avrebbe certamente dovuto perdere tempo e denaro per concentrarsi su ricerche del tutto inutili, in considerazione di quanto prevede la norma.
In mancanza della comunicazione, il Comune procede con la notificazione degli atti agli eredi presso l'ultimo domicilio del dante causa.
L'ente locale grazie al meccanismo legislativo è posto in grado di notificare senza dover procedere con ricerche, che comunque non potrebbero essere poste a carico del destinatario. Viceversa, qualora, la comunicazione sia stata eseguita, occorrerà una notifica personale agli eredi, all'indirizzo dagli stessi indicato.
In conclusione
Gli enti locali non sono tutti uguali, alcuni perseguono il loro compito nel pieno rispetto della normativa, con un'organizzazione da far invidia a una qualsiasi società efficiente.
Lo sforzo di questi Comuni, di investire sulla formazione del personale degli uffici tributi, è ripagato in termini di qualità dei servizi erogati e di recupero delle entrate patrimoniali e tributarie.
In contrasto con queste realtà, si collocano però tutti quegli enti, che non formano o non tengono aggiornato il loro personale, con conseguenze nefaste sui loro bilanci, ciò a seguito dei ricorsi volti a chiedere l'annullamento degli atti, colmi di clamorosi svarioni ed errori.
Da tutto ciò deriva per il contribuente, anche fuori dal caso preso in esame, che si veda addebitare costi avulsi dal quadro normativo, di poter adire l'autorità giudiziaria, con ripercussioni sulle casse pubbliche dell'ente locale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.02.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Principio dell’invarianza della soglia di anomalia dell’offerta.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Variazioni della soglia indotte da modifiche della platea dei concorrenti – Art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione.
L’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, in tema di cosiddetta “invarianza della soglia”, si interpreta nel senso che esso osta a variazioni della soglia di anomalia, con indiretti effetti sull’aggiudicazione, indotte da modifiche della platea dei concorrenti in esito a contenziosi ovvero a interventi in autotutela dell’amministrazione, qualora gli stessi comportino un regresso a precedenti fasi procedimentali (1).
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che la corretta interpretazione dell’art. 95, comma 15, del nuovo Codice dei contratti, che sancisce il cosiddetto principio dell’invarianza della soglia, è ampiamente controversa in giurisprudenza; si dibatte in particolare se la soglia cristallizzata ex lege sia immune anche da interventi in autotutela da parte dell’amministrazione e soprattutto a partire da quale momento del procedimento di gara si realizzi l’effetto di “sterilizzazione”.
La tensione interpretativa che investe la norma è l’inevitabile conseguenza del concentrarsi sulla stessa di opposte e pur meritevoli esigenze di buona gestione delle gare: la semplificazione, la legalità, la non prevedibilità del risultato a presidio della trasparenza.
Il Tar Piemonte si è orientato in favore di una lettura tendenzialmente rigorosa del “principio di invarianza della soglia”, volta ad anticiparne quanto più possibile gli effetti rispetto al momento di cognizione delle offerte economiche, ciò in particolare per scoraggiare iniziative strumentali dei concorrenti che, successivamente alla ammissione delle offerte (sulla base della valutazione della documentazione amministrativa), intentino un contenzioso strumentalizzabile al fine di ottenere vantaggi indiretti dalla modifica della soglia di anomalia una volta che la stessa è nota.
La soluzione tiene anche conto della natura sostanzialmente convenzionale che la normativa assegna alla soglia di anomalia (in quanto frutto di un sorteggio suscettibile di modificare l’esito della gara in modo significativo senza relazione con oggettivi parametri economici, proprio alla luce della casualità intrinseca che caratterizza la disposizione), sicché non si comprende quale tassonomia di valori resterebbe lesa dalla cristallizzazione, in un senso o in un altro e ad un definito punto della gara, della soglia di anomalia.
Ancora, la disposizione ha la funzione di evitare veri e propri regressi procedimentali frutto di (pur legittimi ad ogni altro fine) ripensamenti successivi della stazione appaltante con effetto di semplificazione, coerentemente con una delle finalità proprie della riforma indicate anche dalla legge delega (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.02.2018 n. 238 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Compatibilità comunitaria dell’informativa antimafia.
---------------
  
Informativa antimafia – Presupposti – Art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011 – Quadro indiziario – Sufficienza.
  
Informativa antimafia – Presupposti – Art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011 - Violazione art. 117 Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU – Esclusione.
  
Ai sensi dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 06.09.2011, n. 159, ai fini della legittima adozione dell’informativa antimafia occorre un quadro indiziario più che sufficiente –in base alla regola causale del ‘più probabile che non– a ingenerare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di un condizionamento mafioso in capo all’impresa ricorrente (1).
  
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 nella parte in cui, individuando i presupposti per l’emissione dell’informativa interdittiva, si porrebbe in contrasto con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU (2).
---------------
   (1) Ha ricordato il Tar che l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali –secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale– sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri.
   (2) Ha affermato il Tar che l’informativa interdittiva antimafia è oggettivamente insuscettibile di comprimere la libertà fondamentale di circolazione né il diritto fondamentale di proprietà, parzialmente) incidendo, piuttosto, sulla libertà di iniziativa economica, la quale non trova, però, specifica tutela nella CEDU, mentre è contemplata dall’art. 41 Cost..
Ha osservato ancora il Tar che la formula ‘elastica’ adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria riviene dalla ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socio-economico dagli inquinamenti mafiosi, dove il primo, siccome non specificamente tutelato dalla CEDU né riconducibile alla sfera dei diritti costituzionali inviolabili, si rivela recessivo rispetto al secondo, siccome collegato alle preminenti esigenze di difesa dell’ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata.
Ha aggiunto che tale formula ‘elastica’ riflette l’obiettivo di apprestare all’autorità amministrativa statale competente strumenti di contrasto alle organizzazioni malavitose, tanto più efficaci, quanto più adattabili –in virtù di apprezzamenti discrezionali modulabili caso per caso– ai peculiari fenomeni proteiformi, occulti, impenetrabili e pervasivi di infiltrazione mafiosa nelle imprese operanti nel mercato, potenzialmente destinate a instaurare rapporti negoziali con la pubblica amministrazione.
A dimostrazione della compatibilità dell’istituto dell’informativa interdittiva antimafia ex artt. 84, comma 4, lett. e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 rispetto alle garanzie fondamentali della persona, del suo patrimonio e della sua attività imprenditoriale, sancite dalla CEDU e/o della Costituzione – militano le seguenti considerazioni, formulate da Cons. St., sez. III, n. 565 del 2017, n. 672 del 2017, n. 1080 del 2017 e n. 1109 del 2017, sia pure con riguardo alla distinta questione di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis, d.lgs. 159 del 2011 (ritenuta infondata da Corte cost. n. 4 del 2018, a conferma dell’indirizzo già invalso nella giurisprudenza amministrativa):
   a) la valutazione prefettizia deve fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della logica del ‘più probabile che non’, consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico;
   b) gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, innanzitutto sul piano sociale, del fenomeno della criminalità organizzata, ad un preciso inquadramento (Cons. St., sez. III, n. 1743 del 2016), ma devono pur sempre essere ricondotti ad una valutazione unitaria e complessiva, che imponga all’autorità e consenta al giudice di verificare la ragionevolezza o la logicità dell’apprezzamento discrezionale, costituente fulcro e fondamento dell’informativa, in ordine al serio rischio di condizionamento mafioso.
   c) In questo senso, il criterio civilistico del ‘più probabile che non’ si pone quale regola, garanzia e, insieme, strumento di controllo, fondato anche su irrinunciabili dati di esperienza, della valutazione prefettizia e, in particolare, consente di verificare la correttezza dell’inferenza causale che da un insieme di fatti sintomatici, di apprezzabile significato indiziario, perviene alla ragionevole conclusione di permeabilità mafiosa, secondo una logica che nulla ha a che fare con le esigenze del diritto punitivo e del sistema sanzionatorio, laddove vige la regola della certezza al di là di ogni ragionevole dubbio per pervenire alla condanna penale.
   d) Quest’ultima regola si palesa consentanea alla garanzia fondamentale della ‘presunzione di non colpevolezza’ di cui all’art. 27, comma 2, Cost., alla quale è ispirato anche l’art. 6 CEDU, cosicché è evidente che l’istituto dell’informativa antimafia non possa in alcun modo ricondursi all’alveo della garanzia anzidetta, in quanto non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale, ma riguarda la prevenzione amministrativa antimafia.
   e) L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco –la libertà di impresa, da un lato, e la salvaguardia della legalità sostanziale delle attività economiche dalle infiltrazioni mafiose, d’altro lato– richiede, piuttosto, all’autorità prefettizia un’attenta valutazione degli elementi indiziari acquisiti, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata, e impone, nel contempo, al giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte dell’organo governativo nell’esercizio del suo ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale.
I cennati valori costituzionali trovano, peraltro, nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, un punto di equilibrio fondamentale e uno snodo della disciplina di settore, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, nella misura in cui si impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti –se non noti– e si consente all’impresa stessa di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti (Cons. St., sez. III, n. 4121 del 2016).
   f) L’ordinamento ha voluto apprestare, per l’individuazione del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti.
   g) Nella ponderazione degli interessi in gioco –tra cui quello del soggetto ‘indiziato’ a godere delle proprie garanzie di libertà e di difesa– non può pensarsi che l’autorità statale contrasti con ‘armi impari’ la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose, che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale ‘ragione sociale’ per tendere al controllo di interi territori (
TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 14.02.2018 n. 1017 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla distinzione tra avvalimento di garanzia e operativo.
Il Consiglio di Stato chiarisce la distinzione tra avvalimento di garanzia e operativo e precisa:
   - l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento; è tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, per quanto d’interesse nel presente giudizio, il fatturato globale o specifico;
   - nell’avvalimento di garanzia, avendo ad oggetto l’impegno dell’ausiliaria a garantire con proprie risorse economiche l’impresa ausiliata, non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza;
   - l’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto; è tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria;
   - nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto con la precisazione per cui l’articolo 88 del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che il contratto di avvalimento debba riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico, non legittima né un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo (non determinato, ma solo) determinabile, né un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del contratto connessa alle modalità di esplicitazione dell’oggetto sulla base del c.d. requisito della forma-contenuto;
   - con particolare riguardo, poi, all’avvalimento operativo che ha ad oggetto il prestito di personale, occorre la disponibilità effettiva del personale dell’ausiliaria, onde evitare avvalimenti meramente astratti o cartolari, vale a dire potenzialmente ingannevoli
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
MASSIMA
9. Con unico motivo di appello Ac. s.p.a. contesta la sentenza di primo grado per violazione e falsa applicazione dell’art. 89 d.lgs. 18.07.2016 n. 50 e dell’art. 88 d.P.R. 05.10.2010 n. 207 oltre che dei principi generali in materia di avvalimento come affermati dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con sentenza 04.112016 n. 23.
L’appellante sostiene che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto la validità del contratto di avvalimento intervenuto tra la Pr.se. s.r.l. e la Nu.Si. s.r.l., pur in mancanza di espressa individuazione delle risorse che l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata per l’esecuzione dell’appalto.
Afferma Ac. s.p.a. che nel contratto ricorre solo l’indicazione del requisito mancante in capo all’ausiliata, con l’affermazione che l’ausiliaria si impegna a metterlo a disposizione della prima, ma che tale formulazione altro non è che una clausola di stile, la quale, certo, non può equivalere all’indicazione delle risorse prestate per l’esecuzione dell’appalto. L’ammissibilità di siffatta equivalenza ai fini della validità del contratto di avvalimento, del resto, non può ricavarsi neppure dalla detta sentenza dell’Adunanza Plenaria 04.11.2016 n. 23.
La conclusione dell’appellante è che si è in presenza di un avvalimento meramente “cartolare”, che finisce con il consentire la partecipazione alla procedura di concorrenti che presentano un deficit di qualificazione e, comunque, impedisce alla stazione appaltante il controllo sull’effettivo impiego delle risorse prestate.
10. Benché l’ordinanza cautelare 06.07.2017 n. 2852 di questa Sezione abbia rilevato ragioni di fumus boni iuris nel motivo di appello proposto da Ac. s.p.a., per sospendere gli effetti della sentenza di primo grado, la valutazione piena propria del vaglio nel merito conduce a ritenere il motivo di appello infondato con conseguente integrale conferma della sentenza di primo grado.
11. Occorre esaminare il contenuto del contratto di avvalimento.
I passaggi rilevanti sono i seguenti: “- l’impresa ausiliata intende partecipare alla gara n. 88000000077 indetta da Ac. s.p.a….; - la medesima ditta ausiliata, sebbene tecnicamente ed economicamente organizzata, è carente del requisito relativo a fatturato globale realizzato negli ultimi 3 esercizi non inferiore a € 15.000.000 … e carente nel triennio 2013–2014–2015 di aver avuto alle proprie dipendenze un numero medio di GPG non inferiore a 200 unità; - l’ausiliata intende acquisire, come in effetti con il presente atto acquisisce, i requisiti di cui è carente facendo affidamento sul fatturato globale realizzato negli ultimi tre esercizi, ai contratti per servizi di vigilanza privata e al numero medio di GPG assunte nell’ultimo triennio, possedute dall’ausiliaria al fine di soddisfare quanto richiesto dai documenti di gara l’ausiliaria, presa visione ed esatta conoscenza del bando di gara e di tutti i documenti di gara ha dichiarato di essere in possesso una cifra di affari nel triennio 2013–2014–2015 complessiva di Euro 10.630.000 per il raggiungimento di Euro 15.000.000 (quindicimilioni/00) e nel triennio 2013/2014/2015 un numero medio di GPG di 93 per superare le 200 unità idoneo a soddisfare i requisiti di cui è carente l’ausiliata nonché delle attrezzature tecniche necessarie e ha altresì dichiarato di volersi obbligare a mettere a disposizione della stessa e della stazione appaltante i predetti requisiti in fase di gara e per tutta la durata dell’appalto in caso di aggiudicazione”.
Si discute se il contratto di avvalimento, con il contenuto riportato, sia conforme alla previsione dell’art. 89, comma 1, ult. per., d.lgs. 18.04.2016 n. 50 per cui: “…il contratto di avvalimento contiene, a pena di nullità, la specificazione dei requisiti forniti e delle risorse messe a disposizione dall’impresa ausiliaria” e dell’art. 88 d.P.R. 05.10.2010 n. 207 per il quale il contratto di avvalimento deve riportare: “…a) oggetto: le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico; b) durata; c) ogni altro utile elemento ai fini dell'avvalimento”.
11.1. La sentenza di primo grado ha ritenuto il contratto di avvalimento caratterizzato da sufficiente descrizione dei requisiti di capacità economica e finanziaria messe a disposizione dell’impresa ausiliata per l’esecuzione dell’appalto, in quanto dal documento si ricavano agevolmente le carenze dell’impresa ausiliata per le quali viene chiesto l’avvalimento (vale a dire il fatturato globale dell’ultimo triennio e la mancanza alle proprie dipendenze di un numero medio di GPG non inferiore a 200 unità), e l’impresa ausiliaria si impegna a tenere a disposizione dell’ausiliata proprio quei requisiti in maniera piena e incondizionata senza limitazioni di sorta e, in caso di aggiudicazione, per la durata dell’appalto.
12. Ritiene il Collegio che la valutazione del giudice di primo grado sia da condividere sia pure con talune precisazioni.
12.1. La validità del contratto di avvalimento concluso dalla Pr.se. s.r.l. con la Nu.Si. s.r.l. va verificata alla luce della distinzione, recepita in giurisprudenza, tra i cc.dd. avvalimento di garanzia e avvalimento operativo.
L’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento (Cons. Stato, III, 07.07.2015 n. 3390; 17.06.2014 n. 3057).
È tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, per quanto d’interesse nel presente giudizio, il fatturato globale o specifico.
L’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto. È tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria.
12.2.
Riguardo all’avvalimento di garanzia, la giurisprudenza costantemente afferma il principio per il quale, avendo ad oggetto l’impegno dell’ausiliaria a garantire con proprie risorse economiche l’impresa ausiliata, non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza (cfr. con specifico riguardo al requisito del fatturato globale o specifico, Cons. Stato, V 30.10.2017, n. 4973; III, 11.07.2017, n. 3422; V, 22.12.2016, n. 5423; III, 17.11.2015, n. 5703; III, 04.11.2015, nn. 5038 e 5041).
Diversamente, nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto con la precisazione, di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23, per cui: “l’articolo 88 del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che il contratto di avvalimento debba riportare “in modo compiuto, esplicito ed esauriente […] le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”, non legittim[a] né un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo (non determinato, ma solo) determinabile, né un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del contratto connessa alle modalità di esplicitazione dell’oggetto sulla base del c.d. ‘requisito della forma-contenuto’.”.
Con particolare riguardo, poi, all’avvalimento operativo che ha ad oggetto il prestito di personale, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato richiede la disponibilità effettiva del personale dell’ausiliaria, onde evitare avvalimenti meramente astratti o cartolari, vale a dire potenzialmente ingannevoli (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2018 n. 953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti con rotazione flessibile. Il principio vale solo se la p.a. ha limitato gli operatori. Nel parere sulle linee guida Anac, il Consiglio di stato smentisce il Tar Toscana.
Il Consiglio di stato smentisce indirettamente il Tar Toscana sul tema della rotazione negli appalti. Col parere 12.02.2018 n. 361 sulle Linee guida 4 dell'Anac in merito agli affidamenti semplificati sotto soglia (disciplinati dall'articolo 36 del dlgs 50/2016), la Commissione speciale di Palazzo Spada approfondisce il delicatissimo tema del principio di rotazione, che da mesi divide in modo molto netto dottrina e giurisprudenza.
Le interpretazioni sull'attuazione del principio di rotazione, infatti, oscillano da letture meno rigorose, tendenti a consentire in determinati casi, sempre con adeguata e preventiva motivazione, il reinvito all'operatore economico precedentemente affidatario, a teorie molto più rigorose, anzi radicali, secondo le quali un operatore economico non potrebbe mai partecipare a nessuna procedura di gara, di nessun genere, qualora avesse in precedenza condotto con l'amministrazione appaltante un contratto avente il medesimo oggetto.
Tale posizione radicale è stata assunta di recente dal TAR Toscana - Sez. I, con la sentenza 02.01.2018, n. 17, ove il collegio ha ritenuto che la «ratio del principio di rotazione (rappresentata dall'esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione) induce a ritenere che il gestore uscente vada escluso dalla procedura negoziata a prescindere dai modi in cui aveva ottenuto il precedente affidamento, e quindi anche se l'affidamento della concessione scaduta sia scaturito, come nel caso in esame, dall'adesione della stazione appaltante a una convenzione Consip e dall'aggiudicazione a seguito di procedura aperta». Quindi, anche se il precedente contratto fosse derivato da una procedura totalmente rivolta al mercato ed alla concorrenza, l'operatore economico andrebbe comunque escluso da affidamenti successivi, con procedure negoziate.
La Commissione speciale di Palazzo Spada la vede diversamente.
Dopo aver evidenziato che il principio di rotazione sarebbe da evincere dalle direttive europee sui contratti pubblici e dallo stesso Trattato Ue (ma il parere non risolve l'antinomia tra massima apertura alla concorrenza e restrizione alla stessa derivante proprio dalla rotazione), il parere si sofferma sulla necessità di non intendere il principio in modo eccessivamente rigoroso, sì da travisare i fini del legislatore.
Il Consiglio di stato, di conseguenza, apprezza il passaggio contenuto nella valutazione di impatto normativo redatta dall'Anac ad accompagnamento della bozza delle nuove Linee guida 4, ove l'autorità afferma che «la rotazione opera solo in relazione ad affidamenti nei quali la stazione appaltante, in ossequio a disposizioni di legge o per opzione, eserciti limitazioni al numero di operatori da invitare». In effetti, la rotazione è un rimedio parziale alla circostanza che la stazione appaltante, invece di rivolgersi al mercato aperto, decide di rivolgersi ad un numero ristretto di operatori economici. In questo caso, la rotazione scongiura il pericolo di una rendita di posizione di colui che abbia già beneficiato di un precedente affidamento.
Secondo il Consiglio di stato, quindi, coerentemente con quanto afferma l'Anac, occorre concludere per la «conseguente esclusione della applicabilità della limitazione conseguente alla rotazione nelle procedure aperte».
Pertanto, la rotazione non può applicarsi laddove la stazione appaltante invece di selezionare un numero limitato di possibili partecipanti alle gare si affidi al mercato. Ciò vale non solo per le procedure aperte, ma anche per quelle «ristrette», la cui apertura al mercato è identica alle prime. Ed è da ritenere che anche laddove le amministrazioni si avvalgano delle procedure «semplificate» regolate dall'articolo 36, ma non selezionino da se stesse gli operatori (per esempio estraendoli da un albo), bensì li invitino, con avviso pubblico, a manifestare l'interesse a partecipare alla successiva negoziazione, il principio di rotazione non possa essere applicato.
In ogni caso, un operatore economico che abbia ottenuto l'aggiudicazione a seguito di una procedura aperta ben difficilmente potrebbe essere legittimamente escluso da procedure negoziate in virtù della rotazione, dal momento che l'affidamento precedente non avvenne usufruendo delle opportunità derivanti da una restrizione del mercato, bensì dalla prevalenza in una competizione del tutto rispettosa dei principi di concorrenza, trasparenza e pubblicità (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

APPALTIServizi assicurativi, sì a offerte indipendenti. Corte di giustizia ue sulle esclusioni.
In caso di firma di più offerte per lo stesso appalto da parte di un rappresentante generale di una compagnia assicurativa, l'esclusione può essere disposta se si prova che le offerte non sono state presentate in maniera indipendente.

Lo ha affermato la Corte di giustizia europea (sezione VI) con la
sentenza 08.02.2018 n. C-144/17 su un rinvio pregiudiziale riguardante la conformità al Trattato e alla direttiva (allora vigente) 2004/18 di una norma del codice appalti del 2006 in base al quale era stata disposta l'esclusione da un bando di gara per un appalto pubblico di servizi assicurativi cui avevano partecipato, tra gli altri, due sindacati membri dei Lloyd's, le cui offerte erano sottoscritte entrambe dal procuratore speciale del rappresentante generale per l'Italia dei Lloyd's.
L'amministrazione aveva escluso le offerte per violazione dell'articolo 38, comma 1, lettera m-quater), del dlgs n. 163/2006 in quanto «oggettivamente imputabili a un unico centro decisionale, giacché presentate, formulate e sottoscritte dalla medesima persona». Il problema della compatibilità della normativa del codice appalti veniva posta anche rispetto alla direttiva 2009/138 che riconoscerebbe i Lloyd's quale peculiare forma di impresa di assicurazione, i cui sottoscrittori sono abilitati a operare nell'Unione europea mediante un unico rappresentante generale per lo Stato membro interessato.
I giudici europei hanno affermato che i principi di trasparenza, di parità di trattamento e di non discriminazione derivanti dagli articoli 49 e 56 Tfue e previsti all'articolo 2 della direttiva appalti pubblici 2004/18, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa di uno Stato membro, come quella in esame nel procedimento principale, che non consente l'esclusione di due syndicates membri dei Lloyd's of London dalla partecipazione a un medesimo appalto pubblico di servizi assicurativi per il solo motivo che le loro rispettive offerte sono state entrambe sottoscritte dal rappresentante generale dei Lloyd's of London per tale Stato membro, ma che invece consente di escluderli se risulta, sulla base di elementi incontestabili, che le loro offerte non sono state formulate in maniera indipendente (articolo ItaliaOggi del 16.02.2018).

APPALTI: La Corte di giustizia riconosce la possibilità che due sindacati (consorzi) siano esclusi dalla partecipazione ad una gara pubblica se le rispettive offerte non sono state formulate in maniera indipendente
---------------
Contratti pubblici – Gara – Esclusione – Partecipazione di più sindacati dei Lloyd’s of London – Sottoscrizione delle offerte da parte del medesimo rappresentante – Principi di trasparenza, di parità di trattamento e di non discriminazione
I principi di trasparenza, di parità di trattamento e di non discriminazione derivanti dagli articoli 49 e 56 TFUE e previsti all’articolo 2 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa di uno Stato membro, come quella in esame nel procedimento principale, che non consente l’esclusione di due «syndicates» membri dei Lloyd’s of London dalla partecipazione a un medesimo appalto pubblico di servizi assicurativi per il solo motivo che le loro rispettive offerte sono state entrambe sottoscritte dal rappresentante generale dei Lloyd’s of London per tale Stato membro, ma che invece consente di escluderli se risulta, sulla base di elementi incontestabili, che le loro offerte non sono state formulate in maniera indipendente (1).
---------------
   (1) I.- Con la pronuncia in epigrafe la Corte di giustizia ha risposto ai dubbi sollevati dal Tar per la Calabria-Catanzaro (cfr. ordinanza 09.03.2017, n. 385), in ordine alla compatibilità coi principi europei in tema di evidenza pubblica (trasparenza, parità di trattamento e proporzionalità) dell’esclusione da un gara d’appalto di servizi di due offerte sottoscritte dal medesimo rappresentante generale dei Lloyd’s di Londra, nonostante si trattasse di due consorzi (syndacate) distinti.
La Corte ammette la compatibilità della prevista esclusione laddove, senza alcun inammissibile automatismo, risulti in base ad elementi di prova incontestabili, l’assenza di indipendenza nelle offerte.
   II.- La fattispecie sottoposta alla Corte riguardava una controversia sorta nell’ambito di una procedura aperta per l’aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi assicurativi, in vista della copertura del rischio derivante dalla responsabilità civile di tale agenzia verso i terzi e gli operai per il periodo relativo agli anni dal 2016 al 2018. L’appalto doveva essere aggiudicato secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
A tale procedura partecipavano, tra gli altri concorrenti, due consorzi membri dei Lloyd’s, ed entrambe le offerte risultavano sottoscritte dal procuratore speciale del rappresentante generale per l’Italia dei Lloyd’s.
La stazione appaltante procedeva quindi all’esclusione delle due offerenti per violazione dell’articolo 38, comma 1, lettera m-quater), del vecchio dei codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163/2006).
Nel rimettere la questione alla C.g.e. il Tar, adito con ricorso dalle imprese escluse, sottoponeva alcuni dubbi esegetici concernenti la conformità della normativa italiana in esame, quale interpretata dalla giurisprudenza nazionale, con il diritto dell’Unione ed i relativi principi in tema di evidenza pubblica.
   III. - La sentenza, al fine di giungere alla soluzione di cui alla massima in epigrafe, parte dalla verifica della disciplina applicabile, individuata nella previgente direttiva 2004/18.
In proposito la sentenza richiama la propria costante giurisprudenza secondo cui, in linea di principio, la direttiva applicabile è quella in vigore alla data in cui l’amministrazione aggiudicatrice sceglie il tipo di procedura da seguire risolvendo definitivamente la questione se sussista o no un obbligo di indire preventivamente una gara per l’aggiudicazione di un appalto pubblico.
Nel merito la sentenza parte dall’interpretazione dell’articolo 45 della direttiva 2004/18 secondo cui la norma non esclude la facoltà, per gli Stati membri, di mantenere o di stabilire, in aggiunta a tali cause di esclusione, norme sostanziali dirette, in particolare, a garantire, in materia di appalti pubblici, il rispetto dei principi di parità di trattamento di tutti gli offerenti e di trasparenza, che costituiscono la base delle direttive dell’Unione relative alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, a condizione che venga rispettato il principio di proporzionalità (sentenza del 19.05.2009, C‑538/07, Assitur; punto 21).
In tale ottica la norma italiana, come interpretata dalla giurisprudenza interna, viene reputata dalla Corte come diretta a tutelare la parità di trattamento dei candidati e la trasparenza della procedura.
Viene peraltro individuato il limite del principio di proporzionalità, nel senso che la normativa in esame non deve eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito. A fronte della ratio sottesa alle regole dell’evidenza pubblica di garantire la partecipazione più ampia possibile di offerenti a una gara d’appalto, la sentenza richiama il proprio consolidato orientamento per cui l’esclusione automatica di candidati o di offerenti che si trovino in una situazione di controllo o di collegamento con altri offerenti eccede quanto necessario per prevenire comportamenti collusivi e, pertanto, per garantire l’applicazione del principio della parità di trattamento e il rispetto dell’obbligo di trasparenza.
In termini applicativi, la Corte richiama i precedenti in cui ha già rilevato che i raggruppamenti di imprese possono presentare forme e obiettivi variabili, e non escludono necessariamente che le imprese controllate godano di una certa autonomia nella gestione della loro politica commerciale e delle loro attività economiche, in particolare nel settore della partecipazione a pubblici incanti.
In definitiva, il rispetto del principio di proporzionalità richiede che l’amministrazione aggiudicatrice, lungi dal poter disporre l’esclusione automatica, sia tenuta a esaminare e valutare i fatti, al fine di accertare se il rapporto sussistente tra due entità abbia esercitato un’influenza concreta sul rispettivo contenuto delle offerte depositate nell’ambito di una medesima procedura di aggiudicazione pubblica, e la constatazione di una simile influenza, in qualunque forma, è sufficiente affinché le suddette imprese possano essere escluse dalla procedura.
Applicando i parametri alla fattispecie in oggetto, secondo la Corte il diritto dell’Unione osta a che i sindacati dei Lloyd’s siano automaticamente esclusi dalla gara d’appalto di cui al procedimento principale per il solo motivo che le loro rispettive offerte sono state sottoscritte dal procuratore speciale del rappresentante generale per l’Italia dei Lloyd’s. Spetta, tuttavia, al giudice del rinvio assicurarsi che le offerte in questione siano state presentate in maniera indipendente da ciascuno di tali sindacati.
   IV. Per completezza si segnala quanto segue:
      a) sulla nozione e disciplina dell’”unico centro di interesse” nel nuovo codice dei contratti (art. 80, comma 5, lett. m), v. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 887 ss.;
      b) in tema di esclusione automatica da gare di appalto, Corte di giustizia UE, sez. I, 14.09.2017 n. 223, secondo cui “ai sensi di quanto disposto dall'articolo 47, par. 2, e dall'art. 48, par. 3, direttiva 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, il diritto dell'Unione consente alla normativa nazionale di escludere che l'operatore economico, che partecipa a una gara d'appalto, possa sostituire un'impresa ausiliaria, in ragione della perdita da parte di quest'ultima delle qualificazioni richieste successivamente al deposito della sua offerta, anche a pena di esclusione automatica del suddetto operatore”; Corte di giustizia UE, sez. VI, 10.11.2016 n. 162 e 02.06.2016, C-27/15, Pizzo, secondo cui “la direttiva 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, osta all'esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito della sua inosservanza dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, in un'ipotesi in cui la sanzione dell'esclusione dalla procedura per il mancato rispetto di tale obbligo non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare le lacune presenti in tali documenti, con l'intervento del giudice nazionale di ultima istanza (nel caso di specie, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato). D'altra parte, i principi della parità di trattamento e di proporzionalità non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice”;
      c) sulla nozione di collegamento rilevante ai fini della correttezza delle gare di appalto, Corte di giustizia UE, sez. X, 22.10.2015 n. 425, secondo cui “l'esclusione automatica di candidati o di offerenti che si trovino in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti eccede quanto necessario per prevenire comportamenti collusivi e, pertanto, per garantire l'applicazione del principio della parità di trattamento e il rispetto dell'obbligo di trasparenza. Una siffatta esclusione automatica costituisce, infatti, una presunzione irrefragabile d'interferenza reciproca nelle rispettive offerte, per uno stesso appalto, di imprese legate da una situazione di controllo o di collegamento ed esclude la possibilità per tali candidati o offerenti di dimostrare l'indipendenza delle loro offerte, in contrasto con l'interesse dell'Unione a che sia garantita la partecipazione più ampia possibile di offerenti a una gara d'appalto”;
      d) sotto l’egida della vecchia normativa, Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2013, n. 1091, in Contratti Stato e enti pubbl., 2013, fasc. 2, 38, con nota di BOTTEON secondo cui “è legittima l’esclusione dalla gara dell’impresa che -pur avendone dichiarato l’assenza in sede di partecipazione e di sottoscrizione della specifica previsione del patto di integrità- si trovi in una situazione di collegamento sostanziale con altri concorrenti alla medesima gara, risultante da indici presuntivi gravi, precisi e concordanti, costituiti, in primis, dagli intrecci personali tra gli assetti societari delle imprese in questione, quali evincibili dalla documentazione acquisita al giudizio”;
      e) sugli intrecci societari e la presunzione di alterazione della gara, Cons. Stato, sez. V, 24.11.2016, n. 4959 in Guida al diritto 2017, 2, 66, secondo cui “premesso che la prova di una concreta alterazione della selezione non deve essere fornita dalla stazione appaltante, ma può essere presunta sulla base degli intrecci familiari, societari o di interesse esistenti tra gli operatori, tali da fare ritenere che le loro offerte siano riconducibili a un unico centro decisionale ai sensi dell'art. 38, comma 2, penultimo periodo, d.lgs. n. 163 del 2006; pertanto, una volta ricostruiti gli elementi indiziari gravi e precisi di collegamento sostanziale in un quadro complessivo tale da ritenere provata questa situazione, l'alterazione del risultato della gara è legittimamente presunta dalla stazione appaltante, tanto più quando la selezione delle offerte avviene sulla base del massimo ribasso e la determinazione della soglia di anomalia viene effettuata secondo il meccanismo del cosiddetto taglio delle ali di cui all'articolo 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, in cui l'incidenza delle offerte sulla graduatoria finale deriva dagli automatismi insiti nel criterio selettivo in questione, potendo invece essere in ipotesi escluso dal fatto che le due offerte economiche sono del tutto divergenti, atteso che la fattispecie di collegamento sostanziale cui alla lett. m-quater) del comma 1 dell'art. 38 del codice è qualificabile come di "pericolo presunto", in coerenza con la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al superiore interesse alla genuinità della competizione che si attua mediante le procedure a evidenza pubblica, e con la circostanza che la concreta alterazione degli esiti della selezione non è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e l'entità dei ribassi. Pertanto, solo una prova certa e irrefutabile può escludere l'ipotesi prevista dalla citata lett. m-quater)”; Cons. Stato, sez. V, 09.12.2004, n. 7894, secondo cui “è legittimo il provvedimento di esclusione dalla partecipazione alla gara d'appalto di lavori di imprese che, pur non integrando gli estremi civilistici del collegamento e del controllo societario, in ragione degli elementi emersi nel corso del procedimento di gara (indicazione nelle buste spedite dalle imprese della medesima sede amministrativa; stessa data, luogo e modalità di spedizione dei plichi; cauzione provvisoria rilasciata dalla medesima agenzia assicurativa in orari data e con numerazione progressiva; coincidenza del numero di fax e dell'indirizzo di posta elettronica; altre circostanze basate sull'esame dei documenti allegati; rapporti di parentela tra gli amministratori unici di suddette società; intrecci azionari esistenti e facenti capo agli stessi soggetti), appaiono comunque riconducibili ad un medesimo centro decisionale, tale da ritenere plausibile una reciproca conoscenza o condizionamento delle offerte presentate, inficiando in tal modo i principi di regolarità e correttezza della gara stessa”;
      f) in tema di collegamento sostanziale, Cons. Stato sez. V, 15.05.2013 n. 2633, secondo cui “il cd. «collegamento sostanziale» fra imprese partecipanti a gare pubbliche incide negativamente sul rispetto dei principi di legalità, buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa, non avendo le imprese partecipanti ad una gara presentato offerte serie, indipendenti e segrete, e giustifica quindi la loro esclusione dalla procedura comparativa”; Tar per il Lazio, sezione III-bis, 30.04.2008, n. 3594 in Foro it., 2008, III, 592, con nota di richiami, secondo cui “l'appartenenza di due imprese partecipanti alla gara al medesimo gruppo societario non è di per sé espressiva del collegamento sostanziale delle imprese e della soggezione di queste all'altrui attività di direzione e di coordinamento, essendo necessaria la dimostrazione degli indici rivelatori (connotati dal carattere della gravità, precisione e concordanza) che, considerati nel loro complesso e con riferimento alla specifica situazione concreta, facciano ragionevolmente ritenere che si sia potuto verificare l'alterazione della par condicio dei concorrenti” (Corte di giustizia, comm. ue, sez. VI, sentenza 08.02.2018, n. C-144/17 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’astratta rimovibilità delle opere non impedisce di considerarle come nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzativo.
Difatti, i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario –nel caso di specie, una casa mobile– non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo; difatti, l’utilizzo della casa mobile da oltre un decennio è strettamente legato al soddisfacimento delle esigenze del ricorrente o della sua famiglia, come appare evidente anche dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio.
Secondo la consolidata giurisprudenza, “la ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante”.
---------------
In materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
---------------

Con ricorso notificato in data 18.09.2007 e depositato il 10 ottobre successivo, il ricorrente ha impugnato il provvedimento del Comune di Santo Stefano Ticino di ingiunzione alla demolizione di opere abusive datato 26.07.2007, prot. 5427.
Il ricorrente, proprietario di un terreno sito nel Comune di Santo Stefano Ticino, in Via ... n. 61, identificato catastalmente al mappale 59, del foglio n. 8, ha provveduto a posizionarvi una struttura mobile e provvisoria di cui il Comune ha ingiunto la rimozione con l’atto impugnato nel presente giudizio.
Assumendo l’illegittimità del predetto atto, il ricorrente ne ha chiesto l’annullamento, in quanto il manufatto asseritamente abusivo sarebbe precario e provvisorio e perciò inidoneo a mutare in modo permanente l’assetto urbanistico.
...
1. Il ricorso non è fondato.
2. Con l’unica doglianza di ricorso si assume l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, tenuto conto che l’opera di cui si è ordinata la demolizione sarebbe rimovibile, in quanto solo appoggiata al suolo, e non avrebbe alcun sostanziale impatto sull’assetto urbanistico.
2.1. La censura è infondata.
L’astratta rimovibilità delle opere non impedisce di considerarle come nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzativo.
Difatti, i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario –nel caso di specie, una casa mobile– non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo; difatti, l’utilizzo della casa mobile da oltre un decennio è strettamente legato al soddisfacimento delle esigenze del ricorrente o della sua famiglia, come appare evidente anche dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio (all. 4 e 5 del Comune).
Secondo la consolidata giurisprudenza, “la ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante
” (Consiglio di Stato, VI, 04.09.2015, n. 4116; altresì 01.04.2016, n. 1291; 03.06.2014, n. 2842; TAR Emilia Romagna-Bologna, I, 28.06.2016, n. 655).
Nemmeno si potrebbe ritenere il manufatto una semplice pertinenza, tenuto conto delle dimensioni dello stesso (una superficie di circa 80 mq, per un’altezza variabile da un minimo di 2,83 m a un massimo di 3,58 m: cfr. provvedimento impugnato, all. 1 al ricorso), considerato che in materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, VI, 04.01.2016, n. 19).
2.2. In conseguenza di quanto già evidenziato emerge anche la violazione dell’assetto urbanistico della zona in cui è stata posizionata la casa mobile, visto che la stessa era (ed è) classificata come agricola, nonché risultava (e risulta) gravata anche da un vincolo di rispetto stradale. Pertanto non risulta violata soltanto la normativa edilizia, ma risulta compromesso anche l’assetto urbanistico del territorio.
2.3. Ciò determina il rigetto della predetta censura e quindi dell’intero ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2018 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Formulazione dell'offerta in sede di gara e sua correzione.
---------------
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Omessa indicazione di più di un sovrapprezzo – Validità dell’offerta – Condizione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Correzione degli errori di calcolo – Possibilità - Condizione.
  
Nel ricostruire la concreta volontà dell’offerente, l’amministrazione aggiudicatrice può valutare positivamente l’offerta ove risulti la mancata indicazione di più di un sovraprezzo; conseguentemente l’offerta economica sarà valutata come se l’offerente avesse voluto escludere a priori l’applicazione di un sovrapprezzo (1).
  
Se previsto dal bando e dal disciplinare, la commissione di gara può provvedere a correggere gli errori di calcolo e, su quella rettifica, determinare le procedure di calcolo delle soglie di anomalia senza porsi in contrasto con i principi di evidenza pubblica.
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che, nel caso in cui l’offerente ometta di compilare più di una voce relativa al sovrapprezzo dei beni forniti, non possa trovare riscontro l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, se nell'offerta manca l'indicazione di più di un prezzo, essa non è valida.
Se, di norma, non è possibile ricostruire la volontà dell’offerente quando si ravvisi la mancanza di più voci di costo, riguardo alle quali spetta soltanto a quest’ultimo graduare quanto richiedere in relazione a ciascuna, trattandosi di valutazioni espressive di scelte tecniche ed economiche sue proprie, insurrogabili dall'ufficio, è altrettanto vero che, nel caso in cui manchi l’indicazione del solo sovrapprezzo, l’offerente abbia voluto ragionevolmente presentare un’offerta escludendone l’applicazione.
Tali omissioni, pertanto, non determinano alcuna incertezza nell’identificazione dell’offerta economica della società concorrente, potendosi agevolmente e ragionevolmente inferire che essa ha escluso l’applicazione di un sovrapprezzo nella fornitura.
   (2) Ha chiarito il Tar che la clausola del disciplinare di gara secondo cui il soggetto che presiede la gara possa provvedere a correggere gli errori di calcolo e, su quella rettifica, determinare le procedure di calcolo delle soglie di anomalia non si ponga in contrasto con i principi di evidenza pubblica. In tali casi, infatti, l’amministrazione non sostituisce l’offerta formulata dai singoli concorrenti, ma si limita a correggere gli errori di calcolo riscontrati.
Ha ancora ricordato il Tar che costituisce principio consolidato quello per cui le offerte di gara, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate alla ricerca dell'effettiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che tale attività interpretativa può consistere anche nella individuazione e nella rettifica di eventuali errori di scritturazione e di calcolo e a condizione che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza, e, comunque, senza attingere a fonti di conoscenza estranee all'offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell'offerente, che non sono ammesse (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.02.2018 n. 338 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso in materia ambientale - D.lgs. n. 195/2005 - Legittimazione attiva - Profilo oggettivo - Informazioni concernenti lo stato dell’ambiente - Ipotesi di esclusione dell’accesso.
La disciplina dell’accesso in materia ambientale è contenuta nel D.Lgs. 19.10.2005, n. 195, che prevede un regime di pubblicità tendenzialmente integrale dell’informativa ambientale, sia per ciò che concerne la legittimazione attiva, ampliando notevolmente il novero dei soggetti legittimati all’accesso, sia per quello che riguarda il profilo oggettivo, prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti di cui agli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990); le informazioni cui fa riferimento la citata normativa concernono lo stato dell’ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che possono incidere sull’ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con esclusione quindi di tutti i fatti ed i documenti che non abbiano un rilievo ambientale; l’art. 5 del cit. d.lgs. prevede comunque anche le ipotesi di esclusione dell’accesso all’informazione ambientale, che, tra l’altro, può essere negato nei casi di richieste manifestamente irragionevoli avuto riguardo alle finalità di garantire il diritto d'accesso all'informazione ambientale (lett. b) del primo comma), ovvero espresse in termini eccessivamente generici (lett. c.).
La richiesta di accesso all’informazione ambientale non deve pertanto essere formulata in termini eccessivamente generici e deve essere specificamente individuata con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori di cui ai nn. 2 e 3 dell’articolo 2 del D.Lgs. 19.10.2005, n. 195 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 02.02.2018 n. 303 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Destinazione a verde agricolo.
Il Consiglio di Stato ribadisce che la destinazione a verde agricolo di un’area, stabilita da uno strumento urbanistico generale, non implica per forza che essa soddisfi in modo diretto ed immediato gli interessi agricoli, potendosi giustificare con le esigenze di un ordinato governo del territorio.
Tra queste ultime rientra pure la necessità d’impedire un’ulteriore edificazione o un congestionamento delle aree, affinché si mantenga l’equilibrato rapporto quantitativo tra aree libere ed edificate o industriali e si realizzino i bisogni collettivi di maggior vivibilità dello spazio urbano, se del caso mercé la contrazione dell’illimitata espansione edilizia.
Tutto ciò non determina né veri e propri insediamenti agricoli nuovi, né puntigliose verifiche sulla reale vocazione delle aree stesse allo sfruttamento produttivo agricolo
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
5. L’appello è fondato e merita di essere accolto.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, da sempre (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 28.04.1981, n. 374), rilevato che
pur non essendo un piano di lottizzazione, al pari di tutti gli altri strumenti urbanistici anche di grado più elevato, di ostacolo ad una successiva pianificazione generale del territorio e potendo quindi essere superato da strumenti urbanistici che dispongano in modo difforme, l'amministrazione deve motivare ampiamente ed in modo rigoroso le ragioni per cui le nuove scelte urbanistiche facciano ritenere superati gli interventi lottizzativi precedentemente approvati.
Pertanto,
la necessità di un’ampia e rigorosa motivazione si è ritenuta necessaria nel caso in cui la qualificazione edificatoria di un’area, ulteriormente valorizzata dalla presenza di un piano esecutivo, mutasse a seguito della nuova disciplina contenuta nel piano urbanistico generale.
Nella fattispecie, tuttavia, la storia urbanistica delle aree degli originari ricorrenti si caratterizza per la presenza di una proposta di convenzione di lottizzazione non andata a buon fine, sicché l’unico elemento di riferimento effettivo ai fini del decidere è rappresentato dal fatto che la previgente disciplina urbanistica comunale avesse qualificato le dette aree come C2.
In quest’ipotesi, occorre rammentare che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., Sez. IV, 17.08.2016, n. 3643) ha chiarito che
la destinazione a verde agricolo di un’area, stabilita da un P.R.G., non implica per forza che essa soddisfi in modo diretto ed immediato gli interessi agricoli, potendosi giustificare con le esigenze di un ordinato governo del territorio; tra queste ultime rientra pure la necessità d’impedire un’ulteriore edificazione o un congestionamento delle aree, affinché si mantenga l’equilibrato rapporto quantitativo tra aree libere ed edificate o industriali e si realizzino i bisogni collettivi di maggior vivibilità dello spazio urbano, se del caso mercé la contrazione dell’illimitata espansione edilizia. Tutto ciò non determina né veri e propri insediamenti agricoli nuovi, né puntigliose verifiche sulla reale vocazione delle aree stesse allo sfruttamento produttivo agricolo.
A ciò deve aggiungersi che
la destinazione data alle singole aree da un P.R.G. non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, a ciò bastando l’espresso richiamo alla relazione di accompagnamento al progetto di questo.
Infatti le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono, in particolare, le lesioni all’affidamento qualificato del privato, derivanti da convenzioni di lottizzazione (Cons. Stato, IV, 14.05.2015 n. 2453).
Al di fuori da tale ipotesi derogatoria qui non ricorrente, questo Consiglio ha chiarito a più riprese che non sussiste una situazione di affidamento qualificato del privato, tale da richiedere l’obbligo di specifica motivazione delle scelte urbanistiche, nel caso in cui la pregressa destinazione della zona sia più favorevole, ovvero nel caso in cui sia stata presentata una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune (Cons. St., Sez. IV, 16.01.2012, n. 119).
Nella fattispecie il giudice di prime cure ha omesso di rilevare che la ragione complessiva per la diversa qualificazione delle aree degli originari ricorrenti non deve rinvenirsi solo nella risposta alle osservazioni da questi presentate, ma anche nella relazione del P.U.E., che legittimamente ha compiuto scelte limitative dell’edificabilità delle aree degli odierni appellati, attraverso l’attribuzione di destinazioni limitative o preclusive dell’edificazione, valorizzando esigenze di contenimento dell’espansione dell’abitato nonché di salvaguardia di valori paesaggistici e ambientali, in vista del perseguimento di obiettivi di miglioramento della vivibilità del territorio comunale, utilizzando, come parametro di riferimento, quello della limitazione del consumo del suolo, che del resto non può che essere utilizzato in relazione a tutte le aree oggetto della nuova disciplina urbanistica.
Sotto questo profilo non assume un rilievo viziante il riferimento al PTCP in itinere al tempo dell’approvazione del PUC, dal momento che quest’ultimo va inteso come segno della percezione della necessità di coordinamento dello stesso con il contenuto dei piani urbanistici superiori, sia pure in itinere.
Del resto la motivazione in questione va intesa come utilizzata ad colorandum, risultando sufficientemente adeguato per motivare la diversa qualificazione delle aree degli appellati quanto si evince dal combinato disposto del contenuto della risposta alle osservazioni e dalla relazione al PUC.
6. L’appello deve, quindi, essere accolto con ciò che ne consegue in termini di riforma della sentenza impugnata e di rigetto del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2018 n. 407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Termine di impugnazione dell’aggiudicazione nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2016.
Il TAR Milano (in fattispecie regolata dal d.lgs. n. 163 del 2006) ha rigettato un’eccezione di irricevibilità del ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione notificato oltre il termine di trenta giorni, ma entro il quarantesimo giorno dalla comunicazione dell’aggiudicazione alla controinteressata (comunicazione che non conteneva le motivazioni dell’aggiudicazione medesima), concordando con l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai sensi dell'art. 120, comma 5, c.p.a., il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva di regola deve essere proposto nel termine di 30 giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006, accompagnata dal provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al comma 2, lett. c), dello stesso art. 79.
Di conseguenza, nel caso di comunicazione incompleta, la conoscenza utile ai fini della decorrenza del termine coincide con la cognizione, acquisita in sede di accesso, degli elementi oggetto della comunicazione del cit. art. 79, senza che sia necessaria l'estrazione delle relative copie.
Il ricorso non può comunque essere proposto oltre il termine di quaranta giorni dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione (quest'ultimo termine si ottiene sommando al succitato termine di 30 giorni quello di 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione, nel quale è consentito l'accesso semplificato e accelerato agli atti ai sensi dell'art. 79, comma 5-quater, d.lgs. n. 163 del 2006, sempre che l'amministrazione ottemperi tempestivamente all'istanza di accesso)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
MASSIMA
In ragione dell’infondatezza del ricorso di ottemperanza, il collegio, previa conversione del giudizio nel rito ordinario e previa rinuncia delle parti ai termini a difesa, passa a scrutinare le censure subordinate di cognizione, con le quali l’istante ha chiesto l’annullamento del nuovo provvedimento di aggiudicazione dei lotti 2 e 3 della gara alla II. S.r.l.
In relazione a tali censure, deve, in via preliminare, essere disattesa l’eccezione di irricevibilità delle medesime, essendo stato il ricorso notificato entro il quarantesimo giorno dalla comunicazione dell’aggiudicazione alla controinteressata ai sensi dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, comunicazione che non conteneva le motivazioni dell’aggiudicazione medesima, ai sensi del comma 5-bis della stessa disposizione normativa.
Il collegio concorda, invero, con l’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla base dell’interpretazione del combinato disposto dei commi 5-bis e 5-quater dell’art. 79 del d.lgs. succitato, per il quale, in materia di appalti pubblici, ai sensi dell'art. 120, comma 5, c.p.a., il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva di regola deve essere proposto nel termine di 30 giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, accompagnata dal provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al comma 2, lett. c), dello stesso art. 79; di conseguenza, nel caso di comunicazione incompleta, la conoscenza utile ai fini della decorrenza del termine, coincide con la cognizione, acquisita in sede di accesso, degli elementi oggetto della comunicazione dell'art. 79, senza che sia necessaria l'estrazione delle relative copie.
Il ricorso non può comunque essere proposto oltre il termine di quaranta giorni dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione.
Quest'ultimo termine si ottiene sommando al succitato termine di 30 giorni quello di 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione nel quale è consentito l'accesso semplificato e accelerato agli atti ai sensi dell'art. 79, comma 5-quater, d.lgs. n. 163 del 2006, sempre che l'amministrazione ottemperi tempestivamente all'istanza di accesso
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2016, n. 408; 06.05.2015, n. 2274).
Le censure sono, peraltro, inammissibili.
Ed invero, secondo la granitica giurisprudenza amministrativa,
nelle gare pubbliche di norma è inammissibile una contestazione delle valutazioni operate dalla commissione di gara volta a sollecitare l'esercizio di un sindacato di merito sull'attribuzione del punteggio alle offerte tecniche, salvo che queste non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie, ovvero fondate su di un palese e manifesto travisamento dei fatti (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.01.2018 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Finalità e contenuti dell’istituto dell’avvalimento e distinzione tra avvalimento operativo e di garanzia.
Il TAR Milano richiama e fa proprio l’orientamento in materia di avvalimento secondo cui:
   - l’istituto dell’avvalimento è finalizzato a garantire la massima partecipazione alle gare pubbliche, consentendo alle imprese non munite dei requisiti partecipativi di giovarsi delle capacità tecniche ed economico-finanziarie di altre imprese; il principio generale che permea l’istituto è quello secondo cui, ai fini della partecipazione alle procedure concorsuali, il concorrente, per dimostrare le capacità tecniche, finanziarie ed economiche, nonché il possesso dei mezzi necessari all’esecuzione dell'appalto e richiesti dal relativo bando, è abilitato a fare riferimento alla capacità e ai mezzi di uno o più soggetti diversi, ai quali può ricorrere tramite la stipulazione di un apposito contratto di avvalimento;
   - l’avvalimento può essere utilizzato per tutti i requisiti soggettivi di partecipazione, a eccezione di quelli che sono intrinsecamente legati al soggetto ed alla sua idoneità a porsi quale valido e affidabile contraente per l’amministrazione;
   - si può ricorrere a tale istituto anche per dimostrare la disponibilità di requisiti soggettivi o oggettivi, relativi alla capacità tecnica o economica, perché la disciplina del codice degli appalti pubblici non contiene alcun divieto in proposito, fermo restando l’onere del concorrente di dimostrare che l'impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo e quindi, a seconda dei casi, i mezzi, il personale, le prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti in dipendenza dell’oggetto dell’appalto;
   - l’avvalimento non deve risolversi nel prestito di un valore teorico e cartolare, ma è necessario che dal contratto risulti chiaramente l’impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del particolare requisito, sicché risulta insufficiente allo scopo la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente, o espressioni equivalenti;
   - ai fini della validità del contratto di avvalimento, è necessario che questo abbia un oggetto che, seppur non determinato, sia quantomeno agevolmente determinabile sulla base del tenore complessivo dell’atto, dovendosi pertanto escludere la ricorrenza delle necessarie caratteristiche di determinatezza o determinabilità, laddove dal complesso del regolamento pattizio non sia possibile ricavare quali fossero mezzi e personale messi a disposizione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
MASSIMA
4) Sono fondate le censure articolate contro l’ammissione del RTI composto da Al. S.r.l., mandante e Ed. S.r.l., mandataria, con le quali si lamenta la genericità del contratto di avvalimento utilizzato da Al. srl.
Dalla documentazione prodotta in giudizio, emerge che Al. srl ha utilizzato l’istituto dell’avvalimento al fine di dimostrare il possesso del requisito di capacità tecnica relativo allo svolgimento nell’ultimo triennio di “...un servizio di cremazione salme resti mortali (gestione dell’impianto) svolto per 12 mesi continuativi, esclusivamente presso un impianto cimiteriale di cremazione della portata annuale di n. 2000 cremazioni”.
Come è noto,
l’istituto dell’avvalimento è finalizzato a garantire la massima partecipazione alle gare pubbliche, consentendo alle imprese non munite dei requisiti partecipativi, di giovarsi delle capacità tecniche ed economico-finanziarie di altre imprese; il principio generale che permea l’istituto è quello secondo cui, ai fini della partecipazione alle procedure concorsuali, il concorrente, per dimostrare le capacità tecniche, finanziarie ed economiche, nonché il possesso dei mezzi necessari all’esecuzione dell'appalto e richiesti dal relativo bando, è abilitato a fare riferimento alla capacità e ai mezzi di uno o più soggetti diversi, ai quali può ricorrere tramite la stipulazione di un apposito contratto di avvalimento (tra le tante Consiglio di Stato, sez. V, 19.05.2015, n. 2547; Consiglio di Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1251).
L’avvalimento può essere utilizzato per tutti i requisiti soggettivi di partecipazione, ad eccezione di quelli di cui agli artt. 38 e 39 del codice dei contratti, che sono intrinsecamente legati al soggetto ed alla sua idoneità a porsi quale valido e affidabile contraente per l’amministrazione (sul punto si vedano Consiglio di Stato, sez. V, 30.04.2015, n. 2191; Consiglio di Stato, sez. VI, 15.05.2015, n. 2486).
E’ pacifico, pertanto, che si possa ricorrere a tale istituto anche per dimostrare la disponibilità di requisiti soggettivi o oggettivi, relativi alla capacità tecnica o economica, perché la disciplina del codice degli appalti pubblici non contiene alcun divieto in proposito, fermo restando “l’onere del concorrente di dimostrare che l'impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 25.02.2014, n. 887; Consiglio di Stato, sez. III, 07.04.2014, n. 1636; Consiglio di Stato, sez. IV, 16.01.2014, n. 135; Consiglio di Stato, sez. V, 27.04.2015, n. 2063) e quindi, a seconda dei casi, i mezzi, il personale, le prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti in dipendenza dell’oggetto dell’appalto.
L’avvalimento non deve risolversi nel prestito di un valore teorico e cartolare, ma è necessario che dal contratto risulti chiaramente l’impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del particolare requisito, sicché risulta “insufficiente allo scopo la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti (cfr. giur. cit).
Insomma,
ai fini della validità del contratto di avvalimento, è necessario che questo abbia un oggetto che, seppur non determinato, sia, tuttavia, quantomeno, agevolmente determinabile sulla base del tenore complessivo dell’atto”, dovendosi pertanto escludere la ricorrenza delle “necessarie caratteristiche di determinatezza o determinabilità”, laddove “dal complesso del regolamento pattizio non è possibile ricavare quali fossero mezzi e personale messi a disposizione" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.03. 2017 n. 1456; Consiglio di Stato, Sez. III, 19.06.2017, n. 2985).
Il contratto di avvalimento stipulato da Al. srl con Se. Srl non rispecchia i principi ora indicati, perché risulta privo dei requisiti di specificità richiesta dalla disciplina normativa di riferimento.
Invero, l’oggetto dell’avvalimento viene individuato dal contratto, da un lato, prevedendo che “l’Ausiliaria mette a disposizione della Avvalente i requisiti tecnici e professionali richiesti dal bando relativo alla procedura avviata dal Comune di Pavia”, dall’altro, dichiarando che “le risorse e mezzi messi a disposizione sono rappresentati da: - Know how dell’ausiliaria in merito alla conduzione di impianti crematori...; - Attrezzature utili allo svolgimento del servizio non in possesso del concorrente...; - Unità lavorative adeguatamente formate che dovessero rendersi necessarie per la formazione del personale assunto da Al. Srl in caso di aggiudicazione...”.
La semplice lettura del documento contrattuale rende evidente la genericità delle indicazioni relative alle risorse e ai mezzi concretamente messi a disposizione.
Sul punto è sufficiente considerare che ci si impegna a mettere a disposizione “attrezzature”, di cui non viene indicata la natura, la qualità e la quantità e, nel contempo, si offrono “unità lavorative adeguatamente formate”, senza precisarne il numero, la qualifica, le mansioni e il tipo di formazione di cui dispongono; non solo, tali unità sono asseritamente destinate alla formazione del personale della concorrente, ma non si precisa il contenuto della formazione da svolgere, né la sua consistenza oraria e le modalità di esecuzione della relativa prestazione.
La spiccata genericità del contratto di avvalimento in questione rende il relativo oggetto non solo indeterminato, ma pure indeterminabile, in quanto dal contratto non emergono elementi tali da consentirne la specificazione sulla base del tenore complessivo del documento (cfr. in argomento, Consiglio di Stato, Ad. Plen., 04.11.2016, n. 23).
Del resto,
la genericità del contratto di avvalimento non è superabile invocando il c.d. soccorso istruttorio.
Invero,
tale genericità, rendendo l’oggetto del contratto indeterminato ed indeterminabile, si traduce nella nullità radicale del contratto stesso e non in una mera irregolarità formale o documentale e, del resto, la nullità -operando ovviamente ab origine- comporta che il concorrente sia privo del requisito di capacità oggetto di avvalimento sin dal momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, il che ne impone l’esclusione dalla procedura medesima (cfr. di recente Consiglio di Stato, Sez. III, 19.06.2017, n. 2985).
Va, pertanto, ribadito che in ragione dell’indeterminatezza del contratto di avvalimento utilizzato, la società Al. srl era priva del requisito di partecipazione di cui si tratta e doveva essere esclusa dalla procedura ad evidenza pubblica, con conseguente fondatezza della censura in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.01.2018 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALISulle case per stranieri mani legate ai sindaci.
Il sindaco non può interferire con le determinazioni delle prefettura in materia di gestione dei richiedenti asilo e rifugiati. Al massimo potrà potenziare il controllo comunale sulla salubrità degli edifici destinati all'ospitalità degli stranieri.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la sentenza 22.01.2018 n. 70.
Un comune bresciano ha adottato un'ordinanza urgente finalizzata a introdurre stringenti e inedite prescrizioni dirette ai proprietari degli immobili messi a disposizione della prefettura per la gestione dei migranti.
Contro questa determinazione l'ufficio territoriale del governo ha proposto censure al collegio. Ma contemporaneamente il sindaco ha annullato a titolo di autotutela la sua ordinanza sostituendola con una più moderata dedicata a potenziare semplicemente il controllo della normativa in materia di salubrità degli edifici residenziali.
Al Tar non è rimasto che prendere atto dell'avvenuta cessazione della materia del contendere. Ma in realtà anche la nuova ordinanza evidenzia un potenziale prolungato contrasto istituzionale tra amministrazione centrale e autonomie locali sul delicato tema dell'accoglienza (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).
---------------
MASSIMA
1. Premettono le ricorrenti Amministrazioni che tra l’agosto ed il settembre 2017, i Sindaci di molti Comuni ubicati nelle Province ricadenti in questo Distretto di Corte d’Appello, hanno fatto pervenire presso i rispettivi Uffici Territoriali del Governo ordinanze di contenuto sostanzialmente identico con cui essi, ritenendo di esercitare i poteri previsti dagli artt. 50 e 54 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U.E.L.), nonché dall’art. 1 del R.D. 18.06.1931 n. 773 (T.U.L.P.S.), hanno stabilito stringenti prescrizioni dirette ai proprietari o possessori di immobili messi a disposizione della Prefettura nell’ambito di progetti S.P.R.A.R. (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati), obbligandoli a comunicazioni e oneri, dietro comminatoria di sanzioni amministrativi, o, addirittura, di denuncia penale.
L’ordinanza impugnata appartiene a questo gruppo di provvedimenti.
Il provvedimento reca un’ampia premessa sui poteri straordinari del vertice dell’Amministrazione comunale, ricordando in sintesi che:
   - il Sindaco, in quanto autorità sanitaria locale può emanare, ai sensi degli artt. 32 della legge 833/1978 e 117 del D.Lgs. 112/1998, ordinanze contingibili e urgenti, con efficacia estesa al territorio comunale, in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica;
   - il Sindaco, in quanto ufficiale del Governo, ai sensi dell’art. 54 T.U.E.L., sovrintende all’emanazione degli atti attribuitigli da leggi e regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica, allo svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge nelle stesse materie ed alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone preventivamente il Prefetto;
   - il Sindaco, ai sensi dell’art. 1 T.U.L.P.S., assume le funzioni di autorità locale di pubblica sicurezza nei Comuni dove manca il Capo dell'Ufficio di pubblica sicurezza;
   - il Sindaco, in base al combinato disposto dell’art. 50, comma 5, T.U.E.L. e dell’art. 54, comma 4, T.U.E.L., ha il potere di adottare provvedimenti contingibili e urgenti allo scopo di reprimere e prevenire pericoli che minacciano la pubblica incolumità.
Il provvedimento impugnato contiene una serie di prescrizioni rivolte ai proprietari di beni immobili ubicati nel territorio comunale e ai soggetti che ne abbiano comunque il possesso e la disponibilità.
Quanto alla delimitazione temporale del provvedimento, il termine finale risulta fissato al 31.12.2017, “in attesa di approvazione di specifico regolamento o di adeguamento dei regolamenti comunali vigenti”.
2. La ricorrente Amministrazione statale, pur non essendo tra gli immediati destinatari dei precetti sindacali, sostiene di vantare un autonomo interesse all’impugnazione dell’ordinanza di cui sopra, che emergerebbe in considerazione della finalità perseguita dal provvedimento, che si prefiggerebbe “non certo di far fronte ad inesistenti emergenze in atto, quanto piuttosto di ostacolare il funzionamento dello SPRAR o di creare una sorta di enclave sottratta al dovere (vincolante per l’intera Nazione) di accogliere e prestare assistenza ai migranti che invocano dall’Italia protezione internazionale”.
3. Assumono le ricorrenti Amministrazioni l’illegittimità dell’avversata ordinanza per:
3.1) Violazione degli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4, T.U.E.L., nonché dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241. Eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità manifeste. Errore sui presupposti di diritto e di fatto. Difetto di istruttoria e di motivazione. Sviamento di potere:
   a) Incertezza assoluta in ordine alla base giuridica dell’ordinanza. Contraddittorietà e illogicità manifeste. Sviamento di potere;
   b) Eccesso di potere per errore sui presupposti di diritto e di fatto e difetto di istruttoria e di motivazione;
   c) Eccesso di potere per illogicità della motivazione ed omessa valutazione dell’Accordo stipulato tra ANCI e Ministero dell’Interno;
   d) Ulteriori vizi dell’ordinanza, corollari dell’appurata assenza dei presupposti di necessità e urgenza:
      i) Violazione degli artt. 1 e 18 della legge 241/1990. Violazione del principio di proporzionalità. Incoerenza dei maggiori oneri imposti ai privati rispetto ai fini dichiarati;
      ii) Violazione dell’art. 117 della Costituzione. Violazione del D.Lgs. 25.07.1998 n. 286. Violazione del D.Lgs. 19.11.2007 n. 251. Violazione del D.Lgs. 18.08.2015 n. 142;
      iii) Violazione degli artt. 41 e 42 della Costituzione
3.2) Natura ed effetti discriminatori dell’ordinanza. Violazione dell’art. 43 del D.Lgs. 286/1998. Violazione degli artt. 2 e 3 del D.Lgs. 09.07.2003, n. 215. Nullità per carenza di potere.
Nel rilevare come l’ordinanza avversata abbia carattere contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 50, comma 5, o dell’art. 54, comma 4, del T.U.E.L., sottolinea parte ricorrente come presupposto necessario di simili provvedimenti risieda in un pericolo attuale, cioè un rischio concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e per l'igiene, cui sia necessario far fronte immediatamente, con uno strumento extra ordinem, risultando insufficienti gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Dal momento che, secondo la prospettazione di parte, i presupposti di fatto dell’ordinanza impugnata risiederebbero in non meglio precisate “situazioni emergenziali”, collegate alla stipulazione da parte delle Prefetture di accordi o convenzioni con i privati per la gestione dell’ospitalità ai migranti, ne consegue che l’atto gravato sia privo dei necessari caratteri di concretezza e attualità richiesti dalla legge.
Il timore –illustrato nell’ordinanza– circa un incontrollabile aumento della popolazione straniera residente nel territorio comunale sarebbe, poi, smentito dall’esistenza di un accordo stipulato tra A.N.C.I. e Ministero dell’Interno nel dicembre 2016, in base al quale si prevede per ciascun Comune un massimo di 2,5 migranti ospitati ogni 1000 abitanti “con una serie di correttivi per i Comuni più piccoli”.
Gli oneri informativi e comunicativi imposti ai proprietari e possessori di immobili integrerebbero, inoltre, una misura priva di senso logico, contrastante con il principio di proporzionalità, in quanto volta imporre obblighi e restrizioni in misura irragionevolmente superiore a quella strettamente necessaria a garantire l’adeguato esercizio della funzione pubblica.
Attraverso l’ordinanza –che rivelerebbe un contenuto sostanzialmente regolamentare e non solo precettivo– verrebbero, poi, ad esercitarsi attribuzioni in materie di esclusiva competenza statale, quali:
   - la disciplina dell’immigrazione e della condizione giuridica dello straniero
   - il diritto di asilo e gli obblighi internazionali sull’accoglienza e la protezione dei rifugiati.
L’impugnata determinazione sindacale si porrebbe, peraltro, in violazione del divieto di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi sancito dall’art. 43 del D.Lgs. 25.07.1998 n. 286; assumendosi, in conclusione, che tale atto sarebbe nullo, in quanto adottato in difetto assoluto di attribuzioni e, comunque, diretto a perseguire finalità illecite (quale la discriminazione razziale).
4. Conclude parte ricorrente insistendo per l'accoglimento del gravame ed il conseguente annullamento dell’atto oggetto di censura.
L'Amministrazione resistente, ancorché ritualmente intimata, non si è costituita in giudizio.
La rilevata sussistenza dei presupposti indicati all’art. 60 c.p.a. consente di trattenere la presente controversia –portata all’odierna Camera di Consiglio ai fini della delibazione dell’istanza cautelare dalla parte ricorrente incidentalmente proposta– ai fini di un’immediata definizione nel merito.
Prevede infatti la disposizione da ultimo citata che, “in sede di decisione della domanda cautelare, purché siano trascorsi almeno venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata”.
Nel precisare che le parti presenti all’odierna Camera di Consiglio sono state al riguardo sentite,
il ricorso all’esame si rivela improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Rileva, in tal senso, l’ordinanza adottata dal Sindaco del Comune di Seriate in data 14.11.2017 n. 107, con la quale viene annullata la precedente ordinanza n. 78/2017, oggetto della presente impugnativa; pur rinnovandosi le seguenti disposizioni dell’ordinanza impugnata “che non sono oggetto di vizi di legittimità, ed in particolare:
   - che nessun alloggio può essere abitato e nessuna unità immobiliare o locale utilizzato, se privo di certificato o segnalazione certificata di agibilità in corso di validità, rilasciato o formato secondo le modalità previste per legge o se dotato di certificato di agibilità non aggiornato;
   - che nessun alloggio può essere occupato con un numero di persone superiore a quelle ammesse dal vigente regolamento di igiene comunale e che a tal fine può essere richiesta apposita attestazione preventiva all’ufficio tecnico comunale;
   - che il Comando di Polizia Locale e lo Sportello Unico per l’Edilizia effettuino specifici controlli sugli alloggi, finalizzati alla verifica del rispetto della vigente disciplina in materia edilizia, con particolare riferimento alle norme concernenti l’affollamento degli alloggi, la salubrità e sicurezza degli ambienti abitativi
”.

5.
Nel dare atto del venire meno dell’atto gravato, pur in presenza della residua (ma non contestata dalla parte ricorrente) rinnovazione di talune delle prescrizioni da essa recate, con conseguente –e ribadita– sopravvenuta carenza di interesse, va escluso che residui in capo alle ricorrenti Amministrazioni interesse alla prosecuzione del giudizio ai fini di una pronunzia di merito.
Ritiene peraltro il Collegio doversi escludere la condanna alle spese di lite nei confronti del resistente Comune, eventualmente veicolata da giudizio di c.d. “soccombenza virtuale”.
Pur a fronte di richiesta in tal senso formulata dalla parte ricorrente, la circostanza rappresentata dall’esercizio del potere di autotutela, che ha determinato il venir meno della gravata ordinanza, in arco temporale contiguo alla proposizione (notifica e successivo deposito) del presente mezzo, consente di non far luogo a pronunzia sulle spese di lite.
Vuole, in altri termini, affermarsi che, in ragione delle richieste dall’Amministrazione statale rivolte (non soltanto nei confronti della odierna resistente, ma anche) ai Comuni omogeneamente autori di ordinanze della specie di quella oggetto del presente gravame, al fine di promuovere il ritiro delle adottate determinazioni, l’esercizio dell’autotutela (che, laddove avesse significativamente preceduto l’incardinamento del ricorso, ben avrebbe evitato l’adizione di questo giudice) in momento comunque contiguo al perfezionamento del ricorso stesso (notificazione e successivo deposito in giudizio), comprova la presenza di una condotta processualmente apprezzabile al fine di escludere la –pur sollecitata– condanna della parte resistente al pagamento delle spese di lite in favore delle ricorrenti.

TRIBUTIAzioni civilistiche escluse per i rimborsi tributari.
Se un comune si rifiuta di restituire l'Ici o altro tributo versato dal contribuente, in seguito alla presentazione di un'istanza di rimborso tardiva, non pone in essere un comportamento illecito e non dà luogo a un ingiustificato arricchimento. In questi casi l'interessato non può proporre un'azione civilistica di risarcimento danni, di indebito oggettivo o di arricchimento senza causa innanzi al giudice ordinario nel più ampio termine di prescrizione decennale. La competenza esclusiva a decidere spetta al giudice tributario, sempre che l'istanza di rimborso venga presentata nei termini di legge.

