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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2018

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aggiornamento al 31.01.2018

aggiornamento al 25.01.2018

aggiornamento al 15.01.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.01.2018

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Mancanza della (preventiva) autorizzazione sismica e ripercussioni -più o meno negative- sul titolo edilizio abilitativo.

EDILIZIA PRIVATA: In giurisprudenza, già sotto il regime dell’art. 8 d.l. 23.01.1982 n. 9, conv., con modificazione, dalla l. 25.03.1982 n. 94, è stato affermato che il nulla-osta del Genio civile per le costruzioni da realizzare in zone sismiche, anche se non è condizione per il rilascio della concessione edilizia, è presupposto di efficacia di quest’ultima, finendo per condizionare l’inizio dei lavori e la stessa formazione del silenzio-assenso.
Attualmente, dal testo dell’art. 94, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 (alla stregua del quale, “fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’art. 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”), si desume l’autonomia di ciascuno dei due titoli ampliativi e la loro suscettibilità di essere rilasciati indipendentemente dall’avvenuta emissione dell’altro, ma, considerato il tenore dell’art. 20, commi 3 e 5-bis, del D.P.R. 380/2001, è l’autorizzazione sismica a dover intervenire prima del rilascio del titolo edilizio.
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FATTO
Con sentenza n. 284/2017, divenuta definitiva, questo TAR ha annullato il diniego opposto dal Comune di Vibo Valentia al rilascio del p.d.c. in variante richiesto dalla ricorrente sulla base del c.d. “piano casa”, riconoscendo l’avvenuta formazione del silenzio-assenso ed affermando testualmente che “alla data del diniego (27.07.2016), il suddetto termine di 100 giorni [per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio del p.d.c.] era ormai perento, sia che lo si faccia decorrere dal 23.09.2015 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuto deposito del progetto presso l’ex Genio civile), sia che lo si faccia decorrere dal 12.01.2016 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuta verifica del progetto da parte dell’ex Genio civile)”.
Con il ricorso principale, integrato da motivi aggiunti, viene quindi impugnato il provvedimento con cui il Comune di Vibo Valentia ha, successivamente, proceduto all’annullamento d’ufficio del predetto silenzio-assenso.
Resiste il Comune di Vibo Valentia.
All’udienza del 24.01.2018, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
La ricorrente lamenta innanzitutto che l’annullamento è intervenuto quando era già spirato il termine di 18 mesi, previsto dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990.
Occorre premettere, al riguardo, che l’Amministrazione, per come espressamente enunciato nella motivazione del provvedimento di autotutela, ha fatto applicazione del comma 2-bis del citato art. 21-nonies, a mente del quale “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1”.
Tuttavia, nel caso di specie, detta norma non appare applicabile, posto che non vi è alcuna “sentenza passata in giudicato”, che contenga l’accertamento della falsità del contenuto dei suddetti elaborati tecnici.
Occorre, pertanto, stabilire se l’impugnato provvedimento sia stato adottato oltre il termine di 18 mesi previsto dalla disposizione normativa richiamata.
Come anzidetto, la sentenza del TAR n. 284/2017, che ha annullato il diniego opposto dal Comune di Vibo al rilascio del p.d.c. richiesto dalla ricorrente, riconoscendo l’avvenuta formazione del silenzio-assenso, ha affermato che “alla data del diniego (27.07.2016), il suddetto termine di 100 giorni era ormai perento, sia che lo si faccia decorrere dal 23.09.2015 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuto deposito del progetto presso l’ex Genio civile), sia che lo si faccia decorrere dal 12.01.2016 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuta verifica del progetto da parte dell’ex Genio civile)”.
Ora, se il titolo abilitativo tacito si è formato 100 giorni dopo il 23.09.2015 (e, quindi, l’01.01.2016), l’autotutela, adottata con atto del 20.07.2017, è certamente intervenuta oltre i 18 mesi.
Se, invece, il titolo si è formato 100 giorni dopo il 12.01.2016, l’autotutela è intervenuta tempestivamente.
In giurisprudenza, già sotto il regime dell’art. 8 d.l. 23.01.1982 n. 9, conv., con modificazione, dalla l. 25.03.1982 n. 94, è stato affermato che il nulla-osta del Genio civile per le costruzioni da realizzare in zone sismiche, anche se non è condizione per il rilascio della concessione edilizia, è presupposto di efficacia di quest’ultima, finendo per condizionare l’inizio dei lavori e la stessa formazione del silenzio-assenso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.02.1996 n. 117).
Attualmente, dal testo dell’art. 94, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 (alla stregua del quale, “fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’art. 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”), si desume l’autonomia di ciascuno dei due titoli ampliativi e la loro suscettibilità di essere rilasciati indipendentemente dall’avvenuta emissione dell’altro (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7128), ma, considerato il tenore dell’art. 20, commi 3 e 5-bis, del D.P.R. 380/2001, è l’autorizzazione sismica a dover intervenire prima del rilascio del titolo edilizio (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 18.12.2015 n. 5810; TAR Sicilia, Palermo, 27.10.2010 n. 13720).
Alla stregua di ciò, il dies a quo di decorrenza del termine per la formazione del silenzio-assenso deve necessariamente individuarsi nella data del 12.01.2016, rispetto alla quale il provvedimento di autotutela risulta adottato tempestivamente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 24.01.2018 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia prescritta dall’art. 65 d.p.r. n. 380/2001 per la realizzazione dei lavori in cemento armato non costituisce presupposto del titolo edilizio ma è un adempimento necessario per la sola esecuzione dei lavori  come si evince dalle seguenti circostanze:
   a) la denuncia non deve essere effettuata prima del rilascio del permesso di costruire, bensì prima dell'inizio lavori;
   b) gli artt. 68 e segg. del d.P.R. n. 380 del 2001 riservano una disciplina speciale per l'esecuzione di lavori in assenza di denuncia diversa, rispetto a quella concernente la realizzazione di opere senza titolo edilizio ed anche la disciplina penalistica della fattispecie, contenuta negli artt. 71 e ss., diverge da quella prevista dall’art. 44 del medesimo testo normativo nel caso di mancanza del titolo edilizio;
   c) la giurisprudenza ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in cemento armato non sia idonea ad impedire la decadenza del permesso di costruire per l'inutile decorso del termine annuale previsto per l'inizio lavori, termine stabilito dall'art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001. La tesi in esame, nel propugnare la perdurante decorrenza del termine, presuppone la piena efficacia del titolo edilizio;
Nella stessa ottica, anche la denuncia e l’autorizzazione ex artt. 93 e 94 d.p.r. n. 380/2001 costituiscono atti necessari per il solo inizio dei lavori e non anche per il perfezionamento del titolo edilizio come si evince dal fatto che le disposizioni in esame riguardano il solo inizio dei lavori e dall’inciso iniziale del citato art. 94 secondo cui “fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”.
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- Considerato che con un’unica censura la ricorrente prospetta la violazione degli artt. 6 d.lgs. n. 28/2011, 65, 93 e 94 d.p.r. n. 380/2001, 10 d.m. 06/07/2012 e 3 e 10 l. n. 241/1990 nonché eccesso di potere per difetto d’istruttoria, di motivazione e travisamento dei fatti in quanto, al momento della scadenza dei termini per l’iscrizione al registro, la società esponente sarebbe stata in possesso del titolo autorizzativo per la realizzazione dell’impianto; in quest’ottica sia la denuncia ex art. 65 d.p.r. n. 380/2001 che la denuncia e l’autorizzazione a fini sismici ex artt. 93 e 94 d.p.r. n. 380/2001 non influirebbero sul perfezionamento del titolo edilizio necessario per la realizzazione dell’impianto ma solo sull’esecuzione dei relativi lavori.
Tale circostanza sarebbe stata rappresentata nelle osservazioni presentate nell’ambito del procedimento che, però, non sarebbero state valutate il che integrerebbe l’ulteriore vizio di difetto di motivazione del provvedimento impugnato (così a pag. 14 dell’atto introduttivo);
- Considerato che il motivo in esame è fondato e deve essere accolto;
- Considerato, in particolare, che, secondo quanto previsto dall’art. 6 d.lgs. n. 28/2011, il titolo autorizzativo, ivi previsto, si perfeziona decorsi trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione del privato, unitamente alla documentazione prescritta, senza che il Comune competente abbia esercitato il potere inibitorio di sua pertinenza (si veda, in particolare, il comma 4 della disposizione in esame secondo cui “il Comune, ove entro il termine indicato al comma 2 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite al medesimo comma, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza; è comunque salva la facoltà di ripresentare la dichiarazione, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia. Se il Comune non procede ai sensi del periodo precedente, decorso il termine di trenta giorni dalla data di ricezione della dichiarazione di cui comma 2, l'attività di costruzione deve ritenersi assentita”);
- Considerato, poi, che la denuncia prescritta dall’art. 65 d.p.r. n. 380/2001 per la realizzazione dei lavori in cemento armato non costituisce presupposto del titolo edilizio ma è un adempimento necessario per la sola esecuzione dei lavori (così TAR Lombardia–Milano n. 2581/2015) come si evince dalle seguenti circostanze:
   a) la denuncia non deve essere effettuata prima del rilascio del permesso di costruire, bensì prima dell'inizio lavori;
   b) gli artt. 68 e segg. del d.P.R. n. 380 del 2001 riservano una disciplina speciale per l'esecuzione di lavori in assenza di denuncia diversa, rispetto a quella concernente la realizzazione di opere senza titolo edilizio ed anche la disciplina penalistica della fattispecie, contenuta negli artt. 71 e ss., diverge da quella prevista dall’art. 44 del medesimo testo normativo nel caso di mancanza del titolo edilizio;
   c) la giurisprudenza ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in cemento armato non sia idonea ad impedire la decadenza del permesso di costruire per l'inutile decorso del termine annuale previsto per l'inizio lavori, termine stabilito dall'art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. TAR Veneto, sez. II, 24.01.2008, n. 174). La tesi in esame, nel propugnare la perdurante decorrenza del termine, presuppone la piena efficacia del titolo edilizio;
- Considerato che, nella stessa ottica, anche la denuncia e l’autorizzazione ex artt. 93 e 94 d.p.r. n. 380/2001 costituiscono atti necessari per il solo inizio dei lavori e non anche per il perfezionamento del titolo edilizio come si evince dal fatto che le disposizioni in esame riguardano il solo inizio dei lavori e dall’inciso iniziale del citato art. 94 secondo cui “fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione” (in questo senso anche TAR Campania–Napoli n. 2356/2013);
- Considerato, poi, che la nota del Comune di Viggiano del 28.06.2016 deve essere interpretata nel senso che le vicende evidenziate nella motivazione della stessa, concernenti la denuncia e l’autorizzazione sismica, abbiano influito sulla sola esecuzione dei lavori (come emerge dal terzo alinea dell’atto ove si richiama la precedente nota del 02/05/2013 in cui si parla espressamente di mera “sospensione dei lavori”) e non anche sull’efficacia del titolo edilizio essendo la contraria opzione ermeneutica contraria alla normativa vigente, come in precedenza evidenziato;
- Considerato, pertanto, che, al momento dell’iscrizione nel registro, la ricorrente era in possesso del titolo autorizzativo richiesto dall’art. 10, comma 1, d.m. 06/07/2012 tale dovendosi intendere il titolo per la realizzazione dell’impianto e non già quello per l’avvio dei lavori;
- Considerato che, in questo senso, deve essere interpretato anche il disposto dell’art. 2.2.1. delle Procedure Applicative elaborate dal GSE secondo cui “possono richiedere l’iscrizione al registro i soggetti responsabili titolari del titolo autorizzativo/abilitativo conseguito per la costruzione e l’esercizio dell’impianto”;
- Considerato che l’opzione ermeneutica in esame è coerente con i punti 2.2.7 e 3.1. delle stesse Procedure Applicative ove si specifica che “nell’ipotesi di denuncia di inizio attività (DIA) o di procedura abilitativa semplificata (PAS)…il titolo abilitativo si intende conseguito decorsi 30 giorni dalla data di presentazione della relativa documentazione senza che siano intervenuti espliciti dinieghi e senza che si siano verificate cause di sospensione di detto termine, quali la necessità di acquisire, anche mediante convocazione di conferenza di servizi, atti di amministrazioni diverse e di attivare il potere sostitutivo (articolo 23 d.p.r. n. 380/2001 e articolo 6, comma 5, d.lgs. n. 28/2011)”;
- Considerato che, come già precisato, tra gli atti di assenso necessari ai fini del conseguimento del titolo edilizio abilitativo ed acquisibili tramite conferenza di servizi ex artt. 14 e ss. l. n. 241/1990, così come individuati nell’art. 6 comma 5, d.lgs. n. 28/2001 (richiamato dal punto 2.2.7 delle Procedure Applicative), non rientrano quelli ex artt. 65 e 94 d.p.r. n. 380/2001 di talché nella fattispecie il titolo deve ritenersi conseguito alla scadenza del termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione del soggetto responsabile dell’impianto, così come stabilito dall’art. 6, comma 5, citato;
- Considerato che tali circostanze sono state rappresentate dalla ricorrente nell’ambito delle osservazioni del 13.10.2016 (si veda l’allegato n. 9 alla memoria del GSE del 20/02/17) che non risultano specificamente valutate dal gravato provvedimento di decadenza che, pertanto, risulta affetto anche dal dedotto difetto motivazionale;
- Considerato che la fondatezza della censura in esame comporta l’accoglimento della domanda caducatoria e l’annullamento del provvedimento prot. GSE/P20160084362 del 24 ottobre 2016, unico tra gli atti impugnati lesivi dell’interesse dalla ricorrente stante la natura endoprocedimentale delle ulteriori note gravate (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 09.03.2017 n. 3308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sia l’art. 18 della l. 02.02.1974, n. 64, che l’art. 94 del D.P.R. 380/2001 stabiliscono che, fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo, nelle località sismiche, a eccezione di quelle a bassa sismicità, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
Sicché, lo sbancamento si configura come esempio tipico di intervento di trasformazione e dissodamento di terreno, normato dal R.D. 30.12.1923, n. 3267, recante “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”, e la fattispecie in esame non ne costituisce un’eccezione, attesa sia la soggezione dell’area al vincolo idrogeologico che lo stato di fatto descritto in ricorso, laddove, illustrandosi il riversamento verso la strada di accesso di cospicue quantità di terriccio e acqua determinato dal caso di pioggia, si conferma la precarietà della situazione idrogeologica del terreno su cui insiste l’immobile interessato dall’attività edilizia abusiva.

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Con l’odierno gravame la ricorrente ha interposto azione impugnatoria avverso l’ordinanza del Comune di Monte Porzio Catone n. 7 del 09.03.2007, che le ha ingiunto la demolizione di opere abusive realizzate in via Romoli, località Valle Formale, nell’ambito di un immobile di proprietà sito in area soggetta a vincolo paesistico, sismico e idrogeologico.
Tali opere consistono nello sbancamento di un terrapieno adiacente l’ingresso del garage posto al piano interrato, con demolizione del muro di contenimento dello stesso, nell’apertura di una finestra sulla parete ovest del villino, per l’effetto risultante posizionata fuori terra, nello spostamento della scala esterna in cemento armato di accesso al primo piano.
...
3. Nel merito, il ricorso è infondato.
...
5. Con il quarto motivo la ricorrente sostiene che l’ordine di demolizione non avrebbe potuto richiamare la carenza delle autorizzazioni sismica e idrogeologica, non essendo le opere di cui trattasi suscettibili di minare la sicurezza delle abitazioni, la pubblica incolumità, l’equilibrio idrogeologico dell’area.
Per respingere la censura non occorrono molte parole.
Sia l’art. 18 della l. 02.02.1974, n. 64, che l’art. 94 del D.P.R. 380/2001 stabiliscono infatti che, fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo, nelle località sismiche, a eccezione di quelle a bassa sismicità (ipotesi che non risulta ricorrente nella fattispecie), non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
Inoltre, lo sbancamento si configura come esempio tipico di intervento di trasformazione e dissodamento di terreno, normato dal R.D. 30.12.1923, n. 3267, recante “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”, e la fattispecie in esame non ne costituisce un’eccezione, attesa sia la soggezione dell’area al vincolo idrogeologico che lo stato di fatto descritto in ricorso, laddove, illustrandosi il riversamento verso la strada di accesso di cospicue quantità di terriccio e acqua determinato dal caso di pioggia, si conferma la precarietà della situazione idrogeologica del terreno su cui insiste l’immobile interessato dall’attività edilizia abusiva (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.04.2016 n. 4536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio che tra permesso di costruire e autorizzazione sismica non sussista il rapporto di presupposizione (costituito dal necessario previo rilascio del primo per potersi ottenere la seconda) ipotizzato dal Comune, poiché dal testo dell’art. 94, co. 1, del DPR 380/2001 (alla stregua del quale, “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”) si desume l’autonomia di ciascuno dei due titoli ampliativi e la loro suscettibilità di essere rilasciati indipendentemente dall’avvenuta emissione dell’altro, o che, al più, considerato il tenore dell’art. 20 DPR 380/2001 (e, in particolare dei commi 3 e 5-bis), dovrebbe essere l’autorizzazione sismica a dover intervenire prima del rilascio del titolo edilizio; e ciò sia trattandosi di autorizzazione sismica ordinaria, sia in sanatoria.
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Oggetto del presente giudizio è il provvedimento prot. n. 7298 del 10.10.2014, con cui il Comune di Guardia Sanframondi (incontestatamente titolare della relativa competenza, trasferitagli dal Genio Civile di Benevento) ha negato il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria chiesta da Fo.Ab. (con istanza prot. n. 7144 del 06.10.2014), relativamente a lavori di modifica prospetti e ampliamento di un fabbricato a lui appartenente, sito in via ..., con la seguente affermazione: “la pratica non può essere istruita in quanto, non risulta ancora perfezionato il permesso di costruire richiesto”.
Il riferimento riportato, in tale occasione, è alla richiesta di permesso di costruire formulata, sempre per le medesime opere, in data 07.05.2013 (acquisita al protocollo comunale con il n. 3227) da Fo.Ab., e con riferimento alla quale il richiedente, non essendo intervenuto alcun riscontro nel termine posto dall’art. 20, co. 8, DPR 380/2001, ha ritenuto essersi formato un tacito assenso, con conseguente legittimazione all’effettuazione dei relativi lavori.
Orbene, ritiene il Collegio che tra permesso di costruire e autorizzazione sismica non sussista il rapporto di presupposizione (costituito dal necessario previo rilascio del primo per potersi ottenere la seconda) ipotizzato dal Comune di Guardia Sanframondi, poiché, dal testo dell’art. 94, co. 1, del DPR 380/2001 (alla stregua del quale, “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”), si desume l’autonomia di ciascuno dei due titoli ampliativi e la loro suscettibilità di essere rilasciati indipendentemente dall’avvenuta emissione dell’altro (cfr. TAR Campania-Napoli n. 2356 del 07.05.2013; Cons. di Stato sez. VI, n. 7128 del 24.09.2010), o che, al più, considerato il tenore dell’art. 20 DPR 380/2001 (e, in particolare dei commi 3 e 5-bis), dovrebbe essere l’autorizzazione sismica a dover intervenire prima del rilascio del titolo edilizio; e ciò sia trattandosi di autorizzazione sismica ordinaria, sia in sanatoria (cfr. TAR Sicilia-Palermo n. 13720 del 27.10.2010).
La descritta situazione, allora, fa sì che –indipendentemente dalla circostanza che si sia, o meno, sostanziato l’assenso tacito sulla domanda di permesso di costruire prot. n. 3227 del 07.05.2013– comunque il Comune di Guardia Sanframondi non avrebbe potuto negare all’odierno ricorrente il rilascio dell’autorizzazione sismica da lui chiesta, per non essersi “perfezionato” il permesso di costruire da lui precedentemente richiesto.
Per tale ragione, rimanendo assorbito ogni ulteriore e diverso profilo di censura, il ricorso risulta, in definitiva, fondato, per cui va annullata l’impugnata nota prot. n. 7298 del 10.10.2014 del Comune di Guardia Sanframondi (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.12.2015 n. 5810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 65 dpr 380/2001 prevede che “le opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico, che provvede a trasmettere tale denuncia al competente ufficio tecnico regionale”, il che esclude che il rilascio del permesso di costruire sia subordinato a tale adempimento (cfr. art. 4 l. 1086 del 1971: “Le opere di cui all'articolo 1 devono essere denunciate dal costruttore all'ufficio del genio civile, competente per territorio, prima del loro inizio”).
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14 - Quanto al settimo motivo, con cui si lamenta essere stata omessa la preventiva approvazione del progetto da parte del genio civile in ritenuta violazione dell’art. 64 t.u. ed., va osservato che il successivo art. 65 prevede che “le opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico, che provvede a trasmettere tale denuncia al competente ufficio tecnico regionale”, il che esclude che il rilascio del permesso di costruire fosse subordinato a tale adempimento (cfr. art. 4 l. 1086 del 1971: “Le opere di cui all'articolo 1 devono essere denunciate dal costruttore all'ufficio del genio civile, competente per territorio, prima del loro inizio”).
I ricorrenti d’altra parte non deducono quale norma prescriva la pregiudizialità del deposito rispetto al titolo edilizio, tenuto conto che anche nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 83 e ss. t.u. ed., “fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità …, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione” (art. 94).
Né si vede in che termini rilevi l’art. 89, visto che lo stesso è riferito al procedimento di formazione degli strumenti urbanistici (“Tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all'articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione…”) e quindi a fattispecie del tutto estranea a quella in esame (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.08.2014 n. 375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - EDILIZIA PRIVATA: Obietta parte ricorrente che l’autorizzazione sismica non abbia attinenza con la cantierabilità dell’intervento, attenendo piuttosto all’inizio dei lavori.
Si tratta di un assunto non condivisibile in quanto, anche a prescindere da quanto previsto espressamente dalla lex specialis, la cantierabilità si innesta proprio nella fase esecutiva dell’opera, presupponendo l’esistenza di un progetto esecutivo.
Del resto, dirimente appare la prescrizione dell’art. 94 del t.u. in materia di edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), alla cui stregua nelle località sismiche «non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione».
Ne consegue che è difficilmente ipotizzabile il rilascio del permesso di costruire (intervenuto il 10.06.2010) senza previa autorizzazione sismica, e sicuramente non è giuridicamente consentita, in sua assenza, la comunicazione di inizio lavori, effettuata in data 07.06.2011.
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1. - Con il primo mezzo viene dunque dedotta l’illegittimità dell’impugnata determina dirigenziale n. 8431 del 29.10.2012, recante l’esclusione della domanda di aiuto del ricorrente dalla graduatoria definitiva, e della presupposta determina dirigenziale n. 9711 del 21.12.2011, nella considerazione che l’autorizzazione sismica non può ritenersi documento idoneo ad attestare la cantierabilità degli interventi, facendo l’art. 8 del bando (nel testo di cui alla determina dirigenziale n. 6166 del 2010) riferimento, e non, peraltro, a pena di esclusione, alle sole autorizzazioni prodromiche al conseguimento dei titoli abilitativi, mentre l’autorizzazione sismica, atto privo di discrezionalità, si colloca nella fase di esecuzione dei lavori.
Il motivo non appare meritevole di positiva valutazione.
L’art. 8 del bando, concernente modalità e criteri per la concessione degli aiuti previsti dalla misura 3.2.2 “Sviluppo e rinnovamento dei villaggi”, in tema di “cantierabilità degli interventi”, dispone che «il possesso dei titoli abilitativi (DIA, permessi a costruire, nulla-osta e tutte le autorizzazioni necessarie previsti dalle normative vigenti) che determinano la cantierabilità dell’intervento potranno essere acquisiti e trasmessi alla Regione entro e non oltre i 6 mesi successivi alla pubblicazione nel B.U.R.U. della graduatoria provvisoria di ammissibilità al finanziamento, così come descritto nel paragrafo 15».
Con la determina dirigenziale n. 9711 in data 21.12.2011 è stata disposta, da un canto, sub n. 5, «la non obbligatorietà della trasmissione, nei tempi previsti dal bando (sei mesi successivi alla pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione Umbria della graduatoria provvisoria di ammissibilità) delle altre autorizzazioni, tra cui quella sismica, di cui al D.P.R. 380/2001, connesse all’inizio lavori …, per non gravare di ulteriori oneri anche chi non sarà utilmente collocato nelle graduatorie definitive», e d’altro canto, sub n. 6, (è stato disposto) «di fissare per i titolari delle istanze che riceveranno la comunicazione di concessione dell’aiuto, utilmente collocati nelle graduatorie definitive, il termine di ulteriori due mesi e non oltre dalla data di ricevimento di tale comunicazione, pena l’esclusione dalle graduatorie definitive, per la trasmissione alla Regione delle altre autorizzazioni tra cui quella sismica, di cui al D.P.R. 380/2001, connesse all’inizio lavori …, necessarie ad avviare il programma di investimenti».
Nella vicenda in esame non è controverso che la domanda del ricorrente sia stata utilmente inserita nella graduatoria definitiva di ammissibilità, situazione per la quale la ricordata determina dirigenziale n. 9711 del 2011, specificativa dell’originaria lex specialis, al punto 6, prevede che entro due mesi occorre produrre, tra l’altro, l’autorizzazione sismica.
Sul piano dell’interpretazione funzionale, obietta parte ricorrente che l’autorizzazione sismica non abbia attinenza con la cantierabilità dell’intervento, attenendo piuttosto all’inizio dei lavori.
Si tratta, peraltro, di un assunto non condivisibile, in quanto, anche a prescindere da quanto previsto espressamente dalla lex specialis, la cantierabilità si innesta proprio nella fase esecutiva dell’opera, presupponendo l’esistenza di un progetto esecutivo.
Del resto, dirimente appare la prescrizione dell’art. 94 del t.u. in materia di edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), alla cui stregua nelle località sismiche (il Comune di Castiglione del Lago rientra in zona di media sismicità) «non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione» (analoga disposizione è contenuta nell’art. 8 della l.r. 27.01.2010, n. 5); ne consegue che è difficilmente ipotizzabile il rilascio del permesso di costruire (intervenuto il 10.06.2010) senza previa autorizzazione sismica, e sicuramente non è giuridicamente consentita, in sua assenza, la comunicazione di inizio lavori, effettuata in data 07.06.2011 (TAR Umbria, sentenza 15.10.2013 n. 498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dalla lettura dell’art. 94 D.P.R. 380/2001 (rubricato “Autorizzazione per l'inizio dei lavori”) si evince agevolmente che l’autorizzazione sismica è necessaria per l’inizio dei lavori e non costituisce viceversa un presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Tanto si ricava dall’esame della disposizione contenuta nel T.U. Edilizia, condotto secondo il criterio ermeneutico imposto dall’art. 12 delle preleggi al codice civile: vi si prevede infatti che “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”.