È quanto ha affermato il TRIBUNALE civile di Bologna, III Sez., con sentenza 12.01.2018.
Per il tribunale, non può essere invocato dal contribuente un comportamento illecito dell'amministrazione comunale, ex articolo 2043 del codice civile, con richiesta di danni, o in alternativa un ingiustificato arricchimento, solo perché ha pagato l'Ici in misura maggiorata, rispetto a quella dovuta, ritenendo illegittimo il rifiuto di restituzione opposto dall'ente. Secondo il giudice civile i comportamenti attribuiti all'ente convenuto «costituiscono tutti legittimo esercizio del diritto/dovere della potestà autoritativa correttamente esercitata». Infatti «non sussiste in radice un comportamento illecito e men che meno un atteggiamento anti-doveroso della volontà».
Quindi, non c'è spazio neppure «per l'esperita subordinata azione d'arricchimento senza causa, disciplinata dall'art. 2041 c.c.». Peraltro, il contribuente ha fatto rientrare «con meri artifici retorici» nell'ambito della giurisdizione ordinaria, ciò che è tutelato da quella tributaria. Il diritto al rimborso dell'Ici o di altro tributo «non può svolgersi secondo il modello dell'indebito di diritto comune». È invece necessario osservare le regole di riparto della giurisdizione e la speciale disciplina prevista dalle singole leggi d'imposta.
In effetti, per richiedere il rimborso di un tributo versato e non dovuto, non è ammessa in via alternativa l'azione di indebito oggettivo esercitatile dal contribuente nel termine decennale previsto dal codice civile. Non esistono rimedi alternativi o concorrenti alla tutela giudiziale azionabile dal contribuente innanzi al giudice tributario, sempre che l'istanza di rimborso sia stata presentata entro il termine di decadenza.
Ciò porta a escludere che, decorso il termine di legge, il contribuente possa esperire un'azione giudiziale davanti al giudice tributario o ordinario per recuperare il maggior tributo versato. L'intervento del giudice ordinario per ottenere il rimborso delle imposte non dovute è ammesso, in base a quanto deciso dalla Cassazione (sezioni unite, ordinanza 10725/2002), solo quando l'amministrazione ha già riconosciuto il relativo diritto, ma non ha provveduto a effettuare il rimborso.
È fondamentale, poi, il rispetto del termine di decadenza per la presentazione dell'istanza, previsto dalle singole leggi d'imposta, per richiedere la tutela giudiziale del diritto al rimborso. Per l'Ici e gli altri tributi comunali il termine di decadenza è cinque anni, decorrenti dall'eseguito versamento. In caso contrario, non si forma il silenzio-rifiuto e si determina l'inammissibilità del ricorso al giudice tributario, per difetto del provvedimento impugnabile. Se l'istanza invece è prodotta nei termini, la tutela del diritto al rimborso può essere chiesta entro il termine di prescrizione decennale.
Va ricordato che l'articolo 21 del decreto legislativo 546/1992, che vale per tutti i tributi per i quali la legge non fissa un apposito termine (ad esempio per l'Iva), prevede che la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (articolo ItaliaOggi del 17.02.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul danno in termini di ritardo.
Se in linea generale il principio tradizionale affermato dall’Adunanza plenaria con la decisione 15.09.2005 n. 7 era nel senso che l’intervenuto riconoscimento, da parte dell'amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni, ancora di recente la giurisprudenza ha ricordato che per «danno ingiusto» risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto.
Ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico.
In materia, quindi, va ribadito che la pretesa risarcitoria, relativa al danno da ritardo, deve essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento.
In tale contesto va ritenuto in astratto possibile configurare un danno da ritardo, derivante dall'incertezza illegittimamente causata sul modo in cui regolarsi nell'attesa che l'amministrazione si pronunci sulla stessa spettanza del bene della vita: anche in tali fattispecie, infatti, è possibile configurare l'esistenza della lesione, che comunque andrebbe rigorosamente provata, di un interesse economicamente rilevante.
Tale prospettazione, peraltro, è preliminare e distinta rispetto a quella con cui si domandi il risarcimento di un danno emergente e di un lucro cessante pieni ed attuali, rispetto all’illegittimo diniego adottato dall’amministrazione avverso l’iniziativa privata. Se ciò nel caso di specie comporta l’assenza del ne bis in idem, per ciò solo non esime dalla necessaria prova degli elementi concernenti la sussistenza della fattispecie risarcitoria.
---------------
Assume ulteriore rilievo dirimente, in termini di insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della generica domanda risarcitoria, il principio di cui all’art. 1227, comma 2, c.c. che, pur se non espressamente richiamato dall’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., per orientamento costante viene reputato come pacificamente applicabile nel processo amministrativo, nel senso che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa attivazione dei rimedi di tutela (nella specie ad esempio tramite riproposizione dei vizi erroneamente assorbiti ovvero attivazione del rimedio dell’ottemperanza) non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
---------------
Va ribadito che anche nel giudizio di equità la norma dell'art. 2697 Cod. civ. rappresenta un principio informatore del risarcimento dei danni, con la conseguenza che qualsiasi vicenda di danno lamentato da chi agisce in giudizio per il risarcimento debba essere provata dal danneggiato, sia pure con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici, fermo restando che la relativa articolazione va dimostrata nello specifico del caso concreto, cioè caso per caso, e non fatto discendere in via generale ed astratta quale conseguenza connessa automaticamente all'evento.
---------------

4. Peraltro, anche alla luce degli elementi acquisiti anche in via istruttoria, le domande risarcitorie proposte appaiono infondate nel merito.
Infatti, dall’analisi degli atti prodotti nonché dell’approfondimento istruttorio svolto emerge, già in fatto, la mancanza della prova della colpa della p.a. nonché del presupposto inerente la probabilità della spettanza del bene della vita.
4.1 Le conclusioni negative non mutano, in relazione alla prima domanda, analizzandola secondo la prospettazione del danno in termini di ritardo.
In proposito, se in linea generale il principio tradizionale affermato dall’Adunanza plenaria con la decisione 15.09.2005 n. 7 era nel senso che l’intervenuto riconoscimento, da parte dell'amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni, ancora di recente la giurisprudenza (anche della sezione: cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 10.07.2017 n. 3392) ha ricordato che per «danno ingiusto» risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico.
In materia, quindi, va ribadito (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. IV 30.06.2017 n. 3222) che la pretesa risarcitoria, relativa al danno da ritardo, deve essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento.
In tale contesto va ritenuto in astratto possibile configurare un danno da ritardo, derivante dall'incertezza illegittimamente causata sul modo in cui regolarsi nell'attesa che l'amministrazione si pronunci sulla stessa spettanza del bene della vita: anche in tali fattispecie, infatti, è possibile configurare l'esistenza della lesione, che comunque andrebbe rigorosamente provata, di un interesse economicamente rilevante.
Tale prospettazione, peraltro, è preliminare e distinta rispetto a quella con cui si domandi il risarcimento di un danno emergente e di un lucro cessante pieni ed attuali, rispetto all’illegittimo diniego adottato dall’amministrazione avverso l’iniziativa privata. Se ciò nel caso di specie comporta l’assenza del ne bis in idem, per ciò solo non esime dalla necessaria prova degli elementi concernenti la sussistenza della fattispecie risarcitoria.
4.2 Nel caso di specie per entrambe le domande è mancata in primo luogo la dimostrazione della colpa della p.a., anche facendo ricorso ai più consolidati parametri presuntivi.
Da un lato è evidente che l’annullamento del diniego, disposto in accoglimento del reputato assorbente profilo meramente procedurale dell’illegittima espressione del parere negativo della competente Soprintendenza al di fuori del modulo della conferenza di servizi, non era di per sé in grado di costituire automatico presupposto del danno invocato, il quale restava oggetto di necessaria specificazione e prova.
Infatti, lungi dal contestare nella sostanza l’esito del procedimento, il vizio accolto -di carattere eminentemente procedimentale- imponeva il riavvio della procedura dal momento in cui era intervenuto il dato reputato illegittimo dal Tar con l’esame da parte delle amministrazioni competenti al fine di giungere all’esito della pratica. Né quest’ultimo poteva ritenersi vincolato alla luce delle limitate statuizioni contenute in sentenza, rese nei più ristretti ambiti derivanti dall’assorbimento delle restanti censure.
La mancata riproposizione in appello di queste ultime non consente il necessario relativo approfondimento; né l’odierna parte appellante risulta aver attivato il percorso della tutela esecutiva, in sede di ottemperanza, dinanzi al giudice che ha accolto l’originario ricorso in parte qua.
A quest’ultimo proposito assume ulteriore rilievo dirimente, in termini di insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della generica domanda risarcitoria, il principio di cui all’art. 1227, comma 2, c.c. che, pur se non espressamente richiamato dall’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., per orientamento costante viene reputato come pacificamente applicabile nel processo amministrativo, nel senso che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa attivazione dei rimedi di tutela (nella specie ad esempio tramite riproposizione dei vizi erroneamente assorbiti ovvero attivazione del rimedio dell’ottemperanza) non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. V 17.07.2014 n. 3812).
Se le considerazioni appena svolte appaiono già dirimenti in via di principio, nella fattispecie in esame il riavvio del procedimento, oltre a non fornire elementi nella direzione del probabile esito positivo dell’iter, ha anzi escluso la realizzabilità dell’impianto, cui infatti la società ha nella sostanza autonomamente rinunciato, come emerso dalla mancata attivazione dei rimedi predetti, anche a cagione delle novità normative. Se queste ultime all’evidenza non possono imputarsi all’amministrazione attiva, essendo ricollegabili alla diversa autonoma e insindacabile –a fini risarcitori– attività legislativa (piuttosto, come noto, la giurisprudenza di questo Consiglio riconosce che l’incertezza legislativa possa costituire causa di esclusione della colpevolezza della p.a.), neppure è invocabile alcun elemento di colpa in capo al comportamento delle amministrazioni interessate dal procedimento.
Come emerso in specie dall’istruttoria svolta, la p.a. ha adeguatamente valutato il contesto in esame (laddove i diversi esiti di altri progetti non appaiono invocabili, sia per mancata riproposizione delle censure, sia a fronte della diversità di situazione giuridica e di fatto), senza che all’opposto parte appellante abbia fornito i necessari elementi di prova, rinviando ad una generica valutazione equitativa, cui come noto il giudice può ricorrere unicamente in caso di difficoltà nel quantificare un danno la cui esistenza sia dimostrata nei relativi elementi essenziali.
In proposito va ribadito (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 30.12.2014 n. 6428) che anche nel giudizio di equità la norma dell'art. 2697 Cod. civ. rappresenta un principio informatore del risarcimento dei danni, con la conseguenza che qualsiasi vicenda di danno lamentato da chi agisce in giudizio per il risarcimento debba essere provata dal danneggiato, sia pure con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici, fermo restando che la relativa articolazione va dimostrata nello specifico del caso concreto, cioè caso per caso, e non fatto discendere in via generale ed astratta quale conseguenza connessa automaticamente all'evento.
5. Alla luce delle considerazioni che precedono gli appelli riuniti vanno respinti nel merito, seppur con diversa motivazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2018 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' ormai consolidato l’orientamento secondo cui i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti da comunicazione di avvio del procedimento, stante il carattere strettamente vincolato di essi.
---------------

1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig. Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
   - veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
   - piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x 5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto, altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato autorizzato.
...
3. Con il primo motivo parte ricorrente ha rilevato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, lamentando il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento.
Il motivo è infondato, atteso che è ormai consolidato l’orientamento secondo cui i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti da comunicazione di avvio del procedimento, stante il carattere strettamente vincolato di essi (solo per citare la giurisprudenza più recente, Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 28.08.2017 n. 4121; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 07.07.2017 n. 1061; Tar Liguria, sez. I, 29.03.2017 n. 285; Cons. Stato, sez. IV, 28.02.2017 n. 908) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al fatto che la piscina sia facilmente amovibile e sia realizzata in materiale plastico e lamellare, non vale ad esimerla dall’acquisizione del titolo edilizio, giacché, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza, ciò che rileva è che il manufatto sia destinato a durare nel tempo, ampliando il godimento dell’immobile e non sia volto a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti.
Non risulta rilevante il fatto che si tratti di piscina “fuori terra”, atteso che anche una struttura del genere, soprattutto se di dimensioni ragguardevoli, come quella in questione, determina una permanente trasformazione urbanistica.
---------------

1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig. Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
   - veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
   - piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x 5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto, altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato autorizzato.
...
4. Con il secondo e il terzo motivo parte ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti ed erroneità dei presupposti.
4.1 Con riferimento alla piscina e al solarium il ricorrente ha rilevato che si tratta di piscina “fuori terra”, facilmente smontabile, di ridotte dimensioni e costituita di PVC e lamellare. La realizzazione di essa non potrebbe costituire illecito edilizio, non essendo soggetta ad autorizzazione.
Il motivo è privo di fondamento.
Va rilevato, innanzi tutto, che il manufatto in questione ha dimensioni che non possono considerarsi ridotte, giacché la piscina è estesa m. 9,15 x 5. Il solarium ha una superficie di m. 11,00 x 5,40.
Quanto evidenziato dal ricorrente, con riferimento al fatto che la piscina sia facilmente amovibile e sia realizzata in materiale plastico e lamellare, non vale ad esimere dall’acquisizione del titolo edilizio, giacché, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza, ciò che rileva è che il manufatto sia destinato a durare nel tempo, ampliando il godimento dell’immobile e non sia volto a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 22.05.2017 n. 2714; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 20.04.2016 n. 423; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 17.10.2013 n. 4653; Tar Marche, 23.05.2013, n. 377).
Non risulta rilevante il fatto che si tratti di piscina “fuori terra”, atteso che anche una struttura del genere, soprattutto se di dimensioni ragguardevoli, come quella in questione, determina una permanente trasformazione urbanistica (Tar Toscana, sez. III, 11.06.2008 n. 1592) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di abbandono di rifiuti, di cui all’art. 192 del D.L.vo 152/2006, la responsabilità del proprietario dell’area, anche se questi non è l’autore dell’abbandono, può essere ravvisabile anche dal fatto che la condizione di degrado ambientale, determinatasi in conseguenza dell’abbandono, è dovuta a suoi comportamenti disattenti ed omissivi, quale può essere, ad esempio, la sua inerzia di fronte ad un deposito di rifiuti prolungato nel tempo (nella specie è stato riscontrato un colpevole contegno omissivo di fronte ad una serie di fattori, che hanno concorso al peggioramento dello stato del fondo) (massima tratta da www.tuttoambiente.it).
---------------
1. Con l’ordinanza sindacale n. 88 del 10.06.2000, il Comune di Noceto ha intimato alla appellante la rimozione di rifiuti dal fondo di sua proprietà sito in località Ceresole di Noceto (PR), in via ... n. 7.
Il provvedimento fa riferimento all’area adiacente il fabbricato posto al civico n. 7, che in precedenza era stata concessa in comodato al signor Gio.Be.. e da questi, nel corso del rapporto di comodato, indebitamente occupata con un notevole accumulo di gomme per veicoli in disuso.
Con due raccomandate del 16.04.1990 e del 21.07.1990, l’interessata aveva sollecitato formalmente al signor Gio.Be. lo sgombero dei pneumatici e il rilascio dei locali.
Contemporaneamente si era attivata l’amministrazione comunale, attraverso l’emissione di un’ordinanza di sgombero dei pneumatici a carico del comodatario.
La stessa proprietaria dell’area aveva instaurato una controversia civilistica volta alla risoluzione del contratto di comodato, conseguendo (con la sentenza n. 455/91 del Pretore di Parma) la condanna del signor Ben. alla restituzione dell’immobile e alla rimozione dei pneumatici.
L’obbligo statuito in sentenza, a seguito del decesso dell’ex comodatario (avvenuto in data 21.07.1991), è tuttavia rimasto inattuato.
Sono seguite due ulteriori ordinanze comunali di sgombero, emesse a carico della appellante rispettivamente in data 13.02.1995 e 02.09.1999, la seconda delle quali è stata revocata con la successiva ordinanza n. 111 del 30.10.1999, a fronte delle osservazioni presentate dall’interessata.
La vicenda è giunta a conclusione con l’emissione, in data 10.06.2000, di un’ultima ordinanza di rimozione, oggetto del giudizio definito dalla sentenza di primo grado qui impugnata.
2. La pronuncia di primo grado –nel respingere il ricorso n. 476 del 2000- ha ritenuto legittimo l’atto impugnato, per avere questo opportunamente disposto lo sgombero dell’area a carico della ricorrente, con richiamo all’articolo 14 del decreto legislativo n. 22 del 1997, sul presupposto di una situazione di grave incuria ambientale, a lei addebitabile a titolo colposo.
A tal fine il Tar ha valorizzato:
   - il protrarsi, a distanza di molti anni dall’emanazione della prima ordinanza (risalente al 07.06.1991) e sino ancora alla data di emissione del provvedimento impugnato, delle circostanze che avevano dato luogo alle precedenti ordinanze a carico sia del comodatario, sia della proprietaria;
   - la consapevolezza da parte della ricorrente della problematica situazione ambientale, il cui progressivo deterioramento è emerso dagli approfondimenti istruttori condotti dall’A.R.P.A. e dai Vigili del Fuoco successivamente al rilascio dell’area da parte del comodatario;
   - il fatto che la proprietaria non si fosse in alcun modo attivata per effettuare in proprio la rimozione, con eventuale azione di rivalsa nei confronti degli eredi del comodatario.
...
3. Nel merito,
circa la possibilità astratta di configurare una responsabilità colposa del proprietario del fondo occupato da rifiuti, che sia rimasto inerte innanzi al protrarsi della situazione di degrado ambientale, occorre dare conto di un oramai costante indirizzo giurisprudenziale che -pur ribadendo in premessa il coefficiente soggettivo che, in materia di responsabilità da abbandono di rifiuti, deve connotare la condotta degli autori del fatto (ivi incluso, tra questi, il proprietario del fondo)- non manca poi di precisare che la responsabilità del proprietario dell'area, che non sia autore dell'abbandono, può essere affermata anche in altro modo, ovvero dimostrando -sulla base delle circostanze concrete, connesse ad esempio ad un contegno inerte di fronte ad un fenomeno di deposito di rifiuti prolungato nel tempo- che la condizione di degrado ambientale così determinatasi è dovuta a specifici suoi comportamenti disattenti od omissivi.
In queste specifica prospettiva, la colpa può ritenersi consistere nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, atte ad impedire che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi (Cons. Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84).
4. Tracciate le generali premesse di inquadramento giuridico dei fatti di causa, si deve rilevare che gli stessi individuano -ad avviso del Collegio- una ipotesi peculiare che non si presta ad essere esaustivamente indagata secondo i consueti e sin qui richiamati canoni deduttivi.
Nel caso di specie sussistono, infatti, peculiari dati fattuali e giuridici sufficienti ad integrare il fondamento della responsabilità colposa della proprietario dell’area.
4.1. Sul piano fattuale, diverse circostanze valgono a dimostrare come la condizione di degrado ambientale determinatasi a seguito dell’abbandono dei rifiuti non si sia perpetuata in modo statico nel periodo successivo alla riacquisizione della disponibilità del fondo da parte della proprietaria, ma, proprio in tale frangente temporale, si sia ulteriormente accentuata e aggravata in termini tali da allarmare l’ente comunale, sollecitare l’intervento degli organi preposti alla tutela ambientale e motivare le conseguenti iniziative dell’amministrazione.
Di tanto si trae conferma dalle risultanze delle verifiche condotte in loco dall’ARPA e dal Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Parma: le prime -riportate nella nota del 27.05.2000 dell’ARPA di Fidenza- attestano il rischio di «problematiche anche dal punto di vista igienico-sanitario», conseguenti alla persistenza dei pneumatici in loco e dalla vicinanza di vicini abitati, tali da far suggerire dalla stessa ARPA al Comune interessato, l’opportunità dell’adozione di una ordinanza contingibile e urgente di sgombero dell’area.
Gli esiti delle indagini condotte dai Vigli del Fuoco -riportate nella nota del 27.04.2000- confermano, d’altra parte, le «generali condizioni di elevato degrado igienico sanitarie dell’immobile e delle relative pertinenze».
L’aggravamento del quadro di emergenza conseguente al permanere dei copertoni abbandonati, evidenziato dalle richiamate risultanze istruttorie, si è verificato allorché unica custode e responsabile dell’area era l’appellante; sicché è al suo colpevole contegno omissivo che va ricondotto l’intero spettro di fattori causali che, nello specifico frangente temporale qui in esame, hanno concorso a peggiorare lo stato del fondo al punto da farvi emergere rischi sanitari e di pericolo per la pubblica incolumità.
4.2. Sempre sul piano fattuale, assume rilevanza la circostanza che -nel medesimo lasso temporale- l’appellante, con missiva del 18.04.1995 indirizzata al Comune, si impegnava allo sgombero dei pneumatici e chiedeva una proroga temporale per potervi provvedere.
A tale richiesta aveva fatto seguito l’assenso del Comune e la concessione di un termine prolungato sino al 31.12.1995 per il completamento delle operazioni di smaltimento.
Dunque, la manifestata volontà di attivarsi in proprio, conferma ancora una volta la consapevole assunzione di responsabilità, da parte della proprietaria, degli obblighi di ripristino dell’area e di rimozione dei rifiuti.
4.3. Ulteriore ragione di responsabilità della proprietaria del fondo è rinvenibile nel fatto che, a decorrere dalla pubblicazione della sentenza del Pretore di Parma del 1991, l’appellante non ha attivato i rimedi processuali che le avrebbero consentito di portare ad esecuzione, nei confronti del comodatario o dei suoi eredi, il titolo giudiziale con il quale erano state ordinate la restituzione e lo sgombero dell’immobile.
4.4. Da quanto esposto consegue che, nel caso specifico, la responsabilità della appellante non è desunta dal solo fatto che, a distanza di molti anni dall’emanazione dei primi atti formali, permanessero ancora le circostanze che avevano dato luogo alle precedenti ordinanze emesse a carico del comodatario del fondo.
In altri termini,
il fatto che la proprietaria sia rimasta inerte nel risolvere la problematica di accumulo dei pneumatici non costituisce un dato neutro, ma, nello specifico contesto sin qui descritto e per le diverse ragioni sopra richiamate, si colora di connotati tali da rilevarne la responsabilità omissiva di tipo colposo, in linea con il parametro normativo di cui all’art. 14 d.lgs. 22/1997.
5. Occorre ora soffermarsi su due ulteriori profili sottesi alla valutazione di responsabilità enunciata nell’ordinanza impugnata.
5.1. Una prima considerazione riguarda il fatto che
la posizione del comodante rispetto al bene concesso in comodato non è, come ha sostenuto l’appellante, di totale estraneità ai profili di responsabilità per custodia (si veda in tal senso Cass. civ., sez. III, 30.06.2015, n. 13363, ove si afferma che, in materia di comodato, la clausola che ponga a carico del comodatario tutti i rischi derivanti dalla gestione della cosa data in comodato ha natura vessatoria, non essendo riproduttiva di alcuna regola legale, posto che ai sensi dell'art. 2051 cod. civ. anche il comodante risponde dei danni derivanti a terzi dalla res commodata, conservandone la custodia; nello stesso senso, Cass. civ., sez. III, 09.10.1996, n. 8818, per la quale il promittente venditore del bene è ‘custode’ ai sensi dell’art. 2051 c.c., pur a seguito dell’avvenuta consegna del bene al detentore-promissario acquirente per effetto della stipula del preliminare di vendita: ebbene, nella impostazione poi accolta da Cass. Sez. Un, 27.03.2008, n. 7930, il promittente venditore altri non è che un comodante, il che conduce a conclusioni conformi al precedente del 2015 innanzi richiamato).
D’altra parte, il comodante, oltre ad un generico potere di vigilanza sul buon utilizzo del bene, ha facoltà di chiederne l’immediata restituzione laddove ravvisi che il comodatario stia tenendo rispetto ad esso condotte inadempienti e scarsamente diligenti, quale quella di servirsi del bene secondo modalità non conformi alla destinazione sua propria o convenuta.
Dunque,
non risulta conforme ai principi l’affermazione secondo cui sull’appellante non ricadevano gli obblighi giuridici di custodia del bene (anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997) nella fase di esecuzione del contratto di comodato.
5.2. Una seconda considerazione trae spunto dalla constatazione che, nelle more del giudizio, secondo quanto si ricava dalle allegazioni in atti, il Comune ha provveduto in proprio a rimuovere i copertoni dal fondo, sicché un residuo interesse alla definizione della presente controversia permane unicamente in relazione al tema dell’allocazione degli oneri di spesa relativi alle espletate operazioni di ripristino.
In quest’ottica di ragionamento,
occorre altresì considerare che -in tutti i casi in cui la bonifica o il ripristino del fondo rimangano a carico della pubblica amministrazione (che così abbia disposto sua sponte o per un obbligo giuridico preesistente, e comunque in un’ottica di salvaguardia dell’ambiente)- i privati proprietari o i detentori dei fondi interessati ricavano un vantaggio, in termini di aumento di valore del fondo, che potrà costituire giusta causa di recupero delle corrispondenti somme, nei limiti ordinari delle azioni di arricchimento (potendosi presumere che l’importo così speso, nel determinare l’«impoverimento» della amministrazione, comporti quanto meno un corrispondente «arricchimento»).
6. Per tutti i motivi esposti, l’appello risulta infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.12.2017 n. 5632 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza ormai costante, non può più essere invocata la c.d. sanatoria giurisprudenziale, che consentiva il rilascio del titolo allorquando l’opera abusiva risultava conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia sopravvenuta, ed in vigore al momento della presentazione dell’istanza, non avendo infatti tale orientamento più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
---------------

...per l'annullamento del provvedimento prot. n. 6701 del 14.04.2006, di diniego della denuncia di inizio attività in sanatoria presentata per la costruzione di un manufatto ad uso deposito attrezzi da giardino, del provvedimento prot. n. 9735 del 08.06.2006, che ha respinto l’istanza di riesame presentata in data 13.05.2006, e per quanto occorra, delle note 01.03.2006 e 06.10.2005, nonché per il risarcimento del danno.
---
I) Osserva il Collegio che, in base all’art. 37, c. 4, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, gli interventi eseguiti in assenza od in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità, possono ottenere la sanatoria, “ove l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda”.
Nella fattispecie per cui è causa, le opere oggetto del provvedimento impugnato, erano invece difformi dalla disciplina urbanistica vigente al momento della loro realizzazione, dovendosi pertanto respingere il ricorso, in quanto infondato nel merito, a prescindere pertanto dallo scrutinio delle eccezioni di inammissibilità del medesimo sollevate dalla difesa comunale.
In data 21.07.1999 il ricorrente ha infatti presentato al Comune una domanda per ottenere la concessione edilizia necessaria alla realizzazione di un capanno adibito al ricovero degli attrezzi da giardino, che è stata tuttavia rigettata con provvedimento prot. n. 34 del 21.10.1999, non impugnato, in quanto contrastante con la disciplina urbanistica all’epoca vigente.
Le opere oggetto del presente giudizio non erano peraltro neppure conformi alla disciplina urbanistica vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato (art. 23 n.t.a. approvate con delibera C.C. n. 31 del 27.04.2006), secondo cui le strutture accessorie da adibire a deposito attrezzi non potevano avere una superficie eccedente i 6,5 mq.
Né in contrario può rilevare che, al momento della presentazione della d.i.a. in sanatoria, l’art. 24.2 delle n.t.a a quel tempo vigente, consentisse invece l’edificazione delle strutture di che trattasi aventi superficie fino a 12 mq, atteso che, per giurisprudenza ormai costante, non può più essere invocata la c.d. sanatoria giurisprudenziale, che consentiva il rilascio del titolo allorquando l’opera abusiva risultava conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia sopravvenuta, ed in vigore al momento della presentazione dell’istanza, non avendo infatti tale orientamento più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (C.S., Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 21.03.2017 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Autorità comunale non può adottare provvedimenti sanzionatori (nella fattispecie, di carattere demolitorio) di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria, in quanto nell’eventuale sussistenza della conformità del manufatto alla disciplina urbanistica la pronuncia positiva sarebbe inutiliter data e gravemente illegittima risulterebbe la demolizione del bene.
In definitiva, una volta presentata un’istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima ed in pendenza del relativo procedimento, ne consegue l’illegittimità dell’adozione di un provvedimento sanzionatorio repressivo, essendo l’Autorità comunale venuta meno all’obbligo su di essa incombente di determinarsi sull’istanza medesima prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive; ciò per non correre il rischio che, portata ad esecuzione l’ingiunzione a demolire, risulterebbe vanificato un eventuale provvedimento di accoglimento dell’istanza di concessione in sanatoria per la conseguente impossibilità di restituire alla legalità un’opera non più esistente.
---------------

Il ricorso è fondato e deve, pertanto, essere accolto.
Coglie nel segno la censura con la quale parte ricorrente ha dedotto il vizio di eccesso di potere per errore in procedendo.
Secondo consolidata giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ha motivo per discostarsi, l’Autorità comunale non può adottare provvedimenti sanzionatori (nella fattispecie, di carattere demolitorio) di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria, in quanto nell’eventuale sussistenza della conformità del manufatto alla disciplina urbanistica la pronuncia positiva sarebbe inutiliter data e gravemente illegittima risulterebbe la demolizione del bene (cfr. ex multis TAR Napoli, Sez. VIII, 3528 del 02.07.2015, Sez. III, n. 5425 del 21.05.2007, Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1750 del 04.04.2006, Sez. IV, n. 44733 del 27.09.2005).
In definitiva, una volta presentata un’istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima ed in pendenza del relativo procedimento, ne consegue l’illegittimità dell’adozione di un provvedimento sanzionatorio repressivo, essendo l’Autorità comunale venuta meno all’obbligo su di essa incombente di determinarsi sull’istanza medesima prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive; ciò per non correre il rischio che, portata ad esecuzione l’ingiunzione a demolire, risulterebbe vanificato un eventuale provvedimento di accoglimento dell’istanza di concessione in sanatoria per la conseguente impossibilità di restituire alla legalità un’opera non più esistente (TAR Napoli, Sez. III, n. 5425 del 21.05.2007 cit.) (TAR Calabria-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.06.2016 n. 2794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un’opera può considerarsi pertinenziale -secondo la nozione squisitamente edilizia, più circoscritta rispetto a quella riconducibile alle previsioni di cui all'art. 817 c.c.- allorquando assume un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi, all’esito di un accertamento fondato non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico.
Ne consegue che le opere che si pongono, rispetto a preesistenti edifici, come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, non comprese entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire, soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono.
Diversamente, nel caso in cui loro consistenza dimensionale non può essere ritenuta assorbita -in ragione della accessorietà- nell'edificio principale e possono arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, vanno assentite con permesso di costruire.

---------------

2. Con il secondo mezzo, su cui si incentra l’impugnativa, in correlazione con lo specifico interesse azionato, la ricorrente deduce che i lavori realizzati, ricadenti nella sfera di operatività dell’art. 22 del T.U. n. 380/2001, non richiederebbero il previo rilascio di un titolo abilitativo, bensì, la semplice comunicazione di inizio lavori, la cui mancanza comporterebbe l'applicazione di una sanzione pecuniaria, che dovrebbe essere ridotta di due terzi, nei casi di comunicazione resa spontaneamente dall'interessato, come nella specie.
2.1. Va premesso che un’opera può considerarsi pertinenziale -secondo la nozione squisitamente edilizia, più circoscritta rispetto a quella riconducibile alle previsioni di cui all'art. 817 c.c.- allorquando assume un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi, all’esito di un accertamento fondato non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico (conf.: Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3221 e Cons. Stato, Sez. V, 14.10.2013 n. 4997).
Ne consegue che le opere che si pongono, rispetto a preesistenti edifici, come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, non comprese entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire, soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell'immobile cui accedono.
Diversamente, nel caso in cui loro consistenza dimensionale non può essere ritenuta assorbita -in ragione della accessorietà- nell'edificio principale e possono arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, vanno assentite con permesso di costruire (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V: 28.04.2014 n. 2196 e 19.07.2013 n. 3939 ) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 07.05.2015 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanabilità a posteriori della mancanza di titolo abilitativo tramite utilizzo degli istituti di cui al d.P.R. 380 del 2001 (artt. 36 e 37) non è preclusa ex sé dall’essere stata la sanzione demolitoria disposta ex art. 27 del T.U. sull’edilizia, ovverosia dall’incidere le opere su di un territorio assoggettato a vincolo paesaggistico.
Ed invero, alla luce di una lettura sistematica del coacervo normativo di riferimento, indubbio si appalesa che al rilascio dei titoli abilitativi a sanatoria ben possa (recte: debba) pervenirsi ove si versi nelle condizioni previste dalle cennate previsioni del T.U. e, in una, che si sia in presenza di opere ricomprese sotto l’ambito dell’art. 167, comma 4, del d.l.vo n. 42 del 2004, ossia di interventi rispetto ai quali -per non aver determinato creazioni o incrementi di superfici utili o volumi, ovvero per aver fatto utilizzo di materiali difformi da quelli autorizzati, ovvero ancora per essere comunque configurabili come manutentivi- il legislatore ha ammesso la possibilità di un accertamento di compatibilità paesaggistica a posteriori.
In definitiva, l’essere intervenuti a monte doverosamente utilizzandosi -a tutela del territorio protetto dal vincolo- l’art. 27 del d.P.R. 380 del 2001 non esclude di per sé la possibilità di verifiche successive sull’effettiva natura delle opere sanzionate e, quindi, in una, sulla loro conformità agli strumenti urbanistico/edilizi e sul loro rientrare fra le eccezioni recate dal quarto comma dell’art. 167 d.l.vo 42 del 2004, fermo che la mancanza di uno o dell’altro dei presupposti (conformità edilizio/urbanistica, ovvero compatibilità paesaggistica) è del tutto sufficiente ad imporre di portare ad esecuzione la sanzione demolitoria, ove ancora ineseguita ed ove sia essa quella da comminarsi nel caso dato.
---------------

8- E’ invece fondata, nei sensi e limiti di cui appresso, l’impugnativa riferita al silenzio fatto maturare sulla richiesta di conseguire il titolo abilitativo a sanatoria “ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380 del 2001” per le opere ricomprese nel rapporto tecnico n. 27. Ciò in quanto la res qui controversa afferisce alla diversa fase procedimentale, successiva ed autonoma rispetto a quella definita con la pronuncia della Sezione n. 3636 dell’08.07.2011, quale innescata dalla richiesta di conseguire, per dette opere, il ripetuto titolo abilitativo a sanatoria.
Al riguardo in primo luogo deve convenirsi con il ricorrente sul fatto che, a differenza di quanto mostra di ritenere la civica amministrazione, la sanabilità a posteriori della mancanza di titolo abilitativo tramite utilizzo degli istituti di cui al d.P.R. 380 del 2001 (artt. 36 e 37), non è preclusa ex sé dall’essere stata la sanzione demolitoria disposta ex art. 27 del T.U. sull’edilizia, ovverosia dall’incidere le opere su di un territorio assoggettato a vincolo paesaggistico.
Ed invero, alla luce di una lettura sistematica del coacervo normativo di riferimento, indubbio si appalesa che al rilascio dei titoli abilitativi a sanatoria ben possa (recte: debba) pervenirsi ove si versi nelle condizioni previste dalle cennate previsioni del T.U. e, in una, che si sia in presenza di opere ricomprese sotto l’ambito dell’art. 167, comma 4, del d.l.vo n. 42 del 2004, ossia di interventi rispetto ai quali -per non aver determinato creazioni o incrementi di superfici utili o volumi, ovvero per aver fatto utilizzo di materiali difformi da quelli autorizzati, ovvero ancora per essere comunque configurabili come manutentivi- il legislatore ha ammesso la possibilità di un accertamento di compatibilità paesaggistica a posteriori.
In definitiva, l’essere intervenuti a monte doverosamente utilizzandosi -a tutela del territorio protetto dal vincolo- l’art. 27 del d.P.R. 380 del 2001 non esclude di per sé la possibilità di verifiche successive sull’effettiva natura delle opere sanzionate e, quindi, in una, sulla loro conformità agli strumenti urbanistico/edilizi e sul loro rientrare fra le eccezioni recate dal quarto comma dell’art. 167 d.l.vo 42 del 2004, fermo che la mancanza di uno o dell’altro dei presupposti (conformità edilizio/urbanistica, ovvero compatibilità paesaggistica) è del tutto sufficiente ad imporre di portare ad esecuzione la sanzione demolitoria, ove ancora ineseguita ed ove sia essa quella da comminarsi nel caso dato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.07.2012 n. 3111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.02.2018

ã

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
"Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco"!!
L'avevamo pronosticato con l'AGGIORNAMENTO AL 28.12.2017 e, come volevasi dimostrare, ecco (puntuale) la Corte dei Conti (Sez. controllo Puglia) che deferisce a Roma l'interpretazione della novella al D.Lgs. n. 50/2016 (Legge di Bilancio 2018):

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La Sezione regionale di controllo per la Puglia sottopone al Presidente della Corte la valutazione dell’opportunità di deferire alle Sezioni riunite in sede di controllo o alla Sezione delle Autonomie la questione di massima volta ad accertare la natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e l’eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017.
---------------
Il Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG), dopo aver richiamato integralmente il tenore letterale dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni tecniche, illustra che l’art. 1, comma 526, della L. 27/12/2017 n. 205 ha aggiunto alla predetta norma l’art. 5-bis disponendo che tali incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Aggiunge il Sindaco che l’Anci, nella nota generale sui contenuti della legge di bilancio per l’anno 2018, ha affermato che gli incentivi per funzioni tecniche rientrano nelle spese di investimento.
Conseguentemente il Sindaco richiede il parere di questa Sezione al fine di pervenire alla corretta interpretazione della novella normativa ritenendo che i predetti incentivi non possano ritenersi inclusi tra le risorse destinate al trattamento accessorio e quindi debbano essere esclusi dalla voce di spesa del personale per essere allocati al titolo II nell’ambito delle spese di investimento ed al riguardo richiama anche il precedente
parere 18.05.2007 n. 8 di questa Sezione.
...
Ritiene il Collegio che il quesito, afferente la corretta interpretazione della disposizione in tema di incentivi per funzioni tecniche introdotta dalla recente legge di stabilità 2018, possa ritenersi riconducibile all’alveo della materia della contabilità pubblica poiché incentrato sull’esatta allocazione contabile della relativa voce di spesa e comunque inquadrabile nell’ambito della disciplina vincolistica in tema di spesa del personale e del relativo trattamento accessorio.
L’art. 113, commi 1 e 2, del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, come sostituiti dall’art. 76 del D.Lgs. 19/04/2017 n. 56, statuiscono che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione si applica anche agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
Questa Sezione ha già chiarito che
le forme di incentivazione per funzioni tecniche, ora riconosciute anche in relazione ad appalti per forniture e servizi, costituiscono eccezioni al generale principio della onnicomprensività del trattamento economico e pertanto possono essere riconosciuti solo per le attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Peraltro,
dal tenore letterale della norma che fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara.
La disciplina normativa in tema di incentivi per funzioni tecniche è stata recentemente novellata per effetto dell’introduzione, ad opera del comma 526 dell’art. 1 della L. 27/12/2017 n. 205, del comma 5-bis all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 che ha previsto che i predetti incentivi devono essere allocati al medesimo capitolo di spesa dei lavori, servizi e forniture.
La Sezione delle Autonomie, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, confermata dalla successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24, ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi nonché la non sovrapponibilità del compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, rilevando che la legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, L. n. 11/2016) ha precisato che tale compenso va a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto.
Con la su richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, la Sezione delle Autonomie ha aggiunto che, per tali incentivi, non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti posto che tali emolumenti sono erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture e ciò comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale); a ciò deve aggiungersi che non sono stati ravvisati gli ulteriori presupposti, delineati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo, per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente “in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A. con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”, come risulta anche dal disposto dell’art. 113, comma 3, D.Lgs. n. 50/2016 che, nel disporre che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80%), debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche nonché tra i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione” appare indicativa della diversa connotazione degli incentivi in parola.
Conseguentemente,
la Sezione delle Autonomie, sulla base delle molteplici argomentazioni appena richiamate, ha enunciato il principio di diritto secondo il quale i predetti incentivi devono essere inclusi nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici.
Tale conclusione è stata poi confermata dalla successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24 che, preso atto dell’abrogazione del comma 236 dell’art. 1 della legge n. 208/2015 ad opera dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. 25.05.2017 n. 75, ha ribadito che: “gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio”.
Con la disposizione introdotta dall’art. 1, comma 526, della legge di stabilità 2018, il legislatore ha espressamente previsto l’allocazione della spesa per incentivi per funzioni tecniche nei capitoli di spesa previsti per le opere pubbliche determinandone, di fatto, l’allocazione nell’ambito della spesa per investimenti.
La disciplina previgente, delineata dall’art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006 già richiamato, consentiva espressamente l’imputazione contabile delle somme destinate al fondo incentivante per la progettazione tra gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori e, come rilevato nell’odierna richiesta di parere, questa Sezione, con
parere 18.05.2007 n. 8 e successivamente la Sezione delle Autonomie, con deliberazione 13.11.2009 n. 16, avevano preso atto che non si trattava di spese di funzionamento ma di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica.
Anche la novella normativa apportata dal comma 526 della legge di stabilità 2018 potrebbe, quindi, apparire finalizzata a considerare unitariamente la spesa complessiva destinata alla realizzazione di lavori, servizi o forniture includendovi anche le risorse finanziarie del fondo per incentivi tecnici.
Conseguentemente gli incentivi non rientrerebbero nei capitoli della spesa del personale, ma dovrebbero essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera (Sezione di controllo della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, parere 02.02.2018 n. 6).
Tale collocazione della spesa per incentivi tecnici nell’ambito del medesimo capitolo di spesa di realizzazione dell’opera pubblica potrebbe portare, dunque, all’esclusione di tale tipologia di spesa dall’ammontare complessivo della spesa del personale e della spesa per il trattamento accessorio superando, di fatto, l’interpretazione resa dalla Sezione delle Autonomie con le su enunciate deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24.
La Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con
parere 05.02.2018 n. 14, rileva che, con il citato comma 526 dell’art. 1 della L. n. 205/2017, “il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto” ed ha concluso per l’esclusione degli incentivi tecnici dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, del D.Lgs n. 75/2017 rilevando che l’art. 113, ai commi 1 e 2, già dispone che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture devono trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti; che l’individuazione dei soggetti aventi diritto all’incentivo avviene tenendo conto delle funzioni “tecniche” garantendo l’incentivo ai dipendenti pubblici che le espletano e che non si determina un ampliamento indeterminato della spesa in esame in quanto lo stesso sistema normativo contiene regole che consentono di determinare e contenere la spesa del personale, evitando che la stessa assuma un carattere incontrollato.
Da altra angolazione prospettica, occorre, tuttavia, anche considerare che l’appostazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del “medesimo capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o forniture non potrebbe mutarne la natura di spesa corrente trattandosi, in ogni caso, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale e conseguentemente la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore apparentemente diretta a qualificare tale spesa nell’ambito della spesa per investimenti non sembra poter consentire di desumere sic et simpliciter l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il trattamento accessorio.
D’altronde, l’ordinamento giuridico-contabile contempla, sulla base di specifiche disposizioni di legge, anche l’utilizzo, in via eccezionale, di entrate in conto capitale per il finanziamento di spesa corrente, come statuito, per gli esercizi 2016 e 2017, dall’art. 1, comma 737, della legge 208/2015 per i proventi da oneri concessori.
Assume valore indiziante della natura di spesa del personale anche l’esame del glossario Siope, vigente per gli enti territoriali a decorrere dal 2018, dal quale emerge che: “i compensi a titolo di incentivo alla progettazione devono essere erogati al personale utilizzando gli appositi codici di spesa previsti per la spesa di personale” e che “le entrate riguardanti i compensi erogati al personale concernenti la realizzazione di attività di progettazione finalizzate ad un investimento diretto, registrate sia tra gli investimenti diretti sia tra le spese di personale, devono essere oggetto di regolazione contabile con gli incentivi di progettazione impegnati tra gli investimenti diretti, in modo da consentire l'effettivo pagamento della spesa sui capitoli del bilancio relativi alla spesa del personale”.

Questa Sezione è consapevole che tale inclusione nell’ambito della spesa del personale non ne determina necessariamente anche l’assoggettamento ai vincoli di finanza pubblica imposti ex lege, ma è proprio tale questione che necessita di un ulteriore intervento nomofilattico considerato, peraltro, che l’allocazione contabile di una posta nell’ambito della spesa per investimenti piuttosto che nella spesa corrente produce anche inevitabili riflessi sugli equilibri di bilancio degli enti.
Deve, inoltre, rilevarsi che quando il legislatore ha ritenuto di escludere determinate spese dall’ammontare complessivo della spesa del personale lo ha affermato espressamente, come avvenuto con l’art. 1, comma 424, della L. 23/12/2014 n. 190 in tema di ricollocazione del personale delle Province e con l’art. 11, comma 4-ter, del D.L. 24/06/2014 n. 90 convertito dalla L. 11/08/2014 n. 114, per i comuni colpiti dal sisma del 20 e del 29.05.2012, mentre, nella fattispecie in esame, tale esclusione dovrebbe, allo stato attuale, dedursi soltanto sulla base della nuova appostazione in bilancio nonostante, con la su richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7 alla quale questa Sezione ha l’obbligo di adeguarsi ai sensi dell’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174/2012, la Sezione delle Autonomie, dopo aver ricostruito il quadro normativo di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, ha affermato che gli incentivi per funzioni tecniche “sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori”.
Si rammenta, peraltro, che secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, le disposizioni limitative della spesa del personale si collocano tra le misure di contenimento della spesa di Regioni ed enti locali e perseguono l’obiettivo di contenere entro limiti prefissati una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico, costituita dalla spesa complessiva per il personale (sentenza n. 4/2004). Tale obiettivo, pur non riguardando la generalità della spesa corrente, ha tuttavia «rilevanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno, e concerne non una minuta voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa di parte corrente, nel quale confluisce il complesso degli oneri relativi al personale» (sentenze n. 218/2015 e n. 169/2007).
Alle perplessità generate dall’assenza di un’espressa voluntas legis che preveda l’esclusione degli incentivi per funzioni tecniche sia dai vincoli previsti dal legislatore per la spesa del personale che per la spesa per il trattamento accessorio, questa Sezione aggiunge che, qualora dall’allocazione in bilancio al medesimo capitolo di spesa previsto per i lavori, servizi o forniture si desumesse l’inserimento di tali risorse nell’ambito della spesa di investimento potrebbe ravvisarsi un contrasto con la disciplina di cui all’art. 3, comma 18, della L. 24/12/2003 n. 350 che stabilisce, ai fini di cui all'art. 119, sesto comma, della Costituzione, che costituiscono investimenti:
   a) l'acquisto, la costruzione, la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati sia residenziali che non residenziali;
   b) la costruzione, la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti;
   c) l'acquisto di impianti, macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale;
   d) gli oneri per beni immateriali ad utilizzo pluriennale;
   e) l'acquisizione di aree, espropri e servitù onerose;
   f) le partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti della facoltà di partecipazione concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti;
   g) i contributi agli investimenti e i trasferimenti in conto capitale a seguito di escussione delle garanzie destinati specificamente alla realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni;
   h) i contributi agli investimenti e i trasferimenti in conto capitale a seguito di escussione delle garanzie in favore di soggetti concessionari di lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o di dotazioni funzionali all'erogazione di servizi pubblici o di soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti di servizio prevedono la retrocessione degli investimenti agli enti committenti alla loro scadenza, anche anticipata;
   i) gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani urbanistici attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse regionale aventi finalità pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio.

Come noto, infatti,
la nozione di “spesa di investimento” è più restrittiva di quella di spesa in conto capitale, in quanto inclusiva delle sole erogazioni di denaro pubblico cui faccia riscontro l’acquisizione di un nuovo corrispondente valore al patrimonio dell’Ente che lo effettua (Sezione delle Autonomie, deliberazioni n. 30/SEZAUT/2015/QMIG e n. 17/SEZAUT/2017/FRG).
Inoltre,
le definizioni che il legislatore statale ha elaborato nelle disposizioni dell’art. 3, commi 17, 18 e 19, della L. n. 350/2003 derivano da scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovranazionale cui anche l'Italia è assoggettata in forza dei Trattati europei e dei criteri politico-economici e tecnici adottati dagli organi dell'Unione europea nel controllare l'osservanza di tali vincoli (Corte Costituzionale, sentenza n. 425/2004).
Deve aggiungersi che, con la già richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, la Sezione delle Autonomie ha precisato che: ”nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)”.
La disciplina appena novellata deve, quindi, necessariamente tener conto anche di una lettura costituzionalmente orientata posto che, nell’ipotesi in cui si dovesse aderire alla tesi che trattasi in ogni caso di spesa corrente eccezionalmente allocabile al titolo II della spesa, il finanziamento di tale spesa non potrebbe comunque avvenire mediante ricorso all’indebitamento stante il disposto dell’art. 119, ultimo comma, della Costituzione che vieta il ricorso all’indebitamento per il finanziamento di spesa corrente confermato anche dall’art. 10 della L. 24/12/2012 n. 243 che impone l’adozione di piani di ammortamento di durata non superiore alla vita utile dell'investimento, nonché dall’art. 202 del Tuel.
Tale normativa deve, poi, trovare corretto contemperamento con le disposizioni in tema di armonizzazione contabile ed in particolare, con riferimento alla locuzione “medesimo capitolo di spesa” contenuta nel comma 526, la Sezione osserva che, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 118/2011, la rappresentazione della spesa deve avvenire per missioni e programmi ove le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti dalle amministrazioni utilizzando risorse finanziarie, umane e strumentali ad esse destinate, mentre i programmi rappresentano gli aggregati omogenei di attività volte a perseguire gli obiettivi definiti nell'ambito delle missioni.
Nel piano esecutivo di gestione sono poi declinati i macro-aggregati di cui i capitoli e gli articoli costituiscono mere ripartizioni. Ed infatti il legislatore dell’armonizzazione ha sostituito all’art. 191 del Tuel, recante le regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese, i termini “intervento” o “capitolo” con i termini “programma” o “missione”.
Parimenti, sempre in tema di adeguamento alla disciplina di armonizzazione contabile, si rileva che il punto 5.2, dell’allegato 4/2 al D.Lgs. n. 118/2011 prescrive che le spese relative al trattamento accessorio e premiante, liquidate nell'esercizio successivo a quello cui si riferiscono, devono essere stanziate ed impegnate in tale esercizio.
Ad avviso di questa Sezione, inoltre,
la modifica normativa di cui al comma 526 della legge di stabilità 2018 è destinata a trovare applicazione soltanto a decorrere dal 01.01.2018. Infatti, come già chiarito dall’Anac, con comunicato del Presidente 06.09.2017, in ordine all’applicabilità temporale degli incentivi inerenti le funzioni tecniche in occasione dell’approvazione del nuovo codice dei contratti, deve ritenersi che “ciò che rileva ai fini dell’individuazione della disciplina normativa applicabile è il compimento delle attività oggetto di incentivazione” e pertanto la nuova disposizione è applicabile alle attività incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del su richiamato comma 526.
Ritiene conclusivamente la Sezione che la questione in esame, volta ad accertare la natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e l’eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L n. 205/2017, assuma notevole rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma 31, del D.L. n. 78/2009 e dell’art. 6, comma 4, del D.L. 10.10.2012 n. 174, al fine di garantire l’eventuale superamento di contrasti da parte delle Sezioni regionali di controllo ed un’interpretazione uniforme della disposizione recentemente introdotta dalla legge di stabilità 2018 che si inserisce in un contesto normativo per il quale risultano già intervenute la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo e da ultimo, le deliberazioni delle Sezioni delle Autonomie: deliberazione 13.05.2016 n. 18, deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24.
PQM
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Puglia sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alle Sezioni riunite in sede di controllo o alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del D.L. n. 78/2009 e dell’art. 6, comma 4, del D.L. 10.10.2012 n. 174, la questione di massima di cui alla presente deliberazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, deliberazione 09.02.2018 n. 9).

...laddove i primi due pronunciamenti "favorevoli" dell'anno in corso, sempre della Corte dei Conti, non convincono:

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHECorte dei conti, anche dal Friuli l’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti al salario accessorio.
Oltre alla Corte dei conti umbra che ha considerato risolta la questione degli incentivi tecnici collocandoli fuori dal fondo delle risorse decentrate, all'indomani delle modifiche inserite dal legislatore con la legge di bilancio 2018, la sezione del Friuli Venezia Giulia, nel
parere 02.02.2018 n. 6, conferma la posizione assunta dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7) che, avendo escluso questi incentivi dalle spese del personale, in quanto considerati all'interno del quadro economico dell'opera pubblica (servizi o forniture), li ha considerati, quindi, fuori dal calcolo del fondo delle risorse decentrate.
Le motivazioni dell'intervento legislativo
Il problema del il legislatore era nato proprio dalle conclusioni della Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 in merito al trattamento degli incentivi che erano stati dichiarati da un lato da considerare al di fuori delle spese di investimento e, dall'altro lato, essendo classificabili come spese correnti, da ricondurre all'interno della generalità degli incentivi normalmente attribuiti al personale dipendente, il cui importo non poteva più essere considerato escluso.
In effetti, il legislatore con l'approvazione del nuovo codice dei contratti (articolo 113 del Dlgs 50/2016) aveva escluso gli incentivi riferiti alla progettazione delle opere pubbliche (in considerazione di una concorrenza non leale da tempo indicata dagli ordini professionali), inserendo e mantenendo gli stessi alle altre attività collegate ai lavori pubblici (Rup, direttore dei lavori, programmazione delle opere pubbliche, responsabile della sicurezza e quant'altro) con estensione anche alla programmazione riferita ai servizi e forniture.
La Sezione delle Autonomie, essendo venuti meno i presupposti precedenti sulla esclusione dalla base di computo del salario accessorio, ne ha stabilito l’inclusione come tutti gli altri incentivi dati alla generalità dei dipendenti. Per il fatto di essere considerati come spese correnti, anche in riferimento alle attività dei lavori pubblici, gli incentivi tecnici non potevano più essere inseriti nel quadro economico dell'opera pubblica e, come tali, non potevano essere più ammessi a finanziamento. Proprio all'indomani di questa interpretazione la Cassa Depositi e Prestiti aveva indicato ai Comuni che non avrebbero potuto essere oggetto di mutuo le spese per il pagamento degli incentivi tecnici.
Rispetto ai due problemi sollevati dalla Sezione Autonomie nel trattamento degli incentivi tecnici, ossia da considerare all'interno del fondo del trattamento accessorio e al di fuori della spesa di investimento, è stato inserito, nella legge di bilancio 2018, all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 il comma 5-bis secondo cui «Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Il primo risultato che è stato sicuramente ottenuto riguarda il fatto che eventuali incentivi tecnici inseriti nel quadro economico dell'opera pubblica devono essere obbligatoriamente considerati investimenti e come tali finanziabili con mutuo da parte della Cassa Depositi e Prestiti o con altra risorsa non rinveniente dalla spesa corrente. Inoltre, il fatto che tali risorse siano inserite nel quadro economico dell'opera pubblica (servizio o fornitura) dovrebbero eliminare in radice il problema del fondo delle risorse decentrate in quanto non più classificabili all'interno della spesa del personale.
Le posizioni dei giudici contabili
I primi pareri emessi dalle Corti dei conti, a seguito della novella legislativa, possono essere così riassunti.
La Corte dei conti umbra, con il parere 05.02.2018 n. 14, li considera ora al di fuori del fondo accessorio, sposando in pieno le conclusioni cui era pervenuta la Sezione ligure con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58, in considerazione del fatto che lo stesso legislatore ha già previsto altre restrizioni non rinvenibili nella generalità degli altri dipendenti (in non superamento dell'importo del 50% del salario accessorio del dipendente; l'obbligo del previo regolamento sulla distribuzione delle risorse al solo personale che avesse oggettivamente partecipato alle attività; obbligo di inserimento nel quadro economico al fine di evitare una ulteriore espansione della spesa).
La Corte dei conti friulana, con il
parere 02.02.2018 n. 6, precisa, invece, come le modifiche apportate dal legislatore non intaccano l'impianto generale cui era pervenuta la Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7), ma la novella legislativa, considerando oragli incentivi tecnici all'interno dei quadri economici delle opere pubbliche (ovvero servizi o forniture), non può considerarli a carico dei capitoli della spesa del personale ma nel costo complessivo dell'opera, con la conseguenza che tali incentivi non debbano gravare sul fondo per le risorse decentrate.
I giudici contabili concludono evidenziando come gli enti dovranno dotarsi di un proprio regolamento al fine di evitare un possibile risarcimento del danno da parte dei dipendenti che aspirino alla remunerazione delle attività espletate, nonché procedere a una preventiva individuazione a bilancio delle risorse, a una successiva costituzione del fondo (80% dell'importo inserito nel limite del 2% dell'opera, servizio o fornitura) e, infine, all'individuazione delle modalità di ripartizione del fondo mediante contratto decentrato, in maniera tale da rispettare il principio di preventiva assegnazione degli obiettivi e di successiva verifica del loro raggiungimento (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.02.2018).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEAppalti, incentivi fuori dal tetto. Non confluiscono nel capitolo del trattamento accessorio. La Corte conti dell'Umbria analizza le modifiche apportate dalle legge di Bilancio.
Incentivi per le funzioni tecniche negli appalti fuori dal tetto di spesa del salario accessorio.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l'Umbria, con il parere 05.02.2018 n. 14, analizza le modifiche apportate al sistema degli inventivi derivanti dall'introduzione operata dalla legge 205/2017 del comma 5-bis nell'articolo 113 del codice dei contratti, rilevandone gli inevitabili effetti innovativi, tali da sovvertire le conclusioni cui era pervenuta la sezione autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24.
La sezione autonomie, come è noto, ha ritenuto che gli incentivi per le funzioni tecniche rientrino nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata. Ma, secondo la sezione umbra, tale lettura non regge più alla luce del mutato quadro normativo.
Il comma 5-bis dell'articolo 113 del codice dei contratti oggi stabilisce che «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture». Dunque, secondo la sezione Umbria «il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell'appalto).
Tale osservazione è fondamentale per superare le obiezioni poste a suo tempo dalla sezione autonomie: infatti, il dettato normativo assorbe il problema della «natura di tali incentivi (come spese corrente o spesa di investimento)» e della «circostanza che gli incentivi remunerino o meno prestazioni professionali tipiche». In sostanza, per la sezione Umbria non si pone più il problema della qualificazione della spesa come investimento o corrente e la novella normativa consente di individuare i soggetti aventi diritto all'incentivo tenendo conto delle funzioni «tecniche», garantendo l'incentivo ai dipendenti pubblici che le espletano.
Il parere 05.02.2018 n. 14 aggiunge che escludere gli incentivi delle funzioni tecniche dal tetto della contrattazione nemmeno «determina un ampliamento indeterminato della spesa in esame».
Infatti, l'ordinamento contiene già dei vincoli. Il primo deriva dalla necessità che gli incentivi trovino copertura negli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Sono quindi i quadri economici degli appalti a finanziare la spesa, entro il tetto massimo del 2%. In secondo luogo, al singolo dipendente non possono erogarsi incentivi di importo superiore del 50% rispetto al trattamento economico complessivo annuo lordo. Infine, modalità e criteri di ripartizione del fondo sono previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento, atto che vincola i dirigenti quando liquidano gli incentivi: sono i regolamenti la fonte a cui guardare per evitare erogazioni «a pioggia».
Dunque, conclude la Sezione Umbria, il nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 va letto nel senso che il fondo incentivante delle funzioni tecniche non rientra nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto previsto dall'articolo 23 del dlgs n. 75 del 2017, cioè il fondo del 2016.
Anche perché questa visione non comporta effetti espansivi della spesa, come del resto aveva già dimostrato la
deliberazione 29.06.2017 n. 58 della sezione di controllo per la Liguria, che però la sezione autonomie non aveva inteso considerare allo scopo di rivedere il proprio assunto.
Nel parere 05.02.2018 n. 14, la sezione Umbria esclude, inoltre, che le stazioni uniche appaltanti possano convenzionarsi con i comuni, applicando l'articolo 43 della legge 449/1997, che permette di offrire a soggetti pubblici o privati servizi aggiuntivi a titolo oneroso.
La sezione Umbria rileva che la disciplina delle attività quale stazione unica appaltante ricada in via esclusiva nell'ambito degli appalti pubblici e, dunque, risulti inquadrata solo nel dlgs 150/2016, per cui non è applicabile la normativa prevista dall'articolo 43 della legge 449/1997, fermo restando che «non sono preclusi accordi con ricorso ad altre norme dell'ordinamento giuridico, per regolamentare convenzioni» per regolare interventi «di natura diversa da quelli descritti dal dlgs. n. 50 del 2016» (articolo ItaliaOggi del 07.02.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEDalla Corte dei conti prima esclusione degli incentivi tecnici dai tetti al salario accessorio.
Gli incentivi per funzioni tecniche, dopo la modifica apportata dalla legge di bilancio, non rientrano nei limiti del salario accessorio fissati dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.

La prima interpretazione sull'inclusione o meno delle somme previste all'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016 nei tetti dei fondi arriva dalla Corte dei conti dell'Umbria con il parere 05.02.2018 n. 14.
Il problema
La questione è nota. La revisione delle modalità di erogazione degli incentivi contenuta nel Codice degli appalti ha acceso fin da subito un forte dibattito sulla natura di questi emolumenti. Mentre i compensi del Dlgs 163/2006 erano stati solidamente esclusi da ogni limite al trattamento accessorio complessivo delle pubbliche amministrazioni, quelli di nuova concezione hanno avuto uno stop da parte della Sezione autonomie della Corte dei conti, che nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24 dello scorso annone ha individuato una natura diversa, costringendo gli enti a monitorare attentamente tali somme nel rispetto dei vincoli.
La modifica normativa
La legge 205/2017 ha però aggiunto il comma 5-bis all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 prevedendo che gli incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture». La non chiarissima formulazione ha lasciato qualche dubbio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 15 gennaio) che al momento attuale è stato quantomeno respinto dalla Corte dei conti dell'Umbria.
Le indicazioni della Corte
Secondo i magistrati contabili, vi sono tre motivi per poter ritenere esclusi questi incentivi dal limite indicato dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, dove si prevede che il salario accessorio non superi il livello del 2016, e le argomentazioni si basano sul fatto che le norme vigenti fissano già dei vincoli precisi che “autolimitano” questa spesa:
   • il quadro economico determinato per il singolo lavoro (o fornitura/servizio) costituisce il primo e più importante limite alla spesa per gli incentivi tecnici, poiché il 2% richiamato dalla norma viene calcolato sulle somme predeterminate per il contratto da stipulare, non incidendo su ulteriori stanziamenti di bilancio;
   • gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente (anche da diverse amministrazioni) non possano superare l'importo del 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo;
   • le modalità e criteri di ripartizione del fondo sono previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di un regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, ma in ogni caso sarà impossibile determinarne un’erogazione a pioggia.
L'esclusione dal tetto del trattamento accessorio degli incentivi per funzioni tecniche consente peraltro di evitare effetti espansivi della spesa pubblica. E chissà se, a questo, punto, la questione tornerà per la parola «fine» alla sezione Autonomie della Corte dei conti (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.02.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE Nel sistema della incentivazione di cui all’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, l’Ente che si avvale di una Stazione Unica Appaltante non può ricorrere alle convenzioni previste dall’art. 43 della L. 449/1997 per regolare i rapporti con la stessa, ma deve fissare l’incentivo dovuto, secondo le modalità stabilite dal medesimo art. 113, commi 2 e 5.
  
I compensi di cui ai predetti commi 2 e 5 sono oggetto di apposita regolamentazione degli Enti interessati (Ente e S.U.A.).
  
Le somme per incentivazione ex art. 113 più volte citato non rientrano nei limiti di cui all’art. 23, comma 2, del D.lgs. n. 75/2017, alla stregua del comma 5-bis del ridetto art. 113 introdotto dalla legge di bilancio 2018.
...
  
● Circa
il primo quesito, gli interventi della Provincia, quale stazione unica appaltante nell’ambito degli appalti pubblici, trovano inquadramento giuridico nel d.lgs. n. 50 del 2016 e non possono rientrare nell’ambito di operatività di altre norme, come ad esempio l’art. 43 della legge 449 del 1997, norma richiamata dall’Ente.
Resta fermo che non sono preclusi accordi con ricorso ad altre norme dell’ordinamento giuridico, per regolamentare convenzioni che disciplinino interventi della Provincia di natura diversa da quelli descritti dal d.lgs. n. 50 del 2016.
Pertanto,
questo Collegio ritiene che le convenzioni che disciplinano gli interventi della Provincia quale stazione unica appaltante, nell’ambito del d.lgs. n. 50 del 2016, non possano essere considerate quali convenzioni ai sensi della legge n. 449 de 1997. Ne discende che i compensi previsti per l’attività di stazione appaltante possano ricondursi esclusivamente a quelli previsti dall’art. 113 del T.U. in materia di appalti.

  
● A
l fine di rispondere al secondo quesito, la Sezione ritiene che, alla luce del fatto che entrambe le disposizioni individuino una facoltà e non un obbligo regolamentato dalla legge, sia la stazione appaltante, che si avvale della centrale unica di committenza, a dover determinare se e in che parte destinare il fondo incentivante al personale dipendente di quest’ultima.
Tale facoltà, in considerazione dell’attività svolta dalla centrale di committenza, non può comunque essere arbitraria e deve trovare una propria disciplina nello strumento che il T.U. degli appalti individua al fine specificare le modalità di determinazione ed erogazione delle somme che compongono il fondo incentivante.
Il regolamento individuerà, nel rispetto di un criterio razionale e correttamente motivato, le modalità di costituzione del fondo in base alla tipologia di appalto, disciplinando i rapporti con altri enti, le modalità di calcolo, la ripartizione tra i singoli interventi, la ripartizione del fondo tra le varie attività (programmazione spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti di lavori, responsabilità del procedimento, direzione dei lavori, direttore dell’esecuzione, collaudatore/verificatore, ecc.).

Per quanto evidenziato,
ritiene questo Collegio che relativamente all'importo dell'incentivo di cui al comma 5 dell'articolo 113 citato, si debba fare riferimento alla regolamentazione adottata dall'Ente che si avvale della stazione appaltante della Provincia. Dal canto suo quest’ultima formula le richieste di cui al comma 5, sulla base di un proprio regolamento.
   ● Con riferimento al terzo quesito, la lettura del nuovo comma 5-bis dell’art. 113 citato, unita alla specialità della norma ed ai puntuali limiti di spesa intrinseci al quadro normativo descritto, consentono a questo Collegio di escludere il fondo di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (anche per le quote assegnate ai dipendenti delle centrali uniche di committenza ai sensi del comma 2, terzo periodo, e comma 5) dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa di cui all’art. 23 del d.lgs. 75 del 2017.

---------------
Con istanza del 24.11.2017, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria con nota del 04.01.2018 ed assunta al protocollo della Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Umbria l’08.01.2018 con il n. 11-08/01/2018-, il Presidente della Provincia di Perugia ha chiesto alla Sezione di controllo un parere circa la corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, con specifico riferimento al comma 5, in base al quale “Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.
La materia su cui verte la richiesta di parere è, quindi, riferita alla tematica degli incentivi tecnici disciplinati dall’art. 113 del citato decreto, ed alla disciplina ad essi applicabile nella fattispecie proposta dalla Provincia di Perugia.
Come noto, il comma 2 dell’art. 113 dispone che "a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico dei procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti."
Le risorse finanziarie del predetto fondo, per una quota pari all’80%, devono essere ripartite, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con modalità e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti (comma 3).
Definito il quadro normativo, la Provincia rappresenta che la stessa, con sempre con maggiore incidenza, è chiamata a svolgere attività di supporto agli Enti territoriali in diverse attività, riguardanti sia le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del Decreto legislativo n. 50 del 2016, sia le funzioni relative alla stazione appaltante per i comuni del territorio. Pertanto, vista la necessità di svolgere tale attività nel rispetto del quadro normativo esistente, formula tre distinti quesiti:
   1) se sia legittimo inquadrare la convenzione con l'Ente terzo, che si avvale della stazione appaltante della Provincia di Perugia ai sensi del comma 5 dell'articolo 113 citato, come convenzione stipulata ai sensi dell'art. 43 della Legge 449 del 1997, la quale prevede che le pubbliche amministrazioni possano stipulare (al fine di favorire l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati), convenzioni con soggetti pubblici (oltre a contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati) al fine di fornire a titolo oneroso consulenze e servizi aggiuntivi rispetto a quelli ordinari. Il 50 per cento dei ricavi netti, dedotti tutti i costi, ivi comprese le spese di personale, costituisce economia di bilancio;
   2) se sia possibile determinare, nell'accordo con il Comune contraente, l'importo dell'incentivo di cui al comma 5 dell'articolo 113 citato, fermo restando il limite massimo stabilito dalla norma, senza dover necessariamente fare riferimento alla regolamentazione adottata dall'Ente che si avvale della stazione appaltante della Provincia;
   3) se le somme erogate dai Comuni alla Provincia di Perugia ai sensi del citato comma 5, dell'articolo 113, del codice degli appalti rientrino o meno nei limiti previsti dall'articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017 e, qualora vi rientrino, se gli stessi debbano essere computati nei limiti suddetti da parte del Comune erogante o della Provincia ricevente, alla luce dell’orientamento della sezione delle Autonomie che con la deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha enunciato il principio in base a cui gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015, come riformulato dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017.
...
Nel merito i primi due quesiti riguardano l’attività di Stazione unica appaltante (SUA) prestata dalla Provincia in favore degli Enti locali che ne fanno richiesta, e come tale attività debba essere compensata da parte dell’Ente che usufruisce del servizio.
Il terzo quesito riguarda, invece, come i compensi dell’attività, sotto forma di quota/parte dei cd. incentivi tecnici (disciplinati dal comma 2 dell’art. 113 del D.lgs. n. 50 del 2016), riconosciuti ai sensi del comma 5 del citato art. 113, debbano essere computati ai fini del rispetto dei tetti di spesa del personale:
   - se le somme erogate dai Comuni alla Provincia di Perugia ai sensi del citato comma 5, dell'articolo 113, del codice degli appalti rientrino o meno nei limiti previsti dall'articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017;
   - se, qualora vi rientrino, gli stessi debbano essere computati nei limiti suddetti da parte del Comune erogante o della Provincia ricevente.
Per individuare un percorso interpretativo idoneo a dare soluzione ai quesiti posti all’esame di questo Collegio, occorre inquadrare correttamente il Testo unico in materia di appalti.
Il testo rappresenta una lex specialis in materia di appalti, norma che regolamenta tutti gli aspetti delle procedure con cui le pubbliche amministrazioni acquisiscono lavori, servizi e forniture. A tale regolamentazione non sfuggono gli istituti richiamati dalla Provincia di Perugia ed oggetto del presente parere.
L’art. 3, comma 1, lett. i), definisce centrale di committenza un'amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore che fornisce attività di centralizzazione delle committenze e, se del caso, attività di committenza ausiliarie.
L’art. 37, comma 3, dispone poi che le stazioni appaltanti che non posseggono i requisiti di qualificazione (di cui al successivo art. 38), debbono necessariamente procedere all’acquisizione di forniture, servizi e lavori ricorrendo a una centrale di committenza ovvero mediante aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualifica.
Il comma 4 dispone, ancora, che se la stazione appaltante è un Comune non capoluogo di provincia, può procedere in soli tre modi:
   a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati;
   b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall’ordinamento;
   c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso le province, le città metropolitane ovvero gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. Stazione unica che rappresenta anch’essa una centrale di committenza.
Quest’ultima può aggiudicare appalti, stipulare ed eseguire i contratti per conto delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori, stipulare accordi quadro ai quali le stazioni appaltanti qualificate possono ricorrere per l’aggiudicazione dei propri appalti. Infine, possono gestire sistemi dinamici di acquisizione e mercati elettronici.
A chiusura dell’ambito degli interventi previsti dalla norma, il comma 8 dispone che le centrali di committenza qualificate possono svolgere attività di committenza ausiliarie in favore di altre centrali di committenza o per una o più stazioni appaltanti. Pertanto, la Provincia di Perugia fornisce i propri servizi di stazione appaltante unica in un quadro dettagliatamente regolamentato che prevede pressoché tutte le tipologie di intervento nell’ambito degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Quanto evidenziato consente di giungere alla conclusione che
gli interventi della Provincia di Perugia, quale stazione unica appaltante nell’ambito degli appalti pubblici, trovino inquadramento giuridico nel d.lgs. n. 50 del 2016 e non possano rientrare nell’ambito di operatività di altre norme, come ad esempio l’art. 43 della legge 449 del 1997, norma richiamata dall’Ente.
Resta fermo che non sono preclusi accordi con ricorso ad altre norme dell’ordinamento giuridico, per regolamentare convenzioni che disciplinino interventi della Provincia di natura diversa da quelli descritti dal d.lgs. n. 50 del 2016.
Pertanto,
questo Collegio ritiene che le convenzioni che disciplinano gli interventi della Provincia quale stazione unica appaltante, nell’ambito del d.lgs. n. 50 del 2016, non possano essere considerate quali convenzioni ai sensi della legge n. 449 de 1997. Ne discende che i compensi previsti per l’attività di stazione appaltante possano ricondursi esclusivamente a quelli previsti dall’art. 113 del T.U. in materia di appalti.
Tale norma, in realtà prevede due fattispecie apparentemente identiche: quella del comma 2, terzo periodo in base al quale “Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo (del primo periodo) o parte di esso ai dipendenti di tale centrale…”. Il comma 5, richiamato dall’ente nella richiesta di parere prevede che “Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Le due norme apparentemente sembrano regolamentare, in modo difforme, una medesima fattispecie. La prima intesta in capo agli enti che si avvalgono di una centrale unica di committenza, la possibilità di destinare il fondo per gli incentivi tecnici (o una parte di esso) ai dipendenti della predetta centrale, e senza alcun limite (se non quello del 2% previsto dal primo periodo).
Di contro, il comma 5 prevede che una parte del fondo incentivante possa essere destinato al personale della centrale unica di committenza nel limite del 25% del fondo e su richiesta della centrale unica.
Pur non essendo oggetto del parere, ritiene questa Sezione che l’apparente discrasia possa essere risolta considerando la fattispecie del secondo comma riferita al personale dipendente della centrale unica che svolge le mansioni individuate dal medesimo comma (mansioni tecniche).
Diversamente, il comma 5 potrebbe riguardare l’incentivazione del personale dipendente della centrale unica che svolge, nell’ambito delle procedure d’appalto, le funzioni ausiliare e, pertanto, non propriamente individuabili nell’ambito delle funzioni tecniche tipizzate nel comma secondo dell’art. 113.
Al di là della problematica riscontrata, al fine di rispondere al secondo quesito posto dalla Provincia,
la Sezione ritiene che, alla luce del fatto che entrambe le disposizioni individuino una facoltà e non un obbligo regolamentato dalla legge, sia la stazione appaltante, che si avvale della centrale unica di committenza, a dover determinare se e in che parte destinare il fondo incentivante al personale dipendente di quest’ultima.
Tale facoltà, in considerazione dell’attività svolta dalla centrale di committenza, non può comunque essere arbitraria e deve trovare una propria disciplina nello strumento che il T.U. degli appalti individua al fine specificare le modalità di determinazione ed erogazione delle somme che compongono il fondo incentivante.
Il regolamento individuerà, nel rispetto di un criterio razionale e correttamente motivato, le modalità di costituzione del fondo in base alla tipologia di appalto, disciplinando i rapporti con altri enti, le modalità di calcolo, la ripartizione tra i singoli interventi, la ripartizione del fondo tra le varie attività (programmazione spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti di lavori, responsabilità del procedimento, direzione dei lavori, direttore dell’esecuzione, collaudatore/verificatore, ecc.).

Per quanto evidenziato,
ritiene questo Collegio che relativamente all'importo dell'incentivo di cui al comma 5 dell'articolo 113 citato, si debba fare riferimento alla regolamentazione adottata dall'Ente che si avvale della stazione appaltante della Provincia. Dal canto suo quest’ultima formula le richieste di cui al comma 5, sulla base di un proprio regolamento.
Infine,
il terzo quesito consente a questo Collegio di affrontare la problematica concernente la corretta computazione degli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (e conseguentemente della quota parte di cui al comma 5 del medesimo articolo), nell’ambito della spesa del personale.
Più precisamente, con il quesito posto, la Provincia chiede di conoscere se il fondo per gli incentivi tecnici debba essere computato nei limiti disposti sul trattamento accessorio dall'articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017 in base al quale “l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
In caso di risposta positiva, la Provincia chiede, poi, se gli stessi incentivi debbano essere computati nei suddetti limiti da parte del Comune erogante o della Provincia ricevente.
Sul quesito si è pronunciata la Sezione delle Autonomie che con la deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha enunciato il principio in base a cui gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017.
Occorre ricordare che relativamente agli incentivi tecnici (incentivi alla progettazione) disciplinati dalla precedente normativa (ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006), le Sezioni Riunite, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, e la giurisprudenza contabile, avevano escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione.
Anche la Sezione della Autonomie, con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16, aveva disposto, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296, l’esclusione degli incentivi per la progettazione interna a motivo della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
Invece, a seguito della novella legislativa relativa al T.U. sugli appalti (d.lgs. n. 75 del 2016) la Sezione delle Autonomie, con la citata deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche rientrino nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata (per le argomentazioni si rinvia alla delibera citata).
Su tale orientamento la Sezione di controllo Liguria ha sottoposto all’attenzione della Sezione delle autonomie una rimeditazione della problematica in esame, come da deliberazione 29.06.2017 n. 58. La Sezione delle Autonomie ha dichiarato inammissibile la remissione della questione da parte della Sezione ligure confermando il proprio orientamento restrittivo (v.
deliberazione 10.10.2017 n. 24).
Trattasi di orientamento che avrebbe trovato applicazione anche alla fattispecie evidenziata dalla Provincia di Perugia se nelle more tra l’invio della richiesta di parere e l’esame da parte di questo Collegio il quadro normativo non fosse mutato.
La legge di bilancio 2018 (legge 27.12.2017, n. 205), con il comma 526 dell’articolo 1, ha, infatti, aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il comma 5-bis il cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo
il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto.
Ciò consente di ritenere assorbito nel dettato normativo: a) la natura di tali incentivi (come spesa corrente o spesa di investimento); b) la circostanza che gli incentivi remunerino o meno prestazioni professionali tipiche.
Alla luce di quanto sopra,
i “nuovi” incentivi vanno visti con un’angolazione che si allontana dalle motivazioni della precedente giurisprudenza contabile.
In base alla norma in riferimento, l’individuazione dei soggetti aventi diritto all’incentivo avviene tenendo conto delle funzioni “tecniche”, garantendo l’incentivo ai dipendenti pubblici che le espletano.
L’istituto in esame ha certamente un respiro differente e maggiore rispetto a quello del vecchio testo dell’art. 93 del d.lgs. 163 del 2006.
Peraltro,
l’esclusione degli incentivi dal computo rilevante ai fini del rispetto dei tetti spesa del personale previsti dalla normativa vigente, non determina un ampliamento indeterminato della spesa in esame in quanto lo stesso sistema normativo contiene regole che consentono di determinare e contenere la spesa del personale, evitando che la stessa assuma un carattere incontrollato.
Al riguardo va evidenziato che la disciplina in esame fissa criteri e limiti che autolimitano la spesa per incentivi:
   1) il fondo incentivante deve trovare copertura negli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti (comma 2).
Pertanto, il quadro economico determinato per il singolo lavoro (o fornitura/servizio) costituisce il primo e più importante limite alla spesa per gli incentivi tecnici, poiché il 2% richiamato dalla norma viene calcolato sulle somme predeterminate per il contratto da stipulare, non incidendo su ulteriori stanziamenti di bilancio.
Ed ancora, tali risorse finanziarie non sono prefissate nell’ammontare massimo, ma vanno modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara, potendo essere calcolate in misura inferiore in base alla tipologia di lavoro, servizio e fornitura da espletare;
   2) altro limite individuato dalla norma, forse il più rilevante, è disposto dal comma 3, che prescrive che gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente (anche da diverse amministrazioni) non possano superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.
Tale importo assume la valenza di tetto di spesa individuale invalicabile a fronte del quale nessun dipendente pubblico può percepire somme superiori al limite indicato;
   3) inoltre, modalità e criteri di ripartizione del fondo sono previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
Ebbene,
il regolamento è lo strumento utile al fine di verificare, anche da parte dei giudici contabili, che gli incentivi non vengano distribuiti a pioggia ma realizzando una finalità realmente incentivante che tenga conto delle attività concretamente svolte.
Tanto è vero che, sempre ai sensi del terzo comma, la corresponsione dell'incentivo “è disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
I limiti evidenziati si applicheranno anche al personale della centrale unica di committenza (nel caso di specie la Provincia di Perugia) con riferimento alle quote del fondo che saranno attribuite allo stesso ai sensi del comma 5 (e del comma 2, terzo periodo).
In conclusione, con riferimento al terzo quesito posto dall’Ente,
la lettura del nuovo comma 5-bis dell’art. 113 citato, unita alla specialità della norma ed ai puntuali limiti di spesa intrinseci al quadro normativo descritto, consentono a questo Collegio di escludere il fondo di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (anche per le quote assegnate ai dipendenti delle centrali uniche di committenza ai sensi del comma 2, terzo periodo, e comma 5) dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa di cui all’art. 23 del d.lgs. 75 del 2017.
Scelta, questa, che consente di evitare effetti espansivi della spesa, come dimostrato dalla citata delibera della Sezione di controllo per la Liguria alla quale si rinvia per gli approfondimenti necessari (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 05.02.2018 n. 14).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHECome previsto dalla L. 205/2017, dal 2018 gli incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Porcia (PN) formulava alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui rappresentava:
   - con l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016 gli incentivi per funzioni tecniche sono da intendersi spese di funzionamento e non più di investimento, e come tali sono da includere nel limite del fondo per le risorse decentrate;
   - la necessità di rivisitare il fondo risorse decentrate 2016 includendo gli incentivi per funzioni tecniche 2016, in modo da rendere omogeneo il calcolo con il fondo 2017;
   - la necessità di stabilire in sede di contrattazione che lo spazio così attivato sarà utilizzato, anche per gli anni futuri, solamente per gli incentivi per funzioni tecniche.
...
Sull’argomento, l’Ente richiedente segnala che:
   - il diritto al compenso incentivante è il risultato di una fattispecie complessa che vede, tra i suoi elementi costitutivi, l'approvazione del Regolamento atto a definire i criteri di ripartizione dell'incentivo, quale presupposto preso in considerazione dalla legge affinché possa dirsi completa una fattispecie produttiva di diritto patrimoniale.
Nel momento in cui si concludono tutti gli elementi costitutivi dell'iter (fase amministrativa, fase negoziale, fase esecutiva e di controllo) di cui l'approvazione del regolamento è elemento fondamentale, si matura in capo al dipendente pubblico un diritto soggettivo all'erogazione del compenso, che potrebbe essere fatto valere avanti all'autorità giudiziaria, con ripercussioni negative per l'Ente;
   - il dipendente interessato potrebbe -davanti all'inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione- procedere a richiedere il risarcimento del danno per l’inottemperanza maturata;
   - la giurisprudenza contabile, con riguardo alle spese per il personale, ha considerato ammissibili operazioni di riquantificazione della spesa corrente atte a garantire ex post la comparabilità dei dati della serie storica, operando in tal modo correttivi idonei a neutralizzare, ai fini della verifica dell'andamento del rapporto fra i due aggregati di spesa considerati dalla norma in questione, le conseguenze distorsive derivanti dall'applicazione di diversi criteri di contabilizzazione per il medesimo fatto gestionale ugualmente verificatosi in diverse annualità prese a riferimento ed a ricondurre ad omogeneità, cosi facendo, i dati relativi alle grandezze da comparare.
La Sezione delle Autonomie, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, confermata con successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24, ha stabilito che:
   1. l'incentivazione delle funzioni tecniche di cui all'art. 113, c. 2, del D.lgs. 5012016 non è sovrapponibile all'incentivo per la progettazione di cui all'art. 93, comma 7-bis, del D.Lgs. 163/2006, in quanto la prima remunera specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle di programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell'esecuzione del contratto escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione.
Prosegue: “Diversamente dispone l’art. 113, c. 1, per ‘gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell’esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento’ i quali ‘fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti’.
   2. Inoltre “nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).”;
   3. tali incentivi sono, pertanto, inclusi nel limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.
Dall’altra parte, varie deliberazioni di Sezioni regionali, tra cui la Sezione Regionale di controllo per la Liguria nella deliberazione 29.06.2017 n. 58, concordano che un'interpretazione "restrittiva" (che vede gli incentivi entro il tetto di spesa per il trattamento accessorio) determinerebbe la violazione del principio di omogeneità tra i dati oggetto di comparazione.
Di contro,
sull’argomento è intervenuta la finanziario 2018 (L. 27.12.2017, n. 205), che al c. 526 recita “All'articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».” Da ciò si evince che gli incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera.
Si deve ricordare, comunque, la necessità da parte dell’Ente di provvedere alla predisposizione del Regolamento previsto dalla normativa, per non incorrere in quanto previsto dalla Cassazione Civile nella sentenza 19.07.2004 n. 13384, con la quale è stato riconosciuto il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
Inoltre, si ricorda quanto affermato da questa Sezione con la deliberazione n. 51/2016: “
Conclusivamente, anche con riferimento al comparto unico del pubblico impiego regionale e locale, nel procedere all’erogazione di compensi legati a progetti per il miglioramento della “performance” nei servizi di polizia locale, si devono categoricamente escludere interventi in sanatoria, dovendosi necessariamente procedere ad una preventiva individuazione a bilancio delle risorse, ad una successiva costituzione del fondo ed infine all'individuazione delle modalità di ripartizione del fondo mediante contratto decentrato, in maniera tale da rispettare il principio di preventiva assegnazione degli obiettivi e di successiva verifica del loro raggiungimento.”
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per il Friuli Venezia Giulia esprime il proprio motivato avviso sul quesito riportato in epigrafe nei seguenti termini:
Si ribadisce l’impianto determinato dalla Sezione Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, secondo la quale le spese per incentivi tecnici non debbano gravare sul fondo per le risorse decentrate. Come previsto dalla L. 205/2017, dal 2018 gli incentivi dovranno essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera” (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 02.02.2018 n. 6).