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Infine, non coglie nel segno l’ultimo motivo di diritto con cui le ricorrenti contestano l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 2 L.Reg. 07.01.1983 n. 9 (obbligo di deposito del progetto esecutivo presso l’Ufficio Provinciale del Genio Civile, da effettuare prima dell’inizio dei lavori) e per il mancato previo rilascio delle autorizzazioni occorrenti per i fabbricati da realizzare in zone sismiche.
Invero, dalla lettura dell’art. 94 D.P.R. 380/2001 (rubricato “Autorizzazione per l'inizio dei lavori”) si evince agevolmente che l’autorizzazione sismica è necessaria per l’inizio dei lavori e non costituisce viceversa un presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Tanto si ricava dall’esame della disposizione contenuta nel T.U. Edilizia, condotto secondo il criterio ermeneutico imposto dall’art. 12 delle preleggi al codice civile: vi si prevede infatti che “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”.
In ogni caso, si abbia presente che, come documentato in atti, prima dell’inizio dei lavori la controinteressata ha conseguito l’autorizzazione n. 1742 del 28.12.2011 ai sensi del citato art. 94 D.P.R. 380/2001 e dell’art. 2 L.Reg. 07.01.1983 n. 9, con successivo rilascio del certificato di collaudo tecnico–amministrativo depositato presso l’Ufficio del Genio Civile di Benevento in data 14.06.2012 (cfr. documenti depositati il 01.03.2013) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2396 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dalla lettura dell’art. 94 D.P.R. 380/2001 (rubricato “Autorizzazione per l'inizio dei lavori”) si evince agevolmente che l’autorizzazione sismica rilasciata dal competente Ufficio Tecnico Regionale è necessaria per l’inizio dei lavori e non costituisce viceversa un presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Tanto si ricava dall’esame della disposizione contenuta nel T.U. Edilizia, condotto secondo il criterio ermeneutico imposto dall’art. 12 delle preleggi al codice civile: vi si prevede infatti che “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”.
Pertanto, la circostanza che l’autorizzazione sismica sia stata ottenuta dopo il rilascio del permesso di costruire non inficia la legittimità di quest’ultimo.

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Non coglie nel segno il terzo motivo di diritto.
Invero, dalla lettura dell’art. 94 D.P.R. 380/2001 (rubricato “Autorizzazione per l'inizio dei lavori”) si evince agevolmente che l’autorizzazione sismica rilasciata dal competente Ufficio Tecnico Regionale è necessaria per l’inizio dei lavori e non costituisce viceversa un presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Tanto si ricava dall’esame della disposizione contenuta nel T.U. Edilizia, condotto secondo il criterio ermeneutico imposto dall’art. 12 delle preleggi al codice civile: vi si prevede infatti che “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”.
Pertanto, la circostanza che l’autorizzazione sismica sia stata ottenuta dopo il rilascio del permesso di costruire non inficia la legittimità di quest’ultimo (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.05.2013 n. 2356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I poteri di accertamento, di repressione e sanzionatori degli abusi edilizi sono quindi attribuiti dal legislatore al dirigente o al responsabile dell’ufficio amministrativo e detta competenza non è derogata dagli invocati articoli 94, 65 e 98 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380.
L’art. 65 del d.p.r. 380 del 2001 prevede particolari adempimenti da osservare da parte degli esecutori di opere realizzate in conglomerato cementizio armato.
L’art. 94 del d.p.r. 380 del 2001, ai commi 1 e 2 precisa che: “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. L'autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza”.
Gli articoli 65 e 94 del d.p.r. 380 del 2001 dettano quindi prescrizioni speciali, contenute nel capo II della parte seconda del titolo IV, per lavori realizzati con materiali in conglomerato cementizio e in zone sismiche e per la violazione delle quali è previsto uno speciale procedimento sanzionatorio di competenza del giudice penale, il quale a norma dell’art. 98 del testo unico di cui al d.p.r. n.380 del 2001 con il decreto o con la sentenza di condanna può ordinare la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme del capo II ovvero impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse.
La natura speciale di tali disposizioni per le quali è previsto uno speciale potere sanzionatorio del giudice penale non priva, come supposto dal ricorrente, il responsabile o il dirigente del Comune del suo potere repressivo e sanzionatorio, attribuito in via generale dall’art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 nelle ipotesi in cui, come nella specie, è assunta la realizzazione di opere in assenza e in difformità parziale dal permesso di costruire.