 

BOX:
ancora sulla gratuità totale -o meno- del titolo edilizio abilitativo circa il contributo di costruzione:

EDILIZIA PRIVATA: Per effetto dell’art. 69, comma 1, della l.r. lombarda 12/2005 “non è più necessaria -neppure- la pertinenzialità come requisito per l’esenzione dagli oneri concessori e comunque per i parcheggi obbligatori la costituzione di un vincolo di pertinenza è presunta e non necessaria agli effetti urbanistici”.
Tale disposizione, come da ultimo è stato osservato, ha introdotto “il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l'utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l'abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge)".
---------------
La realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, 1° comma, della L. n. 122/1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori.
Tale approdo –dal quale non si ravvisano motivi per discostarsi- è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di merito ed è appena il caso di precisare che non si pone –come inesattamente segnalato dall’appellante– alcuna problematica di interpretazione “restrittiva” della norma.
---------------
Per tali ragioni il ricorso merita di essere accolto e, quale effetto conformativo, il Comune dovrà rifondere alla società ricorrente il costo di costruzione, calcolato ai sensi del DM 10.05.1977, n. 801, relativamente alle aree destinate a parcheggio, defalcandolo da quello riferito alle restanti opere.
Tale statuizione è reputata equa e preferibile rispetto all’accettazione del conteggio allegato dalla ricorrente, la quale infatti, nell’atto introduttivo del giudizio, ha prospettato l’esistenza di un margine di dubbio sotto il profilo dell’attendibilità delle somme calcolate, pur essendo provata l’illegittimità e quindi l’abnormità dell’originaria quantificazione.
Su tali somme, una volta determinate, spettano, anzitutto, gli interessi legali, o meglio gli interessi corrispettivi fondati sulla naturale fecondità del denaro, e che prescindono, pertanto, dai profili di colpa pure dedotti dalla società ricorrente.
Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria. In linea generale, occorre considerare che le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che “il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell'art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta; e che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l'onere del creditore –che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato– di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva”.
---------------

Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto nei termini e nei limiti di seguito precisati.
Con i primi due motivi, che per stretta dipendenza tematica possono essere esaminati congiuntamente, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 69 della legge regionale 12/2005, in cui si prevede che “i parcheggi, pertinenziali e non pertinenziali, realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge, costituiscono opere di urbanizzazione e il relativo titolo abilitativo è gratuito” (comma 1) e che “ai fini del calcolo del costo di costruzione, le superfici destinate a parcheggi non concorrono alla definizione della classe dell'edificio” (comma 2).
La disposizione di tale legge, pubblicata sul BURL del 16.03.2005 ed entrata in vigore il successivo 31 marzo, è applicabile alla fattispecie, caratterizzata dalla richiesta di un primo permesso di costruire in data 29.07.2005 (cui è seguito il rilascio del titolo in data 24.08.2006) e di un successivo permesso in data 25.02.2009 (cui è seguito il rilascio del titolo in data 08.03.2010).
Il che, invero, consente di fare ordine tra le diverse sentenze che si sono pronunciate sulla questione della computabilità, nel costo di costruzione, delle superfici destinate a parcheggio o a quelle, lato sensu, a queste ultime riconducibili, e che, sotto altro –non meno secondario– aspetto rivelano l’infondatezza delle ragioni ostative opposte dall’Amministrazione resistente.
Segnatamente, con la sentenza n. 2151 del 29.07.2014, richiamata dall’Amministrazione nella memoria del 15.12.207, la Sezione ha statuito di uniformarsi “all’orientamento (…) che afferma che, nel caso di realizzazione di edifici nuovi, le autorimesse rilevano ai fini dell’individuazione della classe (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 21.05.2013, n. 2771; id. 18.12.2012, n. 6509; TAR Lombardia Milano, sez. II, 20.03.2014, n. 722)” e che “a conclusioni diverse non può condurre né il richiamato art. 2 della l.r. n. 22 del 1999 né l’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005”, ma decisivamente osservando che “il primo in quanto inserito in un contesto normativo che induce ad armonizzarne la portata alle disposizioni contenute nella legge n. 122 del 1989 (si rinvia alle esaustive motivazioni contenute nella citata sentenza del Consiglio di Stato n. 6509 del 2012); il secondo in quanto norma sopravvenuta che non può trovare applicazione nelle fattispecie concretizzatesi prima della sua entrata in vigore”.
Nella controversia esaminata nell’occasione, infatti, è stato rilevato che “il titolo edilizio riguardante le autorimesse realizzate dalla ricorrente si è perfezionato prima dell’entrata in vigore dell’art. 69 della l.r. n. 12 del 2005, e che le medesime autorimesse sono connesse ad un edificio di nuova costruzione”.
Tale pronuncia ha ripreso ed ampliato alcune considerazioni contenute nella sentenza n. 6509 del 18.12.2012, con cui la V Sezione del Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che “l’art. 1 della legge regionale n. 22/1999 richiama espressamente la citata disciplina dettata dalla legge n. 122 del 1989 in materia di parcheggi pertinenziali. Lo stesso articolo 1, al comma 2, della legge regionale impone la creazione del vincolo pertinenziale mediante atto unilaterale dell'avente titolo sull'immobile, cui il box deve essere collegato, mediante atto unilaterale da trascrivere nei registri immobiliari”: tesi, queste, opposte dal Comune di Busto Arsizio nel presente giudizio, ma che la citata giurisprudenza ha riferito a titoli formatisi anteriormente all’entrata in vigore della “disciplina più favorevole dettata dall’art. 69 della sopravvenuta legge regionale n. 12/2005”.
Un profilo, questo, reputato dirimente anche dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, che nella sentenza n. 4936 del 24.11.2016 ha confermato la sentenza della Sezione n. 3751 del 15.05.2009 (relativa ad un giudizio riguardante il Comune di Busto Arsizio per una fattispecie che si riferiva ad “interventi assentiti con la DIA del 30.04.2004 e il 18.01.2005”, definito con sentenza di accoglimento e con esclusione delle aree a parcheggio dal conteggio del costo di costruzione), incidentalmente evidenziando come per effetto dell’art. 69, comma 1, della legge regionale 12/2005 “non sarebbe più necessaria neppure la pertinenzialità come requisito per l’esenzione dagli oneri concessori e comunque per i parcheggi obbligatori la costituzione di un vincolo di pertinenza sarebbe presunta e non necessaria agli effetti urbanistici (il collegamento con l’abitazione principale emergerebbe direttamente dal progetto complessivo dell’intervento edilizio)”.
Tale disposizione, come da ultimo è stato osservato, ha introdotto “il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l'utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l'abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge)" (TAR Lombardia, Brescia, II, 24.05.2013, n. 508)” (cfr. TAR Lombardia–Brescia, 11.09.2017, n. 1087).
Infondato è, poi, l’assunto difensivo del Comune secondo cui, trattandosi, di “box e autorimesse al piano interrato ad uso e consumo dei proprietari dell'immobile costruito” (cfr. pag. 3 della memoria del 15.12.2017), l’invocata disciplina regionale non potrebbe trovare applicazione.
Sul punto va, invece, ribadito l’orientamento secondo cui “la realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, 1° comma, della L. n. 122/1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna. Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori” (Cons. Stato Sez. IV, 13.07.2011, n. 4234).
Tale approdo –dal quale non si ravvisano motivi per discostarsi- è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di merito (tra le tante TAR Umbria Perugia Sez. I, 14.06.2006, n. 316 TAR Piemonte, 27.11.2002, n. 1982) ed è appena il caso di precisare che non si pone –come inesattamente segnalato dall’appellante– alcuna problematica di interpretazione “restrittiva” della norma (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2013, n. 1480).
Per tali ragioni il ricorso merita di essere accolto e, quale effetto conformativo, il Comune di Busto Arsizio dovrà rifondere alla società ricorrente il costo di costruzione, calcolato ai sensi del DM 10.05.1977, n. 801, relativamente alle aree destinate a parcheggio, defalcandolo da quello riferito alle restanti opere. Tale statuizione è reputata equa e preferibile rispetto all’accettazione del conteggio allegato dalla ricorrente, la quale infatti, nell’atto introduttivo del giudizio, ha prospettato l’esistenza di un margine di dubbio sotto il profilo dell’attendibilità delle somme calcolate, pur essendo provata l’illegittimità e quindi l’abnormità dell’originaria quantificazione.
Su tali somme, una volta determinate, e venendo al terzo motivo di ricorso, spettano, anzitutto, gli interessi legali, o meglio gli interessi corrispettivi fondati sulla naturale fecondità del denaro, e che prescindono, pertanto, dai profili di colpa pure dedotti dalla società ricorrente.
Con riguardo alla decorrenza, trattandosi di crediti liquidi ed esigibili, si dovrà tenere conto dei singoli momenti di pagamento (per le due rate, di pari importo, relative al primo permesso di costruire, il 22.02.2008 e il 06.08.2009; per le due rate, di pari importo, relative al secondo permesso di costruire, il 05.07.2012 e l’08.03.2013).
Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria.
In linea generale, occorre considerare che le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che “il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell'art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (SS.UU., sentenza n. 5743 del 23/03/2015); e che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l'onere del creditore –che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato– di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (SS.UU., sentenza n. 19499 del 16/07/2008)” (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile, 05.11.2015, n. 22664).
Nella specie, però, la prova del maggior danno non è stata allegata.
La ricorrente si è, infatti, limitata a richiamare una pronuncia (Corte di Cassazione, sez. I, 26.09.2013, n. 22096, incentrata sulla figura dell’imprenditore commerciale), il cui principale merito, nell’evoluzione giurisprudenziale che ha investito la questione, è stato quello di aver contribuito, mediante l’affermazione della sufficienza di una prova presuntiva, al superamento sia della più risalente impostazione fondata su un regime probatorio che difficilmente consentiva di ammettere la deroga alla presunzione iuris et de iure del danno pari all'interesse legale (cfr. Corte di Cassazione, 12.12.1978, n. 5895), sia dell’orientamento, diametralmente opposto, favorevole alla “prova automatica” del maggior danno, cioè, in altri termini, all’avallo di una petizione di principio.
Nella giurisprudenza della Suprema Corte si è, tuttavia, fatta strada una diversa opzione ermeneutica, secondo cui “ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero -attraverso la produzione dei bilanci- quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale” (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, 24.01.2014, n. 1506).
In sostanza, vi è stato un alleggerimento dell’onere probatorio sul piano dell’an, non essendo imposto all’imprenditore commerciale di fornire una prova specifica del danno, causalmente ricollegabile alla svalutazione. Ma l’ausilio derivante dalla matrice presuntiva non può, però, tradursi, ad avviso del Collegio, nell’elusione di una puntuale indicazione del quantum del pregiudizio: diversamente opinando, si rischierebbe di impropriamente assimilare le obbligazioni di valuta con quelle di valore.
Sotto tale profilo, le deduzioni e le allegazioni probatorie della società ricorrente sono state generiche ed inconsistenti, né la condotta dell’Amministrazione, come sostenuto, può reputarsi affetta da malafede, dovendosi, al contrario, ritenere persuasivo l’assunto della difesa comunale secondo cui la computabilità delle superfici a parcheggio nel calcolo del costo di costruzione costituisse oggetto di una interpretazione controversa a causa delle oscillazioni registrate in giurisprudenza.
In conclusione, il ricorso va accolto, nei sensi e nei limiti espressi in motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.01.2018 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 11 della legge 24.03.1989, n. 122 che <<Le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10>>. Come noto la legge n. 122 del 1989 è stata emanata al fine di porre rimedio al problema della carenza di spazi destinati a parcheggio delle autovetture ed ha, quindi, proprio ad oggetto gli interventi consistenti nella realizzazione di parcheggi ed autorimesse.
La disposizione è pertanto chiara nell’assimilare (senza condizione alcuna) tale tipologia di interventi alle opere di urbanizzazione le quali –ai sensi del richiamato art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 (norma oggi riprodotta nell’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380)– sono esenti dal contributo di costruzione.
Anche la normativa regionale dettava e detta disposizioni analoghe a quella appena illustrate.
In tal senso già disponeva l’art. 2, comma 2, della legge della Regione Lombardia 19.11.1999, n. 22, vigente all’epoca di presentazione della DIA di cui è causa, il quale stabiliva che <<I parcheggi sono considerati opere di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge 10/1977 …>>; e prima ancora l’art. 4, comma 4, della legge regionale n. 60 del 1977 (Norme di attuazione della legge 28.01.1977, n. 10, in materia di edificabilità dei suoli) ai sensi del quale <<i volumi e gli spazi destinati al ricovero di autovetture non sono computati, salvo che per la quota eccedente quella richiesta obbligatoriamente per parcheggio>>.
Oggi queste norme sono riprodotte nell’art. 69, primo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, il quale ha peraltro eliminato il vincolo di pertinenzialità e il limite quantitativo previsti dalla previgente normativa.
Va poi osservato che, sebbene vi siano ancora pareri discordanti, la più recente giurisprudenza –cui la Sezione rivedendo le proprie precedenti posizioni intende in questa sede uniformarsi– ritiene che la normativa di favore appena illustrata si riferisca, non solo alle autorimesse relative ad edifici esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 122 del 1989 (e quindi realizzate in epoca successiva), ma anche a quelle relative ad edifici nuovi.
Ciò in quanto l’art. 11 della legge n. 122 del 1989 si riferisce –come visto– a tutti gli interventi disciplinati da tale legge, compresi quindi quelli contemplati dall’art. 2 che, introducendo l’art. 41-sexies alla legge n. 1150 del 1942, ha dettato una specifica disciplina relativa ai parcheggi posti a servizio di nuovi edifici.
---------------

10. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato, essendo meritevole di accoglimento il primo motivo di ricorso, avente carattere assorbente, con il quale la ricorrente deduce la violazione dell’art. 11 della legge 24.03.1989, n. 122 e dell’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; norme che, a suo dire, escluderebbero la possibilità di computare la superficie delle autorimesse al fine della determinazione dell’ammontare del contributo dovuto a titolo di costo di costruzione.
11. Al riguardo si osserva quanto segue.
12. Stabilisce l’art. 11 della legge 24.03.1989, n. 122 che <<Le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10>>. Come noto la legge n. 122 del 1989 è stata emanata al fine di porre rimedio al problema della carenza di spazi destinati a parcheggio delle autovetture ed ha, quindi, proprio ad oggetto gli interventi consistenti nella realizzazione di parcheggi ed autorimesse.
13. La disposizione è pertanto chiara nell’assimilare (senza condizione alcuna) tale tipologia di interventi alle opere di urbanizzazione le quali –ai sensi del richiamato art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 (norma oggi riprodotta nell’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380)– sono esenti dal contributo di costruzione.
14. Anche la normativa regionale dettava e detta disposizioni analoghe a quella appena illustrate.
In tal senso già disponeva l’art. 2, comma 2, della legge della Regione Lombardia 19.11.1999, n. 22, vigente all’epoca di presentazione della DIA di cui è causa, il quale stabiliva che <<I parcheggi sono considerati opere di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge 10/1977 …>>; e prima ancora l’art. 4, comma 4, della legge regionale n. 60 del 1977 (Norme di attuazione della legge 28.01.1977, n. 10, in materia di edificabilità dei suoli) ai sensi del quale <<i volumi e gli spazi destinati al ricovero di autovetture non sono computati, salvo che per la quota eccedente quella richiesta obbligatoriamente per parcheggio>>.
Oggi queste norme sono riprodotte nell’art. 69, primo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, il quale ha peraltro eliminato il vincolo di pertinenzialità e il limite quantitativo previsti dalla previgente normativa.
15. Va poi osservato che, sebbene vi siano ancora pareri discordanti, la più recente giurisprudenza –cui la Sezione rivedendo le proprie precedenti posizioni (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 29.07.2014, n. 2151; id. 20.03.2014, n. 722 che richiama Consiglio di Stato, sez. V, 18.12.2012 n. 6509) intende in questa sede uniformarsi– ritiene che la normativa di favore appena illustrata si riferisca, non solo alle autorimesse relative ad edifici esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 122 del 1989 (e quindi realizzate in epoca successiva), ma anche a quelle relative ad edifici nuovi.
Ciò in quanto l’art. 11 della legge n. 122 del 1989 si riferisce –come visto– a tutti gli interventi disciplinati da tale legge, compresi quindi quelli contemplati dall’art. 2 che, introducendo l’art. 41-sexies alla legge n. 1150 del 1942, ha dettato una specifica disciplina relativa ai parcheggi posti a servizio di nuovi edifici (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 24.11.2016, n. 4937; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 11.09.2017, n. 1087).
16. Per tutte queste ragioni, va ribadita la fondatezza del ricorso.
17. Di conseguenza, il Comune di Rho ha l’obbligo di calcolare il contributo dovuto per costo di costruzione, relativo al titolo edilizio indicato in precedenza, scomputando la superficie delle autorimesse.
18. La non univocità degli orientamenti giurisprudenziali sui punti decisivi della controversia induce il Collegio a disporre la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.01.2018 n. 270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La legge 122/1989 prevede (art. 9, comma 1) che “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni”.
La norma, nella sua formulazione letterale, è univoca nel senso di ammettere la realizzazione, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, dei soli parcheggi “nel sottosuolo” o al “piano terreno dei fabbricati”.
Omogeneamente, l’art. 66, comma 1, della l.r. 11.03.2005 n. 12 ha previsto che “i proprietari di immobili e gli aventi titolo sui medesimi possono realizzare nel sottosuolo degli stessi o di aree pertinenziali esterne, nonché al piano terreno dei fabbricati, nuovi parcheggi, da destinarsi a pertinenza di unità immobiliari residenziali e non, posti anche esternamente al lotto di appartenenza, senza limiti di distanza dalle unità immobiliari cui sono legati da rapporto di pertinenza, purché nell'ambito del territorio comunale o in comuni contermini, ai sensi dell'articolo 9 della legge 24.03.1989, n. 122”.
L’utilizzo del termine “nel sottosuolo” non consente di estendere la deroga a manufatti che siano solo parzialmente interrati, come accade nel caso di specie.
La necessità di adottare una interpretazione letterale e l’impossibilità di accedere a letture estensive discende, come affermato dalla giurisprudenza, dalla natura eccezionale della norma, che introduce possibilità edificatorie in deroga agli strumenti urbanistici vigenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.11.2004 n. 7773, secondo cui: “La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita").
A tale interpretazione, d’altronde, ha aderito la giurisprudenza prevalente.
Ne deriva che il rispetto dell’esigenza rappresentata dall’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122 (realizzabilità di parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari esclusivamente nel sottosuolo, per l'intera altezza: regola, quanto alla fattispecie in esame, non rispettata), con carattere derogatorio rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, non possa essere in alcun modo superato, trattandosi di norma di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione; mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è assoggettata alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra.
---------------

FATTO
Espone la società ricorrente –che svolge attività nel settore edilizio ed è proprietaria di capannone nel Comune di Corteno Golgi privo di adeguata dotazione di parcheggi– di aver presentato, in data 11.05.2007, denuncia di inizio di attività, al fine di realizzare un box al servizio del capannone.
Il box veniva collocato in zona agricola e si invocava la disciplina speciale di cui agli artt. 66 e ss. della legge regionale n. 12/2005.
A seguito di esplicita richiesta dell'ufficio tecnico in data 01.06.2007, che imponeva la presentazione di “atto di vincolo pertinenziale”, la società ricorrente trasmetteva l'atto predetto con comunicazione del progettista e dava corso alla realizzazione della struttura.
Il box presentava un'altezza variabile da 4,20 mt. a 6,20 mt. ed era impostato ad una quota di + 50 cm. rispetto all'andamento naturale del terreno
Con il gravato provvedimento ripristinatorio:
   - si dava atto della conformità dell'opera alla DIA sotto il profilo planimetrico;
   - si contestava una maggiore altezza della quota altimetrica di cm. 85, in particolare imputando un sopralzo da 4,20 a 5,05 mt.;
   - si contestava, dunque, l'impossibilità di avvalersi della disciplina di deroga rilevando che l'opera contrastava con la destinazione agricola, non rispettava la distanza di mt. 8,00 dal confine della zona agricola ed anche la distanza dalla strada, distanze non derogabili con il manufatto fuori terra;
   - si ingiungeva, quindi, la demolizione integrale dell'opera.
Queste le censure esposte con il presente ricorso:
   1) Violazione di legge per errata e falsa applicazione di legge (artt. 31, 32 e 34 del D.P.R. 380/2001; art. 54 della legge regionale n. 12/2005) e violazione del principio di tipicità delle sanzioni amministrative
L'impugnato provvedimento ha ingiunto la demolizione dell'intera opera sul presupposto che la stessa, in quanto difforme dalla DIA, in particolare in quanto non completamente interrata, dovrebbe considerarsi abusiva nella sua integralità.
Nella fattispecie, non si tratterebbe di sanzionare un'opera eseguita in assenza di titolo o comunque in totale difformità o con variazioni essenziali; piuttosto, venendo in considerazione un’opera in parziale difformità e senza variazioni essenziali.
L’affermata violazione (innalzamento della quota altimetrica per 85 cm.) non configura una variazione “essenziale” ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 32 del D.P.R. 380/2001 e dell'art. 54 della legge regionale n. 12/2005, atteso che un sopralzo inferiore a 1,00 metro e senza creazione di un piano ulteriore è espressamente qualificato dalla normativa regionale come variazione non essenziale, con riveniente applicabilità di sanzione di carattere pecuniario e non reale.
   2) Violazione di legge per errata e falsa applicazione di legge (art. 3, comma 1, lett. e.6) e art. 31 DPR n. 380/2001; artt. 66 e ss. legge regionale n. 12/2005).
Nell’osservare come l’art. 3, comma 1, punto e.6), del D.P.R. 380/2001 imponga l'obbligo del permesso di costruire solo in presenza di strutture pertinenziali di un certo livello (con la conseguenza che normali strutture pertinenziali non sono soggette a permesso di costruire ed alle relative e connesse sanzioni), sottolinea la società ricorrente che, nella fattispecie, l'opera sia priva di sua autonomia funzionale, essendo stata realizzata al servizio di capannone esistente che era carente dei parcheggi di legge.
   3) Eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto dei presupposti, nonché per violazione delle N.T.A. del P.R.G. di Corteno Golgi. Violazione di legge per mancata applicazione di legge (artt. 66 e ss. legge regionale n. 12/2005).
Nel rilevare come nel provvedimento impugnato si sostenga che la realizzazione del manufatto fuori terra comporterebbe la totale abusività dell'opera, osserva la ricorrente che tale intervento fosse, fin dall’origine, previsto parzialmente fuori terra.
La DIA contemplava, infatti, la realizzazione del box ad una quota di + 50 cm. rispetto all'andamento naturale del terreno.
Conseguentemente, non si porrebbe un problema di rispetto delle distanze dai confini e/o dalla strada; e l'incremento abusivo non si ragguaglierebbe ad 85 cm., ma a 35.
Né l'opera sarebbe in contrasto con la disciplina della zona E agricola, dal momento che gli artt. 66 e ss. della legge regionale n. 12/2005 ammettono la possibilità di realizzare strutture destinate a parcheggio al servizio di edifici esistenti anche in deroga alle previsioni dello strumento regolatore e quindi anche in zona agricola.
Conclude parte ricorrente insistendo per l'accoglimento del gravame, con conseguente annullamento degli atti oggetto di censura.
L'Amministrazione comunale, ancorché ritualmente intimata, non si è costituita in giudizio.
Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla pubblica udienza del 24.01.2018.
DIRITTO
1. Ad integrazione di quanto esposto in narrativa, giova sottolineare che l’avversata determinazione ripristinatoria, nel rilevare “la conformità delle opere finora eseguite al progetto presentato sotto l’aspetto planimetrico”, ne ha, tuttavia, constatato la difformità sotto l’aspetto altimetrico, in quanto “la quota di estradosso del solaio di copertura del box è più alta mediante di cm. 85 rispetto agli elaborati tecnici depositati con la DIA … di cm. 85 (mt. 4,20 autorizzato, mt. 5,05 rilevato)”.
Prosegue il provvedimento in rassegna osservando che “essendo la quota di estradosso del solaio di copertura del box più alta mediamente di cm. 85, il manufatto non è più totalmente interrato come prescrive la legge 122/1989 e pertanto si evidenzia che non sono più invocabili le deroghe agli strumenti urbanistici previste dalla citata legge 122/1989”.
Ciò osservato, nello stesso provvedimento si dà atto della difformità del manufatto rispetto alle prescrizioni vigenti per le zone omogenee di rispetto stradale ed E1 agricola nella quale ricade il sedime dell’immobile, sotto i seguenti profili:
   “- inedificabilità totale per la zona di rispetto stradale non più derogabile con il manufatto fuori terra;
   - mancata distanza dai confini prevista in mt. 8,00 nella zona E1 non più derogabile a zero con il manufatto fuori terra;
   - non rispetto dell’indice volumetrico;
   - edificazione di volume fuori terra pari a mc. 788,358 (sup. mq. 927,48 x H fuori terra mt. 0,85) non più derogabile;
   - non rispetto della tipologia edilizia nella zona E1 agricola”.
2. La legge, come sopra (correttamente) richiamata dall’Amministrazione comunale, prevede (art. 9, comma 1) che “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni”.
La norma sopra riportata, nella sua formulazione letterale, è univoca nel senso di ammettere la realizzazione, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, dei soli parcheggi “nel sottosuolo” o al “piano terreno dei fabbricati”.
Omogeneamente, l’art. 66, comma 1, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 ha previsto che “i proprietari di immobili e gli aventi titolo sui medesimi possono realizzare nel sottosuolo degli stessi o di aree pertinenziali esterne, nonché al piano terreno dei fabbricati, nuovi parcheggi, da destinarsi a pertinenza di unità immobiliari residenziali e non, posti anche esternamente al lotto di appartenenza, senza limiti di distanza dalle unità immobiliari cui sono legati da rapporto di pertinenza, purché nell'ambito del territorio comunale o in comuni contermini, ai sensi dell'articolo 9 della legge 24.03.1989, n. 122”.
L’utilizzo del termine “nel sottosuolo” non consente di estendere la deroga a manufatti che siano solo parzialmente interrati, come accade nel caso di specie.
La necessità di adottare una interpretazione letterale e l’impossibilità di accedere a letture estensive discende, come affermato dalla giurisprudenza, dalla natura eccezionale della norma, che introduce possibilità edificatorie in deroga agli strumenti urbanistici vigenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.11.2004 n. 7773, secondo cui: “La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 l. n. 122 del 1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita").
A tale interpretazione, d’altronde, ha aderito la giurisprudenza prevalente (cfr. TAR Toscana, sez. III, 15.01.2004, n. 13; TAR Piemonte, sez. I, 11.03.1999 n. 139; TAR Lazio Latina, 02.04.1996 n. 337).
Ne deriva che il rispetto dell’esigenza rappresentata dall’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122 (realizzabilità di parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari esclusivamente nel sottosuolo, per l'intera altezza: regola, quanto alla fattispecie in esame, non rispettata), con carattere derogatorio rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, non possa essere in alcun modo superato, trattandosi di norma di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione; mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è assoggettata alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 30.05.2014 n. 2821 e sez. IV, 16.04.2012, n. 2185).
3. Alla inapplicabilità delle disposizioni derogatorie rivenienti dalla legge 122, consegue la piena espansione delle prescrizioni disciplinate dalla vigente strumentazione urbanistica.
Ad esse, trattandosi di area ricadente in ambito E1 agricolo, accede l’inosservanza –quanto al manufatto posto in essere dalla ricorrente– delle indicazioni analiticamente dettate nella determinazione ripristinatoria avversata; a nulla rilevando che la DIA originariamente presentata dalla ricorrente contemplasse una parziale realizzazione fuori terra del box (peraltro, largamente ecceduta dalla struttura poi posta in essere, atteso il differenziale di cm. 85, rispetto ad un’altezza indicata in mt. 4,20, presentato dalla quota di estradosso del solaio di copertura del box rispetto al progetto originario).
Le difformità rappresentate dall’intervento in esame con riferimento alla vocazione urbanistica impressa alla zona nella quale ricade il sedime interessato dalla realizzazione edilizia de qua (totale inedificabilità in area assoggettata a vincolo di rispetto stradale; inosservata prescrizione in tema di distanza dai confini; mancato rispetto del previsto indice volumetrico; tipologia edilizia della zona E1), dimostrano la corretta applicazione, nella fattispecie, della sanzione ripristinatoria; per l’effetto dovendosi disattendere le censure, sul punto, esposte dalla ricorrente.
Né, diversamente, si dimostra utilmente evocabile la prescrizione dettata dall’art. 66 della legge regionale 12/2005, il cui comma 1, lett. c), punto 1, indica come “variazioni essenziali al progetto approvato le modifiche edilizie … dell'altezza dell'edificio in misura superiore a un metro senza variazione del numero dei piani”.
Non viene, infatti, in considerazione nel caso all’esame una variazione altimetrica di edificio, rispetto alla quale la qualificazione in termini di “essenzialità” è suscettibile di reagire sull’applicabile regime sanzionatorio (ripristinatorio-reale o pecuniario); quanto, piuttosto, la preclusa edificazione di una rimessa, (ancorché parzialmente) fuori terra, con riveniente violazione (in ragione della preclusa operatività del regime derogatorio della c.d. “legge Tognoli”) delle prescrizioni urbanistiche (sopra indicate) vigenti nell’area interessata dall’intervento de quo.
4. L’infondatezza dei motivi di ricorso dedotti con il mezzo di tutela all’esame ne impone il rigetto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.01.2018 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Contributo di costruzione per la realizzazione di parcheggi.
Il TAR Milano precisa che la richiesta del pagamento del contributo di costruzione con riguardo ai parcheggi posti al servizio dell’edificio oggetto di un intervento edilizio risulta in violazione del disposto dell’art. 69, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, secondo il quale i parcheggi, pertinenziali e non pertinenziali, realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge, costituiscono opere di urbanizzazione e il relativo titolo abilitativo è gratuito.
Infatti, attraverso tale intervento legislativo è stato introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità, senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge).
Del resto, già l’art. 2, comma 2, della legge regionale n. 22 del 1999 qualificava i parcheggi come opere di urbanizzazione e quindi, anche in ragione del disposto di cui all’art. 4, comma 4, della legge regionale n. 60 del 1977, ne imponeva l’esclusione dal computo degli oneri; l’art. 69, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ha, poi, eliminato anche il vincolo di pertinenzialità e il limite quantitativo.
Aggiunge, poi, il TAR che l’art. 25, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 (ai sensi della quale fino all’approvazione del piano dei servizi la misura degli oneri di urbanizzazione è determinata con applicazione della normativa previgente) è una norma transitoria che riguarda soltanto la disciplina contenuta nel Titolo II della Parte I della legge e non anche il Titolo IV della Parte II, in cui è collocato l’art. 69, e si riferisce alla determinazione della misura degli oneri e non alla qualificazione e all'individuazione degli interventi cui gli stessi sono subordinati, che rimane riservata al legislatore, anche per garantire il rispetto della riserva (relativa) di legge prevista dall’art. 23 della Costituzione.
Da ultimo, il TAR precisa che il regime di gratuità dei parcheggi si applica anche agli edifici nuovi e non solo a quelli già esistenti
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità della pretesa comunale in ordine al pagamento del contributo di costruzione anche con riguardo ai parcheggi pertinenziali realizzati in misura superiore a quella minima prevista dalla normativa vigente, atteso che l’art. 25, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005, disciplinando in via transitoria i criteri per determinare gli oneri di urbanizzazione, si riferirebbe soltanto alla tipologia di interventi edilizi assoggettati a tali oneri e non consentirebbe la disapplicazione delle norme che individuano i casi di esclusione dal pagamento, come i parcheggi realizzati a servizio delle abitazioni che rientrerebbero nel novero delle opere di urbanizzazione.
2.1. La doglianza è fondata.
Il Comune richiedendo alla società ricorrente il pagamento del contributo con riguardo ai parcheggi posti al servizio dell’edificio oggetto dell’intervento edilizio, ha violato il disposto dell’art. 69, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, secondo il quale “i parcheggi, pertinenziali e non pertinenziali, realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge, costituiscono opere di urbanizzazione e il relativo titolo abilitativo è gratuito; infatti, attraverso tale intervento è stato introdotto “il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge) (TAR Lombardia, Brescia, I, 11.09.2017, n. 1087; II, 24.05.2013, n. 508).
Del resto, già l’art. 2, comma 2, della legge regionale n. 22 del 1999 (“i parcheggi sono considerati opere di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 …”) qualificava i parcheggi come opere di urbanizzazione e quindi, anche in ragione del disposto di cui all’art. 4, comma 4, della legge regionale n. 60 del 1977 (“i volumi e gli spazi destinati al ricovero di autovetture non sono computati, salvo che per la quota eccedente quella richiesta obbligatoriamente per parcheggio”), ne imponeva l’esclusione dal computo degli oneri (in tal senso, Consiglio di Stato, IV, 24.11.2016, n. 4937; TAR Lombardia, Brescia, II, 24.05.2013, n. 508).
L’art. 69, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ha poi eliminato anche il vincolo di pertinenzialità e il limite quantitativo; tale norma va certamente applicata anche alla fattispecie de qua, atteso che l’art. 25, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 (“fino all’approvazione del piano dei servizi la misura degli oneri di urbanizzazione è determinata con applicazione della normativa previgente”) è una norma transitoria che riguarda soltanto la disciplina contenuta nel Titolo II della Parte I della legge, e non anche il Titolo IV della Parte II in cui è collocato l’art. 69, e si riferisce alla determinazione della misura degli oneri e non alla qualificazione e individuazione degli interventi cui gli stessi sono subordinati, che rimane riservata al legislatore, anche per garantire il rispetto della riserva (relativa) di legge prevista dall’art. 23 della Costituzione (“nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”).
Infine, va precisato che
il regime di gratuità dei parcheggi si applica anche agli edifici nuovi e non solo a quelli già esistenti (TAR Lombardia, Brescia, I, 11.09.2017, n. 1087).
2.2. In senso contrario, non appaiono meritevoli di condivisione le considerazioni svolte dalla difesa comunale e
risultano manifestamente infondati i rilievi di costituzionalità formulati con riguardo all’art. 69, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, asseritamente in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., atteso che la Corte costituzionale in materia di governo del territorio ha ritenuto precluso al legislatore statale l’adozione di una disciplina puntuale inerente a specifiche tipologie di interventi edilizi realizzati in contesti ben definiti e circoscritti, senza lasciare alcuno spazio al legislatore regionale, visto che «alla normativa di principio spetta di prescrivere criteri e obiettivi, mentre alla normativa di dettaglio è riservata l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere tali obiettivi» (sentenze n. 189 del 2015, n. 278 del 2010, n. 16 del 2010, n. 340 del 2009, n. 401 del 2007).
Nemmeno può affermarsi lo stravolgimento, a livello definitorio, del concetto di opere di urbanizzazione, atteso che l’art. 11, comma 1, della legge n. 122 del 1989, richiamando l’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, ha qualificato i parcheggi come opere di urbanizzazione, cui la normativa regionale si è perfettamente conformata.
2.3. Pertanto, la predetta censura deve essere accolta.
3. La fondatezza della scrutinata doglianza, avuto riguardo al suo carattere assorbente, rende superfluo l’esame delle ulteriori censure e determina l’accoglimento del ricorso.
4. Di conseguenza,
il Comune di Cinisello Balsamo ha l’obbligo di scomputare dalla determinazione complessiva del contributo di costruzione, relativo al titolo edilizio indicato in precedenza, gli oneri afferenti ai parcheggi realizzati, restituendo l’importo così determinato alla società ricorrente (che è stato quantificato da quest’ultima in € 110,029,93), nel termine di sessanta giorni dalla notificazione della presente sentenza; sulla somma individuata dovranno altresì essere calcolati gli interessi legali a far data dal 14.05.2007 fino al soddisfo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2018 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, stabilisce che “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che la norma si applica indistintamente sia gli edifici strettamente residenziali sia –e, forse, a maggior ragione– a quelli destinati ad attività terziarie; e, secondo un’interpretazione funzionale della volontà del legislatore, non riguarda la sola ipotesi della realizzazione di un nuovo manufatto su area libera, ma anche ogni intervento sull’edificato esistente, tale da determinare un aggravio del carico urbanistico.
---------------

3. Con il terzo motivo, la società ricorrente impugna le previsioni di cui all’art. 22 (già art. 31) delle N.T.A. di R.U., laddove richiedono, a fronte di cambi di destinazione d’uso comportanti un incremento o modifica del carico urbanistico superiore al 50% della SUL dell’edificio, l’obbligatorio reperimento di spazi per parcheggi stanziali, in aggiunta ai parcheggi pertinenziali previsti dalla legge n. 122/1989.
La norma darebbe vita a un onere sprovvisto di copertura legislativa, e, conseguentemente, la monetizzazione prevista in alternativa dal regolamento urbanistico –di fatto necessitata per gli interventi da eseguirsi nel centro storico, ove gli spazi a parcheggio sono irreperibili– verrebbe a configurare una prestazione imposta violativa della riserva di legge sancita dall’art. 23 Cost. (oneri straordinari di urbanizzazione).
Prescindendo dall’eccezione di carenza di interesse attuale a una simile censura, sollevata dal Comune resistente, il motivo è infondato.
L’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, stabilisce che “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che la norma si applica indistintamente sia gli edifici strettamente residenziali sia –e, forse, a maggior ragione– a quelli destinati ad attività terziarie (così Cons. Stato, sez. VI, 19.10.2006, n. 6256); e, secondo un’interpretazione funzionale della volontà del legislatore, non riguarda la sola ipotesi della realizzazione di un nuovo manufatto su area libera, ma anche ogni intervento sull’edificato esistente, tale da determinare un aggravio del carico urbanistico (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. VI, 04.02.2015, n. 2036; Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2013, n. 1995; TAR Lazio–Roma, sez. II, 07.11.2011, n. 8535).
Da tali, consolidati, principi non si discosta il R.U. impugnato, che collega la garanzia di una dotazione minima di posti auto agli interventi capaci, appunto, di generare un aumento del carico urbanistico. Per il caso del mutamento di destinazione d’uso, l’art. 22 delle N.T.A. stabilisce che la dotazione di parcheggi è dovuta quando il cambio sia riferito all’intero edificio, o comunque a porzioni superiori al 50% della SUL, ed è finalizzata a sostenere il maggiore impatto generato dalla nuova destinazione attraverso il reperimento dei necessari spazi di sosta commisurati a parametri differenziati in relazione a ciascuna delle possibili destinazioni.
La dotazione aggiuntiva di spazi di sosta è ascritta dal R.U., di volta in volta, a parcheggi “pertinenziali”, ovvero “stanziali” o, ancora, “di relazione”, con la precisazione che le prime due tipologie si pongono sempre in alternativa fra loro (solo i parcheggi per la sosta di relazione a servizio delle nuove destinazioni commerciali sono richiesti in aggiunta a quelli pertinenziali, nelle ipotesi di nuova costruzione, ristrutturazione urbanistica e demolizione con ricostruzione. Peraltro, nel centro storico, è lo stesso art. 65 delle N.T.A., al comma 6.4, ad escludere la necessità del reperimento degli spazi per la sosta di relazione ordinariamente richiesti per le destinazioni commerciali ammissibili).
Una volta verificato il fondamento legislativo della contestata pretesa comunale, la “monetizzazione” dei parcheggi stanziali consentita dall’art. 22 delle N.T.A. costituisce nulla più che una modalità di compensazione della dotazione di spazi di sosta non reperibili all’interno dell’area interessata dall’intervento: una modalità sostitutiva, la quale non rappresenta un’indebita duplicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, giacché, a differenza di detti oneri, afferisce direttamente al reperimento delle aree necessarie all'interno della specifica zona di intervento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2013, n. 6211; id., 08.01.2013, n. 32; id., 28.12.2012 n. 6706; id., 16.02.2011, n. 1013) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 22.01.2018 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutti i parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al contributo di costruzione.
Deve ribadirsi che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq./20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall’art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1 mq./10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali vanno quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi che a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M. più volte citato).

---------------
Per quanto concerne, infine, l’ulteriore questione relativa all’applicabilità o no dell’art. 9 della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli) anche agli edifici nuovi e non solo a quelli già esistenti (comma 1, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”), il Tribunale osserva che l’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, come sostituito dall’art. 2 della citata legge n. 122 del 1989 stabilisce che “…nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Da tale chiaro enunciato scaturisce pertanto la necessità di conteggiare i citati spazi a parcheggio nella dotazione degli standard e quindi la correttezza dell’esclusione delle aree di parcheggio, computate nella dotazione degli standard, dal calcolo degli oneri di costruzione.
---------------

... per l'annullamento della nota in data 02/04/2009, con cui il comune di Ravarino ha chiesto alla società ricorrente, in riferimento alla DIA da essa presentata il 31/07/2008, "la quota del contributo di costruzione, rapportata al costo di costruzione, riferibile alle superfici dei parcheggi realizzandi;
...
Il Collegio osserva che il ricorso è fondato.
La Sezione ha avuto già modo, in più occasioni, di pronunciarsi sulla questione relativa dell’assoggettamento a contributo urbanistico per oneri di costruzione della parte degli interventi edilizi assentiti relativa alle superfici destinate a parcheggi pertinenziali interrati, ritenendo illegittima la relativa pretesa delle amministrazioni comunali (v. TAR Emilia Romagna sez. I, n. 545 del 2017; sez. II n. 939 del 2014 e 16/04/2010 n. 3533).
In dette pronunce questo TAR ha peraltro condiviso l’autorevole posizione del Consiglio di Stato che, in tema di controversie aventi ad oggetto “la rideterminazione dei contributi urbanistici da parte delle amministrazioni comunali, con specifico riferimento al preteso assoggettamento a tale contribuzione degli interventi edilizi concernenti la realizzazione sia dei parcheggi pertinenziali sia delle superfici relative ai corselli di manovra e di accesso ai garage interrati”, ha stabilito che tutti i parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al contributo di costruzione (v. Cons. Stato sez. IV, 28/11/2012 n. 6033).
Nella citata decisione, il Consiglio di Stato ha infatti precisato quanto segue: "Deve sul punto ribadirsi, infatti, che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq./20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall’art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1 mq./10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.”.
Tale decisione del Consiglio di Stato è stata di recente condivisa da questo TAR con la già citata sentenza di questa Sezione n. 939 del 2014, ove si è osservato che i parcheggi pertinenziali vanno quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi che a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M. più volte citato).
Per le chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi del Comune secondo cui a cagione della assenza di espressa abrogazione del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi "equiparati" alle opere di urbanizzazione e conseguentemente esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli destinati ad uso collettivo. E' agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata abrogazione in parte qua del D.M. 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui all'art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la dotazione obbligatoria che quindi risultano normati dal citato D.M..
Per quanto concerne, infine, l’ulteriore questione relativa all’applicabilità o no dell’art. 9 della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli) anche agli edifici nuovi e non solo a quelli già esistenti (comma 1, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”), il Tribunale osserva che l’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, come sostituito dall’art. 2 della citata legge n. 122 del 1989 stabilisce che “…nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Da tale chiaro enunciato scaturisce pertanto la necessità di conteggiare i citati spazi a parcheggio nella dotazione degli standard e quindi la correttezza dell’esclusione delle aree di parcheggio, computate nella dotazione degli standard, dal calcolo degli oneri di costruzione (Consiglio di Stato, IV, 24.11.2016, n. 4937 e , da ultima: TAR Lombardia –BS- sez. I, 11/09/2017 n. 1087).
Per le suesposte ragioni, il ricorso è accolto con conseguente accertamento del diritto della ricorrente al pagamento del contributo per oneri di costruzione relativo all’intervento in oggetto senza che il Comune inserisca, nel relativo calcolo, le superfici destinate a parcheggio pertinenziale (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.11.2017 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dall’art. 9, comma 1, della legge n. 122/1989 possono essere realizzati solamente all'interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola non è applicabile la normativa della cosiddetta "legge Tognoli", che consente la realizzazione di autorimesse nel sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici, essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e ciò a prescindere dall'ulteriore considerazione postulante l'esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali.
Deve ritenersi, inoltre, che l'art. 9 della legge n. 122/1989 debba essere considerato nell'ambito della disciplina complessiva dettata dalla legge 122/1989, in cui esso si inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma anche e soprattutto dei "programmi urbani dei parcheggi" e, in generale, delle "realizzazioni volte a favorire il decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione di parcheggi finalizzati all'interscambio con i sistemi di trasporto collettivo".
Procedendo ad un'interpretazione logica e sistematica dell'art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è più volte espressa la giurisprudenza del Consiglio di Stato: "La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 della legge n. 122/1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia".
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree, l'edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di cui al citato art. 9, rimanendo invece sottoposta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
---------------

Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
La proprietà della ricorrente è situata nella zona classificata dal piano strutturale come “subsistema della pianura coltivata”; tale zona fa parte del “paesaggio rurale”, definito dall’art. 57 delle NTA del regolamento urbanistico “porzione di territorio comunale esterna alla perimetrazione degli ambiti insediativi ovvero del paesaggio urbano…a prevalente funzione agricola” (documento n. 9 depositato in giudizio dal Comune).
L’art. 9, comma 1, della legge n. 122/1989, recante le "Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale", prevede che: "I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente".
La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dalla normativa suddetta possono essere realizzati solamente all'interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola non è applicabile la normativa della cosiddetta "legge Tognoli", che consente la realizzazione di autorimesse nel sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici, essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e ciò a prescindere dall'ulteriore considerazione postulante l'esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali (Cons. Stato, IV, 19.07.2017, n. 3566).
Deve ritenersi, inoltre, che l'art. 9 della legge n. 122/1989 debba essere considerato nell'ambito della disciplina complessiva dettata dalla legge 122/1989, in cui esso si inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma anche e soprattutto dei "programmi urbani dei parcheggi" e, in generale, delle "realizzazioni volte a favorire il decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione di parcheggi finalizzati all'interscambio con i sistemi di trasporto collettivo".
Procedendo ad un'interpretazione logica e sistematica dell'art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è più volte espressa la giurisprudenza del Consiglio di Stato: "La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall'art. 9 della legge n. 122/1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia" (cfr. Cons. Stato, V, 11.11.2004, n. 7325).
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree, l'edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di cui al citato art. 9, rimanendo invece sottoposta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
Pertanto, nel caso di specie la destinazione urbanistica a paesaggio rurale (ovvero la destinazione prevalentemente agricola) è ostativa all’accoglimento della pretesa della ricorrente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.11.2017 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

...e non solo:

EDILIZIA PRIVATA: Sul rapporto pertinenziale tra unità immobiliare e box auto: il vincolo di destinazione impone il trasferimento del box unitamente all'abitazione soltanto nell'ipotesi di cui all'art. 2 della legge 122/1989.
Il vincolo di destinazione posto dalla L. n. 765/1967, art. 18, e dalla L. 28.02.1985, n. 47/1985, art. 26, comporta l'obbligo non già di trasferire la proprietà dell'area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea in capo all'acquirente dell'appartamento un diritto reale d'uso sull'area e non già un diritto al trasferimento della proprietà.
Delle quattro tipologie di spazi destinati a parcheggi privati, in complessi condominiali di nuova costruzione solo in un caso esiste un vincolo che consente al proprietario dell'unità abitativa di pretendere una determinata autorimessa: si tratta del caso dei parcheggi soggetti al vincolo pubblicistico d'inscindibilità con l'unità immobiliare, introdotti dalla L. n. 122 del 1989, articolo 2, assoggettati ad un regime di circolazione controllata e di utilizzazione vincolata e, conseguentemente non trasferibili autonomamente.
Il regime degli spazi di parcheggio applicabile alla costruzione è quello dettato con la concessione edilizia, la quale designa la entità della costruzione assentita e la destinazione impressa e approvata del bene da edificare.
---------------
Ai condomini di un condominio nel quale siano stati rispettati i vincoli di destinazione a parcheggio spetta, qualora il costruttore venditore non ceda loro il diritto di proprietà rispettando le quote di competenza, il diritto reale d'uso indifferenziato sull'area vincolata.
Quest'ultima é peraltro da individuare sulla base della concessione edilizia
.
---------------
4.1) Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 41/6 L. 1150 del 1942, 817 c.c., art. 9 L. 122/1989, 1374 c.c., 1418 c.c., 1419 c.c..
Parte ricorrente critica la Corte di appello per aver ritenuto che il 41 non imporrebbe che il garage pertinenziale sia situato nello stesso edificio. Sostiene che ciò sarebbe in contraddizione con la nozione di pertinenza quale desumibile dall'art. 817 c.c. e che quindi la cosa che rappresenta pertinenza deve essere ubicata in aree site all'interno dell'edificio in cui si trova il bene principale.
Aggiunge "ad abundantiam" che anche secondo la legge Tognoli del 1989 i parcheggi pertinenziali non possono essere alienati in violazione del vincolo di destinazione.
Parte ricorrente prosegue accusando la sentenza di avere affermato "con chiara assenza di motivazione" che i due corpi di fabbrica fanno parte di unico complesso residenziale.
5) Le censure sono del tutto infondate.
La pretesa di parte ricorrente di entrare in possesso, mediante declaratoria di nullità degli atti che lo impedivano, di un determinato garage facente parte del complesso residenziale condominiale in cui ha acquistato l'appartamento non è concepibile in relazione alla normativa di cui alla legge urbanistica del 42 come modificata dalla legge cd "ponte".
E' ormai da molti anni pacifico in giurisprudenza che «
Il vincolo di destinazione posto dall'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, e dall'art. 26 della legge 28.02.1985, n. 47, comporta l'obbligo non già di trasferire la proprietà dell'area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea in capo all'acquirente dell'appartamento un diritto reale d'uso sull'area e non già un diritto al trasferimento della proprietà
» (tra le tante cfr Cass. n. 15509 del 14/07/2011).
Delle quattro tipologie di spazi destinati a parcheggi privati, in complessi condominiali di nuova costruzione (cfr Cass. 21003/2008) solo in un caso esiste un vincolo che consente al proprietario dell'unità abitativa di pretendere una determinata autorimessa: si tratta del caso dei parcheggi soggetti al vincolo pubblicistico d'inscindibilità con l'unità immobiliare, introdotti dall'art. 2 della l. n. 122 del 1989, assoggettati ad un regime di circolazione controllata e di utilizzazione vincolata e, conseguentemente non trasferibili autonomamente.
Il regime degli spazi di parcheggio applicabile alla costruzione è quello dettato con la concessione edilizia, la quale (come è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite (SU n. 25454 del 2013, in motivazione), designa la entità della costruzione assentita e la destinazione impressa e approvata del bene da edificare.
Nel caso di specie sia la sentenza di primo grado che quella di appello hanno ritenuto la costruzione soggetta alla norma di cui all'art. 41-sexies (e non a quello della legge Tognoli, senza che su questo aspetto vi sia stato appello e poi ricorso), di talché certamente il bene della vita preteso (proprietà di un determinato garage, identificato catastalmente) non avrebbe potuto essere chiesto ed ottenuto.
Ai condòmini di un condomìnio nel quale siano stati rispettati i vincoli di destinazione a parcheggio spetta, qualora il costruttore venditore non ceda loro il diritto di proprietà rispettando le quote di competenza, il diritto reale d'uso indifferenziato sull'area vincolata (per una ricostruzione delle possibilità che si aprono agli aventi diritto cfr Cass. 2236/2016). Quest'ultima è peraltro da individuare sulla base della concessione edilizia.
Nella specie parte ricorrente si è affannata a spiegare per qual motivo tecnico-costruttivo i fabbricati sarebbero da considerare singolarmente e non come unico complesso residenziale. Ciò può rilevare ai fini della consistenza immobiliare o ai fini delle regolamentazioni condominiali interne che potrebbero assumere, ma non rileva ai fini dell'individuazione delle aree vincolate e della loro destinazione, che è da desumere dalla concessione edilizia.
Il ricorso non ha colto la rilevanza di questo aspetto, ma dalle stesse parole di esso (pag. 8), ove si accenna ad "un unico elaborato progettuale", si deve desumere che, conseguentemente, unica era per i quattro edifici la concessione edilizia.
Il che comporta che l'area riservata poteva essere ubicata dal costruttore dove meglio riteneva, fermo il rispetto della superficie destinata a parcheggio; egli quindi, salvo il rispetto del vincolo, poteva cedere ai singoli condomini (es: Ca.) una qualunque delle autorimesse previste e autorizzate nell'ambito della concessione ad edificare il complesso residenziale, unitariamente progettato e assentito (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.09.2017 n. 22364).

 

Termini per il pagamento delle somme dovute per gli oo.uu.:
non può essere applicata la disciplina che considera il sabato come festivo al fine della proroga dei termini medesimi.

EDILIZIA PRIVATA: Pagamento degli oneri di urbanizzazione.
---------------
  
Edilizia – Oneri di urbanizzazione – Pagamento – Giorno di scadenza che cade di sabato – Proroga al lunedì successivo – Esclusione.
  
Edilizia – Oneri di urbanizzazione – Pagamento tardivo – Riscossione delle sanzioni - Procedimento di imposizione coattiva – Obbligo – Esclusione.
  
Edilizia – Oneri di urbanizzazione – Pagamento – Interruzione della prescrizione – Presupposti – Individuazione.
  
Edilizia – Oneri di costruzione – Pagamento rateale – Sanzioni – Omessa escussione garanzia fidejussoria – Irrilevanza ex se.
  
La disciplina che considera il sabato come festivo al fine della proroga dei termini di scadenza non può essere applicata anche ai termini per il pagamento delle somme dovute per gli oneri di urbanizzazione (1).
  
Per la riscossione delle sanzioni relative al ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione previsti dall’art. 42, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 il Comune non è obbligato a valersi del procedimento di imposizione coattiva stabilito dal successivo art. 43, ma può avvalersi delle normali azioni previste per l’esecuzione delle obbligazioni, tra cui la procedura di ingiunzione di cui all'art. 118 c.p.a..
  
Affinché un atto abbia efficacia interruttiva della prescrizione delle somme dovute a titolo di oneri di urbanizzazione, è necessario che esso contenga l'esplicitazione di una precisa pretesa e l'intimazione o la richiesta di adempimento, idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto obbligato con l'effetto sostanziale di costituirlo in mora, senza che sia necessario l'uso di formule solenni o l'osservanza di particolari adempimenti.
  
Un'amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell'intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale (2).
---------------
   (1) Il Tar ha chiarito il sabato non è giorno festivo e la norma dell’art. 155 c.p.c., che ad esso lo equipara a certi effetti, ha come suo ambito di applicazione gli atti processuali, così come all’ambito degli atti processuali è rivolta l’analoga norma dell’art. 52, comma 5, c.p.a. che anch’essa applica la proroga ai termini che scadono nella giornata di sabato.
Il Tar ha affermato di non ignorare che la giurisprudenza ha applicato la medesima norma anche ai termini del procedimento amministrativo considerando prorogato al giorno successivo (anzi al lunedì) il termine per il compimento di un atto procedimentale in scadenza di sabato (Cons. St., sez. VI, 07.09.2012, n. 4752).
Tuttavia l’equiparazione del sabato a giorno festivo non ha carattere generale ma è limitata ai suddetti ambiti, come peraltro si deduce anche da quelle pronunce secondo cui l'equiparazione del sabato ai giorni festivi opera al solo fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell'udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere il successivo lunedì ai relativi adempimenti; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo, anche per quanto attiene alle attività di ufficiali giudiziari e di addetti agli uffici ricorsi, come dispone espressamente l'art. 155 c.p.c., applicabile al processo amministrativo ex art. 52, comma 5, c.p.a..
Tanto è vero che questa regola vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l'art. 52, comma 5, c.p.a. estende al sabato solo la "proroga di cui al comma 3", ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì (Cons. St., sez V, 31.05.2011, n. 3252).
Data la premessa, la conseguenza è che l’equiparazione del sabato a giorno festivo, ai fini della proroga al giorno lavorativo successivo, non può applicarsi ai termini di scadenza dei pagamenti dovuti per le rate inerenti ai costi di costruzione e agli oneri di urbanizzazione, disciplinati dalle regole di scadenza delle obbligazioni civili, ovverosia dagli artt. 1187 e 2963 c.c. che, nel loro combinato disposto, prevedono la proroga per i soli termini in scadenza di giorno festivo, senza considerare il sabato a tale stregua.
   (2) Ha affermato il Tar –richiamando Cons. St., A.P., 07.12.2016, n. 24– che non può affermarsi l'esistenza di un onere collaborativo gravante sull’Amministrazione creditrice, desumibile dai principi generali in tema di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori di tipo civilistico o dal principio di leale collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di diritto pubblico, consistente in un obbligo di pronta escussione della garanzia fideiussoria costituita a suo favore o di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale.
Conseguentemente, nulla osta all'applicazione, nei confronti dell'intestatario del titolo edilizio, delle sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di ritardato od omesso pagamento di oneri di costruzione e urbanizzazione (
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.02.2018 n. 710 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2) Infondato si presenta il primo motivo di ricorso, inerente alle somme dovute a titolo di ritardo nel pagamento e, nello specifico, ai pagamenti della II rata di costruzione in scadenza il 02.7.2011, della I rata degli oneri di urbanizzazione in scadenza il 02.01.2010, e della IV rata degli oneri di urbanizzazione in scadenza il 02.07.2011, risultati essere stati effettuati in ritardo di due giorni.
Parte ricorrente ha dedotto in proposito l’assenza del ritardo, in quanto la scadenza di pagamento coincideva con il sabato e, in quanto tale, sarebbe dovuta intendersi come prorogata al lunedì (giorno di effettuazione del pagamento).
Al riguardo parte ricorrente ha sostanzialmente dedotto che l'art. 2963 c.c. prescrive “Se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo”; l'art. 1187 c.c. stabilisce che “il termine fissato per l'adempimento delle obbligazioni è computato secondo le disposizioni dell'articolo 2963” e che “La disposizione relativa alla proroga del termine che scade in giorno festivo si osserva se non vi sono usi diversi”; infine l'art. 155 c.p.c. include il sabato tra i giorni festivi.
La disciplina che considera il sabato come festivo al fine della proroga dei termini di scadenza andrebbe applicato, secondo parte ricorrente, anche ai termini per il pagamento delle somme dovute per gli oneri di urbanizzazione.
Il Collegio rileva come sia indubbiamente corretto che, in caso di scadenza di un termine in giorno festivo, la sua proroga al successivo giorno non festivo rappresenti un principio di carattere generale, disciplinato dalla vigente legislazione. Infatti, la previsione, d'ordine generale, della suesposta proroga è contenuta nel secondo e terzo comma dell'art. 2963 c.c. che stabilisce, con riferimento alle modalità di computo del termine di prescrizione, che: "non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell'ultimo istante del giorno finale. Se il termine scade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo".
Il principio della posticipazione ipso iure al primo giorno seguente non festivo è, altresì, evidenziato dall'art. 1187 c.c., in tema di obbligazioni, che sancisce, al secondo comma, che "la disposizione relativa alla proroga del termine che scade in giorno festivo si osserva se non vi sono usi diversi" e dall'art. 155, commi terzo e quarto, c.p.c. secondo cui "i giorni festivi si computano nel termine. Se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo"
(Cons. Stato Sez. VI, 07.09.2012, n. 4752), nonché dall’art. 52, comma 3, c.p.a. che prevede la proroga del giorno di scadenza festivo "al primo giorno seguente non festivo".
La questione da esaminare è tuttavia la pretesa equiparazione del sabato a giorno festivo.
Il sabato, difatti, non è giorno festivo e la norma dell’art. 155 c.p.c. che ad esso lo equipara a certi effetti ha come suo ambito di applicazione gli atti processuali, così come all’ambito degli atti processuali è rivolta l’analoga norma dell’art. 52, comma 5, c.p.a. che anch’essa applica la proroga ai termini che scadono nella giornata di sabato. Il Collegio non ignora che la giurisprudenza ha applicato la medesima norma anche ai termini del procedimento amministrativo considerando prorogato al giorno successivo (anzi al lunedì) il termine per il compimento di un atto procedimentale in scadenza di sabato (Cons. Stato Sez. VI, 07.09.2012, n. 4752; Cons. Stato Sez. V, 04.03.2008, n. 824).
Tuttavia l’equiparazione del sabato a giorno festivo non ha carattere generale ma è limitata ai suddetti ambiti, come peraltro si deduce anche da quelle pronunce secondo cui l'equiparazione del sabato ai giorni festivi opera al solo fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell'udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere il successivo lunedì ai relativi adempimenti; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo, anche per quanto attiene alle attività di ufficiali giudiziari e di addetti agli uffici ricorsi, come dispone espressamente l'art. 155 c.p.c., applicabile al processo amministrativo ex art. 52, comma 5, c.p.a.
Tanto è vero che questa regola vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l'art. 52, co. 5, c.p.a. estende al sabato solo la "proroga di cui al comma 3", ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì (Cons. Stato Sez. V, 31.05.2011, n. 3252).
Il Collegio ritiene, quindi, che l’equiparazione del sabato a giorno festivo, ai fini della proroga al giorno lavorativo successivo, non possa applicarsi ai termini di scadenza dei pagamenti in esame dovuti per le rate inerenti ai costi di costruzione e agli oneri di urbanizzazione, regolati in base alle regole di scadenza delle obbligazioni civili, ovverosia dagli artt. 1187 e 2963 c.c. che, nel loro combinato disposto, prevedono la proroga per i soli termini in scadenza di giorno festivo, senza considerare il sabato a tale stregua.
...
5) Con il quarto motivo di ricorso la parte opponente ha fatto presente la circostanza che era stata rilasciata una garanzia per l’adempimento del debito in esame e che il Comune non avrebbe potuto chiedere il pagamento delle sanzioni non avendo proceduto alla previa escussione dell’indicata garanzia fideiussoria.
Il motivo è infondato.
Il pagamento degli oneri concessori ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario. Il relativo sistema di pagamento è caratterizzato da uno strumento a sanzioni crescenti sino al limite di importo individuato dalla lett. c), dell' art. 42 D.P.R. n. 380 del 2001, con chiara funzione di deterrenza dell'inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell'inadempimento dell'obbligato principale. La sanzione scatta automaticamente, quale effetto legale automatico (Cons. Stato, sez. V, n. 5394 del 2011), se l'importo dovuto per il contributo di costruzione non è corrisposto alla scadenza; mentre è sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del Comune al previo esercizio dell'onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale, ovvero presso il fideiussore. Solo eventuale, infatti, può essere la parallela garanzia prestata per l'adempimento del debito principale.
In tale sistema,
l'amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata, ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l'amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all'aumentare del ritardo. E, solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l'adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l'amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale (art. 43, D.P.R. n. 380 del 2001).
L'amministrazione, se pure non è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti in occasione delle scadenze dei termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo, è facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di legge per il ritardato pagamento.
Il potere di sanzionare il pagamento tardivo, in definitiva, è incondizionatamente previsto dall' art. 42 D.P.R. n. 380 del 2001 e la lettera della legge è chiara nell'assegnare all'amministrazione il potere/dovere di applicare le sanzioni al verificarsi di un unico presupposto fattuale, e cioè il ritardo nel pagamento da parte dell'intestatario del titolo edilizio, o di chi gli sia subentrato secundum legem.
In definitiva, seguendo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Ad. Plen. 07.12.2016, n. 24)
un'amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell'intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale.
Non può affermarsi l'esistenza di un onere collaborativo gravante sulla Amministrazione creditrice, desumibile dai principi generali in tema di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori di tipo civilistico o dal principio di leale collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di diritto pubblico, consistente in un obbligo di pronta escussione della garanzia fideiussoria costituita a suo favore o di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale. Conseguentemente, nulla osta all'applicazione, nei confronti dell'intestatario del titolo edilizio, delle sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di ritardato od omesso pagamento di oneri di costruzione e urbanizzazione.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La proroga della scadenza di un termine che cade in un giorno festivo al successivo giorno non festivo rappresenta un principio di carattere generale, disciplinato dalla vigente legislazione.
Infatti, la previsione, d’ordine generale, della suesposta proroga è contenuta nel secondo e terzo comma dell’art. 2963 del codice civile che stabilisce, con riferimento alle modalità di computo del termine di prescrizione, che: “non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell’ultimo istante del giorno finale. Se il termine scade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo”.
Il principio della posticipazione ipso iure al primo giorno seguente non festivo è, altresì, evidenziato dall’art. 1187 del codice civile, in tema di obbligazioni, che sancisce, al secondo comma, che “la disposizione relativa alla proroga del termine che scade in giorno festivo si osserva se non vi sono usi diversi” e dall’art. 155, commi terzo e quarto, del c.p.c. secondo cui “i giorni festivi si computano nel termine. Se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo”.
La vigente normativa, infine, disciplina anche le eccezioni al suddetto principio: l’articolo 2964 del codice civile, infatti, stabilisce i casi in cui la regola generale sopra riportata non si applica e cioè i casi di norme aventi ad oggetto l’interruzione e la sospensione della prescrizione.
Quanto sopra risulta anche confermato da consolidati orientamenti giurisprudenziali secondo cui “il principio fissato dall’art. 2963, terzo comma, del codice civile, secondo il quale se il termine scade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo, configura un principio generale, applicabile, in assenza di diversa previsione anche in materia di decadenza, atteso che l’art. 2964 dichiara inapplicabili alla decadenza soltanto le norme relative alla interruzione e alla sospensione della prescrizione”.
In conclusione, in relazione a quanto sin qui detto non sembra esservi dubbio che il principio della posticipazione ipso iure al primo giorno non festivo del termine che cade in un giorno festivo sia applicabile anche alla fattispecie de qua, atteso che il disposto dell’art. 155, comma 4, del c.p.c. e dell’art. 2963 del c.c. trovano applicazione anche nel procedimento di controllo, essendo espressione di un principio di carattere generale e che l’esercizio del potere di controllo di legittimità sulle autorizzazioni paesaggistiche attribuito all’Amministrazione statale, ai sensi dell’art. 159 del D.Lgs. n. 42 del 2004, è sottoposto al termine decadenziale di sessanta giorni decorrente dalla ricezione della documentazione completa.
---------------

6. Nel merito il Collegio osserva che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di primo grado, la proroga della scadenza di un termine che cade in un giorno festivo al successivo giorno non festivo rappresenta un principio di carattere generale, disciplinato dalla vigente legislazione.
Infatti, la previsione, d’ordine generale, della suesposta proroga è contenuta nel secondo e terzo comma dell’art. 2963 del codice civile che stabilisce, con riferimento alle modalità di computo del termine di prescrizione, che: “non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell’ultimo istante del giorno finale. Se il termine scade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo”.
Il principio della posticipazione ipso iure al primo giorno seguente non festivo è, altresì, evidenziato dall’art. 1187 del codice civile, in tema di obbligazioni, che sancisce, al secondo comma, che “la disposizione relativa alla proroga del termine che scade in giorno festivo si osserva se non vi sono usi diversi” e dall’art. 155, commi terzo e quarto, del c.p.c. secondo cui “i giorni festivi si computano nel termine. Se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo”.
La vigente normativa, infine, disciplina anche le eccezioni al suddetto principio: l’articolo 2964 del codice civile, infatti, stabilisce i casi in cui la regola generale sopra riportata non si applica e cioè i casi di norme aventi ad oggetto l’interruzione e la sospensione della prescrizione.
Quanto sopra risulta anche confermato da consolidati orientamenti giurisprudenziali secondo cui “il principio fissato dall’art. 2963, terzo comma, del codice civile, secondo il quale se il termine scade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo, configura un principio generale, applicabile, in assenza di diversa previsione anche in materia di decadenza, atteso che l’art. 2964 dichiara inapplicabili alla decadenza soltanto le norme relative alla interruzione e alla sospensione della prescrizione” (Cassazione Civile, Sez. V, sent. n. 15832 del 13.08.2004).
In conclusione, in relazione a quanto sin qui detto non sembra esservi dubbio che il principio della posticipazione ipso iure al primo giorno non festivo del termine che cade in un giorno festivo sia applicabile anche alla fattispecie de qua, atteso che il disposto dell’art. 155, comma 4, del c.p.c. e dell’art. 2963 del c.c. trovano applicazione anche nel procedimento di controllo, essendo espressione di un principio di carattere generale (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.03.2011, n. 1661; Cass. Civ., Sez. II, 01.12.2010, n. 24375) e che l’esercizio del potere di controllo di legittimità sulle autorizzazioni paesaggistiche attribuito all’Amministrazione statale, ai sensi dell’art. 159 del D.Lgs. n. 42 del 2004, è sottoposto al termine decadenziale di sessanta giorni decorrente dalla ricezione della documentazione completa.
7. Per quanto sin qui esposto l’appello è da ritenersi fondato e va, pertanto, accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado va respinto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.09.2012 n. 4752) - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – TERMINI PROCESSUALI – EQUIPARAZIONE DEL SABATO AI GIORNI FESTIVI – ESTENSIONE AI TERMINI COMPUTABILI A RITROSO – ESCLUSIONE – art. 52 c.p.a.
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – DEPOSITO DI MEMORIE E DOCUMENTI AI FINI DELL’UDIENZA DI DISCUSSIONE – PERENTORIETÀ DEI TERMINI – art. 54 c.p.a.
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – REVOCAZIONE – RICORSO – OMESSA INDICAZIONE DEI VIZI – INAMMISSIBILITÀ – art. 395 c.p.c.; art. 106 c.p.a.
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – DECISIONE FONDATA SU RAGIONI MANIFESTE O SU ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI CONSOLIDATI – CONDANNA DELLA PARTE SOCCOMBENTE A UNA SOMMA DI DENARO – art. 26 c.p.a.
  
Il sabato è equiparato ai giorni festivi ai soli fini del compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono in tale giornata, come la notifica e il deposito di atti processuali; ai sensi dell’art. 52, 5° comma, cod. proc. amm. l’equiparazione non vale però per i termini che si computano a ritroso (quali il termine per il deposito dei documenti o delle memorie, in vista dell’udienza di discussione).
  
I termini per il deposito delle memorie o dei documenti, ai sensi dell’art. 54 cod. proc. amm. sono perentori, perché stabiliti a garanzia del contraddittorio e della corretta organizzazione del lavoro del giudice.
  
È inammissibile il ricorso per revocazione nel quale non sia indicata alcuna delle cause di revocazione previste dall’art. 395 c.p.c..
  
Ai sensi dell’art. 26 cod. proc. amm., la parte soccombente, quando la decisione sia fondata su ragioni manifeste o su orientamenti giurisprudenziali consolidati, può essere condannata al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, a titolo di indennizzo per il danno lecito da processo (nella specie, il collegio, in assenza di elementi contrari, ha condannato la parte ricorrente ad una somma pari a quella liquidata per spese di giudizio).
---------------

  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – RICORSO GIURISDIZIONALE – TERMINE – COMPUTO – CRITERIO – INDIVIDUAZIONE
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – RICORSO GIURISDIZIONALE – TERMINE – SABATO – EQUIPARAZIONE AI GIORNI FESTIVI – LIMITE
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – RICORSO GIURISDIZIONALE – TERMINE – SABATO – EQUIPARAZIONE AI GIORNI FESTIVI – APPLICABILITÀ SOLO AI TERMINI CHE SI CALCOLANO IN AVANTI, E NON ANCHE A QUELLI A RITROSO
  
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – RICORSO GIURISDIZIONALE – TERMINE – PER IL DEPOSITO DI DOCUMENTI, MEMORIE E REPLICHE – INDIVIDUAZIONE
  
Nel caso in cui la legge indica un termine processuale riferendosi ad un certo numero di giorni liberi, il suddetto numero di giorni esclude tanto il dies a quo quanto il dies ad quem.
  
Ai sensi dell’art. 155, comma 5, c.p.c., aggiunto dall’art. 2 comma 1, l. 28.12.2005 n. 263 ed applicabile anche al processo amministrativo, il sabato è da considerarsi equiparato ai giorni festivi, ma limitatamente agli atti processuali scadenti di sabato e da compiersi fuori dell’udienza, mentre resta giorno lavorativo per l’attività degli ufficiali giudiziari e per gli addetti all’ufficio ricorsi.
  
Nel processo amministrativo la regola fissata dall’art. 155, comma 5, c.p.c. in ordine all’equiparazione del sabato ai giorni festivi, vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per quelli che si calcolano a ritroso, atteso che l’art. 52, comma 5, c.p.a. estende al sabato solo la proroga dei termini che scadono di giorno festivo, con la conseguenza che un termine a ritroso, che scada di sabato, non va anticipato al venerdì e, ove scada di domenica, va anticipato al sabato, e non al venerdì.
  
Ai sensi dell’art. 73, comma 1°, c.p.a. le parti possono produrre documenti nel termine perentorio di quaranta giorni liberi prima dell’udienza, di trenta giorni liberi per le memorie e di venti giorni liberi per le repliche, ma se l’ultimo giorno libero cade in un giorno festivo il deposito va anticipato a pena di esclusione al giorno precedente; peraltro, ai sensi del precedente art. 52, comma 4°, c.p.a., detta regola non si applica per i termini a ritroso che scadono di sabato
(massima tratta da www.scuolagiuridica.it).
---------------
6. Preliminare la sezione deve esaminare l’eccezione, sollevata dalla difesa del comune, di tardività della memoria difensiva depositata dalla parte ricorrente il giorno lunedì 18.04.2011.
6.1. L’eccezione è fondata.
6.2. In ordine alla individuazione dei termini del processo amministrativo ed ai criteri di computo degli stessi, in virtù del rinvio operato dall’art. 39, co. 1, c.p.a. trova applicazione la disciplina dettata dal codice di procedura civile salve le deroghe tipizzate dal c.p.a..
Ai fini del computo dei termini si estende al processo amministrativo la disciplina dettata dall’art. 155 c.p.c.; il c.p.a. aggiunge a tale disciplina alcune precisazioni in tema di giorno festivo e di sabato.
Quanto al caso in cui il giorno di scadenza sia festivo, la proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo opera non solo per i termini legali, ma anche per quelli fissati dal giudice (art. 52, co. 3, c.p.a.); inoltre, nel caso di termini che si computano a ritroso (come per i giorni liberi prima dell’udienza), la scadenza viene anticipata al giorno antecedente non festivo (art. 52, co. 4, c.p.a. che recepisce un consolidato indirizzo della giurisprudenza, cfr. Cass., 12.12.2003, n. 19041); è altresì pacifico che quando la legge indica il termine riferendosi ad un certo numero di giorni liberi, il suddetto numero di giorni esclude tanto il dies a quo quanto il dies ad quem (cfr., fra le tante, Cass., 12.12.2003, n. 19041 cit.; 20.05.2002, n. 7331).
Il sabato è stato equiparato ai festivi (in virtù della novella di cui all’art. 2, co. 11, d.l. n. 263 del 2005, in vigore dal 01.03.2006); l’equiparazione opera però al solo fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere ai relativi adempimenti, concernenti i termini di notifica e deposito che scadono di sabato, il successivo lunedì; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo, anche per quanto attiene, dunque, alle attività di ufficiali giudiziari e di addetti agli uffici ricorsi, come dispone espressamente l’art. 155 c.p.c. (tanto emerge implicitamente dal decreto del presidente del Consiglio di Stato n. 83 del 2010 che ha disciplinato, con decorrenza 01.10.2010, gli orari di apertura al pubblico dell’ufficio ricevimento ricorsi e delle segreterie delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato).
Il c.p.a. esplicita l’applicabilità della disciplina sul sabato anche al processo amministrativo (art. 52, co. 5, c.p.a., in tal senso si era già espressa la preferibile giurisprudenza, cfr. Cons. St., sez. IV, 18.02.2008, n. 446).
Questa regola, però, vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l’art. 52, co. 5, c.p.a. estende al sabato solo la <<proroga di cui al comma 3>>, ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì.
6.3. Le parti possono presentare memorie e repliche in vista dell’udienza di discussione; prima del codice le parti potevano produrre documenti fino a venti giorni liberi anteriori al giorno fissato per l’udienza e presentare memorie fino a dieci giorni liberi (art. 23, co. 4, l. Tar).
6.3.1. Il nuovo codice ha allungato tali termini, per meglio garantire lo studio degli atti processuali ad opera del giudice e delle parti ed ha aggiunto l’istituto delle repliche (ammesso dalla precedente prassi); pertanto le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e repliche fino a venti giorni liberi (art. 73, co. 1, c.p.a.); lo scopo della previsione è quello di consentire alla controparte di disporre dei termini ivi previsti per visionare altrui documenti e memorie.
Stante la su enucleata ratio legis, prima del codice si è affermato che se l’ultimo giorno libero cade in giorno festivo, il deposito va anticipato al giorno precedente pena la tardività della produzione (cfr. Cons. giust. amm. 30.03.2009, n. 215); tanto è ora sancito espressamente dal c.p.a. secondo cui per i termini computati a ritroso, quali quelli in esame, la scadenza è anticipata al giorno antecedente non festivo, ma la regola, come già visto, non si applica per i termini a ritroso che scadono di sabato (art. 52, co. 4, c.p.a.).
6.3.2. Prima del codice era disputata la natura perentoria o meno dei termini per il deposito di documenti e memorie prevalendo da ultimo la tesi che, quantomeno avuto riguardo al termine per le memorie, questo fosse perentorio integrando un precetto di ordine pubblico processuale a garanzia dell’interesse del giudice a conoscere in tempo utile gli atti processuali (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. V, n. 5245 del 2009; sez. VI, n. 4699 del 2008).
La questione ha trovato espressa soluzione nel c.p.a. a tenore del quale la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio, su richiesta di parte, quando la produzione nel termine di legge risulta estremamente difficile; in ogni caso va assicurato il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio sugli atti tardivamente depositati (art. 54, co. 1, c.p.a.).
Se ne desume che:
   a) i termini di deposito di documenti, memorie e repliche sono imposti a pena di decadenza;
   b) il deposito tardivo è possibile solo se c’è un autorizzazione del collegio che si atteggia a rimessione in termini per errore scusabile, come ipotesi speciale di essa, di cui condivide i presupposti; 
   c) va comunque garantito il contraddittorio.
La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice ha ribadito che tali termini sono perentori a garanzia del contraddittorio e della corretta organizzazione del lavoro del giudice (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.2011, n. 2032; sez. V, 29.03.2011, n. 1910; sez. VI, 16.02.2011, n. 984).
6.4. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, risulta evidente che il deposito della memoria difensiva della società ricorrente, avvenuto lunedì 18.04.2011 in vista dell’udienza di discussione della presente controversia fissata per il giorno 17.03.2011, è tardivo perché effettuato oltre il termine ultimo per legge individuato nel giorno sabato 16.04.2011.
6.5. Dall’assodata tardività della memoria depositata dalla società ricorrente, dalla insussistenza dei presupposti per la concessione dell’errore scusabile (alla luce dei rigorosi principi da ultimo enucleati dall’adunanza plenaria di questo Consiglio n. 3 del 2010), nonché dalla natura meramente illustrativa delle comparse conclusionali, discende l’inutilizzabilità processuale della memoria depositata il 18.04.2011, in ordine all’integrazione o specificazione di fatti costitutivi di domande ed eccezioni non ritualmente proposte, con tutte le ulteriori conseguenze connesse all’applicazione dell’art. 26 c.p.a. (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.2011, n. 2032; 29.03.2011, n. 1926) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2011 n. 3252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sui presupposti per la legittima adottabilità del provvedimento extra ordinem disciplinato dall’art. 54 del T.U.E.L. di cui al D.Lgs. 267/2000.
Il presupposto per la legittima adozione da parte del Sindaco dell’ordinanza contingibile e urgente è, infatti, rappresentato dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità pubblica o la sicurezza urbana, non altrimenti fronteggiabile; ed a fronte del quale ricorra una (documentata) ragione di urgenza e/o indilazionabilità nel provvedere.
In particolare:
   - se la contigibilità consiste in una situazione imprevedibile ed eccezionale insuscettibile di essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall’ordinamento;
   - l’urgenza, causata dall’imminente pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dall’ordinamento giuridico.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di fronteggiare con immediatezza:
   - sia una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie)
   - sia una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente.
Indispensabile, comunque, è sempre la sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente.
È necessario rammentare, ulteriormente rispetto ai già riportati insegnamenti giurisprudenziali, come le ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco possano essere adottate laddove si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto costituenti concreta minaccia per la pubblica utilità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico vigente, in quanto, il potere esercitabile dal Sindaco in base alla normativa succitata presuppone una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, che non possa essere affrontata con alcun altro tipo di provvedimento e tale da risolvere una situazione comunque temporanea.
I principi sopra esposti sono stati anche recentemente confermati dal Consiglio di Stato, che ha ribadito i consolidati principi in materia, secondo cui presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento (non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità).
---------------

VII.2 Ciò osservato in punto di fatto, ritiene il Collegio sussistenti, nella fattispecie, i presupposti per la legittima adottabilità del provvedimento extra ordinem disciplinato dall’art. 54 del T.U.E.L. di cui al D.Lgs. 267/2000.
Il presupposto per la legittima adozione da parte del Sindaco dell’ordinanza contingibile e urgente è, infatti, rappresentato dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità pubblica o la sicurezza urbana, non altrimenti fronteggiabile; ed a fronte del quale ricorra una (documentata) ragione di urgenza e/o indilazionabilità nel provvedere.
In particolare:
   - se la contigibilità consiste in una situazione imprevedibile ed eccezionale insuscettibile di essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall’ordinamento;
   - l’urgenza, causata dall’imminente pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dall’ordinamento giuridico (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 04.12.2014 n. 2090; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 14.05.2014, n. 1255).
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di fronteggiare con immediatezza:
   - sia una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie)
   - sia una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente.
Indispensabile, comunque, è sempre la sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente (TRGA Trentino Alto Adige, Trento, 29.01.2014 n. 19; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2013 n. 709; TAR Basilicata, 23.05.2013 n. 294).
È necessario rammentare, ulteriormente rispetto ai già riportati insegnamenti giurisprudenziali, come le ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco possano essere adottate laddove si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto costituenti concreta minaccia per la pubblica utilità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico vigente, in quanto, il potere esercitabile dal Sindaco in base alla normativa succitata presuppone una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, che non possa essere affrontata con alcun altro tipo di provvedimento e tale da risolvere una situazione comunque temporanea.
I principi sopra esposti sono stati anche recentemente confermati dal Consiglio di Stato (cfr. sez. V, sentenza 21.02.2017 n. 774), che ha ribadito i consolidati principi in materia, secondo cui presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento (non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità: cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 26.07.2016, n. 3369, sez. III, 29.05.2015, n. 2697 e sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
La chiara –ed in punto di fatto, non contestata dalle ricorrenti– presenza di situazioni aventi potenzialità offensiva per la pubblica incolumità ed originate dallo stato di degrado e/o danneggiamento di porzioni di aree destinate ad urbanizzazione, appieno integra presupposto idoneo per l’adozione di provvedimento contingibile ed urgente, attesa l’evidente non dilazionabilità del provvedere a fronte di un pericolo grave ed attuale.
Né può fondatamente contestarsi il carattere di “contingibilità” che il provvedimento impugnato appieno evidenzia, attesa la caratterizzazione della situazione verificata dal Comune a seguito di sopralluogo e la parimenti evidente portata contenutistica dell’ordine con esso espresso, volto a realizzare (non già gli interventi di ripristino delle opere e delle porzioni di area oggetto di indagine, ma) la messa in sicurezza degli ambiti rivelatisi suscettibili di arrecare pregiudizio alla pubblica incolumità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.01.2018 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

ATTI AMMINISTRATIVI: Breve Guida sulle Firme Elettroniche (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed egli Esperti Contabili, 18.01.2018).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Chiarimenti sui Criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici, adottati con DM 11.10.2017 e pubblicati sulla G.U n. 259 del 06.11.2017 (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Versione 02/02/2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Attuazione articolo 10 (sanzioni amministrative) della Legge Quadro sull'inquinamento acustico, n. 447/1995 (Legge quadro sull'Inquinamento acustico) - modifiche apportate dal D.Lgs. n. 42/2017 (Disposizioni in materia di armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico, a norma dell'articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e), f) della legge 30.10.2014, n. 161 - Informativa (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento, nota 12.12.2017 n. 17452 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 12.02.2018 n. 35 "Approvazione del primo elenco degli alberi monumentali d’Italia" (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, decreto dipartimentale 19.12.2017).
---------------
Per consultare gli allegati del decreto cliccare qui.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 12.02.2018, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.01.2018, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 05.02.2018 n. 17).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 12.02.2018, "Pubblicazione dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte B, punto 2 - Aggiornamento al 31.01.2018" (comunicato regionale 05.02.2018 n. 16).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 12.02.2018, "Registro delle Unioni di comuni lombarde. 1° aggiornamento 2018 (in attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto D.S. 02.02.2018 n. 1269).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 08.02.2018 n. 32 "Modalità semplificate relative agli adempimenti per l’esercizio delle attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi di metalli ferrosi e non ferrosi" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto direttoriale 01.02.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 08.02.2018 n. 32 "Definizione delle caratteristiche del corso di formazione in materia di acustica ambientale, di cui all’allegato IX, parte A, punto 4, lettera B) del decreto legislativo 04.09.2002, n. 262" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 25.01.2018).

VARI: G.U. 08.02.2018 n. 32 "Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12.08.2016, n. 170 «Legge di delegazione europea 2015»" (D.Lgs. 15.12.2017 n. 231).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 6 del 05.02.2018, "Regolamento regionale per l’esercizio dell’attività di tintolavanderia" (regolamento regionale 01.02.2018 n. 5).

EDILIZIA PRIVATA: CONTENUTI DELLA MODULISTICA NECESSARIA AI FINI DELLA PRESENTAZIONE DELLA LISTA DI CONTROLLO DI CUI ALL’ARTICOLO 6, COMMA 9, DEL DECRETO LEGISLATIVO 03.04.2006, N. 152, COME MODIFICATO DALL’ARTICOLO 3 DEL DECRETO LEGISLATIVO 16.06.2017, N. 104 PER GLI IMPIANTI EOLICI (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per le Valutazioni e le Autorizzazioni Ambientali, decreto direttoriale 05.02.2018 n. 48).

VARI: G.U. 03.02.2018 n. 28 "Nuove disposizioni in materia di iscrizione e funzionamento del registro delle opposizioni e istituzione di prefissi nazionali per le chiamate telefoniche a scopo statistico, promozionale e di ricerche di mercato" (Legge 11.01.2018 n. 5).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: DISPOSIZIONI CONCERNENTI LE MODALITA’ DI VERSAMENTO DEGLI ONERI ECONOMICI PER LE PROCEDURE DI VALUTAZIONE AMBIENTALE (VAS E VIA) DI COMPETENZA STATALE E LA RELATIVA DOCUMENTAZIONE DA PRESENTARE (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per le Valutazioni e le Autorizzazioni Ambientali, decreto direttoriale 02.02.2018 n. 47).
---------------
Elenco Allegati
ALLEGATO N. 1 – Modalità di versamento degli oneri economici dovuti per le opere sottoposte a procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, Valutazione di Impatto Ambientale nell’ambito del Provvedimento Unico Ambientale, Verifica di Assoggettabilità a VIA, VIA (Legge Obiettivo 443/2001), Verifica di Ottemperanza (Legge Obiettivo 443/2001), Verifica di Attuazione (Legge Obiettivo 443/2001), per i piani e programmi sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica, Verifica di Assoggettabilità a VAS e per la revisione dei provvedimenti già emanati di VIA, VIA (Legge Obiettivo 443/2001) e VAS, ai sensi del Decreto Interministeriale n. 1 del 04.01.2018.

LAVORI PUBBLICI: G.U. 31.01.2018 n. 25 "Disposizioni per lo sviluppo della mobilità in bicicletta e la realizzazione della rete nazionale di percorribilità ciclistica" (Legge 11.01.2018 n. 2).

EDILIZIA PRIVATA: CONTENUTI DELLA MODULISTICA NECESSARIA AI FINI DELLA PRESENTAZIONE DELLE LISTE DI CONTROLLO DI CUI ALL’ARTICOLO 6, COMMA 9, DEL DECRETO LEGISLATIVO 03.04.2006, N. 152, COME MODIFICATO DALL’ARTICOLO 3 DEL DECRETO LEGISLATIVO 16.06.2017, N. 104 (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per le Valutazioni e le Autorizzazioni Ambientali, decreto direttoriale 03.08.2017 n. 239).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: C. Guadagnoli, La perdita di chance come presupposto del danno nella disciplina della responsabilità dell’Amministrazione (12.02.2018 - link a www.filodiritto.com).
---------------
Abstract: le esigenze, specialmente avvertite dalla giurisprudenza comunitaria, di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale hanno, negli ultimi anni, condotto all’ampliamento nel novero delle azioni proponibili dinanzi al Giudice Amministrativo in conseguenza di un’illegittima attività provvedimentale della Pubblica Amministrazione.
Particolarmente interessante, in proposito, risulta il tema del risarcimento del danno, specialmente allorquando lo stesso derivi dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa discrezionale.
Nel presente lavoro si andranno dunque a ripercorrere le principali tappe evolutive che hanno segnato lo sviluppo del diritto amministrativo nella direzione della tutela risarcitoria dell’interesse legittimo, per poi passare, senza tralasciare l’analisi della più recente evoluzione giurisprudenziale, a trattare la tematica con riferimento al complesso settore degli appalti pubblici.
---------------
Indice: 1. Dalla L.A.C. alla tutela risarcitoria dell’interesse legittimo - 2. L’accertamento del danno nell’ipotesi di interessi legittimi pretensivi; come può il Giudice del risarcimento sostituirsi all’Amministrazione nella valutazione della spettanza del bene della vita? - 3. La chance: posta del danno emergente o del lucro cessante? - 4. La soluzione proposta dalla giurisprudenza - 5. La tutela risarcitoria della chance in materia di appalti - 6. Osservazioni conclusive.

APPALTI: F. Laudante, La latitudine applicativa della c.d. clausola sociale negli appalti pubblici dopo il decreto correttivo del Codice degli Appalti; esame degli orientamenti giurisprudenziali (09.02.2018 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Catalisano, Il valore del registro di protocollo negli enti pubblici (08.02.2018 - tratto da a www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Il registro di protocollo detenuto presso gli enti pubblici: la natura giuridica – 2. La querela di falso civile - 3. Falsità materiale ed ideologica.

ATTI AMMINISTRATIVI: L’attuazione negli Enti Locali del nuovo Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, febbraio 2018).
---------------
Dal 25.05.2018 sarà direttamente applicabile, anche nell’ordinamento italiano, il nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, che introduce importanti novità anche per gli enti locali.
La nuova disciplina impone un diverso approccio nel trattamento dei dati personali, prevede nuovi adempimenti e richiede un’intensa attività di adeguamento organizzativo, preliminare alla sua definitiva applicazione a partire, appunto, dal suindicato termine del 25.05.2018.
Tra le principali novità ordinamentali della materia si segnalano, infatti, la responsabilità diretta dei titolari del trattamento in merito al compito di assicurare, ed essere in grado di comprovare, il rispetto dei principi applicabili al trattamento dei dati personali; la nuova categoria di dati personali (già dati sensibili); la nomina della nuova figura del Responsabile della protezione dei dati (che si aggiunge al Responsabile del trattamento dei dati); l’istituzione del registro delle attività di trattamento; la predisposizione di adeguate attività formative per il personale; la revisione dei processi gestionali al fine di individuare quelli che presentano maggiori rischi collegati al trattamento dei dati.
L’Anci, al fine di fornire un supporto operativo ai Comuni in questa fase di prima attuazione della nuova disciplina, ha predisposto l’11° Quaderno operativo della propria collana editoriale “Manuali tecnici per gli Amministratori”. Il volume, infatti, contiene lo schema di delibera del Consiglio Comunale e il modello del Regolamento adeguato alle novità normative.
In particolare, nello schema di Regolamento, si segnalano i suggerimenti operativi per i Comuni di minore dimensione demografica: l’esercizio in forma associata della nuova funzione assegnata ad un unico Responsabile della protezione dei dati, che può essere sia un dipendente adeguatamente formato, sia un soggetto esterno selezionato con procedura ad evidenza pubblica.
Trovano spazio nel Manuale anche fac-simili di registri delle attività, fondamentali per l’obbligatoria mappatura dei processi e l’individuazione del rischio di violazioni della privacy (commento tratto da www.anci.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Falcone, Interventi edilizi che necessitano dell'autorizzazione paesaggistica, dopo il D.P.R. n. 31 del 2017 (31.01.2018 - tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Quadro generale. 2. Visibilità degli interventi. 2.1. Opere interrate. 3. Le novità introdotte dal D.P.R. n. 31/2017. 3.1. Interventi minori privi di rilevanza paesaggistica. 3.2. Interventi non visibili dallo spazio pubblico. 3.3. Altri interventi esonerati dall'obbligo di autorizzazione. 3.4. Interventi non soggetti ad autorizzazione ex art. 149. 4. Opere temporanee, precarie o facilmente amovibili. 4.1. La disciplina posta dal D.P.R. n. 31 del 2017. 5. Volumi tecnici. 6. Interventi di ristrutturazione edilizia, demolizione e ricostruzione. 7. Interventi ed opere per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche. 8. Impianti di telecomunicazioni. 9. Impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili. 10. Opere pubbliche.

APPALTI SERVIZI: G. Zaccaria, Note minime sui caratteri del controllo analogo congiunto (19.01.2018 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Gallia, Agibilità degli edifici: attestarla non è semplice (Quaderni di Legislazione Tecnica n. 2/2017).
---------------
Per consolidata giurisprudenza, la commerciabilità degli immobili è subordinata alla presenza della licenza di agibilità ovvero dell’esistenza delle condizioni necessarie per ottenerla.
Fra i provvedimenti assunti con finalità di semplificare i procedimenti edilizi, nel 2013 l’agibilità delle costruzioni è stata estesa alle singole porzioni di un fabbricato o alle singole unità edilizie, e nel 2016 la licenza di agibilità (titolo espresso) è stata sostituita dalla segnalazione certificata di agibilità (dichiarazione di parte).
Tuttavia, un esame di casi concreti induce il dubbio che applicare i nuovi procedimenti di semplificazione possa risultare tutt’altro che semplice. (...continua).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONECirca la richiesta di parere in merito alla possibilità di “approvare [ora] il regolamento [previsto] dall’art. 93, co. 7-bis [del d.lgs. n. 163/2006] e [di] corrispondere l’incentivo per le attività svolte dai dipendenti nel periodo compreso dall’entrata in vigore dell’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 (che ha introdotto il [citato] comma 7-bis) fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016”, non vengono segnalati elementi di specifica peculiarità rispetto alla trattazione generale di cui alle precedenti deliberazioni della Sezione delle Autonomie, così che la problematica de qua resta ancorata alle conclusive considerazioni delle deliberazioni medesime.
---------------

1) – Il Sindaco del Comune di Massa Martana (PG) ha inoltrato a questa Sezione regionale di controllo, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell'Umbria, una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, in merito alla possibilità di “approvare [ora] il regolamento [previsto] dall’art. 93, co. 7-bis [del d.lgs. n. 163/2006] e [di] corrispondere l’incentivo per le attività svolte dai dipendenti nel periodo compreso dall’entrata in vigore dell’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 (che ha introdotto il [citato] comma 7-bis) fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
2) – La richiesta di parere è motivata dalle modifiche normative che hanno riguardato il “tema [degli] incentivi connessi allo svolgimento di attività di progettazione”, con specifico riferimento:
   a) agli “artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014 –convertito dalla l. n. 114/2014– che hanno abrogato la previgente normativa contenuta nell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, riscrivendola interamente nei commi da 7-bis a 7-quater dell’art. 93 dello stesso decreto”;
   b) al “decreto legislativo n. 50/2016 (nuovo codice dei contratti pubblici), entrato in vigore il 19/04/2016, che ha sostituito ed abrogato le disposizioni del d.lgs. n. 163/2006, prevedendo all’art. 113 gli <<incentivi per funzioni tecniche>>” .
2.1) – Nella citata richiesta di parere si è fatto notare che il d.l. n. 90/2014 “non ha dettato disposizioni transitorie e, pertanto, l’avvenuta abrogazione delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 92 del d.lgs. n.163/2006 ha comportato l’impossibilità di liquidare gli incentivi per le attività di progettazione fino alla definizione della nuova regolamentazione interna”.
Di qui la necessità per l’Ente di sapere se può approvare oggi “il regolamento per la costituzione e la ripartizione […] del fondo per la progettazione e l’innovazione [recte: incentivazione]”, il quale “troverebbe applicazione per le attività di progettazione espletate nel periodo dal 19/08/2014 e fino al 18/04/2016, tenuto conto [del fatto] che a decorrere dal 19/04/2016 è entrato in vigore il d.lgs. n. 50/2016”.
...
4) – La richiesta di parere all’esame del Collegio è soggettivamente ammissibile, in quanto promana dal sindaco del Comune di Massa Martana, ma oggettivamene è inammissibile, per mancanza della relativa problematica giuridica (v. recentemente, di questa Sezione, delib. n. 84/2017).
5) – A tale ultimo proposito, si evidenzia che i profili per i quali l’Ente ha formulato la richiesta di parere in riferimento attengono alla individuazione del “diritto intertemporale” da applicare al “tema degli incentivi connessi allo svolgimento delle attività di progettazione”, in ipotesi di successioni di norme che disciplinano diversamente la materia, come si evince dal relativo quesito.
6) – L’argomento è stato adeguatamente trattato dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG (già richiamata da questa Sezione nel parere 12.10.2009 n. 73), le cui valutazioni sono state riesaminate e confermate nella successiva deliberazione 24.03.2015 n. 11, adottata nell’adunanza del 09/03/2015.
6.1) –
Nella richiesta di parere ora all’esame del Collegio non vengono segnalati elementi di specifica peculiarità rispetto alla trattazione generale di cui alle precitate deliberazioni della Sezione delle Autonomie, così che la problematica indicata nella richiesta stessa resta ancorata alle conclusive considerazioni delle deliberazioni medesime (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 17.01.2018 n. 3).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Art. 113, commi 2, 3, e 4 D.Lgs. n. 50/2016 - L’esclusione dei finanziamenti europei e degli altri finanziamenti a destinazione vincolata dal venti per cento del fondo per incentivi per funzioni tecniche trova giustificazione nella natura vincolata prevista ex lege per tali risorse che, anche alla luce della vigente normativa in materia di armonizzazione contabile, possiedono già un’espressa finalizzazione che non può essere modificata dagli enti.
---------------
Il Sindaco del Comune di Campi Salentina (LE), dopo aver premesso che la questione oggetto del quesito non presenta commistioni con le funzioni di controllo e giurisdizionali esercitate da questa Corte ma attiene a principi di contenimento della spesa pubblica che hanno notevole incidenza sul bilancio dell’ente, richiama la disciplina dettata dall’art. 113, commi 2, 3, e 4 del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50 in materia di incentivi per funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
In particolare, il Sindaco specifica che il comma 4 del citato art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 prevede che il 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per incentivi per funzioni tecniche, ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della L. n. 196/1997 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
Ad avviso del Sindaco, il disposto normativo non chiarisce se “in caso di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata” il 20 per cento non potendo essere utilizzato per l’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti per l’innovazione, possa finanziare il fondo per funzioni tecniche svolte dai dipendenti.
...
Ritiene il Collegio che il quesito, da ricondurre in ogni caso a generalità ed astrattezza, possa reputarsi riconducibile nell’ambito della materia della contabilità pubblica poiché inerente l’interpretazione della disciplina in materia di erogazione delle risorse destinate a remunerare le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, come sostituito dall’art. 76 del D.Lgs. 19/04/2017 n. 56 e che statuisce che a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione si applica anche agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
Come già chiarito da questa Sezione, le forme di incentivazione per funzioni tecniche, ora riconosciute anche in relazione ad appalti per forniture e servizi, costituiscono eccezioni al generale principio della onnicomprensività del trattamento economico e pertanto possono essere riconosciuti solo per le attività espressamente previste dalla legge (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 24.01.2017 n. 5).
Secondo la disciplina dettata dai successivi commi 3 e 4 del su richiamato art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche nonché tra i loro collaboratori, mentre il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del predetto fondo, ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli.
L’odierno quesito appare, quindi, rivolto ad accertare la destinazione delle risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti vincolati posto che, per espresso dettato normativo, non possono essere utilizzate per l'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione e pertanto l’Ente richiede se tali risorse possano comunque finanziare il fondo per funzioni tecniche.
Ad avviso del Collegio, la natura vincolata richiamata dal legislatore nel caso di “risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata” esclude la possibilità di includerle nell’ambito del fondo per incentivi tecnici poiché le risorse provenienti da finanziamenti europei possiedono già un’espressa finalizzazione che non può essere modificata dall’ente ed è per tale ragione che il legislatore espressamente ne dispone l’esclusione per l'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione che pure integrano aspetti di particolare rilevanza per lo sviluppo degli enti.
Infatti, tale vincolo di destinazione presenta aspetti decisamente peculiari posto che tali risorse devono essere considerate come "vincolate da trasferimenti" ancorché derivanti da entrate proprie dell'ente, come specificato dal par. 9.11.4 del principio contabile allegato n. 4/1 al D.Lgs. n. 118/2011 e che la natura vincolata dei trasferimenti UE si estende anche alle risorse destinate al cofinanziamento nazionale.
La peculiarità di destinazione delle risorse di provenienza comunitaria è confermata anche dalla vigente normativa di armonizzazione contabile che prevede che le spese correnti correlate a finanziamenti comunitari possano essere assunte dagli enti territoriali anche per esercizi non considerati nel bilancio di previsione (par. 5.1, principio contabile allegato 4/2 al D.Lgs. n. 118/2011).
Osserva la Sezione che anche per gli “altri finanziamenti a destinazione vincolata” richiamati dalla medesima disposizione del comma 4 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, possono esprimersi le medesime considerazioni in merito all’impossibilità di mutamento del vincolo imposto per legge ed al riguardo, appare sufficiente richiamare l’art. 188, comma 1, del Tuel, ove, neppure ai fini dell’adozione del “piano di rientro” necessario a garantire il recupero dell’eventuale disavanzo di amministrazione, consente agli enti locali di utilizzare le entrate con specifico vincolo di destinazione o le entrate derivanti dall’assunzione di prestiti per le quali, parimenti, l’art. 202, comma 2, del Tuel chiarisce che assumono natura vincolata.
Occorre, peraltro, rammentare che, ai sensi dell’art. 187, comma 3-ter, lett. c), del Tuel, costituiscono quota vincolata del risultato di amministrazione le entrate accertate e le corrispondenti economie di bilancio derivanti da trasferimenti erogati a favore dell'Ente per una specifica destinazione e che la natura vincolata assume rilevanza anche nella gestione di cassa posto che l’art. 185, comma 2, lett. i), del Tuel precisa che i mandati di pagamento devono, tra l’altro, indicare “il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione stabiliti per legge o relativi a trasferimenti o ai prestiti”.
Come chiarito, infatti dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 184/2016: “il vincolo di destinazione si pone quale deroga al principio generale per garantire la finalizzazione di determinate risorse, come quelle erogate a titolo di sovvenzioni, contributi o finanziamenti, alla realizzazione dello scopo pubblico per il quale sono state stanziate. Pertanto, il carattere finalistico della deroga non consente interpretazioni o distinzioni di sorta all’interno della contabilità, poiché «la natura esclusiva del vincolo di destinazione delle risorse […] e la sua precipua funzionalizzazione alla realizzazione di un programma [costituisce] scelta finanziaria di fondo della previsione […], senza che a tali fini siano necessarie altre spiegazioni» (sentenza n. 38 del 2016)”.
La Sezione ritiene, pertanto, che le risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, escluse ex lege dalla quota del 20 per cento delle risorse del fondo per incentivi per funzioni tecniche, non possano essere destinate al predetto fondo proprio in ragione della finalizzazione che le caratterizza (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 21.09.2017 n. 108).

A.N.AC.

PUBBLICO IMPIEGO: Segnalazioni di illeciti presentate dal dipendente pubblico (c.d. Whistleblower) (link a www.anticorruzione.it).
---------------
E’ on-line dall'08.02.2018 l’applicazione informatica Whistleblowing per l’acquisizione e la gestione, nel rispetto delle garanzie di riservatezza previste dalla normativa vigente, delle segnalazioni di illeciti da parte dei pubblici dipendenti come definiti dalla nuova versione dell’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001.
Nella pagina di accesso al servizio sono pubblicate le indicazioni e le modalità operative.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOSussistenza di una situazione di incompatibilità, ai sensi dell’articolo 12, co. 4, del d.lgs. 39/2013 tra l’incarico di responsabile di area in un ente locale, ex articolo 109, co. 2, d.lgs. 267/2000 e quello di assessore in un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti (delibera 24.01.2018 n. 68 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Il Consiglio dell’Autorità nazionale anticorruzione ...
DELIBERA
   • nel caso esaminato sussiste una situazione di incompatibilità, ai sensi dell’art. 12, comma 4, lett. b), del D.lgs. n. 39/2013, tra l’incarico di responsabile di area nel Comune di Camposampiero (Padova) e la nomina di assessore nel Comune di Castelfranco Veneto (Treviso);
   • il RPCT del Comune di Camposampiero (Padova), preso atto della rilevata situazione di incompatibilità, diffida, senza indugio, l’interessato ad optare tra i due incarichi incompatibili entro i 15 giorni successivi alla sua comunicazione;
   • ove l’opzione non sia effettuata entro il termine perentorio di quindici giorni, ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 39/2013, il RPCT dichiara la decadenza dall’incarico di responsabile di area e la risoluzione del relativo contratto;
   • di dare comunicazione della presente al RPCT ed al sindaco del Comune di Castelfranco Veneto (Treviso), nonché al RPCT ed al sindaco del Comune di Camposampiero (Padova), con richiesta di dare comunicazione a questa Autorità degli esiti del procedimento.

LAVORI PUBBLICIImprese non autorizzate nei cantieri delle casette. Rilevate irregolarità nella ricostruzione post sisma in Umbria.
Imprese non autorizzate nei cantieri, personale tecnico non appartenente alle imprese esecutrici o subappaltarici; assenza di verifica sui requisiti.

Sono queste alcune delle irregolarità rilevate dall'Anac (delibera 24.01.2018 n. 67) in esito ad alcuni accertamenti ispettivi eseguiti in cantieri dove si sta provvedendo alla realizzazione delle casette destinate alle popolazioni terremotate dell'Umbria.
Dalle verifiche effettuate, l'Anac ha messo in evidenza (inviando anche gli atti alle procure della Repubblica presso i tribunali di Perugia e Napoli) alcune «significative criticità relativamente alla presenza nei cantieri di imprese che non risultavano essere tra quelle che avevano presentato la notifica preliminare di subappalto».
In particolare, è stata rilevata la presenza di imprese diverse da quelle che avevano sottoscritto il contratto e a giustificazione della loro presenza nei cantieri i responsabili delle imprese hanno dichiarato di essere presenti in qualità di personale distaccato presso l'impresa esecutrice o presso le subappaltatrici. Si trattava peraltro di un numero di unità di personale distaccato presente nei cantieri quantitativamente rilevante; in un caso non è stata rilevata la presenza di alcun dipendente dell'impresa appaltatrice o della subappaltatrice.
Inoltre, è stato riscontrato che, alla data di effettuazione delle attività ispettive non risultavano ancora concluse le verifiche sui requisiti generali e speciali delle imprese subappaltatrici. L'Anac nella delibera ha affermato che: «pur comprendendo le difficoltà organizzative derivanti dall'urgenza nel provvedere in tempi ristretti alla costruzione di alloggi temporanei per le popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016, si rileva una evidente carenza nell'attività di controllo che avrebbe dovuto essere effettuata nei cantieri».
Si tratta di fattispecie che comportano una violazione dell'art. 105, comma 2, del dlgs n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici) che prevedono l'obbligo dell'affidatario di comunicare alla stazione appaltante, prima dell'inizio della prestazione, tutti i sub-contratti che non sono subappalti comprensivi del nominativo della ditta, il suo corrispettivo, la prestazione fornita di lavori, servizi o forniture.
Una serie di prescrizioni, ha detto l'Anac, totalmente ignorate dalle imprese. L'Anac evidenzia anche che «durante le visite ispettive della Guarda di finanza. non è risultato reperibile in cantiere alcun dipendente di tali ditte mentre, al contrario, risultava impiegato personale di ditte che non erano state autorizzate preventivamente all'esecuzione delle opere».
Infine, la delibera ha evidenziato che «non risultano essere state esperite attività di verifica dei requisiti generali e tecnici, né è stata verificata ai sensi della legge n. 575 del 1965 l'assoluta estraneità da legami criminosi degli operatori economici che, è stato altresì rilevato dalla Guardia di finanza, provengono dalla stessa area territoriale a forte incidenza della criminalità organizzata».
Infine, la delibera ha ipotizzato anche che «la presenza di ditte non autorizzate possa nascondere la mancanza da parte degli stessi oo.ee. dei requisiti tecnici necessari per l'espletamento delle operazioni, oltre a situazioni di sfruttamento della manodopera in nero» (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

APPALTIVerifiche random sui commissari. GARE/ In G.U. le linee guida Anac aggiornate.
Aggiornate le linee guida Anac sui commissari di gara, ma manca ancora il decreto ministeriale sui compensi e un'altra linea guida sulla rotazione degli esperti. Prevista la valutazione delle offerte da parte di commissari che operano «da remoto». Verifiche a campione sui requisiti.

Sono queste alcune delle novità contenute nel testo aggiornato (con la
determinazione 10.01.2018 n. 48) delle linee guida n. 5 sui commissari di gara pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 28 del 03.02.2018.
L'aggiornamento è dovuto alle novità apportate dal dlgs. 56 del 19.04.2017, il primo decreto correttivo del codice dei contratti pubblici, agli articoli 77 e 78 del codice. Va precisato comunque che tutto il sistema ancora non può andare a regime perché ancora manca il decreto del Ministero delle infrastrutture che deve definire i compensi per i commissari di gara.
Nel merito delle principali modifiche apportate con determina pubblicata in Gazzetta, in primo luogo si specifica l'esistenza dell'obbligo di scegliere il Presidente tra gli esperti selezionati dall'Autorità per gli affidamenti relativi a contratti per i servizi e le forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, per i lavori di importo inferiore a un milione di euro o per quelli che non presentano particolare complessità.
Sarà invece la stazione appaltante a scegliere (senza un obbligo), ma soltanto per i contratti di servizi e forniture di elevato contenuto scientifico e tecnologico, se selezionare i componenti della commissione giudicatrice nell'ambito di propri esperti interni previa richiesta e dialogo con l'Anac (dovrà inviare una richiesta motivata alla stazione appaltante prima di scegliere fra gli interni). In generale il numero di membri della commissione giudicatrice dovrà essere di tre o cinque componenti, ma Anac consiglia che siano in genere tre.
Dal punto di vista dei diversi requisiti che dovranno possedere i commissari, l'Anac specifica che master, dottorati, Phd saranno valutati oltre che con riferimento alla contrattualistica pubblica anche in relazione ai settori di competenza. Introdotta la verifica a campione sulla correttezza e sul mantenimento nel tempo di quanto autodichiarato per l'iscrizione. Per garantire la rotazione degli esperti si chiarisce che nelle future linee guida si dovrà prendere in considerazione il «numero di incarichi effettivamente assegnati».
Per quel che attiene alla copertura assicurativa dei commissari, se essa è prevista per quelli esterni, per i dipendenti della p.a. si potrà prescindere alla stipula di una copertura assicurativa: quindi nei casi in cui i commissari (interni) siano dipendenti della stazione appaltante che li richiede non scatta l'obbligo di assicurazione. Prevista anche la possibilità che i commissari giudichino le offerte lavorando da remoto, ma si dovrà utilizzare «un canale telematico che assicuri autenticità e riservatezza delle comunicazioni» (articolo ItaliaOggi del 06.02.2018).

APPALTI: Elenco dei soggetti aggregatori di cui all’articolo 9 del decreto legge 24.04.2014, n. 66 (delibera 17.01.2018 n. 31 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTICommissari p.a, serve la polizza. L'assicurazione è necessaria per assumere incarichi esterni. Determinazione dell'Anac che aggiorna la linea guida 5 sulle commissioni di gara.
Sedute riservate da remoto per la valutazione delle offerte; rotazione degli esperti in base agli incarichi ricevuti; polizza assicurativa per i commissari dipendenti dalla pubblica amministrazione; verifica dei requisiti dei commissari a campione.

Sono questi alcuni dei contenuti della
determinazione 10.01.2018 n. 4 dell'ANAC che aggiorna parte della linea guida 5/2016 ai contenuti del dlgs 56 del 19/04/2017 che ha modificato alcune parti degli articoli 77 e 78 del codice dei contratti pubblici.
Fra le diverse integrazioni contenute nelle linee guida Anac sui commissari di gara, di particolare interesse è quella sulle modalità di svolgimento dei lavori della commissione giudicatrice. In particolare, si stabilisce che la commissione debba aprire in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica dell'integrità e della presenza dei documenti richiesti nel bando di gara (o della lettera di invito). Invece in una o più sedute riservate, o lavorando da remoto, la commissione dovrà valutare le offerte tecniche e procedere all'assegnazione dei relativi punteggi, applicando i criteri e le formule indicati nel bando o nella lettera di invito.
In quest'ultimo caso l'Anac ha precisato che si dovrà utilizzare «un canale telematico che assicuri l'autenticità nonché la riservatezza delle comunicazioni».
Altra integrazione di rilievo riguarda il contenuto delle ulteriori linee guida che l'Anac dovrà emanare (entro tre mesi dalla pubblicazione del dm di cui al comma 10 dell'art. 77 del codice dei contratti pubblici che deve fissare i compensi dei commissari di gara): per quanto riguarda le modalità per garantire la rotazione degli esperti si chiarisce che nelle future linee guida si dovrà prendere in considerazione il «numero di incarichi effettivamente assegnati».
È inoltre prescritto che le stazioni appaltanti, una volta pubblicato sul proprio sito internet la composizione della commissione giudicatrice, saranno tenute a dare comunicazione dell'avvenuta pubblicazione all'Autorità entro tre giorni dalla stessa.
La linea guida 5/2016 viene integrata anche con riguardo all'obbligo di polizza assicurativa che i commissari (dipendenti dell'amministrazione) devono rispettare: sarà richiesta la polizza soltanto quando il commissario lavori «in amministrazioni diverse da quelle di appartenenza»; l'assenza di un'idonea copertura assicurativa precluderà, ha detto l'Anac, la possibilità di svolgere incarichi all'esterno della propria amministrazione.
Per quel che riguarda le modalità di verifica dei requisiti si integra la linea guida con quanto previsto dall'articolo 216, comma 12, come modificato dal primo decreto correttivo, stabilendo che, fino alla piena interazione dell'albo con le banche dati istituite presso le amministrazioni detentrici delle informazioni inerenti ai requisiti dei commissari, si procede con verifica a campione sulle autodichiarazioni dei commissari che hanno presentato domanda di iscrizione all'elenco Anac.
In questi casi, l'Autorità procederà alla verifica, a campione, sulla correttezza e sul mantenimento nel tempo di quanto autodichiarato per l'iscrizione all'elenco, anche avvalendosi dell'ausilio della Guardia di finanza.
Viene anche precisato che i commissari interni (escluso il presidente) potranno essere nominati per servizi e forniture sotto soglia Ue (209 mila euro), per lavori al di sotto di un milione e per lavori non particolarmente complessi, fra i quali si chiarisce che rientrano anche quelli affidati con i sistemi dinamici di acquisizione previsti dall'articolo 55 del codice (articolo ItaliaOggi del 26.01.2018).

APPALTI: Linee guida n. 5, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici” - Aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017con deliberazione del Consiglio n. 4 del 10.01.2018 (determinazione 10.01.2018 n. 4 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Indicazioni alle stazioni appaltanti sulle richieste di rilascio del certificato del Casellario Giudiziale (comunicato del Presidente 10.01.2018 - link a www.anticorruzione.it).

LAVORI PUBBLICIGare a invito, alle imprese basta l'attestazione Soa. L'authority ha accolto il ricorso dell'Ance sui lavori analoghi.
I cosiddetti lavori analoghi non possono essere utilizzati per selezionare le imprese da invitare alle procedure negoziate.

E' quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con la Parere di Precontenzioso 20.12.2017 n. 1362 - rif. PREC 335/17/L in risposta ad una istanza di parere di precontenzioso presentata dall'Ance (l'associazione nazionale dei costruttori edili) ad aprile 2017.
L'associazione dei costruttori aveva prefigurato profili di illegittimità relativamente ad un avviso di costituzione di un elenco di imprese dal quale la stazione appaltante avrebbe attinto per la selezione degli operatori da invitare a due procedure negoziate. Veniva contestato in primo luogo la richiesta ai fini dell'iscrizione all'elenco delle imprese qualificate, e poi ai fini del successivo invito alle procedure negoziate correlate, accanto alla Soa, un ulteriore requisito di qualificazione, connesso all'espletamento di lavori analoghi. In secondo luogo, si eccepiva anche che gli stessi lavori analoghi fossero utilizzati anche come criterio di selezione degli operatori da invitare alla procedura negoziata.
L'Anac ha accolto i rilievi formulati dai costruttori affermando che «la modalità di selezione degli operatori da invitare alle procedure negoziate non risulta conforme ai principi generali in materia di contratti pubblici». In base al codice dei contratti pubblici (articolo 84), infatti, le imprese di costruzioni, per importi superiori a 150 mila euro provano il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dall'articolo 83 del decreto 50/2016 attraverso l'attestazione Soa (società organismi di attestazione).
Soltanto per gli appalti al di sopra dei 20 milioni le stazioni appaltanti possono legittimamente richiedere la cifra d'affari in lavori pari a due volte l'importo a base di gara oppure (ma in questo caso per affidamenti oltre i 100 milioni) i cosiddetti lavori analoghi per entità e tipologia.
L'attestazione Soa, ha detto l'Anac nella delibera, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la partecipazione alle gare, senza che vi sia la necessità (o meglio l'onere) per il concorrente di provare ulteriori requisiti di qualificazione. Si tratta di un principio generale, ribadito da Anac, che è contenuto nell'articolo 60 del Dpr 207/2010 il quale stabilisce espressamente che l'attestazione di qualificazione costituisce «condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell'esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell'affidamento di lavori pubblici».
La norma regolamentare (attuativa del precedente codice del 2006 ma richiamata come principio generale sia nel manuale per la qualificazione, sia nelle linee guida 4/2016 dell'Anac) è infatti ancora in vigore perché, in attesa dell'adozione delle specifiche linee guida in tema di qualificazione degli operatori economici, è stata fatta salva dalla disciplina transitoria (art. 216, comma 14, del nuovo codice) che fa riferimento alle norme del Dpr 207/2010 in tema di qualificazione degli operatori economici. Da ciò, l'illegittimità dell'avviso per lesione dei principi di trasparenza dell'azione amministrativa e di par condicio dei concorrenti (articolo ItaliaOggi del 02.02.2018).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Individuazione RPCT.
Domanda
Negli enti locali, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza è individuato, di norma, nel segretario comunale o provinciale. Quali sono i casi in cui si può nominare un altro soggetto?
Risposta
L’indicazione contenuta nell’art. 1, comma 7, della legge Severino (06.11.2012, n. 190), è piuttosto precisa nell’individuare, per gli enti locali, il segretario come figura a cui attribuire –con decreto del sindaco o del presidente della provincia– le funzioni di responsabile dell’anticorruzione e trasparenza.
L’indicazione risulta condivisibile se si pensa che:
   a) il segretario è un dipendente del ministero dell’Interno e non dell’ente locale;
   b) non dovrebbe svolgere compiti gestionali diretti e, in particolare, quelli con maggiore rischio corruttivo potenziale;
   c) non dovrebbe svolgere le funzioni di responsabile dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD) e/o di presidente/componente del Nucleo di Valutazione o OIV.
Sulla base della nostra esperienza diretta, i casi in cui l’ente non ha nominato il segretario, sono sostanzialmente due:
   a) assenza prolungata del segretario o vacanza del relativo posto;
   b) segretario sottoposto ad indagine penale o con condanna, anche non definitiva, per reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, nonché per i reati di falso e truffa.
Al verificarsi di tali casistiche è bene che l’organo deputato alla nomina, indirizzi la sua attenzione sul vice-segretario, se presente, o su altra figura apicale –dirigente o posizione organizzativa– tralasciando, quanto più possibile, i dipendenti deputati alla gestione dei settori tradizionalmente più esposti al rischio corruzione (ad esempio: ufficio contratti, gestione del patrimonio, governo del territorio) (13.02.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La risposta è trasparente. Accessibile il riscontro alla Corte dei conti. Errato il diniego opposto dal comune alla richiesta del consigliere.
È legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, in materia di diritto di accesso da parte dei consiglieri comunali, il diniego espresso da un Comune nei confronti di un consigliere che ha chiesto all'Ente di potere acquisire «il riscontro fornito dal Comune ad una nota della Corte dei conti»?

Nel caso di specie, a seguito del diniego all'accesso, l'interessato ha diffidato il responsabile del Settore ai sensi dell'art. 328, comma II, del codice penale. Il Comune, che avrebbe parzialmente riscontrato la richiesta della Corte dei conti, ha, per converso, precisato che trattasi di «chiarimenti e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'Organo di revisione contabile».
In merito, il Plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Nella fattispecie, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso hanno rilevato che le richieste della Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, commi 166 e segg., della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs 18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'Ente e per l'attività della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura giudiziale (rispetto ai quali la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano, invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del consigliere al vincolo della riservatezza.
Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il Consiglio di stato, sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto «sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000». Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta materia».
Talché, come affermato sempre dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l'obbligo di pubblicare».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per l'Ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio dell'esercizio di tale diritto, non appare che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

LAVORI PUBBLICI: Qualificazione LL.PP..
Domanda
Nella tabella descrittiva delle lavorazioni oggetto dell’appalto, quali categorie devono essere evidenziate? In particolare le SIOS devono sempre essere evidenziate oppure per essere considerate tali è necessario che presentino particolari caratteristiche? Quali sono i limiti di avvalimento e di subappalto nel nuovo codice?
Risposta
Il quadro normativo in materia di qualificazione degli operatori economici negli appalti di lavori pubblici è piuttosto complesso. Con riferimento al quesito occorre rifarsi agli artt. 3, comma 1, lett. oo-bis), oo-ter), e 89, comma 11, del codice, nonché al d.m. 10.11.2016 n. 248 “Regolamento recante individuazione delle opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei requisiti di specializzazione richiesti per la loro esecuzione, ai sensi dell’art. 89, co. 11, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50”.
Sulla base di tale contesto normativo il progettista dovrà aggregare le varie voci di lavoro alle specifiche categorie di appartenenza generali OG e specializzate OS, allo scopo di individuare:
   1. la categoria prevalente: la categoria di lavori, generale o specializzata, di importo più elevato fra le categorie costituenti l’intervento (art. 3, comma 1, lett. oo-bis), d.lgs. 50/2016);
   2. le categorie scorporabili: le categorie di lavori non appartenenti alla prevalente e comunque di importo superiore al 10 per cento dell’importo complessivo dell’opera o lavoro, ovvero di importo superiore a 150.000 euro (art. 3, comma 1, lett. oo-ter), d.lgs. 50/2016);
   3. le categorie scorporabili di cui all’art. 89, co. 11: le c.d. SIOS –strutture, impianti e opere speciali– elencate all’art. 2, comma 1, del decreto del MIT n. 248 del 10.11.2016 di importo superiore al 10 per cento dell’importo complessivo dei lavori. [1]
In sede di predisposizione dei documenti tecnici è necessario prestare la massima attenzione e aggregare le lavorazioni in modo tale da rispettare la suddivisione e le percentuali sopra delineate, al fine di una corretta predisposizione del bando di gara.
In particolare:
   - Nel caso di categorie generali OG e specializzate OS (non SIOS) a qualificazione obbligatoria sono indicate nel bando, oltre alla prevalente, quelle scorporabili di importo superiore al 10% del valore complessivo dell’opera o lavoro o superiori a 150.000 euro. Le categorie scorporabili, fermo il limite stabilito per l’importo complessivo dei lavori del 30%, sono subappaltabili al 100% (tranne la OG 11 qualificata come SIOS).
   - Nel caso di categorie specializzate SIOS sono indicate nel bando, oltre alla prevalente, quelle scorporabili di importo superiore al 10% del valore complessivo dell’opera o lavoro o superiori a 150.000 euro. Se l’importo della scorporabile supera il 10% del totale dei lavori, ai sensi degli artt. 89, comma 11, 105, comma 5, del codice, e del d.m. 248/2016, non è ammesso l’avvalimento e il subappalto non può superare il 30% dell’importo della singola categoria. Se il relativo importo non supera il 10% del totale dei lavori sono subappaltabili al 100%.
   - Nel caso di categorie specializzate a qualificazione NON obbligatoria NON SIOS sono indicate nel bando, oltre alla prevalente, quelle scorporabili di importo superiore al 10% del valore complessivo dell’opera o lavoro o superiori a 150.000 euro. Tutte le categorie scorporabili fermo il limite stabilito per l’importo complessivo dei lavori del 30%, sono subappaltabili al 100% o eseguibili in proprio se in possesso della qualificazione nella categoria prevalente per un importo adeguato.
Disciplina specifica è prevista per la categoria generale OG2 (07.02.2018 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI: Informazioni ambientali.
Domanda
Facendo una verifica al nostro sito web, sezione Amministrazione trasparente>Informazioni ambientali è emerso che non ci sono documenti e informazioni pubblicate. Quali obblighi ha un comune, sulla materia?
Risposta
Gli obblighi di pubblicazione delle informazioni ambientali sono disciplinati nell’art. 40 del d.lgs. 33/2013. Nel comma 2, del citato articolo, si fa riferimento alle amministrazioni di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. 195/2005, tra quelle obbligate a pubblicare i dati e, tra queste, compaiono le “amministrazioni locali”, quindi anche i comuni.
Chiarito ciò, per delimitare il campo degli obblighi, diventa necessario consultare l’Albero della trasparenza, approvato dall’ANAC con l’allegato 1, alla deliberazione n. 1310 del 28.12.2016.
Le informazioni da pubblicare sono quelle previste nell’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. 195/2005 e riguardano:
   • informazioni ambientali;
   • stato dell’ambiente;
   • fattori inquinanti;
   • misure incidenti sull’ambiente e relative analisi d’impatto;
   • relazioni sull’attuazione della legislazione;
   • stato della salute e sicurezza umana;
   • relazione sullo stato dell’ambiente del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio.
Il dettaglio con i contenuti dell’obbligo sono esplicitati nella Colonna 5, dell’allegato 1, della richiamata delibera ANAC n. 1310/2016 e l’aggiornamento dei dati, documenti e informazioni, deve essere effettuato in modo “tempestivo” rispetto alle loro eventuali variazioni, integrazioni o modifiche.
Come previsto nel Paragrafo 7.1 del PNA 2016 (delibera ANAC n. 831 del 03.08.2016), si ricorda, infine, che il Piano Anticorruzione e Trasparenza, da adottare in ogni ente, deve contenere una sezione (ex PTTI) in cui vengano indicati i soggetti cui compete la trasmissione e la pubblicazione dei dati, documenti e informazioni.
L’obbligo riguarda, ovviamente, anche la sottosezione delle Informazioni ambientali (06.02.2018 - link a www.publika.it).

PATRIMONIO: Acquisizione con pagamento rateale.
Domanda
Gli amministratori del mio Ente vorrebbero acquisire un fabbricato già ultimato da destinare a sede della nuova farmacia comunale che stiamo per aprire finanziandolo con Avanzo, non abbiamo tuttavia a disposizione gli spazi necessari sul Pareggio di Bilancio.
Si era pertanto valutato di procedere con un pagamento rateale dello stesso (già concordato con l’attuale proprietario) da iscrivere anche nell’atto di acquisto.
E’ corretto tale modo di procedere o si configura come elusivo dei citati vincoli di finanza pubblica?
Risposta
Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dall’assunto che non si palesa mai elusione laddove, a fronte di una scelta dell’Ente legittima, si segue il corretto metodo di contabilizzazione dell’operazione. Nel caso oggetto di quesito, il problema non è tanto –come vedremo– l’elusione del Pareggio di Bilancio, quanto i riflessi del principio generale di “prevalenza della sostanza sulla forma” sull’iscrizione in contabilità dell’operazione. Andiamo con ordine e vediamo il perché.
Il principio contabile applicato 4/2 al punto 5.3.2, al fine di garantire il rispetto del citato principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma, prevede che per l’acquisizione di un investimento già realizzato con pagamento frazionato negli esercizi successivi sia necessario “registrare la spesa di investimento imputandola interamente all’esercizio in cui il bene entra nel patrimonio dell’ente“, provvedendo alla registrazione contestuale:
   a) del debito nei confronti del soggetto a favore del quale è previsto il pagamento frazionato, imputato allo stesso esercizio dell’investimento, provvedendo alla necessaria regolarizzazione contabile;
   b) dell’impegno per il rimborso del prestito, con imputazione agli esercizi secondo le scadenze previste contrattualmente a carico della parte corrente del bilancio.
Ovvero si dovrà trattare tale acquisizione come se avvenisse all’atto del rogito con mutuo (compensando il mandato al titolo 2 e la reversale al titolo 6 per l’importo rinviato agli anni successivi), mentre si dovranno trattare le successive rate di pagamento dell’atto come se si stesse rimborsando la quota capitale del mutuo stesso (emettendo il mandato a saldo del fornitore dal capitolo iscritto al titolo 4).
Ai fini del rispetto del Pareggio di Bilancio, ciò determina che non risultando rilevante l’Entrata da mutuo quanto non lo era quella da Avanzo, di fatto non si ottiene nessun vantaggio effettivo su tale fronte per l’Ente a gestire tale operazione alle condizioni dettagliate nel quesito (05.02.2018 - link a www.publika.it).

PATRIMONIO: L'immobile scolastico.
DOMANDA:
Il nostro ente è proprietario del 30% dell’immobile adibito a scuola secondaria di 1° grado con altri due comuni limitrofi, che hanno rispettivamente la quota di proprietà del 50% e del 20%.
L’Amministrazione Comunale intende effettuare lavori di sistemazione dello stabile per un importo di circa 1.000.000,00 di euro utilizzando gli spazi finanziari sblocca scuola 2018, anche senza accordo o contribuzione da parte degli altri due enti che, anche per problemi di vincoli di bilancio, non possono attualmente partecipare alla spesa.
Si chiede quindi se tecnicamente e contabilmente sia fattibile che il nostro ente proceda autonomamente accollandosi l’intero importo della spesa, a fronte di un incremento del valore dell’immobile anche per gli altri proprietari. In caso negativo può essere fattibile procedere comunque previo accordo tra gli stessi che esenti il nostro ente dalla contribuzione delle future spese di manutenzione straordinaria fino al raggiungimento dell’importo anticipato per conto degli altri comuni proprietari.
RISPOSTA:
Si ritiene che non sia legittimo che il Comune in questione, proprietario in misura pari al 30% della scuola, proceda a farsi carico dell’intera spesa finalizzata a realizzare un intervento volto a “sistemare lo stabile” per un importo di 1 milione di euro, senza avere sottoscritto un accordo con gli altri enti proprietari della quota restante; questo accordo, dovrebbe prevedere, oltre alla autorizzazione a procedere, anche la proporzionale contribuzione al sostenimento della spesa.
Pertanto si ritiene che, per potere procedere, sia necessario sottoscrivere tra gli enti proprietari, una convenzione adottata ai sensi dell’articolo 30 del Tuel. Questa convenzione dovrà stabilire i rapporti finanziari e i reciproci obblighi e garanzie, che si verranno a stabilire tra gli enti a seguito della realizzazione dell’intervento in questione.
Si ritiene anche che sia possibile prevedere che l’ente che realizza l’intervento sia esentato dalle future spese di manutenzione straordinarie, fino al raggiungimento dell’importo anticipato dal Comune; in proposito, si ritiene, però, che in questa convenzione debba anche essere riportato un credibile e realistico piano di futura manutenzione straordinaria, in base al quale sia possibile ipotizzare il recupero delle somme anticipate dal Comune (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI SERVIZI: I servizi internet di connettività.
DOMANDA:
Quali sono le corrette procedure per l'affidamento del servizio di connettività internet (ADSL, senza fonia) per gli uffici comunali?
RISPOSTA:
Va innanzitutto ricordato che l’affidamento di beni e servizi informatici e di connettività ha trovato una più puntuale disciplina all’art. 1, comma 512, della L. 208/2015, così come modificato dall’art. 1, comma 419, della L. 232/2016 (Legge di bilancio per l’anno 2017) il quale così dispone: “al fine di garantire l'ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività, fermi restando gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti per i beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite gli strumenti di acquisto e di negoziazione di Consip S.p.A. o dei soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili presso gli stessi soggetti”.
Va inoltre ricordato che in generale la normativa in materia di acquisizione di beni e servizi, nel favorire sempre di più il ricorso a centrali di committenza ed agli strumenti telematici di negoziazione, prevede per gli enti locali la facoltà di avvalersi delle convenzioni CONSIP ovvero, in caso di acquisizioni per via autonoma, l’obbligo di utilizzarne i parametri qualità/prezzo come limiti massimi, la cui violazione determina la nullità del contratto, costituisce illecito disciplinare ed è causa di responsabilità amministrativa (v. comma 449 l. n. 296/2006 richiamato dal succ. comma 450 sotto riportato).
Sussiste inoltre l'obbligo di ricorrere al Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MEPA) per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a € 1.000,00 e al di sotto della soglia comunitaria, così come disposto dall’art. 1, comma 450, della L. 296/2006, modificato dall’art. 1, comma 502, della L. 208/2015, e la cui violazione determina la nullità del contratto e costituisce illecito disciplinare, essendo altresì causa di responsabilità amministrativa.
Tale comma 450 dispone in particolare “Le amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, nonché gli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale pubblici e le agenzie fiscali di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 300, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al d.P.R. 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”.
Il precedente comma 449 dispone invece: “le restanti amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. Gli enti del Servizio sanitario nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di riferimento ovvero, qualora non siano operative convenzioni regionali, le convenzioni-quadro stipulate da Consip S.p.A.".
Considerato che l’art. 23-ter, comma 3, del D. L. 90/2014, convertito con modificazioni dalla L. 114/2014 (comma così modificato dall'art. 1, comma 501, legge n. 208 del 2015), dispone che “Fermi restando l'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, l'articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, e l'articolo 9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, i comuni possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40.000 euro”.
Dunque sussiste la possibilità per i Comuni di procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore ad € 40.000,00 senza dover ricorrere alle forme di aggregazione previste dall’art. 37 del D.Lgs. 50/2016.
Pertanto, considerato anche che la Consip ha dettato proprie del sistema di e-procurement della pubblica amministrazione, si può ritenere che anche per codesto comune le procedure correttamente applicabili per i servizi in questione siano quelle fin qui esposte e possa scegliere di far ricorso agli strumenti di acquisto e di negoziazione di Consip s.p.A. o dei soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di committenza regionali.
Risulta peraltro dal sito di Consip web www.acquistinretepa.it che il sistema prevede la consultazione di un catalogo on-line di prodotti e servizi, offerti da una pluralità di fornitori, con la possibilità di scegliere quelli che il comune ritenga maggiormente rispondenti alle proprie esigenze mediante invio di un ordine diretto d'acquisto (OdA), o di una richiesta d'offerta (RdO) o mediante trattativa diretta. Un affidamento diretto può tuttavia trovare luogo ai sensi dell’art. 36, c. 2, lettera a), del D.Lgs. 50/2016 solo nel caso di servizio di importo inferiore a € 40.000,00.
In questo caso l’amministrazione potrà individuare la migliore offerta (anche in base al rapporto qualità/prezzo) tra le varie presenti nel M.E.P.A. e ciò in conformità a quanto prevede l’art. 32 del D.Lgs. 50/2016 il quale, al comma 2, dispone che “prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti, in conformità ai propri ordinamenti, decretano o determinano di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte” (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi unipersonali ok. Se statuto e regolamento non li vietano. La materia è affidata all'autonomia delle amministrazioni locali.
È ammissibile la costituzione di un gruppo unipersonale, da parte di un consigliere fuoruscito da altro gruppo preesistente, nel caso in cui l'ente non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nella fattispecie in esame lo statuto del comune si limita a stabilire che i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il Consiglio comunale prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione e ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così, implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Posto che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38 del Tuel, la soluzione alle relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Nel caso specifico, comunque, non sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che impedisca la formazione di nuovi gruppi, appare corretta la posizione dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile a seguito dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento (articolo ItaliaOggi del 02.02.2018).

COMPETENZE GESTIONALI: Qualifica responsabile tributi locali.
Domanda
Il responsabile dei tributi locali di un comune può essere un dipendente non incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
Si ritiene che il funzionario responsabile d’imposta possa essere individuato anche tra soggetti non titolari di posizione organizzativa, dal momento che la legittimazione a svolgere tale incarico trova la sua fonte nel provvedimento di nomina a responsabile del servizio (ovvero di funzionario responsabile dei tributi) e non già nell’incarico di posizione organizzativa (istituto previsto dal CCNL e non già da una disposizione legislativa).
Invero, nel caso in cui il funzionario responsabile sia un sub-apicale, il mancato conferimento dell’incarico di posizione organizzativa non inficia in alcun modo la legittimità degli atti adottati in quanto la “titolarità dell’organo pubblico” è prevista dalla legge e non dal contratto collettivo di lavoro.
La tesi proposta trova conferma nell’orientamento giurisprudenziale affermatosi in materia (cfr. TAR Puglia, Lecce, sent. n. 8515/2002 e TAR Puglia, Bari, sent. n. 1539/2003), secondo cui il funzionario responsabile non deve necessariamente essere un dirigente (apicale), potendo anche essere un ex VIII livello o sub-apicale (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 3677/2002), con conseguente legittimità degli atti emessi.
Il nuovo funzionario designato dall’amministrazione non potrà, comunque, svolgere le mansioni di ufficiale della riscossione se non ha conseguito l’apposita abilitazione prevista dall’art. 42 del d.lgs. 112/1999 e dal d.p.r. 402/2000 (01.02.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestione associata. Sindaco/dipendente. Oneri assenza per mandato.
Nel caso in cui un dipendente di un ente locale sia sindaco di altro ente locale, e risulti assegnato alla gestione associata in essere fra le due amministrazioni, l'onere retributivo relativo all'assenza dal servizio per l'espletamento del mandato, che costituisce spesa di personale, è soggetto alla ripartizione proporzionale, tra gli enti interessati, in base ai criteri definiti nella convenzione stipulata.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla problematica di seguito riassunta.
Preliminarmente si precisa che, nell’ambito di una gestione associata di servizi tra i comuni A e B, le spese del personale assegnato vengono ripartite tra gli enti interessati in base al criterio proporzionale stabilito nella convenzione. Il Sindaco del comune A è dipendente del comune B e risulta assegnato alla gestione associata. Pertanto, si è posto il dubbio se il costo corrispondente alle ore di assenza dal servizio dell’amministratore, per motivi connessi al mandato, debba rimanere in carico esclusivamente al comune B e quindi scorporato dalle spese di personale che fanno carico alla gestione associata, o vada comunque ripartito tra i due enti.
Sentito il Servizio finanza locale, si espongono le seguenti osservazioni.
La norma di riferimento è rappresentata dall’art. 80, comma 1, del d.lgs. 267/2000, che dispone che le assenze dal servizio di cui ai commi 1, 2 3 e 4, dell’articolo 79 del medesimo decreto
[1] sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici sono invece a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche di cui all’articolo 79 citato.
Il lavoratore che si assenti dal lavoro per partecipare alle attività istituzionali in forza di incarichi politico-elettivi ha diritto comunque ad essere retribuito. L’onere relativo, anticipato dal datore di lavoro, è poi rimborsato dall’ente locale solo ove si tratti di lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici.
Si è rilevato
[2] come la ratio della disposizione in esame sia quella di porre a carico delle finanze pubbliche i costi derivanti dall’esercizio dei diritti politici costituzionalmente tutelati, senza che gli stessi gravino sugli enti di diritto privato e sugli enti pubblici economici (che agiscono in regime di diritto privato). La finalità della norma è infatti quella di evitare che l’esercizio di funzioni pubbliche elettive presso gli enti locali vada a gravare sui datori di lavoro “privati”, anziché a carico delle risorse pubbliche e segnatamente del bilancio dell’ente che beneficia di tali funzioni, in ossequio al generale principio del divieto di indebito arricchimento.
Premesso quanto sopra, si osserva che, in relazione alla fattispecie, quale quella in esame, in cui il datore di lavoro è un ente locale, i giudici contabili, nello specifico, hanno rimarcato il particolare rilievo che assume la problematica dell’imputazione soggettiva degli oneri per i permessi retribuiti in argomento, non essendo ininfluente che essi “rimangano a carico, quali spese di personale assoggettate a contenimento, del bilancio dell’ente datore di lavoro
[3] ovvero vengano addossate, quali spese per il funzionamento degli organi politici, all’ente [4] presso il quale il dipendente è chiamato a svolgere funzioni politiche”.
Preme sottolineare che la magistratura contabile
[5], pur rilevando l’opportunità di considerare la norma in esame alla luce di un’interpretazione evolutiva [6], in ragione del reciproco grado di autonomia finanziaria riconosciuto agli enti pubblici istituzionali dall’ordinamento, ha tuttavia concluso che l’attuale quadro normativo –il dato testuale dell’art. 80 del TUEL– osta in concreto alla riconoscibilità di un diritto al rimborso –relativo agli oneri sostenuti per i permessi retribuiti in esame– in favore del comune il cui dipendente svolga una delle attività previste dai commi 1-4 dell’articolo 79 del TUEL presso altro ente locale.
Pertanto, nel caso di specie, trattandosi di due enti locali, rileva il fatto che gli oneri derivanti dai permessi retribuiti del lavoratore/sindaco non sono a carico dell’ente presso cui è svolto il mandato elettivo ma, quali spese di personale, restano a carico del datore di lavoro, che provvede a retribuire le relative assenze.
Considerato poi che il dipendente in questione risulta assegnato alla gestione associata, l’onere retributivo, che costituisce spesa di personale, è soggetto alla ripartizione proporzionale, tra i Comuni interessati, in base ai criteri definiti nella convenzione in essere.
---------------
[1] Permessi concessi agli amministratori locali, lavoratori pubblici e privati, per partecipare alle sedute degli organi e per esercitare il loro mandato.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Campania, n. 198/2014/PAR e sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 297/2016/PAR.
[3] Qualora si tratti di dipendente di un ente pubblico.
[4] Comunque ente pubblico, nel caso si tratti di dipendente di privati o enti pubblici economici.
[5] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 297/2016/PAR e sez. reg. di controllo per il Lazio, n. 182/2013/PAR.
[6] Interpretazione che sarebbe volta a garantirne la compatibilità con l’attuale sistema policentrico di finanza pubblica
(31.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso - fotografie di documenti a mezzo cellulare con fotocamera.
Le modalità di accesso previste dalla L. n. 241/1990 (artt. 25, c. 1, e 22, c. 1, lett. a), e dal D.P.R. n. 184/2006 (art. 7, commi 5 e 6) fanno riferimento esclusivo alla “visione” o “copia” dei documenti amministrativi, per cui altre modalità di accesso, quali le fotografie del documento richiesto, potrebbero essere consentite solo ove previste da disposizioni regolamentari dell’amministrazione interessata.
Per il Tar Lombardia (sentenza n. 1100/2016), la riproduzione fotografica di documenti amministrativi è una modalità di accesso riferita alla visione, il che conduce a ritenere la sua gratuità, ai sensi della disposizione di cui all’art. 25, c. 1, L. n. 241/1990.

Il Comune chiede se sia consentito fotografare parti di documenti ammessi all’accesso, a mezzo cellulare con fotocamera, in particolare se detta modalità integri l’esame gratuito previsto dall’art. 25, c. 1, L. n. 241/1990, in materia di accesso documentale.
Preso atto della valutazione dell’Ente circa l’accessibilità dei documenti di cui si tratta, con riferimento alla questione posta nel quesito, si esprime quanto segue.
Le modalità di accesso ai documenti amministrativi sono previste dagli artt. 22 e 25, L. n. 241/1990, e dall’art. 7, D.P.R. n. 184/2006.
L’art. 22, c. 1, lett. a), L. n. 241/1990, definisce il diritto di accesso come “il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”; il successivo art. 25, c. 1, stabilisce che “il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L’esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
L’art. 7, D.P.R. n. 184/2006, richiama a sua volta le due modalità di accesso documentale, consistenti nel prendere visione dei documenti o nell’ottenerne copia (comma 1). In particolare, per quanto concerne l’esame dei documenti, qui di interesse, l’art. 7 in argomento precisa che l’interessato può prendere appunti e trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in visione (comma 5).
La formulazione testuale delle norme richiamate non contempla la riproduzione fotografica di documenti (o di parti di essi), in particolare, a mezzo uso cellulare dotato di fotocamera. quale modalità di esercizio del diritto di accesso.
In proposito, si è espressa la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, secondo cui “le modalità di accesso previste dalla legge n. 241/1990 (artt. 25, c. 1, e 22, c. 1, lett. a), e dal d.p.r. n. 184/2006 (art. 7, commi 5 e 6) fanno riferimento esclusivo alla “visione” o “copia” dello stesso, per cui altre modalità di accesso quali le fotografie del documento richiesto, potrebbero essere consentite solo ove previste da disposizioni regolamentari dell’amministrazione interessata
[1].
Alla luce delle considerazioni della Commissione, appare in facoltà dell’Ente prevedere nella propria disciplina regolamentare del diritto di accesso la possibilità di fotografare i documenti di interesse o parte degli stessi, con l’impiego dei mezzi che lo consentono, ivi compreso il cellulare munito di fotocamera.
Nel senso della legittimità delle fotografie di documenti amministrativi, quale modalità di accesso riferita alla visione dei documenti, che deve essere gratuita, si è espresso recentemente il Tar Lombardia, Milano, sez. II, sentenza 26.05.2016 n. 1100.
Precisamente, per il Collegio lombardo, la visura di documenti amministrativi con eventuale riproduzione fotografica in proprio rappresenta una modalità di esercizio dell’accesso che la p.a. può legittimamente proporre a fronte di una richiesta che abbia ad oggetto la sola visione o la previa visione della documentazione di interesse, poiché in questo caso la facoltà di riproduzione fotografica costituisce una possibilità in più offerta all’interessato all’accesso.
Le precisazioni del Tar Lombardia sulla fotografia dei documenti amministrativi quale modalità di accesso riferita alla visione conducono naturalmente a ritenerla esente da costi a carico dell’accedente, ai sensi della disposizione di cui all’art. 25, c. 1, L. n. 241/1990, che, come osserva il Consiglio di Stato, è affatto chiara nel sancire l’assoluta gratuità dell’esame dei documenti
[2].
Alla luce delle considerazioni suesposte, può trarsi la possibilità di prevedere in via regolamentare la riproduzione fotografica dei documenti amministrativi, a cura dell’interessato (attraverso mezzi propri a ciò deputati), quale modalità di accesso consentita, senza costi, in presenza di una richiesta che abbia ad oggetto la loro visione.
---------------
[1] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, parere espresso nella seduta del 24.02.2009, su istanza di un cittadino, nel Supplemento al volume “L’accesso ai documenti amministrativi” n. 13, 2010.
[2] Consiglio di Stato, sez. IV, 14.04.2015, n. 1900, secondo cui oneri economici (in quella fattispecie, diritti di ricerca e di visura), potranno essere pretesi soltanto per i documenti per i quali sia richiesta, dopo il loro esame, l’estrazione di copia
(31.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZI: Clausola sociale.
Domanda
In seguito all’avvio di una procedura per l’aggiudicazione del servizio di pulizia (di importo sotto la soglia comunitaria) del comune in cui lavoro, un operatore economico si è soffermato sull’inserimento della clausola sociale evidenziandone la non obbligatorietà e, soprattutto, affermando che l’inserimento in un appalto di importo contenuto avrebbe dovuto trovare adeguata motivazione.
E’ possibile avere un chiarimento in merito?
Risposta
I rilievi devono essere contestualizzati e distinti nel senso che occorre separare gli “effetti” della clausola sociale –che ha l’obiettivo di mantenere inalterato il livello occupazionale soprattutto nei servizi ad alta intensità di manodopera– dagli obblighi o meno del RUP di prevederne l’inserimento nel disciplinare.
L’aspetto che per primo deve essere affrontato è quello dell’obbligo, o meno, dell’inserimento.
L’art. 50 del codice dei contratti, per effetto delle modifiche apportate dal decreto legislativo correttivo n. 56/2017 ora impone, senza possibilità di deroga, l’obbligo di inserire negli appalti di servizi –non di natura intellettuale– ad alta intensità di manodopera (e sono tali “quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”). La disposizione si riferisce agli appalti sopra la soglia comunitaria (euro 221.000,00 per i comuni dal 01.01.2018).
Negli appalti sotto la soglia –fermo restando che per i servizi di pulizia già dispongono i contratti di settore– il RUP ha la facoltà di inserire la clausola. Il problema della motivazione appare in realtà residuale nel senso che, proprio nel caso specifico, è sufficiente giustificare che tale previsione è determinata dalla circostanza di appaltare un servizio ad alta intensità di manodopera.
Le implicazioni della clausola sociale sono state ampiamente chiarite dall’ANAC (e prima ancora dall’AVCP) e, soprattutto, dalla giurisprudenza.
Il RUP deve prevedere ed interpretare la clausola sociale secondo un canone di correttezza ed in senso comunitario non potendo pretendere dall’appaltatore l’assorbimento obbligatorio (a pena di revoca dell’appalto) del personale del pregresso affidatario.
La clausola e gli obblighi conseguenti devono essere armonizzati con la situazione oggettiva dell’appaltatore e quindi con la propria organizzazione di impresa.
Il concetto risulta chiaramente ribadito da recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V, sentenza del 17.01.2018 n. 272).
Nel caso di specie, il giudice ha ribadito, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che “la c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo del contratto di appalto, sicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; conseguentemente l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, III, n. 1255/2016; n. 5598/2015; vedi anche, IV, n. 2433/2016)” (così Cons. Stato, Sez. III, 05/05/2017, n. 2078).
Pertanto, l’obbligo di riassorbimento del personale impiegato dal precedente appaltatore va comunque armonizzato con l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore subentrante, e ciò anche laddove tale obbligo sia previsto dalla contrattazione collettiva. È chiaro, naturalmente, che l’appaltatore deve altresì tenere un comportamento improntato ai canoni della correttezza e della buona fede e su questo il RUP dovrà attentamente vigilare (31.01.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Prefetti in campo.
In quali casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto previsto dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000?

Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno depositato presso il comune una mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del Tuel e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione. Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari, sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione». Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. 1 del 04.02.2004, n. 124).
Peraltro, il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278). Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003).
Il Tar Sardegna, con la citata sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva). Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/00, che rientri nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 26.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione permesso di costruire convenzionato previsto dall'art. 28-bis del d.P.R. 380/2001 in alternativa alla pianificazione attuativa – Comune di Canale Monterano (Regione Lazio, nota 15.01.2018 n. 20574 di prot.).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAEolico, ora procedure più semplici. Per decreto.
Semplificate le procedure per l'ammodernamento degli impianti eolici già esistenti. Gli operatori grazie alle nuove liste di controllo potranno avviare il prescreening dei progetti di rifacimento-potenziamento degli impianti esistenti, per sapere se sarà necessario passare da una procedura di Via o se il repowering potrà andare avanti senza nuove autorizzazioni ambientali.

È con il
decreto direttoriale 05.02.2018 n. 48 che la direzione per le valutazioni e le autorizzazioni ambientali del Ministero dell'ambiente ha individuato i contenuti della modulistica necessaria ai fini della presentazione della lista di controllo per la verifica preliminare, per la tipologia progettuale degli impianti eolici.
Il proponente, in ragione della presunta assenza di potenziali impatti ambientali significativi e negativi, ha la facoltà di richiedere all'autorità competente, trasmettendo adeguati elementi informativi tramite apposite liste di controllo, una valutazione preliminare al fine di individuare l'eventuale procedura da avviare. Le liste servono a verificare preventivamente (in un termine di tempo di appena 30 giorni) la corretta procedura da attivare per le modifiche, le estensioni o gli adeguamenti tecnici.
Il decreto è attuativo dell'articolo 25, comma 1, del dlgs 16.06.2017, n. 104 che ha previsto di individuare i contenuti della modulistica da applicare alla tipologia progettuale degli impianti eolici. Rappresentando l'ammodernamento degli impianti esistenti un'opportunità per incrementare l'efficienza della produzione energetica da fonti energetiche rinnovabili e per contribuire al raggiungimento degli obiettivi della strategia energetica nazionale.
Nella lista di controllo gli operatovi devono descrivere l'inquadramento territoriale e ambientale del progetto in area vasta ed a livello locale, anche attraverso l'ausilio di cartografie/immagini evidenziando, in particolare, l'uso attuale e le destinazioni d'uso del suolo, la presenza di aree sensibili dal punto di vista ambientale (articolo ItaliaOggi del 10.02.2018).

LAVORI PUBBLICIEdifici pubblici, già nel progetto i criteri ambientali minimi.
Il progetto esecutivo posto a base di gara deve già contenere i criteri ambientali minimi (Cam); nella scelta dei candidati alle gare di lavori i Cam non sono obbligatori, ma consigliati; per gli interventi di restauro i Cam non sono obbligatori.

Sono questi alcuni dei punti di rilievo contenuti nei chiarimenti, diffusi il 02.02.2018 (
Versione 02/02/2018) dal Ministero dell'ambiente, concernenti l'applicazione dei Cam nell'ambito dell'affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici.
La materia, in generale, è regolata da uno dei tanti decreti attuativi del codice dei contratti pubblici (dlgs n. 50/2016), il decreto ministeriale 11.10.2017 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 259 del 06.11.2017; i chiarimenti riguardano sia la parte generale relativa all'applicazione delle disposizioni del codice dei contratti (art. 34), sia aspetti specifici (energia, materiali da riciclare, sostanze pericolose ecc.).
Il codice appalti, prevede (art. 34, comma 1) l'obbligo di indicare nella documentazione di gara di ogni appalto le clausole contrattuali e le specifiche tecniche (fra cui, dice il ministero, rientrano anche i criteri progettuali che a loro volta devono essere inseriti nel capitolato speciale d'appalto). In base al comma 2 dell'art. 34 i Cam devono essere tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara che riguardano l'applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Per quanto riguarda l'obbligo di tenere in considerazione i Cam, il dicastero dell'ambiente afferma che «la stazione appaltante può scegliere la modalità con cui adempiere a tale dettato normativo». Esiste, quindi, una certa discrezionalità nell'adempimento dell'obbligo. E, nei chiarimenti, si fanno anche degli esempi: la stazione appaltante «può inserire nella documentazione di gara uno o più dei criteri premianti presenti nel documento Cam, oppure prevederne di simili nel contenuto ma non esattamente uguali nel testo, fermo restando che la stazione appaltante può elaborarne di nuovi e/o più stringenti». Dove, invece, la stazione appaltante ha ampia discrezionalità e non è soggetta a un obbligo è quando definisce i «criteri per la selezione dei candidati che non sono invece obbligatori, anche se, soprattutto in caso di gare per lavori, sono fortemente consigliati per i risvolti positivi che può avere la gestione ambientale dell'impresa o la corretta gestione del personale».
Viene poi specificato che «la stazione appaltante, deve mettere a gara il progetto esecutivo o, in caso di lavori, deve avere un progetto esecutivo già conforme ai Cam». Esiste, però, un margine di intervento dell'impresa di costruzioni: «L'appaltatore deve eseguire quanto previsto dal progetto esecutivo esistente e a suo carico può rimanere l'esecuzione di disegni di dettaglio come i particolari costruttivi».
Rispetto all'ipotesi che il computo metrico estimativo e l'elenco prezzi unitari non dovessero comprendere tutte le voci di spesa previste dal progetto approvato e messo a base di gara, il ministero chiarisce che «la stazione appaltante non può ribaltare i maggiori oneri derivanti dagli adempimenti di norma, non solo in merito ai Cam, direttamente sull'impresa».
È necessaria, quindi, una «adeguata analisi dei prezzi anteriormente alla pubblicazione del bando di gara per lavori». E va evitato di «scaricare sugli offerenti costi non previsti nel progetto esecutivo». Importante, infine, la precisazione per cui nelle tipologie di intervento (quali il restauro) non nominate nel testo del dm i Cam non sono obbligatori (articolo ItaliaOggi del 10.02.2018).

EDILIZIA PRIVATASpettacolo, ristretto l'obbligo di richiesta del certificato di agibilità.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale n. 289 del 12/12/2017, la legge sulle diposizioni di spettacolo e deleghe al governo per il riordino della materia, legge 175 del 22.11.2017, fa un notevole passo in avanti per il riordino di tutto il settore dello spettacolo.
La legge è ancora una scatola vuota, ma le deleghe per cui il governo è chiamato a legiferare attraverso più decreti legislativi, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della stessa, riguarderanno l'attività, organizzazione e gestione delle fondazioni lirico-sinfoniche e degli enti di cui al decreto legislativo n. 367/1996.
Inoltre il governo dovrà occuparsi della riforma, della revisione e del riassetto della vigente disciplina nei settori del teatro, della musica, della danza, degli spettacoli viaggianti, delle attività circensi, dei carnevali storici e delle rievocazioni storiche, con la redazione di un unico testo denominato «codice dello spettacolo», al fine di conferire al settore un assetto più efficace, organico e conforme ai principi di semplificazione delle procedure amministrative e ottimizzazione della spesa e volto a migliorare la qualità artistico culturale delle attività.
Tra le varie aspettative, il governo dovrà occuparsi anche di una revisione delle forme contrattuali nel settore dello spettacolo, tenuto conto del carattere saltuario con cui le prestazioni vengono svolte e della peculiarità del settore a cui le attuali norme di diritto del lavoro non sempre si adattano alle esigenze del settore. Attualmente il settore dello spettacolo è disciplinato da norme vetuste che risalgono al 1947 (dlgs Capo provvisorio dello Stato n. 708) In attesa quindi dei decreti legislativi, altre norme di legge sono intervenute nell'ultimo periodo, apportando novità interessanti e di rilievo.
Con il decreto legislativo n. 202 del 07.12.2017 sono state introdotte importanti novità nel settore cinematografico e audiovisivo. L'articolo 1 del dlgs 202/2017 interviene sull'ampliamento dell'art. 23, comma 2, lettera d), del dlgs 81/2015, che individua le attività esenti dai limiti quantitativi per la stipula dei contratti a tempo determinato. Il nuovo comma 2, lettera d), del dlgs 81/2015 è ora il seguente: «per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi, o per la produzione di specifiche opere audiovisive».
Trattasi di una specifica importante e necessaria a sgombrare ogni dubbio sulla possibilità di assumere per esempio per una produzione cinematografica personale a tempo determinato senza limiti quantitativi da rispettare. In realtà, che le produzioni cinematografiche o audiovisive fossero già esenti da limiti quantitativi, lo si poteva evincere dal dlgs 28 del 22.01.2004 (riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche), dove all'art. 2, comma 1, si legge «Ai fini del presente decreto per film si intende lo spettacolo realizzato su supporti di qualsiasi natura, anche digitali».
Ergo, un film è uno spettacolo e il comma 2, lettera d), del dlgs 81/2015 già si riferiva a specifici spettacoli. Altra novità importantissima è stata varata nella legge 205/2017 (legge di Bilancio 2018) al comma 1097, con cui viene ristretto l'obbligo di richiesta del certificato di agibilità di cui all'art. 10 dlgs 708/1947.
Per le imprese dell'esercizio teatrale, cinematografico e circense, i teatri tenda, gli enti, le associazioni, le imprese del pubblico esercizio, gli alberghi, le emittenti radiotelevisive e gli impianti sportivi, l'obbligo della richiesta del certificato di agibilità (art. 10 dlgs 708/1947) non sussiste nei confronti dei lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie indicate dall'art. 3, c. 1, nn. dall'1 a 14, del dlgs 708/1947 con contratto di lavoro subordinato, qualora utilizzati nei locali di proprietà o di cui abbiano un diritto personale di godimento per i quali le medesime imprese effettuano regolari versamenti contributivi presso l'Inps.
Diversamente le stesse imprese sono obbligate a richiedere il rilascio del certificato di agibilità per i lavoratori autonomi dello spettacolo di cui all'art. 3, comma 1, nn. dall'1 al 14, dlgs 708/1947 con contratto d'opera per prestazioni superiori a 30 giorni e per specifici eventi, di durata limitata nell'arco di tempo della complessiva programmazione dell'impresa, spettacoli singolari e non ripetuti rispetto alle stagioni o cicli produttivi. L'obbligo della richiesta del certificato di agibilità ricorre per le suddette imprese, ogni qualvolta sia resa una prestazione da parte dei lavoratori autonomi dello spettacolo appartenenti alle citate categorie di cui sopra, nei locali di proprietà o di cui abbiano un diritto personale di godimento le imprese committenti.
In caso di inosservanza delle disposizioni le imprese sono soggette alla sanzione amministrativa di euro 129,00 per ogni lavoratore e per ogni giornata di lavoro. In realtà trattasi di una semplificazione che riguarderà principalmente le organizzazioni stabili, mentre per le compagnie di giro che si esibiscono in teatri, locali sempre diversi e di cui non hanno un diritto personale di godimento non dovrebbe cambiare nulla. Inoltre non si riesce a comprendere, quando si parla di lavoratori autonomi dello spettacolo con contratto d'opera per prestazioni superiori a 30 giorni, e per cui sussiste l'obbligo di richiesta del certificato di agibilità, cosa effettivamente voglia dirsi.
Una prima interpretazione in attesa di chiarimenti ministeriali è che si voglia intendere quelle prestazioni d'opera di natura prettamente occasionali e pertanto fino a 30 giorni e che sarebbero esenti dal certificato di agibilità, distinguendoli dai contratti artistici professionali che invece sarebbero sempre soggetti alla richiesta del certificato di agibilità. Inoltre l'obbligo continua a sussistere per gli esercenti attività musicali di cui al n. 23-bis del primo comma dell'art. del dlgs 708/1947 (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIDue responsabili per la privacy. Uno si occupa di trattamento dati, l'altro di protezione. Quaderno Anci punta ad aiutare i piccoli enti nell'attuazione del regolamento 2016/679.
Due responsabili per la privacy comunale: il responsabile del trattamento e il responsabile della protezione dei dati.

È una delle indicazioni dell'Anci, che ha elaborato il quaderno n. 11 - febbraio 2018 con l'obiettivo di aiutare i comuni, soprattutto quelli piccoli, ad attuare concretamente il regolamento Ue sulla privacy n. 2016/679.
Il quaderno è consultabile e scaricabile gratuitamente dal sito www.anci.it ed è stato curato da Stefania Dota, vicesegretario generale. Il quaderno operativo si rivolge soprattutto ai piccoli comuni che sono quelli maggiormente in difficoltà con gli adempimenti. Ai piccoli comuni l'Anci caldeggia di gestire i nuovi adempimenti in forma associata: ad esempio si potrebbe assumere un responsabile della protezione dati per più enti, dividendo i costi. Al centro della ribalta sta il regolamento Ue, già in vigore dal maggio 2016, che diventerà operativo dal 25.05.2018.
È cominciata dunque la corsa finale per arrivare al traguardo di maggio con tutto già in ordine. In realtà dalla Guida Anci traspare una certa flessibilità rispetto a quelle situazioni in cui i nuovi adempimenti siano stati iniziati, ma non completati entro la scadenza indicata. Certamente il periodo iniziale rientrerà in un fisiologico rodaggio di alcuni nuovi istituti, ma è anche vero che le p.a., come le imprese, hanno avuto due anni di tempo per prepararsi. Si vedrà su questo punto come si comporterà il Garante della privacy, chiamato a controllare e a sanzionare le inosservanze al regolamento.
Il quaderno si compone anche di uno schema di regolamento comunale sulla privacy e di un fac-simile del registro dei trattamento (che viene disegnato come unico oppure spezzato in due e cioè come registro delle attività più registro delle categorie di attività). Chiude il documento il fac simile del Garante per la nomina del responsabile della protezione dei dati.
ORGANIZZAZIONE. La preferenza dell'Anci è di individuare un responsabile interno del trattamento, cui affidare la responsabilità della gestione delle banche dati e degli archivi. C'è la possibilità anche di individuare più soggetti interni con funzioni di gestire gli adempimenti previsti dal regolamento Ue in determinati ambiti organizzativi: spetta al singolo comune fare una scelta. Il quaderno Anci, in un passaggio, sembra sostenere che gli incaricati, ovvero la figura attualmente prevista del codice per inquadrare i dipendenti che trattano dati, sarebbero sostituiti dai sub responsabili, previsti dall'art. 28 del Regolamento Ue.
Si tratta di un tema da approfondire, perché ai dipendenti si attaglia di più la figura e il ruolo di «autorizzati al trattamento». Il nome «sub responsabile» è più proprio, invece, dei soggetti individuati dai responsabili esterni in una filiera dei trattamenti in outsourcing: ad esempio il comune si rivolge a un appaltatore di servizi, che si serve di un subappaltatore; quest'ultimo, sempre che tratti dati, sarà il sub responsabile. Importante, però, non fermarsi alle questioni nominalistiche e, soprattutto, non correre il rischio di confondere le figure. Importante è la sostanza: i dipendenti interni devono essere autorizzati a trattare i dati e di ciò se ne deve lasciare traccia documentale.
RESPONSABILE INTERNO. Il regolamento tipo Anci delinea il responsabile unico del trattamento, quale responsabile del trattamento di tutte le banche dati personali esistenti nell'articolazione organizzativa di rispettiva competenza. Aggiungiamo che non va assolutamente confuso con il Responsabile della protezione dei dati (Rpd). Il Rpd non ha funzioni di gestione dei trattamenti e non può essere coinvolto in scelte sulle finalità e sulle misure tecniche e organizzative in materia di privacy: sarebbe in conflitto di interessi.
RPD. È la figura chiave con compiti di consulenza e di sorveglianza, oltre che di contatto con interessati e Garante. Se è scelto un Rpd interno, l'Anci indica che va individuato tra i dipendenti inquadrati nelle categorie D o C (per i comuni più piccoli). Se lo si sceglie esterno, per la scelta bisogna applicare il codice dei contratti pubblici. L'Anci sollecita la nomina congiunta di un unico Rpd, mediante esercizio associato, soprattutto per comuni piccoli. Sulle questioni di privacy, il Rpd è chiamato a dare un Parere obbligatorio ma non vincolante: per discostarsene bisogna però indicare le motivazioni.
Il ruolo di Rpd è incompatibile con quello di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Al Rpd, in caso di disaccordo con il titolare del trattamento (alias il sindaco, nella ricostruzione dell'Anci), si chiede di formulare obbligatoriamente una opinione dissenziente su scelte relative ai trattamenti e alla protezione dei dati. Il regolamento tipo chiede una cosa in più rispetto al regolamento Ue e cioè la pubblicazione sul sito comunale anche del nome del Rpd.
CONTITOLARITÀ. Il quaderno Anci indica che la modalità dell'esercizio associato di funzioni tra più comuni realizza contitolarità di cui parla l'art. 26 del regolamento Ue, con conseguente obbligo di stendere un accordo tra i vari enti partecipanti sulle modalità di applicazione degli adempimenti di privacy.
CONSENSO. L'Anci indica che tra i presupposti del trattamento dei dati ci può essere il consenso dell'interessato, ma solo per le per finalità diverse da quelle coperte da una legge o da un contratto. Aggiungiamo che questo punto può creare grossi equivoci, se portasse a far credere che a un comune basta il consenso o peggio che all'ente serva sempre il consenso per trattare i dati. È evidente che tutte le attività comunali tutte devono essere inquadrate nel pubblico interesse e che il consenso non va confuso con la richiesta di un servizio erogato a istanza di parte (questa richiesta non è, certo, il consenso privacy).
FONDI. Il regolamento tipo molto opportunamente fonda la base giuridica per procedere a stanziamenti di fondi necessari per tuti gli adeguamenti tecnologici e organizzativi richiesti dal Regolamento Ue.
TITOLARE DEL TRATTAMENTO. Viene individuato nel sindaco o in un suo delegato. Aggiungiamo che non ci si riferisce alla persona fisica, ma al ruolo, in quanto, in senso stretto, il titolare è sempre l'ente nel suo complesso. Il delegato del sindaco è, dunque, la persona fisica delegata a sottoscrivere gli atti tipici (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICASu Via e Vas si paga fino a 10 mila. La procedura.
Fissati i costi per la procedure di valutazione di impatto ambientale (Via), la procedura di valutazione ambientale strategica (Vas) e le relative richieste di riesame saranno a carico dei privati.

Per la verifica di assoggettabilità a Via l'impresa dovrà versare lo 0,25 per mille del valore dell'opera da realizzare (limite massimo dell'importo: 10 mila euro) e per la verifica di assoggettabilità a Vas dovrà versare 5 mila euro.
Gli importi sono stati fissati da un decreto interministeriale (dicasteri dell'ambiente e dell'economia), che definisce le tariffe, da applicare ai proponenti, per le procedure di valutazione ambientale, ai sensi dell'articolo 33 del dlgs 152/2006.
Successivamente, la direzione per le valutazioni e le autorizzazioni ambientali del Ministero dell'ambiente ha provveduto ad emanare il decreto direttoriale 02.02.2018 n. 47, recante le «disposizioni concernenti le modalità di versamento degli oneri economici per le procedure di valutazione ambientale (Vas e Via) di competenza statale e la relativa documentazione da presentare».
Ricordiamo che la Vas è una procedura che serve per integrare considerazioni ambientali nell'elaborazione e nell'adozione di strumenti di pianificazione e programmazione, al fine di garantire la sostenibilità delle scelte da intraprendere.
La Via, invece, serve per conseguire elevati livelli di protezione e di qualità dell'ambiente valutando preventivamente le possibili conseguenze derivanti dalla realizzazione e dall'esercizio di progetti/interventi. Qualora nel corso dell'istruttoria emerga la necessità di apportare modifiche o varianti al progetto originariamente presentato, dovrà essere trasmessa, unitamente alla nota di accompagnamento della documentazione tecnica relativa alle modifiche, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante il valore complessivo aggiornato del costo delle opere e l'attestazione del pagamento della eventuale differenza a saldo (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2018).

VARIUna barriera al telemarketing. Anche i cellulari inseriti nel registro delle opposizioni. In Gazzetta Ufficiale la legge con le nuove regole. Due prefissi ad hoc per le chiamate.
Un argine più robusto contro il telemarketing. Per evitare telefonate indesiderate, si potranno iscrivere al registro delle opposizioni anche i cellulari e l'iscrizione comporterà la revoca automatica di tutti i consensi individualmente raccolti. Attenzione però: sono fatti salvi i consensi prestati nell'ambito di specifici rapporti contrattuali in essere, ovvero cessati da non più di 30 giorni, aventi ad oggetto la fornitura di beni o servizi, per i quali è comunque assicurata, con procedure semplificate, la facoltà di revoca. Un'eccezione abbastanza ampia da travolgere la regola della caducazione automatica dei consensi precedenti.
È su questo equilibrio tra le esigenze delle imprese (sviluppare campagne promozionali) e quelle degli utenti (evitare chiamate indesiderate) che si gioca la legge 11.01.2018, n. 5, recante «Nuove disposizioni in materia di iscrizione e funzionamento del registro delle opposizioni e istituzione di prefissi nazionali per le chiamate telefoniche a scopo statistico, promozionale e di ricerche di mercato», pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 28 del 03.02.2018 e già in vigore.
La nuova legge sul marketing diretto (si veda da ultimo ItaliaOggi Sette dell'8 gennaio scorso) di fatto è una riforma del registro delle opposizioni, in cui iscrivere le utenze da non chiamare e prevede tra l'altro l'obbligo di consultare il registro mensilmente, anche se a prezzi da ridurre rispetto alle tariffe ora praticate e un prefisso unico per il telemarketing e uno per le indagini statistiche (ma anche qui c'è la scappatoia per i call center e cioè presentare l'identità della linea a cui possono essere contattati). Vediamo altre novità della legge.
Lasciapassare personalizzato. Gli interessati iscritti al registro potranno revocare, anche per periodi di tempo definiti, la propria opposizione nei confronti di uno o più soggetti in qualunque momento, anche per via telematica o telefonica.
Cessione a terzi. A decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova legge sono vietati, con qualsiasi forma o mezzo, la comunicazione a terzi, il trasferimento e la diffusione di dati personali degli interessati iscritti al registro delle opposizioni, da parte del titolare del trattamento, per fini di pubblicità o di vendita ovvero per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale non riferibili alle attività, ai prodotti o ai servizi offerti dal titolare del trattamento.
Sanzioni solidali. La legge prevede sanzioni amministrative pecuniarie nel caso di violazione del diritto di opposizione e di violazione di divieto di cessione a terzi: da 10 mila a 120 mila euro. Il titolare del trattamento dei dati personali è responsabile in solido delle violazioni delle disposizioni della legge anche nel caso di affidamento a terzi di attività di call center per l'effettuazione delle chiamate telefoniche.
Compositori. La legge vieta l'utilizzo di compositori telefonici per la ricerca automatica di numeri anche non inseriti negli elenchi di abbonati. In caso di violazione di tale divieto, si applica la sanzione amministrativa da 10 mila a 120 mila euro.
Il nuovo registro. La legge necessita di un nuovo regolamento del registro. Sono fissati 90 giorni di tempo per il nuovo dpr per l'operatività concrete delle novità.
Due prefissi unici. La legge come detto impone a tutti gli operatori che svolgono attività di call center rivolte a numerazioni nazionali fisse o mobili di garantire la piena attuazione dell'obbligo di presentazione dell'identificazione della linea chiamante e il rispetto del diritto di opporsi al marketing.
Entro 90 giorni, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovrà individuare due codici o prefissi specifici, per identificare e distinguere in modo univoco le chiamate telefoniche finalizzate ad attività statistiche da quelle finalizzate al compimento di ricerche di mercato e ad attività di pubblicità, vendita e comunicazione commerciale.
A quel punto, ed entro i successivi 60 giorni, gli operatori esercenti l'attività di call center dovranno, adeguare tutte le numerazioni telefoniche utilizzate per i servizi di call center, anche delocalizzati, facendo richiesta di assegnazione delle relative numerazioni (articolo ItaliaOggi del 06.02.2018).

ENTI LOCALIVideosorveglianza condivisa. Prefetti in prima linea per coordinare pubblico-privato. Con il via libera alle linee guida generali, si accelera sull'operatività del decreto Minniti.
Anche i privati potranno mettere in sicurezza interi quartieri o aree produttive mettendo a disposizione delle forze di polizia telecamere e server specificamente preposti al controllo del territorio. Ma per la gestione di questi processi, dei relativi incentivi fiscali e per regolare la partecipazione di tutti gli attori coinvolti serviranno protocolli e regolamenti dettagliati da realizzare in coordinamento con la prefettura.

Lo hanno evidenziato le linee generali per la sicurezza integrata, approvate il 24.01.2018 ai sensi dell'art. 2 del dl 14/2017.
Con il via libera della Conferenza unificata il pacchetto sicurezza dello scorso anno ha subito una brusca accelerazione, dopo un prolungato periodo di stasi. Era infatti necessario definire la cornice organica degli strumenti attraverso i quali i diversi livelli di governo ma anche i soggetti privati sono chiamati a cooperare per realizzare l'integrazione delle politiche che hanno come obiettivo l'innalzamento dei livelli di sicurezza.
Oltre allo scambio informativo tra le forze di polizia locale e dello stato, l'interconnessione delle sale operative e l'aggiornamento professionale integrato, uno dei filoni individuati dalle linee generali risulta quello della regolamentazione per l'utilizzo in comune tra vigili, polizia e carabinieri, con l'eventuale ausilio dei privati, dei sistemi di sicurezza tecnologica finalizzati al controllo delle aree e delle attività a rischio.
Integrazione delle tecnologie e delle telecamere. L'utilizzo in comune tra tutte le forze di polizia locale e dello stato delle tecnologie presenti sul territorio apparentemente rappresenta un obiettivo indiscutibile. Eppure ancora molto lontano dalla realtà a causa delle diverse amministrazioni coinvolte. La maggior parte degli impianti di videosorveglianza urbana, infatti, sono stati realizzati in questi anni dalle amministrazioni comunali utilizzando tecnologie diverse e spesso già superate.
Questo nonostante le numerose direttive ministeriali e in particolare quella del 02.03.2012, confermata il 30.04.2015, finalizzata a una standardizzazione dei progetti di videosorveglianza. Nella realtà però questa esigenza è in evidente contraddizione con le regole generali sugli appalti e sugli acquisti pubblici. Perché se da una parte la piattaforma per la videosorveglianza integrata è auspicabile, dall'altra l'evoluzione tecnologica è continua e progressiva per cui aderire a uno standard risulta complesso. Oltre che difficilmente negoziabile con le necessarie esigenze di trasparenza e legittimità delle pubbliche forniture.
Prefetti in prima linea per coordinare i progetti. Le linee generali specificano che in ogni caso saranno i prefetti a dover coordinare gli interventi di potenziamento e miglioramento degli impianti, in un'ottica di sicurezza integrata, avvalendosi del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Il passaggio a sistemi standardizzati, prosegue il documento approvato il 24 gennaio «crea le indispensabili condizioni di interoperabilità che sono il presupposto ineludibile per l'utilizzo in comune degli apparati».
I comuni che avranno presentato progetti vantaggiosi in termini strategici potranno anche accedere ai previsti finanziamenti ministeriali per il potenziamento degli impianti di videosorveglianza urbana integrata. Anche le regioni potranno fornire supporto economico, finanziando progetti locali, sempre e comunque nel rispetto dei limiti previsti dal codice della privacy in materia di trattamento dei dati personali e delle linee guida del garante.
Condivisione dunque ma nel rispetto delle diverse competenze delle forze di polizia locale e dello stato. Da una parte la polizia municipale potrà gestire gli impianti per prevalenti esigenze di sicurezza urbana mentre carabinieri e polizia di stato per esigenze di sicurezza e ordine pubblico. E il delicato punto di equilibrio dovrà essere necessariamente trovato nell'accordo da sottoscrivere in prefettura tra tutti i soggetti interessati.
Gli impianti dei privati in uso alle forze di polizia. Lo prevede il pacchetto sicurezza, all'art. 7. Per potenziare la sicurezza urbana i patti per la sicurezza e gli accordi che potranno finalmente attivarsi nei prossimi mesi a seguito dell'avvenuta approvazione delle linee generali e delle imminenti linee guida, potranno riguardare «progetti proposti da enti gestori di edilizia residenziale ovvero da amministratori di condomini, da imprese, anche individuali, dotate di almeno dieci impianti, da associazioni di categoria ovvero da consorzi e comitati comunque denominati all'uopo costituiti fra imprese, professionisti o residenti per la messa in opera a carico di privati di sistemi di videosorveglianza tecnologicamente avanzati».
Gli impianti di videosorveglianza però, riprendendo aree a uso pubblico, dovranno essere messi nell'esclusiva disponibilità delle forze di polizia. E in questo caso i comuni potranno deliberare adeguati incentivi fiscali per sostenere lo sforzo dei soggetti che intendono investire in sicurezza e potenziamento dei sistemi di controllo tecnologico del territorio. Spetterà alle linee guida, di prossima emanazione, specifica la nota del 24 gennaio, definire meglio i rapporti di partenariato anche con i soggetti privati sul complesso tema della sicurezza tecnologica (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

TRIBUTIImmobili occupati senza tasse Niente Imu e Tasi se non si può disporre dei fabbricati. Il principio contenuto in alcune pronunce della Ctp Roma basate sul diritto di proprietà.
Niente Imu né Tasi quando l'immobile è occupato abusivamente. I due tributi locali non sono dovuti per l'intera durata dell'occupazione senza titolo degli immobili che il proprietario è tenuto, ovviamente, a dover dimostrare.