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5.- Nel merito, con il primo motivo di ricorso è dedotta l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per incompetenza dell’autorità emanante, poiché non spetterebbe al dirigente del servizio tecnico comunale irrogare la sanzione della demolizione per l’inosservanza degli obblighi di denunzia di cui agli articoli 94 e 65 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 previsti per le opere in conglomerato cementizio, ma spetterebbe, invece, al giudice penale ordinare la demolizione con decreto o con sentenza di condanna a norma dell’art. 98 del d.p.r. n. 380/2001.
5.1.- La censura è infondata.
L’ordinanza di demolizione è stata adottata a norma degli artt. 31 e 34 del d.p.r. n. 380 del 2001 che attribuiscono al Comune i poteri repressivi e sanzionatori in caso di accertamento di opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in difformità totale o parziale dallo stesso.
L’art. 31 cit., al comma 2, attribuisce in maniera esplicita la competenza al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale, il quale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione.
I poteri di accertamento, di repressione e sanzionatori degli abusi edilizi sono quindi attribuiti dal legislatore al dirigente o al responsabile dell’ufficio amministrativo e detta competenza non è derogata dagli invocati articoli 94, 65 e 98 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380.
L’art. 65 del d.p.r. 380 del 2001 prevede particolari adempimenti da osservare da parte degli esecutori di opere realizzate in conglomerato cementizio armato.
L’art. 94 del d.p.r. 380 del 2001, ai commi 1 e 2 precisa che: “Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. L'autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza”.
Gli articoli 65 e 94 del d.p.r. 380 del 2001 dettano quindi prescrizioni speciali, contenute nel capo II della parte seconda del titolo IV, per lavori realizzati con materiali in conglomerato cementizio e in zone sismiche e per la violazione delle quali è previsto uno speciale procedimento sanzionatorio di competenza del giudice penale, il quale a norma dell’art. 98 del testo unico di cui al d.p.r. n.380 del 2001 con il decreto o con la sentenza di condanna può ordinare la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme del capo II ovvero impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse.
La natura speciale di tali disposizioni per le quali è previsto uno speciale potere sanzionatorio del giudice penale non priva, come supposto dal ricorrente, il responsabile o il dirigente del Comune del suo potere repressivo e sanzionatorio, attribuito in via generale dall’art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 nelle ipotesi in cui, come nella specie, è assunta la realizzazione di opere in assenza e in difformità parziale dal permesso di costruire
(TAR Basilicata, sentenza 02.08.2011 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari", per cui il Comune "è onerato della verifica della esistenza e validità del nulla osta del genio civile, della rispondenza dello stesso ai grafici progettuali approvati dal comune stesso, in sintesi della mera esistenza e regolarità formale dell'assenso dell'ufficio del genio civile".
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Quanto al primo motivo (Violazione della legge 02.02.1974, n. 64 - Eccesso di potere - Incompetenza), riferito al rilievo del Comune, secondo cui la "manca il N.O. rilasciato dal Genio Civile", se ne deve rilevare l'infondatezza.
Ed invero, come osservato da questo Tribunale (Sezione staccata di Catania) con recente n. 211 del 30.01.2008, "il Comune, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari" (Consiglio di stato, sez. V, 14.07.2003, n. 4165), per cui il Comune "è onerato della verifica della esistenza e validità del nulla osta del genio civile, della rispondenza dello stesso ai grafici progettuali approvati dal comune stesso, in sintesi della mera esistenza e regolarità formale dell'assenso dell'ufficio del genio civile" (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.10.2010 n. 13720 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - Istanza di autorizzazione ex art. 87 d.lgs. n. 259/2003 - Allegazione della denuncia di verifica sismica - Inizio dei lavori.
Il quadro normativo vigente non impone in alcun modo di allegare la denuncia di verifica sismica della SRB già in sede di presentazione dell’istanza di autorizzazione o della denuncia di cui all’art. 87, d.lgs. 259 del 2003, limitandosi -piuttosto- a prescrivere che la denuncia in parola avvenga prima del concreto inizio dei lavori (in tal senso: il primo comma dell’art. 4, l. 1086 del 1971; il primo comma dell’art. 17, l. 64 del 1974, nonché il comma 3 dell’art. 2, L.R. Campania 9 del 1983) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2010 n. 7128 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Giurisprudenza aveva avuto in passato occasione di porre il principio secondo il quale la concessione edilizia non è atto complesso, in cui confluisca l'osservanza delle normative edilizia ed urbanistica (la cui cura è rimessa al comune) ed antisismica (affidata al genio civile), sì da obbligare il comune all'osservanza anche di quella antisismica, demandandosi, al contrario, al comune unicamente di verificare d'ufficio la permanente validità del nulla-osta rilasciato dal genio civile.
Riprendendo tale orientamento, di recente la giurisprudenza, in un caso analogo al presente, ha riaffermato che “il Sindaco, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto, …., ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari“.
Ad avviso del Collegio, dal principio affermato dalla giurisprudenza consegue che il comune è onerato della verifica della esistenza e validità del nulla osta del genio civile, della rispondenza dello stesso ai grafici progettuali approvati dal comune stesso, in sintesi della mera esistenza e regolarità formale dell’assenso dell’ufficio del genio civile.
Ma va escluso che al comune incomba altresì la verifica della rispondenza del progetto alla normativa tecnica per le zone sismiche, in quanto tale accertamento è demandato dalla legge ai competenti organi tecnici degli uffici del genio civile.
Basti al riguardo rilevare che l’indagine di conformità alla normativa tecnica antisismica, se appare di agevole risoluzione in un caso quale il presente (rapporto tra altezza dell’edificio e larghezza della strada prospiciente), risulterebbe assolutamente ardua ed impraticabile per la maggior parte delle verifiche imposte dalla normativa in questione, per le quali il comune potrebbe anche non disporre del personale in possesso della necessaria qualificazione professionale.
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II. Il collegio procede quindi ad esaminare nel merito il ricorso.
Con il primo motivo si lamenta, come meglio riportato in premesse, la violazione della normativa antisismica, per essere prevista un’altezza di gran lunga superiore a quella assentibile in funzione della larghezza della stradella di uso pubblico sul quale affaccia il lotto interessato dalla erigenda costruzione.
Preliminarmente va verificata l’ammissibilità del ricorso in parte qua, avuto riguardo all’eccezione, formulata nelle difese orali in pubblica udienza da parte della controinteressata, circa la mancata impugnazione del nulla osta del Genio Civile, nemmeno evocato in giudizio, organo preposto alla cura degli interessi sottesi alla normativa tecnica per le costruzioni in zone sismiche.
L’eccezione (che, peraltro, il collegio avrebbe rilevato d’ufficio) deve ritenersi fondata: la mancata impugnazione del nulla osta, conosciuto dai ricorrenti quanto meno dalla data del suo deposito in allegato alla verificazione, come comprovano le controdeduzioni alla relazione di verificazione (pag. 4), depositate il 04.06.2007, rende inoppugnabile l’atto, con il quale viene reso il giudizio di conformità del progetto alla normativa tecnica da parte della competente autorità.
Occorre allora verificare se, in conformità alla tesi della ricorrente, la concessione edilizia sia di per sé viziata per effetto della violazione della normativa antisismica.
Ma il Collegio ritiene che al quesito debba darsi risposta negativa.
La Giurisprudenza aveva avuto in passato occasione di porre il principio secondo il quale la concessione edilizia non è atto complesso, in cui confluisca l'osservanza delle normative edilizia ed urbanistica (la cui cura è rimessa al comune) ed antisismica (affidata al genio civile), sì da obbligare il comune all'osservanza anche di quella antisismica, demandandosi, al contrario, al comune unicamente di verificare d'ufficio la permanente validità del nulla-osta rilasciato dal genio civile (Cassazione penale, sez. VI, 21.12.1983).
Riprendendo tale orientamento, di recente la giurisprudenza, in un caso analogo al presente, ha riaffermato che “il Sindaco, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto, …., ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari.“ (Consiglio di stato, sez. V, 14.07.2003, n. 4165).
Ad avviso del Collegio, dal principio affermato dalla giurisprudenza consegue che il comune è onerato della verifica della esistenza e validità del nulla osta del genio civile, della rispondenza dello stesso ai grafici progettuali approvati dal comune stesso, in sintesi della mera esistenza e regolarità formale dell’assenso dell’ufficio del genio civile.
Ma va escluso che al comune incomba altresì la verifica della rispondenza del progetto alla normativa tecnica per le zone sismiche, in quanto tale accertamento è demandato dalla legge ai competenti organi tecnici degli uffici del genio civile.
Basti al riguardo rilevare che l’indagine di conformità alla normativa tecnica antisismica, se appare di agevole risoluzione in un caso quale il presente (rapporto tra altezza dell’edificio e larghezza della strada prospiciente), risulterebbe assolutamente ardua ed impraticabile per la maggior parte delle verifiche imposte dalla normativa in questione, per le quali il comune potrebbe anche non disporre del personale in possesso della necessaria qualificazione professionale. Tale conclusione appare rafforzata dall’esame della specifica legislazione regionale siciliana.
La L.R. 31.05.1994 n. 17, all’art. 2 ha introdotto il meccanismo del silenzio-assenso ai fini della semplificazione ed accelerazione delle procedure volte al rilascio delle concessioni edilizie.
A tal fine, dopo aver previsto la sequenza procedimentale che conduce all’acquisizione del titolo edilizio per effetto del decorso dei termini ivi indicati, l’art. 2 al comma 9 stabilisce che: “Le autorizzazioni, pareri o nulla-osta relativi alle opere oggetto della concessione edilizia, di competenza di amministrazioni diverse da quella comunale, devono essere resi nei termini previsti dai relativi ordinamenti ed in ogni caso nel rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 2 della legge regionale 30.04.1991, n. 10. I termini decorrono indipendentemente l'uno dall'altro, nonché dai termini per il rilascio della concessione edilizia.”
Risulta evidente l’intento del legislatore di sganciare il procedimento volto al rilascio della concessione edilizia, nel corso del quale la verifica del comune è strettamente limitata all’accertamento di conformità alla normativa urbanistica ed edilizia, dai procedimenti paralleli volti all’acquisizione dei necessari pareri e nulla osta, ivi incluso quello demandato all’Ufficio del Genio civile, riaffermandosi la competenza di ogni amministrazione alla cura degli interessi alla stessa demandati secondo una scansione procedimentale e temporale autonoma.
Pertanto, il primo motivo di ricorso risulta infondato in parte qua (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 30.01.2008 n. 211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 17 della legge n. 64 del 1974 chi vuole eseguire in località sismica una costruzione, sopraelevazione o riparazioni è tenuto “a darne preavviso scritto, notificato a mezzo del messo comunale o mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, contemporaneamente, al sindaco ed all'ufficio tecnico della regione o all'ufficio del genio civile secondo le competenze vigenti”.
Il Sindaco, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto, ad avviso della Sezione, ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari.
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La Cooperativa edilizia To.Ca. s.r.l. impugna la sentenza del 07.11.1997, n. 890, con la quale la Sezione di Reggio Calabria del TAR della Calabria ha accolto il ricorso proposto dal Sig. Pa.Li. e dagli altri litisconsorti in epigrafe nominati e ha annullato la concessione edilizia del 25.10.1996, n. 142, assentita dal Sindaco di Reggio Calabria alla società appellante per la realizzazione di un fabbricato per civili abitazioni in località Sbarre.
Dei motivi di ricorso dedotti agli attuali appellati il TAR ha accolto il rilievo con il quale questi avevano denunciato che la costruzione di cui alla concessione edilizia assentita è alta 18 metri mentre, in base alla normativa antisismica contenuta nel Decreto del Ministro dei Lavori Pubblici del 16.01.1996, n. 19, non avrebbe dovuto superare gli undici metri.
Giova riportare tale motivo di accoglimento testualmente.
Il TAR ha premesso che: “dalle planimetrie emerge che il fabbricato in contestazione, sul fronte che affaccia su vico Vitetta, ha una distanza dal ciglio stradale opposto che oscilla fra 9,95 m. e 10,60; sul fronte che si affaccia su vico Vitetta–Viale delle Vittorie, ha una distanza dal ciglio stradale opposto pari a dieci metri, almeno in un punto del tracciato”.
Orbene, in base all’allegato all’art. 1, al punto C3, del decreto ministeriale citato, “per i fabbricati che si affacciano su strade comprese in una larghezza fra tre ed undici metri, è stabilita una altezza non superiore a undici metri e poiché l’altezza massima dell’edificio (di sei piani) è prevista in diciotto metri, è evidente che non sono state rispettate le prescrizioni, vincolanti su tutto il territorio nazionale, dal D.M. 16.01.1996, entrato in vigore trenta giorni dopo la pubblicazione nella G.U. avvenuta il 05.02.1996, in base all’art. 2 dello stesso decreto”.
Secondo il TAR, il sindaco di Reggio Calabria, entrato in vigore il predetto decreto ministeriale, non avrebbe potuto rilasciare la concessione edilizia, ma avrebbe dovuto rinviare il progetto all’Ufficio del Genio civile, che aveva già espresso il proprio parere sul progetto di costruzione in base alla normativa
antisismica contenuta nel previgente decreto del Ministro dei Lavori Pubblici del 24.01.1986, per un nuovo avviso sulla base delle nuove prescrizioni antisismiche. L’appello della Cooperativa To.Ca. s ’incentra nella contestazione di tale motivo di accoglimento.
Nessuno degli argomenti dedotti dalla società appellante, peraltro, si rivela meritevole di accoglimento.
E’ palesemente incongruo, in primo luogo, il rilievo fondato sulla normativa transitoria di cui all’art. 2 del Decreto ministeriale del 24.01.1996, che, con l’art. 1, ha differito l’entrata in vigore delle nuove norme antisismiche di cui al decreto 16.01.1996 al 05.06.1996.
Per la disposizione ora citata, per quanto qui interessa, si dispone che: “in via transitoria continuano ad applicarsi le norme di cui al precedente decreto 24.01.1986 per le opere in corso e per le quali sia stata già presentata la denuncia prevista dall'art. 17 della legge 02.02.2974, n. 64”.
Le opere relative alla costruzione oggetto della presente controversia non erano ancora iniziate nel periodo in cui vigeva il regime transitorio, in quanto la concessione edilizia è stata assentita tre mesi dopo l’entrata in vigore delle nuove norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche.
Per l’applicabilità della precedente disciplina di cui al decreto del 24.01.1986 sarebbe stato invece necessario che le opere fossero già in corso, come chiaramente è richiesto dall’art. 2 in esame.
L’art. 2 in parola, infatti, non può essere interpretato nel senso sostenuto dall’appellante, secondo cui sarebbe stata sufficiente la sola presentazione del progetto all’ufficio del Genio civile.
La disposizione chiaramente richiede che siano già iniziate le opere (“per le opere in corso”) e che per tali opere sia stata già presentata (“e per le quali sia stata presentata”) la denuncia di cui all’art. 17 della legge n. 64 del 1974.
Con tale formulazione, apparentemente equivoca, la disposizione ha inteso fare riferimento anche alle ipotesi in cui i lavori siano stati iniziati e non sia stato ancora presentato il progetto di cui all’art. 17 citato all’ufficio tecnico della Regione o all’ufficio del Genio civile secondo le rispettive competenze.
In base al successivo art. 18 della stessa legge n. 64 del 1974, infatti, nelle località caratterizzate da un basso grado di sismicità indicate in specifici decreti ministeriali, è possibile iniziare i lavori senza avere ottenuto ancora l’autorizzazione dell’ufficio tecnico della Regione o dell’ufficio del Genio civile, pur vigendo comunque l’obbligo di presentare la documentazione prescritta dalla normativa antisismica per il controllo della realizzabilità della costruzione e per le verifiche sulla sua esecuzione.
Per quanto precede, appare corretta la pronuncia del TAR secondo la quale il Sindaco non avrebbe dovuto rilasciare la concessione edilizia se non dopo una nuova verifica della idoneità della costruzione rispetto ai nuovi parametri tecnici posti da una normativa in vigore al momento dell'esame del
provvedimento concessorio.
In base all’art. 17 della legge n. 64 del 1974 già citato, infatti, chi vuole eseguire in località sismica una costruzione, sopraelevazione o riparazioni è tenuto “a darne preavviso scritto, notificato a mezzo del messo comunale o mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, contemporaneamente, al sindaco ed all'ufficio tecnico della regione o all'ufficio del genio civile secondo le competenze vigenti”.
Il Sindaco, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto, ad avviso della Sezione, ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari.
In questa ultima considerazione deve ritenersi confutato anche il motivo di appello con il quale la società appellante prospetta che l’autorizzazione del Genio civile avrebbe dovuto essere impugnata autonomamente stante la sua autonomia dalla concessione edilizia e che, di conseguenza, il motivo dedotto avverso tale autorizzazione avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile dal TAR (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.07.2003 n. 4165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione per nuove costruzioni e necessità -o meno- del nulla osta del Genio Civile.
Rientra tra i provvedimenti abilitativi di cui all'art. 8, comma 3, d.l. 23.01.1982 n. 9, conv., con modificazione, dalla l. 25.03.1982 n. 94, anche il nulla osta del genio civile ex art. 18, l. 02.02.1974 n. 64 per tutte le costruzioni edilizie da realizzare in zone sismiche, il cui rilascio è condizione d'efficacia della concessione edilizia, per cui la sua mancata trasmissione al comune impedisce la legittima formazione del c.d. silenzio-assenso e dell'effetto di rilascio della concessione edilizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.1996 n. 117).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo, del d.m. 02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti- è disciplina integrativa dell'art. 873 cod. civ. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il giudice di merito -nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto- di dare attuazione alla disposizione integrativa dell'art. 873 cod. civ., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all'arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all'integrale eliminazione della nuova edificazione.
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3.1. Il secondo e -nella parte con cui si deduce violazione di legge- il quarto motivo del ricorso principale, strettamente collegati, sono a loro volta strettamente connessi ai temi sollevati nel ricorso incidentale nel suo unico motivo; la trattazione dei primi è assorbita da quella dell'ultimo.
Invero, in ordine al secondo motivo del ricorso principale, se effettivamente da un lato la corte d'appello, nell'affermare ai fini dell'individuazione del regime delle distanze per le costruzioni nell'area in discussione l'applicabilità dell'art. 873 cod. civ., ritenendo la norma codicistica, che prescrive la distanza di tre metri tra costruzioni frontistanti, non integrata dalle disposizioni del piano regolatore, prevedenti divieto assoluto di nuove edificazioni, ha tuttavia -senza adeguatamente esaminare le deduzioni in appello dell'odierna parte ricorrente- contraddittoriamente dato poi applicazione, mediante conferma della sentenza di prime cure, a quelle norme integratrici dell'art. 873 cod. civ. prevedenti distanze dal confine di metri cinque e dalle costruzioni di metri dieci al fine di determinare l'arretramento da effettuarsi rispetto alle fabbriche del Pi., d'altro lato la pronuncia in ordine alla dedotta nullità della sentenza per contrasto irriducibile tra motivazione e dispositivo, pur sussistente, non può logicamente separarsi dall'individuazione del regime delle distanze effettivamente da attuare, di cui al quarto motivo.
Quanto poi al quarto motivo medesimo, affrontandosi con esso la questione giuridica relativa al se nelle zone in cui lo strumento urbanistico vieti del tutto l'edificazione si applichi la disciplina residuale dell'art. 873 cod. civ. (come ritenuto dalla corte d'appello) o il medesimo regime di inedificabilità previsto dallo strumento, deve rilevarsi l'identità della questione stessa rispetto a quella centrale attinta dai profili sub a) e sub b) del motivo di ricorso incidentale, ciò che quindi dà ragione dell'assorbimento.
3.2. Stante l'assorbimento, l'esame del ricorso incidentale condurrà a formulazione di principio di diritto idoneo a governare anche i temi di cui al secondo e -nella parte con cui si deduce violazione di legge- al quarto motivo del ricorso principale, in particolare valendo a guidare il giudice del rinvio sui temi investiti dal secondo motivo del ricorso principale circa il denunciato contrasto tra motivazione e dispositivo (§ 3.1. innanzi), nonché dal quarto motivo del ricorso principale, nella parte relativa a violazione di legge (correlata al profilo sub b) del ricorso incidentale), ferma restando l'esigenza di accertamenti -anche d'ufficio- circa la disposizione sulle distanze concretamente applicabile (tema correlato a quanto subito in appresso § 4.1) e di revisione, a seconda delle risultanze dell'indagine, delle conclusioni (in tema di derogabilità delle distanze da parte dell'autonomia privata) fatte discendere dalla premessa dell'applicabilità dell'art. 873 cod. civ., alla luce del venir meno della premessa, in esito alla cassazione della sentenza qui a pronunciarsi (cfr. infra § 5).
4. Su tali basi deve dunque procedersi all'esame del ricorso incidentale nel suo unico motivo, nei profili sub a) e b).
4.1. In primo luogo (v. ricorso incidentale, profilo sub a)) la corte territoriale, in relazione al principio iura novit curia applicabile in materia di distanze e alla controversia sulla vigenza delle disposizioni di cui alla tabella delle distanze per la sottozona Al, effettivamente non risulta aver dato trattazione ai profili, anche documentali, sollevati dalla parte appellante incidentale. Essendo la censura fondata, a seguito della cassazione con rinvio i relativi accertamenti documentali andranno svolti.
4.2. Ciò posto, va affrontato, tra i diversi profili già sopra menzionati, specificamente quello concernente il frequente caso -quale quello in esame- in cui lo strumento urbanistico, emanato in base al decreto interministeriale 02/04/1968, n. 1444 (recante «Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967») vieti del tutto l'edificazione in una determinata zona (si tratta, di regola, della zona "A" di cui all'art. 2 dello stesso d.m.), e quindi non preveda la distanza da osservarsi per l'edificazione di costruzioni rispetto a fabbricati preesistenti (fermo restando che il divieto assoluto di costruire può derivare anche da altre fonti parimenti incidenti sul regime delle distanze; ad es., oltre che dalla legge, per l'ipotesi che derivi da piano particolareggiato, cfr. Cass. 16/02/2007, n. 3638). Sui presupposti impliciti che:
   (a) il divieto di costruire dettato dallo strumento avesse valenza solo amministrativa (rivolgendosi all'autorità comunale al fine del rilascio della concessione o permesso di costruire) e penale, non potendo il privato lamentarne la violazione innanzi al giudice ordinario in sede civile ai fini della rimessione in pristino, ma solo per il risarcimento dei danni, e
   (b) dovesse sussistere comunque un regime delle distanze legali per le costruzioni, stante la valenza generale dell'art. 873 cod. civ., la giurisprudenza di merito si è impegnata a individuare la relativa disciplina talora applicando in via analogica le norme dettate per le altre zone ove più severi sono gli standard edilizi, talora applicando la distanza di tre metri di cui all'art. 873 cod. civ.
Tale secondo orientamento è stato in più occasioni fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità (tra le pronunce non recenti v. ad es. Cass. n. 7804 del 13/07/1991 e n. 12376 del 19/11/1992), introducendosi peraltro una variante di esso (cfr. ad es. Cass. n. 4812 del 22/04/1992 e n. 1577 del 01/03/1990, avallate da sez. U n. 9871 del 22/11/1994, chiamate peraltro a comporre contrasto su altro tema) secondo cui, stante l'asserita natura suppletiva della distanza introdotta nell'art. 41-quinquies I. urb. dall'art. 17 della I. n. 765 del 1967 (al comma primo oggi abrogato dall'articolo 136 del d.p.r. n. 380 del 2001, eventualmente ex nunc secondo Cass. n. 12741 del 29/05/2006 e alcune altre pronunce), sarebbe stata quest'ultima, almeno all'epoca, la disciplina da applicare nel caso descritto (v. più recentemente Cass. n. 26123 del 30/12/2015).
4.3. Su tali basi, la giurisprudenza si è confrontata poi in particolare con il portato della disposizione dell'art. 9 del d.m. cit. del 1968, che al primo comma per le zone A prescrive che «per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale».
L'evoluzione giurisprudenziale ha conosciuto da un lato pronunce (v. ad es. Cass. 29/04/1995, n. 4754, e 20/05/2008, n. 12767) con cui questa corte ha continuato ad affermare che, vietandosi con detta norma qualsiasi attività costruttiva, essa non potesse ritenersi assumere carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sulle distanze. D'altro lato, questa corte -con la sentenza n. 1282 del 24/01/2006 che qui si condivide- nell'esaminare il caso in cui la «corte territoriale ... [aveva] rilevato che ... il divieto assoluto di nuove edificazioni comporta[sse] ... la sola applicabilità dell'art. 873 cod. civ.» ha affermato l'erroneità di tale argomentazione, in quanto essa «trascura il rilievo fondamentale che ... lo strumento urbanistico ... ha recepito il d.m. ... che all'art. 9 prescrive, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti. Tale disciplina, quindi, [è] parte integrante della normativa codicistica in materia di distanze nelle costruzioni», pienamente vigente anche a prescindere dalla mancata approvazione di strumenti particolareggiati esecutivi.
Secondo detta pronuncia, da cui non sussistono ragioni per discostarsi, ciò comporta che, in caso di «adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata di cui all'art. 9», sussiste «l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di applicare direttamente la disposizione dell'art. 9 richiamato, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico». Nello stesso solco si è nuovamente inserita questa corte con la sentenza n. 12424 del 20/05/2010, ove si è affermato, da angolo visuale complementare, che l'art. 9, comma primo, del d.m. citato «consente in quelle zone [A] il mantenimento in loco delle costruzioni preesistenti, oggetto di risanamento o ristrutturazione, sicché le esonera dall'osservanza di distanze diverse da quelle già in essere».
4.4. Successivamente la questione è stata esaminata dalle sezioni unite di questa corte, seppur adite per questione di giurisdizione, le quali hanno confermato pronuncia della corte territoriale che aveva statuito, in relazione alla violazione delle distanze intercorrenti tra edifici preesistenti in zona in cui tale limite si applicava, il principio per cui l'art. 9 d.m., «in quanto emanato su delega dell'art. 41-quinquies» cit., con «efficacia di legge», in presenza di strumenti urbanistici successivi contrastanti, comporta «l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di applicare tale disposizione, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico»; nel caso esaminato, in cui lo strumento prevedeva il divieto, «tale principio», secondo le sezioni unite, «trova ancor maggiore fondamento», stante la mancanza di contrasto rilevato dai giudici di merito (così Cass. sez. U n. 20354 del 05/09/2013).
4.5. Ai predetti precedenti cui il collegio intende uniformarsi si sono attenute, più recentemente, a quanto consta, Cass. n. 14552 del 15/07/2016, ove si è chiarito specificamente che, «essendo imposto» dall'art. 9 -qualificata «norma regolamentare [con] efficacia precettiva nei rapporti privatistici ... integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ.»- «un vincolo conformativo inerente alle caratteristiche intrinseche del territorio ..., il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti»; nonché Cass. n. 15458 del 26/07/2016, che ha ribadito che nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c..
4.6. Nel dare dunque continuità al predetto indirizzo interpretativo del combinato disposto dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968, può qui rilevarsi, a parte ogni considerazione circa i paradossi insiti nel precedente indirizzo (in particolare:
   (a) di fronte a un divieto di edificare ritenuto operante sul solo piano pubblicistico, il giudice sarebbe stato sempre chiamato ad individuare aliunde una norma volta a dettare distanze per costruzioni per altro verso illegittime, o in alternativa lo strumento urbanistico, nel dettare il divieto assoluto, avrebbe comunque dovuto prescrivere una distanza, volta al solo fine di integrare l'art. 873 cod. civ.;
   (b) proprio nelle zone A ove lo strumento urbanistico avesse dettato un divieto a maggior tutela del territorio il giudice civile avrebbe dovuto applicare una distanza di norma irrisoria, mentre nelle zone B meno tutelate la distanza minima tra pareti finestrate sarebbe stata di metri 10), che il diverso indirizzo appare in armonia con la ratio della disciplina urbanistica di assicurare l'ordinato sviluppo edilizio senza rinunciare a utilizzare all'uopo, talora, la nozione codicistica di "distanza" per le costruzioni (tanto che lo stesso legislatore dell'art. 873 cod. civ. se ne mostra consapevole).
In tal senso, deve ritenersi che anche le norme di divieto assoluto di edificare dettate da strumenti urbanistici -direttamente o per il tramite di disapplicazione giudiziale in relazione a discipline cogenti che il divieto impongano- contengano comunque un implicito riferimento all'art. 873 cod. civ. Di ciò la disposizione dell'art. 9, comma 1, del d.m. è una esplicitazione, nella parte in cui per le zone A prescrive che le distanze tra edifici (per operazioni di risanamento conservativo e per eventuali ristrutturazioni) non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti: trattasi di una disposizione in tema di divieto di nuove edificazioni, significativamente però formulata in termini di obbligo di rispetto, solo per determinate tipologie di fabbricazione, di "distanze", individuate in quelle preesistenti. Tale dato rivela chiaramente la volontà del legislatore di considerare il divieto sub specie di cristallizzazione, sia in negativo sia in positivo (cfr. Cass. n. 12424 del 20/05/2010 cit.), del regime civilistico delle distanze preesistenti.
Ciò conduce dunque a confermare che i divieti assoluti di edificazione posti da una normativa urbanistica cogente riferita anche implicitamente alla nozione di distanza per le costruzioni (di cui le norme di cui all'art. 1 del d.m. sono esempio, ma potendo discipline della specie essere dettate anche in altro modo, ad es., per legge) costituiscono disposizioni integrative dell'art. 873 cod. civ., con conseguente invocabilità ex art. 872, secondo comma, cod. civ. della riduzione in pristino, per relationem alle distanze de facto preesistenti tra edifici eventualmente anche non eccessivamente prossimi, le quali ovviamente potranno consistere in una distanza in senso stretto ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mentre si tradurranno in un divieto assoluto di edificazione, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume.
4.7. La predetta interpretazione dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968 -valorizzando quest'ultima disciplina che trae la sua forza normativa dai commi ottavo e nono non abrogati dell'art. 41-quinquies l.urb.- supera anche le problematiche poste dall'abrogazione richiamata del comma primo, in relazione all'orientamento che precedentemente riteneva necessario, per la disciplina delle distanze nelle zone A, il riferimento all'art. 41-quinquies stesso, nel primo comma, lett. c).
4.8. Infine l'indirizzo qui condiviso, in quanto recepisce una comprensione delle finalità delle «limitazioni alla proprietà privata, derivanti dall'obbligo di osservare le distanze nelle costruzioni» non ristrette a quella tradizionale di evitare intercapedini dannose o pericolose tra le costruzioni stesse, ma «stabilite, al pari di tutte le altre limitazioni, anche per fini di interesse generale, che si ricollegano alla funzione sociale della proprietà, alla quale il codice si riferisce in varie disposizioni» (così Corte cost., 09.07.1959, n. 38), è coerente anche con l'evoluzione giurisprudenziale registratasi parallelamente in altro ambito parimenti connotato da interrelazione tra interessi pubblici e privati: anche in tema di norme per l'edilizia nelle zone sismiche prescrittive di particolari modalità costruttive degli edifici (giunti e altri opportuni accorgimenti idonei a consentire la libera e indipendente oscillazione delle costruzioni vicine), superando l'orientamento precedente che alla violazione delle disposizioni in parola faceva seguire il solo risarcimento del danno non riconoscendo le stesse integrative dell'art. 873 cod. civ. in quanto non specificamente delimitative della sfera delle proprietà contigue, questa corte ha poi affermato, e ormai da epoca risalente, che la realizzazione degli accorgimenti costruttivi in parola «assolve a funzione analoga a quella assolta dagli intervalli di isolamento», dovendo quindi ammettersi l'esperimento anche di un'azione per la riduzione in pristino (cfr. per l'innovazione, inizialmente, Cass. n. 5024 del 07/05/1991 e n. 1654 del 21/02/1994, nonché sez. U, n. 7396 del 28/07/1998, seppur adite per questione di giurisdizione; più recentemente, tra le molte, Cass. n. 9319 del 17/04/2009 e n. 23231 del 15/11/2016).
4.9. Ne deriva che la sentenza impugnata va cassata per quanto di ragione come innanzi, onde il giudice di rinvio, svolti gli opportuni accertamenti documentali relativi al regime delle distanze applicabile, ove risulti un divieto di nuove edificazioni, dovrà procedere a rinnovato esame della fattispecie ritenendo le distanze pari a quelle individuate dai volumi preesistenti all'entrata in vigore del divieto, non derogabili dall'autonomia privata, applicando il seguente principio di diritto: "
in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo, del d.m. 02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti- è disciplina integrativa dell'art. 873 cod. civ. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il giudice di merito -nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto- di dare attuazione alla disposizione integrativa dell'art. 873 cod. civ., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all'arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all'integrale eliminazione della nuova edificazione" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 23.01.2018 n. 1616).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate dall'art. 873 del codice civile e seguenti o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall'impiego di malta cementizia.
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Sempre in tema di distanze legali, mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale norma, “perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente.
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico.
La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo.
Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni.
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Quanto all’abuso in questione, nell’istanza di permesso di costruire in sanatoria si è prefigurata la realizzazione di una “cantina in luogo di terrapieno esistente (…) annessa tramite disimpegno all'appartamento”, consistente –come rilevato nel sopralluogo dei tecnici comunali del 07.11.2006– in un “locale in muratura intonacata con tetto piano, realizzato in adiacenza ad edificio esistente”.
Orbene, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è del tutto costante “nel ritenere che ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate dall'art. 873 del codice civile e seguenti o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (cfr. ex pluribus, Cass. nn. 5753/2014, 23189/2012, 15972/2011, 22127/2009, 25837/2008, S.U. 7067/1992 e 3199/2002), indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall'impiego di malta cementizia (Cass. n. 4196/1987).
Ed è altrettanto costantemente affermato, in tema di distanze legali, che mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale norma, “perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. nn. 1217/2010, 145/2006, 8144/2001, 4511/1997, 7594/1995 e 1467/1994).
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico. La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo. Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni
” (cfr. Corte di Cassazione, 16.03.2015, n. 5163) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato».
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
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È, però, noto che ad avviso del Giudice delle Leggi “il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio” (cfr. Corte Costituzionale, 23.01.2013, n. 6) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un principio generale di diritto, le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono.
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In tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
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Agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
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In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte.