È questo, in estrema sintesi, il dispositivo con la quale la Commissione tributaria provinciale di Roma, in diverse sentenze emesse nel corso del 2017, ha accolto i ricorsi proposti dai contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi dall'ufficio tributi del comune capitolino.
Le pronunce di cui sopra intervengono su uno dei presupposti su cui poggia il nostro sistema giuridico e fiscale: il diritto di proprietà.
Secondo l'articolo 832 del codice civile il proprietario ha il pieno ed esclusivo utilizzo dei suoi beni.
Quando l'esercizio di tali diritti viene impedito, il proprietario può rivolgersi alla pubblica autorità che, in tempi ragionevoli, ristabilisce la coincidenza fra situazione giuridica e situazione di fatto. E in simile prospettiva è logico che il proprietario sopporti gli oneri fiscali di beni di cui non ha (momentaneamente) o non rivendica la disponibilità.
È però ovvio come oggi questa visione teorica sovente non trovi riscontro nella realtà. Spesso e per i più svariati motivi, la autorità pubblica non provvede a reimmettere il proprietario nel possesso dei suoi beni in tempi «ragionevoli», creando, di fatto, situazioni simili alla occupazione dei beni per ragioni di pubblica utilità, se non addirittura all'occupazione acquisitiva cioè a un sostanziale esproprio.
Il Tribunale di Roma ha recentemente sentenziato che lo Stato è tenuto a risarcire al proprietario il danno che deriva dalla mancata esecuzione della legge. E analogo problema sorge in relazione agli oneri fiscali.
E allora il problema al quale la Ctp di Roma ha dato soluzione è esattamente questo: il proprietario che a causa di un'omissione della pubblica autorità, non può godere di un bene è giusto che sia tenuto a versare alla mano pubblica le imposte inerenti a tale bene? Non è questa una violazione delle norme costituzionali e dell'articolo 1 della Cedu, da cui consegue la non applicabilità delle imposte? O, almeno di quelle il cui presupposto impositivo è costituito dalla disponibilità del bene?
Del resto, la situazione di fatto cui si è accennato è stata recepita e legittimata dall'articolo 11 del dl n. 14/2017 che, allo scopo di disciplinare la materia, evitando il moltiplicarsi di sentenze di condanna dello Stato al risarcimento dei danni subiti dai proprietari, ha stabilito che «il Prefetto, nella determinazione delle modalità esecutive di provvedimenti dell'autorità giudiziaria concernenti occupazioni arbitrarie di immobili, impartisce disposizioni per prevenire, in relazione al numero degli immobili da sgomberare, il pericolo di possibili turbative per l'ordine e la sicurezza pubblica e definisce l'impiego della Forza pubblica, secondo criteri di priorità che tengono conto della situazione dell'ordine e della sicurezza pubblica negli ambiti territoriali interessati, dei possibili rischi per l'incolumità e la salute pubblica, dei diritti dei soggetti proprietari degli immobili, nonché dei livelli assistenziali che possono essere assicurati agli aventi diritto dalle regioni e dagli enti locali».
Dunque i diritti dei proprietari sono solo uno dei criteri cui il Prefetto deve ispirarsi, e possono essere legittimamente pretermessi nel timore di disordini o tumulti, oppure a fronte alla impossibilità di affidare gli occupanti abusivi alla assistenza garantita dagli enti locali (che dovrebbero procurare loro adeguato ricovero).
La legge n. 48/2017 di conversione del dl n. 14/2017, ha poi chiarito che deve sempre essere «ferma la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale»; che non possono essere «sfrattati», a meno che si offra loro una alternativa decorosa e alla portata dei loro mezzi.
La legge n. 48/2017 ha inserito inoltre una ulteriore disposizione che consente ai sindaci, «in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, di dare disposizioni in deroga» alla norma che vieta agli occupanti abusivi di chiedere la residenza e l'allacciamento a pubblici servizi; o di ottenere, per cinque anni, l'assegnazione delle case occupate e destinate all'edilizia pubblica.
Per effetto di tale disposizione la posizione di alcuni occupanti abusivi viene ulteriormente assimilata a quella di coloro che risiedono nell'immobile in base a un diritto reale o a un contratto di locazione.
Il medesimo articolo 11 del dl n. 14/2017 comprime anche il diritto dei proprietari a un risarcimento del danno ove la direttiva del Prefetto risulti illegittima, in quanto stabilisce «l'eventuale annullamento, in sede di giurisdizione amministrativa, dell'atto con il quale sono state emanate le disposizioni di cui al comma 1, può dar luogo, salvi i casi di dolo o colpa grave, esclusivamente al risarcimento in forma specifica, consistente nell'obbligo per l'amministrazione di disporre gli interventi necessari ad assicurare la cessazione della situazione di occupazione arbitraria dell'immobile». Non solo, se la legge delimita così drasticamente i diritti di chi sia colpito da un atto illegittimo, appare logico supporre che non intenda, a maggior ragione, riconoscere alcun ristoro a chi veda comprimere (o cancellare) il suo diritto da un atto prefettizio conforme al citato articolo 11.
Non è questa la sede per valutare se simile compressione, oltre tutto senza indennizzo, dei diritti della proprietà sia conforme o meno al dettato costituzionale ed alla normativa europea. Qui basta constatare che, finora in base a situazioni di fatto e d'ora in poi attraverso provvedimenti prefettizi, emanati in attuazione di una legge, il proprietario viene spogliato del godimento del suo bene. E dunque non è titolare, in relazione all'utilizzo di quel bene della «capacità contributiva», che in base all'art. 53 della Costituzione, è presupposto di qualunque imposizione.
Meritano dunque piena condivisione le sentenze con cui più sezioni della Ctp di Roma hanno affermato che la società proprietaria di un immobile occupato abusivamente non è tenuta al pagamento né dell'Imu né della Tasi. Tutte queste sentenze hanno respinto la tesi del comune di Roma Capitale, secondo cui i proprietari spogliati erano ugualmente soggetti agli oneri tributari, essendo sufficiente per conservare il possesso dei fabbricati (e quindi assumere la veste di contribuenti) l'animus possidendi cioè l'intenzione, o il desiderio, di esercitare i diritti del proprietario.
È stato infatti agevole richiamare la copiosa giurisprudenza della Cassazione secondo cui: «il possesso (o la detenzione) può sì essere conservato solo animo, ma purché il possessore (o il detentore) sia in grado di ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa, sicché, ove tale possibilità sia di fatto preclusa da altri o da una obiettiva mutata situazione dei luoghi, l'elemento intenzionale non è, da solo, sufficiente per la conservazione del possesso (o della detenzione), che si perde nel momento stesso in cui è venuta meno l'effettiva disponibilità della cosa» (così da ultimo Cass. 29.01.2016, n. 1723). Resta da vedere se il comune, che perde la relativa entrata, non possa (e debba) richiederla allo stato, che risulta il vero possessore del bene, e ne usufruisce ospitandovi gli illegittimi occupanti (che forse il provvedimento prefettizio trasforma in legittimi).
E si dovrà anche valutare se il fabbricato, stabilmente ed illegittimamente occupato debba, quanto meno, essere assimilato, ai fini delle imposte sui redditi a quelli «inagibili e inabitabili» con conseguente dimezzamento della rendita fondiaria ascrivibile al proprietario o addirittura se possa essere considerato del tutto improduttivo di reddito per il proprietario in quanto posseduto dallo Stato in base a un titolo equiparabile all'usufrutto, creato dal provvedimento prefettizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

EDILIZIA PRIVATAAgibilità light nello spettacolo. No al certificato per artisti impiegati in locali del datore. La semplificazione prevista dalla legge di Bilancio per teatri, cinema, emittenti.
Semplificato il certificato di agibilità per i lavoratori dello spettacolo. Dal 1° gennaio non serve richiederlo in caso di assunzione di artisti, attori, concertisti, direttori (e altre categorie) che siano impiegati in locali di proprietà del datore di lavoro.

A stabilirlo è la legge Bilancio 2018 a favore di imprese teatrali, cinematografici e circense; teatri tenda; enti; associazioni; imprese del pubblico esercizio; alberghi; emittenti radiotelevisive e impianti sportivi. L'obbligo resta, invece, con riferimento a ingaggi con contratti di prestazione d'opera di durata superiore a 30 giorni per specifici eventi di durata limitata e per i lavoratori autonomi.
Sanzione più pesante per l'inosservanza degli obblighi: 129 euro per ogni lavoratore e per giornata di lavoro prestata (al posto di 25,82 euro, cioè delle vecchie 50 mila lire).
Il certificato di agibilità. Il certificato di agibilità (una sorta di «Durc» del settore spettacolo) ha la finalità di rafforzare la tutela dei lavoratori appartenenti a determinate categorie artistiche e tecniche. Considerate le peculiarità delle prestazioni lavorative in questo settore, attraverso il documento (di cui devono essere munite le imprese che intendano avvalersi delle prestazioni), viene operato un preventivo controllo di regolarità contributiva dell'impresa richiedente. Se l'impresa non è in regola non è possibile il rilascio del certificato e, dunque, l'impresa non può avvalersi delle prestazioni lavorative.
La richiesta del certificato di agibilità va fatta entro cinque giorni dalla stipula dei contratti di lavoro e, comunque, prima dello svolgimento delle prestazioni lavorative. Il datore di lavoro interessato, in particolare, deve richiederlo all'Inps esclusivamente in via telematica, online, accedendo al portale www.inps.it, alla voce Servizi per aziende e consulenti>Servizi Sport e spettacolo>Richiesta agibilità. Lo stesso vale per le comunicazioni delle variazioni dei dati contenuti nel certificato di agibilità già ottenuto: vanno fatte entro cinque giorni dal verificarsi dell'evento che ha determinato la variazione.
L'obbligo di custodia di una copia del certificato è a carico del committente che deve esibirlo a richiesta degli ispettori in caso di accertamento. Alle imprese di nuova costituzione/operatività, all'atto del rilascio della prima agibilità, viene richiesto il versamento di una somma a titolo di deposito cauzionale pari al 10% del carico contributivo stimato per un periodo di tre mesi. In alternativa, l'impresa può produrre una fideiussione bancaria o assicurativa per lo stesso importo.
La semplificazione. La legge di Bilancio 2018 (art. 1, comma 1097, legge n. 2015/2017) ha sostituito l'art. 6 del dlgs cps n. 708/1947, che disciplina il certificato di agibilità per i lavoratori dello spettacolo.
Il nuovo art. 6 esclude l'obbligo di richiesta del certificato di agibilità da parte delle imprese dell'esercizio teatrale, cinematografico e circense, i teatri tenda, gli enti, le associazioni, le imprese del pubblico esercizio, gli alberghi, le emittenti radiotelevisive e gli impianti sportivi in relazione ai lavoratori delle categorie dalla n. 1 alla n. 14 dell'art. 3, comma 1, del dlgs cps n. 708/1947 (si veda tabella), assunti con contratto di lavoro subordinato e operanti nei locali di proprietà o di cui abbiano un diritto personale di godimento.
Diversamente, la nuova norma ne statuisce l'obbligo in relazione ai lavoratori autonomi appartenenti alle stesse categorie, legati da «contratto di prestazione d'opera di durata superiore a 30 giorni e contrattualizzati per specifici eventi, di durata limitata nell'arco di tempo della complessiva programmazione dell'impresa, singolari e non ripetuti rispetto alle stagioni o cicli produttivi».
La norma, infine, specifica pure che le stesse imprese devono richiedere il certificato di agibilità ogni qualvolta la prestazione sia resa da parte dei lavoratori autonomi dello spettacolo appartenenti sempre a quelle categorie (si veda tabella) in «locali di proprietà o di cui abbiano un diritto personale di godimento le imprese committenti».
Sanzione più salata. Per i casi d'inosservanza degli obblighi sul certificato di agibilità, la legge di Bilancio 2018 ha confermato, come nella precedente formulazione, la previsione di una sanzione a carico delle imprese modificandone tuttavia l'importo. La sanzione amministrativa, infatti, è passata a 129 euro per ogni lavoratore e per ogni giornata di lavoro da ciascuno prestata, in luogo dei 25,82 euro (vecchie 50 mila lire).
---------------
Tre tipologie di documenti.
Ci sono tre tipi di certificato di agibilità: certificato di agibilità a titolo oneroso; certificato di agibilità a titolo gratuito; certificato di agibilità in «esenzione contributiva».
Il certificato di agibilità a titolo oneroso è il documento che autorizza alcune tipologie di imprese (imprese dell'esercizio teatrale cinematografico e circense, i teatri tenda, gli enti, le associazioni, le imprese del pubblico esercizio, gli alberghi, le emittenti radiotelevisive e gli impianti sportivi) a far agire nei locali di proprietà (o sui quali abbiano un diritto personale di godimento) i lavoratori dello spettacolo, occupati nelle categorie da 1 a 14 dell'art. 3 del dlgs cps n. 708/1947 (si veda tabella) in relazione a uno specifico evento (o a una serie di eventi) riferito a un periodo limitato nel tempo.
L'agibilità è rilasciata previo accertamento della regolarità contributiva complessiva dell'impresa (nella totalità delle attività svolte) nei confronti della gestione lavoratori dello spettacolo (ex Enpals) ovvero, in caso di pendenze contributive, a seguito di presentazione di idonea garanzia, quale può essere la produzione di valida fideiussione bancaria o assicurativa di importo corrispondente alla misura dei debiti contributivi.
Il certificato di agibilità a titolo gratuito è il documento che autorizza talune tipologie di imprese (imprese dell'esercizio teatrale cinematografico e circense, i teatri tenda, gli enti, le associazioni, le imprese del pubblico esercizio, gli alberghi, le emittenti radiotelevisive e gli impianti sportivi) a far operare nei locali di proprietà (o sui quali abbiano diritto personale di godimento) i lavoratori dello spettacolo, occupati nelle categorie da 1 a 14 dell'art. 3 del dlgs cps n. 708/1947 (artisti e tecnici) in relazione a uno specifico evento che si svolga a scopo benefico, sociale o solidaristico.
Il certificato è rilasciato a condizione che gli eventuali ricavi derivanti dallo svolgimento della manifestazione, dedotte le spese di allestimento e di organizzazione, vengano interamente destinati alle citate finalità e che ai lavoratori dello spettacolo coinvolti non venga corrisposto alcun compenso. Ai fini del rilascio del predetto certificato, la sussistenza dei presupposti della gratuità deve essere opportunamente documentata.
Infine, il certificato di agibilità in «esenzione contributiva» è il documento che attesta lo svolgimento di attività lavorativa nel territorio nazionale da parte di lavoratori dello spettacolo (sempre occupati nelle categorie da 1 a 14 dell'art. 3 del dlgs cps n. 708/1947) stranieri (provenienti da Paesi comunitari o con i quali vigono convenzioni sulla sicurezza sociale) muniti dei documenti esonerativi. Il possesso del certificato di agibilità è, pertanto, necessario anche per quelle imprese (straniere o italiane) che impiegano lavoratori operanti in Italia senza obblighi contributivi.
Per tutte e tre le tipologie anzidette, dal 01.01.2018 il certificato non occorre più per gli assunti di quelle categorie di lavoratori con contratto di lavoro subordinato e operanti in locali di proprietà dell'impresa che assume o di cui l'impresa abbia un diritto personale di godimento; mentre permane per gli ingaggi con contratto di prestazione d'opera di durata superiore a 30 giorni e per i lavoratori autonomi delle stesse categorie (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

EDILIZIA PRIVATANei regolamenti edilizi lo spazio per le biciclette.
I comuni devono mettere in atto strumenti urbanistici per realizzare le velostazioni, gli stalli per bici e approvare regolamenti edilizi che consentano il parcheggio delle bici negli spazi condominiali. Gli stessi comuni, così come tutte le altre amministrazioni, dovranno pianificare anche la mobilità ciclistica. Possibilità di installare portabiciclette a sbalzo sugli autobus. Mentre il codice della strada non dovrà più garantire solo la «fluidità del traffico», ma anche la mobilità sostenibile e la circolazione dei velocipedi.

Lo prevede tra l'altro la legge 11.01.2018, n. 2 «Disposizioni per lo sviluppo della mobilità in bicicletta e la realizzazione della rete nazionale di percorribilità ciclistica», in G.U. n. 25 del 31.01.2018 e in vigore dal 15 febbraio (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2018).

EDILIZIA PRIVATAEnti locali in dubbio sugli oneri urbanistici.
Enti in dubbio sulla contabilizzazione degli oneri di urbanizzazione. Secondo la tesi più diffusa, la nuova disciplina sui proventi dei titoli abilitativi edilizi (e delle relative sanzioni) impone di considerarli come cassa vincolata. Ma, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti, c'è chi la pensa diversamente.
Dal 2018, la materia è disciplinata dal comma 460 della l. 232/2016, che circoscrive le spese finanziabili con gli oneri alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e altre fattispecie meno frequenti (fra cui nuovamente la progettazione).
È quindi venuta meno la possibilità di destinare tali entrate a spese diverse da quelle elencate espressamente dal legislatore. Il problema è stabilire se ciò comporti anche l'obbligo di considerarle vincolate anche in termini di cassa. In caso di risposta affermativa, gli enti dovrebbero applicare il combinato disposto degli artt. 195 e 222 del Tuel, che limitano la possibilità di attingere alla cassa vincolata per finalità di spesa diverse da quelle stabilite. In tali casi, inoltre, scatterebbe l'obbligo di contabilizzare nelle scritture finanziarie i movimenti di utilizzo e di reintegro.
Si tratterebbe di un notevole appesantimento procedurale, per cui si sta facendo strada una scuola di pensiero alternativa, secondo cui sarebbe errato considerare gli oneri entrate vincolate, dato che il legislatore ha stabilito solo una loro generica destinazione. In tal senso, soccorre la deliberazione n. 31/2015 della sezione autonomie che ha chiarito che il regime vincolistico della gestione di cassa è caratterizzato dall'eccezionalità delle ipotesi, che devono essere circoscritte a quelle indicate agli artt. 180, comma 3, lett. d) e dall'art. 185, comma 2, lett. i).
Secondo i giudici contabili, cassa vincolata è solo quella che deriva da entrate aventi una destinazione specifica e circoscritta (la singola opera) e non meramente generica (tutte le opere di un certo tipo). Ciò pare anche confermato dal principio contabile applicato della contabilità finanziaria (allegato 4/2 al dlgs 118/2011), che al punto 9.2 recita: «È necessario distinguere le entrate vincolate alla realizzazione di una specifica spesa, dalle entrate destinate al finanziamento di una generale categoria di spese, quali la spesa sanitaria». In questa prospettiva, gli oneri sarebbero tuttora da considerare entrate destinate agli investimenti e quindi non vincolate (articolo ItaliaOggi del 30.01.2018).

LAVORI PUBBLICIOpere in digitale, è countdown. La metodologia Bim sarà d'obbligo nei lavori pubblici. Un decreto del Mit indica la tempistica di applicazione: il via dal 2019, a regime dal 2025.
Dal 01.01.2019 al via la progettazione delle opere pubbliche oltre i 100 milioni con la metodologia Bim (Building information modelling), ossia un sistema digitale che permette di integrare in un unico modello le informazioni utili in ogni fase della progettazione, costruzione e gestione.
A seguire, ogni anno, il Bim sarà applicato anche per le altre opere finché nel 2025 si adotterà obbligatoriamente per ogni opera, senza distinzioni di soglie. Rilevanti saranno quindi gli impatti anche sotto il profilo dell'organizzazione, oltre che della riduzione di costi, per tutti gli operatori. La tecnologia Bim, infatti, offre vantaggi quali maggiore efficienza e produttività, meno errori, meno tempi morti, meno costi, massima condivisione delle informazioni, un controllo più dettagliato del progetto.

È questo lo scenario che si sta aprendo dopo che il ministero delle infrastrutture ha pubblicato (lo scorso 12 gennaio) sul proprio sito internet il decreto 01.12.2018, siglato dal ministro Graziano Delrio, che dà attuazione all'articolo 23, comma 13, del Codice dei contratti pubblici (dlgs n. 50/2016), consentendo l'applicazione in Italia di strumenti e modelli elettronici per la progettazione, esecuzione e gestione di opere pubbliche. Già oggi progettisti e imprese di costruzioni sono chiamati a rispondere a questa sfida tecnologica e innovativa, perché il codice appalti consente di fare gare chiedendo il Bim se il personale tecnico dell'amministrazione è «adeguatamente formato».
Si chiude così una partita durata più di un anno che ha visto una Commissione ministeriale (presieduta dal provveditore alle opere pubbliche di Lombardia ed Emilia-Romagna, Pietro Baratono) predisporre uno schema, a giugno 2017, che sei mesi dopo è stato varato in via definitiva. Nel frattempo le amministrazioni pubbliche hanno iniziato, già nel 2015, a pubblicare bandi nei quali si è fatto riferimento al Bim, ancorché non fossero obbligati (in questi casi il codice prevede appunto che possa essere utilizzato il Bim «soltanto da parte delle stazioni appaltanti dotate di personale adeguatamente formato»).
Dall'entrata in vigore del dm 560/2017 (28 gennaio) le stazioni appaltanti, per poter (facoltà) chiedere il Bim negli atti di gara, dovranno però avere predisposto: un piano di formazione del personale in relazione al ruolo ricoperto, con particolare riferimento ai metodi e strumenti elettronici specifici; un piano di acquisizione o di manutenzione degli strumenti hardware e software di gestione e un atto organizzativo interno che espliciti il processo di controllo e gestione, i gestori dei dati e la gestione dei conflitti.
Il Bim, in uso a livello internazionale da diversi anni (da almeno due decenni negli Stati Uniti), è una metodologia che consente di progettare le opere con diversi vantaggi rispetto ai metodi tradizionali di gestione del progetto in termini di ottimizzazione dei flussi operativi e di produttività. Con il Bim, declinato in software operativi che hanno anche un notevole impatto sulle modalità di gestione e organizzazione delle commesse, si realizza una elevata integrazione tra fase progettuale e fase esecutiva dovuta a un più efficiente e accurato scambio delle informazioni fra tutti gli attori coinvolti: committenti, progettisti, imprese di costruzioni e gestori delle opere realizzate.
Per le stazioni appaltanti usare il Bim sarà anche considerato come elemento apprezzabile in sede di qualificazione delle stesse amministrazioni: il codice degli appalti lo considera «parametro di valutazione dei requisiti premianti» in sede di qualificazione delle stazioni appaltanti. Si è in presenza quindi di una sfida di innovazione tecnologica che impatta fortemente sulle amministrazioni in termini di formazione degli uffici tecnici, così come sugli operatori del mercato (professionisti, studi, società, imprese di costruzioni, gestori di patrimoni immobiliari) e che riguarda tutte le fasi (progettazione, esecuzione e gestione).
Il provvedimento ministeriale prevede una precisa tempistica: dall'01/01/2019 per i lavori complessi oltre i 100 milioni di euro; dall'01/01/2020 per opere di importo pari o superiore a 50 milioni; dall'01/01/2021 per opere oltre i 15 milioni; dall'01/01/2022 per opere oltre 5,2 milioni; dall'01/01/2023 oltre un milione; dall'01/01/2025 sotto un milione. Le stazioni appaltanti potranno comunque (in via facoltativa) richiedere l'uso dei metodi e degli strumenti di modellazione «per le nuove opere e per interventi di recupero, riqualificazioni o varianti».
Non solo. Potranno anche utilizzare metodi e strumenti elettronici specifici «alle varianti riguardanti progetti di opere relativi a bandi pubblicati anche prima dell'entrata in vigore del decreto», come già avvenuto (addirittura per nuovi progetti) nel 2016. Le piattaforme utilizzate dalle stazioni appaltanti dovranno essere interoperabili a mezzo di «formati aperti non proprietari» e i flussi informativi e decisionali dovranno essere «correlati e ottimizzati» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.01.2018).

ENTI LOCALI - VARIMulte, parte la caccia alla Pec. Consultazione difficile (e non gratis) per le persone fisiche. Pro e contro del decreto sulla notificazione dei verbali. Nulla cambia se manca l'indirizzo.
Le multe stradali ora arrivano via Pec. Ma in che modo? Se la contestazione della violazione stradale è stata immediata, il trasgressore deve comunque comunicare l'eventuale indirizzo di posta elettronica certificata. Se invece si tratta di contestazione differita, l'indirizzo va ricercato dagli organi accertatori negli elenchi Ini-Pec (l'Indice nazionale degli indirizzi di Pec, per società e professionisti, istituito dal Mise in attuazione del cosiddetto decreto crescita, il dl 179/2012) e in ogni altro registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle comunicazioni aventi valore legale.
Ma la consultazione di tutti questi elenchi potrà essere addebitata al trasgressore tramite l'aumento delle spese di accertamento.
Se non risulta alcuna Pec (come accade ancora nella maggior parte dei casi), si seguiranno le regole attuali.

Questo lo scenario dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16.01.2018 del decreto del Ministero dell'interno del 18.12.2017 recante «Disciplina delle procedure per la notificazione dei verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite posta elettronica certificata».
D'ora in poi, infatti, gli organi accertatori possono (anzi, devono) notificare le multe stradali tramite la posta elettronica certificata all'indirizzo dichiarato dal conducente o dal responsabile in solido o al domicilio digitale di cui all'art. 3-bis del codice dell'amministrazione digitale.
Premessa. In materia di notificazione dei verbali di contestazione di violazioni del codice della strada l'art. 20, c. 5-quater, del decreto legge n. 69 del 21.06.2013, convertito dalla legge n. 98 del 09.08.2013, aveva previsto l'adozione di un decreto del ministro dell'interno, di concerto con i ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'economia e delle finanze e per la pubblica amministrazione e la semplificazione, per disciplinare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le procedure per la notificazione delle multe stradali tramite posta elettronica certificata, escludendo l'addebito delle spese di notificazione.
Il decreto ministeriale. Con l'adozione e la pubblicazione del decreto del ministero dell'interno del 18.12.2017, sono state finalmente disciplinate le modalità di notificazione delle multe stradali via Pec. Il decreto dispone che se non è stata effettuata la contestazione immediata o se il trasgressore o i responsabili in solido non hanno comunicato l'indirizzo di posta elettronica certificata, questo va ricercato dagli organi accertatori negli elenchi di cui all'art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 18.10.2012 e in ogni altro registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle comunicazioni aventi valore legale. Il messaggio di Pec inviato al destinatario del verbale deve contenere nell'oggetto la dizione di «atto amministrativo relativo a una sanzione amministrativa prevista dal codice della strada» e in allegato:
   a) una relazione di notificazione su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale, in cui devono essere riportate almeno le seguenti informazioni: la denominazione esatta e l'indirizzo dell'amministrazione e della sua articolazione periferica che ha provveduto alla spedizione dell'atto, l'indicazione del responsabile del procedimento di notificazione e, se diverso, di chi ha curato la redazione dell'atto notificato, l'indirizzo e il telefono dell'ufficio presso il quale è possibile esercitare il diritto di accesso, l'indirizzo di posta elettronica certificata a cui gli atti o provvedimenti vengono notificati e l'indicazione dell'elenco da cui il predetto indirizzo è stato estratto ovvero le modalità con le quali è stato comunicato dal destinatario;
   b) copia per immagine su supporto informatico di documento analogico del verbale se l'originale è formato su supporto analogico, con attestazione di conformità all'originale a norma dell'art. 22, comma 2, del codice dell'amministrazione digitale, sottoscritta con firma digitale, ovvero un duplicato o copia informatica di documento informatico del verbale di contestazione con attestazione di conformità all'originale a norma dell'art. 23-bis del Cad, sottoscritta con firma digitale;
   c) ogni altra comunicazione o informazione utile al destinatario per esercitare il proprio diritto alla difesa e ogni altro diritto o interesse tutelato.
I termini per la notificazione sono quelli già previsti dal codice della strada. I verbali si considerano spediti, per gli organi di polizia stradale, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione della Pec.
Le criticità. Non essendo stata fissata una data di entrata in vigore, questa pare coincidere con la data di pubblicazione avvenuta il 16.01.2018. Ai Comandi cui appartengono gli organi accertatori spetta pertanto il compito di riorganizzare in tempi brevi la fase della notificazione delle multe stradali, considerando che la Pec abbatte tempi e costi con importanti risvolti dal punto di vista della gestione contabile. Le società, i professionisti o altra persona potrebbero invocare, legittimamente, l'esclusione del pagamento delle spese di notificazione postale, con le conseguenti procedure contabili di appesantimento della gestione burocratica.
La criticità più importante concerne l'impossibilità tecnica, al momento, di eseguire interrogazioni massive delle caselle di Pec dagli elenchi, come la banca dati Ini-Pec. I costi della consultazione, sia massiva che singola, potranno comunque essere addebitati al trasgressore e all'obbligato in solido fissando un aumento delle spese di accertamento mediante motivato provvedimento.
Dall'applicazione del decreto ministeriale del 18.12.2017 restano escluse le notificazioni di multe stradali all'estero e le procedure relative alla contestazione di verbali per violazioni amministrative in materie diverse da quelle normate dal codice della strada (articolo ItaliaOggi Sette del 29.01.2018).

TRIBUTI - VARINecessaria l'informativa privacy su ogni totem pubblicitario.
Ci vuole l'informativa privacy su ogni totem pubblicitario.

Lo ha stabilito il Garante della privacy, a proposito di una iniziativa in corso in alcune stazioni ferroviarie (provvedimento 21.12.2017 n. 551).
Si tratta dei dispositivi che analizzano le espressioni delle persone che si avvicinano al cartellone virtuale e costruiscono analisi statistiche del gradimento della pubblicità. La presenza della telecamera deve essere segnalata sia con una sintetica vetrofania sia in forma integrale sul sito internet della società, che fa la pubblicità, raggiungibile anche mediante un QR code. Insomma, via libera alla raccolta ma solo per elaborare analisi statistiche e senza alcuna possibilità di identificazione.
È un compromesso: siamo di fronte sempre a un trattamento di dati e a una privacy da tutelare anche se si riprendono le persone per pochi secondi e anche se le immagini sono immediatamente e continuativamente sovrascritte, giusto il tempo di elaborare la reazione (positiva o negativa). Nel caso specifico si parla di 500 colonnine con webcam integrate. La tecnologia adottata è studiata per analizzare, solamente in forma anonima e in maniera localizzata al singolo totem, l'espressione facciale (da felice a triste) e alcune altre caratteristiche delle persone, ma senza conservare né trasmettere alcuna immagine o altri dati riferibili a specifici soggetti inquadrati dalla telecamera. Nessuna possibilità del tracciamento del percorso delle persone.
Nonostante tutto questo l'apparecchiatura, dunque, effettua comunque un trattamento di dati personali funzionale all'analisi statistica dell'audience. E se c'è un trattamento dei dati, allora si applicano gli adempimenti della normativa sulla privacy. Non può applicarsi l'obbligo del consenso, impossibile da chiedere a tutti quelli che si fermano davanti all'installazione pubblicitaria e, di fatti, il garante ha autorizzato il trattamento dei dati senza il consenso. Si applicano, però, gli altri adempimenti come l'informativa, che può essere stratificata. Prima una informativa sintetica collocata presso ogni totem installato un cartello, (anche in formato di vetrofania) che segnali la presenza della telecamera e che riporti gli elementi essenziali relativi al trattamento dei dati effettuato.
Tale informativa sintetica dovrà inoltre contenere i riferimenti all'informativa completa facilmente raggiungibile, anche tramite un apposito QR Code, sul sito internet della società. Si deve, poi, garantire la sicurezza delle tecnologie utilizzate nei totem, adottando un monitoraggio almeno semestrale della telecamera, al fine di individuare eventuali malfunzionamenti o tentativi di accesso illecito agli apparati. La pronuncia è estensibile ad altre iniziative analoghe, come l'analisi della reazione delle persone in un supermercato (articolo ItaliaOggi del 27.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAVia e vas, pareri e audizioni web. Convocazioni via Pec, istruttorie e riunioni via internet. Un decreto del ministero dell'ambiente riscrive le modalità di funzionamento delle commissioni.
Le attività istruttorie della commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale (Via) dovranno prevedere l'utilizzo della documentazione in solo formato digitale e la partecipazione anche per via telematica. L'articolazione della commissione verrà snellita (numero massimo di componenti 40) con la riduzione del numero delle sottocommissioni.

Lo prevede il decreto del ministero dell'ambiente del 13.12.2017, n. 342 (registrato alla Corte dei conti e in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) che semplifica l'articolazione, l'organizzazione e le modalità di funzionamento della commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale (Via e Vas) e del comitato tecnico istruttorio.
Il provvedimento è attuativo dell'articolo 6 del dlgs n. 104/2017 che ha sostituito integralmente l'articolo 8 del dlgs n. 152 del 2006, disciplinante la commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale, Via e Vas (valutazione ambientale strategica).
A supporto della Commissione opera uno specifico comitato tecnico istruttorio, posto alle dipendenze funzionali del ministero dell'ambiente, composto da trenta componenti.
Riunioni convocate tramite posta elettronica certificata. Le riunioni delle sottocommissioni sono convocate dai rispettivi coordinatori, tramite Pec della commissione Via e Vas. Le riunioni del gruppo istruttore, invece, sono convocate dal referente tramite la Pec personale. La partecipazione alle riunioni potrà essere effettuata anche online, previa richiesta alla segreteria, almeno due giorni prima della data.
Ordine del giorno delle riunioni e i necessari documenti di lavoro saranno messi a disposizione dei soggetti convocati tramite gli strumenti informatici della direzione generale. Per la validità delle riunioni e delle votazioni dell'assemblea plenaria e delle sottocommissioni è necessario che sia garantita la partecipazione, con presenza fisica o per via telematica, della metà più uno dei commissari convocati.
Pareri digitali per le sottocommissione valutazione ambientale strategica. La sottocommissione Vas approva i pareri relativi ai procedimenti di assoggettabilità alla valutazione ambientale strategica e la revisione del piano o del programma. A conclusione delle sedute, ciascun parere, firmato digitalmente dal solo presidente, e il relativo elenco dei presenti con indicazione del voto espresso, saranno trasmessi dal segretario alla direzione generale.
Contestualmente i pareri e il verbale della seduta saranno trasmessi dal segretario, tramite Pec ,ai partecipanti alla seduta. Che, entro due giorni dalla ricezione, potranno effettuare segnalazione motivata al segretario. Trascorso il termine senza che siano pervenute segnalazioni, il verbale e i pareri si intenderanno approvati (articolo ItaliaOggi del 26.01.2018).

ENTI LOCALITelecamere open. Videosorveglianza da condividere. In Unificata ok alle Linee generali sulla sicurezza.
Gli impianti di videosorveglianza cittadina dovranno essere censiti e valorizzati anche con l'eventuale contributo dei privati e messi a disposizione delle forze di polizia locale e dello stato. Per un uso condiviso e regolato anche nel rispetto del codice della privacy e delle diverse prerogative dei soggetti coinvolti.

È una delle novità contenute nelle linee generali per la promozione della sicurezza integrata che hanno ottenuto ieri il parere favorevole della Conferenza Unificata (come anticipato ieri da ItaliaOggi).
La regolamentazione dell'utilizzo in comune dei sistemi di sicurezza tecnologica finalizzati al controllo del territorio rappresenta la parte più concreta delle linee guida approvate ieri che attuano il decreto legge Minniti sulla sicurezza urbana (dl 14/2017). Sull'uso condiviso di queste tecnologie impattano infatti in maniera molto evidente le diverse prerogative delle forze di polizia locale e dello stato. Da una parte infatti la polizia municipale resta titolare di prevalenti mansioni di carattere amministrativo. Dall'altra le forze dello stato hanno prevalenti funzioni di sicurezza e ordine pubblico. Anche se il confine in realtà è spesso incerto e sulla carta la polizia locale ha attitudini e prerogative anche di polizia giudiziaria e di sicurezza e viceversa.
Ma di certo alla polizia locale non è ancora stato consentito un accesso sereno al Ced dei veicoli rubati. E per questo i sistemi comunali di lettura targhe presenti sul territorio possono agevolmente sanzionare un trasgressore per mancata revisione ma non sapere se il veicolo è rubato. Con la prevista integrazione dei sistemi queste criticità andranno inevitabilmente risolte. Spetterà infatti ai comuni progettare delle piattaforme di videosorveglianza integrata finalizzate a permettere alla polizia locale e alle altre forze di polizia di svolgere il proprio mestiere, nel rispetto delle diverse specializzazioni e del trattamento dei dati personali.
«La sicurezza nelle nostre città migliorerà grazie all'interconnessione delle informazioni e delle banche dati tra le forze dell'ordine e la polizia locale, l'integrazione dei sistemi di videosorveglianza, l'integrazione e la collaborazione tra le sale operative e l'aggiornamento professionale integrato per gli operatori della polizia locale e delle forze di polizia», ha commentato il presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro. «Abbiamo chiesto modifiche al testo che prevedano un maggiore coinvolgimento dei comuni nella sottoscrizione dei protocolli tra le prefetture e le regioni per la promozione della sicurezza integrata».
Nel corso dei lavori in via della Stamperia è arrivata anche l'intesa sul riparto del fondo per le politiche giovanili, che «registra quest'anno un aumento di circa il 40%, in netta controtendenza rispetto agli anni scorsi», ha osservato Decaro (articolo ItaliaOggi del 25.01.2018).

LAVORI PUBBLICIProtezione civile comunale. Nuovo codice.
Arrivano i Gruppi comunali di protezione civile, associazioni di volontari che decidono di impegnarsi nella tutela della sicurezza e dell'ambiente. Saranno i comuni a promuovere la costituzione di questi nuovi enti del Terzo settore, approvando uno schema-tipo di delibera del consiglio comunale.

È una delle novità del nuovo Codice della protezione civile, erroneamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio (si veda ItaliaOggi di ieri) come dlgs n. 224/2018 e ieri ri-numerato dlgs n. 1/2018 dopo l'errata corrige pubblicata ieri in G.U.
Prima di costituire un gruppo comunale di protezione civile, i municipi dovranno consultare il ministero del lavoro e acquisire il parere del Comitato nazionale del volontariato di protezione civile, organismo previsto dal codice. I municipi saranno tenuti a curare la gestione amministrativa del Gruppo comunale e ne saranno responsabili. Non solo. Dovranno assicurare che all'interno del Gruppo comunale venga individuato un coordinatore operativo referente delle attività dei volontari.
Per essere integrati nel Servizio nazionale di protezione civile, i gruppi comunali dovranno iscriversi negli elenchi territoriali gestiti dalle regioni e dalle province autonome. I gruppi comunali di volontariato potranno anche essere costituiti su base intercomunale o provinciale.
Il dlgs annovera l'attività di pianificazione di protezione civile e di direzione dei soccorsi tra le funzioni fondamentali dei comuni che potranno essere esercitate anche in forma associata. I municipi dovranno approvare, con delibera del consiglio, il piano di protezione civile comunale o di ambito. Spetterà al sindaco:
   - adottare provvedimenti contingibili e urgenti (art. 54 Tuel) per prevenire gravi pericoli per l'incolumità pubblica;
   - informare la popolazione sugli scenari di rischio e sulle situazioni di pericolo;
   - coordinare l'assistenza alle popolazioni colpite e operare i primi interventi necessari (articolo ItaliaOggi del 24.01.2018).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Costituisce ius receptum che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
---------------

11.3.2. Occorre pertanto delineare il contesto dei principi e delle norme all’interno del quale il comune si è trovato ad operare.
Costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.02.2018 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARILo studio come casa privata. Cassazione.
Lo studio professionale vale come dimora privata. Se un soggetto accede con la forza all'interno dello studio, commette violazione di domicilio, diversamente dal caso in cui l'accesso si manifesti in un esercizio commerciale.

A queste conclusioni sono giunti i giudici della V Sez. penale della Corte di Cassazione, nella sentenza 07.02.2018 n. 5797.
La sentenza parte dall'assunto che tutte le volte in cui uno spazio non è indiscriminatamente aperto al pubblico, chi vi si intrattiene contro la volontà del titolare commette violazione di domicilio; inoltre, «è necessario che in concreto si svolgano, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata». A differenza di un esercizio commerciale, quindi, uno studio professionale rientra nella definizione di privata dimora.
La Corte era già intervenuta in materia con la sentenza 31345/2017 in cui si escludeva la definizione di privata dimora per un ristorante. In quel caso ricorrevano gli estremi della vita privata, ma mancava il divieto di accesso al pubblico senza il consenso del titolare.
La sentenza n. 5797/2018 riguarda il caso di un avvocato che era stato condannato per violenza privata e violazione di domicilio per essersi intrattenuto all'interno dello studio legale contro la volontà espressa dal titolare e per aver «compiuto atti idonei in modo non equivoco a costringerlo a ricevere una missiva e ad apporvi la firma per ricevuta, minacciandolo di non andar via dallo studio fino ad avvenuto adempimento».
L'avvocato era stato condannato a cinque mesi di reclusione in primo grado nel 2013, pena confermata dalla Corte di appello di Roma nel 2015; i fatti sono stati commessi a Roma nel 2008. La Cassazione ha riconosciuto il concetto di dimora privata ma ha annullato la sentenza in quanto il reato è estinto per prescrizione. L'avvocato è stato condannato a pagare le spese sostenute dalla parte civile (articolo ItaliaOggi del 10.02.2018).
---------------
MASSIMA
3. Le ulteriori motivazioni attengono, in parte, al giudizio di merito, quali, per l'appunto, le censure, pertinenti alla valutazione dei costituti testimoniali, assunti nel corso del procedimento, e, in parte, alla configurabilità o meno delle ipotesi criminose, relative alla violazione di domicilio, inclusiva di uno ius escludendi, ed al tentativo di violenza privata, considerati l'elemento oggettivo e soggettivo delle fattispecie criminose.
Quest'ultime censure, pur non potendosi ritenere manifestamente infondate e, in quanto tali qualificabili come ammissibili, non sono accoglibili.
Al riguardo,
va considerato l'orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale lo studio professionale è equiparabile ad una privata dimora, stante la mancata apertura indiscriminata al pubblico (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 27007601; Sez. 5, n. 879 del 27/11/1996 - dep. 05/02/1997, Lo Cicero, Rv. 20690501).
Ne consegue la correttezza della motivazione, svolta dai giudici di merito, nel caso di specie, ancorché connotato dall'ubicazione, presso lo studio legale in questione, della sede di un consorzio.
Parimenti, va posta in evidenza la congruità e completezza della motivazione, contenuta nel provvedimento impugnato, circa la ricorrenza dei reati, sopra indicati, con riferimento al lasso di tempo, nel quale si protrasse l'azione del Su., ed alle modalità di induzione, poste in essere da quest'ultimo.

APPALTI: Il nuovo Codice degli appalti pubblici non ammette che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e irregolarità relative all'offerta economica.
Per le gare indette all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) non vi sono più i presupposti per ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri di cui all'art. 95, c. 10. Ciò, in quanto il Codice ha definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza di tale obbligo.
Più in generale, il nuovo Codice non ammette comunque che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e irregolarità relative all'offerta economica (in tal senso -e in modo espresso- l'art. 95, c. 10, cit.).
L'esclusione è anche intesa ad evitare che il rimedio del soccorso istruttorio -istituto che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali- possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica a un concorrente (cui è riferita l'omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2018 n. 815 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: E' ormai definitivo che:
   - per le gare indette all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo Codice non vi sono più i presupposti per ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri di cui all’articolo 95, comma 10. Ciò, in quanto il Codice ha definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza di tale obbligo;
   - più in generale, il nuovo Codice non ammette comunque che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e irregolarità relative all’offerta economica (in tal senso –e in modo espresso– l’articolo 95, comma 10, cit.). L’esclusione è anche intesa ad evitare che il rimedio del soccorso istruttorio -istituto che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali- possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica a un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica.
---------------
Riconducendo quanto sopra alle peculiarità del caso di specie, emerge che effettivamente la Telecom Italia non avrebbe potuto essere ammessa al soccorso istruttorio a cagione dell’iniziale mancata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’ e che avrebbe dovuto quindi essere esclusa dalla gara.
Si osserva al riguardo:
   i) che l’obbligo di indicare in modo puntuale i richiamati oneri non solo emergeva dall’articolo 95, comma 10, ma –per di più– era stato espressamente ribadito in sede di lettera di invito. Perciò, a parte che l’omissione riguardava il contenuto dell’offerta economica (e che ciò non poteva in principio consentire il ricorso al soccorso istruttorio), l’appellata non poteva comunque vantare un affidamento incolpevole o invocare l’incertezza del quadro normativo di riferimento al fine di giustificare l’inosservanza. Inoltre, quand’anche si ritenesse (con il primo giudice) che la lettera di invito non fosse sul punto del tutto chiara, è tuttavia indubitabile che l’obbligo emergesse con adeguata chiarezza dalla litera legis e che la Telecom Italia lo avesse in concreto disatteso;
   ii) che, nella propria offerta, la Telecom Italia aveva inammissibilmente affermato che l’ammontare dei detti oneri era pari “[all’]un per cento del margine dell’offerta”. Ma in tal modo la concorrente aveva indebitamente ancorato la determinazione del quantum di tali oneri a un parametro incerto e fluttuante, rendendone così incerta la quantificazione. Non è del resto dato comprendere quale possa essere la razionale relazione fra l’ammontare degli oneri per la sicurezza e quello del margine dell’offerta. Laddove infatti si ammettesse una siffatta relazione, si dovrebbe concludere che l’impresa possa ridurre il livello delle spese destinate alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro laddove le ricadute economiche della commessa presentino un andamento negativo;
   iii) che non può essere condivisa la tesi della Telecom Italia secondo cui, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, la mancata indicazione dei detti oneri non porterebbe senz’altro all’esclusione. Si osserva in contrario che, una volta accertato che tale obbligo di indicazione è chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina conseguenze escludenti a prescindere dal dato che l’esclusione non sia stata testualmente enunciata dagli articoli 83 e 95 del Codice. E’ qui appena il caso di osservare che l’inadeguata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’ non lede solo interessi di ordine dichiarativo o documentale, ma si pone ex se in contrasto con i doveri di salvaguardia dei diritti dei lavoratori cui presiedono le previsioni di legge, che impongono di approntare misure e risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro salute.
Da quanto detto emerge che l’offerta formulata in gara dalla Telecom Italia fosse irrimediabilmente viziata e avrebbe dovuto comportarne l’esclusione dalla procedura.
---------------

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società attiva nel settore dei servizi di connettività satellitare (la quale aveva partecipato alla gara di appalto indetta dal Ministero della Difesa per la fornitura di servizi di connettività satellitare sottoposta alla procedura ALLA/NALLA e si era classificata al secondo posto dopo Telecom Italia s.p.a.) avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio con cui è stato respinto il ricorso avverso gli atti conclusivi della gara.
2. Con l’appello in epigrafe la Telespazio s.p.a. contesta in primo luogo il mancato accoglimento del motivo con cui si era lamentato che illegittimamente la stazione appaltante avesse ammesso la concorrente Telecom Italia al beneficio del soccorso istruttorio in relazione all’indicazione dei costi per la sicurezza cc.dd. ‘aziendali’.
Secondo l’appellante, in particolare, il riconoscimento del beneficio in parola era avvenuto in assenza dei prescritti presupposti normativi.
2.1. Il motivo è fondato.
2.1.1. Va in primo luogo osservato che la gara per cui è causa è stata indetta nella vigenza del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice degli appalti pubblici) in quanto la lettera di invito è stata inviata alle imprese potenzialmente interessate in data 29.09.2016.
La prima conseguenza è che, per ciò che riguarda l’istituto del soccorso istruttorio, trova applicazione l’articolo 83, comma 9, del nuovo Codice secondo cui “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere”.
La seconda conseguenza è che, per ciò che attiene l’obbligo di indicare puntualmente l’ammontare degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’, trova applicazione l’articolo 95, comma 10, secondo cui “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). […]” (disposizione che, superando legislativamente le precedenti incertezze, ha definito che, per le gare indette nella vigenza del nuovo Codice, è necessaria per le imprese concorrenti l’indicazione dei detti oneri).
La terza conseguenza è che, per il caso in esame, non trovano applicazione i principi di diritto formulati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, 27.07.2016, n. 19 in tema di ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di mancata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’ (che ha espressamente limitato la valenza del principio alle sole gare indette nella vigenza del decreto legislativo n. 163 del 2006, escludendone le precedenti).
2.1.2. In base a quanto esposto, è ormai definitivo che:
   - per le gare indette all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo Codice (come quella che qui viene in rilievo) non vi sono più i presupposti per ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione degli oneri di cui all’articolo 95, comma 10. Ciò, in quanto il Codice ha definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza di tale obbligo;
   - più in generale, il nuovo Codice non ammette comunque che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato nel caso di incompletezze e irregolarità relative all’offerta economica (in tal senso –e in modo espresso– l’articolo 95, comma 10, cit.). L’esclusione è anche intesa ad evitare che il rimedio del soccorso istruttorio -istituto che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali- possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica a un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica.
3. Riconducendo quanto sopra alle peculiarità del caso di specie, emerge che effettivamente la Telecom Italia non avrebbe potuto essere ammessa al soccorso istruttorio a cagione dell’iniziale mancata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’ e che avrebbe dovuto quindi essere esclusa dalla gara.
Si osserva al riguardo:
   i) che l’obbligo di indicare in modo puntuale i richiamati oneri non solo emergeva dall’articolo 95, comma 10, ma –per di più– era stato espressamente ribadito in sede di lettera di invito. Perciò, a parte che l’omissione riguardava il contenuto dell’offerta economica (e che ciò non poteva in principio consentire il ricorso al soccorso istruttorio), l’appellata non poteva comunque vantare un affidamento incolpevole o invocare l’incertezza del quadro normativo di riferimento al fine di giustificare l’inosservanza. Inoltre, quand’anche si ritenesse (con il primo giudice) che la lettera di invito non fosse sul punto del tutto chiara, è tuttavia indubitabile che l’obbligo emergesse con adeguata chiarezza dalla litera legis e che la Telecom Italia lo avesse in concreto disatteso;
   ii) che, nella propria offerta, la Telecom Italia aveva inammissibilmente affermato che l’ammontare dei detti oneri era pari “[all’]un per cento del margine dell’offerta”. Ma in tal modo la concorrente aveva indebitamente ancorato la determinazione del quantum di tali oneri a un parametro incerto e fluttuante, rendendone così incerta la quantificazione. Non è del resto dato comprendere quale possa essere la razionale relazione fra l’ammontare degli oneri per la sicurezza e quello del margine dell’offerta. Laddove infatti si ammettesse una siffatta relazione, si dovrebbe concludere che l’impresa possa ridurre il livello delle spese destinate alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro laddove le ricadute economiche della commessa presentino un andamento negativo;
   iii) che non può essere condivisa la tesi della Telecom Italia secondo cui, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, la mancata indicazione dei detti oneri non porterebbe senz’altro all’esclusione. Si osserva in contrario che, una volta accertato che tale obbligo di indicazione è chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina conseguenze escludenti a prescindere dal dato che l’esclusione non sia stata testualmente enunciata dagli articoli 83 e 95 del Codice. E’ qui appena il caso di osservare che l’inadeguata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. ‘interni o aziendali’ non lede solo interessi di ordine dichiarativo o documentale, ma si pone ex se in contrasto con i doveri di salvaguardia dei diritti dei lavoratori cui presiedono le previsioni di legge, che impongono di approntare misure e risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro salute.
3.1. Da quanto detto emerge che l’offerta formulata in gara dalla Telecom Italia fosse irrimediabilmente viziata e avrebbe dovuto comportarne l’esclusione dalla procedura.
3.2. Le ragioni sin qui esposte risultano di per sé idonee a determinare l’accoglimento dell’appello e la riforma della sentenza di primo grado che non ha rilevato l’obbligo di escludere la Telecom Italia dalla gara per cui è causa.
Esse esimono pertanto il Collegio dall’esame specifico dei motivi di appello con cui, reiterando argomenti già articolati in primo grado, l’appellante osserva che la Telecom Italia avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura anche per ulteriori e diverse ragioni.
4. Una volta disposto (per le ragioni appena esaminate) l’annullamento degli atti impugnati in primo grado –inclusa l’aggiudicazione in favore di Telecom Italia-, occorre domandarsi se possa essere accolta la domanda proposta dall’appellante, finalizzata alla declaratoria di inefficacia del contratto e al subentro nella gestione.
4.1. Alla domanda deve rispondersi in senso negativo.
Ai sensi dell’articolo 124, comma 2, Cod. proc. amm., infatti, l’accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subìto e provato.
Ebbene, ad avviso del Collegio, nonostante l’illegittimità degli atti della serie di gara, l’amministrazione appellata ha persuasivamente eccepito che la continuità dei sistemi di connettività satellitare concerne il superiore interesse della sicurezza nazionale, ragione per cui non è possibile ammettere il rischio che una tale continuità, che concretizza un’esigenza imperativa di interesse generale, possa essere compromessa da un avvicendamento nella gestione.
Inoltre l’odierna appellante non ha allegato, né provato il danno che avrebbe patito in ragione degli atti impugnati in primo grado, ragione per cui tale danno non può essere considerato come accertato nei suoi elementi costitutivi e nel suo ammontare.
La domanda, nei termini di risarcimento in forma specifica (che è quanto domandato in questa sede) non può dunque in parte qua trovare accoglimento.
5. Per le ragioni esposte l’appello in epigrafe deve essere accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, deve essere disposto l’annullamento degli atti impugnati in primo grado.
Deve essere invece respinta l’istanza di declaratoria di inefficacia del contratto e di subentro nella sua gestione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2018 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La risposta dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisce un'indebita e perciò illegittima modifica delle regole di gara nel caso di clausole della lex specialis mal formulate o incerte.
Nelle gare pubbliche in una situazione di obiettiva incertezza dipendente dal fatto che le clausole della lex specialis risultano malamente formulate o si prestano comunque ad incertezze interpretative o siano equivoche, la risposta dell'Amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisce un'indebita e perciò illegittima modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica con cui la stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis.
I chiarimenti operano a beneficio di tutti, e laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al principio del favor partecipationis, e resi pubblici, non comportano, se giustificati da un oggettiva incertezza della lex di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la sua ripubblicazione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.02.2018 n. 784 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Indicazione degli oneri di sicurezza aziendali nell’offerta.
---------------
  
Contratti della pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economica – Oneri di sicurezza aziendali concernenti l’adempimento delle disposizione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – Indicazione separata – Necessità.
  
Contratti della pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economica – Oneri di sicurezza aziendali – Omessa indicazione Soccorso istruttorio – Esclusione.
  
Nella predisposizione dell’offerta economica è necessario che l’operatore indichi separatamente, ai sensi dall’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, i costi degli oneri di sicurezza aziendali concernenti l’adempimento delle disposizione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (1).
  
Il soccorso istruttorio non opera nel caso di mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza aziendali (1).
---------------
   (1) Il Tar che è pur nella consapevolezza di orientamenti, allo stato, non uniformi nella giurisprudenza amministrativa, ha ritenuto di aderire alla ricostruzione che reputa necessaria l’indicazione separata di tali oneri e che in relazione ad essi non operi il soccorso istruttorio.
L’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è, infatti, una norma imperativa di legge, non derogabile dal bando, che si inserisce direttamente nell’atto unilaterale amministrativo anche in presenza di clausole contrastanti difformi (in applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c., pacificamente applicabili all’atto amministrativo ex art. 1324 c.c. ovvero tramite il procedimento analogico).
D’altro canto, trattandosi di requisiti dell’offerta economica, per essi non appare applicabile il soccorso istruttorio, espressamente escluso per tali requisiti dall’art. 85, comma 9, c.c.p., né può farsi riferimento alla tutela dell’affidamento del contraente alla luce del carattere imperativo della norma e dei requisiti professionali richiesti ad un operatore economico qualificato partecipante a una gara pubblica.
L’interpretazione che fa leva sulla chiara formulazione letterale della norma imperativa sopra citata appare in linea con le esigenze di “certezza del diritto” (cfr. art. 1, comma 1, lett. d, legge delega 28.01.2016 n. 11), a loro volta funzionali alla semplificazione ed accelerazione della tempistica nell’affidamento dei contratti pubblici, nel pieno rispetto della parità di trattamento e della trasparenza che costituiscono i criteri portanti sia della Direttiva 2014/24 UE e della normativa nazionale di attuazione.
L’art. 95, comma 10, individua destinatario (l’operatore), contenuto specifico dell’obbligo imposto (indicazione dei propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) e modalità (l’indicazione deve essere inserita nell’offerta economica); deve pertanto escludersi che ricorra nel caso di specie una causa di esclusione “non conosciuta o non conoscibile” dal concorrente, poiché al principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, non può attribuirsi valenza differente da quella che la giurisprudenza gli aveva assegnato nel vigore dell’art. 46, d.lgs. n. 163 del 2006, stante la sovrapponibilità testuale delle due disposizioni: l’esclusione dalla gara va pertanto disposta “sia nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano "adempimenti doverosi" o introducano, comunque, "norme di divieto" pur senza prevedere espressamente l'esclusione ma sempre nella logica del numerus clausus” (Cons. St., A.P., 25.02.2014, n. 9, la quale, rinviando alle proprie precedenti sentenze 16.10.2013, n. 23, e 07.06.2012, n. 21, ribadisce la non necessità che la sanzione della esclusione sia espressamente prevista dalla norma di legge “allorquando sia certo il carattere imperativo del precetto che impone un determinato adempimento ai partecipanti ad una gara”).
Nel contesto del quadro regolatorio vigente, pertanto, l’obbligo di indicare gli oneri della sicurezza nell’ambito dell’offerta economica costituisce un precetto imperativo espressamente risultante dal diritto nazionale, e non da una sua interpretazione, ciò che rende l’esclusione dalla procedura coerente con i principi di proporzionalità, trasparenza, e parità di trattamento come declinati dalla giurisprudenza eurounitaria (Corte giust. comm. UE, sez. VI, 02.06.2016 in causa C-27/15, “Pippo Pizzo”) (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.02.2018 n. 337 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
7. Il ricorso è fondato.
8.
La disposizione di cui all’art. 95, co. 10, D.Lgs. 50/2016 prevede espressamente che nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
9. Pur nella consapevolezza di orientamenti, allo stato, non uniformi nella giurisprudenza amministrativa,
il Collegio ritiene di aderire alla ricostruzione che ritiene necessaria l’indicazione separata di tali oneri e che in relazione ad essi non operi il soccorso istruttorio. Si tratta infatti di una norma imperativa di legge, non derogabile dal bando, che si inserisce direttamente nell’atto unilaterale amministrativo anche in presenza di clausole contrastanti difformi (in applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c., pacificamente applicabili all’atto amministrativo ex art. 1324 c.c. ovvero tramite il procedimento analogico).
D’altro canto,
trattandosi di requisiti dell’offerta economica, per essi non appare applicabile il soccorso istruttorio, espressamente escluso per tali requisiti dall’art. 85, comma 9 c.c.p., né può farsi riferimento alla tutela dell’affidamento del contraente alla luce del carattere imperativo della norma e dei requisiti professionali richiesti ad un operatore economico qualificato partecipante a una gara pubblica (ex multis Tar Umbria 56/2018; Tar Toscana Firenze 1566/2017; TAR Sicilia Catania,, sez. III, 31.07.2017, n. 1981; TAR Umbria 17.05.2017, n. 390; TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.01.2017, n. 34; TAR Molise 2016, n. 513; TAR Calabria, Reggio Calabria 25.02.2017, n. 166; TAR Veneto, 21.02.2017, n. 182; TAR Campania, Napoli, 2017, n. 2358, Consiglio di Stato ord. 15.12.2016, n. 5582).
L’interpretazione che fa leva sulla chiara formulazione letterale della norma imperativa sopra citata appare in linea con le esigenze di “certezza del diritto” (cfr. art. 1, c. 1, lett. d, legge delega 28.01.2016 n. 11), a loro volta funzionali alla semplificazione ed accelerazione della tempistica nell’affidamento dei contratti pubblici, nel pieno rispetto della parità di trattamento e della trasparenza che costituiscono i criteri portanti sia della Direttiva 2014/24 UE e della normativa nazionale di attuazione.
L’art.. 95, co. 10, individua destinatario (l’operatore), contenuto specifico dell’obbligo imposto (indicazione dei propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) e modalità (l’indicazione deve essere inserita nell’offerta economica); deve pertanto escludersi che ricorra nel caso di specie una causa di esclusione “non conosciuta o non conoscibile” dal concorrente, poiché al principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall’art. 83, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016, non può attribuirsi valenza differente da quella che la giurisprudenza gli aveva assegnato nel vigore dell’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, stante la sovrapponibilità testuale delle due disposizioni: l’esclusione dalla gara va pertanto disposta “sia nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano "adempimenti doverosi" o introducano, comunque, "norme di divieto" pur senza prevedere espressamente l'esclusione ma sempre nella logica del numerus clausus (così l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 25.02.2014, n. 9, la quale, rinviando alle proprie precedenti sentenze 16.10.2013, n. 23, e 07.06.2012, n. 21, ribadisce la non necessità che la sanzione della esclusione sia espressamente prevista dalla norma di legge “allorquando sia certo il carattere imperativo del precetto che impone un determinato adempimento ai partecipanti ad una gara”).
Nel contesto del quadro regolatorio vigente, pertanto,
l’obbligo di indicare gli oneri della sicurezza nell’ambito dell’offerta economica costituisce un precetto imperativo espressamente risultante dal diritto nazionale, e non da una sua interpretazione, ciò che rende l’esclusione dalla procedura coerente con i principi di proporzionalità, trasparenza, e parità di trattamento come declinati dalla giurisprudenza eurounitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, Sezione Sesta, 02.06.2016 in causa C-27/15, “Pippo Pizzo”).
10. In conclusione il ricorso va accolto con annullamento dell’aggiudicazione.

APPALTI: In materia risarcitoria ai sensi dell'art. 34, comma 4, cod. proc. amm. per il danno da mancata aggiudicazione (e non da perdita di chance, risultando la ricorrente seconda classificata).
Spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.);
Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c.” mentre “la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno.
---------------

Ritiene il Collegio che possa essere rimessa al Comune la formulazione di una
proposta risarcitoria ai sensi dell'art. 34, comma 4, cod. proc. amm. per il danno da mancata aggiudicazione
(e non da perdita di chance, risultando la ricorrente seconda classificata) fissando i seguenti criteri:
   a)
all'impresa danneggiata è dovuto l'interesse c.d. positivo, ovvero il mancato profitto che essa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto, che però deve essere calcolato sulla base della specifica offerta, eventualmente supportata da scheda tecnica, presentata dalla ricorrente.
Tale somma deve essere decurtata di tutte le spese necessarie per l'esecuzione dei lavori; nel caso in cui l'ammontare delle spese non sia ricavabile dall'offerta presentata in gara, l'amministrazione potrà acquisire dalla appellante i necessari dati, informazioni e chiarimenti, con conseguente sospensione del termine che sarà assegnato dal momento della richiesta fino a quello in cui tali elementi saranno resi disponibili;

   b)
la somma non dovrà invece essere decurtata dell’aliunde perceptum eventualmente conseguibile dall'impresa nell'esecuzione di altri lavori durante il tempo di svolgimento del contratto di cui è causa, poiché sul punto la ricorrente ha allegato di non aver avuto altre commesse e tale circostanza non è stata contestata dall’amministrazione;
   c)
nulla è dovuto a titolo di danno c.d. curriculare, non avendo l'impresa appellante offerto la prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito, avendo solo indicato danni potenziali e non specificatamente riconducibile alla mancata esecuzione dell’appalto;
   d)
nulla è dovuto a titolo di spese di partecipazione alla procedura, sia per la formulazione dell’offerta che per le spese legali che, di norma, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione.
   e)
la somma individuata alla lettera a) dovrà essere maggiorata di rivalutazione monetaria secondo l'indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat, che attualizza il danno al momento della sua liquidazione monetaria e gli interessi fino alla data del soddisfo, nella misura del tasso legale.
----------------
11. Non può invece accogliersi la dichiarazione di inefficacia del contratto, non sussistendo le condizioni di cui all’art. 121 c.p.a. essendo emerso in atti che il contratto era in fase inoltrata di esecuzione già alla data del 21.11.2011 (data cui si riferisce l’attestazione del RUP n. 2284 acquisito in giudizio) e soprattutto tenendo conto della natura specifica dei lavori, consistenti nella messa in sicurezza, adeguamento sismico, impiantistico ed efficientamento energetico di un edificio scolastico, in attuazione dell’art. 1, co. 160, della legge 13.07.2015 n. 107, in cui appare prevalente l’interesse pubblico ad evitare ogni soluzione di continuità nell’esecuzione dell’appalto.
12. Va pertanto esaminata la domanda di risarcimento per equivalente, proposta in via gradata da parte ricorrente, come precisata nella memoria depositata in vista dell’udienza.
Devono richiamarsi, allo scopo, i principi in materia di riparto dell’onere probatorio affermati da ultimo con Ad. Plen. 2/2017, secondo cui “spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c.” mentre “la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno”.
13. Ritiene il Collegio che possa essere rimessa al Comune di Santa Caterina Albanese la formulazione di una proposta risarcitoria ai sensi dell'art. 34, comma 4, cod. proc. amm. per il danno da mancata aggiudicazione (e non da perdita di chance, risultando la ricorrente seconda classificata) fissando i seguenti criteri:
   a) all'impresa danneggiata è dovuto l'interesse c.d. positivo, ovvero il mancato profitto che essa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto, che però deve essere calcolato sulla base della specifica offerta, eventualmente supportata da scheda tecnica, presentata dalla ricorrente; tale somma deve essere decurtata di tutte le spese necessarie per l'esecuzione dei lavori; nel caso in cui l'ammontare delle spese non sia ricavabile dall'offerta presentata in gara, l'amministrazione potrà acquisire dalla appellante i necessari dati, informazioni e chiarimenti, con conseguente sospensione del termine che sarà assegnato dal momento della richiesta fino a quello in cui tali elementi saranno resi disponibili;
   b) la somma non dovrà invece essere decurtata dell’aliunde perceptum eventualmente conseguibile dall'impresa nell'esecuzione di altri lavori durante il tempo di svolgimento del contratto di cui è causa, poiché sul punto la ricorrente ha allegato di non aver avuto altre commesse e tale circostanza non è stata contestata dall’amministrazione;
   c) nulla è dovuto a titolo di danno c.d. curriculare, non avendo l'impresa appellante offerto la prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito, avendo solo indicato danni potenziali e non specificatamente riconducibile alla mancata esecuzione dell’appalto;
   d) nulla è dovuto a titolo di spese di partecipazione alla procedura, sia per la formulazione dell’offerta che per le spese legali che, di norma, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2015, n. 1708).
   e) la somma individuata alla lettera a) dovrà essere maggiorata di rivalutazione monetaria secondo l'indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat, che attualizza il danno al momento della sua liquidazione monetaria e gli interessi fino alla data del soddisfo, nella misura del tasso legale.
La proposta risarcitoria dovrà essere formulata entro 90 giorni decorrenti dalla notifica o comunicazione in via amministrativa della presente decisione (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.02.2018 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Silenzio su istanza di rettifica di errore materiale del PGT e su istanza di restituzione di terreno.
Il TAR Milano, a fronte di una istanza di rettifica di errore materiale del PGT, precisa che l’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 va interpretato nel senso che il legislatore ha voluto imporre all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di ricevibilità; pertanto, anche a fronte di istanze abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di provvedere con un atto espresso; a bilanciare una tale soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la possibilità di motivare in maniera semplificata laddove l’istanza risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata.
Aggiunge il TAR che nella specie, l’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005, prevede che “i comuni, con deliberazione del consiglio comunale analiticamente motivata, possono procedere alla correzione di errori materiali, a rettifiche e a interpretazioni autentiche degli atti di PGT non costituenti variante agli stessi”; ciò attesta che anche a livello normativo, attraverso la predisposizione di un iter finalizzato alla eventuale rettifica di errori materiali contenuti negli strumenti urbanistici, è stata riconosciuta la rilevanza degli interessi coinvolti nella corretta predisposizione di tali strumenti, da cui a sua volta non può non scaturisce una posizione qualificata in capo agli amministrati direttamente interessati dalle regole di pianificazione del territorio, asseritamente incoerenti con il sistema complessivo.
Conclude, quindi, il TAR che, non essendo intervenuto alcun provvedimento espresso di riscontro, il ricorso deve essere accolto e conseguentemente deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio del Comune resistente in ordine all’istanza di rettifica di errore materiale formulata dal ricorrente, facendo obbligo alla predetta Amministrazione di pronunciarsi in modo espresso sulla citata istanza
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
... per la dichiarazione di illegittimità:
   - del silenzio serbato dal Comune di Lainate sull’istanza presentata dal ricorrente in data 12.07.2017 per la rettifica di errore materiale (art. 13 delle legge regionale n. 12 del 2005) contenuto nel Piano di Governo del Territorio (P.G.T.) del Comune, in relazione all’errata classificazione in “Area D1 – Insediamenti esistenti per la produzione industriale e artigianale di beni”, del lotto –a prevalente carattere residenziale– su cui insiste l’immobile di Via ... n. 3, nonché per l’adozione di tutte le correzioni indirizzate a rendere coerenti le modalità di rappresentazione cartografica nei diversi elaborati afferenti agli atti costituenti il P.G.T. e relativi allegati;
   - nonché per l’accertamento dell’errata classificazione in “Area D1 – Insediamenti esistenti per la produzione industriale e artigianale di beni”, del lotto –a prevalente carattere residenziale- su cui insiste l’unità immobiliare di Via ... n. 3, in proprietà al Sig. Ba. e per la contestuale ingiunzione di rettifica degli atti del P.G.T.;
   - nonché per l’accertamento, in via subordinata, dell’obbligo del Comune di Lainate di provvedere in relazione alla medesima istanza di rettifica di errore materiale del P.G.T., mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
...
1. Il ricorso è fondato.
2. In data 12.07.2017, il ricorrente ha formulato agli Uffici comunali una “istanza di rettifica di errore materiale del PGT – Comune di Lainate ai sensi dell’art. 13, comma 14-bis, l.r. 11.03.2005 n. 12”, chiedendo di procedere alla corretta assegnazione della destinazione d’uso dell’area, nonché di procedere alle correzioni all’uopo occorrenti nei diversi elaborati afferenti agli atti costituenti il P.G.T. e relativi allegati (all. 1 al ricorso).
Tale istanza non è stata affatto riscontrata, come emerge anche dalle difese comunali.
2.1.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
I commi 9-bis e seguenti individuano i rimedi per superare l’inerzia dell’Amministrazione e attivare i poteri sostitutivi al fine di ottenere comunque un provvedimento espresso.
Le disposizioni normative richiamate in precedenza vanno interpretate nel senso che il legislatore ha voluto imporre all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di ricevibilità. Pertanto, anche a fronte di istanze del tutto abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di provvedere con un atto espresso. A bilanciare una tale soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la possibilità di motivare in maniera semplificata laddove l’istanza risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata (TAR Valle d’Aosta, 11.11.2016, n. 53; TAR Lombardia, Milano, III, 04.06.2014, n. 1412).
A supporto della predetta conclusione, ovvero in ordine ad un generalizzato obbligo di provvedere, si possono richiamare anche i principi affermati in relazione alla risarcibilità del danno da mero ritardo, secondo quanto previsto dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, che assegna rilievo al tempo perduto e all’incertezza prodottasi a causa dell’inosservanza, dolosa o colposa, del termine di conclusione del procedimento, “sul presupposto che la certezza ed il rispetto dei tempi dell’azione amministrazione costituiscano un autonomo bene della vita, sul quale il privato, tanto più se operatore economico, debba poter fare ragionevole affidamento al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica (cfr. Consiglio di Stato, III, 03.08.2011, n. 4639).
2.2. In ogni caso,
si configura un silenzio-inadempimento tutte le volte in cui l’Amministrazione contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere sia in base ad espresse previsioni di legge, sia nelle ipotesi che discendono dai principi generali o dalla peculiarità del caso concreto (cfr. Consiglio di Stato, III, 02.05.2016, n. 1660).
Nella specie, difatti, l’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che “i comuni, con deliberazione del consiglio comunale analiticamente motivata, possono procedere alla correzione di errori materiali, a rettifiche e a interpretazioni autentiche degli atti di PGT non costituenti variante agli stessi”.
Ciò attesta che anche a livello normativo, attraverso la predisposizione di un iter finalizzato alla eventuale rettifica di errori materiali contenuti negli strumenti urbanistici, è stata riconosciuta la rilevanza degli interessi coinvolti nella corretta predisposizione di tali strumenti, da cui a sua volta non può non scaturisce una posizione qualificata in capo agli amministrati direttamente interessati dalle regole di pianificazione del territorio, asseritamente incoerenti con il sistema complessivo.
2.3. Non assume perciò rilievo decisivo ai fini dell’ammissibilità del ricorso la circostanza, evidenziata dalla difesa comunale, che il Comune abbia risposto alle due precedenti richieste del ricorrente –datate, rispettivamente, 07.03.2017 (all. 3 del Comune) e 05.04.2017 (all. 5 al ricorso)– trattandosi di istanze finalizzate al cambio di destinazione d’uso dell’immobile di proprietà del ricorrente e non riguardanti, in via diretta, la questione relativa alla ipotizzata sussistenza di errori materiali nel P.G.T.; difatti nei riscontri comunali, datati 20.03.2017 e 11.04.2017, nulla viene evidenziato con riguardo alla sussistenza o meno dei predetti errori materiali (all. 4 e 6 al ricorso).
3. Pertanto, nel caso di specie, non essendo intervenuto alcun provvedimento espresso di riscontro, il ricorso deve essere accolto e conseguentemente deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio del Comune di Lainate in ordine all’istanza del ricorrente formulata in data 12.07.2017, facendo obbligo alla predetta Amministrazione di pronunciarsi in modo espresso sulla citata istanza entro quaranta (40) giorni dalla comunicazione in via amministrativa, o notificazione se anteriore, della presente sentenza.
4. In ragione dell’ampia discrezionalità posta in capo all’Amministrazione procedente e della complessità del procedimento di approvazione e/o rettifica del P.G.T. non è consentito a questo giudice di poter valutare, come richiesto dalla difesa della parte ricorrente, la fondatezza della pretesa e provvedere alla rettifica degli atti del P.G.T., tra l’altro non disponendo nemmeno di tutta la documentazione necessaria (in tal senso, Consiglio di Stato, VI, 23.02.2016, n. 736; TAR Valle d’Aosta, 11.11.2016, n. 53) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.02.2018 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Formula matematica per la valutazione delle offerte economiche.
Il TAR Milano richiama e fa proprio l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo il quale nell'ambito delle gare da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa è necessario che, nell'assegnazione dei punteggi venga utilizzato tutto il potenziale differenziale previsto per il prezzo —attribuendo il punteggio minimo pari a zero all'offerta che non presenta sconti rispetto al prezzo a base di gara, ed il punteggio massimo all'offerta che presenta lo sconto maggiore— al fine di evitare uno svuotamento di efficacia sostanziale della componente economica dell'offerta.
Conseguentemente, è da ritenersi illegittima la previsione di una formula matematica per la valutazione delle offerte economiche incentrata sul rapporto tra la base d'asta e i valori assoluti delle offerte presentate, anziché sul rapporto tra i ribassi percentuali con attribuzione del punteggio massimo al maggior ribasso, con conseguente notevole restrizione dei differenziali di punteggio per tale componente, malgrado differenze di prezzi altrettanto significative
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.02.2018 n. 323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Con il primo motivo l’istante ha dedotto l’irragionevolezza del criterio previsto nella lex specialis per la valutazione e l’attribuzione dei punteggi relativi alla componente economica dell’offerta.
L’importo presunto dell’appalto era fissato in euro 180.000, e la lex specialis di gara stabiliva, altresì, un quantitativo di tonnellate complessive presunte di rifiuti da smaltire/recuperare pari 1.800, per un prezzo di riferimento su cui applicare il rialzo pari ad euro 100,00/tonnellata.
A seguito della valutazione dell’offerta tecnica, la commissione ha attribuito il punteggio di 63,10/70 all’impresa Be. e di 51,80/70 ad Ab., mentre ha attribuito il punteggio di 30/30 all’offerta economica di Ab. e di 26,65/30 a quella di Be..
Peraltro, la ricorrente ha offerto il più elevato rialzo percentuale, pari a circa il 30%, sul prezzo posto a base di gara, rispetto all’importo di euro 180.000 e al prezzo di riferimento di 100 euro a tonnellata -ha offerto, invero, un corrispettivo pari ad euro 234.018 e una quotazione di euro 130,01 a tonnellata-, mentre Be. ha offerto un rialzo percentuale pari a circa il 15,50%, offrendo un corrispettivo pari ad euro 207.900 e una quotazione di euro 115,50 a tonnellata.
Ciò ha comportato l’aggiudicazione a Be. che ha conseguito il punteggio complessivo di 89,75 (63,10+ 26,65), mentre Ab. ha conseguito il punteggio di 81,80 (51,80 + 30).
Tale risultato, secondo l’assunto della ricorrente, sarebbe da attribuire all’“effetto di appiattimento” dei punteggi relativi alle offerte economiche a cui avrebbe dato luogo la stazione appaltante, poiché la stessa ha attribuito i punteggi relativi alla componente quantitativa inserendo nell’algoritmo di riferimento non i ribassi percentuali offerti, ma il valore assoluto delle offerte.
Ciò ha comportato che le due offerte economiche si siano differenziate di soli 3,35 punti, sebbene le stesse siano caratterizzate da un’oggettiva diversità, e sebbene il rialzo formulato da Ab. (pari al 30,01%) sia considerevolmente superiore (quasi il doppio) rispetto a quello formulato da Be., pari al 15,50%.
La censura coglie nel segno.
Ed invero, come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa: “
Nell'ambito delle gare da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa è necessario che, nell'assegnazione dei punteggi venga utilizzato tutto il potenziale differenziale previsto per il prezzo —attribuendo il punteggio minimo pari a zero all'offerta che non presenta sconti rispetto al prezzo a base di gara, ed il punteggio massimo all'offerta che presenta lo sconto maggiore— al fine di evitare uno svuotamento di efficacia sostanziale della componente economica dell'offerta” (Cons. Stato, sez. V, 14.08.2017, n. 4004).
E’ stata, invero, ritenuta illegittima la previsione di una formula matematica per la valutazione delle offerte economiche incentrata sul rapporto tra la base d'asta e i valori assoluti delle offerte presentate, anziché sul rapporto tra i ribassi percentuali con attribuzione del punteggio massimo al maggior ribasso, con conseguente notevole restrizione dei differenziali di punteggio per tale componente, malgrado differenze di prezzi altrettanto significative (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.08.2017, n. 4081).
Come si ricava dal succitato orientamento giurisprudenziale, nella fattispecie all’esame del collegio il criterio per la valutazione e l’attribuzione dei punteggi relativi alla componente economica dell’offerta previsto nella lex specialis è, dunque, illegittimo per palese irragionevolezza dello stesso.
Ed invero, svuotando di contenuto la componente economica in relazione alla quale erano previsti 30 punti, la stazione appaltante ha sostanzialmente snaturato il criterio di aggiudicazione scelto dell’offerta economicamente più vantaggiosa, atteso che, se fosse stato legittimamente inserito il ribasso percentuale rispetto alla base d’asta nell’algoritmo di calcolo descritto nella lettera d’invito, si sarebbe operata una significativa differenziazione tra i punteggi, tale da valorizzare specificatamente l’aspetto economico dell’offerta, che avrebbe potuto comportare l’aggiudicazione in favore della ricorrente.
L’accoglimento della censura succitata, che individua appropriatamente una carente redazione della lex specialis di gara, comporta l’annullamento della lex specialis medesima, conseguendone l’obbligo per la stazione appaltante di rinnovazione integrale della procedura, nonché l’assorbimento delle ulteriori censure dedotte in via subordinata.
Allo stesso risultato avrebbe, in ogni caso, comportato, altresì, l’eventuale fondatezza delle censure dedotte in via subordinata in relazione all’assunta irragionevolezza ed illegittimità dei criteri di valutazione concernenti l’offerta tecnica fissati nella lex specialis, mentre il motivo concernente l’asserita irragionevolezza ed erroneità delle valutazioni dell’offerta tecnica in concreto svolte dalla stazione appaltante rispetto ai due criteri b.1.1 “programma di gestione tecnico-operativa del servizio” e b.1.2 “eventuali proposte migliorative e/o integrative del servizio relative allo sviluppo dello stesso ed al capitolato”, rispetto ai quali l’offerta di Bo., che ha ottenuto il massimo del punteggio per entrambi (10 punti rispetto i 5 attribuiti ad Ab.), risulterebbe asseritamente carente, sarebbe stato, in ogni caso, inammissibile.
In proposito, il collegio ritiene, invero, di aderire al granitico orientamento giurisprudenziale per il quale: “
Le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti; ovvero ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire le proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte” (Cons. Stato, sez. V, 11.07.2017, n. 3400), non ravvisandosi nella fattispecie in questione i presupposti della manifesta illogicità od incongruità di tali valutazioni.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso principale va accolto per la parte demolitoria e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti con il medesimo impugnati, a partire dall’aggiudicazione e risalendo fino agli atti di gara che avevano stabilito i criteri per la valutazione delle offerte; resta così impregiudicata ogni decisione della Stazione appaltante sulla rinnovazione della procedura, che dovrà comunque conformarsi alla presente decisione.

APPALTI: Nuovamente alla Corte di giustizia la questione dell’esclusione dalla gara a seguito della presentazione dell’istanza di concordato preventivo in bianco.
---------------
Contratti pubblici – Gara – Concordato preventivo con continuità aziendale – Esclusione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Vanno rimesse alla Corte di giustizia le seguenti questioni:
   a) se sia compatibile con l’art. 45, comma 2, lett. a) e b) della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004, considerare “procedimento in corso” la mera istanza, presentata all’Organo giudiziario competente, di concordato preventivo da parte del debitore;
   b) se sia compatibile con la predetta normativa, considerare la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di volere presentare istanza di concordato preventivo “in bianco” quale causa di esclusione dalla procedura d’appalto pubblico, interpretando così estensivamente il concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 Direttiva) e nazionale (art. 38 d.lgs. n. 163-2006) previgente (1).