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5. Questi tre motivi, ben suscettibili di esame unitario per il comune riferimento ad errori di diritto nel calcolo delle distanze legali, sono fondati.
Secondo un principio generale di diritto -che il Collegio intende oggi ribadire- le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (v. tra le varie, Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014 Rv. 629629; Sez. 2, Sentenza n. 24013 del 24/09/2008 Rv. 605174; Sez. 2, Sentenza n. 19350 del 04/10/2005 Rv. 584412).
Sempre per giurisprudenza costante, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (Sez. 2, Sentenza n. 18282 del 19/09/2016 Rv. 641075; Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv. 614192; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del 31/05/2006 (Rv. 593831).
Si è poi precisato che, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (v. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del 26/01/2005 Rv. 578604; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del 31/05/2006 Rv. 593831 in motivazione.
E' stato altresì affermato da questa Corte che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (v. Sez. 2, Sentenza n. 5594 del 22/03/2016 Rv. 639403; Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006 Rv. 593396; v. anche Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv. 614192 in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.01.2018 n. 1365).

EDILIZIA PRIVATA: La questione giuridica concernente la corretta individuazione della disciplina in tema di distanze per edifici collocati nella zona A) solo di recente ha trovato una soluzione che sembra consolidata ed alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Reputa il Collegio che debba darsi continuità a quanto di recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n. 15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici in zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite delle distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone dei parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi in questione.

In tale prospettiva,
poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
Ciò comporta altresì che
poiché la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite dallo strumento urbanistico o inserite automaticamente nello stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati, ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Per l'effetto
se lo strumento urbanistico locale recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni -a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n. 14552/2016, che
ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono consentiti esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta, impedisce in radice che possano trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 17, comma 1.
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3. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del DM n. 1444 del 1968 in correlazione con l'art. 873 c.c. e con le previsioni dello strumento urbanistico del Comune di Bagnara Calabra.
A tal riguardo la sentenza gravata ha infatti rilevato che mancava una previsione regolamentare che fissasse una distanza minima dal confine pari a metri 7, e che comunque non potevano invocarsi le previsioni di cui al DM n. 1444 del 1968, in quanto nella fattispecie si controverteva in materia di fabbricati ubicati in zona A, per la quale la norma de qua prevede solo la possibilità di interventi di ristrutturazione e manutenzione conservativa, aggiungendo che le distanze legali non possono essere inferiore a quelle intercorrenti tra i volumi preesistenti.
Ha quindi concluso affermando che non ricavandosi da tale disposizione alcuna distanza specifica, ed in assenza di una diversa previsione regolamentare, non poteva che farsi applicazione dell'art. 873 c.c. (nemmeno potendosi fare richiamo alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate di cui all'art. 9, co. 1, n. 2, del citato DM, che si applica invece alle costruzioni nuove in zone diverse da quella A), norma rispetto alla quale andava esclusa la ricorrenza di una costruzione a distanza inferiore a quella di legge.
Assume il ricorrente che tale interpretazione delle norme sia errata, in quanto, attesa l'inclusione della costruzione oggetto di causa nella zona A del Comune di Bagnara Calabra, la citata previsione in tema di limiti all'edificazione di nuove costruzioni ed alla necessità di dover rispettare le distanze tra volumi edificati preesistenti, non consentiva di fare applicazione della previsione codicistica di cui all'art. 873 c.c. Peraltro, la maggiore altezza del fabbricato della convenuta esclude che possa parlarsi di mera ristrutturazione del fabbricato preesistente, ma impone di ritenere realizzata una nuova costruzione.
Il motivo è fondato.
Rileva il Collegio che
la questione giuridica concernente la corretta individuazione della disciplina in tema di distanze per edifici collocati nella zona A) è stata oggetto di soluzioni diversificate nel tempo, e senza che fosse possibile individuare un quadro diacronico degli interventi, e ciò anche in relazione agli orientamenti del giudice amministrativo, e che solo di recente ha trovato una soluzione che sembra consolidata ed alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Secondo una prima tesi la fattispecie andrebbe disciplinata facendo applicazione della norma di carattere generale di cui all'art. 873 c.c., in quanto (cfr. Cass. n. 7804/1991) il regolamento edilizio, ancorché non contenga una specifica disciplina delle distanze tra fabbricati, comporta l'inapplicabilità delle limitazioni poste in materia di distanze ed altezze negli edifici dall'art. 41-quinquies, primo comma, lett. c), della legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, dovendosi intendere in tal caso adottata dal regolamento la distanza stabilita dall'art. 873 cod. civ. ( si veda anche Cass. n. 12376/1992).
Solo in apparenza sembra aderire a tale soluzione anche Cass. n. 12767/2008, laddove afferma che l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968, n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni "ex novo", la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, atteso che la stessa si limita a ben vedere solo ad escludere l'applicazione del DM 1444 (così anche Cass. n. 879/1999).
Condurrebbe invece all'applicazione dell'art. 873 c.c. quanto affermato da Cass. n. 4754/1995, secondo cui la mancanza in uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei rapporti di vicinato, fa si che resti applicabile ad esso la disciplina dettata dagli art. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza che, in caso di violazione del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha diritto, ai sensi dell'art. 872 cod. civ., di esserne risarcito ma non può pretendere la riduzione in pristino, ove non risulti contemporaneamente trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste dalle norme codicistiche (si veda sempre in relazione ad un caso di costruzione realizzata in zona successivamente assoggettata a vincolo assoluto di inedificabilità, Cass. n. 3638/2007).
A tale orientamento si è poi contrapposta la tesi, fatta propria in prevalenza dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui dovrebbe trovare applicazione la previsione in tema di distacco tra pareti finestrate di cui all'art. 9 del DM n. 1444 del 1968.
In tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 23/05/2000, n. 2983 ha affermato che in materia di distanze tra nuove costruzioni, quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, ed ha natura di norma integrativa dell'art. 873 c.c. (in termini e proprio con specifico riferimento ad edifici collocati in cd. Zona A, Consiglio di Stato sez. V 19.03.1999 n. 280).
A tale soluzione si contrappone poi l'ulteriore tesi che reputa applicabili le misure di salvaguardia di cui alla legge n. 765 del 1967.
In tal senso si veda Cass. n. 20713/2013, a mente della quale, la norma contenuta nell'art. 41-quinquies, lett. c), della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, secondo la quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire", va osservata non solo nei casi in cui i Comuni siano sprovvisti di strumento urbanistico, ma anche quando negli stessi o nei regolamenti edilizi manchino norme specifiche che provvedano direttamente in materia di distanze Solo in apparenza sembra porsi in tale ottica Cass. n. 26123/2015, la cui massima recita: "Qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 c.c., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della l. n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire", occorrendo però specificare come peraltro chiarito da questa stessa Corte, che si tratta di fattispecie nella quale il vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva dall'osservanza della fascia di rispetto delle aree cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di discrezionalità amministrativa da parte dell'ente comunale), non vale tuttavia quando -come nella specie- il vincolo di inedificabilità assoluta è previsto dallo strumento urbanistico comunale in relazione al particolare carattere storico e di pregio ambientale della zona territoriale individuata".
Infine è stata sostenuta la tesi secondo cui i limiti all'attività edilizia prescritti per gli immobili collocati nella zona A impongono che debbano in ogni caso essere rispettate le distanze preesistenti tra fabbricati.
In tal senso si veda Cass. n. 1282/2006, che ha appunto affermato che la disciplina del regolamento edilizio del Comune di Somma Vesuviana la quale aveva recepito il d.m. 02/04/1968 che all'art. 9 prescrive per la zona A, in relazione alle operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi preesistenti, poiché nella zona A sono consentite soltanto operazioni di risanamento conservativo e di manutenzione ordinaria, mentre sostituzioni edilizie e nuove costruzioni potranno essere ammesse soltanto dopo l'approvazione di un piano particolareggiato esecutivo (nella specie insussistente) - introduce un divieto assoluto "medio tempore" sotto il profilo urbanistico di realizzazione di interventi edilizi nella zona senza prevedere alcuna deroga alla disciplina in materia di distanze tra fabbricati di cui all'art. 9 del citato d.m., tenuto conto che l'eventuale deroga sarebbe, comunque, illegittima e suscettibile di disapplicazione da parte del giudice, giacché in caso di adozione dello strumento urbanistico tali norme, per inserzione automatica nello stesso, sono immediatamente operanti nei rapporti fra privati.
Pertanto, la disposizione di cui al citato art. 2 non può essere interpretata nel senso che, in assenza dell'approvazione del piano particolareggiato esecutivo, trovi applicazione la disciplina dettata dall'art. 873 cod. civ. anziché quella prevista dal citato art. 9. Tale principio è stato poi ribadito anche da Cass. S.U. n. 20354/2013 (non massimata), nella cui motivazione si legge che nelle zone A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Reputa il Collegio che tale ultima soluzione sia in assoluto da preferire, e che pertanto debba darsi continuità a quanto di recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n. 15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici in zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite delle distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone dei parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi in questione.

In tale prospettiva, come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte,
poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. U, n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Ciò comporta altresì che
poiché la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite dallo strumento urbanistico o inserite automaticamente nello stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati (cfr., ex plurirnis, Sez. U, Sentenza n. 5889 del 01/07/1997, Rv. 505623), ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Per l'effetto
se lo strumento urbanistico locale recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni -a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n. 14552/2016, che
ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono consentiti esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta, impedisce in radice che possano trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 17, comma 1 (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.01.2018 n. 1360).

EDILIZIA PRIVATA: «Lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva»;
  
«Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante —in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
  
«Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo».
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3. — Col terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte di Appello escluso che il convenuto avesse edificato le proprie fabbriche in violazione delle distanze legali (se non per un tratto di metri 1,5, con riferimento alla distanza di metri tre prevista dall'art. 873 cod. civ., ritenuto applicabile nella specie). In particolare, si deduce che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere applicabile solo la distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ. e non quella di cui all'art. 17 primo comma della c.d. legge-ponte.
Secondo il ricorrente, infatti, una volta scaduto il vincolo di inedificabilità gravante sull'area e non avendo lo strumento urbanistico disciplinato in quella zona la distanza tra le costruzioni, avrebbe dovuto farsi applicazione della disciplina sulle distanze di cui al detto art. 17 della legge-ponte (per il quale "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire").
Questa censura è fondata nei termini che seguono.
La Corte territoriale, nel confermare la sentenza di primo grado sul punto, ha osservato che l'immobile del convenuto è sottoposto a vincolo di inedificabilità assoluta imposto dal P.R.G. del Comune di Capri. Secondo i giudici di appello, tale vincolo previsto dallo strumento urbanistico, vietando ogni nuova costruzione, non costituirebbe una norma integrativa della disciplina delle distanze dettata dal codice civile; per di più, nella specie, il suddetto vincolo sarebbe venuto meno per scadenza quinquennale, cosicché la zona si troverebbe priva di disciplina urbanistica. In tale situazione, non potendosi fare applicazione dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967 in ragione della mancata adozione di un provvedimento integrativo del P.R.G. che consenta l'edificazione nella zona precedentemente assoggettata a vincolo di inedificabilità, non resterebbe che fare applicazione della disciplina residuale sulle distanze dettata dall'art. 873 cod. civ..
La sentenza impugnata muove da una errata interpretazione delle norme richiamate e della disciplina applicabile alla fattispecie. Premesso che gli immobili delle parti risultano sottoposti —da parte dello strumento urbanistico del comune di Capri— ad un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, si tratta di esaminare la natura di tale vincolo e le sue implicazioni giuridiche.
Va rammentato che questa Corte suprema ha recentemente affermato che,
qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non detti quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire" (Sez. 2, Sentenza n. 26123 del 30/12/2015, Rv. 637977). Il principio appena richiamato, dettato con riferimento ad un caso in cui il vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva dall'osservanza della fascia di rispetto delle aree cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di discrezionalità amministrativa da parte dell'ente comunale), non vale tuttavia quando —come nella specie— il vincolo di inedificabilità assoluta è previsto dallo strumento urbanistico comunale in relazione al particolare carattere storico e di pregio ambientale della zona territoriale individuata.
Com'è noto, il decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (dal titolo "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati (...) da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765") ha definito le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici ai sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765 (c.d. legge-ponte). In particolare, il d.m. 02.04.1968 n. 1444 limita la discrezionalità amministrativa degli enti locali, stabilendo il rapporto massimo tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali ovvero a quelli produttivi o commerciali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive o a verde pubblico o a parcheggio (artt. 3, 4 e 5), i limiti di densità edilizia per ciascuna zona territoriale omogenea (art. 7), i limiti di altezza degli edifici (art. 8) e, infine, i limiti di distanza tra i fabbricati per ciascuna zona territoriale (art. 9). Trattasi di parametri "minimi" che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi.
Onde l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi dettati dal d.m. n. 1444 del 1968 e, invece, la legittimità dello strumento urbanistico che detti regole più severe.
Come hanno affermato le Sezioni unite di questa Corte suprema, il d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Con particolare riferimento alle norme che regolano le distanze tra costruzioni, deve perciò ritenersi che la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al primo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea; si tratta di una disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2, Sentenza n. 12424 del 20/05/2010, Rv. 613227), che —una volta recepita dallo strumento urbanistico o inserita automaticamente nello stesso— ha efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
Su quest'ultimo punto, non può sottacersi che questa Corte ha affermato il principio secondo cui
il d.m. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati (cfr., ex plurimis, Sez. U, Sentenza n. 5889 del 01/07/1997, Rv. 505623). Tale principio, tuttavia, va inteso nel senso che il d.m. n. 1444 del 1968 è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, e non è direttamente applicabile nei rapporti tra privati senza la previa adozione —successiva all'entrata in vigore del detto decreto— di uno strumento urbanistico; va inteso, cioè, nel senso che le prescrizioni del decreto ministeriale divengono operanti solo a seguito dell'adozione dello strumento urbanistico comunale e, con esso, della individuazione delle relative zone territoriali omogenee.
Ciò tuttavia non esclude che, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico, qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949; Sez. U, Sentenza n. 20354 del 05/09/2013, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 27558 del 31/12/2014, Rv. 634110; Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv. 586246).
In altre parole,
una volta adottato lo strumento urbanistico che individui le zone territoriali omogenee, ove tale strumento contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni meno rigorose della disciplina dettata dall'art. 9 del citato d.m., quest'ultima disciplina si sostituisce ipso iure, per inserzione automatica, alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così immediatamente operante anche nei rapporti fra privati (Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv. 586246); ciò in quanto la previsione regolamentare integrata ex lege costituisce comunque norma integrativa della disciplina in materia di distanza nelle costruzioni dettata dal codice civile (art. 873 cod. civ.).
Sul punto, va precisato che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta; ma opera anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Invero,
poiché l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 impone agli enti locali di prevedere distanze minime per ciascuna zona omogenea, anche la mancata previsione delle distanze tra fabbricati costituisce senza dubbio violazione della previsione dell'art. 9. È agevole rilevare, d'altra parte, come sarebbe illogico ritenere sussistente la violazione dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 ove lo strumento urbanistico preveda una distanza inferiore a quella minima prescritta dalla legge e non ritenere, invece, la medesima violazione quando lo strumento urbanistico non preveda alcuna distanza affatto, incorrendo così in una più grave violazione della legge.
In definitiva,
ogni volta che lo strumento urbanistico pianifichi il territorio, qualificandolo secondo le zone territoriali omogenee come definite dal d.m. n. 1444 del 1968, diviene obbligatorio osservare le distanze minime prescritte dall'art. 9 del detto decreto ministeriale per ciascuna zona territoriale.
Qualora lo strumento urbanistico recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale.
Qualora, invece, lo strumento urbanistico non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico divenendo così tali prescrizioni —a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte— immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
Alla stregua di quanto sopra, va ritenuto che l'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 introdotto dall'art. 17 della c.d. legge-ponte —ora abrogato (ad esclusione dei commi 6, 8 e 9) dall'art. 136 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 ("Testo unico in materia di edilizia") con efficacia "dalla data di entrata in vigore del presente testo unico" e, quindi, soltanto per l'avvenire, rimanendo salva la sua applicazione e vigenza per il periodo anteriore (Sez. 2, Sentenza n. 24984 del 25/11/2011, Rv. 620145)— è applicabile solo nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione (come espressamente prevede lo stesso art. 17) ovvero, comunque, quando lo strumento urbanistico emanato prima della data di entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444 non detti una disciplina sulle distanze ovvero quando lo strumento urbanistico comunale, pur emanato successivamente a tale data, non consenta però l'inserzione automatica delle disposizioni sulle distanze legali di cui all'art. 9 del medesimo decreto per non avere individuato le zone territoriali omogenee in relazione alle quali le distanze minime sono dettate.
Quando invece esiste uno strumento urbanistico emanato successivamente all'entrata in vigore del d.m. n. 1444 del 1968 che, pur individuando le zone territoriali omogenee previste da tale decreto, non contenga però disposizioni espresse sulle distanze, opera l'inserzione automatica delle prescrizioni sulle distanze previste dall'art. 9 del detto d.m., cosicché va esclusa l'applicabilità dell'art. 17 della c.d. "legge ponte" del 06.08.1967, ti. 765.
In questi termini, va inteso il principio secondo cui
l'art. 17 della c.d. "legge ponte" del 06.08.1967 n. 765 è inapplicabile ogni volta che il regolamento edilizio non provveda sulle distanze (Sez. U, Sentenza n. 9871 del 22/11/1994, Rv. 488757); tale principio, infatti, trova il proprio limite logico nel fatto che le previsioni sulle distanze legali di cui all'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, ove non osservate dallo strumento urbanistico, si inseriscono automaticamente nel medesimo e, divenendo parte di esso, sono applicabili —quali norme integrative dell'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti tra privati.
Ciò premesso, tornando all'esame della fattispecie per cui è causa, va  osservato che, quando —come nella specie— lo strumento urbanistico comunale impone —a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio— un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo.
Sono soggetti, infatti, a scadenza quinquennale quei vincoli che sono preordinati all'esproprio e alla programmata realizzazione di opere pubbliche; mentre i vincoli che sono espressione del potere conformativo del territorio —che si manifesta con la regolamentazione urbanistica contenuta nel piano regolatore generale e con la concreta disciplina dell'attività edilizia— hanno validità a tempo indeterminato (cfr. C.d.S., Sez. 4, Sentenza n. 4812 del 25/08/2003; C.d.S., Sez. 5, Sentenza n. 451 del 22/03/1995).
La natura conformativa del vincolo di inedificabilità assoluta esclude, pertanto, che esso possa venir meno per il decorso del tempo.
Ha errato, perciò, la Corte territoriale a ritenere che, nella specie, il vincolo di inedificabilità era scaduto. La Corte di Napoli avrebbe dovuto invece, ritenere la permanente vigenza del vincolo di inedificabilità previsto dallo strumento urbanistico; e, ritenuta la vigenza di tale vincolo, avrebbe dovuto verificare se gli immobili delle parti ricadevano nella zona territoriale A) dello strumento urbanistico comunale (come il vincolo di inedificabilità assoluta lascia supporre), zona nella quale il d.m. 02.04.1968 n. 1444 —che vi inquadra quelle "parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale" (art. 2 dello stesso decreto)— consente esclusivamente interventi di risanamento conservativo, senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), stabilendo che «le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti» (art. 9).
La sentenza impugnata va, perciò, cassata con rinvio sul punto, affinché altra sezione della Corte di Appello di Napoli provveda ad accertare se gli immobili delle parti ricadono nella zona territoriale omogenea A) dello strumento urbanistico comunale e, nel caso positivo, se tale strumento abbia recepito, o meno, il disposto dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444; tenendo in ogni caso conto che, nel caso di mancata ricezione delle prescrizioni del detto decreto, vi è inserzione automatica delle distanze minime prescritte dal detto art. 9 in relazione alla zona territoriale omogenea individuata; non potendo in tal modo trovare comunque applicazione, in materia di distanze legali, né il criterio stabilito dall'art. 873, né quello di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
Nel riesaminare la fattispecie, la Corte di rinvio si conformerà ai seguenti principi di diritto:
  
«Lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva»;
  
«Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante —in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
  
«Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.07.2016 n. 15458).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire.
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968, dettato in tema di standards urbanistici e di definizione delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, come definite dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio -non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti: la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle zone territoriali A) di interesse storico, artistico, culturale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina in materia di distanze legali da osservare, che sono determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
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1. Il primo motivo deduce che con il primo motivo di appello esso ricorrente aveva invocato l'applicabilità dell'art. 17 legge n. 765 del 1967, dando per presupposto che il Comune di Maiori fosse sprovvisto all'epoca di strumento urbanistico contenente norme regolatrici dei distacchi fra costruzioni. Evidenzia che era compito del giudice del merito individuare lo strumento urbanistico in vigore, censurando la sentenza impugnata laddove si era limitata a riportare alcuni brani della relazione del ctu, affermando che dalla stessa si desumeva che i luoghi in questione si trovavano in zona di interesse storico-ambientale da sottoporre a particolare tutela, nella quale sarebbero stati consentiti interventi di restauro e di rifacimento di vecchie strutture che non avessero comportato alterazione delle sagome volumetriche preesistenti; i Giudici, quindi, avevano affermato che la zona era gravata da un vincolo di inedificabilità assoluta, facendo riferimento a quanto apoditticamente affermato dal consulente di ufficio senza peraltro verificare e neppure indicare la fonte normativa regolamentare che aveva ritenuto di applicare.
2. Il secondo motivo deduce che la riduzione in pristino e prevista per quelle violazioni di prescrizioni urbanistiche dettate in materia di distanze legali, come tali integrative della norma dettata dall'art. 873 cod. civ., ma non di quelle disposizioni del presunto P.R.G dettate a tutela di interessi generali, urbanistici, quali la limitazione del volume, dell'altezza, della densità degli edifici ecc. ovvero che consentano, per ragioni di interesse storico ambientale, solo restauri e rifacimenti delle vecchie strutture senza alterazione di volumi preesistenti, trattandosi di disciplina che non riguarda i rapporti privatistici.
3. Il terzo motivo censura la sentenza laddove aveva erroneamente ritenuto che il citato art. 17 legge n. 765 del 1967 trova applicazione nel caso in cui lo strumento urbanistico consente la costruzione ma non disciplina la materia delle distanze delle costruzioni.
4. I motivi -che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente- sono infondati, anche se deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata.
Occorre chiarire che, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire (Cass. 26123/2015).
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968, dettato in tema di standards urbanistici e di definizione delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, come definite dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio -non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti (Cass. 1282/2006; S.U. 20354/2013): la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle zone territoriali A) di interesse storico, artistico, culturale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina in materia di distanze legali da osservare, che sono determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
Orbene, va considerato che:
   a) dalla sentenza impugnata non risulta che abbiano formato oggetto di specifica censura con l'appello gli accertamenti compiuti dal tribunale circa la ubicazione degli immobili nella zona A) del regolamento edilizio del Comune di Maiori e il vincolo di inedificabilità ad essa relativo, posto che evidentemente sarebbe stato onere del ricorrente riportare i motivi del gravame comprovanti la formulazione di specifiche censure formulate con l'atto di appello per contrastare le argomentazioni della decisione di primo grado (S.U. 23299/2011; Cass. 1651/2014; Ord. 18704/2015);
   b) si è, comunque, rivelata generica la denunciata violazione di legge con riferimento alla inesistenza dello strumento urbanistico, invece accertata dai Giudici, senza che peraltro siano riportati i passi salienti della consulenza tecnica alla quale ha fatto riferimento la Corte di appello (ne vengono estrapolati dei brani); pertanto, per le considerazioni sopra formulate, deve ritenersi che è stata correttamente esclusa la invocata applicabilità dell'art. 17 legge n. 765 del 1967, mentre si sono rivelati erronei i riferimenti compiuti dalla sentenza impugnata alle distanze previste dall'art. 873 cod. civ. (ciò dicasi, peraltro, nei limiti del sindacato consentito alla Cassazione dalla impugnazione proposta con il ricorso, che evidentemente non potrebbe portare a una decisione più sfavorevole al ricorrente) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.07.2016 n. 14552).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-rigetto tipizzato dall’art. 36, comma 3, del DPR n. 380 del 2001 esonera la Pubblica Amministrazione dal fornire una risposta esplicita sull’istanza e, dunque, non è configurabile a suo carico un’omissione di pronuncia.
L'Amministrazione, secondo la giurisprudenza maggioritaria, è tenuta a riscontrare le istanze dei privati soltanto laddove vi sia un obbligo di avvio del procedimento, che deve essere previsto dall’ordinamento, anche implicitamente.
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Nella fattispecie de qua, l’unica norma che può fondare un tale obbligo di avvio (e correlata conclusione) del procedimento risulta essere il citato art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda l’accertamento di conformità; tuttavia, il comma 3 stabilisce che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Da ciò discende che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione (…)”.
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Come eccepito dalla difesa comunale, i ricorrenti hanno chiesto al Comune, attraverso le due istanze trasmesse il 14.07.2017, di accertare nella sostanza la conformità edilizia di una serie di manufatti realizzati sia prima dell’anno 1977, sia successivamente.
Il contenuto concreto delle istanze appare del tutto evidente, nonostante nelle stesse si utilizzino i termini ‘validazione’ e ‘fiscalizzazione dell’abuso edilizio’, trattandosi dell’istituto disciplinato dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, ossia dell’accertamento di conformità, attraverso il quale “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Difatti, il presupposto normativo posto a fondamento delle istanze è le legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990) e, soltanto nella istanza relativa alle opere realizzate dopo il 1977, è stato richiamato anche il D.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. all. 3 al ricorso); inoltre, l’Amministrazione, secondo la giurisprudenza maggioritaria, è tenuta a riscontrare le istanze dei privati soltanto laddove vi sia un obbligo di avvio del procedimento, che deve essere previsto dall’ordinamento, anche implicitamente (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.05.2017, n. 2099; altresì V, 09.03.2015, n. 1182).
Nella fattispecie de qua, l’unica norma che può fondare un tale obbligo di avvio (e correlata conclusione) del procedimento risulta essere il citato art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda l’accertamento di conformità; tuttavia, il comma 3 stabilisce che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Da ciò discende che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione (…)” (TAR Calabria, Catanzaro, II, 22.08.2016, n. 1633; più di recente, TAR Puglia, Lecce, II, 12.01.2018, n. 30).
In conclusione, l’impugnativa in epigrafe, proposta nelle forme del ricorso avverso il silenzio-inadempimento, è inammissibile, in quanto il silenzio rigetto tipizzato dall’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 esonera la Pubblica Amministrazione dal fornire una risposta esplicita sull’istanza, e dunque non è configurabile a suo carico un’omissione di pronuncia (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 05.10.2017, n. 4683; TAR Toscana, III, 15.07.2011, n. 1223).
3. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Non integra il delitto di infedele attestazione la condotta del privato che attesti falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco, l’inizio o l’ultimazione dei lavori di un fabbricato, considerato che tale dichiarazione non è destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati, mentre la fattispecie criminosa di cui all’art. 483 c.p. è configurabile solo nel caso in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 16.05.2016, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Firenze dell'11.11.2014 ha rideterminato la pena inflitta a Mu.Le. e Ma.Lo. per il reato di cui all'art. 483 c.p., in quanto nella Comunicazione di inizio lavori per l'esecuzione di opere relative ad un fabbricato posto in Firenze, via ... n. 60, di cui al permesso di costruire n. 33/2011, rilasciato il 05.07.2011, attestavano contrariamente al vero che i suddetti lavori erano in corso al 22.072011, avendo assolto i predetti, ed altri coimputati, dal reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, per avere realizzato i lavori nel suddetto immobile senza avere conseguito preventivamente l'autorizzazione paesaggistica, essendo i medesimi non punibili ai sensi dell'art. 181, c. 1-ter, D.lgs. n. 42 del 2004, per il rilascio della c.d. sanatoria paesaggistica.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va premesso punto, che
le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto configurabile il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (così S. U, n. 28 del 15/12/1999, Gabrielli, Rv. 215413; Conf. S.U. n. 29/2000 del 15.12.1999, Fanciulli e S.U. n. 30/2000 del 15.12.1999, PM in proc. Bertin, non mass.).
Più di recente, è stato ribadito che
la fattispecie di cui all'art. 483 c.p. sussiste qualora l'atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente (cfr. Sez. 5, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, Rv. 259883).
Infatti
è orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in tema di falsità documentale, quello in base al quale va escluso che una scrittura privata o un altro documento "ab origine" non costituente atto pubblico possa essere considerato tale in virtù del solo suo collegamento funzionale ad un atto amministrativo, per effetto dell'inserimento di esso nella relativa pratica dell'iter consequenziale occorrente per il provvedimento finale.
2.
Il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico contestato sussiste, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all'atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente (in tal senso: Sez. 2, n. 4970 del 12/01/2012, Yu, Rv. 251815). Mentre è stato escluso che integri tale delitto la condotta del privato (nella specie proprietario e costruttore di un edificio) che attesti falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco, l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, considerato che tale dichiarazione non è destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati, mentre la fattispecie criminosa di cui all'art. 483 c.p. è configurabile solo nel caso in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale (così, ex multis, Sez. 5, n. 19361 del 13/02/2006, Caccuri, Rv. 234538).
3. Nel caso di specie la comunicazione di inizio attività non era destinata ad essere incorporata in alcun atto redatto da un pubblico ufficiale che avrebbe avuto tale valenza.
A tale proposito va anzi osservato che
le comunicazioni di inizio e fine lavori hanno lo scopo di agevolare l'accertamento, da parte dell'amministrazione comunale, dell'inizio e del completamento dell'intervento edilizio nei termini e consentire una tempestiva verifica sull'attività posta in essere e non rappresentano, quindi, una semplice formalità amministrativa, bensì di un adempimento strettamente connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di costruire ed agli obblighi di vigilanza imposti dall'art. 27 e segg. del Testo Unico dell'edilizia (si veda, sul punto: Sez. 3, n. 19110 del 09/04/2013, Vani, non mass.).
4. Quindi è evidente che
la comunicazione di inizio lavori è un atto del privato senza alcuna valenza probatoria privilegiata ed il cui contenuto può essere oggetto di specifica verifica sulla effettiva situazione di fatto volta a controllare la corrispondenza dei lavori realizzati con quelli autorizzati e, in seguito, il completamento dell'attività edilizia alla scadenza del termine annuale assegnato con il permesso a costruire (nel caso di specie già rilasciato in data 05.07.2011, a fronte della comunicazione del 22.07.2011).
5. Inoltre, considerando il documento oggetto del giudizio nel contesto della intera vicenda che ci occupa, l'attestazione risulta essere stata del tutto irrilevante, in quanto, a seguito dell'ispezione avvenuta il giorno precedente, la pubblica amministrazione era ben a conoscenza della effettiva data di inizio dei lavori (precedente, per l'appunto, di un giorno). Di conseguenza l'eventuale "falso", ossia la non corrispondenza alla realtà fattuale, risulta, all'evidenza, del pari innocuo.
In relazione all'offensività di tale delitto, infatti, la giurisprudenza ha affermato che l'innocuità va riferita all'idoneità della dichiarazione non corrispondente al vero ad ingannare comunque la fede pubblica (così Sez. 3, n. 34901 del 19/07/2011, Testori, Rv. 250825), situazione del tutto mancante nel caso concreto.
6. L'accoglimento del primo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza stessa dell'illecito, comune ad entrambi i ricorrenti determina, all'evidenza, l'integrale assorbimento della residua doglianza e, in conclusione, l'impugnata sentenza va annullata senza rinvio per insussistenza del delitto di cui all'art. 483 c.p. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2018 n. 1456).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 31.01.2018, "Modalità per l’utilizzo del sistema informativo lombardo per la valutazione di impatto ambientale [S.I.L.V.I.A.] quale strumento centralizzato per lo svolgimento delle procedure amministrative di cui alla parte ii del d.lgs. 152/2006, in attuazione dei disposti di cui all’art. 7, comma 3, della l.r. 5/2010" (deliberazione G.R. 12.01.2018 n. 7697).

VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 5 del 29.01.2018, "Promozione e valorizzazione del termalismo lombardo" (L.R. 25.01.2018 n. 6).

VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 5 del 29.01.2018, "Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge" (L.R. 25.01.2018 n. 5).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI - TRIBUTI: R. De Nictolis, Il baratto amministrativo (o partenariato sociale) (26.01.2018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. In generale. - 2. Differenze con la previgente disciplina. - 3. Inquadramento sistematico, qualificazione giuridica, finalità e limiti. - 4. Rapporto con altre figure. - 5. Il baratto amministrativo è un contratto incluso o un contratto escluso? - 6. Alternativa tra partenariato sociale e mercato: economicità e sostenibilità sociale e ambientale. - 7. I singoli elementi della fattispecie: la delibera dell’ente. - 8. L’oggetto del partenariato sociale. - 9. L’iniziativa del partenariato sociale. - 10. Partenariato sociale ed evidenza pubblica. - 11. Formule organizzative della stazione appaltante, ruolo di impulso e coordinamento dell’ente territoriale; direzione dell’esecuzione, collaudo. - 12. Partenariato sociale e distribuzione dei rischi; partenariato sociale, volontariato, lavoro subordinato, contratti in economia. - 13. La controprestazione a carico dell’ente territoriale, necessità di una corretta pianificazione ex ante degli interventi e di un coordinamento con il bilancio. - 14. Prassi e verifica di impatto, criticità e prospettive.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale per lite pendente.
   1) Affinché possa ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 2, n. 4, TUEL per lite pendente, l’amministratore locale deve essere parte, in senso processuale, in un procedimento civile o amministrativo con il comune, con la conseguenza che l’intervenuta rinuncia alla lite, non oggetto di opposizione da parte del comune, fa venir meno la sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità.
   2) Affinché possa ravvisarsi la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 2, n. 6, TUEL l’amministratore locale deve avere un debito liquido ed esigibile verso il comune e da questi deve essere stato messo legalmente in mora per la medesima fattispecie debitoria.

Il Comune chiede un parere in materia di incompatibilità degli amministratori locali per lite pendente. Più in particolare, desidera sapere se possa essere contestata la sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità ad un consigliere comunale in relazione ad una articolata vicenda che lo vede coinvolto nei confronti dell’amministrazione comunale.
Di seguito, si riportano alcuni elementi della fattispecie in essere, descritti nel quesito, che pare possano fornire indicazioni utili ai fini della disamina della questione posta.
La vicenda trae origine dall’emissione, nei confronti dell’attuale consigliere comunale
[1], di una ordinanza sindacale di rimozione di rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi per deposito incontrollato di rifiuti, da questi impugnata nelle competenti sedi giurisdizionali. A seguito di rinuncia al ricorso, alla quale il Comune non ha fatto opposizione, il giudice ha dichiarato estinto il giudizio.
L’Ente, attesa la sussistenza di “spese rinvenienti dai giudizi ed alle quali è stato fornito solo parziale ristoro” ha provveduto a mettere in mora il soggetto in riferimento per la somma ancora da rifondere all’Ente.
Successivamente alla chiusura del procedimento giudiziario, all’ordinanza del sindaco non risulta essere stata data attuazione nonostante i diversi solleciti ed istanze in tal senso promossi dall’Ente, gli ultimi dei quali contenenti l’avviso che il Comune avrebbe proceduto alle opere di rimozione e di ripristino dello stato dei luoghi, in danno del soggetto obbligato, in conformità alle disposizioni di legge vigenti in materia.
Nelle more dell’indizione della gara volta all’individuazione della ditta cui affidare i predetti lavori si sono tenute le elezioni amministrative comunali, all’esito delle quali il soggetto in riferimento ha assunto la qualità di consigliere comunale.
Tutto ciò premesso si osserva quanto segue.
L’articolo 63, comma 1, num. 4) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo con il comune.
La giurisprudenza
[2] ha chiarito che “la ratio dell'incompatibilità risiede nell'esigenza che il consigliere dell'ente territoriale eserciti sempre le funzioni pubbliche in modo trasparente ed imparziale, senza prestare il fianco al sospetto che la sua condotta possa essere, in qualche modo, orientata dall'intento di tutelare il suo interesse contrapposto a quello dell'ente che è stato chiamato ad amministrare”.
Nello stesso senso, il Ministero dell’Interno, ha rilevato che: “In siffatte ipotesi, l'incompatibilità trova fondamento e giustificazione nel pericolo che il conflitto di interessi determinativo della lite medesima possa orientare le scelte dell'eletto in pregiudizio dell'ente amministrato, o comunque possa ingenerare, all'esterno, sospetti al riguardo; donde risponde ad una scelta del legislatore di sacrificio del diritto alla carica a fronte di detta eventualità.”
[3].
L’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL esplicita il concetto di “lite pendente” che consiste nell’essere “parte in un procedimento civile o amministrativo con la regione, la provincia o il comune”, con la conseguenza che per potersi ravvisare l'incompatibilità di che trattasi occorre che i soggetti in conflitto di interessi siano divenuti parti contrapposte in un procedimento, e cioè abbiano assunto la qualità di parti in senso processuale
[4].
Con riferimento alla questione in esame, la lite insorta tra le parti (che indubbiamente rientra nella nozione di lite fatta propria dal legislatore) è stata oggetto di rinuncia
[5] e il giudizio è stato dichiarato estinto dal giudice, ai sensi dell’articolo 35, comma 2, lett. c) del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104 [6], tra l’altro, prima ancora che il soggetto in questione assumesse la carica di amministratore locale.
Segue che nessuna lite può dirsi pendente tra l’amministrazione comunale e il consigliere, con conseguente insussistenza della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 4), TUEL.
Per completezza espositiva si segnala, altresì, la norma di cui all’articolo 63, comma 1, num. 6, del D.Lgs. 267/2000 ai sensi della quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che, avendo un debito liquido ed esigibile verso il comune è stato legalmente messo in mora.
Come rilevato anche dal Ministero dell’Interno, la liquidità esprime “la certezza del debito e del suo ammontare”, l’esigibilità “che lo stesso debito non sia soggetto a termini o condizioni e, quindi, la disponibilità immediata del denaro
[7]. Circa, invece, la definizione di “legale messa in mora” si rileva che l’articolo 1219 del c.c. stabilisce che: “Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto[8].
Con riferimento alla fattispecie in essere, se la sussistenza del debito relativamente ai lavori che dovessero essere eseguiti dalla ditta assegnataria degli stessi verrà ad esistenza solo all’esito del loro compimento, nel momento in cui il Comune si rivarrà sul soggetto obbligato mediante messa in mora, a diverse conclusioni potrebbe addivenirsi circa le somme di cui il consigliere risulti eventualmente debitore nei confronti del Comune per “spese rinvenienti dai giudizi”.
A tale ultimo riguardo il consiglio comunale
[9], qualora ricorrano tutti i requisiti richiesti dall’articolo 63, comma 2, num. 6) TUEL per l’insorgenza della causa di incompatibilità e consistenti nella certezza, liquidità del debito e nell’avvenuta legale messa in mora del debitore relativamente alle somme dovute, dovrà procedere alla relativa contestazione, ai sensi dell’articolo 69 TUEL.
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[1] Si precisa che al tempo dell’instaurazione del procedimento amministrativo a suo carico il soggetto in riferimento non rivestiva alcuna carica politica all’interno del comune.
[2] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 04.05.2002, n. 6426.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 09.10.2009.
[4] In questo senso si veda Ministero dell’Interno, parere del 24.04.2015.
[5] L’articolo 84 del D.Lgs. 104/2010 al comma 1 recita: “La parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale e depositata presso la segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale”. Il successivo comma 3 prevede, poi, che: “La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue”.
[6] L’articolo 35, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 104/2010 recita: “Il giudice dichiara estinto il giudizio: omissis; c) per rinuncia”.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 16.03.2007.
[8] Il secondo comma dell’articolo 1219 c.c. stabilisce, poi, che: “Non è necessaria la costituzione in mora: 1) quando il debito deriva da fatto illecito; 2) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere eseguire l’obbligazione; 3) quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. […]”.
[9] Si ricorda, al riguardo, che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all’organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano ritenuti necessari
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ATTI AMMINISTRATIVI: Richiesta rilascio copia liste elettorali.
L’art. 51, D.P.R. n. 223/1967, disciplina l’accesso alle liste elettorali, a mezzo rilascio copia, per le finalità ivi previste.
Il Giudice amministrativo ha esplicitato il contenuto della norma nel senso che è preciso onere del richiedente indicare chiaramente e specificatamente l’uso che intende fare dei dati delle liste elettorali, non essendo assolutamente sufficiente il richiamo alle espressioni generali utilizzate dall’art. 51 citato.
Qualora le finalità della richiesta (necessariamente) specificate dall’istante fossero legate a motivi di propaganda elettorale, non vi sarebbero motivi per non concedere la copia delle liste elettorali.
Un tanto, alla luce di quanto affermato dal Garante della privacy con provvedimento del 06.03.2014.