---------------
   I.- Con l’ordinanza in epigrafe la quinta sezione del Consiglio di Stato affida nuovamente alla Corte di giustizia una articolata questione concernente l’interpretazione estensiva del concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 direttiva) e nazionale (art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 163) previgenti, nell’ambito dei limiti alla partecipazione alle gare pubbliche per imprese coinvolte in procedure fallimentari, con specifico riferimento ad un’impresa concorrente in ATI con la qualifica di mandante che, successivamente alla presentazione della domanda di partecipazione ad una gara per l’affidamento del servizio di direzione lavori, ha presentato istanza di ammissione al concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis L.F. nella forma del concordato c.d. «in bianco» ex art. 161, comma 6 L.F., con riserva cioè di depositare il piano e la relazione asseverata del professionista che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.
Tale circostanza induceva la stazione appaltante a revocare all’ATI l’aggiudicazione provvisoria e ad escluderla. Il TAR confermava la legittimità dell’esclusione e la V sezione, adita in sede di appello ha rimesso alla Corte di giustizia il quesito di cui alla massima.
In particolare, la questione riguarda possibilità di considerare la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di voler presentare istanza di concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 186-bis L.F. in bianco, quale causa di esclusione dalla procedura di gara, in tal modo interpretando estensivamente il concetto di <<procedimento fallimentare in corso>>.
   II.- Occorre segnalare che identici quesiti erano stati sottoposti alla Corte UE da una precedente ordinanza del Consiglio di Stato (sez. V, 04.06.2015 n. 2737, in Nuovo not. giur. 2015, 2, 544 con nota di BARBIERI, ed oggetto della News US in data 08.06.2015); tuttavia, a causa della sopravvenuta estinzione del processo innanzi al Consiglio di Stato, la Corte di giustizia non si è pronunciata.
La questione in esame, pur formalmente concernente (al pari della precedente rimessione) l’art. 38 del previgente codice dei contratti, nella sostanza resta immutata anche sotto l’egida del nuovo codice (artt. 80, comma 5, lett. b) e 110 d.lgs. n. 50 del 2016), pur essendo controverso in dottrina il rapporto tra la disciplina previgente e quella sopravvenuta (su cui si veda infra lett. g).
   III. Oggetto della controversia pendente dinanzi alla quinta sezione è il provvedimento di esclusione disposto per mancanza dei requisiti generali di cui all’articolo 38, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 163 del 2006, in quanto l’impresa, dopo aver presentato la domanda di partecipazione alla gara, a causa di una crisi d’impresa, aveva presentato istanza al tribunale per l’ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 186-bis L.F.
Secondo la norma citata, vanno escluse dalle gare le imprese “a) che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 16.03.1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.
In materia, con riferimento al problema di quando possa dirsi "in corso" una procedura concorsuale, la giurisprudenza ha ritenuto che non sia sufficiente una mera istanza creditoria (la quale potrebbe essere proposta strumentalmente o comunque infondatamente), occorrendo quanto meno un pronunciamento istruttorio del giudice che accerti oggettivamente lo stato di insolvenza dell'impresa.
Peraltro, in termini diversi risulta poi essere intervenuta l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza 15.04.2010, n. 2155 (rinumerata ufficialmente in n. 1 del 15.04.2010, pubblicata in Foro it., 2010, III, 374 con nota di TRAVI), ha statuito come nell'ipotesi di concordato preventivo le evidenziate preoccupazioni possano dirsi superate se è lo stesso imprenditore a chiedere l'ammissione alla procedura concorsuale, con una condotta che ben può ritenersi confessoria della consapevolezza del proprio stato di dissesto.
La quinta sezione solleva la presente questione dubitando che la disciplina nazionale, così intesa, sia compatibile con la pertinente normativa comunitaria. In proposito si richiama il disposto dell’art. 45, comma 2, lett. a) e b), della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, applicabile ratione temporis, secondo cui “può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico: a) che si trovi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali; b) a carico del quale sia in corso un procedimento per la dichiarazione di fallimento, di amministrazione controllata, di liquidazione, di concordato preventivo oppure ogni altro procedimento della stessa natura previsto da leggi e regolamenti nazionali”.
Viene quindi chiesto alla Corte di giustizia se sia compatibile con la predetta normativa, considerare “procedimento in corso” la mera istanza di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 186-bis L.F. da parte del debitore, così come statuito dalla predetta sentenza dell’Adunanza plenaria del 15.04.2010.
   IV. Al fine di ulteriore completezza, si segnala quanto segue:
      a) il principio affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la menzionata sentenza n. 1 del 2010, è stato tuttavia reso con riferimento al c.d. concordato liquidatorio, prima delle novità introdotte dall’art. 33 del d.l. 22.06.2012, n. 83 convertito con modificazione dalla legge 07.08.2012, n. 134 che ha novellato la legge fallimentare introducendo l’art. 186-bis –recante la disciplina del concordato con continuità aziendale (finalizzato cioè alla prosecuzione dell’attività di impresa ed al risanamento aziendale)– ed ha modificato l’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006 facendo espresso rinvio alla previsione dell’art. 186-bis della legge fallimentare, quale eccezione alla regola dell’esclusione dalle procedure di gara e dalla conseguente possibilità di stipula del contratto; in seguito a tale novella si è posto in giurisprudenza il problema se la deroga alla regola della esclusione per le imprese coinvolte in procedure fallimentari prevista dall’art. 186-bis operasse solo in caso di formale ammissione al concordato con continuità aziendale o se a tale fine fosse sufficiente il deposito della mera istanza di ammissione; nel primo senso si è espresso Cons. Stato, sez. III, 14.01.2014, n. 101, nel secondo senso, Cons. Stato, sez. V, 27.12.2013, n. 6272 entrambe in Urb. e app., 2014, p. 417 e ss. con nota di CIPPITANI; l’orientamento della V sezione (confermato dalla successiva pronuncia 22.12.2014, n. 6303) è poi stato seguito anche dalla IV sezione con sentenze 03.07.2014, n. 3344 e 05.03.2015, n. 1091 (in senso contrario nella giurisprudenza di primo grado Tar del Lazio–Roma, sez. I, 19.06.2014, n. 6537; idem, sez III-ter, 04.06.2014, n. 5901; idem, sez. II-ter 11.05.2015, n. 6781; Tar del Piemonte, sez. I, 18.03.2014, n. 463; Tar della Toscana, sez. I, 16.06.2014, n. 1052); a dirimere il contrasto è intervenuto il legislatore con l’art. 13, comma 11-bis del d.l. 23.12.2013, n. 145 convertito con modificazioni dalla legge 21.02.2014, n. 9 che ha inserito all’art. 186-bis L.F. un comma 4 a mente del quale “Successivamente al deposito del ricorso, la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato; in mancanza di tale nomina, provvede il tribunale”, così riconoscendo espressamente che il solo deposito dell’istanza di ammissione è sufficiente purché accompagnato dalla autorizzazione del Tribunale;
      b) analoghe divergenze si sono registrate con riguardo agli effetti della domanda di concordato preventivo ex art. 161, comma 6, L.F. (c.d. concordato "in bianco" o “con riserva”) sulla disciplina degli appalti pubblici con particolare riferimento alla partecipazione alle gare pubbliche; la stessa ANAC in una prima fase ha negato (con determinazione n. 3 del 23.04.2014) che il concordato in bianco potesse legittimare la partecipazione in quanto per definizione privo del «piano di continuità aziendale» richiesto invece per l’ammissione al concordato ex art. 186-bis L.F. (nello stesso senso Tar per la Campania–Napoli, sez. I, 29.04.2015, n. 2428); successivamente (con la determinazione n. 5 dell’08.04.2015), è giunta a conclusioni opposte muovendo da una interpretazione sistematica dell’art. 186-bis, comma 4, della L.F., a condizione che l’istanza presenti chiari ed inconfutabili effetti prenotativi del concordato con continuità aziendale in relazione alla futura presentazione del piano e verificando che sussistano le condizioni per consentire intanto la partecipazione medesima;
      c) quanto alla necessità, anche dopo il provvedimento di omologa del concordato con continuità aziendale, di rispettare gli adempimenti di cui all’art. 186-bis, comma 5, L.F. ai fini della partecipazione alla gara, si veda, in senso affermativo, Tar per il Veneto, sez. I, 07.04.2017, n. 338;
      d) sui rapporti fra fallimento di una impresa, scioglimento del raggruppamento, e sostituzione, Corte giust. UE 24.05.2016 causa C‑396/14 (oggetto della News US in data 31.05.2016), secondo cui “il principio di parità di trattamento degli operatori economici, di cui all’art. 10 direttiva 2004/17/Ce del parlamento europeo e del consiglio, 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, in combinato disposto con l’art. 51 della medesima, deve essere interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola tale principio se autorizza uno dei due operatori economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza”;
      e) sulla questione oggetto di rimessione cfr. altresì Cons. giust. amm., 23.04.2015 n. 363, secondo cui “l'art. 38, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163/2006 commina l'esclusione dalle gare pubbliche non soltanto a coloro «che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo» ma anche a coloro «nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni»: la mera proposizione di un'istanza di fallimento costituisce atto di impulso del relativo procedimento, che non può considerarsi «in corso» finché non sia stato notificato al preteso debitore insolvente il decreto di convocazione per l'udienza camerale di cui all'art. 15 del R.D. n. 267/1942, solo da tale momento si instaura il contraddittorio e il procedimento può considerarsi pendente”; Cons. Stato sez. IV 11.12.2014 n. 6085, secondo cui “ai sensi degli artt. 38, comma 1, lett. a), d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e 186-bis, r.d. 16.03.1942 n. 267 il concordato preventivo con continuità aziendale è irrilevante quanto alla partecipazione dell'impresa interessata ad una gara pubblica di appalto”;
      f) in tema di concordato preventivo di imprese partecipanti e imprese ausiliarie, Tar per il Lazio, sez. III, 27.10.2017, n. 10763, in lamministrativista.it 30.10.2017 con nota redazionale, secondo cui “ai sensi del terzo comma dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, attuativo della previsione di cui all’art. 63, Direttiva n. 24 del 2014, la Stazione Appaltante deve verificare, conformemente agli artt. 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l’operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’art. 80 ed impone all’operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Il carattere oramai obbligatorio della verifica della Stazione Appaltante e della conseguente sostituzione dimostra chiaramente come il legislatore comunitario, seguito da quello nazionale, abbia deciso di superare definitivamente l’impostazione che individuava nella sostituzione “in corsa” dell’ausiliario inidoneo una pratica lesiva della concorrenza. E’ legittima l’ammissione in gara di un’impresa concorrente che si sia avvalsa di altra impresa (ausiliaria), ai fini della dimostrazione del fatturato specifico richiesto dal bando di gara, nonostante il mancato rispetto -da parte della stessa ausiliaria- degli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse, dovuto all’ammissione di quest’ultima alla procedura di concordato preventivo (per effetto della quale le era precluso l’adempimento dell’obbligo giuridico di eseguire i pagamenti in favore dei creditori al di fuori del concorso); circostanza questa di cui, tuttavia, è stato dato atto in una conforme dichiarazione rilasciata in sede di gara”;
      g) in dottrina, per un approfondimento delle problematiche in esame a cavallo fra la vecchia e la nuova disciplina, cfr. R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 848 ss. nonché R. GIANI, La partecipazione alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici, in Procedure concorsuali e Diritto Pubblico, a cura di L. D'ORAZIO e L. MONTEFERRANTE, AA.VV. IPSOA, 2017, 453 ss. (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 02.02.2018 n. 686 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per procedimento concorsuale in corso.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Procedura concorsuale in corso - Istanza, presentata all’Organo giudiziario competente, di concordato preventivo – E’ tale – Art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 - Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Devono essere rimesse alla Corte di giustizia UE le questioni pregiudiziali: a) se sia compatibile con l’art. 45, comma 2, lett. a) e b), della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004, considerare “procedimento concorsuale in corso” la mera istanza, presentata all’Organo giudiziario competente, di concordato preventivo da parte del debitore; b) se sia compatibile con la predetta normativa, considerare la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di volere presentare istanza di concordato preventivo “in bianco” (le cui caratteristiche sono state sopra precisate) quale causa di esclusione dalla procedura d’appalto pubblico, interpretando così estensivamente il concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 Direttiva) e nazionale (art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006) citate (1).
---------------
   (1) Ha ricordato che Sezione che con riferimento al problema di quando possa dirsi "in corso" una procedura concorsuale, si è ritenuto che non sia sufficiente una mera istanza creditoria (la quale potrebbe essere proposta strumentalmente o comunque infondatamente), occorrendo quanto meno un pronunciamento istruttorio del giudice che accerti oggettivamente lo stato di insolvenza dell'impresa (Cons. St., sez. IV, 08.06.1999, n. 516).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, tuttavia, affermato, nella sentenza 15.04.2010, n. 1, che nell'ipotesi di concordato preventivo le evidenziate preoccupazioni possano dirsi superate se è lo stesso imprenditore a chiedere l'ammissione alla procedura concorsuale, con una condotta che ben può ritenersi confessoria della consapevolezza del proprio stato di dissesto;
La Sezione ha però dubitato che la disciplina nazionale indicata, così come interpretata, sia compatibile con la pertinente normativa comunitaria. Ha, in particolare, rilevato, in particolare, che secondo l’art. 45, comma 2, lett. a) e b), della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, applicabile ratione temporis, “Può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico:
   a) che si trovi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali;
   b) a carico del quale sia in corso un procedimento per la dichiarazione di fallimento, di amministrazione controllata, di liquidazione, di concordato preventivo oppure ogni altro procedimento della stessa natura previsto da leggi e regolamenti nazionali;
La Sezione ha quindi ritenuto di dover chiedere alla Corte di Giustizia se sia compatibile con la predetta normativa, considerare:
   a) “procedimento in corso” la mera istanza di concordato preventivo da parte del debitore, come accade nel caso di specie, così come statuito dalla predetta sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 15.04.2010, n. 2155;
   b) la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di volere presentare istanza di concordato preventivo “in bianco” (le cui caratteristiche sono state sopra precisate), così come ha fatto la società nella gara di cu la sezione si occupa quale causa di esclusione dalla procedura d’appalto pubblico, interpretando così estensivamente il concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 Direttiva) e nazionale (art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006) citate, interpretazione giustificata dalla medesima ratio di non consentire la partecipazione alla gara d’appalto da parte delle imprese che hanno confessato inequivocabilmente il loro conclamato stato di insolvenza) (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 02.02.2018 n. 686 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Rilevato che l'originaria ricorrente T. S.r.l. risulta essere stata ammessa alla procedura di concordato preventivo, con conseguente venir meno del requisito generale di cui all'art. 38, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 163-2006, che sancisce l'esclusione dalle gare d'appalto degli imprenditori in stato di fallimento o sottoposti ad altra procedura concorsuale presupponente uno stato d'insolvenza (quale il concordato preventivo), per l'ovvia esigenza di garantire l'affidabilità economica dell'esecutore contrattuale dell'Amministrazione;
Rilevato, infatti, che l’art. 38, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 163-2006 stabilisce l’esclusione dalle procedure di gara dei concorrenti che “si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 16.03.1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”;
Rilevato, pertanto, che sussistono le condizioni per applicare il predetto art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163-2006 che fa riferimento anche alle procedure in corso e che riguarda anche (a mente della ratio della norma) le ipotesi di “attività prodromica alla stipulazione e successiva omologazione di un ricorso per concordato preventivo”, atteso l’evidente intento normativo di tale disposizione di escludere le imprese che non siano più in condizione, visto il loro stato di crisi conclamato (ammesso nella specie in atto pubblico), di presentarsi come contraenti affidabili con la Pubblica Amministrazione;
Rilevato che, secondo la giurisprudenza amministrativa nazionale (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 03.07.2014, n. 3344), l'art. 38 d.lgs. n. 163-2006 (come modificato dal D.L. n. 83-2012) vieta la partecipazione alle gare pubbliche a tutti i soggetti che si trovino in stato di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa, di concordato preventivo con l'unica espressa eccezione del c.d. "concordato in continuità aziendale" di cui all'art. 186-bis R.D. Legge Fallimentare n. 267-1942 (introdotto con l'art. 33 D.L. 22.06.2012, n. 83 e conv. in L. 07.08.2012, n. 134) che ricorre quando nel piano di concordato ex art. 161, comma 2, lett. e), Legge Fallimentare sia espressamente prevista la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, ovvero la cessione dell'azienda in esercizio o ancora il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società anche di nuova costituzione;
Rilevato che la norma consente la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici non solo alle imprese che sono già state ammesse al concordato "con continuità aziendale" e hanno già ottenuto il decreto di ammissione, ma anche a quelle che abbiano presentato domanda di ammissione al concordato preventivo previa autorizzazione del Tribunale;
Rilevato, inoltre, che nelle more, tra il deposito della domanda e l'ammissione del concordato l'impresa che abbia fatto domanda di concordato preventivo "con continuità aziendale" conserva dunque la facoltà di partecipare alle gare di affidamento dei pubblici contratti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.12.2013, n. 6272);
Rilevato, infatti, che il concordato "con continuità aziendale" o "di risanamento", sul piano teleologico e sistematico, essendo diretto al ritorno in bonis dell'impresa, è dunque una fattispecie ontologicamente differente dal concordato c.d. "liquidatorio" le cui finalità sono limitate esclusivamente alla maggior soddisfazione possibile dei creditori;
Rilevato, quindi che la norma consente la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici non solo alle imprese che sono già state ammesse al concordato "con continuità aziendale" e hanno già ottenuto il decreto di ammissione, ma anche a quelle che abbiano presentato domanda di ammissione al concordato preventivo previa autorizzazione del Tribunale, ma soltanto con riferimento alla citata ipotesi di "concordato in continuità aziendale";
Rilevato che, nel caso di specie, non ricorre un’ipotesi di "concordato in continuità aziendale", bensì di cd. “concordato in bianco”, vale a dire di un concordato preventivo con riserva ai sensi dell'articolo 161, comma 6, R.D. n. 267-1942;
Ritenuto che l'apertura di tale procedura concorsuale, come ha chiarito la giurisprudenza nazionale (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15.04.2010 n. 2155), sarebbe di per sé una condotta "che ben può ritenersi confessoria della consapevolezza del proprio stato di dissesto";
Rilevato, infatti, che detta procedura concorsuale consente all'imprenditore in stato di dissesto "di congelare" temporaneamente (da 30 a 120 giorni) le istanze fallimentari avanzate dai creditori e al fine di rinviare all'esito di una rinegoziazione con la massa dei creditori, la scelta tra la presentazione di un piano di concordato ex articolo 161 L.F. ovvero di un accordo di ristrutturazione aziendale ex articolo 182-bis L.F.;
Ritenuto, pertanto, che tale domanda avrebbe ex se determinato un'incapacità a contrattare con la Pubblica Amministrazione per la pendenza del procedimento finalizzato alla declaratoria di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo;
Ritenuto, in specifico, che con riferimento al problema di quando possa dirsi "in corso" una procedura concorsuale, si è ritenuto che non sia sufficiente una mera istanza creditoria (la quale potrebbe essere proposta strumentalmente o comunque infondatamente), occorrendo quanto meno un pronunciamento istruttorio del giudice che accerti oggettivamente lo stato di insolvenza dell'impresa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.06.1999, n. 516); l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, tuttavia, affermato, nella predetta sentenza 15.04.2010, n. 2155, che nell'ipotesi di concordato preventivo le evidenziate preoccupazioni possano dirsi superate se è lo stesso imprenditore a chiedere l'ammissione alla procedura concorsuale, con una condotta che ben può ritenersi confessoria della consapevolezza del proprio stato di dissesto;
Rilevato che la predetta questione, così come impostata sulla base delle indicate coordinate giurisprudenziali, è rilevante nel giudizio in esame, poiché la T. S.r.l. giammai poteva divenire aggiudicataria della gara, con conseguente carenza d'interesse ad impugnare il provvedimento di aggiudicazione alla controinteressata, dovendo essere esclusa dalla gara de qua;
Rilevato che il Collegio dubita, tuttavia, che la disciplina nazionale indicata, così come interpretata, sia compatibile con la pertinente normativa comunitaria;
Rilevato, in particolare, che secondo l’art. 45, comma 2, lett. a) e b), della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, applicabile ratione temporis, “Può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico: a) che si trovi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali; b) a carico del quale sia in corso un procedimento per la dichiarazione di fallimento, di amministrazione controllata, di liquidazione, di concordato preventivo oppure ogni altro procedimento della stessa natura previsto da leggi e regolamenti nazionali";
Ritenuto, in particolare, di dover chiedere alla Corte di Giustizia se sia compatibile con la predetta normativa, considerare “procedimento in corso” la mera istanza di concordato preventivo da parte del debitore, come accade nel caso di specie, così come statuito dalla predetta sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 15.04.2010, n. 2155;
Ritenuto, inoltre, di dover chiedere alla Corte di Giustizia se sia compatibile con la predetta normativa, considerare la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di volere presentare istanza di concordato preventivo “in bianco” (le cui caratteristiche sono state sopra precisate), così come ha fatto la T. S.r.l. nel caso di specie quale causa di esclusione dalla procedura d’appalto pubblico, interpretando così estensivamente il concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 Direttiva) e nazionale (art. 38 d.lgs. n. 163-2006) citate, interpretazione giustificata dalla medesima ratio di non consentire la partecipazione alla gara d’appalto da parte delle imprese che hanno confessato inequivocamente il loro conclamato stato di insolvenza;
Rilevato che la soluzione di tale secondo quesito è essenziale nel giudizio in esame, poiché risulta importante stabilire la data dalla quale la Società T. avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura d’appalto in esame;
Ritenuto, pertanto, rilevanti le seguenti questioni pregiudiziali dinnanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato CE e in relazione all'art. 23 dello Statuto della Corte di Giustizia, dell'art. 3 della l. 13.03.1958, n. 204, della Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte delle giurisdizioni nazionali, diramata dalla Corte di Giustizia e pubblicata sulla G.U.C.E. del 28.05.2011:
   - “
se sia compatibile con l’art. 45, comma 2, lett. a) e b) della Direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004, considerare “procedimento in corso” la mera istanza, presentata all’Organo giudiziario competente, di concordato preventivo da parte del debitore”;
   - “
se sia compatibile con la predetta normativa, considerare la confessione del debitore di trovarsi in stato di insolvenza e di volere presentare istanza di concordato preventivo “in bianco” (le cui caratteristiche sono state sopra precisate) quale causa di esclusione dalla procedura d’appalto pubblico, interpretando così estensivamente il concetto di “procedimento in corso” sancito dalla normativa comunitaria (art. 45 Direttiva) e nazionale (art. 38 d.lgs. n. 163-2006) citate”;
Ritenuto, ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28.05.2011, che vanno trasmessi alla cancelleria della Corte mediante plico raccomandato in copia gli atti del giudizio, comprensivi: della presente ordinanza, nonché tutte le memorie di parte e gli atti prodotti da parte appellante e dalla Arcadis – Agenzia Regionale Campana Difesa del Suolo;
Ritenuto, quindi, di dover disporre la sospensione del presente giudizio in attesa della decisione della Corte di Giustizia, cui l’affare deve essere rimesso, restando impregiudicata ogni altra questione, anche sulle spese;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni pregiudiziali indicate in motivazione e, riservata ogni altra decisione, anche sulle spese, sospende il giudizio.
Dispone che il presente provvedimento, unitamente a copia degli atti di giudizio indicati in motivazione, sia trasmesso, a cura della Segreteria della Sezione, alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza, la realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente.
---------------
Non si può condividere l'impostazione atomistica che considera le opere (abusive) accertate come indipendenti l’una dall’altra, occorrendo, invece, recuperare una visione di insieme delle stesse che metta in risalto il collegamento funzionale degli interventi in contestazione, giacché altrimenti parcellizzandoli e considerandoli isolatamente si perde di vista l’entità e l’impatto sul paesaggio e sull’ambiente circostante dell’attività edificatoria posta in essere.
Come ritenuto dal Consiglio di Stato, “In materia di abusivismo edilizio l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di restitutio in integrum dello stato dei luoghi e ha ad oggetto il manufatto abusivo, le opere accessorie e quelle complementari, ossia l’edificio abusivo complessivamente considerato”.
---------------
Secondo una consolidata giurisprudenza, occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
---------------

Il ricorso introduttivo non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 19.12.2005, n. 20427; 29.07.2005, n. 10479; 02.12.2004, n. 18027), la realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente.
Nel caso di specie, è stata riscontrata la realizzazione di: tettoia di mq 19 circa; tettoia di mq 31 circa; tettoia di mq 86 circa; tettoia di mq 58 circa. Si tratta di tettoie di rilevanti dimensioni, come tali certamente idonee ad incidere sull’assetto edilizio.
Deve ritenersi legittimo l’ordine di demolizione anche delle altre opere riscontrate (pavimentazione di aree esterne, messa in opera di infissi in alluminio; demolizione di un muro divisorio interno): non si può infatti condividere l'impostazione atomistica che considera le opere accertate come indipendenti l’una dall’altra, occorrendo, invece, recuperare una visione di insieme delle stesse che metta in risalto il collegamento funzionale degli interventi in contestazione, giacché altrimenti parcellizzandoli e considerandoli isolatamente si perde di vista l’entità e l’impatto sul paesaggio e sull’ambiente circostante dell’attività edificatoria posta in essere.
Come ritenuto dal Consiglio di Stato, “In materia di abusivismo edilizio l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di restitutio in integrum dello stato dei luoghi e ha ad oggetto il manufatto abusivo, le opere accessorie e quelle complementari, ossia l’edificio abusivo complessivamente considerato” (Cons. Stato Sez. VI, 12.09.2017, n. 4322).
Non si può neanche condividere la tesi secondo cui le opere avrebbero natura pertinenziale. Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli Sez. VII, sentenza 30.01.2018 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità dopo l'adozione dell'ordinanza di demolizione non incide sull’efficacia dell'ordinanza di demolizione, producendo unicamente la sospensione temporanea dei suoi effetti, limitatamente al periodo di tempo necessario fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza medesima.
Né è possibile estendere all'accertamento di conformità, istituto che presuppone ai fini della sanatoria la doppia conformità dell'opera formalmente abusiva, le disposizioni specifiche che prevedono la sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in pendenza dei procedimenti di condono. L'unico effetto è di produrre una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ai sensi del menzionato art. 13 L. 47/1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) per la formazione del silenzio-rifiuto.
Va quindi disattesa una diversa soluzione interpretativa che consentirebbe al destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo mediante la mera presentazione di un'istanza.
Ne consegue che, sul piano processuale, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità non comporta, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse del ricorso con il quale si è impugnata l'ordinanza di demolizione, posto che gli effetti di quest'ultima sono soltanto temporaneamente sospesi. L'improcedibilità è concepibile solo nell'ipotesi di accoglimento della suddetta istanza, dovendosi attestare in tal modo la piena legittimità dell'opera, la quale ab origine è priva solo formalmente del titolo edilizio.
---------------

Sono infondati anche i motivi aggiunti. Infatti, si deve escludere che la presentazione da parte della ricorrente di un’istanza di accertamento di conformità (ex art. 13 L. 47/1985) abbia determinato l’inefficacia dell’ordinanza di demolizione.
Ed invero, secondo consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale e condivisa dal Collegio, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità dopo l'adozione dell'ordinanza di demolizione non incide sull’efficacia dell'ordinanza di demolizione, producendo unicamente la sospensione temporanea dei suoi effetti, limitatamente al periodo di tempo necessario fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza medesima (ex multis, Cons. St., sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Né è possibile estendere all'accertamento di conformità, istituto che presuppone ai fini della sanatoria la doppia conformità dell'opera formalmente abusiva, le disposizioni specifiche che prevedono la sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in pendenza dei procedimenti di condono. L'unico effetto è di produrre una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ai sensi del menzionato art. 13 L. 47/1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) per la formazione del silenzio-rifiuto.
Va quindi disattesa una diversa soluzione interpretativa che consentirebbe al destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo mediante la mera presentazione di un'istanza. Ne consegue che, sul piano processuale, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità non comporta, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse del ricorso con il quale si è impugnata l'ordinanza di demolizione, posto che gli effetti di quest'ultima sono soltanto temporaneamente sospesi. L'improcedibilità è concepibile solo nell'ipotesi di accoglimento della suddetta istanza, dovendosi attestare in tal modo la piena legittimità dell'opera, la quale ab origine è priva solo formalmente del titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, n. 4818).
Come già illustrato in precedenza, si tratta di opere per le quali era necessario il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli Sez. VII, sentenza 30.01.2018 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
E quanto all’accertamento dell’inottemperanza, si tratta –per l’appunto– di un accertamento dell’inottemperanza, senza che sia stata disposta anche l’acquisizione del bene al patrimonio del Comune; sicché la mancata indicazione dell’area di sedime non rende gli atti in epigrafe illegittimi.

---------------

Infine, non è fondata la censura secondo cui gli atti impugnati sarebbero illegittimi per mancata indicazione dell’area di sedime.
Per giurisprudenza costante, per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione (tra le tante, Tar Campania, Napoli, VI, n. 2000/2012).
E quanto all’accertamento dell’inottemperanza, si tratta –per l’appunto– di un accertamento dell’inottemperanza, senza che sia stata disposta anche l’acquisizione del bene al patrimonio del Comune; sicché la mancata indicazione dell’area di sedime non rende gli atti in epigrafe illegittimi (TAR Campania-Napoli Sez. VII, sentenza 30.01.2018 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio condivide l’insegnamento giurisprudenziale prevalente secondo cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita a chiunque si trovi <<in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza e dalla dimostrazione di uno specifico interesse e/o di un concreto pregiudizio, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati>>:  con la conseguenza che <<la possibilità di ricorrere contro il rilascio di una concessione edilizia (anche in sanatoria) da parte di “chiunque” non configura un tipo di azione popolare, ma riconosce una posizione di interesse che consente l’impugnativa a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di frequentazione), senza richiedere la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività>>.
---------------
L’interesse del vicino all’impugnazione del titolo edilizio sussiste anche nell’ipotesi di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, “che pone fine all’abusività dell’opera, rendendo legittima l’edificazione e perciò legittima la permanenza del manufatto sul territorio”, in quanto il venir meno del ridetto titolo “comporterà il riconoscimento dell’abusività dell'opera con la possibile applicazione delle misure demolitorie”.

---------------
0. - In via preliminare, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del gravame (per allegata carenza di interesse e di legittimazione attiva) sollevata dalle difese del Comune resistente e del controinteressato costituito.
In proposito (e in disparte ogni valutazione in ordine alla -pure dedotta dalla ricorrente- sussistenza di un pregiudizio specifico, concreto e attuale derivante dagli atti gravati), il Collegio condivide l’insegnamento giurisprudenziale prevalente secondo cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita a chiunque si trovi (come, con ogni evidenza, l’odierna istante) <<in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza e dalla dimostrazione di uno specifico interesse e/o di un concreto pregiudizio, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati (cfr: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 11.05.2015 n. 1495; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.04.2014 n. 1995; V Sezione, 21.05.2013 n. 2757; TAR Molise 26.05.2014 n. 346; TAR Campania, Salerno, I Sezione, 01.10.2012 n. 1750)>> (TAR Puglia, Lecce, III, 30.10.2015, n. 3117; in termini, Consiglio di Stato, IV, 08.09.2015, n. 4176 e giurisprudenza ivi richiamata - “Cons. Stato, IV, 18.11.2014, n. 5662; IV, 05.03.2015, n. 1116; IV, 12.03.2015, n. 1315”): con la conseguenza che <<la possibilità di ricorrere contro il rilascio di una concessione edilizia (anche in sanatoria) da parte di “chiunque” non configura un tipo di azione popolare, ma riconosce una posizione di interesse che consente l’impugnativa a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di frequentazione), senza richiedere la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività (cfr. Cons. St., sez. V, 26.02.1992, n. 143)>> (TAR Campania, Napoli, VI, 12.05.2016, n. 2425).
L’interesse del vicino all’impugnazione del titolo edilizio sussiste anche nell’ipotesi (come quella in esame) di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, “che pone fine all’abusività dell’opera, rendendo legittima l’edificazione e perciò legittima la permanenza del manufatto sul territorio”, in quanto il venir meno del ridetto titolo “comporterà il riconoscimento dell’abusività dell'opera con la possibile applicazione delle misure demolitorie” (TAR Piemonte, I. 01.12.2016, n. 1477)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.01.2018 n. 126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla esecuzione di ulteriori opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità: tanto “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica”.
E’ evidente, infatti, che “un permesso di costruire in sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle prescrizioni. La cosiddetta sanatoria ordinaria, peraltro, è finalizzata alla regolarizzazione degli abusi meramente formali –vale a dire degli interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultano ammissibili sotto l’aspetto urbanistico– e non può riguardare, in conseguenza, gli interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti…..di semplice completamento dei lavori già intrapresi”.

---------------
1.3 - Né vale a superare i rilievi di cui innanzi la previsione dei lavori di “completamento” e delle prescrizioni impartite con l’impugnato titolo edilizio al fine di “recuperare” la c.d. “doppia conformità” edilizio-urbanistica dell’immobile.
Ed invero, ritiene il Collegio che, alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla esecuzione di ulteriori opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità: tanto “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica” (Consiglio di Stato, IV, 08.09.2015, n. 4176).
E’ evidente, infatti, che “un permesso di costruire in sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle prescrizioni (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza del 28/05/2014 n 1017). La cosiddetta sanatoria ordinaria, peraltro, è finalizzata alla regolarizzazione degli abusi meramente formali –vale a dire degli interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultano ammissibili sotto l’aspetto urbanistico– e non può riguardare, in conseguenza, gli interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti…..di semplice completamento dei lavori già intrapresi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 1003 del 16/12/2015” (TAR Piemonte, I, 04.11.2016, n. 1372).
Pertanto, in definitiva, il gravato permesso di costruire in sanatoria giammai (e in via dirimente) avrebbe potuto autorizzare (come, invece, ha autorizzato) l’esecuzione di lavori (palesemente non configurabili come opere di “semplice” e mero completamento) che avrebbero consentito di diminuire l’altezza del “garage” da 3 metri a 2,50 metri, “esonerandolo” -quindi- dal computo del volume e recuperandone la conformità alla disciplina urbanistica vigente
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.01.2018 n. 126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl condono non salva l'immobile. Se è in zona sismica l'edificio abusivo può essere abbattuto. Una sentenza della Cassazione individua il pericolo di danno nel solo rischio di terremoto.
L'abuso edilizio compiuto in zona sismica che comprometta la stabilità di un edificio va abbattuto anche se è stato oggetto di condono. L'attualità del pericolo di danno deve valutarsi non già in riferimento allo stato asismico, bensì in relazione alla possibilità, sempre incombente nelle zone sismiche, di un movimento tellurico. Sicché dalla inosservanza delle prescrizioni tecniche deve desumersi una presunzione di instabilità della costruzione realizzata, e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio alcuno.

È il principio espresso dalla Corte di Cassazione, II Sez. civile, con la sentenza 29.01.2018 n. 2115 con la quale è stato rigettato un ricorso contro la demolizione di un corpo di fabbrica realizzato sulla superficie sovrastante un immobile del tutto abusivo, con ripristino del lastrico solare preesistente.
I giudici di piazza Cavour ricordano che l'articolo 1127, secondo comma, c.c., fa divieto al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale di realizzare sopraelevazioni precluse dalle condizioni statiche del fabbricato e consente agli altri condomini di agire per la demolizione del manufatto eseguito in violazione di tale limite.
Inoltre lo stesso dettato normativo impedisce altresì di costruire sopraelevazioni che non osservino le specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche. Fondando la necessità di adeguamento alla relativa normativa tecnica su una presunzione di pericolosità, senza che abbia rilievo, ai fini della valutazione della legittimità delle opere sotto il profilo del pregiudizio statico, il conseguimento della concessione in sanatoria relativa ai corpi di fabbrica elevati sul terrazzo dell'edificio. Atteso che tale provvedimento prescinde da un giudizio tecnico di conformità alle regole di costruzione.
Osservano ancora i cassazionisti che, in via generale, la salvaguardia delle condizioni statiche dell'edificio ha carattere assoluto. L'accertamento delle condizioni statiche non costituisce propriamente un limite all'esercizio del diritto a sopraelevare, ma un presupposto della sua esistenza. Il relativo divieto deve essere inteso non solo nel senso che le strutture del fabbricato devono consentire di sopportare il peso della sopraelevazione, ma anche nel senso che dette strutture devono permettere di sopportare –una volta eretta la nuova fabbrica– l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, quando le norme antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'articolo 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere superata esclusivamente mediante l'allegazione della prova, incombente sull'autore della nuova costruzione, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante, sia idonea a fronteggiare il rischio sismico (articolo ItaliaOggi del 03.02.2018).
---------------
MASSIMA
Osserva il collegio che, in via generale, l'art. 1127 c.c. (con particolare riferimento al disposto del comma 2°) prevede il rispetto di tre condizioni, di cui quella riguardante la salvaguardia delle condizioni statiche dell'edificio ha carattere assoluto.
L'accertamento delle condizioni statiche non costituisce propriamente un limite all'esercizio del diritto a sopraelevare, ma un presupposto della sua esistenza. Il relativo divieto deve essere inteso non solo nel senso che le strutture del fabbricato devono consentire di sopportare il peso della sopraelevazione, ma anche nel senso che dette strutture devono permettere di sopportare -una volta eretta la nuova fabbrica- l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica: pertanto, quando le norme antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere superata esclusivamente mediante l'allegazione della prova, incombente sull'autore della nuova costruzione, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante, sia idonea a fronteggiare il rischio sismico (v. Cass. n. 3196/2008 e Cass. n. 10082/2013).
Con riferimento al ricorso in questione è importante rilevare che la prescrizione dell'art. 1127, comma 2, c.c. si applica anche con riferimento alle sopraelevazioni realizzate dal proprietario del lastrico solare (in relazione a quanto previsto dal 1° comma della stessa norma), qualità ricoperta, nella fattispecie, dal dante causa dei coniugi Os.-Pi. (odierni ricorrenti e originari convenuti), il quale aveva iniziato la costruzione (in assenza di concessione edilizia ed in violazione della normativa antisismica), al di sopra dell'immobile degli attori, di un altro piano, utilizzando la superficie di mq. 50 a lui donata dai genitori, non risultando, quindi, decisiva, ai fini dell'applicabilità della norma censurata di cui all'art. 9 della legge n. 1684/1962, la circostanza che gli immobili contigui interessati debbano risultare tra loro in aderenza.
Del resto,
l'inosservanza delle norme antisismiche comporta il diritto alla riduzione in pristino non solo quando risultino violate norme integrative di quelle previste dall'art. 873 c.c. e segg. in materia di distanze, ma anche quando emerga una concreta lesione o il pericolo attuale di una lesione all'integrità materiale del bene oggetto di proprietà, ovvero si sia verificata la violazione di altra specifica disposizione delimitativa della sfera delle proprietà (in senso ampio) contigue, che conceda in via autonoma la tutela diretta.
In particolare, l'attualità del pericolo di danno deve valutarsi non già in riferimento allo stato asismico, bensì in relazione alla possibilità, sempre incombente nelle zone sismiche, di un movimento tellurico, sicché dalla inosservanza delle prescrizioni tecniche dettate per prevenire le conseguenze dannose del sisma deve desumersi una presunzione di instabilità della costruzione realizzata, e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio alcuno
(cfr. Cass. n. 2335/1981; Cass. n. 5024/1991 e, più recentemente, Cass. n. 24141/2007).
Da ciò consegue la superfluità di un accertamento di pericolo attuale e di una motivazione necessariamente specifica al riguardo, stante l'immanenza del pericolo, per il futuro, nel fatto stesso dell'edificazione effettuata in violazione della normativa antisismica.
Sulla base di tali presupposti, la Corte distrettuale ha -con corretta e compiuta motivazione- espressamente evidenziato, in più passaggi, nella sentenza impugnata, come -ai fini della pronuncia di merito da adottare in ordine all'azione così come esperita- non rilevava lo stato peculiare dell'immobile di proprietà degli originari attori, quanto lo stato di sopravvenuto pericolo derivante dalla realizzazione della fabbrica nuova soprastante di proprietà degli attuali ricorrenti, avvenuta in violazione delle relative norme urbanistiche, edilizie e, soprattutto, antisismiche.

URBANISTICA: • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile;
   • le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …”;
   • all’interno della pianificazione urbanistica possono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi;
   • l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione;
   • per costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde agricolo non deve rispondere necessariamente all'esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, tra le quali la necessità di impedire ulteriori edificazioni o un congestionamento delle aree, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, compensando gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano;
   • anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale.
---------------

Le ricorrenti censurano la deliberazione comunale di approvazione definitiva del PGT, nella parte in cui ha non ha accolto la loro istanza tesa al riconoscimento della vocazione edificatoria dell’area di proprietà.
Il gravame è infondato e deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate.
1. In punto di fatto, è utile puntualizzare –sulla base dell’argomentata ricostruzione in fatto dell’amministrazione– che l’area è da tempo sottoposta a vincolo paesaggistico, ed era classificata “zona di interesse ambientale” nel previgente PRG del 1998, soggetta a tutela per le caratteristiche silvo-culturali e ambientali e non edificabile (cfr. art. 39 delle NTA dello strumento urbanistico – doc. 2 Comune), salva una limitata parte con destinazione B3, residenziale di bassa densità (cfr. estratto PRG).
Peraltro, dall’esame del materiale fotografico inserito nella relazione tecnica di parte ricorrente e dello stesso estratto di PGT di cui al doc. 10 del Comune, si evince un contesto connotato da un’antropizzazione diradata, oltre all’indubbia valenza paesaggistica dei luoghi. In altri termini, l’attività edificatoria è rintracciabile nei fabbricati sparsi, in una zona dove risaltano significative aree verdi in una cornice ambientale di pregio.
2. E’ necessario a questo punto richiamare, sinteticamente, alcuni consolidati principi giurisprudenziali sulla materia oggetto del contendere:
   • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile (TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria giurisprudenza menzionata);
   • le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …” (TAR Lombardia Milano, sez. II – 16/01/2017 n. 102 e giurisprudenza richiamata);
   • all’interno della pianificazione urbanistica possono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (Consiglio di Stato, sez. V – 09/09/2013 n. 4472);
   • l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione (TAR Lombardia Milano, sez. II – 27/02/2017 n. 451, che risulta appellata);
   • per costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde agricolo non deve rispondere necessariamente all'esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, tra le quali la necessità di impedire ulteriori edificazioni o un congestionamento delle aree, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, compensando gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, TAR Marche – 22/09/2017 n. 722; Consiglio di Stato, sez. IV – 28/06/2016 n. 2897; TAR Campania Napoli, sez. IV – 07/03/2014 n. 1430; Consiglio di Stato, sez. IV – 12/02/2013 n. 830; 27/01/2012 n. 425);
   • anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale (TAR Lombardia Milano, sez. II – 21/02/2017 n. 434).
3. Alla luce di tali premesse, rileva il Collegio che le condizioni dell’area (nella quale si rinviene una parte consistente di superficie coperta da vegetazione) non rende illogica la scelta urbanistica che ne conserva l’inedificabilità, in uno scenario di elevato valore ambientale.
4. La correttezza delle decisioni del Comune è avallata da ulteriori riflessioni:
   I) le osservazioni sono pervenute il 17/03/2009, non solo oltre il termine di legge (11/12/2008), ma anche in prossimità della seduta del Consiglio comunale fissata per l’approvazione del PGT (31/03/2009); gli apporti collaborativi pervenuti oltre il 06/03/2009 non sono stati esaminati per l’impossibilità di sottoporli ad adeguati approfondimenti istruttori;
   II) nella fase esplorativa, un’interlocuzione tra le parti aveva effettivamente avuto luogo, con il rigetto della richiesta di classificazione residenziale del lotto, assistito da ampia motivazione: il Comune (cfr. suo doc. 4) aveva messo in evidenza il rischio di compromissione dell’area con una sub-urbanizzazione isolata di versante in un contesto molto espressivo anche per la percezione del paesaggio agrario ricadente nell’ambito di riconoscibilità del nucleo di San Bartolomeo, tenuto conto che il monte San Bartolomeo costituisce una struttura morfologica di grande importanza nella configurazione del contesto paesistico denominato Golfo di Salò; anche alla luce della fragilità geomorfologica e percettiva dell’area, si sarebbe concretizzato un forte scadimento delle qualità paesistiche complessive;
   III) gli specifici rilievi formulati dalle ricorrenti non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni dell’Ente locale in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di salvaguardare al massimo livello l’area in questione; è peraltro assente qualsivoglia aspettativa, per la conferma di una pregressa destinazione, per cui la scelta dell’Amministrazione non può essere ritenuta illegittima (cfr., in tal senso, TAR Lombardia Milano, sez. II – 15/12/2017 n. 2393);
   IV) il principio di proporzionalità non appare inciso nella fattispecie esaminata, caratterizzata da una scelta che perpetua la precedente pianificazione, e non immuta neppure –in pejus– la posizione soggettiva vantata dalle ricorrenti.
4. In conclusione, la pretesa avanzata si rivela priva di fondamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.01.2018 n. 131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:  E' illegittima l'ordinanza emessa dal Responsabile lavori pubblici del Comune avente ad oggetto l'ordine di provvedere alla la rimozione dei rifiuti presenti sull’area di proprietà della ricorrente.
Invero:
   - il provvedimento impugnato, conformemente al contenuto ed al fine cui è diretto, è riconducibile all’esercizio della potestà disciplinata dall’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006;
   - merita accoglimento il primo motivo dedotto con cui la ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato provvedimento per l’incompetenza del dirigente comunale che ha emanato l’atto, trattandosi di potestà riservata espressamente al Sindaco dal citato art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, che così testualmente statuisce: “Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”;
   - la suindicata previsione, sulla base degli ordinari canoni ermeneutici (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000;
   - peraltro, lo stesso articolo 107 del TUEL, al comma 4, precisa che "Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative", condizione verificatasi nel caso di specie;
   - in definitiva, la determinazione dirigenziale impugnata è viziata per incompetenza in quanto l'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, prevale su quest’ultima.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione, dell'ordinanza n. 67 reg. gen., prot. n. 9754 del 02.11.2017, emessa dal Responsabile dell’Area V – lavori pubblici del Comune di Vitulazio, avente ad oggetto l'ordine di provvedere alla la rimozione dei rifiuti presenti sull’area di proprietà della ricorrente, ivi specificata.
...
   - Premesso che il provvedimento impugnato, conformemente al contenuto ed al fine cui è diretto, è riconducibile all’esercizio della potestà disciplinata dall’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006;
   - Ritenuto che merita accoglimento il primo motivo dedotto con cui la ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato provvedimento per l’incompetenza del dirigente comunale che ha emanato l’atto, trattandosi di potestà riservata espressamente al Sindaco dal citato art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, che così testualmente statuisce: “Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”;
   - Ritenuto, inoltre, che la suindicata previsione, sulla base degli ordinari canoni ermeneutici (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000;
   - Considerato, peraltro, che lo stesso articolo 107 del TUEL, al comma 4, precisa che "Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative", condizione verificatasi nel caso di specie;
   - Ritenuto, in definitiva, che la determinazione dirigenziale impugnata è viziata per incompetenza in quanto l'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, prevale su quest’ultima;
   - Richiamato sul punto il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. in termini, ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 29.08.2012, n. 4635 e 11.01.2016, n. 57; TAR Campania, sezione V, 03.04.2015, n. 1992; TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.01.2014, n. 86; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 04.07.2014, n. 704; TAR Veneto, sez. II, 05.05.2014, n. 574; Cassazione penale, sez. III, 20.05.2014, n. 40212), le cui argomentazioni sono condivise dal Collegio e vanno ribadite anche nel caso in trattazione;
   - Rilevato che il carattere assorbente del vizio di incompetenza dispensa il Collegio dall’esame dei restanti motivi;
   - Ritenuto, in conclusione, di accogliere il ricorso, con l’annullamento dell'atto e la remissione del potere di provvedere al Sindaco del Comune di Vitulazio (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 27.01.2018 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTITari/Tarsu, tariffe insindacabili. È escluso l'obbligo di motivare le scelte tariffarie. La Cassazione interviene su una questione dibattuta tra giudici di legittimità e di merito.
Non devono essere motivate le delibere comunali che fissano le tariffe della tassa rifiuti per le diverse attività produttive. L'amministrazione comunale ha il potere di differenziare le tariffe tenuto conto della maggiore o minore produzione di rifiuti. Non è richiesta la motivazione della delibera, poiché l'aumento è giustificato dalla copertura dei costi del servizio.

In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 26.01.2018 n. 1977.
Per i giudici di legittimità, «gli elementi di riscontro della legittimità della delibera, non vanno d'altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe e i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica».
La delibera tariffaria può essere considerata motivata se fa «riferimento all'opportunità di aumentare il tributo per conseguire il raggiungimento dell'obiettivo di riduzione del divario tra effettive risorse e costi del servizio e di far fronte a inderogabili esigenze di miglioramento del servizio stesso». Secondo la Cassazione, tra l'altro, «trattandosi di un atto amministrativo di carattere generale in quanto rivolto a una pluralità di destinatari, non necessitava di motivazione con particolare riguardo alle varie aree alberghiere in cui può differenziarsi in concreto l'idoneità a produrre rifiuti».
Anche la Commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza 400/2016) ha stabilito che le delibere comunali che fissano le tariffe della tassa rifiuti non devono essere motivate. Si tratta di atti generali per i quali non è imposto l'obbligo di motivazione. Tuttavia, si tratta di una questione dibattuta tra giudici di legittimità e di merito e anche tra giudici amministrativi. Sono, infatti, state emanate diverse sentenze di segno contrario rispetto a quella in esame. Interessa molto ai contribuenti sapere se le amministrazioni pur di coprire i costi del servizio, per Tarsu, Tia, Tares e Tari, devono dar conto o meno delle loro scelte.
Prevale però la tesi che la delibera comunale che non contiene una motivazione dettagliata dei costi del servizio di smaltimento rifiuti, che giustifichi le tariffe adottate, non si pone in contrasto con l'articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000) e non è sindacabile per eccesso di potere. Quindi, non deve essere disapplicata. Anche il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce (II), con la sentenza 1238/2013, ha stabilito che il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu.
L'orientamento contrario. Sulla necessità di motivare le delibere tariffarie, però, non c'è un'uniformità di vedute nella giurisprudenza amministrativa. Per il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna (sentenza 1056/2015), infatti, la delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei costi e delle tariffe.
Vanno esplicitate, poi, con chiarezza tutte le risultanze istruttorie e le ragioni delle decisioni dell'ente. Si tratta di una deroga al principio generale che esclude la motivazione per tutti gli atti a contenuto generale, vale a dire delibere e regolamenti. Nello stesso modo si è pronunciato il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), il quale ha sostenuto che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu.
E non può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio. Principio ribadito con la sentenza 504/2015, secondo cui l'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività produttive. Pertanto, possono essere previste tariffe più elevate per le utenze non domestiche.
Motivazione tariffe Tari. La regola stabilita dalla Cassazione con l'ordinanza 1977, che esclude l'obbligo di motivazione delle tariffe Tarsu vale anche per la Tari nonostante dal 2013, con l'introduzione della Tares, siano cambiate le modalità di calcolo del tributo. Al riguardo, il Tar Latina (sentenza 486/2016) ha deciso che le tariffe Tari non richiedono la motivazione se i comuni applicano i coefficienti fissati dal regolamento statale per la determinazione della quota fissa e di quella variabile del tributo. A giudizio del Tar, la delibera che fissa le tariffe Tari non richiede «una particolare o specifica motivazione dato che si tratta di un atto generale».
Quello che la legge impone all'ente è che nello scegliere il coefficiente per l'applicazione del metodo normalizzato «si mantenga all'interno del range previsto dalle tabelle» allegate al dpr 158/1999. E poiché i coefficienti scelti dall'amministrazione comunale, nel caso esaminato, si collocano in un ambito intermedio, la tariffa non sarebbe sindacabile trattandosi di scelte rientranti nel merito della discrezionalità amministrativa.
In effetti, nonostante per particolari attività coefficienti di produzione dei rifiuti e tariffe deliberate possano sembrare eccessive, non è sindacabile la scelta comunale che fissi delle tariffe in linea con i parametri stabiliti dal citato regolamento statale sul metodo normalizzato. Ancorché l'ente abbia il potere di aumentarle o diminuirle in modo consistente per alcune tipologie di attività in relazione alla loro tendenziale maggiore o minore produzione di rifiuti.
---------------
Sì a quote più alte per gli alberghi.
La Cassazione, con l'ordinanza n. 1977/2018, oltre a escludere che sussista un obbligo di motivazione delle delibere tariffarie, si è pronunciata anche sulla legittimità delle tariffe per gli alberghi, deliberate dai comuni per il pagamento della tassa rifiuti.
E ha ribadito che è legittima la delibera comunale che fissa per gli esercizi alberghieri una tariffa per la tassa rifiuti notevolmente superiore a quella applicabile alle civili abitazioni. La maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza. La tesi della Suprema corte, alla quale i giudici di merito non si sono quasi mai uniformati, è chiara da tempo.
Con la sentenza 16972/2015 ha stabilito che va differenziata anche la tariffa per l'attività di B&B svolta in una civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. Ha però precisato che i B&B non sono assimilabili agli alberghi, atteso che svolgono attività ricettiva in maniera occasionale e in forma non imprenditoriale.
Tuttavia, hanno confermato l'orientamento consolidato che impone di differenziare le tariffe per utenze domestiche e non domestiche, e quindi quelle degli alberghi da quelle delle abitazioni. Hanno sempre sostenuto che i comuni hanno il potere-dovere di deliberare tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle abitazioni (sentenza 302/2010). Peraltro, l'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti a attività alberghiere nella stessa categoria di quelli utilizzati come abitazioni, poiché non manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti. Così come non sono inseriti nella stessa categoria per la Tari.
L'amministrazione comunale può differenziare le tariffe in relazione alla maggiore o minore produttività dei rifiuti delle varie attività soggette al prelievo. In senso contrario si è espressa, per esempio, la Commissione tributaria provinciale di Taranto (sentenza 1791/2016), poiché non c'è nulla che giustifichi un diverso trattamento fiscale tra le due categorie di immobili. Per la Commissione provinciale, che richiama una pronuncia della Commissione regionale della Puglia, «il dato di comune esperienza supposto dalla Cassazione è, in realtà, opinabile», in quanto il legislatore ha voluto assimilare, in via di massima, gli alberghi alle abitazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo, nessuno dei quali risulta, allo stato, avanzato.
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è impugnabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento.
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza, alla quale questa Sezione si è più volte conformata, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma.
Come chiarito, altresì, da costante giurisprudenza, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza.
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si riespande, acquistando di nuovo la propria originaria efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.

---------------
1.3.- Il motivo è infondato.
In primo luogo, l’istanza di accertamento di conformità è stata presentata in data 20.12.2012, solo dopo l'adozione dell'ordinanza di demolizione, oggetto dell’odierno ricorso introduttivo.
In secondo luogo, l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un intervento effettuato senza la preventiva acquisizione del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate, la quale può interessare soltanto ai fini della loro eventuale sanatoria, richiesta dall’interessato.
In ogni caso, le censure non considerano che, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425; Idem, n. 3386 del 08.07.2015), nessuno dei quali risulta, allo stato, avanzato.
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è impugnabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22.08.2016, n. 4088).
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato sez. IV, 05.05.2017 n. 2063), alla quale questa Sezione si è più volte conformata (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4249), è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma (ex multis, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 24.10.2017, n. 4940).
Come chiarito, altresì, da costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466), la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4251).
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si riespande, acquistando di nuovo la propria originaria efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 06.04.2017, n. 1891)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito, con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte.
---------------
In ogni caso, il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente obbligo motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla ingiunzione di demolizione, atteso che non può ammettersi la consolidazione di un affidamento degno di tutela per effetto del tempo trascorso nel permanere di una situazione di fatto abusiva, che non può ritenersi legittimata in conseguenza del trascorrere del tempo. Pertanto, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei suoi presupposti.
Come tra l’altro chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato, l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
---------------
L'attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertata abusività delle opere che s’ingiunge di demolire ed alle norme legislative e regolamentare che sono state violate.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
---------------

3.1.1.- Infondato è il quarto motivo, posto che l’assunto circa la preesistenza del manufatto non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato, come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, (cfr. sentenza del 27.08.2016 n. 4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732), con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte.
Peraltro, si osserva che la relazione tecnica del perito di parte, allegata alla domanda di accertamento di conformità, e depositata agli atti della causa unitamente all’atto introduttivo del ricorso, non fa alcuna menzione relativamente alla preesistenza del manufatto o di porzione dello stesso.
In ogni caso, il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente obbligo motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla ingiunzione di demolizione, atteso che non può ammettersi la consolidazione di un affidamento degno di tutela per effetto del tempo trascorso nel permanere di una situazione di fatto abusiva, che non può ritenersi legittimata in conseguenza del trascorrere del tempo. Pertanto, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei suoi presupposti (Consiglio di Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Come tra l’altro chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
3.1.2.- Infondato è anche il quinto motivo, posto che la descrizione delle opere abusive realizzate si presenta puntuale e completa riguardo alle metrature ed alle caratteristiche delle stesse.
Come chiarito da consolidata e condivisa giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243), l'attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertata abusività delle opere che s’ingiunge di demolire ed alle norme legislative e regolamentare che sono state violate.
Nel caso di specie, sotto il profilo istruttorio, l’ordinanza di demolizione prende a riferimento la relazione di sopralluogo, prot. gen. n. 30447 effettuata nella data del 15.10.2012 da parte di personale dell’Ufficio tecnico, unitamente ad un rappresentante della locale polizia municipale.
...
5.- Infine destituito di fondamento è il settimo motivo, col quale il ricorrente contesta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, in violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990.
Come chiarito da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione (31.01.2017, n. 677), l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità dopo l'adozione dell'ordinanza di demolizione non incide sulla legittimità e, quindi, sulla validità di quest'ultima, la quale va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione.
La presentazione di siffatta istanza neppure determina la definitiva inefficacia dell'ordinanza di demolizione, producendo unicamente la sospensione temporanea dei suoi effetti, limitatamente al periodo di tempo necessario fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza medesima.
Né è possibile estendere all'accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001 (che ha sostituito l'abrogato art. 13 L. n. 47 del 1985, all'epoca vigente), istituto che presuppone per la sanatoria la doppia conformità dell'opera formalmente abusiva, le disposizioni specifiche che prevedono la sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in pendenza dei procedimenti di condono.
L'unico effetto è di produrre una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001, per la formazione del silenzio-rifiuto.
Sul piano processuale, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità non comporta, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse del ricorso con il quale si è impugnata l'ordinanza di demolizione, posto che gli effetti di quest'ultima sono soltanto temporaneamente sospesi. L'improcedibilità è concepibile solo nell'ipotesi di accoglimento della suddetta istanza, dovendosi attestare in tal modo la piena legittimità dell'opera, la quale ab origine è priva solo formalmente del titolo edilizio.

---------------

6.2.- Le censure sono nel complesso infondate.
6.2.1.- Come da orientamento di prevalente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015 n. 466), condiviso da questa Sezione (sentenze 27.06.2017, n. 3501; 22.08.2016 n. 4088), la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità dopo l'adozione dell'ordinanza di demolizione non incide sulla legittimità e, quindi, sulla validità di quest'ultima, la quale va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione. La presentazione di siffatta istanza neppure determina la definitiva inefficacia dell'ordinanza di demolizione, producendo unicamente la sospensione temporanea dei suoi effetti, limitatamente al periodo di tempo necessario fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza medesima.
Né è possibile estendere all'accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001 (che ha sostituito l'abrogato art. 13 L. n. 47 del 1985, all'epoca vigente), istituto che presuppone per la sanatoria la doppia conformità dell'opera formalmente abusiva, le disposizioni specifiche che prevedono la sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in pendenza dei procedimenti di condono.
L'unico effetto è di produrre una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001, per la formazione del silenzio-rifiuto (cfr., da ultimo, sentenza della Sezione del 27.08.2016, n. 4110).
Sul piano processuale, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità non comporta, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse del ricorso con il quale si è impugnata l'ordinanza di demolizione, posto che gli effetti di quest'ultima sono soltanto temporaneamente sospesi. L'improcedibilità è concepibile solo nell'ipotesi di accoglimento della suddetta istanza, dovendosi attestare in tal modo la piena legittimità dell'opera, la quale ab origine è priva solo formalmente del titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, n. 4818).
Nel caso specifico, come chiarito nell’esame del ricorso introduttivo, all'istanza di sanatoria, presentata in data 20.12.2012, l’amministrazione non ha fornito risposta sicché, decorso il termine di sessanta giorni, si è formato il diniego tacito, a partire dal quale, in mancanza di sua impugnazione, decorre nuovamente il termine di novanta giorni perché il destinatario dell’ordinanza di demolizione ottemperi, essendosi a questo punto acclarate in via definitiva ciò che l’ordinanza medesima ha individuato quali opere abusive
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime è un effetto automatico, per esplicita previsione legislativa, alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, non occorrendo pertanto alcuna specificazione, la quale piuttosto è richiesta in vista dell'acquisizione, in ampliamento all'area strettamente di sedime del manufatto abusivo, dell'ulteriore (e solo eventuale) area necessaria, fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Difatti, il destinatario dell'ingiunzione può impedire simile effetto, con la demolizione dell'opera contestata e rendendo così impossibile la futura acquisizione, cosicché detta specificazione è adempimento che caratterizza i provvedimenti successivi all'ordinanza demolitoria, senza pregiudicare l'interessato che non abbia inteso ottemperarvi.
Pertanto, la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione di demolizione e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso controverso, non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione dell’area ulteriore soggetta ad acquisizione in caso d’inottemperanza all’ordine di demolizione.

---------------
La notificazione del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di demolizione, di cui peraltro il relativo destinatario non può dichiararsi ignaro.
Ne consegue la non necessità che l’accertamento venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l'acquisizione gratuita, rilevando la notificazione all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali non solo la presupposta ordinanza di demolizione ma la stessa ordinanza di acquisizione, costituiscono manifestazione di potere vincolato per la cui adozione non è necessario la comunicazione di avvio del procedimento, perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, i quali presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, sul carattere abusivo delle medesime nonché sul riscontro oggettivo dell’inottemperanza all’ingiunzione a rimuoverle.
---------------

6.2.2.- E' destituita di fondamento la censura secondo cui l’ordinanza di acquisizione del manufatto abusivo non sia stato correttamente individuato, in considerazione del fatto che la stessa indica in modo inequivocabile la consistenza dell'abuso, la particella ed il foglio su cui insiste il manufatto.
In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime è un effetto automatico, per esplicita previsione legislativa, alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, non occorrendo pertanto alcuna specificazione, la quale piuttosto è richiesta in vista dell'acquisizione, in ampliamento all'area strettamente di sedime del manufatto abusivo, dell'ulteriore (e solo eventuale) area necessaria, fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Difatti, il destinatario dell'ingiunzione può impedire simile effetto, con la demolizione dell'opera contestata e rendendo così impossibile la futura acquisizione, cosicché detta specificazione è adempimento che caratterizza i provvedimenti successivi all'ordinanza demolitoria, senza pregiudicare l'interessato che non abbia inteso ottemperarvi (TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4249; 03.07.2017, n. 3570; 06.03.2017, n. 1303).
Pertanto, la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione di demolizione e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso controverso, non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione dell’area ulteriore soggetta ad acquisizione in caso d’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Nella fattispecie in esame, l’ordinanza di demolizione ha d’altronde un contenuto prescrittivo chiaro, posto che contiene l’avvertimento, in caso d’inottemperanza, di procedere d’ufficio, con avvio della procedura di ristoro delle spese sostenute a carico del responsabile dell’abuso, ai sensi dell’art. 31, comma 4, d.p.r. 380/2001, disposizione la quale sancisce espressamente che: “L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, (novanta giorni), previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
...
6.2.4.- Infondata è inoltre la censura con la quale il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di acquisizione in quanto non sarebbe stata preceduta dalla notifica, prescritta dall’art. 31, comma 4, d.p.r. 380/2001, dell’accertamento dell’inadempimento.
Secondo costante giurisprudenza la notificazione del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di demolizione, di cui peraltro il relativo destinatario non può dichiararsi ignaro; ne consegue la non necessità che l’accertamento venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l'acquisizione gratuita, rilevando la notificazione all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.12.2008, n. 6174; Cassazione penale, sez. III, 28.11.2007, n. 4962).
6.2.5.- Infondata è anche la censura circa l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Come chiarito con riferimento all’ordinanza di demolizione, impugnata col ricorso introduttivo, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali non solo la presupposta ordinanza di demolizione ma la stessa ordinanza di acquisizione, costituiscono manifestazione di potere vincolato per la cui adozione non è necessario la comunicazione di avvio del procedimento, perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, i quali presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, sul carattere abusivo delle medesime (TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.03.2015, n. 1534) nonché sul riscontro oggettivo dell’inottemperanza all’ingiunzione a rimuoverle.
Nel caso specifico, peraltro, la presupposta ordinanza di demolizione aveva anticipato le conseguenze dell’inottemperanza alla stessa; sicché parte ricorrente non può sostenere di non essere stata posta nelle condizioni di conoscere il provvedimento successivo di acquisizione, conclusivo del procedimento sanzionatorio di repressione dei compiuti abusi edilizi
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTII commissari di gara si possono sostituire. Se non danno valutazioni discrezionali.
Ammessa la sostituzione dei commissari di gara se non devono esprimere valutazioni discrezionali.

È quanto ha precisato il Consiglio di Stato, III Sez., con la sentenza 26.01.2018 n. 569 in merito ad una vicenda inerente la modifica della composizione della commissione giudicatrice di un appalto pubblico.
In particolare, erano stati modificati, dopo la prima seduta dedicata all'esame della documentazione amministrativa, due dei tre originari componenti e una delle imprese partecipanti, risultata alla fine esclusa, aveva presentato ricorso al Tar assumendo la violazione del principio della immutabilità del seggio di gara. Il Tar respingeva il ricorso.
Preliminarmente la sentenza si occupa però di un altro profilo, inerente il fatti che il Rup (responsabile unico del procedimento) avesse svolto anche funzioni di segretario verbalizzante, oltre che di componente del seggio di gara. Il Tar (e il Consiglio di stato) ritengono la censura priva di rilievo, in quanto il Rup, ai sensi dell'articolo 10, comma 2, del dlgs n. 163 del 2006 (all'epoca vigente), «svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti». Ben può svolgere, nella medesima procedura di gara, anche funzioni di segretario verbalizzante e di componente del seggio di gara che ha svolto meri controlli amministrativi, senza incorrere in alcuna incompatibilità.
In merito alla questione del mutamento di due dei tre componenti la commissione, la sentenza, nel confermare il giudizio di primo grado, ha rilevato innanzitutto che il seggio di gara aveva modificato la sua composizione solamente con riferimento alla prima seduta, dedicata alla verifica della documentazione amministrativa, mentre in tutte le ulteriori fasi di valutazione delle offerte e di verifica della anomalia aveva mantenuto la stessa e costante composizione.
Questo però non inficia la legittimità dell'operato della commissione perché l'attività di verifica della documentazione «in quanto non implicante valutazioni tecnico-discrezionali, ma costituente una sottofase della procedura distinta da quella destinata alla delibazione delle offerte, può essere svolta da un seggio diverso da quello incaricato della delibazione delle offerte, così come da un organo monocratico (per esempio, il Rup)» (articolo ItaliaOggi del 09.02.2018).

---------------
MASSIMA
2. Vengono quindi in considerazione i motivi di appello che reiterano le censure di primo grado, dedotte in via subordinata e respinte nel merito dal Tar.
2.1. Con una prima censura la parte appellante ha lamentato la violazione dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, sostenendo che la deliberazione n. 2190 del 2015, con cui era stata nominata la commissione giudicatrice, non motivava in ordine all’esperienza vantata dai membri prescelti nello specifico settore di riferimento, limitandosi a indicarne la qualifica e la funzione svolta.
2.2. Il Tar, dopo aver richiamato i principi interpretativi in materia di qualificazione professionale della Commissione di gara, ha osservato come nel caso specifico i commissari nominati, singolarmente considerati, presentassero competenze tecniche adeguate al ruolo e come, a fronte del provvedimento di nomina, parte ricorrente si fosse limitata a lamentare la mancanza di motivazione in ordine al requisito della sufficiente esperienza, senza dedurre alcun elemento da cui inferire tale carenza.
2.3. In sede di appello, viene ribadita la censura di carenza di motivazione e l’asserzione secondo cui nella delibera di nomina nulla si dice circa la caratura tecnico-professionale dei commissari nominati.
2.4. Sotto questo specifico profilo la doglianza è infondata, in quanto l'art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 non prevede un obbligo, per la stazione appaltante, di supportare la scelta di nominare commissari con adeguata motivazione, ma si limita piuttosto a prescrivere che gli stessi siano “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”.
2.5. Poiché la qualificazione professionale dei commissari, riconosciuta dal Tar, non è oggetto di ulteriore contestazione in questa sede di appello, deve dichiararsi la complessiva infondatezza del motivo in esame.
3. Con una seconda censura, parte ricorrente aveva lamentato in primo grado la violazione dei principi in tema di svolgimento delle procedure di gara e dell’art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto dal verbale n. 1 del 10.12.2015 risultava che il seggio di gara, competente per la fase amministrativa, fosse composto da F.An., presidente, Ma.Pe., componente, e Al. De Fe., componente e segretario.
In fase di aggiudicazione, invece, fermo restando il presidente, i componenti erano diventati A.F.Le. e D.Pi. e il segretario M.Pe..
Insomma tra una seduta e l’altra, il seggio di gara, che aveva svolto peraltro anche funzioni decisorie in tema di anomalie delle offerte, aveva mutato composizione.
3.1. Il Tar ha respinto la censura osservando che il seggio di gara aveva modificato la sua composizione solamente con riferimento alla seduta del 10.12.2015, dedicata alla verifica della documentazione amministrativa, mentre in tutte le ulteriori fasi di valutazione delle offerte e di verifica della anomalia aveva mantenuta la stessa e costante composizione.
Ha aggiunto il giudice di primo grado che l’attività di verifica della documentazione, in quanto non implicante valutazioni tecnico-discrezionale, ma costituente una sotto-fase della procedura distinta da quella propriamente destinata alla delibazione delle offerte, può essere svolta anche da un seggio diverso da quello incaricato della delibazione delle offerte, così come da un organo monocratico (il Rup).
3.2. In questa sede, la parte appellante pur manifestando adesione alle considerazioni da ultimo richiamate, osserva che il seggio di gara, come risulta dal verbale n. 3 del 14.10.2016, ha assunto determinazioni in tema di anomalia, e quindi ha espresso -in composizione variata- valutazioni a carattere discrezionale.
3.3. La censura non è idonea, neppure sul piano fattuale, a confutare l’articolata motivazione contenuta sul punto nella sentenza impugnata.
Nella stessa si dà atto, infatti, che tutte le attività valutative afferenti alla valutazione delle offerte tecniche e alla verifica di anomalia (di cui ai verbali n. 3 del 14.10.2016; n. 2 del 30.09.2016 e n. 1 del 29.12.2015), sono riconducibili all’operato di una identica commissione giudicatrice, sicché la sola variazione è intervenuta in occasione della seduta del 10.12.2015 (verbale n. 1).
Nondimeno, essendo detta seduta dedicata allo svolgimento di attività amministrativa non valutativa, detta variazione non ha intaccato la garanzia di continuità della Commissione giudicatrice nello svolgimento di tutte le attività valutative dalla stessa espletate.
4. Infine, con una terza censura la parte ricorrente aveva dedotto che, illegittimamente, il Rup, M.Pe., avrebbe svolto anche funzioni di segretario verbalizzante e di componente del seggio di gara.
4.1. La censura è stata ritenuta dal Tar priva di rilievo, in quanto il Rup, che ai sensi dell’articolo 10, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, “svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice…che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”, ben può svolgere, nella medesima procedura di gara, anche funzioni di segretario verbalizzante e di componente del seggio di gara che ha svolto meri controlli amministrativi, senza incorrere in alcuna incompatibilità.
4.2. Anche su questo profilo, la parte appellante non ha addotto validi argomenti a confutazione della motivazione contenuta in sentenza, limitandosi a lamentare l’esorbitanza delle funzioni assunte dal Rup rispetto ai compiti previsti dall’articolo 10, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006.
4.3. In queste sede, ad integrazione di quanto esposto nella sentenza appellata occorre aggiungere che, per giurisprudenza costante, anche di questa sezione (Cons. Stato, sez. III, 05.11.2014, n. 5456), nelle procedure di gara per appalti di pubbliche amministrazioni, non ricorre incompatibilità tra le funzioni del responsabile unico del procedimento (R.u.p.) e quella di componente della commissione, tenuto conto che al R.u.p. non spetta alcuna funzione amministrativa connessa all'esecuzione del contratto (Cons. St., sez. V, 23.10.2012, n. 5408).
4.4. Per il resto, il segretario verbalizzante non può essere computato nel novero dei membri della commissione giudicatrice, non avendo egli potere di voto, ma funzioni di mero supporto burocratico ai compiti valutativi e decisionali appartenenti esclusivamente alla Commissione (Cons. Stato, sez. V, 23.06.2016 n. 2812).
4.5. Dunque, la natura delle funzioni ausiliarie e documentali del segretario non consente di ravvisare alcuna ragione di incompatibilità con il concomitante ruolo di Rup.
6. La ravvisata infondatezza delle censure svolte nell’atto di appello consente di prescindere dalle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla parte resistente.

EDILIZIA PRIVATA: La natura pertinenziale di una nuova opera, realizzata su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, è ravvisabile quando si tratti:
   a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
   b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume tecnico; trattandosi di interventi che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, né incidono sul carico urbanistico esistente.
In termini confermativi, si è affermato che: “In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due superfici verticali contigue; presupposto carente quando la costruzione consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto, nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico”
---------------

L’assunto è fondato.
2.2. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “La natura pertinenziale di una nuova opera, realizzata su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, è ravvisabile quando si tratti: a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati; b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume tecnico; trattandosi di interventi che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, né incidono sul carico urbanistico esistente” (TAR Catanzaro, II, 03.05.2016 n. 977).
In termini confermativi, si è affermato che: “In materia urbanistica, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e di due superfici verticali contigue; presupposto carente quando la costruzione consista in una tettoia in legno aperta su tre lati, rientrante, piuttosto, nel concetto di bene pertinenziale ossia di struttura a servizio di un'altra, sottratta, come tale, al computo del carico urbanistico” (TAR Sardegna, II, 16.01.2015 n. 183. In termini ulteriormente confermativi, TAR Umbria, 29.01.2014, n. 82) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 26.01.2018 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fermo restando l’obbligo del Comune di provvedere a fronte di un’istanza volta alla rimozione di barriere architettoniche su marciapiede pubblico ad opera del privato, occorre, ai fini della legittimità dell’atto autorizzativo, che vi sia stato un concreto avvio di un procedimento, conseguente all’istanza, nell’ambito del quale l’attività istruttoria sia stata approfondita e che l’atto autorizzativo sia stato conseguentemente adottato in relazione alle risultanze della stessa.
---------------

... per l'annullamento del nulla-osta n. 1 del 27/11/2013 prot. 2792 di esecuzione lavori edilizi e degli atti presupposti e, in particolare, per quanto possa occorrere, dell’autorizzazione espressa dal Sindaco in calce alla nota del 25.11.2013 a firma del responsabile dell’ufficio tecnico;
...
I. Il ricorrente (ultranovantenne) è proprietario di un immobile sito nel Comune di Filogaso (VV), al Corso Garibaldi, adiacente al locale che ospita il bar “La Fo.”, di proprietà del controinteressato Si.Gi..
Nei primi giorni del mese di luglio 2014, il ricorrente ha constatato l’avvio di lavori edilizi che, partendo dal marciapiede antistante al bar “La Fo.”, proseguivano per circa quattro metri lineari, occupando anche lo spazio prospiciente all’edificio di proprietà del ricorrente.
Per come descritto nella relazione tecnica a firma dell’ing. Gi.La., prodotta agli atti del giudizio, i lavori consistevano nella realizzazione, su di un tratto di marciapiede pubblico (antistante all’immobile di proprietà del sig. Te.Gi.), di una rampa della lunghezza di 4,50 metri che, partendo dal livello del marciapiede, si eleva per mezzo metro (+0,50 m) raccordandosi con un pianerottolo di notevole dimensione, prolungato per ben quattro metri oltre la rampa.
In sostanza, dall’esteriorizzazione dei lavori, si intuiva la realizzazione di un’area pertinenziale al bar “La Fo.”, destinata ad ospitare sedie e tavolini e realizzata sul suolo pubblico antistante all’immobile di proprietà del ricorrente.
Sennonché, ottenuto l’accesso agli atti, è venuto a conoscenza della circostanza che i lavori sarebbero stati autorizzati dal Comune di Filogaso al fine di rimuovere presunte barriere architettoniche su marciapiede pubblico.
...
3. Nel merito il ricorso deve essere accolto per la fondatezza dell’assorbente censura del difetto di istruttoria.
Nella fattispecie il controinteressato, titolare di un locale bar prospiciente il marciapiede, ha chiesto al Comune un nulla osta finalizzato all’abbattimento su spazio comunale, a proprie spese, delle barriere architettoniche presenti sul tratto antistante il locale, depositando a tal uopo apposito progetto. Tale nulla osta è stato in effetti rilasciato in data 27.11.2013.
In tale ipotesi, in cui si è innanzi ad opera realizzata a spese del privato su suolo pubblico, l’amministrazione deve valutare la ricorrenza dei presupposti per assentire a tale richiesta e quindi procedere previamente ad una valutazione del progetto, ponendo in essere tutti gli adempimenti che si rendano necessari.
Orbene, nel caso, emerge dalla documentazione agli atti, che è mancata qualsiasi attività istruttoria sul progetto; non risulta infatti fornita altra documentazione se non il nulla osta rilasciato dal tecnico comunale sulla scorta del “parere favorevole dell’Amministrazione Comunale”, senza che risulti alcuna valutazione tecnica del progetto.
Ne consegue l’illegittimità del nulla osta in questione, teso a far realizzare al privato opere in eliminazione di barriere architettoniche su aree pubbliche –nulla osta che il ricorrente (proprietario di un immobile adiacente al bar del controinteressato) assume essere diretto alla realizzazione di un’opera pregiudizievole per lo stesso- che sia stato adottato senza alcuna documentata istruttoria da parte dell’organo gestionale competente e sulla base di un mero parere favorevole reso dall’organo politico.
Infatti, fermo restando l’obbligo del Comune di provvedere a fronte di un’istanza volta alla rimozione di barriere architettoniche su marciapiede pubblico ad opera del privato (TAR Campania, Napoli, sez. III, 28.03.2017), occorre, ai fini della legittimità dell’atto autorizzativo, che vi sia stato un concreto avvio di un procedimento, conseguente all’istanza, nell’ambito del quale l’attività istruttoria sia stata approfondita (TAR Liguria, Genova, sez. I, 29.01.2014, n. 161) e che l’atto autorizzativo sia stato conseguentemente adottato in relazione alle risultanze della stessa.
4. La suddetta censura ha carattere pregiudiziale ed assorbente ed esime il Collegio dall’esame delle ulteriori doglianze e delle ulteriori pretese.
Il ricorso è, pertanto, fondato per gli esposti motivi e, conseguentemente, l’atto impugnato va annullato, salvi i successivi provvedimenti dell’amministrazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 25.01.2018 n. 232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione del piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
In occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell'amministrazione, riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
---------------

Si osserva, infine, che, per giurisprudenza consolidata: “le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione del piano costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità; in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell'amministrazione, riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni” (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7478) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.01.2018 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ritenersi che l’intervento edilizio realizzato dalla ricorrente esuli dall’ambito di operatività della disciplina edilizia in quanto si tratta di pertinenze urbanistiche che rientrano nell’art. 22 del dpr 380/2001 e siano soggette alla sola DIA (tettoia e ripostiglio funzionalmente collegate all’abitazione della ricorrente).
Sul punto, la tettoia è aperta da tre lati e non risulta avere una funzione abitativa, ma tecnica; il ripostiglio d’altro canto sarebbe privo di finestre e sembra rientrare per le ridotte dimensioni e in difetto di diversa descrizione da parte del comune nei limiti in cui sono consentite le pertinenze rispetto all’intero edificio.
In particolare, per quanto concerne il ripostiglio chiuso, secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa, sarà necessario il permesso di costruire quando il locale sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il locale sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di specie, in cui lo spazio realizzato è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio.
Palle medesime conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento alla tettoia, per la quale non è prevista la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono, specie se struttura aperta su tre lati e a servizio del fabbricato su cui poggia.
In questo senso, secondo la giurisprudenza amministrativa, con orientamento pienamente condivisibile, il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario infatti solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio. L’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono.

---------------

Con ricorso Ma.Ma. chiedeva di annullare l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 30 del 2010 emanata dal Comune di San Floro.
Si costituiva il comune resistente chiedendo rigettarsi il ricorso.
Le opere realizzate in base alla descrizione contenuta nell’ordinanza di demolizione redatta sulla base del rapporto di servizio dei vigili urbani del 28.6.2010 sono le seguenti (realizzate presso l’abitazione della ricorrente): tettoia in legno, con pendenza a una falda, poggiata per una parte al fabbricato e per una parte al balcone con un’altezza compresa variabile da mt 3,11 a 2,65, il tutto coperto da tegole tipo canadesi; ripostiglio in legno su pavimento in calcestruzzo, dalle dimensioni di mt 3,10 x 1,03 copertura a due falde con altezza alla linea di colmo di mt. 3 e alla linea di gronda di mt. 2,50. Le opere sono state realizzate in assenza di permesso a costruire o DIA.
Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.
Deve, in particolare, ritenersi che l’intervento edilizio realizzato dalla ricorrente esuli dall’ambito di operatività della disciplina edilizia in quanto si tratta di pertinenze urbanistiche che rientrano nell’art. 22 del dpr 380/2001 e siano soggette alla sola DIA (tettoia e ripostiglio funzionalmente collegate all’abitazione della ricorrente).
Sul punto in base a quanto rappresentato dal ricorrente e alla luce della stringata motivazione del provvedimento, la tettoia è aperta da tre lati e non risulti avere una funzione abitativa, ma tecnica; il ripostiglio d’altro canto sarebbe privo di finestre e sembra rientrare per le ridotte dimensioni e in difetto di diversa descrizione da parte del comune nei limiti in cui sono consentite le pertinenze rispetto all’intero edificio.
In particolare, per quanto concerne il ripostiglio chiuso (in questo senso TAR Lazio 9038/2017; Cons. stato n. 985/2017), secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa, sarà necessario il permesso di costruire quando il locale sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il locale sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di specie, in cui lo spazio realizzato è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio.
Palle medesime conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento alla tettoia, per la quale non è prevista la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono (Cons. St. 1272/2014), specie se struttura aperta su tre lati e a servizio del fabbricato su cui poggia (così Cons. St. 5283/2017).
In questo senso, secondo la giurisprudenza amministrativa, con orientamento pienamente condivisibile, il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario infatti solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio (Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2017, n. 694). L’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono (Consiglio di Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272).
Nel caso di specie, sulla base delle allegazioni di parte, si tratta infatti di una struttura aperta sui tre lati, posta a servizio del fabbricato sulla cui parete esterna si appoggia, priva di autonoma destinazione e di ridotte dimensioni.
Il ricorso deve pertanto trovare accoglimento (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 24.01.2018 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, polizza super. Risarciti al cliente danni creati dal sostituto. La Corte di cassazione ha respinto il ricorso di una compagnia.
L'assicurazione è tenuta a risarcire anche i danni sofferti dal cliente per l'attività svolta dal sostituto dell'avvocato, nominato illecitamente oltre i limiti della procura.

A questa importante conclusione è giunta la Corte di Cassazione -Sez. III civile- che, con la sentenza 23.01.2018 n. 1580, ha respinto il ricorso di una compagnia condannata dalla Corte d'appello di Milano a risarcire i parenti di alcune vittime di un disastro aereo, i cui nominativi non erano stati inseriti dal sostituto del legale nel ricorso.
Con una lunga quanto chiara motivazione la terza sezione civile ha chiarito che nella ipotesi in esame, a fronte dell'illecita attività dell'avvocato che, in sostituzione dell'unico avvocato incaricato dai clienti e senza l'autorizzazione dei clienti si sostituisca all'avvocato di fiducia compiendo attività processuali non autorizzate con esito pregiudizievole per i clienti stessi, i clienti possono agire direttamente nei confronti del sostituto per farne accertare la responsabilità.
È un'azione diretta che trae la sua fonte dall'esercizio di un'attività direttamente pregiudizievole nella sfera dei clienti altrui da parte dell'avvocato non autorizzato, ed è un'azione diretta che consente ai clienti di far valere una responsabilità contrattuale del professionista, volta, nel caso in esame, al risarcimento dei danni. Ed è proprio dall'affermazione di responsabilità del professionista, perseguibile con l'azione diretta dagli stessi danneggiati, che discende l'obbligo della sua assicurazione professionale di tenerlo indenne dalle conseguenze dannose provocate da terzi dallo svolgimento dell'attività professionale stessa.
Ciò perché l'assicurazione professionale infatti risponde per ogni danno provocato dal professionista nell'esercizio della sua attività professionale, e qui siamo di fronte a un danno certo ed è altrettanto certo che sia stato causato dall'attività professionale svolta, anche se senza incarico, in favore dei parenti delle vittime.
Ora il verdetto della Corte meneghina è dunque divenuto definitivo. Sarà l'assicurazione a pagare i danni sofferti dai parenti delle vittime e provocati dalla leggerezza professionale del legale che, nonostante non autorizzato espressamente nella procura, aveva svolto attività difensiva per conto del suo dominus (articolo ItaliaOggi del 24.01.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIAlla sanzione basta il pensiero. Sufficiente la coscienza della condotta attiva o omissiva. Secondo la Cassazione non è necessaria la concreta dimostrazione di dolo o colpa.
In tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 689 del 1981, per le violazioni colpite da sanzione è necessaria e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa.