Il Comune ha ricevuto richiesta di accesso alle liste elettorali motivata dal loro utilizzo “in materia di studio di ricerca statistica e per l’invio di materiale promozionale” e chiede se la stessa possa essere accolta alla luce della normativa vigente in materia.
Ai sensi dell’art. 51, comma 5, D.P.R. n. 223/1967, come novellato dall’art. 177, comma 5, D.Lgs. n. 196/2003, “le liste elettorali possono essere rilasciate in copia per finalità di applicazione della disciplina in materia di elettorato attivo e passivo, di studio, di ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere socio-assistenziale o per il perseguimento di un interesse collettivo o diffuso”.
Il contenuto della norma richiamata è stato esplicitato dal Giudice amministrativo
[1] nel senso di stabilire che le liste elettorali possono essere rilasciate in copia solamente per le finalità indicate dalla norma medesima e nel senso che è preciso onere del richiedente indicare chiaramente e specificatamente nella propria istanza l’uso che intende fare dei dati delle liste elettorali, non essendo assolutamente sufficiente il richiamo alle espressioni generali utilizzate dall’art. 51, D.P.R. n. 223/1967, per indicare le finalità consentite.
Spetta poi al soggetto che deve applicare la norma (in prima istanza, il comune, in seconda istanza il Giudice), valutare e stabilire se tale concreto utilizzo rientri o meno nelle finalità ammesse dalla legge.
Calando queste considerazioni sul caso di specie, fermo restando che la valutazione del contenuto della richiesta di accesso ricevuta dal Comune spetta all’Ente stesso, si osserva, in via collaborativa, che la motivazione dell’uso delle liste “in materia di studio di ricerca statistica”, poiché si limita a riproporre l’espressione letterale dell’art. 51, comma 5, in esame, non appare in linea con le precisazioni del Giudice amministrativo circa la necessità di un’indicazione chiara e specifica del concreto utilizzo che si intende fare delle liste elettorali in questione.
L’Ente pertanto valuterà se richiedere al soggetto istante una migliore specificazione delle finalità della richiesta.
Per quanto concerne l’ulteriore motivazione dell’utilizzo delle liste “per l’invio di materiale promozionale”, premesso che dalla stessa non risulta possibile ricavare in maniera chiara, precisa e univoca il concreto uso che il richiedente intende farne, si osserva, peraltro, sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale di questa Direzione centrale, che, qualora “l’invio di materiale promozionale” fosse legato alla propaganda elettorale, non vi sarebbero motivi per non concedere la copia delle liste elettorali.
Un tanto, alla luce del provvedimento del Garante della protezione dei dati personali del 06.03.2014 in tema di trattamento dei dati e di esonero dall’informativa ai fini di propaganda elettorale.
In tale provvedimento, è previsto che sia possibile utilizzare i dati personali degli elettori a fini di propaganda, prescindendo dal consenso degli interessati, quando gli stessi sono reperiti in una serie di elenchi pubblici, quali ad esempio, per quanto qui di interesse, le liste elettorali (vedasi punto 5).
In tale ipotesi, partiti, movimenti e altre formazioni a carattere politico, dal 60° giorno antecedente il voto e sino al 60° giorno successivo, possono prescindere dal rendere agli interessati l’informativa prevista dall’art. 13 del Codice sulla privacy (D.Lgs. n. 196/2003).
Ciò a condizione che nel materiale inviato sia chiaramente indicato un recapito (indirizzo postale, e-mail, eventualmente anche con rinvio a un sito web dove tali riferimenti siano facilmente individuabili) al quale l’interessato possa agevolmente rivolgersi per esercitare i diritti di cui all’art. 7 del Codice della privacy, quali, ad esempio, quello di rettificare i propri dati o di ottenerne la cancellazione.
Il Garante precisa, che non sono, invece, utilizzabili a scopo di propaganda elettorale i dati personali contenuti in alcune fonti pubbliche, tra cui, le liste elettorali già utilizzate nei seggi, sulle quali sono annotati dati relativi ai non votanti e che sono utilizzabili solo per controllare la regolarità delle operazioni elettorali (art. 62, D.P.R. 16.05.1960, n. 570).
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[1] TAR Cagliari, sez. II, 17.02.2011, n. 148 (26.01.2018 - link a
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GIURISPRUDENZA

APPALTI: L’impugnazione immediata delle ammissioni alla gara è subordinata alla pubblicazione degli atti della procedura.
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Processo amministrativo - Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione immediata ammissione concorrenti - Pubblicazione degli atti della procedura – Necessità.
L’onere di impugnazione dell’altrui ammissione senza attendere la conclusione della gara, prevista dal comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso “al buio”.

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4. L’appello di Fr.Ka.It. s.r.l. è infondato in entrambi i motivi e deve essere respinto.
4.1. Ritiene il Collegio, secondo l’ordine logico-giuridico delle questioni, di analizzare preliminarmente la questione della tardività del ricorso proposto da B.Br.Mi. s.p.a., contenuta nel secondo motivo di appello (pp. 14-16 del ricorso), poiché l’accoglimento di tale censura determinerebbe in limine litis l’inammissibilità del ricorso di primo grado.
4.2. A questo proposito, l’appellante deduce che B.Br.Mi. s.p.a., avendo notificato il ricorso il 13.04.2017, non avrebbe rispettato il termine di decadenza di 30 giorni, sia considerando quale dies a quo il giorno 03.02.2017, come già eccepito in primo grado, sia considerando il giorno 7 marzo ovvero il giorno 09.03.2017, come precisato nell’atto di appello.
4.3. Il motivo in esame, come premesso, risulta infondato.
4.4. La data del 03.02.2017 si riferisce all’ammissione di Fr.Ka.It. s.r.l. al Sistema Dinamico di Acquisizione e, secondo l’appellante, B.Br.Mi. s.p.a. avrebbe dovuto impugnare il provvedimento di ammissione entro 30 giorni ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
4.5. In proposito
il Collegio ritiene condivisibili le considerazioni svolte dal TAR per la Toscana, secondo cui, ai sensi della disposizione da ultimo citata, l’onere di impugnazione dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso “al buio”.
4.6. Nel caso di specie, ai fini dell’ammissione, le imprese non avevano dovuto presentare alcuna documentazione tecnica e, pertanto, non erano note le caratteristiche dei prodotti offerti da Fr.Ka.It. s.r.l. e inoltre, come sottolineato nella memoria difensiva della controinteressata, la stessa Fr. avrebbe potuto modificare le etichette dei flaconi nelle more dell’indizione della procedura ristretta.
4.7. Né risulta provato, del resto, che B.Br.Mi. s.p.a. fosse altrimenti a conoscenza delle caratteristiche tecniche del prodotto offerto da Fr.Ka.It. s.r.l.
4.8. La data del 07.03.2017, a sua volta, si riferisce alla proposta di aggiudicazione in favore dell’odierna appellante, ma a questo proposito non solo si può rilevare come
l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. vieti di impugnare la proposta di aggiudicazione, assimilabile alla vecchia aggiudicazione provvisoria, ma anche come già prima dell’introduzione di tale disposizione la giurisprudenza considerasse l’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria meramente facoltativa (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 17.02.2016, n. 631; Cons. St., sez. V, 25.07.2014, n. 3960).
4.8. La data del 09.03.2017, infine, è riconducibile alla contestazione effettuata da B.Br.Mi. s.p.a. nei confronti dell’aggiudicazione disposta in favore di Fr.Ka.It. s.r.l., ma è stata posta in essere solo ipotizzando che la stessa Fr. avesse offerto i propri flaconi standard, privi della scala di misurazione richiesta dall’art. 11.2 del capitolato, sicché, in ipotesi, questa avrebbe ben potuto offrire un prodotto diverso da quello standard.
4.9. È pertanto solo con la determinazione di aggiudicazione definitiva n. 386 del 15.03.2017, alla quale era allegato il verbale del 10.03.2017 da cui si evincevano le esatte caratteristiche tecniche dell’offerta di Fr.Ka.It. s.r.l., che B.Br.Mi. s.p.a. ha avuto una conoscenza certa della difformità del prodotto concretamente offerto dalla stessa Fr..
4.9. Ne discende che è solo nel 15.03.2017 che deve essere individuato il dies a quo per la decorrenza del termine utile alla proposizione del ricorso.
4.10. Per le ragioni esposte, dunque, il ricorso risulta tempestivo e si deve respingere la questione di inammissibilità sollevata dall’appellante con il secondo motivo in esame (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 565 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le prescrizioni dei bandi hanno carattere inderogabile e vincolano anche l’Amministrazione che, pertanto, non può disattendere tali disposizioni, costituenti la cosiddetta lex specialis della gara o del concorso, e, anche nel caso in cui esse siano illegittime, non può disapplicarle.
Inoltre,
con particolare riferimento ai chiarimenti forniti dalla stazione appaltante, che nel caso di specie, come sopra evidenziato, si sono correttamente limitati a chiarire la portata dell’art. 11.2, la giurisprudenza riconosce ad essi una funzione meramente interpretativa e non modificativa delle prescrizioni del bando.
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È opportuno precisare come tale ricostruzione non si ponga in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, richiamato dall’appellante, che
impone di preferire l’interpretazione della lex specialis maggiormente rispettosa del principio del favor partecipationis e dell’interesse al più ampio confronto concorrenziale.
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La giurisprudenza di questo Consiglio con costanza afferma che «
l’offerta deve essere, infatti, conforme alle caratteristiche tecniche previste nel capitolato di gara per i beni da fornire sin dal principio, atteso che difformità, anche parziali, si risolvono in un “aliud pro alio”, che giustifica l’esclusione dalla selezione».
Pertanto,
ai fini dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale.
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6.9. Le considerazioni appena svolte, del resto, sono conformi al consolidato orientamento di questo Consiglio, il quale costantemente ribadisce che
le prescrizioni dei bandi hanno carattere inderogabile e vincolano anche l’Amministrazione che, pertanto, non può disattendere tali disposizioni, costituenti la cosiddetta lex specialis della gara o del concorso, e, anche nel caso in cui esse siano illegittime, non può disapplicarle (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 01.03.2017, n. 963; Cons. St., sez. V, 23.06.2014, n. 3150; Cons. St., sez. V, 27.04.2011, n. 2476).
6.10. Inoltre,
con particolare riferimento ai chiarimenti forniti dalla stazione appaltante, che nel caso di specie, come sopra evidenziato, si sono correttamente limitati a chiarire la portata dell’art. 11.2, la giurisprudenza riconosce ad essi una funzione meramente interpretativa e non modificativa delle prescrizioni del bando (cfr., inter multas, Cons. St., sez. III, 10.05.2017, n. 2172; Cons. St., sez. III, 13.01.2016, n. 74).
6.11. Per tali ragioni, si ribadisce, l’ammissione di alcune imprese che non abbiano fornito prodotti dotati della scala di misurazione indicata nell’art. 11.2 non può consentire di escludere la natura obbligatoria di detto requisito né di ricavare la sicura legittimità di dette ammissioni, le quali, in ogni caso, non sono oggetto del presente giudizio.
6.12. Ciò che rileva, pertanto, è solamente il contenuto precettivo del più volte richiamato art. 11.2 del capitolato.
7. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, quindi, deve il Collegio ribadire il carattere vincolante dell’art. 11.2 del capitolato, anche nella parte in cui prevede che i flaconi in materiale plastico debbano essere dotati di una scala di misurazione «almeno ogni 100 ml».
7.1. È opportuno precisare come tale ricostruzione non si ponga in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, richiamato dall’appellante, che
impone di preferire l’interpretazione della lex specialis maggiormente rispettosa del principio del favor partecipationis e dell’interesse al più ampio confronto concorrenziale (v., in questo senso, Cons. St., sez. IV, 14.03.2016, n. 1015; Cons. St., sez. III, 14.01.2015, n. 58).
7.2. Le citate pronunce, infatti, richiamano tale criterio ermeneutico con riferimento a situazioni di oggettiva incertezza delle clausole del bando, circostanza che, alla luce delle considerazioni svolte, non è ravvisabile nel caso di specie, sicché il principio del favor partecipationis non potrebbe essere utilizzato per modificare surrettiziamente il contenuto dell’art. 11.2 del capitolato.
7.3. Infine, deve qui solo aggiungersi, non è condivisibile anche l’osservazione dell’appellante, secondo cui la mancanza del requisito in esame non determinerebbe l’esclusione, non essendo tale conseguenza espressamente prevista.
7.4. A questo proposito, del resto, si può notare come le specifiche tecniche previste nel bando, tra le quali certamente rientra la scala di misurazione descritta nell’art. 11.2, consentono di ricostruire con esattezza il prodotto richiesto dall’Amministrazione e di individuare, in questo modo, l’oggetto del contratto nella sua essenziale funzione.
7.5. Per tali ragioni la giurisprudenza di questo Consiglio con costanza afferma che «
l’offerta deve essere, infatti, conforme alle caratteristiche tecniche previste nel capitolato di gara per i beni da fornire sin dal principio, atteso che difformità, anche parziali, si risolvono in un “aliud pro alio”, che giustifica l’esclusione dalla selezione» (Cons. St., sez. V, 05.05.2016, n. 1818; Cons. St., sez. V, 05.05.2016, n. 1809; Cons. St., sez. V, 28.06.2011, n. 3877).
7.6. Pertanto,
ai fini dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale.
7.7. Inoltre è appena il caso di rilevare come la specifica contenuta nell’art. 11.2 del capitolato, oggetto di contestazione, sia perfettamente conforme alle previsioni degli artt. 68 e 83 del d.lgs. n. 50 del 2016, giacché non comporta restrizioni indebite della concorrenza in questa materia, diversamente da quanto assume l’appellante richiamando a torto le previsioni del d.lgs. n. 219 del 2006, ed è attinente e proporzionata all’oggetto dell’appalto.
7.8. Ne discende che, essendo più del 30% dei flaconi offerti da Fr.Ka.It. s.r.l. difformi rispetto alle specifiche prescritte dall’art. 11.2 del capitolato, circostanza, questa, accertata in primo grado e non contestata nel presente grado di appello, l’offerta non è in grado di raggiungere la copertura dell’80% delle formulazioni messe a gara richiesta dalla lettera di invito e correttamente, quindi, il primo giudice ne ha decretato l’espulsione dalla procedura.
8. Alla luce delle considerazioni svolte, l’appello di Fr.Ka.It. s.r.l. deve essere integralmente respinto in entrambi i motivi, confermandosi, di conseguenza, la sentenza impugnata, che l’ha esclusa dalla gara, in riferimento al lotto n. 281, per la accertata, e incontestabile, difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche di cui all’art. 11.2 del capitolato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell'art. 22, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza; di conseguenza il successivo comma 3 introduce il principio della massima ostensione dei documenti amministrativi, salve le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela, siccome previsto dall'art. 24 commi 1, 2, 3, 5 e 6 della medesima legge;
Peraltro, pur prevedendo il diritto di accesso agli atti della Pubblica amministrazione a chiunque vi abbia interesse, il Legislatore non ha voluto introdurre un'azione popolare volta a consentire un controllo generalizzato sull'attività amministrativa, con la conseguenza che l'interesse all'ostensione deve essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti; ed infatti, a norma dell'art. 22, comma 1, lett. b), cit. l. n. 241 del 1990, vengono definiti "interessati" all'accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.
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La società ricorrente, con oggetto il commercio all’ingrosso e al dettaglio, l’importazione ed esportazione, la lavorazione e la confezione di caschi, selle tappeti ed altri accessori per scooter, cicli e motocicli – premesso che di fronte alla propria sede e lungo l’intera Via Palmiro Togliatti, è stato realizzato un marciapiede al di sopra del quale sono state incastonate una serie di piante di notevoli dimensioni asseritamente comportanti un notevole restringimento della carreggiata e gravi disagi rendendo particolarmente gravoso l’ingresso nell’azienda di veicoli ed automezzi, presentava un’istanze al Comune di Pollena Trocchia, in data 06.04.2017 (per accedere alla relativa documentazione della documentazione inerente la costruzione del marciapiede e delle piante su di esso immesse, con particolare riguardo al permesso di costruire), rimasta inevasa, di talché proponeva l’odierno giudizio avverso il diniego così implicitamente formatosi.
Il Comune intimato no si costituiva.
Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono.
Va premesso in diritto che ai sensi dell'art. 22, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza; di conseguenza il successivo comma 3 introduce il principio della massima ostensione dei documenti amministrativi, salve le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela, siccome previsto dall'art. 24 commi 1, 2, 3, 5 e 6 della medesima legge; peraltro, pur prevedendo il diritto di accesso agli atti della Pubblica amministrazione a chiunque vi abbia interesse, il Legislatore non ha voluto introdurre un'azione popolare volta a consentire un controllo generalizzato sull'attività amministrativa, con la conseguenza che l'interesse all'ostensione deve essere finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti; ed infatti, a norma dell'art. 22, comma 1, lett. b), cit. l. n. 241 del 1990, vengono definiti "interessati" all'accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.
Nel caso di specie ricorrono i sopracitati requisiti normativamente definiti: infatti, l’istanza formulata è preordinata all’effettiva conoscenza dei permessi e delle concessioni edilizie riguardanti le opere interessanti l’area confinante e prospiciente i locali ove l’istante esercita la propria attività lavorativa, sì da poter valutare la possibilità di adire la competente Autorità Giudiziaria a fronte del pregiudizio arrecato all’esercizio dei diritti connessi alla tale qualità.
Ed, invero, in relazione alla posizione differenziata e qualificata della società ricorrente rispetto alla documentazione richiesta, sussistono i presupposti normativamente definiti dagli artt. 22 e ss. L. 241/1990, con particolare riferimento alla presenza di un interesse concreto, diretto ed attuale collegato al tipo di documento richiesto in funzione della rappresenta esigenza di conoscere le modalità di assenso al descritto intervento costruttivo.
Non emergono –né l’amministrazione comunale, benché in tal senso compulsata, ha dedotto e provato profili ostativi a siffatta esigenza, serbando, sia in sede procedimentale che processuale, un contegno di sostanziale inerzia- profili ostativi ex art. 24 L. 241/1990 secondo la restrittiva interpretazione che, in quanto eccezione al principio generale di trasparenza, agli stessi deve essere fornita.
Consegue da quanto sopra esposto che il diniego tacito opposto è illegittimo.
Ne segue, per le ragioni esposte, che il ricorso va accolto con condanna del Comune di Pollena Trocchia a consentire alla società ricorrente, nel termine massimo di trenta giorni dalla notificazione della sentenza, l'accesso e l'estrazione di copia dei documenti richiesti (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.01.2018 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può certamente essere trattato come volume tecnico un piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto lo stesso si caratterizza per una rilevante altezza media interna (ben superiore a quella sufficiente a svolgere una mera funzione isolante dal punto di vista termico), nonché per un notevole ingombro complessivo, incidente in modo significativo sui luoghi esterni.
Né tali connotazioni possono essere eliminate dall’eventuale occlusione, mediante tamponatura, dell’ingresso e delle altre aperture, rimanendo in piedi il carattere di locale autonomo suscettibile di potenziale e oggettiva utilizzabilità abitativa, come dimostrato comunque dalla possibilità di (un futuro) accesso, garantita dalla presenza di una scala interna.
I sottotetti qualificabili come “volumi tecnici”, non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile, sono infatti soltanto quelli destinati agli impianti, necessari per l’utilizzo dell’abitazione, i quali non possono essere ubicati al suo interno.
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Quanto, poi, al volume interrato, la qualificazione di esso in termini di mero “volume tecnico”, o comunque di volume destinato ad usi episodici o meramente complementari, non discende dal fatto di essere, per l’appunto, interrato, ma dal fatto che lo stesso non sia adibibile ad attività umane di tipo continuativo, con presenza e permanenza di persone, dovendo, nel caso opposto, essere trattato a tutti gli effetti come se fosse un locale costruito sopra il piano di campagna.
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FATTO
Con sentenza n. 284/2017, divenuta definitiva, questo TAR ha annullato il diniego opposto dal Comune di Vibo Valentia al rilascio del p.d.c. in variante richiesto dalla ricorrente sulla base del c.d. “piano casa”, riconoscendo l’avvenuta formazione del silenzio-assenso ed affermando testualmente che “alla data del diniego (27.07.2016), il suddetto termine di 100 giorni [per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio del p.d.c.] era ormai perento, sia che lo si faccia decorrere dal 23.09.2015 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuto deposito del progetto presso l’ex Genio civile), sia che lo si faccia decorrere dal 12.01.2016 (data di comunicazione al Comune dell’avvenuta verifica del progetto da parte dell’ex Genio civile)”.
Con il ricorso principale, integrato da motivi aggiunti, viene quindi impugnato il provvedimento con cui il Comune di Vibo Valentia ha, successivamente, proceduto all’annullamento d’ufficio del predetto silenzio-assenso.
Resiste il Comune di Vibo Valentia.
All’udienza del 24.01.2018, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
...
Sotto l’aspetto sostanziale, il provvedimento impugnato è motivato, implicitamente, sulla base dei profili di illegittimità dell’opera afferenti al calcolo del volume e delle superfici dichiarate, sui quali si era già fondato il precedente atto di diniego (quello annullato dal TAR per ragioni di carattere formale) e richiamati nella comunicazione di avvio del procedimento in data 14.03.2017.
Pertanto, seppur formulata in maniera generica, siffatta motivazione non rende del tutto impercettibile il percorso logico seguito dalla P.A., tanto più che il privato, già nel ricorso introduttivo dell’odierno giudizio (pag. 12 e segg.) e poi nei motivi aggiunti, è entrato nel merito dei rilievi tecnici sollevati, illustrando come l’eccedenza di superficie e volumetria siano solo apparenti, trovando giustificazione nelle seguenti circostanze:
   - il piano sottotetto ha un’altezza media di m. 2,35 e, dunque, non può essere considerato abitabile, poiché, a tal fine, dovrebbe avere un’altezza media di almeno m. 2,70. Inoltre, negli elaborati progettuali e nella relazione tecnica descrittiva del progetto, è stato evidenziato come esso sarà interamente utilizzato per l’allocazione degli impianti tecnologici, sicché va escluso dal computo della cubatura, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), della l. r. n. 21 del 2010, sul c.d. “piano casa”;
   - il piano sotto quota è interrato per oltre 2/3 e, conseguentemente, non è computabile nei volumi, stante l’esplicita previsione in tal senso, contenuta nelle norme tecniche di attuazione del vigente P.R.G. di Vibo Valentia ed in forza dell’art. 6, comma 5, n. 3, della l.r. n. 21/2010, secondo cui, per volumi interrati, si intendono “i piani la cui superficie si presenta entroterra per una percentuale superiore ai 2/3 della superficie laterale del piano” (identica definizione di “volume interrato” è, altresì, riportata nell’art. 49, comma 2, lett. c), della l.r. n. 19/2002, c.d. “legge urbanistica della Regione Calabria”).
Tali affermazioni non possono essere condivise.
Al riguardo, va precisato che non può certamente essere trattato come volume tecnico un piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto lo stesso si caratterizza per una rilevante altezza media interna (ben superiore a quella sufficiente a svolgere una mera funzione isolante dal punto di vista termico), nonché per un notevole ingombro complessivo, incidente in modo significativo sui luoghi esterni.
Né tali connotazioni possono essere eliminate dall’eventuale occlusione, mediante tamponatura, dell’ingresso e delle altre aperture, rimanendo in piedi il carattere di locale autonomo suscettibile di potenziale e oggettiva utilizzabilità abitativa, come dimostrato comunque dalla possibilità di (un futuro) accesso, garantita dalla presenza di una scala interna (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 30.03.2015 n. 1869).
I sottotetti qualificabili come “volumi tecnici”, non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile, sono infatti soltanto quelli destinati agli impianti, necessari per l’utilizzo dell’abitazione, i quali non possono essere ubicati al suo interno (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 17.06.2014 n. 3038 Cass. civ., Sez. II, 03.02.2011 n. 2566; TAR Campania, Salerno, 03.08.2006 n. 1119; TAR Campania, Napoli, 03.02.2006 n. 1506).
Quanto, poi, al volume interrato, la qualificazione di esso in termini di mero “volume tecnico”, o comunque di volume destinato ad usi episodici o meramente complementari, non discende dal fatto di essere, per l’appunto, interrato, ma dal fatto che lo stesso non sia adibibile ad attività umane di tipo continuativo, con presenza e permanenza di persone, dovendo, nel caso opposto, essere trattato a tutti gli effetti come se fosse un locale costruito sopra il piano di campagna (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 09.12.2011 n. 9646; TAR Lazio, Latina, 29.05.2017 n. 337).
Talché, in mancanza di evidenze progettuali e/o difensive nel senso sopra descritto, l’annullamento appare corretto, tenuto conto della natura intrinsecamente difforme alla strumentazione urbanistica vigente, attribuibile alle opere realizzande.
Infine, l’interesse pubblico concreto ed attuale dell’Amministrazione alla rimozione del provvedimento appare preminente rispetto a quello alla sua conservazione, avuto riguardo al fatto che il privato, con l’adozione dell’atto di diniego, era stato preavvertito dell’esistenza di possibili cause di illegittimità nell’attività edilizia denunciata, cosicché, nel riprendere i lavori dopo la sentenza di questo Tribunale, lo ha fatto a proprio rischio e pericolo.
Il ricorso si palesa, dunque, interamente infondato, mentre le spese del processo meritano di essere compensate, alla luce della particolarità della questione trattata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 24.01.2018 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizione che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara.
Depone in questi sensi l’esigenza che la determinazione degli obblighi progettuali e documentali imposti dalle stazioni appaltanti ai concorrenti siano chiaramente definiti nei documenti di gara e che a tali soggetti non siano addossati oneri che le prime, nell’ambito della loro discrezionalità e sulla base del grado di dettaglio della progettazione a base di gara, delle caratteristiche delle opere e delle migliorie consentite, hanno ritenuto non necessari.
Per contro, l’applicazione meccanicistica dei più volte citati artt. 35 e 26 d.P.R. n. 207 del 2010, nei termini e con gli esiti propugnati dall’odierna appellante, condurrebbe proprio a tali incoerenti ed irragionevoli conseguenze, determinando un aggravio documentale ed economico per i concorrenti che, da un lato, non risponde ad esigenze effettive delle amministrazioni e le cui conseguenze si pongono, dall’altro lato, in tensione con i richiamati principi di certezza affermati in ambito sovranazionale e con divieto di enucleare cause di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici non previste in modo espresso dal bando di gara.