Così la Corte di Cassazione -Sez. III civile- con l'ordinanza 07.11.2017 n. 26306, che si inscrive nel novero di una serie di recenti pronunce in tema di sanzioni amministrative. Vediamole nel dettaglio.
NON SI LEGGE IL DISPOSITIVO: LA SENTENZA E' NULLA. Nelle controversie soggette al rito del lavoro, l'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ai sensi dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ., la nullità insanabile della sentenza, per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, in quanto si traduce nel difetto di un requisito correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio che connotano tale rito e soprattutto di immutabilità della decisione rispetto alla successiva stesura della motivazione.
È questo l'orientamento al quale si sono richiamati i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 04.01.2018 n. 72.
Con ricorso ex art. 6 del dlgs n. 150 del 2011, Caio impugnava, davanti al Giudice di pace l'ordinanza ingiunzione emessa dalla locale Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, con cui gli era stato ingiunto di pagare la sanzione amministrativa, oltre a diritti e spese. La Cciaa aveva contestato al ricorrente, in solido con la società Alfa srl, la violazione:
   a) dell'art. 6 del dlgs n. 206 del 2005, «in quanto esercitava la vendita di prodotti non riproducenti in lingua italiana e in forma chiaramente visibile e leggibile le indicazioni obbligatorie per l'informazione del consumatore»;
   b) degli artt. 104 e 105 del dlgs n. 206 del 2006, «in quanto esercitava la vendita di prodotti privi delle indicazioni sulle precauzioni e avvertenze d'uso in lingua italiana indispensabili per l'immissione sul mercato di prodotti sicuri»;
   c) dell'art. 5 del dlgs n. 313 del 1991, «in quanto esercitava la vendita di giocattoli privi delle indicazioni sulle precauzioni e avvertenze d'uso»;
   d) dell'art. 14, comma 4, del dlgs n. 475 del 1992, «in quanto esercitava la vendita di dispositivi di protezione individuale con marcatura Ce non conforme per forma e proporzioni a quanto previsto dall'Allegato 4 del citato dlgs».
Il ricorrente, in primo grado, deduceva l'incompetenza della Cciaa a emettere l'ordinanza ingiunzione per connessione obiettiva con un reato, e l'illegittimità della ordinanza medesima per difetto degli elementi oggettivo e soggettivo degli illeciti amministrativi contestatigli. La Cciaa resisteva all'opposizione a mezzo funzionario.
Con sentenza il giudice di pace rigettava l'opposizione, dando lettura in udienza del dispositivo e della motivazione contestuale, confermando l'ordinanza ingiunzione con compensazione delle spese di lite. Avverso tale decisione, Caio proponeva appello, davanti al Tribunale, chiedendo l'integrale riforma della sentenza di primo grado.
Si costituiva la Cciaa chiedendone, al contrario, la conferma. Con sentenza il Tribunale rigettava l'appello e condannava l'appellante alla rifusione delle spese in favore dell'appellata. Per la cassazione dell'impugnata sentenza del Tribunale, Caio ha proposto ricorso.
SANZIONI AMMINISTRATIVE BASTA LA COSCIENZA E LA VOLONTÀ DELLA CONDOTTA. In tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 689 del 1981, per le violazioni colpite da sanzione è necessaria e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa.
A ribadirlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 07.11.2017 n. 26306.
Questo, perché, hanno aggiunto i giudici di piazza Cavour, la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa.
Il thema decidendum sul quale gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi vedeva Tizio che ha proposto opposizione avverso una cartella di pagamento notificatale dall'agente della riscossione, avente ad oggetto crediti per sanzioni amministrative di titolarità della Prefettura (sanzioni irrogate per l'illecita emissione di assegni senza provvista e/o senza autorizzazione). L'opposizione veniva rigettata dal Tribunale. La Corte di appello confermava la decisione di primo grado.
SANZIONI AMMINISTRATIVE E PRESCRIZIONE. Ed, infine, nella recentissima ordinanza 23.01.2018 n. 1550 sempre della Corte di Cassazione -Sez. III civile- si afferma il principio di diritto secondo il quale in tema di sanzioni amministrative, l'atto interruttivo della prescrizione nei confronti di uno dei coobbligati in solido, nelle ipotesi previste dall'art. 6 della legge n. 689 del 1981, produce effetti anche nei confronti dei coobbligati, ai sensi dell'art. 1310 cod. civ., stante il richiamo contenuto nell'art. 28 della citata legge alla disciplina del codice civile per quanto riguarda l'interruzione della prescrizione.
A tali fini non assume importanza se il soggetto nei cui confronti è stata interrotta la prescrizione è quello che ha materialmente commesso la violazione o colui al quale la legge estende la corresponsabilità nel pagamento della relativa sanzione, non potendosi distinguere, ai fini di cui all'art. 1310 cod. civ., fra coobbligati solidali. L'estensione degli effetti degli atti interruttivi della prescrizione non si verifica, invece, nella diversa ipotesi del concorso di più persone nella commissione della violazione, prevista dall'art. 5 della legge n. 689 del 1981, poiché in tal caso difetta il vincolo della solidarietà fra i coobbligati, ciascuno dei quali è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa per intero.
I giudici della suprema corte hanno, altresì, ribadito che il concorso di più persone nella commissione di una violazione amministrativa regolato dall'art. 5 della legge 24.11.1981 n. 689 differisce dalla fattispecie prevista dall'art. 6 della medesima legge, che disciplina invece la solidarietà con l'autore dell'illecito di persone non concorrenti nella violazione. Difatti, nella prima ipotesi, ciascun concorrente soggiace all'intera sanzione e il pagamento da parte di uno non estingue l'obbligazione degli altri. Tale distinzione rileva ai fini dell'interruzione della prescrizione. L'art. 28 della citata legge n. 689 del 1981 rinvia al codice civile per quanto riguarda la disciplina dell'interruzione della prescrizione del diritto a riscuotere le sanzioni.
Pertanto, come si legge nella pronuncia in commento, sembra opportuno distinguere fra l'ipotesi, prevista dall'art. 5, legge n. 689/1981, del concorso di più persone nella violazione, alla quale non è applicabile l'art. 1310 cod. civ., difettando il vincolo di solidarietà passiva fra i concorrenti (si vedano: Sez. 3, Sentenza n. 2088 del 24/02/2000, Rv. 534342; Sez. 1, Sentenza n. 18365 del 23/08/2006, Rv. 593466); dall'ipotesi disciplinata dal successivo art. 6, che invece configura una vera e propria responsabilità solidale, con conseguente applicabilità della regola, posta dal citato art. 1310 cod. civ., secondo cui gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido, hanno effetto riguardo agli altri debitori (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

APPALTICome individuare l'anomalia dell'offerta. Precisazione del Consiglio di Stato.
Nel calcolo della media aritmetica dei ribassi offerti in una procedura di affidamento per un appalto pubblico non vanno computate le offerte precedentemente escluse con il cosiddetto «taglio delle ali».

Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.01.2018 n. 435 che affronta il tema dell'individuazione della soglia di anomalia dell'offerta ai sensi dell'articolo 97, comma 2, lettera b), del dlgs n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici) una disposizione che i giudici giudicano «poco lineare», «infelicemente redatta» e foriera di «numerosi dubbi interpretativi». Questo perché, a seconda dell'esito del sorteggio fra i cinque metodi di calcolo della soglia di anomalia previsti, la norma è tale da produrre risultati della gara «radicalmente diversi».
La norma prevede che per individuare l'anomalia delle offerte si deve individuare la «media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, tenuto conto che se la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale a zero la media resta invariata; qualora invece la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata percentualmente di un valore pari a tale cifra».
Su questa disposizione, l'Anac ha chiarito (comunicato del presidente del 05.10.2016) che per il calcolo della media aritmetica non vanno considerate le offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali. I giudici quindi hanno confermato che la corretta procedura per dare applicazione alla disposizione dovrebbe essere: in primo luogo escludere il 10% (arrotondato all'unità superiore) delle offerte di maggior ribasso e altrettante di quelle di minor ribasso (cosiddetto taglio delle ali); poi, una volta effettuato il taglio delle ali, sommare i ribassi rimasti e calcolarne la media aritmetica.
A questo punto, se la prima cifra dopo la virgola della somma suddetta è una cifra pari, oppure è zero, la media resta invariata; se è dispari, allora la media viene diminuita di una percentuale pari a tale cifra (articolo ItaliaOggi del 26.01.2018).
---------------
MASSIMA
Non occorre procedere all’esame dei motivi di inammissibilità e improcedibilità dell’appello prospettate dalla So.Ge.Ap. poiché l’appello è infondato nel merito.
Le conclusioni cui è pervenuto il Giudice di primo grado dunque vanno confermate, peraltro con le seguenti puntualizzazioni riguardo alle motivazioni su cui si fonda la sentenza.
Preliminarmente il Collegio conviene con i rilievi, invero peculiarmente incisivi, espressi nella sentenza in ordine all’art. 97, comma 2, del nuovo codice appalti, disposizione assai “poco lineare”, che ha dato luogo a “numerosi dubbi interpretativi”, destinata a condurre, a seconda dell’esito del sorteggio fra i 5 metodi di calcolo della soglia di anomalia ivi previsti, a risultati della gara “radicalmente diversi”, sì che risulta “arduo individuare una logica di sistema della disposizione, nel suo confronto con la realtà della gara, risultando pienamente rispettato il solo criterio dell’imprevedibilità dell’esito”, dal momento che “quasi tutte o quasi nessuna delle offerte ammesse potrebbero essere qualificate ‘anomale’ nella stessa gara a seconda del criterio sorteggiato”.
Giova richiamare nuovamente il testo della disposizione in questione, che alla lettera b), quella estratta dalla Stazione appaltante, prevede (nella versione precedente il “correttivo”, da applicare al caso in esame) la seguente formula per la determinazione della soglia di anomalia:
b) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, tenuto conto che se la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale a zero la media resta invariata; qualora invece la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata percentualmente di un valore pari a tale cifra;” (sottolineature aggiunte).
All’infelicità redazionale della disposizione di cui trattasi ha inteso offrire un contributo migliorativo il richiamato Comunicato stampa del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016, avente ad oggetto “Indicazioni operative in merito alle modalità di calcolo della soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso”, secondo il quale la norma dovrebbe essere letta come se recitasse: “media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, arrotondato all’unità superiore, con esclusione del dieci per cento, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso”, ove tuttavia un Fato maligno pare essersi accanito inserendo un refuso, giacché la parole “arrotondato all’unità superiore” andrebbero chiaramente riferite al “dieci per cento” e collocate dopo questo.
In ogni modo, il Presidente dell’ANAC ha inteso ribadire che per il calcolo della media aritmetica non vanno considerate le offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali.
In definitiva,
il modus procedendi per dare applicazione alla disposizione de qua sembra doversi così ricostruire:
   1. escludere il 10 % (arrotondato all’unità superiore) delle offerte di maggior ribasso e altrettante di quelle di minor ribasso (cd. taglio delle ali);
   2. effettuato il taglio delle ali, sommare i ribassi rimasti, indi calcolarne la media aritmetica;
   3. se la prima cifra dopo la virgola della somma suddetta è una cifra pari, oppure è zero, la media resta invariata; se è dispari, allora la media viene diminuita di una percentuale pari a tale cifra.

EDILIZIA PRIVATA: L’atto con il quale è dichiarata la decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori ovvero per il loro mancato completamento nei termini stabiliti è un atto non discrezionale ma vincolato, tanto più che la decadenza si verifica, per espressa disposizione di legge, “di diritto” e all’autorità comunale non compete altro che dichiararla una volta acclarato il relativo presupposto.
In altri termini, l’atto recante la decadenza è un effetto automatico di un avvenuto e acclarato presupposto di fatto e per l’adozione dello stesso non v’è luogo all’onere di invio della comunicazione di avvio del procedimento , non essendovi spazi per momenti partecipativi del destinatario dell’atto stesso.
Ciò implica che i vizi di carattere formale –e in particolare la dedotta omissione di garanzie procedimentali– non potrebbe giustificare l’annullamento dell’atto che ha dichiarato la decadenza, ove risulti la sussistenza del relativo presupposto, cioè il mancato inizio dei lavori; in presenza di tale presupposto, infatti, la declaratoria di decadenza è un atto interamente vincolato e troverebbe quindi applicazione il principio sancito dall’articolo 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 secondo cui l’atto vincolato non è annullabile per vizi formali allorché risulti che esso non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Per quanta ampiezza si voglia dare alla nozione di “inizio dei lavori”, esso presuppone –e ciò costituisce giurisprudenza amministrativa pacifica– una mutazione fisica dello stato dei luoghi in cui l’opera progettata deve essere realizzata.
Nella fattispecie alcuna modifica sussiste; il ricorrente tuttavia a dimostrazione dell’avvenuto “inizio dei lavori” invoca i fatti sopra indicati; sennonché nessuno di essi implica una effettiva modifica dello stato dei luoghi.
In realtà il ricorrente cerca di accreditare una nozione di “inizio dei lavori” coincidente con quella di animus aedificandi ma ritiene il Collegio che la intenzione di realizzare il progetto –che è d’altra parte già dimostrata dalla richiesta del permesso di costruire e dal pagamento degli oneri concessori– è cosa del tutto diversa da (e quindi non equivale a) “inizio dei lavori”.
Al riguardo va oltretutto aggiunto che, secondo la giurisprudenza, anche recente, l’inizio dei lavori non può essere ancorato a “elementi fittizi o simbolici”, occorrendo l’approntamento del cantiere con il concentramento di uomini e mezzi e lo svolgimento effettivo di attività edilizia e non essendo quindi sufficiente la sola predisposizione di strumenti e materiali di costruzione.
Né appaiono persuasivi gli assunti del ricorrente in ordine alla non ricorrenza delle ragioni che giustificano la previsione della decadenza; la decadenza per mancato inizio dei lavori è infatti prevista dalla legge e la sua declaratoria non richiede verifiche in ordine alla ricorrenza della ratio legis; del resto la decadenza non ha effetti preclusivi; ove effettivamente la normativa urbanistico-edilizia non sia mutata, come sostenuto in ricorso, il ricorrente potrà richiedere e ottenere un nuovo permesso di costruire (come del resto sempre la legge prevede).
---------------

Il ricorso è infondato e dev’essere respinto.
Va premesso che l’atto con il quale è dichiarata la decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori ovvero per il loro mancato completamento nei termini stabiliti è un atto non discrezionale ma vincolato, tanto più che la decadenza si verifica, per espressa disposizione di legge, “di diritto” e all’autorità comunale non compete altro che dichiararla una volta acclarato il relativo presupposto.
In altri termini, l’atto recante la decadenza è un effetto automatico di un avvenuto e acclarato presupposto di fatto e per l’adozione dello stesso non v’è luogo all’onere di invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazi per momenti partecipativi del destinatario dell’atto stesso (cfr. Cons. Stato Sez. IV 11/04/2014 n. 1747; idem Sez. III 474/2013 n. 1870).
Ciò implica che i vizi di carattere formale –e in particolare la dedotta omissione di garanzie procedimentali– non potrebbe giustificare l’annullamento dell’atto che ha dichiarato la decadenza, ove risulti la sussistenza del relativo presupposto, cioè il mancato inizio dei lavori; in presenza di tale presupposto, infatti, la declaratoria di decadenza è un atto interamente vincolato e troverebbe quindi applicazione il principio sancito dall’articolo 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 secondo cui l’atto vincolato non è annullabile per vizi formali allorché risulti che esso non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato.
Quest’ultima è la situazione che si verifica nella fattispecie all’esame.
E infatti il ricorrente nemmeno contesta che nell’area oggetto di intervento non sia stata posta in essere alcuna attività edilizia e del resto dalla documentazione fotografica depositata dal Comune risulta evidente la assenza di qualsiasi modifica fisica dei luoghi.
Ora, per quanta ampiezza si voglia dare alla nozione di “inizio dei lavori”, esso presuppone –e ciò costituisce giurisprudenza amministrativa pacifica– una mutazione fisica dello stato dei luoghi in cui l’opera progettata deve essere realizzata.
Nella fattispecie alcuna modifica sussiste; il ricorrente tuttavia a dimostrazione dell’avvenuto “inizio dei lavori” invoca i fatti sopra indicati; sennonché nessuno di essi implica una effettiva modifica dello stato dei luoghi.
In realtà il ricorrente cerca di accreditare una nozione di “inizio dei lavori” coincidente con quella di animus aedificandi ma ritiene il Collegio che la intenzione di realizzare il progetto –che è d’altra parte già dimostrata dalla richiesta del permesso di costruire e dal pagamento degli oneri concessori– è cosa del tutto diversa da (e quindi non equivale a) “inizio dei lavori”.
Al riguardo va oltretutto aggiunto che, secondo la giurisprudenza, anche recente, l’inizio dei lavori non può essere ancorato a “elementi fittizi o simbolici”, occorrendo l’approntamento del cantiere con il concentramento di uomini e mezzi e lo svolgimento effettivo di attività edilizia e non essendo quindi sufficiente la sola predisposizione di strumenti e materiali di costruzione (Consiglio di Stato, sez. V, 31.08.2017, n. 4150, sez. VI, 19.09.2017, n. 4381).
Né appaiono persuasivi gli assunti del ricorrente in ordine alla non ricorrenza delle ragioni che giustificano la previsione della decadenza; la decadenza per mancato inizio dei lavori è infatti prevista dalla legge e la sua declaratoria non richiede verifiche in ordine alla ricorrenza della ratio legis; del resto la decadenza non ha effetti preclusivi; ove effettivamente la normativa urbanistico-edilizia non sia mutata, come sostenuto in ricorso, il ricorrente potrà richiedere e ottenere un nuovo permesso di costruire (come del resto sempre la legge prevede).
In ordine al mutamento dell’area di cantiere, non vi è praticamente nulla da aggiungere. Una volta verificati i presupposti per la decadenza del permesso di costruire e dichiarata quest’ultimo viene a mancare del tutto il presupposto perché possa autorizzarsi la modifica dell’area di cantiere, sicché anche sotto questo profilo la determinazione dell’amministrazione appare nulla più che un atto dovuto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al Regolamento 10.03.2014 n. 55 (TAR Valle d'Aosta, sentenza 23.01.2018 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Legittimazione e interesse a impugnare le previsioni di uno strumento urbanistico.
Il TAR Milano richiama e fa proprio l’orientamento secondo cui nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza di una generica legitimatio ad causam, non è però sufficiente a fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente).
Tale pregiudizio non può risolversi nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione (e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
È, invece, fondata e va accolta la seconda eccezione di inammissibilità delle tre censure, motivata sul presupposto che i ricorrenti non vanterebbero un interesse qualificato ad impugnare delle previsioni urbanistiche riguardanti degli ambiti di trasformazione che o sarebbero (nel caso degli AT5, AT6 e AT7) “molto distanti dall'immobile dei ricorrenti” (il che addirittura porrebbe in dubbio il presupposto processualmente rilevante della vicinitas), oppure sarebbero state censurate sulla base di una “generica contestazione delle scelte discrezionali dell'Amministrazione Comunale, senza in alcun modo evidenziare quale sia il titolo che legittimerebbe i ricorrenti all'esercizio dell'azione di annullamento” (cfr. pag. 14 della memoria conclusiva del Comune di Porto Ceresio).
Nella replica depositata il 27.11.2017, i ricorrenti hanno opposto che la loro “abitazione (…) è immediatamente a ridosso degli ambiti di trasformazione”, specificando, con riferimento all’AT8, che sarebbe stata prevista “la realizzazione di un collegamento stradale tra la Via Molini di Mezzo e Via degli Alpini”, mentre, per quanto concerne gli AT6 e AT7, l’inerenza con il pregiudizio sarebbe da ravvisare “nell’adiacenza del vicino centro commerciale che è stato in questi anni fonte di pregiudizi per i ricorrenti”, ed infine, con riferimento all’AT5, tale ambito “si trova nell’intorno della proprietà dei ricorrenti” (cfr. pag. 7).
Reputa il Collegio che, a fronte della notevole genericità del pregiudizio lamentato e della mera assertività delle deduzioni formulate dai ricorrenti (anche in sede di replica), sia pertinente il richiamo della difesa comunale all’orientamento condiviso dalla Sezione, ossia che “
nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza di una generica legitimatio ad causam, non è però sufficiente a fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente); tale pregiudizio (...) non può risolversi nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione (e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare)” (così Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2014, n. 2403, che richiama nr. 6082 del 18.12.2013)” (cfr. sentenza 16.01.2017, n. 102, relativa ad una fattispecie nella quale il requisito della vicinitas è stato ritenuto sussistente sia in relazione alle previsioni urbanistiche che avevano disciplinato un mappale confinante, sia a quelle che avevano disciplinato un mappale non immediatamente limitrofo).
È, infine, da respingere anche il sesto motivo, con cui i ricorrenti hanno lamentato il difetto d’istruttoria e di motivazione in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione comunale in occasione dell’esame delle osservazioni presentate nel corso del procedimento di formazione del PGT.
A tal proposito, il Collegio reputa che dirimenti considerazioni derivino dal richiamo alle statuizioni espresse dalla Corte costituzionale in materia di partecipazione al procedimento di formazione dei piani urbanistici.
Nella sentenza n. 23 del 20.03.1978, infatti, il Giudice delle Leggi ha osservato che “
i soggetti privati non partecipano al procedimento formativo dei piani regolatori nella veste di vere e proprie parti, presentando osservazioni "a tutela del proprio interesse" (secondo il criterio enunciato da questa Corte, nella sentenza n. 13 del 1962); ma svolgono attività puramente collaborative, in vista di una più compiuta valutazione degli interessi pubblici in gioco. Non a caso, si considerano irricevibili le osservazioni che non abbiano di mira la soddisfazione delle comuni esigenze cui tendono i piani regolatori, ma consistano in reclami rivolti a difendere particolari interessi privati.
Parallelamente, si esclude che sussista l'obbligo di respingere le osservazioni stesse motivando in maniera specifica e puntuale, ma si suole affermare che basta una motivazione sintetica, nella quale si adducano le ragioni di pubblico interesse che stanno a fondamento della pianificazione progettata. Ed anzi si ritiene sufficiente che l'amministrazione comunale abbia preso comunque in esame i rilievi così presentati; mentre non si configura neanche un dovere di esame, per quanto riguarda le denunce successivamente inviate alle autorità cui spetta l'approvazione del piano
”.
In conclusione, il ricorso è in parte inammissibile e in parte infondato, nei sensi espressi in motivazione.

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie realizzate senza permesso di costruire e su un preesistente immobile abusivo - Prescrizione dei reati - Onere della prova - Art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In tema di prescrizione, grava sull'imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali poter desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti.
Più in particolare, con specifico riferimento al reato di costruzione in assenza di permesso di costruire si è affermato che, «sempre restando a carico dell'accusa l'onere della prova della data di inizio della decorrenza del termine prescrittivo, non basta una mera e diversa affermazione da parte dell'imputato a fare ritenere che il reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l'incertezza sulla data di inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio "in dubio pro reo", atteso che, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell'opera incriminata» (Sez. 3, n. 10562 del 17/04/2000, Fretto) (fattispecie: opere edilizie realizzate senza permesso di costruire e su un preesistente immobile abusivo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.01.2018 n. 2291 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Zona sottoposta a tutela paesaggistica - Rilevanza penale dei volumi tecnici - Impatto a livello di paesaggio - Procedura autorizzatoria semplificata - Artt. 146 e 181 d.lgs. 42/2004 - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Carico urbanistico - Reati di cui all'art. 44, c. 1, d.P.R. n. 380/2001.
In materia di tutela paesaggistica, l'interpretazione finalistica della norma incriminatrice contenuta all'art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004, individua un reato di pericolo rispetto alla realizzazione di lavori che potrebbero incidere sul bene penalmente protetto del paesaggio e che dunque possono essere effettuati soltanto dopo aver conseguito la prescritta autorizzazione ed impone certamente di considerare anche i volumi tecnici.
Benché questi, non comportando carico urbanistico, siano di regola irrilevanti ai fini del giudizio sulla sussistenza dei reati di cui all'art. 44, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, potendo gli stessi determinare un diverso impatto a livello di paesaggio, debbono invece essere considerati, ove emergenti dal terreno e dunque visibili, ai fini del giudizio sulla sussistenza del reato di cui all'art. 181 d.lgs. 42/2004. La conclusione trova conferma nel recente d.P.R. 13.02.2017, n. 31 ("Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata"), che assoggetta anche detti manufatti al rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 146 dello stesso Codice, sia pur prevedendo una procedura semplificata laddove gli stessi abbiano contenuta volumetria.
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Autorizzazione paesaggistica con procedura semplificata - D.P.R. 13/02/2017, n. 31 - Realizzazione di tettoie, porticati, chioschi da giardino di natura permanente e manufatti consimili aperti su più lati, aventi una superficie non superiore a 30 mq - Effetti della declaratoria d'illegittimità costituzionale parziale - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004.
In zona sottoposta a tutela paesaggistica, anche le tettoie aperte sui lati possono compromettere il bene penalmente tutelato e necessitano della previa autorizzazione paesaggistica, da rilasciarsi con la procedura semplificata. Dette opere, tuttavia, non sono suscettibili di essere valutate sul piano della volumetria -che è dimensione geometrica apprezzabile con riguardo alle figure solide tridimensionali, vale a dire a quelle chiuse sui lati- come la stessa disposizione B.17 dell'Allegato B al d.P.R. 31/2017 conferma individuandone l'impatto paesaggistico con riferimento alla sola superficie.
Poiché, dunque, l'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 nel testo risultante a seguito della declaratoria d'illegittimità costituzionale parziale effettuata con sent. Corte cost. n. 56/2016 circoscrive la fattispecie delittuosa ad opere valutabili in termini di volumetria, in omaggio al principio di tassatività, le tettoie debbono ritenersi estranee al suo campo di applicazione, ricadendo invece nella residuale ipotesi contravvenzionale prevista dal primo comma della disposizione.
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente - Limiti volumetrici - Sentenza Corte Cost.. 23/03/2016, n. 56.
Ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente, integra la contravvenzione prevista all'art. 181, d.lgs. 42/2004, tanto in via provvedimentale che per legge, configurandosi invece il delitto previsto dal successivo comma 1-bis nella sola ipotesi di lavori che superino i limiti volumetrici ivi indicati (Sez. 3, n. 33047 del 19/04/2016, Mozer e a.; Sez. 3, n. 38976 del 07/04/2017, Guadagno e a.).
Detti limiti sono alternativamente indicati: nell'aumento superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria; in un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi; nella realizzazione di una nuova costruzione con volumetria superiore a mille metri cubi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.01.2018 n. 2288 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusivismo edilizio - Scriminante dello stato di necessità ai reati urbanistici - Esclusione - artt. 44, lett. c), 83, 93, 94, 95 d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1, d.lgs. 42/2004.
In materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo.
Inoltre, la realizzazione della costruzione abusiva non può essere giustificata dalla mera necessità di evitare un danno alle cose. Fattispecie: realizzazione di un ampliamento edilizio, in assenza dei necessari titoli abilitativi, in zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico.
Reati urbanistici - Tutela del paesaggio e dell'ambiente - Destinazione del suolo - Condizioni economiche disagiate - Ininfluenza.
In materia edilizia, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 28499 del 29/05/2007, Chiarabini; V. anche Sez. 3, n. 19811 del 26/01/2006, Passamonti e altro; Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007, Ferraioli; Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni e altro; Sez. 3, n. 7691del 06/10/2016 (dep. 2017), Di Giovanni; Sez. 3, n. 25036 del 03/03/2016, Botticelli).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Principio del "favor rei" - Decorrenza del termine di prescrizione - Fattispecie: accertamento opere abusive.
Il principio del "favor rei", per cui, nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole all'imputato, va applicato solo in caso di incertezza assoluta sulla data di commissione del reato o, comunque, sull'inizio del termine di prescrizione, ma non quando sia possibile eliminare tale incertezza, anche se attraverso deduzioni logiche, del tutto ammissibili (Sez. 3, n. 1182 del 17/10/2007 (dep. 2008), Cilia).
Nella specie, dalla mera constatazione dell'avvenuta ultimazione delle opere abusive all'atto dell'accertamento non può meccanicamente scaturire una situazione di incertezza sulla data del commesso reato (Sez. 3, n. 7065 del 07/02/2012, Croce).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Diniego attenuanti generiche - Valutazione degli elementi, favorevoli o sfavorevoli - Personalità dell'imputato e la presenza di precedenti penali specifici - Giurisprudenza.
Nel negare il riconoscimento delle attenuanti generiche il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del diniego (v. Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane), con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell'imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi; Sez. 6, Sentenza n. 7707 del 04/12/2003 (dep. 2004), Anaclerio).
Nella fattispecie, i giudici del merito hanno negativamente valutato la personalità dell'imputato e la presenza di precedenti penali specifici (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.01.2018 n. 2280 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE la disciplina del nuovo codice degli appalti che fissa il limite del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto per il ricorso al subappalto.
---------------
Contratti pubblici – Subappalto – Limite del trenta per cento – Disciplina nazionale – Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.
Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), l’articolo 71 della direttiva 2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo18.04.2016, n. 50, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture (1).
---------------
   (1) I.- Con l’ordinanza in epigrafe la sezione I del Tar per la Lombardia ha rimesso alla Corte dell’Unione europea una delicata questione in tema di compatibilità dei limiti nazionali al subappalto, fissati nel trenta per cento dell’importo complessivo del contratto di appalto messo a gara, con i principi eurounitari di proporzionalità, libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi.
   II. La questione è sorta nell’ambito di un contenzioso avviato da un’impresa esclusa da una procedura ristretta, indetta ai sensi dell'art. 61 del codice degli appalti n. 50/2016 per l'affidamento dei lavori di ampliamento di una corsia autostradale. In particolare l’impresa è stata esclusa dalla procedura di gara per aver superato la percentuale del 30% prevista come limite al subappalto dalla normativa nazionale.
Nel ricostruire il quadro ordinamentale partendo dalla disciplina originaria introdotta nel 1990, l’ordinanza mette in luce le conclusioni raggiunte dal parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto correttivo –n. 56 del 2017- al nuovo codice dei contratti (Com. spec., 30.03.2017, n. 782), in cui il Consiglio -dopo aver dato atto della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla direttiva previgente secondo cui il diritto europeo non consente agli Stati membri di porre limiti quantitativi al subappalto– ha precisato che la nuova direttiva 2014/24 consente agli Stati membri di dettare una più restrittiva disciplina del subappalto, avendo introdotto finalità che finora erano state specifiche della legislazione italiana, ossia una maggiore trasparenza e la tutela giuslavoristica.
E’ in tale contesto, secondo il parere del Consiglio di Stato, che andrebbero vagliate e giustificate, tali restrizioni: da un lato, alla luce dei principi di sostenibilità sociale che sono alla base delle stesse direttive, e dall’altro lato, alla luce di quei valori superiori, declinati dall’art. 36 TFUE, che possono fondare restrizioni della libera concorrenza e del mercato, tra cui, espressamente, l’ordine e la sicurezza pubblici.
   III.- Nel richiamare la stessa giurisprudenza della C.g.e., resa peraltro su fattispecie soggette alle previgenti direttive, il Tar di Milano sottopone alla medesima Corte, la questione della compatibilità dell’art. 105, comma 2, terzo periodo, del nuovo codice, rispetto ai principi e alle regole ricavabili dagli articoli 49 e 56 TFUE e dall’art. 71 della nuova direttiva 2014/24/UE.
Secondo l’ordinanza di rimessione in esame, la previsione del limite generale del 30% per il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del contratto, sia per il contratto di lavori, sia per quello di servizi e forniture, impedendo agli operatori economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere (70 %), può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate.
Inoltre, dopo aver richiamato il principio di proporzionalità, il Tar dubita che la misura della limitazione quantitativa del subappalto al 30 % dell’importo complessivo del contratto possa rappresentare lo strumento più efficace ed utile al soddisfacimento dell’obiettivo di assicurare l’integrità del mercato dei contratti pubblici. Analogamente, tale misura risulterebbe sproporzionata, anche avuto riguardo alle finalità di deterrenza dall’infiltrazione criminale in quanto già oggetto di adeguata considerazione dalle attività interdittive affidate ai Prefetti, espressamente destinate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel Paese.
   IV. Sulla disciplina del subappalto, si segnala:
      1. Corte di giustizia dell’UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wroclaw, in Foro it., 2016, IV, 389, secondo cui: “la disciplina europea in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, rappresentata ratione temporis dalla direttiva 2004/18/CE, come modificata, deve essere interpretata nel senso che un'amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d'oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie. Inoltre, l’'art. 98 del regolamento (Ce) 1083/2006 del consiglio, dell'11.07.2006, recante disposizioni generali sul fondo europeo di sviluppo regionale, sul fondo sociale europeo e sul fondo di coesione e che abroga il regolamento (Ce) 1260/1999, in combinato disposto con l'art. 2, punto 7, dello stesso, deve essere interpretato nel senso che il fatto che, nell'ambito di un appalto pubblico di lavori relativi ad un progetto che beneficia di un aiuto finanziario dell'Unione, l'amministrazione aggiudicatrice abbia imposto che il futuro aggiudicatario esegua almeno il venticinque per cento di tali lavori avvalendosi di risorse proprie, in violazione della direttiva 2004/18, costituisce un '"irregolarità" ai sensi di detto art. 2, punto 7, che giustifica la necessità di applicare una rettifica finanziaria ai sensi di detto art. 98, nei limiti in cui non possa escludersi che tale violazione abbia avuto un effetto sul bilancio del fondo interessato; l'importo di tale rettifica deve essere determinato tenendo conto di tutte le circostanze concrete rilevanti alla luce dei criteri citati al par. 2, comma 1, dell'art. 98 di detto regolamento, vale a dire la natura dell'irregolarità constatata, la gravità della stessa e la perdita finanziaria che ne è risultata per il fondo interessato”.
      2. Corte di giustizia dell’UE, sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH (oggetto della News US 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7, di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto (commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n. 1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, come quello oggetto del procedimento principale”;
      3. Corte giustizia dell’UE sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta-UAB, secondo cui “per gli appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto la soglia di applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione che l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile, e il ricorso al subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo. Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in caso di ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori, l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”.
      4. sulla nuova disciplina del subappalto, il parere reso sul nuovo codice dei contratti pubblici da Cons. Stato, comm. spec., 01.04.2016, n. 855 (oltre a quello già citato reso sullo schema di decreto correttivo);
     5. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI; Riv. neldiritto, 2016, 285, con nota di BRICI; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI), resa sulla previgente disciplina, in ordine agli obblighi dichiarativi da assolvere sin dalla presentazione della domanda di partecipazione alla gara con specifico riferimento all’individuazione nominativa del subappaltatore, secondo cui: “in sede di offerta, non è necessaria l'indicazione nominativa dell'impresa subappaltatrice, qualora la concorrente sia sprovvista del requisito di qualificazione per alcune categorie scorporabili e abbia manifestato l'intenzione di subappaltare le relative lavorazioni”.
Con tale affermazione l'Adunanza plenaria ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappalto già in sede di presentazione dell'offerta, anche "nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili" previste dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara;
      6. in dottrina ull’art. 105, comma 2, nuovo codice contratti pubblici, e, più in generale, sul subappalto fra vecchia e nuova disciplina, v. R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488 e 1498 ss..; per la disciplina previgente, A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, Giuffrè, 2015, 1366 ss.; V. Di Iorio, G.A. Giuffrè, Il subappalto, in Manuale di Diritto Amministrativo. IV. I contratti pubblici, a cura di F. Caringella, M. Giustiniani, Roma, Dike, 2014, 1378 ss.;
      7. sulla competenza legislativa fra stato e regioni specie anche avuto riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS 2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA), secondo cui: “sono costituzionalmente illegittimi gli art. 57, 58, 59 e 60 l.reg. Sardegna 07.08.2007 n. 5. Premesso che la disciplina degli appalti pubblici, intesa in senso complessivo, include diversi "ambiti di legislazione, con conseguente interferenza fra materie di competenza statale e materie di competenza regionale -interferenza che, tuttavia, si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi normalmente in un intreccio in senso stretto, ma con la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa in relazione agli oggetti riconducibili alla competenza esclusiva statale, esercitata con le norme recate dal d.lgs. n. 163 del 2006- e premesso altresì che lo statuto della regione Sardegna, all'art. 3, lett. e), attribuisce alla medesima una competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse regionale, alla quale non appartengono le norme relative alle procedure di gara ed all'esecuzione del rapporto contrattuale, che costituiscono invece oggetto delle disposizioni del citato d.lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti), alle quali, pertanto, il legislatore regionale dovrebbe adeguarsi, le disposizioni censurate ledono la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, in quanto, esorbitando dai limiti della potestà legislativa esclusiva regionale in materia di lavori pubblici di interesse regionale, regolano, rispettivamente, la consegna dei lavori, l'inizio delle prestazioni del fornitore o del prestatore di servizi, la sospensione dell'esecuzione, il subappalto, il collaudo e la regolare esecuzione delle commesse, nonché il collaudo dei lavori pubblici, in modo difforme da quanto stabilito dallo Stato nelle corrispondenti norme del d.lgs. n. 163 del 2006. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura” (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, ordinanza 19.01.2018 n. 148 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIL'azione spetta alla Corte dei conti. RESPONSABILITA'/ Incarichi di consulenza.
Spetta alla Corte dei Conti l'azione di responsabilità nei confronti di un Sindaco che ha conferito ad un professionista esterno un incarico di consulenza.

Lo ha affermato una volta per tutte la Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili con la sentenza 18.01.2018 n. 1198.
Nel caso in esame il Sindaco del comune di San Benedetto del Tronto aveva proposto ricorso per ragioni di giurisdizione contro una sentenza della Sezione centrale di Appello della Corte dei Conti che lo aveva ritenuto responsabile, insieme al dirigente del settore pianificazione del territorio ed urbanistica, di aver determinato un danno erariale.
In particolare nella decisione si era contestata la 'non giustificata erogazione di corrispettivi' ad un professionista esterno nel corso di più anni, per un incarico di consulenza non considerando che analogo incarico, per materia pressoché identica, era stato conferito in precedenza ad un diverso professionista.
Il ricorrente aveva eccepito sia l'insindacabilità delle scelte politiche, in quanto espressione dell'autonomia di cui godrebbe l'amministrazione comunale nella decisione di affidare l'incarico di consulenza a professionisti esterni sia l'assoluta carenza di giurisdizione, contestando il fatto che la Procura contabile avrebbe iniziato la propria attività istruttoria solo sulla base di 'orientati' articoli di stampa e non, come stabilito dall'art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 78/2009, a seguito di una specifica e concreta notizia di danno. La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.
Secondo le Sezioni Unite, infatti, la valutazione della Corte dei Conti si è mantenuta nel suo ristretto ambito, là dove ha sottolineato che la discrezionalità della scelta “politica” di gestire la programmazione urbanistica mediante affidamento di incarichi a professionisti esterni all'amministrazione locale, non poteva non tener conto del precedente incarico, per il quale erano stati pagati già cospicui acconti.
Infine, ancor più estraneo a questioni attinenti alla giurisdizione è il secondo rilievo eccepito relativo alle ragioni di fatto per le quali si diede inizio al procedimento per l'accertamento del danno: ogni notizia infatti va, comunque, delibata dalla Procura regionale, non incidendo in alcun modo sui risultati istruttori poi sottoposti al vaglio della Corte contabile (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

APPALTI: Sulla decorrenza del termine per impugnare gli atti di ammissione dalla gara nel caso in cui alla relativa seduta è presente il rappresentante della ditta.
Sulla questione della decorrenza del termine per impugnare gli atti di ammissione ed esclusione alla procedura di gara, secondo il cosiddetto rito super-accelerato, considerata la specialità della normativa e il carattere derogatorio dei principi in materia di impugnativa di cui all'art. 120, c. 2-bis, del c.p.a., non è sufficiente a far decorrere l'onere di impugnare il provvedimento di ammissione dalla gara la sola presenza di un rappresentante della ditta controinteressata alla seduta in cui viene disposta l'ammissione.
Tale presenza determina al più la conoscenza del provvedimento di ammissione e di quanto ivi emerso, oltre alla mera conoscibilità di eventuali ulteriori profili di illegittimità all'esito di successive indagini, ma non certamente la percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove esistenti, inficino le relative determinazioni.
Stante l'indicato carattere derogatorio, infatti, il criterio dell'effettiva completa conoscenza dell'atto impugnabile, comprensivo di tutti gli aspetti di lesività e illegittimità dello stesso, deve essere applicato in modo restrittivo, ai soli casi in cui, per gli elementi emersi nella seduta di gara, si evince che la parte dovesse essere sin da allora pienamente consapevole dei profili di illegittimità sollevabili (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.01.2018 n. 394 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, domanda con la Pec. Illegittimo invece richiedere anche la firma digitale. Sentenza del Tar Sicilia sulle modalità di presentazione dell'istanza di partecipazione.
È sufficiente presentare la domanda di partecipazione a un concorso mediante Pec e risulta, invece, illegittimo chiedere di imporre anche la firma digitale.

Questo è quanto ha sancito il TAR Sicilia-Palermo, Sez. I con la sentenza 18.01.2018 n. 167.
La questione verte proprio sulla idoneità o meno di una domanda di partecipazione ad un concorso pubblico trasmessa dall'interessato a mezzo di propria casella di Posta elettronica certificata (Pec) ma in assenza di apposizione di firma nella copia cartacea scansionata, ovvero nei relativi allegati (tra cui copia della propria carte di identità), ed anche in assenza di apposizione di firma digitale.
Il Tribunale amministrativo sancisce la legittimità di tale domanda.
La soluzione della controversia va cercata, infatti, nell'ambito di applicazione della circolare n. 2/2010, con cui il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del consiglio dei ministri ha dettato specifiche indicazioni, chiarimenti e criteri interpretativi sull'utilizzo della Pec per le procedure concorsuali con particolare riferimento alle modalità di presentazione della domanda di ammissione ai concorsi pubblici indetti dalle amministrazioni.
Nel contesto di tale specifico settore, il ministro per la Pubblica amministrazione e l'innovazione ha avuto modo di chiarire che «nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 4 del dpr n. 487/1994, pertanto, l'inoltro tramite posta certificata di cui all'art. 16-bis del dl n. 185/2008 (vedi sopra lettera c-bis) è già sufficiente a rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a ritenere la stessa regolarmente sottoscritta».
Pertanto, non può che essere ritenuta illegittima la disposizione di un bando nella parte in cui prevede l'esclusione del candidato a seguito di invio della domanda di partecipazione mediante posta elettronica certificata ma in assenza di apposizione di firma scansionata sull'istanza, dal momento che tale previsione non appare coerente con le disposizioni appena illustrate.
Secondo quanto sopra evidenziato, l'utilizzo di una casella di posta elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere soddisfatto il requisito della apposizione della firma (articolo ItaliaOggi Sette del 29.01.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIAppalti, il professionista pesa. Il curriculum può incidere sulla valutazione dell'offerta. Sentenza del Consiglio di stato interviene sulle gare di servizi. Stessa facoltà per l'impresa.
Negli appalti di servizi, il curriculum dell'impresa o del professionista può incidere sulla valutazione dell'offerta. Ma lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell'appalto, non deve incidere in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.

Questo l'importante principio che emerge dalle lettura della sentenza 17.01.2018 n. 279 del Consiglio di Stato, -Sez. V- in merito all'inserimento del requisito dell'esperienza dell'impresa partecipante al bando di gara tra quelli presi in considerazione per la valutazione globale dell'offerta.
Il fatto in sintesi: i giudici del Consiglio di stato sono stati chiamati a esprimersi su un contenzioso riguardante una gara d'appalto, destinata ad alcune società sportive, per l'affidamento in concessione di un parco e dei relativi impianti. Il Consiglio di stato ha considerato ammissibile che nella valutazione delle offerte il comune prendesse in considerazione l'esperienza pregressa di una delle due società sportive.
Per la selezione dell'offerta, sottolineano i giudici di palazzo Spada, si possono prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo. Concernenti, in particolare, la specifica attitudine del concorrente (anche sulla base di analoghe esperienze pregresse) a realizzare lo specifico progetto oggetto di gara.
La possibilità di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo riguarda solo gli appalti di servizi; sempre che ricorrano determinate condizioni, come nel caso in cui aspetti dell'attività dell'impresa possano effettivamente illuminare la qualità dell'offerta. Inoltre, lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell'appalto, non deve incidere in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.
Negli appalti di lavori pubblici, i curricula dell'impresa o dei tecnici che collaborano con essa devono essere valutati solo nella fase della qualificazione, cioè quando la stazione appaltante decide chi ammettere alla gara. Nella fase successiva di valutazione delle offerte si deve invece valutare solo la qualità dei progetti presentati. Il punteggio attribuito dalla stazione appaltante deve essere, quindi, correlato solo alle soluzioni presentate e non ad altri requisiti, come l'esperienza pregressa o il possesso di certificazioni di qualità.
L'esperienza del personale di una società incide sulla prestazione oggetto dell'appalto. In questo caso, «il merito tecnico dell'offerta è riferito alla qualità delle risorse umane che l'offerente intende mettere a disposizione nell'esecuzione dell'appalto».
In linea generale il divieto di commistione tra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione dell'offerta trae origine dalla giurisprudenza comunitaria che aveva sottolineato la necessità di operare un'adeguata separazione tra fase di selezione dell'offerente, basata su criteri di idoneità, e fase di selezione dell'offerta, fondata su criteri di aggiudicazione. La giurisprudenza nazionale con la sentenza in commento ha declinato il principio comunitario così chiaramente espresso, adeguandolo a situazioni specifiche nelle quali è stata ammessa la possibilità di considerare, in fase di valutazione dell'offerta, aspetti che rientrerebbero nei requisiti di partecipazione (articolo ItaliaOggi del 06.02.2018).
---------------
MASSIMA
Sul punto, la giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che “
Nelle gare pubbliche è indebito includere, tra i criteri di valutazione delle offerte, elementi attinenti alla capacità tecnica dell’impresa (certificazione di qualità e pregressa esperienza presso soggetti pubblici e privati), anziché alla qualità dell’offerta, alla luce dei principi ostativi ad ogni commistione fra i criteri soggettivi di prequalificazione e criteri afferenti alla valutazione dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione, in funzione dell’esigenza di aprire il mercato, premiando le offerte più competitive, ove presentate da imprese comunque affidabili, anche allo scopo di dare applicazione al canone della par condicio, vietante asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente soggettivo; di qui la necessità di tenere separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da quelli pertinenti all’offerta ed all’aggiudicazione, non potendo rientrare tra questi ultimi i requisiti soggettivi in sé considerati, avulsi dalla valutazione dell’incidenza dell’organizzazione sull’espletamento dello specifico servizio da aggiudicare” (in tal senso si veda Consiglio di Stato, V, 20.08.2013 n. 4191; Consiglio di Stato, 12.11.2015, n. 5181; TAR Lazio 20.01.2016, n. 19; TAR Veneto, 19.01.2016, n. 30).
In linea generale
il divieto di commistione tra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione dell’offerta trae origine da quella giurisprudenza comunitaria che aveva sottolineato la necessità di operare un’adeguata separazione tra fase di selezione dell’offerente, basata su criteri di idoneità, e fase di selezione dell’offerta, fondata su criteri di aggiudicazione. La giurisprudenza domestica ha declinato il principio comunitario così chiaramente espresso, adeguandolo a situazioni specifiche nelle quali è stata ammessa la possibilità di considerare, in fase di valutazione dell’offerta, aspetti che rientrerebbero nei requisiti di partecipazione.
Tale criterio, che si pone anche a tutela delle capacità competitive delle piccole e medie imprese che presentano un profilo esperienziale meno marcato, è quello che ha scelto il legislatore nel d.lgs. n. 50/2016 laddove prevede, tra i criteri di selezione utilizzabili, “l’organizzazione, le qualifiche e l’esperienza del personale effettivamente utilizzato nell’appalto, qualora la qualità del personale incaricato possa avere un’influenza significativa sul livello di esecuzione dell’appalto”.
E’ vero che il principio della netta separazione tra criteri soggettivi di prequalificazione e criteri di aggiudicazione della gara può essere interpretato “cum grano salis”, per cui dunque le Stazioni appaltanti -nei casi in cui ravvisino l’opportunità che determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l’oggetto del contratto, siano valutate anche per la selezione dell’offerta- possono prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell’offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti, in particolare, la specifica attitudine del concorrente, anche sulla base di analoghe esperienze pregresse, a realizzare lo specifico progetto oggetto di gara.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, tuttavia, la possibilità di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell’offerta tecnica di tipo soggettivo riguarda solo gli appalti di servizi e sempre che ricorrano determinate condizioni, come nel caso in cui aspetti dell’attività dell’impresa possano effettivamente illuminare la qualità dell’offerta; inoltre, lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell’aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell’appalto, non deve incidere in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.

Alla luce delle rammentate coordinate ermeneutiche, la Sezione rileva come ritenere, in base alla prospettazione dell’appellata, che l’Amministrazione abbia inserito tra i requisiti di valutazione dell’offerta il requisito di esperienza dell’impresa, attribuendo a tale profilo un punteggio preponderante, porterebbe inevitabilmente a confondere i requisiti soggettivi di partecipazione alla gara con gli elementi e i criteri oggettivi di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in violazione della normativa comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici.
Venendo in rilievo nel caso di specie un appalto di servizi, deve, dunque, ritenersi possibile che il bando prevedesse anche elementi di valutazione dell’offerta tecnica di tipo soggettivo e attinenti alla capacità tecnica della concorrente, desumibile dalla sua pregressa e concreta esperienza nella gestione di altre strutture sportive, come difatti avvenuto in relazione ai criteri di cui ai punti B.1.4. e B.1.5.
L’opzione prospettata può, inoltre, essere condivisa anche nel senso di
ritenere che l’esperienza valutabile, ai fini dell’attribuzione del punteggio dell’offerta tecnica, sia quella riferita al personale della società concorrente, in quanto l’offerta di quest’ultima di assicurare la prestazione oggetto dell’appalto di servizi si rende possibile proprio attraverso il personale chiamato ad eseguirla: sicché il merito tecnico dell’offerta non può che essere riferito alla qualità delle risorse umane che l’offerente intende mettere a disposizione nella esecuzione dell’appalto, conformemente al criterio di selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa previsto dall’art. 95, comma 6, lett. e), del d.lgs. n. 50 del 2016 (cfr. TAR Campobasso, 09.12.2016, n. 513).
In tal senso, dunque, l’esperienza pregressa, valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio, era anche quella del personale dell’associazione, di cui al punto B.1.3. che faceva difatti riferimento proprio alla “qualificazione di istruttori e allenatori” e in cui per la determinazione del punteggio la lettera di invito rinviava alla documentazione prodotta a corredo (vale a dire il curriculum attestante l’esperienza acquisita mediante eventi, manifestazioni sportive o partecipazione a tornei).
Gli altri criteri indicati nella lettera di invito devono, invece, essere interpretati come requisiti progettuali, afferenti al progetto di gestione e all’offerta tecnica oggetto di valutazione.
Siffatta ricostruzione garantisce una corretta proporzione nell’attribuzione del punteggio assegnato all’attività svolta e all’esperienza pregressa, ovvero ai requisiti in possesso dell’impresa, e agli elementi oggettivi di valutazione dell’offerta e, di conseguenza, l’aggiudicazione all’impresa che abbia formulato l’offerta tecnica migliore.
Ed invero,
l’inserimento di requisiti di esperienza tra i criteri di valutazione dell’offerta, ammissibile soltanto per gli appalti di servizi e nei limiti su indicati, è consentita a condizione che lo specifico punteggio assegnato per l’attività svolta, con oggetto analogo a quella dell’appalto da affidarsi, non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.
Né può essere invocata per scalfire una siffatta interpretazione, fondata sul contenuto testuale delle clausole della lex specialis e sulla loro lettura sistematica, nonché sul
pacifico orientamento giurisprudenziale in materia di divieto di commistione tra i criteri soggettivi di qualificazione e i criteri oggettivi di valutazione dell’offerta, la nota di chiarimenti del Comune del 25.11.2016.
A tale conclusione si perviene, anzitutto, in ragione del consolidato orientamento del giudice amministrativo, in base al quale
i chiarimenti forniti dalla Stazione appaltante aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati sono ammissibili purché non modifichino la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, cristallizzata nella lex specialis, avendo i medesimi una mera funzione di illustrazione delle regole già formate e predisposte dalla disciplina di gara, senza alcuna incidenza in termini di modificazione o integrazione delle condizioni di gara (si veda in tale senso Consiglio di Stato n. 978 del 02.03.2017; Cons. Stato, V, n. 735 del 2017; Cons. St., III, 13.01.2016, n. 74; Cons. St., III, 20.04.2015, n. 1993; Id., VI, 15.12.2014, n. 6154; Cons. St., Sez. VI, 15.12.2014, n. 6154; id., Sez. V, 31.10.2012, n. 5570 e 13.07.2010, n. 4526).
L’ammissibilità dei chiarimenti va invece esclusa allorquando, mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed un portata diversa o maggiore rispetto a quella che risulta dal testo, in quanto in tema di gare d’appalto le uniche fonti della procedura sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati: ne consegue che i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono né modificarle, né integrarle, assumendo carattere vincolante per la Commissione giudicatrice (Cons. St., V, 23.09.2015, n. 4441); dette fonti devono essere interpretate ed applicate per quello che oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire rilevanza atti interpretativi postumi della stazione appaltante.
Ed invero,
i chiarimenti della Stazione appaltante possono sì costituire interpretazione autentica con cui l’Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, meglio delucidando le previsioni della lex specialis, come sostenuto dall’appellata (anche richiamando pronunzie di questo Consiglio sul punto: Cons. Stato, III, 22.01.2014, n. 290; Cons. Stato, IV, 21.01.2013, n. 341): ciò è tuttavia consentito soltanto nelle ipotesi in cui non sia ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dall’Amministrazione ed il tenore delle clausole chiarite (Cons. St., Sez. IV, 14.04.2015, n. 1889), in caso di contrasto dovendo darsi prevalenza alle clausole della lex specialis e al significato desumibile dal tenore delle stesse, per quello che oggettivamente prescrivono.
In secondo luogo, si osserva che i chiarimenti in questione, visto il loro contenuto, non consentono affatto di attribuire univocamente ai criteri di valutazione indicati dalla lettera di invito, alla sezione B.1.2., la qualificazione di requisiti di esperienza, riferiti alla mera attività già svolta, escludendo qualsivoglia riferimento alla dimensione progettuale e all’attività da svolgersi nell’impianto da affidare in concessione e destinata alle fasce deboli e alle categorie protette, come sostenuto dall’appellata.

APPALTI: Le stazioni appaltanti possono prevedere nel bando anche elementi di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo nei casi in cui ravvisino l'opportunità che determinate caratteristiche soggettive del concorrente, siano valutate anche per la selezione dell'offerta.
  
Sull'ammissibilità dei chiarimenti forniti dalla Stazione appaltante aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati, purché non modifichino la disciplina dettata per lo svolgimento della gara.
  
In linea generale il divieto di commistione tra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione dell'offerta trae origine da quella giurisprudenza comunitaria che aveva sottolineato la necessità di operare un'adeguata separazione tra fase di selezione dell'offerente, basata su criteri di idoneità, e fase di selezione dell'offerta, fondata su criteri di aggiudicazione.
La giurisprudenza domestica ha declinato il principio comunitario così chiaramente espresso, adeguandolo a situazioni specifiche nelle quali è stata ammessa la possibilità di considerare, in fase di valutazione dell'offerta, aspetti che rientrerebbero nei requisiti di partecipazione. Tale criterio, che si pone anche a tutela delle capacità competitive delle piccole e medie imprese che presentano un profilo esperienziale meno marcato, è quello che ha scelto il legislatore nel d.lgs. n. 50/2016 laddove prevede, tra i criteri di selezione utilizzabili, "l'organizzazione, le qualifiche e l'esperienza del personale effettivamente utilizzato nell'appalto, qualora la qualità del personale incaricato possa avere un'influenza significativa sul livello di esecuzione dell'appalto".
E' vero che il principio della netta separazione tra criteri soggettivi di prequalificazione e criteri di aggiudicazione della gara può essere interpretato "cum grano salis", per cui dunque le Stazioni appaltanti -nei casi in cui ravvisino l'opportunità che determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l'oggetto del contratto, siano valutate anche per la selezione dell'offerta- possono prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti, in particolare, la specifica attitudine del concorrente, anche sulla base di analoghe esperienze pregresse, a realizzare lo specifico progetto oggetto di gara.
Tuttavia, la possibilità di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo riguarda solo gli appalti di servizi e sempre che ricorrano determinate condizioni, come nel caso in cui aspetti dell'attività dell'impresa possano effettivamente illuminare la qualità dell'offerta; inoltre, lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell'appalto, non deve incidere in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.
  
I chiarimenti forniti dalla Stazione appaltante aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati sono ammissibili purché non modifichino la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, cristallizzata nella lex specialis, avendo i medesimi una mera funzione di illustrazione delle regole già formate e predisposte dalla disciplina di gara, senza alcuna incidenza in termini di modificazione o integrazione delle condizioni di gara.
L'ammissibilità dei chiarimenti va invece esclusa allorquando, mediante l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed un portata diversa o maggiore rispetto a quella che risulta dal testo, in quanto in tema di gare d'appalto le uniche fonti della procedura sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati: ne consegue che i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono né modificarle, né integrarle, assumendo carattere vincolante per la Commissione giudicatrice; dette fonti devono essere interpretate ed applicate per quello che oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire rilevanza atti interpretativi postumi della stazione appaltante.
Ed invero, i chiarimenti della Stazione appaltante possono sì costituire interpretazione autentica con cui l'Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, meglio delucidando le previsioni della lex specialis: ciò è tuttavia consentito soltanto nelle ipotesi in cui non sia ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dall'Amministrazione ed il tenore delle clausole chiarite, in caso di contrasto dovendo darsi prevalenza alle clausole della lex specialis e al significato desumibile dal tenore delle stesse, per quello che oggettivamente prescrivono (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2018 n. 279 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIBandi. Impugnati i 30 giorni a Bruxelles.
Corte europea chiamata a giudicare la compatibilità con le normativa Ue della norma che obbliga a impugnare entro 30 giorni l'ammissione o la non dichiarata esclusione da una gara pubblica di un concorrente.

A chiederlo è il TAR Piemonte con l'ordinanza 17.01.2018 n. 88 della prima sezione in merito al disposto dell'articolo 120, art. 2-bis codice del processo amministrativo, introdotto dall'art. 204 del codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016), che ha previsto il rito super accelerato contro gli atti di ammissione ed esclusione dei concorrenti dalla gara di appalto.
L'obiettivo della disposizione è quello di consentire la definizione del giudizio definendo prima dell'aggiudicazione la platea dei soggetti ammessi alla gara. Un obiettivo realizzato però -secondo i giudici- in evidente violazione delle norme comunitarie. In particolare, l'attuale sistema impone di impugnare il provvedimento di ammissione di tutte le altre ditte partecipanti; proporre il relativo ricorso in una fase del procedimento in cui la cognizione dei documenti di gara degli altri concorrenti è resa problematica dalla disciplina dettata nell'art. 53 del codice dei contratti pubblici, la condotta del pubblico ufficiale o degli incaricati di pubblico inosservante del divieto.
Inoltre, la disciplina nazionale richiede di formulare censure contro ogni atto di ammissione, per evitare di incorrere nell'inammissibilità di un ricorso cumulativo. Quindi: tanti ricorsi quante sono le ditte ammesse con la conseguenza di dover versare il contributo unificato per ogni ricorso.
È evidente per i giudici la funzione dissuasiva all'azione giurisdizionale indotta dal cumulo di tributi giudiziari dovuti in caso di impugnazione separata degli atti di ammissione e di aggiudicazione nell'ambito della stessa procedura di gara. Appare quindi netto il contrasto con il principio di effettività sostanziale della tutela assicurato dalla direttiva recepita (89/665), nel momento dell'aggiudicazione (articolo ItaliaOggi del 31.01.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE l’accertamento della compatibilità, con il diritto dell’Unione, dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
---------------
Giustizia amministrativa – Appalti pubblici – Rito speciale in materia di ammissioni ed esclusioni – Onere di immediata impugnazione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Devono essere rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali:  
   a) se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, ostino ad una normativa nazionale, quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che impone all’operatore che partecipa ad una procedura di gara di impugnare l’ammissione/mancata esclusione di un altro soggetto, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento con cui viene disposta l’ammissione/esclusione dei partecipanti;  
  
b) se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, osti ad una normativa nazionale quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che preclude all’operatore economico di far valere, a conclusione del procedimento, anche con ricorso incidentale, l’illegittimità degli atti di ammissione degli altri operatori, in particolare dell’aggiudicatario o del ricorrente principale, senza aver precedentemente impugnato l’atto di ammissione nel termine suindicato (1).
 ---------------
  
(1) I. - Con l’ordinanza in epigrafe, la prima sezione del Tar per il Piemonte deferisce alla Corte di giustizia UE la questione della compatibilità con il diritto europeo dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che impone all’operatore economico, che partecipa ad una procedura di gara, la immediata impugnazione delle ammissioni degli altri concorrenti, precludendo la loro contestazione al momento dell’aggiudicazione. 
I fatti di causa che hanno portato al rinvio pregiudiziale possono essere sintetizzati nei seguenti termini:
   - un Consorzio intercomunale per la gestione di servizi sociali ha bandito una gara per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla quale hanno partecipato otto concorrenti;
   - la stazione appaltante ha pubblicato sul profilo del committente e comunicato individualmente agli operatori economici l’atto di ammissione dei concorrenti alla procedura, ha poi svolto la procedura selettiva ed ha quindi aggiudicato la gara alla prima graduata;
   - l’impresa seconda graduata, che non aveva posto in essere alcuna impugnativa dell’atto di ammissione dei concorrenti alla procedura, ha gravato l’aggiudicazione davanti al Tar per il Piemonte, proponendo censure avverso gli atti di gara e l’aggiudicazione e lamentando altresì la mancata esclusione del RTI risultato aggiudicatario, per assenza in capo alle ditte mandanti di requisiti di partecipazione; in particolare la ricorrente ha contestato: la presentazione da parte del RTI aggiudicatario di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quanto previsto dalla normativa di gara, ritenendo che sul punto non fosse peraltro attivabile il soccorso istruttorio (1° motivo); la carenza in capo a due mandanti del RTI di requisiti di fatturato nella misura richiesta (2° e 3° motivo); l’attribuzione dei punteggi in relazione all’offerta tecnica dell’aggiudicatario (4° motivo); il mancato svolgimento della verifica di anomalia (5° motivo) e, infine, l’illegittima composizione della commissione di gara (6° motivo);
   - sono stati presentati motivi aggiunti, che riproducono sostanzialmente le censure già articolate nel ricorso introduttivo del giudizio, mentre non risulta proposto ricorso incidentale;
   - la stazione appaltante e il controinteressato hanno eccepito la irricevibilità del ricorso, in quanto proposto avverso l’aggiudicazione definitiva, mentre, vertendo su questioni di ammissione alla procedura, avrebbe dovuto essere proposto entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione dell’atto di ammissione dei concorrenti alla gara, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.;
   - il Tar ha pronunciato sentenza non definitiva nella quale ha, in primo luogo, esaminato e respinto le censure avverso le operazioni di gara e l’aggiudicazione, in particolare ritenendo infondati i motivi 1°, 4°, 5° e 6° sopra indicati; passando poi all’esame dei motivi 2° e 3°, attinenti alla carenza in capo a società mandanti del RTI di requisiti di fatturato specifico richiesti a pena di esclusione per partecipare alla procedura di gara, il collegio, dopo aver premesso che l’applicazione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. avrebbe condotto in relazione a dette doglianze alla declaratoria di irricevibilità per tardività del ricorso, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE e sospeso il giudizio, ritenendo rilevante e decisiva la questione di compatibilità della suddetta normativa con il diritto europeo;
   - dando seguito a quanto previsto nella sentenza non definitiva, con l’ordinanza in esame il Tar ha quindi rimesso la questione di compatibilità comunitaria alla Corte UE.
   II. – Nell’ordinanza di rimessione il Tar per il Piemonte procede ad una preliminare ricognizione della normativa nazionale, ne evidenzia la prevalente interpretazione, richiama quindi la disciplina europea, costituente parametro di raffronto per la valutazione di compatibilità, giungendo alla conclusione della necessità di sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia UE. Il percorso motivazionale dell’ordinanza si articola secondo i seguenti passaggi argomentativi: 
      a) in base al combinato disposto degli artt. 120, comma 2-bis, c.p.a. e 29 d.lgs. n. 50/2016 la ditta partecipante ad una gara, che vuole contestare l’ammissione di un altro partecipante, lamentando il difetto dei requisiti soggettivi e di quelli economico-finanziari e tecnico-professionali e, quindi, rilevare l’illegittimità della decisione della stazione appaltante di non escluderlo, come nella specie, deve proporre ricorso entro 30 giorni dalla comunicazione del relativo provvedimento ex art. 29 d.lgs. 50/2016;
 
      b) la richiamata disciplina presenta alcuni profili di criticità poiché, da un lato, le suddette norme finiscono per imporre ad un soggetto partecipante alla gara un onere “inutile” in relazione all’interesse finale perseguito da chi partecipa, cioè l’aggiudicazione dell’appalto, analogamente a quando sia censurata la mancata esclusione di una ditta partecipante che, tuttavia, conclusa la gara, non risulti aggiudicataria ovvero allorquando sia il ricorrente, a conclusione del procedimento, a trovarsi in una posizione tale da non avere alcun interesse a contestare l’aggiudicazione; dall’altro lato, quando nessuna ditta partecipante faccia valere tempestivamente la mancata esclusione di altro concorrente, che risulti poi aggiudicatario, è successivamente preclusa la possibilità di fare valere vizi relativi all’illegittima ammissione dell’aggiudicataria, potendo quindi conseguire l’aggiudicazione una ditta priva dei requisiti di partecipazione;
 
      c) secondo l’orientamento prevalente (formatosi in merito alla nuova disciplina), il rito c.d. super accelerato previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., è da ritenersi conforme ai principi costituzionali; fa emergere, anticipatamente rispetto alla conclusione della gara, un distinto interesse di natura strumentale che, comunque, rimane proprio e personale del concorrente, e quindi differenziato dall’interesse generale alla correttezza e trasparenza delle procedure di gara; tutela un interesse legittimo che si risolve in una posizione non solo “differenziata” ma anche “qualificata” (qualificazione che nel caso in esame è legata alla configurazione bifasica ideata dal legislatore, con distinzione tra ammissione dei concorrenti e aggiudicazione della gara); è conforme alla giurisprudenza della Corte costituzionale nella parte in cui ha ritenuto legittime, in materia di appalti, forme celeri per la definizione delle controversie amministrative ovvero di abbreviazione dei termini, nella misura in cui venga assicurato il rispetto di alcuni valori processuali fondamentali, quali, in primo luogo, l’integrità del contraddittorio nonché la completezza e sufficienza del quadro probatorio;
 
      d) gli artt. 6 e 13 della CEDU garantiscono il diritto ad un giusto ed effettivo processo, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce il diritto dell’individuo ad “un ricorso effettivo davanti ad un giudice”, l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, modificato dall’art. 1 Dir. 2007/66/CE, in materia di appalti, nel quadro della previsione secondo cui gli Stati devono garantire che le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace, in particolare stabilisce, al comma terzo, che “gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”;
 
      e) il diritto europeo, ed in ispecie l'art. 1, comma 3, cit., riconnette quindi espressamente e chiaramente il principio di effettività della tutela delle posizioni soggettive di derivazione europea in materia di appalti alla nozione di interesse, richiedendo che l’azione sia volta a soddisfare un interesse attuale e concreto del soggetto ricorrente, che agisce a tutela di una sua lesione al bene della vita costituito dall’aggiudicazione della gara di appalto cui ha partecipato;
 
      f) corollario indefettibile di detto principio è che la tutela giurisdizionale può (e deve) esserci solo ove vi sia stata una lesione di un diritto o di un interesse legittimo e sussista un interesse, concreto ed attuale, ad una pronuncia dell’autorità giudiziaria e che il legislatore non potrebbe mai imporre al privato cittadino di azionare lo strumento processuale prima che detta lesione concreta e attuale di un diritto o di un interesse legittimo sia reale ed effettiva;
 
      g) ne consegue che il principio di effettività sostanziale non può dirsi rispettato quando la possibilità di contestare le decisioni delle amministrazioni giudicatrici sia affidata all’iniziativa di soggetti che non hanno alcuna garanzia di poter ricavare vantaggi materiali dal favorevole esito della controversia o che addirittura potrebbero correre il rischio di favorire propri concorrenti, come potrebbe accadere qualora il ricorso contro l’atto di ammissione alla gara sia stato proposto da uno dei concorrenti poi collocati in posizione non utile ai fini dell’aggiudicazione;
 
      h) le norme censurate hanno pertanto introdotto una tipologia di contenzioso che si qualifica per essere un giudizio di diritto oggettivo, contrario ai principi comunitari sopra richiamati, che forgiano il diritto di azione come diritto del solo soggetto titolare di un interesse attuale e concreto, interesse che, nell’ipotesi delle gare di appalto, consiste unicamente nel conseguimento dell’aggiudicazione, o, al più, quale modalità strumentale al perseguimento del medesimo fine, nella chance derivante dalla rinnovazione della gara;
 
      i) il soggetto privato obbligato a proporre un giudizio secondo lo schema del rito “superaccelerato” non solo non ha un interesse concreto ed attuale ad una pronuncia dell’autorità giudiziaria, ma subisce anche un danno dall’applicazione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non solo con riferimento agli esborsi economici ingentissimi collegati alla proposizione di plurimi ricorsi avverso l’ammissione di tutti i concorrenti alla gara, ma anche per la potenziale compromissione della propria posizione agli occhi della Commissione di gara destinataria dei plurimi ricorsi, che è chiamata nelle more del giudizio a valutare l’offerta tecnica del ricorrente; e per le nefaste conseguenze in merito al rating d’impresa disciplinato dall’art. 83 d.lgs. n. 50/2016, che individua come parametro di giudizio (negativo) l’incidenza dei contenziosi attivati dall’operatore economico nelle gare d’appalto;
 
      j) la violazione dei principi comunitari si ravvisa anche in quanto l’attuale sistema impone a ogni ditta concorrente di impugnare il provvedimento di ammissione di tutte le altre ditte partecipanti, di proporre il relativo ricorso in una fase del procedimento in cui la cognizione dei documenti di gara degli altri concorrenti è resa problematica dalla disciplina dettata nell’art. 53 del d.lgs. n. 50/2016, di formulare censure avverso ogni atto di ammissione, con distinti ricorsi, per evitare di incorrere nell’inammissibilità di un ricorso cumulativo;
 
      k) d’altra parte, per quanto possa estendersi la nozione di interesse processualmente rilevante fino a comprendervi anche un interesse strumentale alla rinnovazione della procedura, non possono certo ravvisarsi gli estremi della condizione dell'azione in una situazione in cui dall'accoglimento del ricorso non derivi neanche il limitato effetto dell'indizione di una nuova procedura;
 
     
l) sotto ulteriore profilo, la normativa interna in esame comporta altresì la violazione del principio di proporzionalità, che impone che gli inconvenienti causati da una misura non siano sproporzionati rispetto ai fini da raggiungere, mentre la misura in esame, da un lato, genera il rischio di una proliferazione dei ricorsi e di una conseguente paralisi dei procedimenti di gara, e, dall’altro lato e al contrario, può facilmente comportare rinunce alla proposizione di ricorsi; essa inoltre priva l’aggiudicatario del rimedio del ricorso incidentale da opporre a chi contesti l’aggiudicazione senza possedere i requisiti di ammissione alla gara e può finire per rendere inattaccabili aggiudicazioni disposte in favore di soggetti privi dei requisiti di partecipazione;
   III. – Sulle problematiche emerse in sede di prima applicazione del c.d. rito super accelerato si segnala, per completezza, quanto segue: 
      m) sulla questione di legittimità costituzionale e di compatibilità comunitaria dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.:
        
m1) l’ordinanza in commento ha richiamato Tar per la Campania-Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852, la quale “astrattamente parlando” evidenziava un contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost. dell’onere di immediata impugnazione delle altrui ammissioni “a fronte dell’assenza di un interesse concreto e attuale al ricorso”, salvo poi rilevare che “deve tuttavia non trascurarsi il peso che nel processo amministrativo potrebbe assumere l’interesse strumentale, di cui alle citate sentenze Fastweb e Puligienica” e Tar per la Puglia–Bari, sez. III, 08.11.2016, n. 1262 che, anche qui con un obiter dictum, ha posto in dubbio la legittimità dell’onere di immediata impugnazione dell’ammissione di tutti gli operatori economici “anche in carenza di un’effettiva lesione od utilità concreta”;
         m2) Tar per il Lazio–Roma - sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379, invece, ha respinto le sollevate questioni di contrasto della disciplina in commento con la normativa europea; 
         n) sugli obiettivi perseguiti dal legislatore con il c.d. rito super accelerato:
           
n1) Cons. Stato, comm. spec., parere 01.04.2016, n. 855 ha osservato che si è perseguita l’esigenza di “definire la platea dei concorrenti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione”, sì da impedire censure incrociate “sulla fase iniziale del procedimento selettivo (in particolare sull’ammissione alla gara) …una volta che questo sia giunto a conclusione”;
            n2) in dottrina G. SEVERINI, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici, in Giustamm.it, giugno 2016, sottolinea la necessità di rimediare alla ipertrofia di un contezioso postumo e retrospettivo incentrato sulla presenza in limine dei requisiti partecipativi; analoghe considerazioni anche in L. BERTONAZZI, Limiti applicativi del nuovo giudizio di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e sua compatibilità con la tutela cautelare, in Dir. proc. ammin. 2017, 714 ss.; 
         p) sull’ambito applicativo del rito di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. si vedano:
            p1) L. BERTONAZZI, op. cit., il quale correla la individuazione dell’ambito applicativo del rito in esame alla perseguibilità dell’obiettivo di risolvere le questioni sulla ammissione prima dell’aggiudicazione della gara, traendone ipotesi di preclusione “originaria” (quando l’esclusione matura in sede di verifica dei requisiti partecipativi per l’aggiudicatario, quando si ha congiunta impugnazione dell’ammissione e dell’aggiudicazione, quando la stazione appaltante esamina le offerte prima di verificare i requisiti partecipativi) e “sopravvenuta”, con riferimento all’ipotesi in cui “l’aggiudicazione, anziché attendere l’esaurimento del contenzioso relativo alla fase delle ammissioni/esclusioni, lo sorprende ancora in itinere”;
           
p2) R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, pag. 2362, che individua, quali ambiti problematici, le ipotesi in cui la stazione appaltante: 1) procede alla esclusione a seguito della c.d. forcella o preselezione; 2) si avvale della facoltà di verificare i requisiti di partecipazione non in una sub-fase specifica ma in ogni fase della gara, 3) pospone all’esame delle offerte la verifica dei requisiti (ex art. 133, comma 8, d.lgs. n. 50/2016); 4) procede, nelle procedure automatiche (informatiche o al prezzo più basso), in unico contesto ad ammissioni/esclusioni e aggiudicazione;
            p3) Tar per la Puglia-Bari, sez. III, 14.04.2017, n. 394, secondo cui il rito dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. si applica solo nei casi in cui vi sia una netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase di aggiudicazione; Cons. Stato, sez. V, ord. 14.03.2017, n. 1059, secondo cui “la novella all’art. 120 disegna per le gare pubbliche un nuovo modello complessivo di contenzioso a duplice sequenza, disgiunto per fasi successive del procedimento di gara, dove la raggiunta certezza preventiva circa la res controversa della prima è immaginata come presupposto di sicurezza della seconda”; nel caso di esclusione fondata su carenze diverse da quelle proprie dei presupposti soggettivi, come nel caso di carenza di elementi essenziali dell’offerta tecnica, il rito super accelerato non troverebbe applicazione: in tal senso Tar per la Campania–Napoli, sez. I, 20.02.2017, n. 1020; id. 29.05.2017, n. 2843; 
         q) sulla decorrenza del termine di impugnazione:
            q1) l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., com’è noto, prevede l’impugnazione degli atti di ammissione ed esclusione nel termine di trenta giorni decorrente dallo loro pubblicazione sul profilo del committente, ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016;
            q2) secondo un primo orientamento interpretativo, in difetto di tale pubblicazione il rito super accelerato non è tout court applicabile (in tal senso Tar per la Campania–Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852); a risultati non diversi giunge la lettura che, in caso di mancata pubblicazione, fa decorrere il termine per impugnare dalla comunicazione dell’aggiudicazione, con applicazione del relativo rito (Tar per la Basilicata 13.01.2017, n. 24, Tar per la Puglia–Bari, 05.04.2017, n. 340, Tar per la Campania–Napoli, sez. VIII, 05.05.2017, n. 2420);
           
q3) secondo altre interpretazioni la mancata pubblicazione è sostituibile solo dalla comunicazione individuale (Tar per il Lazio–Roma – sez. III, 09.05.2017, n. 5545), ovvero determina l’applicazione delle normali regole sulla conoscenza dell’atto oggetto di impugnazione (Tar per la Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582), o, infine, esclude l’onere di immediata impugnazione non precludendo però la facoltà di una immediata impugnazione dell’ammissione prima dell’aggiudicazione (Tar per il Molise, 04.102017, n. 332);
            q4) Tar per il Lazio–Roma, sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379 trae dalla previsione della pubblicazione delle ammissioni/esclusioni quale dies a quo del termine per impugnare la conclusione della non decorrenza del temine stesso dalla conoscenza acquisita attraverso la partecipazione di un rappresentante della concorrente alla seduta di gara che ha disposto le ammissioni o esclusioni stesse; sul punto si veda Cons. Stato, sez. VI, 13.12.2017, n. 5870, che ha affermato il principio secondo cui, sebbene l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. “faccia riferimento, ai fini della decorrenza dell'ivi previsto termine d'impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ritiene il Collegio che ciò non implichi l'inapplicabilità del generale principio sancito dall'art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell'art. 120 cod. proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione dell'atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione dell'atto di ammissione sulla piattaforma telematico della stazione appaltante-, il termine decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell'interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale”; di segno opposto è invece la recentissima Cons. Stato, III, 26.01.2018, n. 565 secondo cui “l’onere di impugnazione dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso “al buio”;
         r) sulla ammissibilità della tutela cautelare nel rito super accelerato:
           
r1) essa è stata ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, ord. 06.03.2017, n. 948; id. 14.03.2017, n. 1059, ord.; id. 23.03.2017, n. 1323, che correla alla ammissibilità della tutela cautelare la possibilità di definire il giudizio, anche in appello, con sentenza in forma semplificata ex art. 60 c.p.a.);
         r2) d’altra parte, il parere Cons. Stato, comm. spec., 1 aprile 2016, n. 464 aveva chiarito che in questo rito “la tutela cautelare diventa, di fatto e nella ordinarietà dei casi, superflua, attesi i tempi strettissimi in cui si perviene alla decisione di merito”; L. Bertonazzi, op. cit., rileva che non vi è alcuna incompatibilità tra il rito speciale super accelerato e la tutela cautelare;     
         s) sui motivi aggiunti e ricorso incidentale:
           
s1) Tar per la Campania, sez. VIII, 19.01.2017, n. 434, legge l’art. 120, comma 7, c.p.a. -il quale nel prevedere la impugnazione di ulteriori atti della medesima gara impone l’utilizzo dei motivi aggiunti ma “ad eccezione dei casi previsti dal comma 2-bis”-, nel senso che l’aggiudicazione che sopravvenga alla instaurazione di un ricorso sulla ammissione possa essere impugnata tanto con ricorso autonomo quanto con motivi aggiunti;
            s2) Tar per la Campania–Napoli, sez. I, 13.06.2017, n. 3226, legge l’art. 120, comma 6-bis, c.p.a. laddove prevede che “la camera di consiglio o l’udienza possono essere rinviate solo in caso di esigenze istruttorie, per integrare i contraddittorio, per proporre motivi aggiunti o ricorso incidentale”, nel senso che il ricorso incidentale avverso l’ammissione in gara del concorrente principale decorre non dalla notifica del ricorso principale ma dalla data di ammissione in gara del concorrente; 
         t) sull’interesse alla proposizione dell’azione ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a.:
           
t1) L. Bertonazzi, op. cit., afferma che “nella misura in cui verte non già sulla (propria) esclusione, bensì sulle (altrui) ammissioni, il nuovo giudizio prescinde dall’interesse a ricorrere”; G. Severini, op. cit., parla di interesse presunto dal legislatore;
            t2) Cons. Stato, sez. III, 02.05.2017, n. 2014 ha rilevato che l’onere di immediata impugnazione delle ammissioni dà “evidentemente sostanza e tutela ad un interesse al corretto svolgimento della gara, scisso ed autonomo, sebbene strumentale, rispetto a quello all’aggiudicazione”, traendone conseguenze in tema di immediata impugnabilità del bando di gara; è seguita l’ordinanza del Cons. Stato, sez. III, 07.11.2017, n. 5138 che ha deferito all’Adunanza plenaria della questione delle ipotesi nelle quali sia necessaria la immediata impugnazione del bando di gara (oggetto della News US in data 14.11.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento circa la configurabilità della tutela dell’interesse strumentale nel processo amministrativo).
   IV. – Sui temi più generali della legittimazione e dell’interesse a ricorrere in materia di appalti, nel più ampio contesto del principio di autonomia degli stati nazionali nel conformare le regole del processo negli ambiti materiali di competenza comunitaria, si segnala quanto segue: 
      u) la Corte di giustizia UE, in merito alla configurabilità dell’interesse a ricorrere, nella fase anteriore alla aggiudicazione, ha affermato con la sentenza 12.02.2004 in C– 230/02 Grossmann che “36 Deve ricordarsi in proposito che, come risulta dal primo e dal secondo 'considerando' di tale atto, la direttiva 89/665 è intesa a rafforzare i meccanismi esistenti, sia sul piano nazionale sia sul piano comunitario, per garantire l'effettiva applicazione delle direttive comunitarie in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette. A tal fine l'art. 1, n. 1, della suddetta direttiva impone agli Stati membri l'obbligo di garantire che le decisioni illegittime delle amministrazioni aggiudicataci possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile (v., in particolare, sentenze 28.10.1999, causa C-81/98, Alcatel Austria e a., Racc. pag. I-7671, punti 33 e 34; 12.12.2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punto 74, e 19.06.2003, causa C-410/01, Fritsch, Chiari & Partner e a., Racc. pag. I-6413, punto 30). 37 Orbene va constatato che il fatto che una persona non presenti ricorso avverso una decisione dell'autorità aggiudicatrice con la quale sono stabilite le specifiche di un bando di gara che essa ritiene discriminatorie in suo danno, in quanto queste ultime le impediscono di partecipare utilmente al procedimento di aggiudicazione dell'appalto di cui trattasi, ed attenda la notificazione della decisione di aggiudicazione di tale appalto per impugnarla dinanzi all'organo responsabile, basandosi in particolare sul carattere discriminatorio delle dette specifiche, non è conforme agli obiettivi di rapidità ed efficacia della direttiva 89/665. 38 Infatti, un comportamento del genere, potendo ritardare senza una ragione obiettiva l'avvio delle procedure di ricorso, la cui attuazione è stata imposta agli Stati membri dalla direttiva 89/665, è tale da nuocere all'applicazione effettiva delle direttive comunitarie in materia di aggiudicazione di appalti pubblici”; in merito alla legittimazione a ricorrere la sentenza in questione ha affermato in via generale (punti 27-29) la necessità della presentazione della domanda di partecipazione, a meno che l'impresa asserisca di essere lesa da clausole discriminatorie contenute nei documenti relativi al bando di gara nel qual caso sarebbe eccessivo esigere un'offerta nell'ambito del procedimento di aggiudicazione dell'appalto di cui trattasi, quando le probabilità che le venga aggiudicato tale appalto sarebbero nulle a causa dell'esistenza delle dette specifiche.
In generale la giurisprudenza comunitaria ha precisato che gli Stati membri non sono tenuti a rendere dette procedure di ricorso accessibili a chiunque voglia ottenere l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ma hanno facoltà di esigere che la persona interessata sia stata o rischi di essere lesa dalla violazione da essa denunciata (v. sentenza 19.06.2003, causa C-249/01,Hackermüller, punto 18);
      u1) la problematica è stata di recente riproposta, in chiave di compatibilità delle regole processuali nazionali con la direttiva ricorsi, da Cons. Stato, Sezione III – ordinanza 07.11.2017 n. 5138 (oggetto della News US del 14.11.2017 cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e di giurisprudenza), secondo cui «Vanno rimesse all’Adunanza plenaria le seguenti questioni: 1. Se, avuto anche riguardo al mutato quadro ordinamentale, i principi espressi dall’Adunanza Plenaria n.1/2003 possano essere ulteriormente precisati nel senso che l’onere di impugnazione immediata del bando sussiste anche per il caso di erronea adozione del criterio del prezzo più basso, il luogo del miglior rapporto tra qualità e prezzo. 2. Se l’onere di immediata impugnazione del bando possa affermarsi più in generale per tutte le clausole attinenti le regole formali e sostanziali di svolgimento della procedura di gara, nonché con riferimento agli altri atti concernenti le fasi della procedura precedenti l’aggiudicazione, con la sola eccezione delle prescrizioni generiche e incerte, il cui tenore eventualmente lesivo è destinato a disvelarsi solo con i provvedimenti attuativi. 3. ……4. Se, nel caso di contestazione del criterio di aggiudicazione o, in generale, della impugnazione di atti della procedura immediatamente lesivi, sia necessario, ai fini della legittimazione a ricorrere, che l’operatore economico abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura, ovvero sia sufficiente la dimostrazione della qualità di operatore economico del settore, in possesso dei requisiti generali necessari per partecipare alla selezione”»; 
      v) Sulla possibile rilevanza del rito superaccelerato al fine di rendere «definitiva» l’esclusione, in tal modo precludendo alla impresa concorrente di impugnare l’aggiudicazione per difetto di legittimazione, si rammenta che:
         v1) Corte di giustizia UE, sez. VIII, 21.12.2016, C- 355/15,GesmbH (in Gazzetta forense, 2017, 80, con nota di GILIBERTI, nonché oggetto della News US del 04.01.2017 ai cui approfondimenti si rinvia) ha affermato che «L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa»;
         v2) tuttavia, in assenza di una esclusione «definitiva», la successiva Corte di giustizia dell’UE, sez. VIII, 10.05.2017, C- 131/16, Archus (oggetto della News US del 19.05.2017 ai cui approfondimenti si rinvia), ha precisato che “La direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico”. 
Ed infatti l’accesso a un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico può essere negato solo qualora la decisione di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una decisione che ha «acquisito autorità di cosa giudicata» prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che detto offerente debba essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione;

         v3) già con la sentenza 05.04.2016 C- 689/13, Puligienica, (in Foro it.,2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI oggetto della News US del 07.04.2016 cui si rinvia per gli approfondimenti), in linea con la sentenza 04.07.2013, n. 100, Fastweb, (in Foro it., 2015, IV, 311, n. con nota di CONDORELLI), la Corte di Giustizia aveva chiarito che «L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro offerente»;
         v4) prima della sentenza Puligienica, il complesso quadro delle norme e dei principi che governano i rapporti fra ricorso principale ed incidentale risultava essenzialmente delineato dalle seguenti pronunce:
           