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1.- L’appello non è fondato e merita di essere respinto.
2.- La società appellante si duole, con un primo ordine di censure, che la sentenza impugnata abbia disatteso la doglianza con la quale aveva lamentato l’illegittimità della disposta aggiudicazione della commessa a favore della Pr. per avere la ditta aggiudicataria omesso di includere nella propria compagine la figura del geologo, come pure di includere nella propria offerta tecnica la relazione geologica, in asserita violazione della lex specialis di procedura, nonché dalla normativa positiva vigente ratione temporis.
Trattandosi, a suo dire, di un elemento essenziale dell’offerta, come tale condizionante la stessa completezza e idoneità degli elaborati progettuali (il progetto definitivo essendo parte integrante dell’offerta), detta omissione avrebbe, per contro, dovuto ineludibilmente determinare l’esclusione della Pr. dalla gara, con consequenziale ed auspicata caducazione anche della disposta aggiudicazione della gara in suo favore.
Nel disattendere la così scandita censura, il primo giudice avrebbe, per tal via, erroneamente omesso di considerare che:
   a) la normativa di gara avrebbe richiesto, in realtà, espressamente ai concorrenti di allegare all’offerta tecnica le relazioni specialistiche di cui all’art. 24 del d.P.R. n. 207/2010, tra le quali non poteva non essere ricompresa la relazione geologica;
   b) in ogni caso l’obbligo di allegare la relazione de qua doveva ritenersi derivare recta via dagli artt. 24 e ss. del d.P.R. n. 207/2010, aventi carattere cogente e, quindi, immediata attitudine ad eterointegrare la disciplina concorsuale.
In particolare, nel critico ed argomentato assunto dell’appellante, la non equivoca prescrizione scolpita al paragrafo 3 della lex specialis di procedura (nella parte in cui imponeva che l’offerta tecnica, debitamente chiusa e sigillata, dovesse contenere, a pena di esclusione, il progetto definitivo dell’opera a realizzarsi, completo in ogni sua parte di relazioni, capitolati ed elaborati grafici, nel rispetto di quanto indicato dal d.p.r. n. 207/2010) avrebbe dovuto intendersi –proprio in forza dell’espresso richiamo all’art. 24 e 26 delle vigenti norme regolamentari– specificamente inclusivo (in difetto di motivata e contraria determinazione del responsabile del procedimento) della relazione geologica, ivi segnatamente prevista tra gli elementi indefettibili a corredo dell’offerta.
3.- La censura va disattesa.
3.1.- Con riferimento alla problematica della automatica eterointegrazione della normativa di gara ad opera dei citati artt. 24, 26 (e 35) del regolamento di esecuzione al previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.P.R. n. 207 del 2010, la Sezione, nella consapevolezza della ricorrenza di precedenti giurisprudenziali non univoci, ha da ultimo ritenuto –con maturato orientamento al quale occorre dare, in difetto di contrarie ragioni, sostanziale continuità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.08.2017, n. 4080, sulla scia di Id., 28.10.2016, n. 4553)– che la formulazione delle norme richiamate deponga per il carattere solo eventuale delle relazioni specialistiche in sede di progettazione (definitiva od esecutiva).
3.2.- Siffatta conclusione emerge in effetti, già a livello di interpretazione letterale, dalla formula linguistica protasica utilizzata nelle evocate disposizioni normative (alla cui stregua solo “ove la progettazione implichi la soluzione di ulteriori questioni specialistiche” –e, quindi, non sempre e non necessariamente: id est, non quando, in concreto, non sussista la necessità di risolvere specifiche ed, appunto, “ulteriori” questioni tecniche– queste debbano formare oggetto di apposite relazioni “che definisc[a]no le problematiche e indic[hi]no le soluzioni da adottare in sede di progettazione”: così, chiaramente, l’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010).
3.3.- Per giunta, alla luce di una più comprensiva disamina della normativa sui livelli di progettazione recata dal d.P.R. n. 207 del 2010 ed in particolare in relazione all’art. 33, relativo ai “Documenti componenti il progetto esecutivo” (secondo cui quest’ultimo deve essere composto di tutte le relazioni specialistiche, “salva diversa motivata determinazione del responsabile del procedimento”), va ribadito che tale disposizione “afferisce tuttavia all’attività progettuale che si svolge all’interno delle stazioni appaltanti, cosicché non ne può essere desunta una rilevanza «esterna», sotto forma di requisito di partecipazione alle procedure di gara in cui un segmento della progettazione […] sia affidato all’appaltatore privato” (cfr. ancora Cons. Stato, n. 4080/2017 cit.).
3.4.- Siffatto ordine di rilievi, del resto, si correla all’esigenza di non introdurre obblighi documentali sanzionati a pena di esclusione dalla gara in assenza di una specifica ed univoca previsione del bando, e dunque di una espressa richiesta da parte della stazione appaltante (esigenza, all’evidenza, non soddisfatta, neanche in implausibile prospettiva eterointegrativa, dal riferimento per relationem a previsioni regolamentari formulate in termini condizionati e di mera eventualità), posto che risulterebbero, altrimenti, violati i superiori principi eurocomuni di certezza e di salvaguardia dell’affidamento enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 02.06.2016, C-27/15.
3.5.- Per l’effetto, deve ribadirsi l’intendimento per cui l’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizione che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara.
Depone in questi sensi l’esigenza che la determinazione degli obblighi progettuali e documentali imposti dalle stazioni appaltanti ai concorrenti siano chiaramente definiti nei documenti di gara e che a tali soggetti non siano addossati oneri che le prime, nell’ambito della loro discrezionalità e sulla base del grado di dettaglio della progettazione a base di gara, delle caratteristiche delle opere e delle migliorie consentite, hanno ritenuto non necessari.
Per contro, l’applicazione meccanicistica dei più volte citati artt. 35 e 26 d.P.R. n. 207 del 2010, nei termini e con gli esiti propugnati dall’odierna appellante, condurrebbe proprio a tali incoerenti ed irragionevoli conseguenze, determinando un aggravio documentale ed economico per i concorrenti che, da un lato, non risponde ad esigenze effettive delle amministrazioni e le cui conseguenze si pongono, dall’altro lato, in tensione con i richiamati principi di certezza affermati in ambito sovranazionale (cfr., ancora, Cons. Stato, sez. V, n. 4080/2017) e con divieto di enucleare cause di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici non previste in modo espresso dal bando di gara (cfr., sul punto, Cons. Stato, ad. plen., 27.07.2016, n. 19).
3.6.- Sulle esposte premesse rileva la Sezione che nel caso di specie nessuna previsione di lex specialis imponeva espressamente di corredare l’offerta tecnica della relazione geologica e di indicare la figura del geologo, per cui l’impostazione del motivo d’appello in esame non può essere condivisa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.01.2018 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica, siano da considerare acquisiti i seguenti principi:
   a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
   c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   d) la valutazione di congruità deve essere, perciò, globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono: il che, beninteso, non impedisce all’amministrazione appaltante e, per essa, alla commissione di gara di limitarsi a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrarne la congruità, può fornire, ex art. 87, 1º comma, d.lgs. n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni.

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7.- Da ultimo, parte appellante reitera il motivo del gravame di primo grado relativo alla ventilata illegittimità del provvedimento di aggiudicazione impugnato per violazione dell’art. 87, d.lgs. n. 163/2006: a suo dire, la stazione appaltante avrebbe erroneamente omesso di accertare (ciò che non sarebbe stato idoneamente apprezzato dal primo giudice) la congruità di tutte le singole voci di prezzo dell’offerta dell’odierna deducente, limitandosi a verificare quelle “più significative che concorr[evano] a formare un importo non inferiore al 75 per cento di quello offerto”.
8.- La censura non è fondata.
Vale osservare come, in tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica, siano da considerare acquisiti, in premessa, i seguenti principi (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 30.10.2017, n. 4978):
   a) il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
   c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   d) la valutazione di congruità deve essere, perciò, globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono: il che, beninteso, non impedisce all’amministrazione appaltante e, per essa, alla commissione di gara di limitarsi a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrarne la congruità, può fornire, ex art. 87, 1º comma, d.lgs. n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4516).
Ne discende (nella assenza di rilievi che possano concretamente evidenziare l’erroneità, la contraddittorietà o l’insufficienza delle valutazioni effettuate dalla stazione appaltante) l’inconfigurabilità di alcun vizio nell’operato di quest’ultima, per il solo fatto che abbia ritenuto sufficienti a dimostrare la congruità dell’offerta le giustificazioni fornite dall’aggiudicataria in relazione alla maggior parte delle voci di costo.
9.- Per il complesso delle esposte ragioni, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.01.2018 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza di questo Consiglio ha, da sempre, rilevato che pur non essendo un piano di lottizzazione, al pari di tutti gli altri strumenti urbanistici anche di grado più elevato, di ostacolo ad una successiva pianificazione generale del territorio e potendo quindi essere superato da strumenti urbanistici che dispongano in modo difforme, l'amministrazione deve motivare ampiamente ed in modo rigoroso le ragioni per cui le nuove scelte urbanistiche facciano ritenere superati gli interventi lottizzativi precedentemente approvati.
Pertanto, la necessità di un’ampia e rigorosa motivazione si è ritenuta necessaria nel caso in cui la qualificazione edificatoria di un’area, ulteriormente valorizzata dalla presenza di un piano esecutivo, mutasse a seguito della nuova disciplina contenuta nel piano urbanistico generale.
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La destinazione a verde agricolo di un’area, stabilita da un P.R.G., non implica per forza che essa soddisfi in modo diretto ed immediato gli interessi agricoli, potendosi giustificare con le esigenze di un ordinato governo del territorio; tra queste ultime rientra pure la necessità d’impedire un’ulteriore edificazione o un congestionamento delle aree, affinché si mantenga l’equilibrato rapporto quantitativo tra aree libere ed edificate o industriali e si realizzino i bisogni collettivi di maggior vivibilità dello spazio urbano, se del caso mercé la contrazione dell’illimitata espansione edilizia.
Tutto ciò non determina né veri e propri insediamenti agricoli nuovi, né puntigliose verifiche sulla reale vocazione delle aree stesse allo sfruttamento produttivo agricolo.
A ciò deve aggiungersi che la destinazione data alle singole aree da un P.R.G. non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, a ciò bastando l’espresso richiamo alla relazione di accompagnamento al progetto di questo.
Infatti le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono, in particolare, le lesioni all’affidamento qualificato del privato, derivanti da convenzioni di lottizzazione.
Al di fuori da tale ipotesi derogatoria qui non ricorrente, questo Consiglio ha chiarito a più riprese che non sussiste una situazione di affidamento qualificato del privato, tale da richiedere l’obbligo di specifica motivazione delle scelte urbanistiche, nel caso in cui la pregressa destinazione della zona sia più favorevole, ovvero nel caso in cui sia stata presentata una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune.
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5. L’appello è fondato e merita di essere accolto.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, da sempre (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 28.04.1981, n. 374), rilevato che pur non essendo un piano di lottizzazione, al pari di tutti gli altri strumenti urbanistici anche di grado più elevato, di ostacolo ad una successiva pianificazione generale del territorio e potendo quindi essere superato da strumenti urbanistici che dispongano in modo difforme, l'amministrazione deve motivare ampiamente ed in modo rigoroso le ragioni per cui le nuove scelte urbanistiche facciano ritenere superati gli interventi lottizzativi precedentemente approvati.
Pertanto, la necessità di un’ampia e rigorosa motivazione si è ritenuta necessaria nel caso in cui la qualificazione edificatoria di un’area, ulteriormente valorizzata dalla presenza di un piano esecutivo, mutasse a seguito della nuova disciplina contenuta nel piano urbanistico generale.
Nella fattispecie, tuttavia, la storia urbanistica delle aree degli originari ricorrenti si caratterizza per la presenza di una proposta di convenzione di lottizzazione non andata a buon fine, sicché l’unico elemento di riferimento effettivo ai fini del decidere è rappresentato dal fatto che la previgente disciplina urbanistica comunale avesse qualificato le dette aree come C2.
In quest’ipotesi, occorre rammentare che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., Sez. IV, 17.08.2016, n. 3643) ha chiarito che la destinazione a verde agricolo di un’area, stabilita da un P.R.G., non implica per forza che essa soddisfi in modo diretto ed immediato gli interessi agricoli, potendosi giustificare con le esigenze di un ordinato governo del territorio; tra queste ultime rientra pure la necessità d’impedire un’ulteriore edificazione o un congestionamento delle aree, affinché si mantenga l’equilibrato rapporto quantitativo tra aree libere ed edificate o industriali e si realizzino i bisogni collettivi di maggior vivibilità dello spazio urbano, se del caso mercé la contrazione dell’illimitata espansione edilizia. Tutto ciò non determina né veri e propri insediamenti agricoli nuovi, né puntigliose verifiche sulla reale vocazione delle aree stesse allo sfruttamento produttivo agricolo.
A ciò deve aggiungersi che la destinazione data alle singole aree da un P.R.G. non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, a ciò bastando l’espresso richiamo alla relazione di accompagnamento al progetto di questo.
Infatti le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono, in particolare, le lesioni all’affidamento qualificato del privato, derivanti da convenzioni di lottizzazione (Cons. Stato, IV, 14.05.2015 n. 2453).
Al di fuori da tale ipotesi derogatoria qui non ricorrente, questo Consiglio ha chiarito a più riprese che non sussiste una situazione di affidamento qualificato del privato, tale da richiedere l’obbligo di specifica motivazione delle scelte urbanistiche, nel caso in cui la pregressa destinazione della zona sia più favorevole, ovvero nel caso in cui sia stata presentata una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune (Cons. St., Sez. IV, 16.01.2012, n. 119).
Nella fattispecie il giudice di prime cure ha omesso di rilevare che la ragione complessiva per la diversa qualificazione delle aree degli originari ricorrenti non deve rinvenirsi solo nella risposta alle osservazioni da questi presentate, ma anche nella relazione del P.U.E., che legittimamente ha compiuto scelte limitative dell’edificabilità delle aree degli odierni appellati, attraverso l’attribuzione di destinazioni limitative o preclusive dell’edificazione, valorizzando esigenze di contenimento dell’espansione dell’abitato nonché di salvaguardia di valori paesaggistici e ambientali, in vista del perseguimento di obiettivi di miglioramento della vivibilità del territorio comunale, utilizzando, come parametro di riferimento, quello della limitazione del consumo del suolo, che del resto non può che essere utilizzato in relazione a tutte le aree oggetto della nuova disciplina urbanistica.
Sotto questo profilo non assume un rilievo viziante il riferimento al PTCP in itinere al tempo dell’approvazione del PUC, dal momento che quest’ultimo va inteso come segno della percezione della necessità di coordinamento dello stesso con il contenuto dei piani urbanistici superiori. sia pure in itinere.
Del resto la motivazione in questione va intesa come utilizzata ad colorandum, risultando sufficientemente adeguato per motivare la diversa qualificazione delle aree degli appellati quanto si evince dal combinato disposto del contenuto della risposta alle osservazioni e dalla relazione al PUC.
6. L’appello deve, quindi, essere accolto con ciò che ne consegue in termini di riforma della sentenza impugnata e di rigetto del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2018 n. 407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel nostro ordinamento non esistono istituti come la revoca implicita o l’annullamento implicito di provvedimenti amministrativi, vigendo il principio della tipicità e nominatività degli atti amministrativi, che onera all'adozione di un atto contrario che contenga espressamente le ragioni per le quali esso sia divenuto incompatibile o sia stato incompatibile ab origine con le regole della materia.
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Viene in decisione il ricorso promosso dal Sig. Fl.Fr. avverso l’ordinanza di demolizione del 10.05.1999 n. 44/99 con cui il Comune di Siracusa ha ingiunto la demolizione della costruzione sita in Siracusa nella via ... e riportata in N.C.E.U. al foglio 148, p.lla 298.
Il Collegio premette che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il provvedimento n. 159/1999 con cui il Comune di Siracusa ha manifestato l’intenzione di sospendere il provvedimento impugnato, non può essere considerato una revoca implicita di detto provvedimento.
Nel nostro Ordinamento, infatti, non esistono istituti come la revoca implicita o l’annullamento implicito di provvedimenti amministrativi, vigendo il principio della tipicità e nominatività degli atti amministrativi, che onera all'adozione di un atto contrario che contenga espressamente le ragioni per le quali esso sia divenuto incompatibile o sia stato incompatibile ab origine con le regole della materia (cfr. TAR Puglia Bari Sez. III, 19.10.2017, n. 1077) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 22.01.2018 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, pur non dovendo essere di norma assistita da un particolare onere motivazionale, deve farsi carico di descrivere le caratteristiche, l’entità e i profili di contrasto degli interventi ritenuti abusivi con la normativa urbanistica.
I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili dovendosi prescindere dagli eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari; l’ordine di demolizione è pertanto legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale fino a prova contraria è quanto meno corresponsabile dell’abuso.
Tale regola, volta anche a semplificare gli incombenti istruttori a carico dell’Autorità comunale, richiede quale adempimento minimo la puntuale verifica dei dati catastali attuali i quali pur hanno valore meramente indiziario sulla titolarità del diritto di proprietà.
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Viene in decisione il ricorso promosso dal Sig. Fl.Fr. avverso l’ordinanza di demolizione del 10.05.1999 n. 44/99 con cui il Comune di Siracusa ha ingiunto la demolizione della costruzione sita in Siracusa nella via ... e riportata in N.C.E.U. al foglio 148, p.lla 298.
...
Passando all’esame dei motivi di ricorso, il Collegio osserva che, in materia edilizia, l’ordinanza di demolizione, pur non dovendo essere di norma assistita da un particolare onere motivazionale (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI 29.01.2016, n. 357), deve farsi carico di descrivere le caratteristiche, l’entità e i profili di contrasto degli interventi ritenuti abusivi con la normativa urbanistica (cfr. TAR Campania Napoli sez. III, 23.03.2016 n. 1521).
I provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili dovendosi prescindere dagli eventuali rapporti interprivati tra gli autori degli abusi e i proprietari; l’ordine di demolizione è pertanto legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale fino a prova contraria è quanto meno corresponsabile dell’abuso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2016, n. 2747).
Tale regola, volta anche a semplificare gli incombenti istruttori a carico dell’Autorità comunale, richiede quale adempimento minimo la puntuale verifica dei dati catastali attuali i quali pur hanno valore meramente indiziario sulla titolarità del diritto di proprietà (Consiglio di Stato, sez. VI, 09.02.2015, n. 631) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 22.01.2018 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sul responsabile dell’inquinamento e non sul proprietario dell’area come tale, che è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione.
Secondo la condivisibile giurisprudenza, l’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sul responsabile dell’inquinamento (la locuzione “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area per tale.
Invero, “Ai sensi degli art. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pa solo ai soggetti responsabili dell'inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione con un comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.
In proposito, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola qualità, dal quadro normativo emergono le seguenti regole:
   1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione;
   2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo 244, comma 2);
   3) se il responsabile non è individuabile o non provveda gli interventi necessari sono adottati dall'amministrazione competente (articolo 244, comma 4);
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”.
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3.1.1. La censura è fondata.
3.1.2. Invero, la vicenda in questione non è dissimile da altre, su cui già si è pronunciato nel tempo questo Tribunale: cfr., per il SIN di Sesto San Giovanni, TAR Lombardia Milano, IV, 06.11.2017, n. 2088 e id. II, 09.04.2013, n. 883, le quali concernono l’impugnazione di provvedimenti, con cui il Ministero dell'ambiente ha intimato ai proprietari di aree inquinate –in superficie ovvero nella falda– di provvedere ad interventi di bonifica senza aver prima accertato la loro responsabilità nella produzione del pregiudizio: e ciò vale, pacificamente anche nella fattispecie.
3.2.1. In particolare, nel giudizio conclusosi con la sentenza 883/2013, è stata effettuata una consulenza tecnica, la quale ha confermato che l’inquinamento della falda trova la sua origine fuori del sito.
3.2.2. Per il resto “non è revocabile in dubbio che, secondo la condivisibile giurisprudenza, l’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sul responsabile dell’inquinamento (la locuzione “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area per tale: “Ai sensi degli art. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pa solo ai soggetti responsabili dell'inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione con un comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.
In proposito, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola qualità, dal quadro normativo emergono le seguenti regole:
   1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione;
   2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo 244, comma 2);
   3) se il responsabile non è individuabile o non provveda gli interventi necessari sono adottati dall'amministrazione competente (articolo 244, comma 4);
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)” (così C.d.S., VI, 05.10.2016, n. 4099, la quale rinvia alla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 04.03.2015 - sez. terza, nella causa C-534/13 - e l'ordinanza del medesimo organo del 06.10.2015 - sez. ottava, nella causa C-592/13; cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 13.10.2016, n. 1860)
” (cosi TAR Lombardia Milano, 2088/2017 cit.).
3.2.3. D’altra parte, l’art. 245 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, intitolato agli obblighi d’intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione, al II comma stabilisce che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all'articolo 242, il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242”, con l’ulteriore precisazione che è “comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità”.
3.2.4. Tali misure di prevenzione –comunque distinte dagli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, i quali gravano solo sul responsabile della contaminazione– sono definite dall’art. 240, I comma, lett. i), del d.lgs. cit., come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Ebbene, è evidente che le prescrizioni introdotte con il provvedimento gravato non sono affatto destinate a impedire un imminente evento dannoso, nel contenuto intervallo di tempo tra quando il proprietario dell’area contaminata ha acquisito consapevolezza della minaccia, e l’Autorità competente è posta in grado di affrontare l’evento critico.
3.2.5. L’Autorità richiede qui interventi di riparazione e di messa in sicurezza, non contingenti ma continuativi, e evidentemente non riferibili alla fase iniziale di una emergenza: essa vuole così ampliare gli oneri gravanti sul proprietario rispetto a quelli stabiliti per legge, senza tener conto che le misure di prevenzione sono dirette a contrastare una minaccia ambientale imminente, che possa realizzarsi in un futuro prossimo, e non riguardano, dunque, né situazioni in cui l'inquinamento sia un fenomeno già ampiamente diffuso, né interventi che richiedano soluzioni tecniche incompatibili con la salvaguardia immediata del bene.
4.1. Il ricorso va pertanto senz’altro accolto, con assorbimento delle restanti censure: vanno pertanto annullati, nel limite dell’interesse dei ricorrenti, il decreto contenente il provvedimento finale d’adozione delle determinazioni conclusive della Conferenza di servizi decisoria, relativa al sito di bonifica d’interesse nazionale di Sesto San Giovanni, svoltasi in data 19.11.2012, emesso dal Ministero dell’ambiente - Direzione Generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche in data 04.12.2012, nonché il verbale della Conferenza di servizi decisoria, nella parte in cui prevede prescrizioni a carico del Consorzio Vulcano; gli ulteriori atti non hanno contenuto provvedimentale, ovvero non costituiscono oggetto di specifiche censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2018 n. 143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La più recente giurisprudenza di questa Sezione, superando il precedente contrario orientamento interpretativo, ha affermato che gli articoli 24 e 35 del d.P.R. n. 207/2010 devono essere interpretato nel senso che, in sede di progettazione esecutiva, l’obbligo di predisporre le relazioni specialistiche ha carattere solo eventuale e postula una modifica sostanziale delle soluzioni previste nel livello progettuale precedente: pertanto, i concorrenti ad una procedura di appalto integrato di progettazione e lavori devono allegare al progetto esecutivo presentato in sede di gara la relazione geologica solo se contenente integrazioni o modifiche alla corrispondente relazione facente parte del progetto definitivo posto a base di gara.
In tal caso, l’esclusione conseguente alla mancata allegazione della relazione specialistica è determinata dalla carenza di un elemento essenziale dell'offerta.
L’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, quindi, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante ed in tal caso l’esclusione conseguente alla mancata allegazione della relazione specialistica è determinata dalla carenza di un elemento essenziale dell’offerta (non dalla mera carenza formale della relazione).
È alla luce di tali principi che devono pertanto leggersi ed interpretarsi le previsioni della lex specialis, laddove esse si limitano a richiamare gli articoli 24 e 35 del d.P.R. n. 207/2010, atteso che in base alle citate norme regolamentari la relazione geologica non è un elemento essenziale, ma solo eventuale.