- Corte giustizia UE, Sez. X, 04.07.2013, C-100/12, Fastweb, in Foro it., 2014, IV, 3395 con nota di TRAVI, secondo cui “qualora per mezzo di un ricorso incidentale l'aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un appalto deduca che l'offerta del ricorrente principale sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione appaltante, sì da rendere inammissibile l'impugnazione (a sua volta incentrata sulla non conformità dell'offerta dell'aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche) proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una gara a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel merito da parte del giudice investito della controversia”;
            - Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 - in Foro it., 2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI cui si rinvia per ogni approfondimento, che, all’indomani della sentenza Fastweb aveva raggiunto il punto di equilibrio (recepito esplicitamente anche da Cass. civ., sez. un., 06.02.2015, n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327) fra istanze europee e caratteristiche ineludibili dell’ordinamento processuale amministrativo – secondo cui, in estrema sintesi, l’obbligo di esaminare sempre e comunque entrambi i ricorsi (con il risultato certo di fare cadere l’intera procedura di gara arrecando gravi danni all’economia nazionale e incrementando gli esborsi a titolo di risarcimento del danno), in puntuale applicazione degli argomenti sviluppati dalla sentenza Fastweb, sussiste alle stringenti condizioni che:
I) si versi all’interno del medesimo procedimento;
II) gli operatori rimasti in gara siano solo due;
III) il vizio che affligge le offerte sia identico per entrambe (c.d. simmetria invalidante); questo costrutto è stato poi rimesso in discussione dalla sentenza Puligienica nella parte in cui ha stabilito (§§ 28–30), superando le conclusioni cui era giunta la precedente decisione Fastweb (§§ 31-33), che l’obbligo del giudice di esaminare entrambi i ricorsi prescinde dal numero di imprese rimaste in gara e dalla natura del vizio;
         v5) secondo Corte cost. n. 245 del 2016 (in Foro it., 2017, I, 75, e oggetto della News US 19.01.2017
 cui si rinvia per ogni approfondimento in merito) è inammissibile, salvo casi eccezionali, l’impugnativa di una procedura di gara da parte di una impresa che non vi abbia partecipato o chiesto di partecipare;
         v6) più di recente il Tar per la Liguria con ordinanza n. 263 del 2017 (oggetto della News US 04.04.2017 cui si rinvia per ogni approfondimento in merito) ha rimesso alla Corte di Giustizia della UE la seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione»;
            v7) da ultimo Cons. Stato, sez. V – ordinanza 06.11.2017 n. 5103 (oggetto della News US 10.11.2017 cui si rinvia per ogni approfondimento in merito) ha nuovamente rimesso all’Adunanza plenaria la questione “se, in un giudizio di impugnazione degli atti di procedura di gara ad evidenza pubblica, il giudice sia tenuto ad esaminare congiuntamente il ricorso principale e il ricorso incidentale escludente proposto dall’aggiudicatario, anche se alla procedura abbiano preso parte altri concorrenti le cui offerte non sono state oggetto di impugnazione e verifichi che i vizi delle offerte prospettati come motivi di ricorso siano propri delle sole offerte contestate”.
   V. – Sulla tutelabilità dell’interesse strumentale nell’ordinamento nazionale e comunitario si segnala quanto segue: 
      w) nel senso della impossibilità di configurare la tutela del c.d. interesse strumentale nell’attuale ordinamento del processo amministrativo nazionale, caratterizzato dalla peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in particolare interesse ad agire e legittimazione), strumentale alla realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost., si veda:
         w1) Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§ 5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin., 2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza); Sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345 cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza; Ad. plen. n. 9 del 2014 cit. (specie § 8.3.7.), tutte nel senso:
I) di non consentire la tutela del c.d. interesse strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora esercitati dalla stazione appaltante;
II) di considerare il processo quale risorsa scarsa da attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di meritevolezza della pretesa;
III) di esigere che il processo sia volto a tutelare interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
     
   w2) successivamente alla pubblicazione della sentenza Puligienica, le conclusioni cui è pervenuta la sentenza GesmbH, sono state anticipate dal Consiglio di Stato in una sequela di pronunce, fra cui si segnalano: Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2016, n. 4180; sez. IV, 25.08.2016, n. 3688; sez. IV, 20.04.2016, n. 1560; per tali arresti, è inammissibile per difetto di legittimazione l’impugnativa dell’impresa che non abbia partecipato ab imis alla procedura, ovvero sia stata legittimamente esclusa dalla gara, dato che tale soggetto, per effetto dell'esclusione o della mancata presentazione della domanda, rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla gara ma anche a contestarne gli esiti e la legittimità delle scansioni procedimentali; il suo interesse protetto, invero, da qualificare interesse di mero fatto o strumentale, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo a impugnare gli atti, essendo portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara; Cons. Stato sez. III, 26.08.2016, n. 3708, secondo cui non potrebbe ammettersi l’impugnativa dell’aggiudicazione di una gara da parte di un’impresa che certamente da un tale annullamento non potrebbe ricavare alcun vantaggio (anche di ordine strumentale in quanto relativo alla possibilità di ripetizione della gara), perché non ha partecipato alla medesima gara, o non ha proposto censure nei confronti di tutte le imprese che la precedono in graduatoria (ovvero non le ha evocate in giudizio) e di cui si lamenta, però la illegittimità della mancata esclusione; tali conclusioni devono tuttavia ora essere rimeditate alla luce della sentenza della Corte di giustizia Archuscit. (su cui si veda infra lett. x);
         w3) in dottrina DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo, IV ed., Milano, 2017, 759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse strumentale sia configurabile quale interesse legittimo; SIGISMONDI,Ricorso incidentale escludente: l’ultimo orientamento della Corte di giustizia porta all’emersione di un contrasto più profondo, in Foro it., 2016, IV, 336, secondo cui il punto di maggiore criticità nell’indirizzo a base della sentenza Puligienica, consiste nel fatto che esso «…si pone in contrasto diretto con i principî di fondo del nostro ordinamento processuale, del quale vengono disgregati la coerenza interna e i principî fondanti. Si pone allora una seria questione di compatibilità tra la prospettiva comunitaria e il sistema di principî (e per certi aspetti di valori) definito dalla Costituzione italiana (che disegna il diritto alla tutela giurisdizionale e il principio di azionabilità nei confronti delle decisioni dell’amministrazione in chiave espressamente soggettiva e in modo non condizionato dalla materia): un problema che sta emergendo in modo sempre più consistente, nonostante la dichiarata autonomia riconosciuta agli Stati membri nella definizione delle proprie regole processuali (come esempio problematico, v. quanto ora previsto dall’art. 95 d.lgs. 16.11.2015 n. 180, che, nell’ambito del contenzioso relativo alle procedure di risoluzione degli enti creditizi, da un lato esclude espressamente la possibilità di far ricorso alla consulenza tecnica, limitando oggettivamente le possibilità di conoscenza del fatto da parte del giudice e, dall’altro, consente che gli effetti di una eventuale illegittimità della procedura si producano esclusivamente sul piano risarcitorio, recependo in questo modo le previsioni espressamente stabilite dall’art. 85, § 3, secondo periodo, e § 4, 2° comma, della direttiva 2014/59/Ue). Un ordine di limitazioni simili previste da una disposizione di legge nazionale, infatti, erano state considerate costituzionalmente illegittime da Corte cost. 22.12.1961, n. 70, Foro it.,1962, I, 13, e Giur. cost., 1961, 1282, con nota di CAPPELLETTI, Diritto di azione e di difesa e funzione concretizzatrice della giurisprudenza costituzionale (art. 24 Cost. e «due process of law clause»).»;
         w4) la opposta tesi della configurabilità, anche in termini di veri e propri diritti, di situazioni soggettive procedimentali, come situazioni giuridiche autonome rispetto al contenuto sostanziale del provvedimento finale, è stata sostenuta da CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995, FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, PUBUSA, Diritti dei cittadini e pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli, 1996, ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1996, FOLLIERI, Lo stato dell'arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Dir. proc. amm., n. 2/1998, RENNA, Obblighi procedimentali e responsabilità dell'amministrazione in, Dir. amm. 2005, 3, 557; questa tesi è stata respinta dall’indirizzo dominante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che rifiuta la possibilità di risarcire il danno ogni qual volta non sia riconoscibile con certezza la spettanza del bene della vita finale (sull’inquadramento generale v. Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2, oggetto della News US in data 16.05.2017  e in Foro it., 2017, III, 433, con nota di TRAVI; Ad. plen. n. 5 del 2015 cit.; Ad. plen. n. 9 del 2014 cit., cui si rinvia per ogni approfondimento); per questa via si esclude il danno da mero ritardo procedimentale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02.10.2017, n. 4570; Sez. V, 25.03.2016, n. 1239, oggetto della News US in data 31.03.2016 cui si rinvia per ogni approfondimento); dalla lesione di un mero interesse di fatto o emulativo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.04.2016, n. 1436; Sez. V, 10.02.2015, n. 675, in Riv. neldiritto, 2015, 1033, con nota di GALATI, cui si rinvia per ogni approfondimento); da annullamento del provvedimento amministrativo per vizi puramente formali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18.07.2017, n. 3520; Sez. IV, 04.07.2017, n. 3255); e si mantiene un atteggiamento rigoroso, sotto il profilo causale e statistico, circa i presupposti per il riconoscimento del danno da perdita di chance specie per le gare di appalto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25.02.2016, n. 762, in Foro it., 2016, III; 468, con nota di CONDORELLI; Sez. V, 30.06.2015, n. 3249, id., 2015, III, 440, con nota di TRIMARCHI BANFI; Sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, id., 2015, III, 106, con nota di GALLI; sul versante civile v. da ultimo Cass. civ.,  Sez. I, 29.11.2016, n. 24295, id., 1374, con nota di DI ROSA cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza) su cui da ultimo si veda Cons. St., sez. V, sentenza 11.01.2018, n. 118 (oggetto della News US del 17.01.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e di giurisprudenza) che ha rimesso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione “se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico”; 
      x) La Corte di Giustizia ha invece progressivamente chiarito che anche l’interesse strumentale è meritevole di tutela alla luce delle previsioni della direttiva ricorsi:
         x1) A partire dalle sentenze Fastweb e Puligenica, cit., ha infatti precisato che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, gli offerenti hanno un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri offerenti ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto indipendentemente dal numero di partecipanti alla procedura e dal numero di partecipanti che hanno presentato ricorso; da un lato, infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che un altro offerente ottenga l’appalto direttamente nell’ambito della stessa procedura; d’altro lato, nell’ipotesi di un’esclusione di tutti gli offerenti e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto;
        
x2) La questione è stata infine oggetto della sentenza Archus cit. dove il giudice del rinvio domandava se la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, potesse riguardare «l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico», atteso che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 prevede che gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalità che spetta agli Stati membri determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un «determinato appalto» e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.
La Corte ha evidenziato al riguardo che in una situazione come quella portata all’esame dal giudice del rinvio -in cui avendo le imprese ricorrenti proposto ricorso avverso la decisione che esclude la loro offerta e avverso la decisione che aggiudica l’appalto, adottate contemporaneamente, non potevano essere ritenute definitivamente escluse dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico- la nozione di «un determinato appalto» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 può, dunque, riguardare anche l’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
         x3) Cass. civ., sez. un., 29.12.2017 n. 31226 (oggetto della News US 11.01.2018 cui si rinvia per gli approfondimenti di dottrina e di giurisprudenza) ha precisato che basta la mera eventualità del rinnovo della gara a radicare l’interesse del ricorrente a contestare l’aggiudicazione, donde l’irrilevanza della discrezionalità della stazione appaltante nel decidere sul rinnovo della gara;
         x4) la giurisprudenza amministrativa ha escluso la tutelabilità dell’interesse strumentale nei casi di oggettiva impossibilità di riedizione della gara connessa alla revoca del finanziamento per scadenza del termine previsto nel relativo disciplinare di concessione per il collaudo dell’opera pubblica (cfr. Tar per il Molise 13.10.2017, n. 350).
   VI. – In relazione alla c.d. “autonomia procedurale” degli Stati membri si segnala quanto segue: 
      y) le tensioni latenti tra ordinamento nazionale e comunitario nella disciplina delle condizioni dell’azione nella materia dei contratti pubblici ripropone il tema della autonomia degli stati nazionali nella disciplina degli istituti processuali. A tal riguardo la giurisprudenza della Corte di giustizia si è sviluppata secondo i seguenti passaggi essenziali:
     
y1) Il concetto di autonomia procedurale degli Stati membri viene fatto risalire alla pronunzia della Corte di giustizia UE sentenza 16.12.1976, in causa 33/76, Rewe. Con questa pronunzia, che verteva specificamente su una tematica di diritto processuale amministrativo, la Corte di giustizia ha infatti espressamente statuito che “... in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta”; l’autonomia procedurale sussiste, dunque, solo e soltanto nella misura in cui sussista la competenza procedurale degli Stati membri e scompare, invece, nel momento in cui -come nel caso delle direttive ricorsi in materia di appalti pubblici- la competenza procedurale venga avocata a sé dall’Unione.
In questo caso, venendo in rilievo lo strumento della direttiva, all’idea di autonomia procedurale si sostituisce quella di “competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”: dato che, ai sensi dell’art. 288 c. 3 TFUE (ex art. 249 c. 3 CE), “la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
E se vi è sicuramente un’affinità di fondo tra l’idea dell’autonomia procedurale ed il meccanismo che sottende all’uso dello strumento della direttiva, trattasi tuttavia di due scenari affatto diversi (così GALETTA, la giurisprudenza della corte di giustizia in materia di autonomia procedurale degli stati membri dell’unione europea report annuale - 2011 – Italia, in www.ius-publicum.com);
      y2) l’autonomia procedurale degli Stati membri, affermata a partire da Corte di giustizia UE, sentenza 04.04.1968, in causa C-34/67, Lück, viene intesa come “scelta autonoma dei mezzi” finalizzati a sanzionare il rispetto del diritto UE e trova un limite esterno nell’esigenza di garantire l’effettività di tutte le norme del diritto UE sostanziale, siano esse munite di efficacia diretta o meno. I limiti essenziali all’autonomia procedurale degli Stati membri sono stati precisati nella sentenza Rewe cit. e si traducono nel criterio dell’equivalenza ed in quello dell’effettività nel senso che le modalità procedurali stabilite dai giudici nazionali “non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale” (criterio dell’equivalenza) e che le modalità stabilite dalle norme interne non devono rendere “in pratica, impossibile l’esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare” (criterio dell’effettività);
     
y3) successivamente la Corte di giustizia arriva a teorizzare un obbligo di interpretazione conforme delle norme procedurali nazionali che ha la finalità specifica di garantire effettività alle norme di diritto comunitario sostanziale vigenti in materia (Corte giust., 15.05.1986, in causa 222/84, Johnstonidem 25.07.1991, in causa C-208/90, Emmott);
      y4) con la sentenza Corte giustizia UE, 14.12.1995, in cause riunite C-430/93 e C-431/93, van Schijndel, l’obbligo di interpretazione conforme si evolve in un vero e proprio dovere del giudice nazionale di “funzionalizzare” gli strumenti messi eventualmente a disposizione dal diritto interno per perseguire l’obiettivo primario di garantire l’effettività del diritto comunitario. La funzionalizzazione non si risolve nella imposizione di nuovi strumenti sconosciuti al diritto nazionale, bensì semplicemente nella richiesta dell’utilizzazione di quelli che già esistono, estendendone eventualmente l’ambito di applicazione per ricomprendervi fattispecie comunitariamente rilevanti in cui si ponga il problema di garantire, nel caso concreto, l’effettività del diritto UE. La funzionalizzazione si spinge sino al punto di chiedere al giudice nazionale delle vere e proprie deroghe al diritto processuale nazionale, come accaduto in modo emblematico per il principio di intangibilità del giudicato (Corte giustizia UE, sentenza 30.09.2003, in causa C-224/01, Köbleridem 18.07.2007, in causa C-119/05, Lucchini);
     
y5) la tesi della funzionalizzazione degli istituti processuali nazionali è stata, ancora di recente, applicata alla disciplina della decorrenza del termine di impugnazione da Corte di giustizia UE 08.09.2011 in causa C-177/10, Rosado Santana in cui è stato chiesto al giudice del rinvio di verificare se la disciplina interna fosse tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dalle fonti comunitarie e ciò anche nella prospettiva della eventuale disapplicazione della norma processuale interna che osti a rendere effettiva la tutela del diritto di matrice comunitaria (Corte di giustizia UE, sezione VI, 27.02.2003 in causa C-327/00, Santex);
      y6) l’unico argine all’obbligo della interpretazione conforme e alla teoria della funzionalizzazione degli istituti processuali nazionali per garantire l’effettività del diritto comunitario sostanziale è rappresentata dalla nota «teoria dei controlimiti», la cui applicazione è stata di recente prospettata in materia penale nel noto caso «Taricco» (oggetto di approfondimento nella News US del 30.01.2018 cui si rinvia) in cui la funzionalizzazione mediante disapplicazione della disciplina nazionale sulla prescrizione in materia penale avrebbe comportato una possibile violazione del principio supremo di irretroattività della norma penale sfavorevole;
      y7) in dottrina, nell’ambito di una vasta letteratura, si segnalano: CHITI, L'effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in Dir. proc. amm., 1998, p. 499 ss.; CONSOLO,L’ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme legislative interne), in Dir. proc. amm., 1991, p. 255 ss.; CONSOLO, La sentenza Lucchini della Corte di giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, p. 224 ss.; DANIELE, L'effettività della giustizia amministrativa nell'applicazione del diritto comunitario europeo, in Riv. it. dir. pubb. com., 1996, p. 1385 ss.; GRECO, L'effettività della giustizia amministrativa italiana nel quadro del diritto europeo, in Riv. it. dir. pubb. com., 1996/3-4, p. 797 ss.; MARCHETTI, Sul potere di annullamento d’ufficio, la Corte ribadisce l’autonomia procedurale degli Stati membri, ma si sbilancia un po’, in Riv. it. dir. pubb. com., 2006/6, p. 1132 ss.; MARI, La forza di giudicato delle decisioni dei giudici nazionali di ultima istanza nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir. pubb. com., 2004/3-4, p. 1007 ss.; MASUCCI, La lunga marcia della Corte di Lussemburgo verso una tutela cautelare europea, inRiv. it. dir. pubb. com., 1996, p. 1155 ss.; MENGOZZI, L’applicazione del diritto comunitario e l’evolversi della giurisprudenza della Corte di giustizia nella direzione di una chiamata dei giudici nazionali ad assicurare una efficace tutela dei diritti da esso attribuiti ai cittadini degli stati membri, in L. VANDELLI, C. BOTTARI, D. DONATI (a cura di), Diritto amministrativo comunitario, Rimini, 1994, p. 29 ss.; MORBIDELLI, La tutela giurisdizionale dei diritti nell’ordinamento comunitario. Quaderni della Rivista “Il Diritto dell’Unione Europea”, Milano, 2001; TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, inRiv. it. dir. pubb. com., 1992, p. 125 ss.; GALETTA, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Giappichelli, Torino, 2009 ((Tar Piemonte, Sez. I, ordinanza 17.01.2018 n. 88 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A quali condizioni l’accumulo di rifiuti diventa deposito incontrollato?
In tema di rifiuti, affinché un raggruppamento di rifiuti possa essere qualificato come regolare deposito temporaneo, e sottostare, così, al relativo regime derogatorio rispetto alla disciplina ordinaria, l’art. 183 del D.L.vo 152/2006 pone una serie di imprescindibili condizioni, tutte concorrenti, la cui dimostrazione è rimessa al produttore.
Poste queste condizioni, l’accumulo di una quantità consistente di materiali vari ed eterogenei (nella specie, cassoni in legno, materiale ferroso, imballaggi in vernici, borsoni in plastica contenenti scarti di lavorazione, ecc.), collocati alla rinfusa e senza alcuna cautela direttamente sul terreno, nonché esposti agli agenti atmosferici, non corrisponde tanto all’ipotesi di un lecito deposito temporaneo o controllato, configurando, piuttosto, un deposito incontrollato di rifiuti, vietato ai sensi dell’art. 192 del D.L.vo 152/2006, e sanzionato agli artt. 255 e 256 dello stesso decreto
(massima tratta da www.tuttoambiente.it).
---------------
2. Il secondo motivo si traduce in doglianze generiche, volte a contestare la sussistenza del reato di illecita raccolta di rifiuti che si ritiene affermata da parte della Corte territoriale in forza di clausole di stile e senza apprezzamento dei presupposti volti a ricondurre il materiale rinvenuto nel deposito temporaneo di rifiuti, presupposti la cui ricorrenza tuttavia il ricorrente evita di evidenziare in concreto.
Come ripetutamente affermato da questa Corte in materia di reati ambientali, l'onere della prova in ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dall'art. 183 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per la liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. 3, n. 23497 del 17/04/2014 - dep. 05/06/2014, Lobina, Rv. 261507; Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep. 08/07/2015, Favazzo e altro, Rv. 264121).
La norma in esame pone una serie di indefettibili condizioni, tutte concorrenti, per la configurabilità, in presenza di raggruppamento di rifiuti, di un deposito temporaneo, con la conseguenza che in difetto anche di uno di essi il deposito non può ritenersi temporaneo (Sez. 3, n. 38676 del 20/05/2014 - dep. 23/09/2014, Rodolfi, Rv. 260384) e segnatamente: «1) i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
3) il «deposito temporaneo» deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
4) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose;
5) per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo
».
Condizioni queste cui si aggiunge quale requisito principale, immanente rispetto agli elementi indicati, il raggruppamento dei rifiuti nel luogo in cui gli stessi sono prodotti.
Ciò posto, l'asserita negazione della natura di rifiuti dei materiali rinvenuti sul terreno della So. si pone in contrasto con i dati fattuali evidenziati dai giudici di appello e non suscettibili di valutazione in questa sede di legittimità, posto che nessuna dimostrazione è stata fornita dal ricorrente in ordine all'eseguito raggruppamento dei rifiuti per categorie omogenee e nel rispetto delle relative norme tecniche, essendo stata per contro accertata dalla Corte territoriale sia la presenza sul terreno di rifiuti di diversa composizione e natura, quali cassoni in legno, materiale ferroso, profilati in alluminio, imballaggi di vernici, rami di alberi, una vasca contenente polveri residuate da lavori di sabbiatura, borsoni in plastica con all'interno scarti di lavorazione e perciò da ritenersi eterogenei, non valendo ad imprimere ad essi alcuna connotazione di omogeneità la circostanza che provenissero tutti dall'attività di carpenteria eseguita sul posto dall'azienda, sia la loro collocazione direttamente sul terreno senza alcuna cautela, esposti agli agenti atmosferici, e buttati alla rinfusa, modalità queste all'evidenza sintomatiche della definitiva collocazione dei rifiuti su tale area, senza che la presenza dei borsoni in plastica, gettati come gli altri materiali nell'ammasso dei rifiuti, potesse ritenersi indice dell'intenzione da parte del titolare di disfarsene, contenendo anch'essi residui e scarti di lavorazione.
La costante giurisprudenza della Corte di cassazione si è espressa nei termini correttamente esposti nella motivazione della sentenza impugnata, e non può in questa sede che ribadirsi il principio secondo cui
l'accumulo di una quantità consistente di materiali vari non corrisponde alla ipotesi, prospettata dal ricorrente, di deposito temporaneo o controllato, bensì alla ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti (Sez. 3, n. 21024 del 25.02.-05.05.2004, Eoli, Rv 229226; Sez. F. n. 33791 del 21/08/2007 - dep. 03/09/2007, Cosenza, Rv. 237585) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2018 n. 1572).

TRIBUTITarsu con accertamenti se cambia occupante.
Nel caso di mutamento del detentore di un immobile, la riscossione della tassa sui rifiuti deve avvenire previa emissione di un avviso di accertamento, notificato al nuovo occupante; è illegittima, di contro, l'emissione diretta della cartella di pagamento, basata sui dati denunciati dal precedente detentore.
È quanto afferma la Corte di Cassazione -Sez. V civile- nella sentenza 11.01.2018 n. 457.
Il caso nasce dall'impugnazione di cartelle di pagamento relative alla tassa rifiuti, notificate a una società di leasing, rientrata in possesso di un immobile precedentemente concesso in locazione finanziaria. La società impugnava le cartelle denunziando la mancata notifica di un preventivo avviso di accertamento, peraltro ritenendo di non dover corrispondere affatto la tassa, stante l'incapacità dell'immobile di produrre rifiuti. Il comune impositore replicava di aver semplicemente liquidato l'imposta sulla scorta dei dati denunziati per le annualità precedenti, rispetto ai quali non era intervenuta alcuna variazione.
Tuttavia, specificava la società ricorrente, la denuncia era stata presentata da un soggetto diverso, ovvero dal precedente utilizzatore del bene. I gradi di merito si concludevano con una sentenza della Ctr Basilicata con cui le cartelle venivano dichiarate legittime e contro tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società di leasing. La Suprema corte ha accolto il ricorso, rinviando al collegio di seconde cure che, in diversa composizione, deciderà sulla causa facendo applicazione dell'enunciato principio di diritto.
Nello specifico, Piazza Cavour ha affermato che, in caso di mutazione del soggetto detentore dell'immobile, e quindi del soggetto che aveva presentato la dichiarazione ai fini della tassa rifiuti, non è possibile per il comune procedere direttamente all'iscrizione a ruolo delle somme dovute, rendendosi necessaria la previa notifica di un avviso di accertamento: ciò perché al nuovo obbligato non può imputarsi la dichiarazione fatta dal precedente detentore. In tal caso, spiega la Cassazione, è necessario che l'ente impositore eserciti il proprio potere di accertamento sostanziale, emettendo un atto motivato precedente al provvedimento di riscossione.
In sostanza, la possibilità pur prevista dall'articolo 72, comma 1, del dlgs n. 507/1993, secondo cui i comuni possono procedere direttamente alla liquidazione della tassa (senza preventivo accertamento) sulla base dei dati storici, non si applica quando vi sia un mutamento soggettivo nel rapporto d'imposta.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, l'art. 72, comma 1, del dlgs n. 507 del 1993, attribuisce ai comuni la facoltà eccezionale, non suscettibile di applicazioni estensive, di procedere direttamente alla liquidazione della tassa e alla conseguente iscrizione a ruolo sulla base dei ruoli dell'anno precedente, purché sulla base di dati ed elementi già acquisiti e non soggetti ad alcuna modificazione o variazione, sicché, salvo il caso di omessa denuncia o incompleta dichiarazione da parte del contribuente, non occorre la preventiva notifica di un atto di accertamento (Cass. 22248/2015).
In relazione anche ad altri tributi è stato infatti chiarito che un previo accertamento sostanziale non è necessario nel caso in cui il rapporto tributario sussista con soggetti e con oggetto tendenzialmente stabili o a dichiarazione meramente iniziale del contribuente o, com'anche si dice, a dichiarazione ultrattiva, cioè di una dichiarazione, o denuncia, del contribuente che, a causa della tendenziale stabilità degli elementi strutturali, soggettivo od oggettivo, del rapporto giuridico tributario, non dev'essere riformulata quando, in assenza di variazione di uno di essi, sarebbe identica a quella precedente e, quindi, inutile.
In siffatte fattispecie l'esercizio del potere di liquidazione, previo accertamento formale, è legittimo a condizione che esso sia conforme al principio dell'imputazione diretta al contribuente degli effetti della sua dichiarazione, mentre è necessario esercitare il potere di accertamento sostanziale quando la modificazione che l'ufficio intende far valere (è) in ordine a uno degli elementi strutturali del rapporto (Cass. 9433/2005).
Nel caso di specie risulta che la banca ricorrente è proprietaria dell'immobile e che, a far data dal 16/09/2004, era entrata in possesso dello stesso mentre in precedenza l'immobile era nella disponibilità di altra impresa che aveva presentato la denuncia. Vi è stata dunque una mutazione del soggetto che aveva effettuato la dichiarazione e deve quindi ritenersi che tale situazione non consentiva al comune di emanare la cartella senza previo avviso di accertamento poiché al nuovo obbligato non poteva imputarsi la dichiarazione fatta dal soggetto che aveva in precedenza avuto il possesso dell'immobile.
In forza dello stesso principio, altre volte affermato nell'indirizzo di legittimità sulla corretta interpretazione dell'art. 72, comma 1, dlgs 507/1993: Cass. 23582/2009; 19181/2004, il ricorso va in definitiva accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Ctr della Basilicata, in diversa composizione. Quest'ultima deciderà, in applicazione del su riportato principio di diritto, sulle cartelle di pagamento opposte (articolo ItaliaOggi Sette del 29.01.2018).

PUBBLICO IMPIEGORimborsi spese legali dai giudici ordinari. Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Spetta al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, decidere una controversia avente ad oggetto l'accertamento del diritto ad ottenere, ex art. 18, d.l. n. 67/1997, il rimborso delle spese legali sostenute da un dipendente statale per la difesa in giudizio penale.

Lo ha chiarito il TAR Lazio–Latina, con la sentenza 11.01.2018 n. 5.
Un dipendente delle Capitanerie di Porto, aveva chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento del proprio diritto ad ottenere il rimborso della somma di 30.000 circa a titolo di spese legali sostenute per la difesa in un giudizio penale, nel quale aveva rivestito la qualità di imputato. Era stato, poi, assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Il Tar dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e riconosce la giurisdizione di quello ordinario. Il collegio osserva, innanzi tutto, come il rimborso previsto dall'art. 18 del dl 67/1997, conv. con l. n. 135/1997 mira essenzialmente a tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell'interesse della p.a., dalle spese legali sopportate per i procedimenti giudiziari relativi agli atti strettamente connessi all'espletamento dei compiti istituzionali.
Infatti, tale rimborso è ammesso solo dove risulti che l'agire «incriminato» del dipendente sia strettamente strumentale al regolare e diligente adempimento dei compiti istituzionali di servizio, vi sia una coincidenza di posizioni e non si concreti alcun conflitto di interessi con l'Amministrazione di appartenenza. Il rimborso presuppone, perciò, che emerga l'espletamento dei compiti istituzionali senza violazione di doveri e senza conflitto di interessi con la P.A. e che la sentenza di assoluzione abbia accertato l'insussistenza di qualsiasi forma di colpa nell'operato del soggetto prosciolto.
Alla luce di queste considerazioni e ritenuto che la pretesa del dipendente pubblico riguarda il diritto ad ottenere il patrocinio legale e quindi una questione attinente alla gestione del rapporto di lavoro sorta durante lo svolgimento dello stesso, non vi è dubbio che la tutela spetti alla giurisdizione del Giudice Ordinario, quale Giudice del lavoro (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).
---------------
MASSIMA
Osserva preliminarmente il Collegio che
il rimborso previsto dall’art. 18 del d.l. n. 67/1997, conv. con l. n. 135/1997 mira essenzialmente a tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse della P.A., dalle spese legali sopportate per i procedimenti giudiziari relativi agli atti strettamente connessi all’espletamento dei compiti istituzionali ed, quindi, è ammesso solo ove risulti che l’agire incriminato del dipendente sia strettamente strumentale al regolare e diligente adempimento dei compiti istituzionali di servizio, vi sia una coincidenza di posizioni e non si concreti alcun conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza.
Il rimborso presuppone, perciò, che emerga l’espletamento dei compiti istituzionali senza violazione di doveri e senza conflitto di interessi con la P.A. e che la sentenza di assoluzione abbia accertato l’insussistenza di qualsiasi forma di colpa nell’operato del soggetto prosciolto, non potendosi ammettere che colui, il quale agisce diligentemente nel perseguimento dei fini pubblici, sopporti le conseguenze svantaggiose derivanti dall’attività svolta.
Il giudizio di connessione tra la condotta ascritta al dipendente e l’assolvimento, da parte sua, dei compiti istituzionali, dovrà essere effettuato in concreto, facendo riferimento al giudizio di fatto formulato dall’organo giudicante che adotta il provvedimento conclusivo del giudizio.

Sotto altro profilo l’erogazione del visto rimborso è subordinato al parere positivo della Avvocatura dello Stato.
Nel caso di specie, il ricorrente a fronte del silenzio serbato dall’amministrazione sulla vista istanza presentata in data 29.12.2015, prot. 14640 al Comando delle C.P. anziché agire con il rito del silenzio ha rivolto richiesta al Tribunale di riconoscere il proprio diritto soggettivo ad ottenere il rimborso delle spese legali sostenute nel suindicato processo penale.
Il Collegio è dell’avviso che il ricorso sia inammissibile prima ancora che per la scelta del rito (ordinario anziché speciale ex art. 117 ss c.p.a.) per difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo.
La pretesa azionata in questa sede dalla ricorrente riguarda, infatti, nella sostanza, il diritto ad ottenere il patrocinio legale e quindi, in quanto questione di diritto relativa ad una questione attinente alla gestione del rapporto di lavoro, sorta durante lo svolgimento dello stesso, sembra da ricondursi come tale alla giurisdizione del Giudice Ordinario.
Invero, come posto in luce dalla giurisprudenza prevalente, (ex multis, Cass. S.U. 20.05.2014 n. 11027, 24.03.2010, n. 6996 e 13.02.2008, n. 3413; Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2010, n. 5557, sez. IV, 24.12.2009, 8750; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 19.02.2015, n. 79; TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.11.2013, n. 9368; TAR Piemonte, sez. II, 06.08.2013, n. 952; TAR Lazio, Latina, n 15.11.2007, n. 1232; TAR Veneto, sez. III, 19.07.2006, n. 2051),
in caso di questione concernente il diritto al rimborso di spese legali sostenute a causa di fatti connessi allo svolgimento di pubbliche funzioni, la giurisdizione appartiene al Giudice Ordinario, quale Giudice del lavoro.
In conclusione,
in relazione al presente ricorso deve essere, dunque, come anticipato, dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo, per la spettanza della controversia alla giurisdizione del Giudice Ordinario.
Peraltro, alla declaratoria del difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo e all’affermazione di quella del Giudice Ordinario, consegue la conservazione degli effettivi processuali e sostanziali della domanda ove il processo sia tempestivamente riassunto dinanzi al Giudice territorialmente competente, nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art. 11, comma II, del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104.

EDILIZIA PRIVATAE la Via Emilia resta senza la pubblicità. Decisione del Tar.
Anche se una strada non può essere tecnicamente classificata come una di quelle più importanti sulle quali vige divieto assoluto di installazioni pubblicitarie l'ente proprietario ha ampia discrezionalità in materia. Può vietare la pubblicità anche su tratti stradali intensamente trafficati a prescindere dalla classificazione del manufatto.

Lo dice il TAR Emilia Romagna-Parma, con sentenza 10.01.2018 n. 5.
Una ditta ha richiesto l'autorizzazione a installare impianti pubblicitari a Parma, sulla tangenziale a scorrimento veloce, la vecchia strada statale Via Emilia. Contro il diniego Anas l'interessato ha proposto censure al collegio, ma senza successo.
Anche se l'art. 2 del codice stradale richiede espressamente alcune caratteristiche tecniche per inquadrare un manufatto tra i più sensibili alle distrazioni pubblicitarie a parere del collegio l'ente gestore ha ampia discrezionalità in materia e può vietare completamente la pubblicità su una tangenziale anche in mancanza delle due corsie per senso di marcia e dello spartitraffico centrale (articolo ItaliaOggi del 30.01.2018).
----------------
MASSIMA
Oggetto del gravame è la nota dell’ANAS spa, Compartimento per la Viabilità dell’Emilia Romagna, Prot. 9759 del 21.04.2005, ricevuta in busta semplice dalla ricorrente in data 09.05.2005, con la quale la sede compartimentale dell’Anas ha negato alla ricorrente l'installazione di n. 8 impianti pubblicitari sulla SS 9, meglio nota come “Tangenziale di Parma”, sulla base della considerazione che la SS 9 sarebbe stata classificata come strada “extraurbana principale” e che su di essa strada, dunque, non possa essere installata alcuna forma pubblicitaria.
Nel provvedimento si legge che: “- a seguito di apposito sopralluogo si è rilevato che i siti indicati non risultano idonei alla ubicazione di impianti pubblicitari in quanto non corrispondenti alle disposizioni di cui al vigente Codice della Strada -D.L.vo. n. 285 del 30/4/1992- e del relativo Regolamento di Esecuzione -D.P.R. n. 495 del 16/12/1992-, in particolare risultano in contrasto con quanto prescritto dall'art. 23, comma 7, del citato CdS poiché la Tangenziale di Parma è classificata extraurbana principale;
- atteso che la installazione in argomento risulterebbe di pregiudizio alla sicurezza della circolazione stradale
”.
Ai sensi dell’art. 23 del Codice della Strada l’installazione di cartelli pubblicitari è esclusa in via assoluta “lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi accessi”, ed è comunque vietata l’installazione di cartelli che “per disposizione, per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione possono ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione”.
In base a quanto dispone l’art. 2 del Codice della Strada, inoltre, deve definirsi strada extraurbana principale: quella “a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di marcia e banchina pavimentata a destra, priva di intersezioni a raso, con accessi alle proprietà laterali coordinati, contraddistinta dagli appositi segnali di inizio e fine, riservata alla circolazione di talune categorie di veicoli a motore” e che “deve essere attrezzata con apposite aree di servizio, che comprendano spazi per la sosta, con accessi dotati di corsie di decelerazione e di accelerazione”.
E’ definita invece strada extraurbana secondaria, quella “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine” (art. 2, comma 3, lett. C del d.lgs. n. 285/1992).
La ricorrente contesta il provvedimento, asserendo che la SS 9 non avrebbe comunque le caratteristiche tecnico-funzionali e costruttive per essere annoverata quale strada extra urbana principale.
A tale riguardo la giurisprudenza, condivisa dal Collegio ha rilevato che: “
non è in assoluto da escludersi che per determinati tratti di altre categorie di strade, pur con caratteristiche costruttive diverse da quelle extraurbane principali e dunque anche se classificate, come nella specie, extraurbane secondarie (ovvero, ex art. 2 sopra menzionato, strade “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”), possa sussistere un’interferenza negativa, generatrice di pericoli per la circolazione e contemplata dal 1° comma del ripetuto art. 23, tra impianti stradali e caratteristiche della strada stessa, ed estendersi, tale interferenza, anche per tratti molto estesi di questo tipo di strade, a tal punto da imporre all’Amministrazione -sulla base di una valutazione discrezionale consentita, non illogica, assunta a tutela degli interessi alla sicurezza del traffico e all’incolumità degli utenti stradali, ed esercitata anche sulla base di conoscenze dedotte dalle notorie e pericolose caratteristiche dei luoghi e della strada stessa- il divieto di collocazione di impianti pubblicitari e quindi il relativo diniego di autorizzazioni al riguardo” (Tar Lazio III 2564/2012).
La tangenziale di cui si tratta è comunque una strada a scorrimento veloce in vari tratti a due corsie, in base a quanto riferisce la stessa ricorrente.
A quanto osservato si aggiunga che nella materia di cui si tratta l’orientamento prevalente della giurisprudenza, dal quale il Collegio non vede ragione per discostarsi, ha rilevato che
l’intento perseguito dal legislatore, con la formulazione dell’art. 23 del Codice della Strada è quello di prevenire la collocazione sugli spazi destinati alla circolazione veicolare, così come sugli spazi a questi adiacenti, di fonti di captazione o disturbo dell'attenzione dei conducenti e di consequenziale sviamento della stessa dall'unica ed essenziale funzione al momento commessale, che è quella della guida del veicolo (cfr. Corte di Cassazione Civile, Sezione II, sentenza n. 4683 del 2009) e, conseguentemente, l’installazione di tali insegne è soggetta a procedimento autorizzatorio e l’autorizzazione può essere negata quando, come nel caso de quo, a giudizio dell’ente gestore della strada (titolare dei relativi poteri pubblicistici), l’insegna rivesta carattere prettamente pubblicitario e, comunque, arrechi disturbo visivo agli utenti dell’autostrada, distraendone l’attenzione con conseguente pericolo per la circolazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29/11/2012 n. 6044).
Si tratta, peraltro, di attività caratterizzata da ampia discrezionalità (cfr. tra le altre Tar Bologna I 236/2017), censurabile solo a fronte di vizi quali la manifesta irragionevolezza o il travisamento non ravvisabili nel caso di specie.
Non è certamente irragionevole negare l’installazione di cartelli pubblicitari su una tangenziale a scorrimento veloce anche se priva per tutta la lunghezza delle caratteristiche delle strade extraurbane principali, di cui al Decreto Ministeriale del 05.11.2001 del Ministero dei Lavori Pubblici, atteso che non risultano neanche allegate caratteristiche che la assimilino in tutto e per tutto alle strade extraurbane secondarie.
E se non compete all’ANAS, ovvero all’ente gestore, la classificazione formale delle strade, rientra, invece, nella sua piena discrezionalità la valutazione della autorizzabilità di cartelloni pubblicitari sulle strade gestite, ai sensi dell’art. 23 del Codice della Strada, ed atteso che l’Anas non ha effettuato la classificazione della strada, limitandosi a verificare le caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali in concreto possedute dalla stessa ai fini della assimilabilità alle strade extraurbane principali, non è ravvisabile il dedotto vizio di incompetenza/attribuzione.

Per quanto esposto vanno respinte le censure con le quali la parte lamenta l’omissione delle garanzie partecipative, atteso che le stesse non avrebbero potuto portare ad un provvedimento di diverso contenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni e della prevalenza delle esigenze relative alla sicurezza della circolazione stradale quando si tratti di installazione di cartellonistica pubblicitaria lungo le strade.
Il gravame va quindi respinto poiché infondato.

TRIBUTIBenefici fiscali formato famiglia. Benefici Ici, Imu e Tasi sulla dimora dell'intero nucleo. Gli elementi decisivi, per la Suprema corte, ai fini del riconoscimento delle agevolazioni.
Non spetta l'agevolazione Ici sull'abitazione principale, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, se l'immobile non viene utilizzato da tutti i componenti del nucleo familiare. L'immobile deve essere adibito a dimora abituale di tutta la famiglia. L'utilizzo come prima casa solo da parte di uno dei coniugi fa perdere il diritto a fruire dei benefici fiscali.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 09.01.2018 n. 303.
Per la Cassazione, «occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari». Quindi, non spetta l'agevolazione fiscale se l'immobile viene adibito a prima casa solo di uno dei coniugi. Se sussiste questa condizione, il contribuente «non può invocare il diritto al riconoscimento dell'esenzione».
La questione è stata piuttosto controversa e i giudici di merito hanno assunto posizioni non in linea con quanto sostenuto dalla Suprema corte. Per esempio, la Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, quarta sezione, con la sentenza 692/2017, ha affermato che se uno dei coniugi risiede per motivi di lavoro in un comune diverso da quello in cui dimorano i propri familiari, non perde il diritto all'esenzione Ici per l'immobile adibito ad abitazione principale. Gli impegni di lavoro, infatti, giustificano una frattura della convivenza abituale all'interno della stessa casa, ma non fanno venir meno la destinazione ad abitazione principale della famiglia dell'unità immobiliare.
Per i giudici d'appello, al di là della formulazione letterale della norma (articolo 8, decreto legislativo 504/1992) che riconosce l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e dei suoi familiari, l'esigenza lavorativa «appare idonea a giustificare una frattura della convivenza abituale all'interno del medesimo immobile sito nel teramano, senza che ciò possa inficiare la natura e destinazione ad abitazione principale della famiglia di quel medesimo immobile».
Va ricordato dal 2008 non erano più tenuti al pagamento dell'Ici i titolari di immobili adibiti ad abitazione principale, che era quella in cui i contribuenti avevano la residenza anagrafica e destinavano a dimora abituale. Erano, al solito, escluse dal beneficio solo le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli). In base a quanto disposto dall'articolo 1 del decreto-legge 93/2008, l'esenzione si estendeva agli immobili assimilati dai comuni alla prima casa e alle pertinenze.
Il beneficio si applicava anche agli immobili parificati dalla legge all'abitazione principale (appartenenti alle cooperative edilizie e assegnati ai soci) e a quelli assimilati dai comuni. Il dipartimento delle Finanze del Ministero dell'economia (risoluzione 1/2009) aveva però precisato, modificando il proprio orientamento manifestato con la risoluzione 12/2008, che l'agevolazione operasse solo nei casi di assimilazione stabiliti da specifiche disposizioni di legge. Quindi, si poteva considerare adibita a prima casa l'unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisivano la residenza in istituti di ricovero o cura, a condizione che non risultasse locata, e quella concessa in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale.
Esenzione Imu. La nozione di prima casa per l'Imu è un po' diversa rispetto a quella stabilita per l'Ici dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992. In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Se i componenti del nucleo familiare fissano la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni si applicano a un solo immobile.
Per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione. In presenza delle condizioni di legge questi immobili sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione.
La legge, infatti, prevede per queste unità immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i Comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro. Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
La classificazione catastale dell'immobile. Anche la classificazione catastale è decisiva ai fini del riconoscimento delle agevolazioni fiscali. La Cassazione con l'ordinanza 8017/2017 ha chiarito che non spetta l'esenzione Ici se l'immobile destinato ad abitazione principale è inquadrato catastalmente come ufficio o studio. Naturalmente, lo stesso trattamento deve essere riservato per Imu e Tasi.
Per i giudici di legittimità, «ai fini del trattamento esonerativo rileva l'oggettiva classificazione catastale dell'immobile, per cui l'immobile iscritto come «ufficio-studio», con attribuzione della relativa categoria (A/10), è soggetto all'imposta». Ha precisato, inoltre, che nel caso in cui l'immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale, è onere del contribuente, che pretenda l'esenzione, impugnare l'atto di classamento.
---------------
Abitazioni e pertinenze contigue.
Vincoli rigidi anche per fruire dei benefici fiscali sulle pertinenze della prima casa. Per la Corte di Cassazione (Sez. VI civile, ordinanza 23.06.2017 n. 15668), un garage non può essere considerato pertinenza di un'abitazione principale se non c'è contiguità spaziale tra i due immobili.
La distanza tra garage e abitazione fa venir meno il vincolo pertinenziale, che è indispensabile per poter fruire dell'esenzione Imu. Non può essere riconosciuta l'esenzione se la distanza è tale che il vincolo pertinenziale può essere rimosso «secondo la convenienza del contribuente, senza necessità di «radicali trasformazioni» per una diversa destinazione». In questi casi manca «il requisito della contiguità spaziale».
È necessario anche il vincolo cartolare di contestuale destinazione al servizio dell'abitazione al momento del separato acquisto del garage. Nella pronuncia viene richiamata la tesi sostenuta per le aree edificabili che sono pertinenze dei fabbricati, secondo la quale l'esclusione della loro autonoma tassabilità si fonda sull'accertamento rigoroso dei requisiti richiesti dall'articolo 817 del codice civile.
Quindi, è necessario verificare il dato oggettivo che l'immobile pertinenziale sia effettivamente posto al servizio del fabbricato e che non sia possibile una diversa destinazione senza una radicale trasformazione (articolo ItaliaOggi Sette del 05.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza dei titoli abilitativi - Sequestro preventivo - Edificazione di un immobile abusivo - Esigenza di impedire la prosecuzione dei lavori ancora in corso - Art. 44, lett. c), dpr n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l'esigenza di impedire la prosecuzione dei lavori di edificazione di un immobile abusivo ancora in corso è, di per sé, condizione sufficiente per disporre e mantenere il sequestro preventivo del manufatto e dell'area ove esso insiste, indipendentemente dalla natura e dalla entità degli interventi ancora da eseguire per ultimarlo (Sez. 3, n. 49220 del 06/11/2014; Sez. 3, n. 38216 del 28/09/2011).
Esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale - Buona fede dell'agente - Limiti - Edilizia: titoli abilitativi decaduti.
Nei reati contravvenzionali, la buona fede dell'agente tale da escludere l'elemento soggettivo non può essere determinata dalla mera non conoscenza della legge, bensì da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole (Sez., n. 4951 del 17/12/1999, dep. 21/04/2000; Sez. 3, n. 172 del 06/11/2007, dep. 07/01/2008; Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009), e che la esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell'agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa; inoltre, in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativo sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l'obbligo di astensione dall'intervento e dell'espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia (Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011). Fattispecie: attività illecita di trasformazione del territorio con conseguente aggravamento delle consegue del reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2018 n. 129 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAUso pubblico del porticato con dimostrazione difficile.
I proprietari di alcune abitazioni posizionate sopra ad un hotel che ha ottenuto una licenza edilizia finalizzata ad espandersi inglobando anche il porticato esterno rischiano di perdere l'uso pubblico di quello spazio. Anche se la porta di accesso condominiale è ubicata nella stessa area.

Lo ha evidenziato il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 03.01.2018 n. 13.
Un comune ha avvallato la richiesta di ampliamento proposta dal gestore di una struttura ricettiva ammettendo la chiusura di un porticato dotato di esercizi commerciali e porta di accesso condominiale. Contro questa determinazione alcuni proprietari degli immobili sovrastanti all'hotel hanno proposto censure al collegio, ma senza successo. Il comune non è obbligato ad effettuare complessi accertamenti sulla titolarità dell'immobile e sull'inesistenza di vincoli, specifica la sentenza.
Del resto la licenza edilizia non attribuisce diritti soggettivi al suo titolare. Nel caso esaminato dal collegio il comune ha effettuato verifiche adeguate. E a parere del Tar deve escludersi l'uso pubblico del porticato se lo stesso è stato utilizzato solo dai proprietari degli appartamenti (articolo ItaliaOggi del 23.01.2018).
---------------
8. Nel merito, peraltro, il ricorso è infondato e va respinto.
...
8.3. Quanto poi all’accertamento della pretesa servitù pubblica di passaggio, ritiene il collegio che la tesi difensiva di parte ricorrente non possa essere condivisa.
La giurisprudenza ha chiarito che caratteristiche indispensabili della servitù di uso pubblico sono:
   a) il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
   b) la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
   c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile
(Consiglio di Stato sez. V 09.07.2015 n. 3446).
In particolare,
la c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima; di conseguenza, ai fini della costituzione, su di un'area privata, di una servitù di uso pubblico, per effetto del passaggio esercitato da lunghissimo tempo, è necessario che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone, per soddisfare un interesse pubblico generale, mentre deve escludersi l'uso pubblico allorquando il passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari di determinati immobili, in rapporto alla loro particolare ubicazione (sempre Consiglio di Stato sez. V, 09.07.2015 n. 3446).
8.4. Nel caso di specie, al di là dell’”atto di regolamentazione” del 1964 col quale il proprietario dell’albergo e quello del condominio avevano concordato la ripartizione delle spese di manutenzione e di illuminazione del porticato dando atto che lo stesso era “destinato al pubblico passaggio”:
   - non è affatto chiaro, innanzitutto, se il termine “pubblico” fosse riferito alla collettività indifferenziata dei cittadini, o non piuttosto ai soli clienti dell’albergo e ai proprietari delle unità condominiali e ai loro ospiti; sicché la tesi dell’avvenuta costituzione della servitù di pubblico passaggio in forza di un asserita dicatio ad patriam poggia su presupposti alquanto labili;
   - analogamente, manca la prova che nel corso degli anni e dei decenni successivi all’edificazione degli edifici e del porticato, quest’ultimo sia stato effettivamente utilizzato dalla collettività indifferenziata dei cittadini di Sauze d’Oulx, e non dai soli proprietari del condominio e dagli avventori dell’albergo e degli esercizi commerciali ubicati all’interno del porticato; i presupposti dell’usucapione dedotti dalla parte ricorrente difettano, allo stato, dell’imprescindibile accertamento giurisdizionale, di pertinenza del giudice civile;
   - a ciò si aggiunga che il porticato non è collegato alla viabilità pedonale (il marciapiede, come riferito dalla stessa parte ricorrente, è situato sul lato opposto della strada), sicché il transito attraverso il porticato non può aver costituito, nel corso degli anni, un passaggio obbligato e un momento di necessario raccordo tra due diversi tratti della “passeggiata” pedonale, ma può aver trovato giustificazione solo nell’esigenza di accedere all’albergo o ai due esercizi commerciali (farmacia e tabaccheria) ivi ubicati;
   - né appare il sintomo di un uso uti cives del porticato l’esistenza delle strisce pedonali che collegano il marciapiede, sito sul lato opposto della strada, al porticato, le quali, al contrario, sembrano trovare ragionevole giustificazione nell’esigenza di consentire l’attraversamento pedonale a coloro che, percorrendo la passeggiata sul lato marciapiede, debbano accedere all’albergo e ai due esercizi commerciali posti all’interno del porticato;
   - analogamente, la cassetta delle lettere collocata a ridosso dell’ingresso della tabaccheria è chiaramente collegata a quest’ultima e, quindi, benché utilizzabile in astratto da chiunque, è del tutto ragionevole ritenere che nel corso degli anni sia stata utilizzata dalla relativa utenza, non potendo quindi assurgere a sintomo dell’esistenza di un passaggio “pubblico” attraverso il porticato;
   - e lo stesso è a dirsi per le locandine del cinema, che, collocate nelle immediate vicinanze dell’albergo, trovano proprio in tale particolare ubicazione la loro evidente giustificazione commerciale.
9. In definitiva, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso non presenta profili suscettibili di accoglimento e va quindi respinto, dovendosi riaffermare il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui “
deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione” (Cons. Stato, V, 14.02.2012, n. 728; Cass. Civ., I, 05.02.2014 n. 2557).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio della concessione edilizia, deve verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è chiesta la concessione edilizia, benché la concessione sia sempre rilasciata facendo salvi i diritti dei terzi, è anche vero, però, che deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile, atteso che la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune.
---------------

8. Nel merito, peraltro, il ricorso è infondato e va respinto.
8.2. Giova premettere che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, “Se è vero che l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio della concessione edilizia, deve verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è chiesta la concessione edilizia, benché la concessione sia sempre rilasciata facendo salvi i diritti dei terzi, è anche vero, però, che deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile, atteso che la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune” (Consiglio di Stato sez. V 24.03.2011 n. 1770; TAR Torino sez. I 15.06.2010 n. 2841).
8.2. Nel caso di specie, l’istruttoria svolta dall’amministrazione comunale sull’istanza di permesso di costruire presentata dalla proprietà dell’albergo non sembra affetta dai vizi dedotti dalla parte ricorrente:
   - l’amministrazione, nei limiti della cognizione necessariamente sommaria che caratterizza le indagini prodromiche al rilascio dei titoli edilizi, ha esaminato, innanzitutto, l’articolata relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire (doc. 5 ricorrenti), nella quale si illustravano le ragioni per le quali l’uso pubblico del portico, benché affermato in alcuni atti formali, non poteva ritenersi sussistente in concreto;
   - ha poi chiesto ulteriori chiarimenti sul punto alla parte richiedente con nota del 09.06.2015, alla quale ha fatto seguito una relazione tecnica integrativa della proprietà, con ulteriori deduzioni a conferma dell’inesistenza, in concreto, di alcuna servitù di pubblico passaggio (doc. 6 ricorrente);
   - quindi, anche dopo il rilascio del titolo edilizio, a seguito della nota di contestazione dell’amministratore di condominio del 27.07.2015, ha richiesto ulteriori chiarimenti alla proprietà dell’albergo, la quale ha provveduto a far pervenire agli uffici un parere del proprio legale, in data 08.09.2015; parere contenente diffuse argomentazioni a sostegno della inesistenza della servitù di pubblico passaggio.
Alla luce di tali rilievi, ritiene il collegio che l’amministrazione abbia istruito in modo adeguato il procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del titolo edilizio nei limiti esigibili dalla pubblica amministrazione, che non è un organo giurisdizionale e che, alla luce dei principi sopra richiamati, non può spingere le proprie indagini istruttorie fino al punto “di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile” (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIllecito professionale, il giudice decide se è grave. Le sanzioni non escludono dai concorsi.
Le sanzioni irrogate da un'amministrazione non costituiscono un grave illecito professionale se non trovano riscontro in un provvedimento giurisdizionale che le conferma; il concorrente non deve dichiararle in sede di gara.

Lo ha affermato il Consiglio di giustizia siciliana con la sentenza 28.12.2017 n. 575 che si è espressa sull'applicazione dell'art. 80, comma 5, lettera c), del codice dei contratti a sua volta oggetto delle linee guida Anac n. 6.
La vicenda riguardava un concorrente che aveva omesso di dichiarare in gara l'irrogazione di penali, per oltre un milione di euro, con riferimento ad uno stesso contratto di appalto stipulato con un'altra stazione appaltante. Da qui la sentenza di primo grado che aveva confermato l'esclusione disposta dalla stazione appaltante in quanto la dichiarazione ha la funzione di rendere noto alla stazione appaltante un fatto che potrebbe rilevare nell'ambito della valutazione della gravità del comportamento di un concorrente, sottoposta alla discrezionalità della stazione appaltante.
Il Consiglio di Stato sovverte il giudizio di primo grado. I giudici di Palazzo Spada, dopo aver premesso che l'apertura dell'art.80, comma 5, lettera c) del codice anche ad «altre sanzioni», senza ulteriori specificazioni, consentirebbe di applicare l'esclusione anche nel caso dell'irrogazione di una penale contrattuale, afferma che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale. E questo specialmente se si tratti di applicazione di penali in misura modesta.
Se, pertanto, in relazione ad un pregresso contratto, non si sono prodotti effetti giuridici (risoluzione anticipata «definitiva» perché non contestata ovvero confermata in giudizio, penali, risarcimento, incameramento della garanzia), un eventuale «inadempimento contrattuale» non assurge, per legge, al rango di «significativa carenza».
Nella sostanza quindi l'intervento del giudice al fine di valutare i casi di possibile grave illecito professionale rappresenta una garanzia ineludibile: necessario per inadempimento delle prestazioni e risarcimento danno ma che non può essere disatteso neanche per l'irrogazione di altre sanzioni fra cui le penali contrattuali (articolo ItaliaOggi del 02.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Anche se il bene è in stato di abbandono può essere dichiarato di interesse storico-artistico.
In linea di diritto, il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
---------------
Se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico ‒potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento‒, tuttavia è onere dell’Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate dall’Amministrazione comunale circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile.
Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto “astratta” (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.
---------------
Ancora più in radice, il provvedimento della Soprintendenza non esplicita perché un complesso immobiliare semi-diroccato, privato da tempo degli elementi architettonici originali e della sua destinazione originaria, conservi l’antica vestigia di architettura industriale.
La succinta relazione storico-artistica ‒premessi alcuni dati relativi alla data di edificazione (1920) e delle diverse destinazioni‒ si limita ad affermare che l’immobile «riflette l’articolazione tipologica dei complessi ad uso produttivo del primo novecento, caratterizzata dalla disposizione dei corpi di fabbrica lungo la strada provinciale con ingresso principale da cui […]». Aggiunge che: «La composizione riflette i caratteri ricorrenti dell’architettura del lavoro del primo periodo dell’industrializzazione, contraddistinti dalla serialità delle bucature a lunetta e dall’articolazione geometrica semplice degli spazi esterni, definita sulla base delle esigenze funzionali della sequenza delle lavorazioni». Conclude: «il complesso edilizio, che conserva i caratteri architettonici e tipologici originali, costituisce testimonianza materiale di archeologia industriale, oltre che segno storico della trasformazione antropica del sito, e pertanto riveste interesse culturale».
Si tratta di affermazioni stereotipate, in cui non è possibile rintracciare le ragioni che attestano la singolarità del bene che si assume avere valore di testimonianza. La mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto, quale quello in questione. Qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova. Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio.
---------------
Va pure rimarcato che, ai sensi del citato art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, non è certo sufficiente la proprietà pubblica perché la Soprintendenza possa imporre un vincolo, essendo sempre necessario motivare adeguatamente la sussistenza dell’interesse storico, archeologico o etnoantropologico, soprattutto quando ‒come accade nel presente giudizio‒ la dichiarazione del vincolo valga a sottrarre il bene ad un preciso e corrente interesse pubblico: quello di realizzare una struttura della Protezione Civile (avvalendosi di apposito stanziamento regionale) in luogo di “ruderi” fatiscenti.
---------------
Non coglie nel segno l’appellante Soprintendenza quando evoca un presunto sconfinamento della discrezionalità tecnica.
Invero, quando le scelte in ordine alle modalità di cura e di salvaguardia dell’interesse culturale si esprimono in una ampia gamma di possibilità, si accentua -e non diminuisce‒ l’«obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni», in base ai superiori principi di buon andamento (art. 97 Cost.) e di “buona amministrazione” (art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
---------------

1.‒ L’appello è infondato.
1.1.‒ Ai sensi 10, comma 1, del decreto-legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137): «Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico».
1.2.‒ In linea di diritto, il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
2.‒ Sennonché, nel caso in esame, l’atto in contestazione ‒motivato per relationem mercé il rinvio alla relazione storico-artistica ivi allegata‒ non dà adeguato conto della meritevolezza dell’impronta storico-architettonica che si vorrebbe posseduta dall’immobile comunale.
2.1.‒ Il percorso argomentativo non appare, in primo luogo, aderente allo stato oggettivo dei luoghi.
È incontestato tra le parti che il complesso immobiliare versa in stato di totale abbandono e sia privo di importanti elementi costruttivi (che lo pregiudicano finanche sotto l’aspetto statico e di adeguamento alle norme sismiche vigenti), stante la «mancanza di cordoli di concatenamento, setti murari eccessivamente distanti tra loro, mancanza di coperture, solai di sottotetto parzialmente crollati». Il plesso peraltro è stato adibito per lunghissimo tempo ad usi eccentrici, e segnatamente quello di: «deposito mezzi nettezza urbana», «autocarrozzeria», «ricovero animali», «deposito carri funebri».
Ebbene, se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico ‒potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 03.04.2003, n. 1718; 03.09.2001, n. 4591; 28.12.2000, n. 7034)‒, tuttavia era onere dell’Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate dall’Amministrazione comunale circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile. Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto “astratta” (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.
Il vizio motivazionale è corroborato anche da quello istruttorio, giacché ‒secondo quanto dedotto dall’amministrazione comunale senza specifica contestazione di controparte‒ i funzionari dell’organo ministeriale (che non avevano le chiavi per accedere all’immobile e neppure le avevano richieste agli uffici del Comune di Santa Maria Capua Vetere) hanno omesso di effettuare una ricognizione dei luoghi, accontentandosi della mera allegazione di relazioni d’archivio.
2.2.‒ Ancora più in radice, il provvedimento non esplicita perché un complesso immobiliare semi-diroccato, privato da tempo degli elementi architettonici originali e della sua destinazione originaria, conservi l’antica vestigia di architettura industriale.
La succinta relazione storico-artistica ‒premessi alcuni dati relativi alla data di edificazione (1920) e delle diverse destinazioni‒ si limita ad affermare che l’immobile «riflette l’articolazione tipologica dei complessi ad uso produttivo del primo novecento, caratterizzata dalla disposizione dei corpi di fabbrica lungo la strada provinciale con ingresso principale da cui […]». Aggiunge che: «La composizione riflette i caratteri ricorrenti dell’architettura del lavoro del primo periodo dell’industrializzazione, contraddistinti dalla serialità delle bucature a lunetta e dall’articolazione geometrica semplice degli spazi esterni, definita sulla base delle esigenze funzionali della sequenza delle lavorazioni». Conclude: «il complesso edilizio, che conserva i caratteri architettonici e tipologici originali, costituisce testimonianza materiale di archeologia industriale, oltre che segno storico della trasformazione antropica del sito, e pertanto riveste interesse culturale».
Si tratta di affermazioni stereotipate, in cui non è possibile rintracciare le ragioni che attestano la singolarità del bene che si assume avere valore di testimonianza. La mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto, quale quello in questione. Qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova. Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2012, n. 6293, sia pure in un caso relativo all’imposizione del vincolo di cui all’art. 10, comma 3, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004).
2.3.‒ Va pure rimarcato che, ai sensi del citato art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, non è certo sufficiente la proprietà pubblica perché la Soprintendenza possa imporre un vincolo, essendo sempre necessario motivare adeguatamente la sussistenza dell’interesse storico, archeologico o etnoantropologico, soprattutto quando ‒come accade nel presente giudizio‒ la dichiarazione del vincolo valga a sottrarre il bene ad un preciso e corrente interesse pubblico: quello di realizzare una struttura della Protezione Civile (avvalendosi di apposito stanziamento regionale) in luogo di “ruderi” fatiscenti.
2.4.‒ Non coglie nel segno l’appellante quando evoca un presunto sconfinamento della discrezionalità tecnica. Invero, quando le scelte in ordine alle modalità di cura e di salvaguardia dell’interesse culturale si esprimono in una ampia gamma di possibilità, si accentua -e non diminuisce‒ l’«obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni», in base ai superiori principi di buon andamento (art. 97 Cost.) e di “buona amministrazione” (art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
3.‒ Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2017 n. 5950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va dichiarato liberato dall’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione che l’Amministrazione comunale assume ancora dovuti, perché il pregresso pagamento nelle mani del funzionario infedele che si è appropriato delle somme ricevute –in virtù del principio dell’apparenza giuridica– determina l’estinzione dell’obbligazione e la necessità che l’ente locale si rivalga, a quel punto, sul proprio dipendente.
---------------

La presente controversia ha quale oggetto, l’accertamento dell’esistenza o meno di un debito della società ricorrente nei confronti del comune di Zocca (MO) per l’importo di € 12.841,72 a titolo di contributi urbanistici (per oneri di costruzione e per oneri di urbanizzazione secondaria) relativo al permesso di costruire n. 40 rilasciato alla medesima in data 19/12/2006.
Nel peculiare caso di specie, il Collegio è chiamato ad accertare se, a seguito del versamento degli oneri di urbanizzazione (a mezzo di assegni bancari, con quietanza del Comune del 06/12/2007 v. doc. n. 3 della ricorrente) nelle mani di funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per il reato di “peculato”–, la ricorrente sia o meno tenuta a corrispondere all’Amministrazione quanto viene ad essa imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Come è noto,
l’art. 1189 cod. civ., che riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all’ipotesi di pagamento effettuato al creditore apparente, sia all’ipotesi in cui il pagamento viene effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, ove quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare l’errore del solvens, facendo sorgere nel soggetto in buona fede una ragionevole presunzione circa la rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens (v. tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 13.09.2012 n. 15339).
La norma deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è collegata all’istituto dell’apparenza giuridica, configurabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sull’effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento; in presenza di tale prova –a carico del debitore–, incombe sul creditore l’onere di provare a sua volta che il solvens non ignorasse la reale situazione, ovvero che l’affidamento dello stesso fosse determinato da colpa.
Questo TAR si è già pronunciato su questioni pressoché identiche a quella attualmente in esame con le sentenze della prima sezione nn. 380 del 2014 e 596 del 2017 e della seconda Sezione nn. 537 e n. 538 del 2016 della Sez. II, ivi svolgendo considerazioni e pervenendo ad un esito, dai quali il Collegio non ravvisa motivo alcuno per discostarsi nel decidere la presente causa.
Orbene,
la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto dovuto dalla ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione e ha poi distratto quella somma a proprio profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che la società instante adduce la buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all’Amministrazione comunale, e imputano alla stessa di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario, colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo affidamento del privato (sia esso persona fisica o impresa) in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che il comportamento di quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal cittadino comune (o da un’impresa privata, come è avvenuto nella specie) la conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e non è dunque ascrivibile a tali soggetti una insufficiente diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso del denaro; né, poi, è significativo che l’assegno bancario sia stato consegnato al funzionario infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarlo in parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per ingannare gli interessati) o, come nel caso di specie, la quietanza del pagamento recante il timbro comunale e la sottoscrizione del funzionario dell’Ufficio tecnico ricevente (v. doc. n. 3 della ricorrente) rappresentavano circostanze in sé convincenti, secondo un parametro di diligenza media, della correttezza della procedura in atto e dell’incasso della somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario investito della funzione di Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore pubblico.
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente per il privato,
si presenta decisiva la circostanza che il comportamento illecito del funzionario si sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa adozione di misure organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta ingannevole del funzionario, nonché il legittimo convincimento del privato, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.
Di qui la fondatezza della pretesa della ricorrente a vedersi dichiarare liberata dall’obbligo di pagamento di una somma di denaro che l’Amministrazione comunale assume ancora dovuta, posto che il pregresso pagamento nelle mani del funzionario infedele –in virtù del principio dell’apparenza giuridica– aveva determinato l’estinzione dell’obbligazione e la necessità che l’ente locale si rivalesse a quel punto sul proprio dipendente.
Pertanto, nei termini indicati il ricorso principale e il ricorso per motivi aggiunti vanno accolto, con accertamento dell’insussistenza di alcun debito della ricorrente nei confronti del comune di Zocca relativamente al contributo per costo di costruzione di cui al permesso di costruire n. 40 rilasciato alla medesima in data 19/12/2006 e conseguente annullamento degli atti impugnati con i suddetti ricorsi.
Va respinta, infine, la domanda di risarcimento dei danni, nessuna prova essendo stata fornita in tal senso dalla ricorrente (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 18.12.2017 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il verbale di verifica dello stato dei luoghi, a seguito dello scadere del termine imposto con l'ordinanza di demolizione, da parte della Polizia municipale ha valore di atto endoprocedimentale rispetto alle determinazioni dell'ente.
   a) per consolidata giurisprudenza, "l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione postula la stesura di un verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di accertamento.
In quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva, avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio.
Ne consegue l'autonoma inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile attinto dai contestati interventi edilizi abusivi“;
   b) in particolare, si è affermato che la portata della superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo.
Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il mero verbale di accertamento redatto dai vigili, inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni efefettuate durante l'accesso ai luoghi, dal ricorso, questo sìammissibile, avverso il formale atto di accertamento adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce, previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.”;
   c) è stato inoltre precisato condivisibilmente, sempre nella medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale, incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza).

---------------
2.1. Ritiene il Collegio che l’appello sia, sul punto, fondato, e che la statuizione di improcedibilità vada rimossa, in quanto:
   a) per consolidata giurisprudenza (tra le tante, si veda Tar Napoli, -Campania-, sez. VIII, 11/10/2011, n. 4645 "l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione postula la stesura di un verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di accertamento.
In quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva, avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio. Ne consegue l'autonoma inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile attinto dai contestati interventi edilizi abusivi
“;
   b) in particolare, si è affermato che la portata della superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo. Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il mero verbale di accertamento redatto dai vigili, inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni efefettuate durante l'accesso ai luoghi, dal ricorso, questo sìammissibile, avverso il formale atto di accertamento adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce, previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.
” (TAR Napoli, -Campania-, sez. VIII, 19/05/2015, n. 2763);
   c) è stato inoltre precisato condivisibilmente, sempre nella medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale, incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza);
   d) nel caso di specie, tale eventualità in ultimo mentovata non si era verificata, per cui il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione non possedeva quell’efficacia traslativa/acquisitiva da cui il Tar ha fatto discendere la statuizione di improcedibilità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’installazione di una serra mobile stagionale costituita da un tunnel in ferro e plastica, per il ricovero della fienagione. Il manufatto misura mt. 16 x 8,20, in altezza mt. 5,20, è infisso nel terreno senza opere murarie e movimento di terra.
L’art. 6, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 introduce, sotto il profilo dell’assentibilità come attività edilizia libera, la distinzione tra serre mobili stagionali e serre realizzate con strutture fisse: le prime rivolte alla protezione del terreno e delle coltivazioni in periodi stagionali, non necessitanti di titolo abilitativo; le seconde costituenti opere di supporto per l’attività agricola e commerciale, rivolte a soddisfare esigenze continuative connesse alla coltivazione e comportanti una modificazione permanente dello stato dei luoghi.
Con riferimento alla nozione di “stagionalità”, occorre fare riferimento ad una struttura che venga ciclicamente installata e poi rimossa al termine della stagione, ossia ad un manufatto che in una certa stagione dell’anno, ed ogni anno, viene costruito e poi regolarmente smontato.
Ciò risponde al tradizionale orientamento interpretativo, in epoca anteriore alle modifiche apportate al Testo Unico del 2001, quando si affermava che “la costruzione di serre di grandi dimensioni costituite da tubi ed intelaiature metallici interrati su cui vengono stesi teloni di plastica, destinate a far fronte a esigenze continuative connesse con la coltivazione ortofrutticola, è assoggettata a concessione edilizia, in quanto opera destinata ad alterare in modo duraturo l’assetto urbanistico-ambientale”.
Ne consegue che la struttura installata dagli odierni ricorrenti va considerata, a tutti gli effetti, quale nuova costruzione soggetta al preventivo rilascio di titolo abilitativo, non potendo essere annoverata tra gli interventi di edilizia libera.
---------------

Il ricorrente Gi.La. ha presentato al Comune di Ponti, in data 14.07.2012, una comunicazione di inizio lavori per attività edilizia libera, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, avente ad oggetto l’installazione di una serra mobile stagionale costituita da un tunnel in ferro e plastica, per il ricovero della fienagione. Il manufatto misura mt. 16 x 8,20, in altezza mt. 5,20, è infisso nel terreno senza opere murarie e movimento di terra.
Con l’ordinanza impugnata, il Comune di Ponti ha rilevato che “la serra mobile stagionale per il ricovero della fienagione costituita da tunnel, in base alle sue caratteristiche concrete (dimensioni, utilizzo di fatto non stagionale, alterazione in modo durevole e rilevante dallo stato dei luoghi, anche se non ancorata al suolo con basamento, e utilizzo non per esigenze contingenti o temporanee) non rientra nell’ambito di applicazione dell’attività edilizia libera ex art. 6, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001, ma in quello dell’art. 3, lett. e.5), del D.P.R. n. 380/2001 con conseguente necessità di rilascio di titolo abilitativo: in ogni caso … devono essere rispettate le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e nella fattispecie non viene rispettata la distanza dai confini prescritta dall’art. 36 delle NN.TT.AA del PRGC vigente”.
...
Il ricorso è infondato, per le ragioni già sommariamente enunciate nella fase cautelare.
Il manufatto del quale è stata ordinata la demolizione è sprovvisto del requisito della “stagionalità”. Per espressa ammissione degli stessi ricorrenti, esso non viene rimosso durante l’anno, ma viene solo progressivamente svuotato nel periodo che va da ottobre ad aprile, senza alcuna modifica o ridimensionamento esteriore.
L’art. 6, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 introduce, sotto il profilo dell’assentibilità come attività edilizia libera, la distinzione tra serre mobili stagionali e serre realizzate con strutture fisse: le prime rivolte alla protezione del terreno e delle coltivazioni in periodi stagionali, non necessitanti di titolo abilitativo; le seconde costituenti opere di supporto per l’attività agricola e commerciale, rivolte a soddisfare esigenze continuative connesse alla coltivazione e comportanti una modificazione permanente dello stato dei luoghi.
Con riferimento alla nozione di “stagionalità”, occorre fare riferimento ad una struttura che venga ciclicamente installata e poi rimossa al termine della stagione, ossia ad un manufatto che in una certa stagione dell’anno, ed ogni anno, viene costruito e poi regolarmente smontato.
Ciò risponde al tradizionale orientamento interpretativo, in epoca anteriore alle modifiche apportate al Testo Unico del 2001, quando si affermava che “la costruzione di serre di grandi dimensioni costituite da tubi ed intelaiature metallici interrati su cui vengono stesi teloni di plastica, destinate a far fronte a esigenze continuative connesse con la coltivazione ortofrutticola, è assoggettata a concessione edilizia, in quanto opera destinata ad alterare in modo duraturo l’assetto urbanistico-ambientale” (Cons. Stato, sez. VI, 08.06.2000 n. 3247).
Ne consegue che la struttura installata dagli odierni ricorrenti va considerata, a tutti gli effetti, quale nuova costruzione soggetta al preventivo rilascio di titolo abilitativo, non potendo essere annoverata tra gli interventi di edilizia libera.
Non rileva, al riguardo, la distanza della serra dal confine e la sua controversa conformità alle prescrizioni del piano regolatore.
Il Comune ha legittimamente ordinato la demolizione del manufatto realizzato senza titolo, per il quale non risulta che sia stata presentata alcuna istanza di accertamento di conformità.
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.12.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 prevede che: ”il contributo di costruzione non è dovuto: per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Lo sgravio contributivo esige perciò il concorso di due presupposti, e cioè, uno oggettivo, l'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l'altro soggettivo, l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell'ente pubblico, purché le opere siano inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.
---------------
Nel caso di specie, manca però del tutto il requisito soggettivo ed è assente anche quello oggettivo. Non vi è infatti alcun indice che possa suffragare l’affermata indissolubilità della destinazione dell’opera a fini "pubblici".
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività. Non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità.
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione.
---------------
In linea generale, è già stato ripetutamente affermato da questa Sezione che il rilascio della concessione edilizia, anche in zona ASI (Area di Sviluppo industriale), si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabile affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante. Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione.
L’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, prevista dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, è invece dovuta per un'opera di interesse generale realizzata da un privato per conto di un ente pubblico, ma solo se esso abbia agito quale organo indiretto dell'Amministrazione, come nella concessione o nella delega. Se non ricorre tale circostanza, l’esenzione non può essere ammessa, essendo un fatto eccezionale e comunque esclusa in una situazione in cui il privato percepisce un lucro.
La solo presenza di un convenzione, quale quella stipulata dall’appellante con il consorzio ASI, non dà luogo ad un rapporto concessorio che determina l’obbligo del privato a realizzare opere che siano inerenti al soddisfacimento di un interesse pubblico.
---------------

1. Il signor Fr.Gi. il 06.08.2012 stipulava con il Consorzio per lo Sviluppo industriale della provincia di Cosenza (in seguito ASI) un contratto preliminare per la cessione di un terreno da destinare ad insediamento produttivo per la realizzazione di una piattaforma logistica per prodotti agrumari.
L’ASI individuava come area idonea un lotto di terreno ubicato nel comune di Corigliano Calabro nella località Zona Industriale (foglio 38, particella 1353) per una superficie complessiva di mq 6.990. In data 10.08.2012, il signor Gi. presentava un’istanza allo stesso Comune per ottenere il rilascio del permesso di costruire.
2. Successivamente, con note del 20.09.2012 e del 13.12.2012 il comune di Corigliano richiedeva una documentazione integrativa, depositata in data 13.12.2012, e gli comunicava che ai fini del rilascio del permesso di costruire avrebbe dovuto effettuare i versamenti degli oneri di urbanizzazione secondaria e del contributo sul costo di costruzione. Anche il pagamento di quest’ultimo avrebbe dovuto essere effettuato prima del rilascio del permesso di costruire.
3. Per questa ragione, il signor Gi. il 28.03.2014 diffidava il Comune a provvedere sulla sua istanza, esentandolo dal pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e dal pagamento del contributo sul costo di costruzione, a suo avviso non dovuti ai sensi dell'art. 16, comma 3, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001 (testo unico sull’edilizia).
4. Contro il silenzio rifiuto serbato sulla sua istanza e per l’accertamento dell'obbligo del comune di Corigliano Calabro di rilasciare il permesso di costruire anche in assenza del pagamento del contributo sul costo di costruzione proponeva poi ricorso al Tar per la Calabria, sede di Catanzaro. A fondamento del gravame deduceva che l'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 prevedesse l'esenzione dal contributo sul costo di costruzione "per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti" e che ricorrevano tutti i presupposti affinché l’impianto in questione fosse qualificato come opera pubblica.
5. Con sentenza n. 2129/2014 il Tar di Catanzaro dichiarava inammissibile il ricorso avverso il silenzio rifiuto, rilevando che, alla stregua dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel testo applicabile ratione temporis, il silenzio serbato sull’istanza di concessione del permesso di costruire avesse un significato di silenzio-assenso, non sussistendo vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
6. Contro tale pronuncia il signor Gi. proponeva appello al Consiglio di Stato lamentando il fatto che la sentenza gravata non avesse in alcun modo riscontrato la richiesta di accertare la debenza o meno del contributo sul costo di costruzione.
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 384/2016, accoglieva in parte l’appello, ritenendo che la formazione del silenzio-assenso rendesse inammissibile il ricorso per l’annullamento del silenzio qualificato come rifiuto, ma non la connessa azione di accertamento della non debenza di oneri contributivi che non era stata oggetto di contraddittorio in primo grado. Conseguentemente rimetteva la controversia al giudice di primo grado.
7. Con atto di riassunzione ritualmente notificato e depositato, il signor Gi. ha chiesto al Tar di Catanzaro di accertare la non debenza del contributo sul costo di costruzione, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c), prima parte, del d.P.R. n. 380/2001, e per l’effetto di ordinare al Comune di Corigliano Calabro di rilasciare il permesso di costruire senza il preventivo pagamento del costo di costruzione. Il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il ricorso.
8. Il signor Gi. ha quindi impugnato la predetta sentenza, prospettando i seguenti motivi di appello.
...
12. L’appello non è fondato per le ragioni di seguito esposte.
13. L’art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 prevede che: ”il contributo di costruzione non è dovuto: per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Lo sgravio contributivo esige perciò il concorso di due presupposti, e cioè, uno oggettivo, l'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l'altro soggettivo, l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell'ente pubblico, purché le opere siano inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.
Nel caso di specie, manca però del tutto il requisito soggettivo ed è assente anche quello oggettivo. Non vi è infatti alcun indice che possa suffragare l’affermata indissolubilità della destinazione dell’opera a fini "pubblici".
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività. Non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2394/2016; 2327/2007).
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione.
14. In linea generale, è già stato ripetutamente affermato da questa Sezione (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5546/2916) che il rilascio della concessione edilizia, anche in zona ASI, si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabile affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante. Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione.
15. L’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, prevista dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, è invece dovuta per un'opera di interesse generale realizzata da un privato per conto di un ente pubblico, ma solo se esso abbia agito quale organo indiretto dell'Amministrazione, come nella concessione o nella delega (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3721/2016). Se non ricorre tale circostanza, l’esenzione non può essere ammessa, essendo un fatto eccezionale e comunque esclusa in una situazione in cui il privato percepisce un lucro.
16. La solo presenza di un convenzione, quale quella stipulata dall’appellante con il consorzio ASI, non dà luogo ad un rapporto concessorio che determina l’obbligo del privato a realizzare opere che siano inerenti al soddisfacimento di un interesse pubblico.
...
18. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto la sentenza impugnata va confermata seppure con diversa motivazione (Consiglio di Stato, IV, sentenza 20.11.2017 n. 5356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAHotel, non si può negare la sostituzione dell'insegna.
Non si può negare all'esercente la sostituzione dell'insegna di esercizio posizionata sulla facciata della struttura ricettiva. Anche se l'hotel in questione è posizionato in prossimità di una strada di grande percorrenza ed è visibile da un incrocio poco distante.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 25.09.2017 n. 851.
Una struttura alberghiera ha richiesto all'Anas la possibilità di rinnovare le insegne di esercizio posizionate sulle facciate dello stabile ma senza successo. Contro questo diniego l'interessato ha proposto ricorso al tribunale amministrativo che ha accolto le censure dell'esercente.
Anche se l'art. 51 del regolamento stradale vieta l'installazione degli impianti pubblicitari in genere in prossimità degli incroci le insegne di esercizio devono essere trattate diversamente. Innanzitutto perché se vengono posizionate in aderenza al fabbricato non possono mai essere considerate letteralmente a ridosso di una intersezione.
E in ogni caso siccome l'impianto era già stato regolarmente autorizzato non è possibile negare la semplice sostituzione materiale dell'insegna vecchia con una nuova (articolo ItaliaOggi del 23.01.2018).
---------------
MASSIMA
Si controverte sulla legittimità dei provvedimenti, in epigrafe indicati, con i quali la P.A. ha negato alla struttura alberghiera ricorrente l’autorizzazione a sostituire le preesistenti insegne con nuove insegne, sull’assunto che tali mezzi pubblicitari sarebbero posti in corrispondenza di un’intersezione, in violazione dell’art. 51, comma 2, del Regolamento di Esecuzione del Codice della Strada.
I dinieghi impugnati sono illegittimi per le ragioni di seguito indicate.
In primo luogo perché la P.A. non ha valutato le osservazioni svolte dal privato in seguito al preavviso di rigetto, con ciò violando l’art. 10-bis della l. n. 241/1990.
In secondo luogo perché l’art. 51, comma 2, Reg. Esec. C.d.S. non dispone che il posizionamento di cartelli sia vietato in corrispondenza delle intersezioni, bensì che “il posizionamento di cartelli, di insegne di esercizio e di altri mezzi pubblicitari fuori dai centri abitati e dai tratti di strade extraurbane per i quali è imposto un limite di velocità non superiore a 50 km/h” debba essere autorizzato ed effettuato nel rispetto di una serie di distanze minime indicate dalla norma stessa, sicché il riferimento normativo addotto dalla P.A. a sostegno degli impugnati dinieghi risulta inconferente e la motivazione perplessa.

Il divieto di posizionare cartelli, di insegne di esercizio e di altri mezzi pubblicitari “in corrispondenza delle intersezione” è, in verità, sancito dall’art. 51, comma 3, lett. b, Reg. Esec. C.d.S..
Dalla documentazione depositata dalla ricorrente (cfr. doc 6 ric.) non emerge, tuttavia, che le insegne per cui è causa -in passato già autorizzate e oggetto di una richiesta di mera sostituzione- siano poste in corrispondenza di una intersezione, prevedendosi nel progetto di rinnovo allegato agli atti che le stesse siano installate direttamente sulla struttura alberghiera -più precisamente sopra l’ingresso dell’albergo e sulla facciata (lato sud) e sulla torre (lato nord e sud)– e sul totem collocato nel parcheggio lato sud dell’albergo.
Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento del ricorso, con conseguente annullamento degli atti impugnati.

inizio home-page