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7. L’appello merita accoglimento.
8. Va anzitutto evidenziato che la più recente giurisprudenza di questa Sezione, superando il precedente contrario orientamento interpretativo, ha affermato che gli articoli 24 e 35 del d.P.R. n. 207/2010 devono essere interpretato nel senso che, in sede di progettazione esecutiva, l’obbligo di predisporre le relazioni specialistiche ha carattere solo eventuale e postula una modifica sostanziale delle soluzioni previste nel livello progettuale precedente: pertanto, i concorrenti ad una procedura di appalto integrato di progettazione e lavori devono allegare al progetto esecutivo presentato in sede di gara la relazione geologica solo se contenente integrazioni o modifiche alla corrispondente relazione facente parte del progetto definitivo posto a base di gara. In tal caso, l’esclusione conseguente alla mancata allegazione della relazione specialistica è determinata dalla carenza di un elemento essenziale dell'offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 28.08.2017, n. 4080; Cons. St., sez. V, 28.10.2016, n. 4553; Cons. St. sez. V, 17.02.2016, n. 630).
L’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, quindi, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante ed in tal caso l’esclusione conseguente alla mancata allegazione della relazione specialistica è determinata dalla carenza di un elemento essenziale dell’offerta (non dalla mera carenza formale della relazione).
È alla luce di tali principi che devono pertanto leggersi ed interpretarsi le previsioni della lex specialis, laddove esse si limitano a richiamare gli articoli 24 e 35 del d.P.R. n. 207/2010, atteso che in base alle citate norme regolamentari la relazione geologica non è un elemento essenziale, ma solo eventuale.
9. Nel caso di specie, l’appellante deduce di avere utilizzato, dopo gli opportuni approfondimenti, l’esito delle indagini geologiche eseguite dalla stazione appaltante, le cui conclusioni sono state trasposte nella relativa relazione geologica allegata al progetto preliminare e sulla cui base è stato modellato il progetto definitivo presentato in sede di offerta.
Deduce, altresì, che nella relazione geologica a corredo del progetto definitivo sono stati esposti tutti gli aspetti che riguardano il sistema di costruzione-terreno, ed assume quindi che il progetto definitivo deve considerarsi esaustivo anche sotto il profilo geologico.
A fronte di tali rilievi la stazione appaltante, anziché disporre l’esclusione “automatica” sulla base del dato formale della carenza di una relazione geologica diversa da quella già predisposta dall’Amministrazione (allegata al progetto preliminare posto a base di gara), avrebbe dovuto verificare l’eventuale inidoneità della relazione geologica allegata al progetto preliminare a supportare il successivo livello di progettazione.
Il provvedimento di esclusione, al contrario, essendosi limitato a constatare la carenza (formale) di una autonoma relazione geologica, senza compiere alcuna verifica circa la necessità di ulteriori approfondimenti o indagini suppletive (e senza, di conseguenza, fornire alcuna motivazione al riguardo), risulta viziato per difetto di istruttoria e di motivazione.
10. In questi termini, l’appello merita accoglimento e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2018 n. 265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lo strumento della cessione di cubatura (o asservimento), quale espressione dell’autonomia negoziale delle parti, è limitabile dalla Pubblica amministrazione solo espressamente ed a chiare e specifiche condizioni (che, nella fattispecie, si rinvengono nel disposto dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq).
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Le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M. 1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le luci e trovano applicazione anche quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata e non entrambe.
Inoltre, essendo finalizzate a stabilire un’idonea intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico, e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla riservatezza, la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio, ovvero di edifici distinti, non può dispiegare alcun effetto distintivo.
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La distanza degli edifici dal limite della strada, che va misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della via, deve tenere conto del marciapiede, il quale fa parte della strada, quale tratto di essa situato fuori dalla carreggiata e normalmente destinato alla circolazione dei pedoni, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale.

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La ditta ricorrente impugna, per violazione di legge ed eccesso di potere, il diniego di permesso di costruire, opposto dal Comune di Tortora, in relazione alla realizzazione di un immobile in contrada Riviera.
I motivi di diniego riguardano:
   - l’impossibilità di accedere alla cessione della cubatura mancante, in applicazione dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
   - il mancato rispetto della distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate di edifici;
   - il mancato rispetto della distanza minima di m. 5 dal ciglio stradale.
In proposito, sostiene la società ricorrente: che non sono consentiti, da parte dell’autorità comunale, limiti ad un istituto civilistico, qual è la cessione di cubatura; che la distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate di edifici non opera per le luci e quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata; che, nel computo della distanza minima di m. 5 dal ciglio stradale, non si deve tenere conto del marciapiede.
Resiste il Comune di Tortora.
Il ricorso è infondato e va respinto.
I rilievi della P.A. sono infatti da ritenere tutti legittimi, posto che:
   a) lo strumento della cessione di cubatura (o asservimento), quale espressione dell’autonomia negoziale delle parti, è limitabile dalla Pubblica amministrazione solo espressamente ed a chiare e specifiche condizioni (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 27.10.2015 n. 2260) che, nella fattispecie, si rinvengono nel disposto dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
   b) le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M. 1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le luci (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009 n. 4015; TAR Piemonte, Sez. I, 02.12.2010 n. 4374) e trovano applicazione anche quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata e non entrambe (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 16.03.2010 n. 823). Inoltre, essendo finalizzate a stabilire un’idonea intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico, e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla riservatezza (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108), la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio, ovvero di edifici distinti, non può dispiegare alcun effetto distintivo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909 e TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 08.07.2010 n. 2461);
   c) la distanza degli edifici dal limite della strada, che va misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della via (cfr. Cass. civ., Sez. II, 03.08.1984 n. 4624), deve tenere conto del marciapiede, il quale fa parte della strada, quale tratto di essa situato fuori dalla carreggiata e normalmente destinato alla circolazione dei pedoni, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 17.01.2018 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Iscrizione al registro nazionale dei gestori ambientali – Subappalto e soccorso istruttorio.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Subappalto – Subappalto necessario - Iscrizione al registro nazionale dei gestori ambientali – Possibilità.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Subappalto – Omessa indicazione terna subappaltatori – E’ sanabile con il soccorso istruttorio.
  
Nell’ambito di una gara di appalto l’iscrizione al registro nazionale dei gestori ambientali è un requisito di partecipazione e non di esecuzione del contratto, con la conseguenza che è suscettibile, nella vigenza del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, di subappalto c.d. necessario (1).
  
In sede di gara pubblica la mancata indicazione dei nominativi di una terna dei subappaltatori, ove prescritta dal nuovo codice degli appalti, può essere sanata con il soccorso istruttorio ex art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
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   (1) Ha chiarito il Tar che il “subappalto necessario”, disciplinato dai commi 1 e 2 dell’art. 12, d.l. n. 47 del 2012, è utilizzato anche per sopperire alla mancanza del requisito di idoneità tecnica costituito dall’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali nella categoria necessaria per eseguire lavorazioni sul cemento-amianto, come previsto dall’art. 212, comma 5, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice dell’ambiente).
L’istituto in questione consente di partecipare a gare per l’affidamento di lavori pubblici anche a concorrenti privi delle qualificazioni relative a parte delle lavorazioni, che i predetti prevedono di affidare ad imprese in possesso delle qualificazioni richieste; analogamente, il requisito dell’iscrizione all’ANGA, di cui sia privo il concorrente, può essere soddisfatto prevedendo l’affidamento dei lavori che presuppongono il possesso di tale titolo ad altra impresa, iscritta nell’albo per la categoria richiesta.
Tale parallelismo consente, ad avviso del Tar, di distinguere l’ipotesi del subappalto necessario dall’avvalimento disciplinato dall’art. 89 del Codice dei contratti pubblici, che al comma 10 espressamente ne vieta l’utilizzo “per soddisfare il requisito dell'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali di cui all'art. 212, d.lgs. n. 152 del 2006”.
L’avvalimento, infatti, è ammesso dall’art. 89 in relazione ai “requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale di cui all'art. 83, comma 1, lett. b) e c)”, mentre l’iscrizione all’ANGA rientra tra “i requisiti di idoneità professionale” di cui alla lett. a) della norma citata; e, a differenza dei requisiti per cui l’avvalimento è consentito, questi ultimi devono necessariamente essere posseduti dal soggetto che esegue i lavori, che non può avvalersi di altri per dimostrare il possesso del requisito in questione.
   (2) Tar Brescia, sez. II, 29.12.2016, n. 1790; Tar Lazio, sez. III, 20.11.2017, n. 11438 (
TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 17.01.2018 n. 94 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che impone l’immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione ed esclusione dalla gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione immediata ammissioni ed esclusioni di concorrenti – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. - Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Devono essere rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le questioni pregiudiziali: se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli artt. 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, ostino ad una normativa nazionale, quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a, che, impone all’operatore che partecipa ad una procedura di gara di impugnare l’ammissione/mancata esclusione di un altro soggetto, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento con cui viene disposta l’ammissione/esclusione dei partecipanti.
Se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli artt. 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, osti ad una normativa nazionale quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a, che preclude all’operatore economico di far valere, a conclusione del procedimento, anche con ricorso incidentale, l’illegittimità degli atti di ammissione degli altri operatori, in particolare dell’aggiudicatario o del ricorrente principale, senza aver precedentemente impugnato l’atto di ammissione nel termine suindicato (1).

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   (1) Ha ricordato il Tar che il rito di cui all’art 120, comma 2-bis, c.p.a. implica una tutela di tipo oggettiva, in cui l’azione non si configura caratterizzata da un interesse attuale del ricorrente e da una lesione concreta della sua situazione giuridica soggettiva.
L’operatore economico è obbligato ad impugnare le ammissioni di tutti i concorrenti alla gara, senza sapere ancora chi sarà l’aggiudicatario e, parimenti, senza sapere se lui stesso si collocherà in graduatoria in posizione utile per ottenere e/o contestare l’aggiudicazione dell’appalto. Si impone quindi al concorrente di promuovere l’azione giurisdizionale senza alcuna garanzia che detta iniziativa possa garantirgli una concreta utilità, facendo carico anche all’operatore che abbia presentato un’offerta risultata poi non competitiva in esito alla selezione, di assumere gli oneri connessi all’esperimento immediato del giudizio, ossia di promuovere un ricorso inutile e non efficace.
Le norme censurate hanno pertanto introdotto una tipologia di contenzioso che si qualifica per essere un giudizio di diritto oggettivo, contrario ai principi comunitari sopra richiamati, che forgiano il diritto di azione come diritto del solo soggetto titolare di un interesse attuale e concreto, interesse che, nell’ipotesi delle gare di appalto, consiste unicamente nel conseguimento dell’aggiudicazione, o, al più, quale modalità strumentale al perseguimento del medesimo fine, nella chance derivante dalla rinnovazione della gara. Si rende in tal modo recessivo il principio della immediatezza della lesione derivante dal provvedimento impugnato rispetto alla (necessaria) attualità della reazione giurisdizionale, anticipandola obbligatoriamente ad un momento procedimentale nel quale la selezione degli interessi dei singoli partecipanti non è ancora tale da poter far riconoscere in capo a ciascun concorrente un effettivo e concreto interesse (ed utilità) all’impugnativa.
Peraltro, il soggetto privato obbligato a proporre un giudizio secondo lo schema del rito “superaccelerato” non solo non ha un interesse concreto ed attuale ad una pronuncia dell’autorità giudiziaria, ma subisce anche un danno dall’applicazione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non solo con riferimento agli esborsi economici ingentissimi collegati alla proposizione di plurimi ricorsi avverso l’ammissione di tutti i concorrenti alla gara (in un numero potenzialmente molto elevato), ma anche per la potenziale compromissione della propria posizione agli occhi della Commissione di gara della Stazione appaltante, destinataria dei plurimi ricorsi, che è chiamata nelle more del giudizio a valutare l’offerta tecnica del ricorrente; e per le nefaste conseguenze in merito al rating d’impresa disciplinato dall’art. 83 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), che individua come parametro di giudizio (negativo) l’incidenza dei contenziosi attivati dall’operatore economico nelle gare d’appalto.
In tale quadro, che si prospetta potenzialmente idoneo a dissuadere i concorrenti da iniziative processuali anticipate rispetto al verificarsi della lesione concreta, sembrano trovare fondamento le critiche sollevate da parte della dottrina che ha attribuito alla novella legislativa l’intendimento di ridurre le facoltà di difesa e, al contempo, le occasioni di sindacato del giudice amministrativo sull’esito delle gare pubbliche.
La violazione ai principi comunitari sopra richiamati, ed in particolare laddove si rende l’accesso alla giustizia amministrativa eccessivamente gravoso, si ravvisa in quanto l’attuale sistema impone a ogni ditta concorrente di:
   1) impugnare il provvedimento di ammissione di tutte le altre ditte partecipanti;
   2) proporre il relativo ricorso in una fase del procedimento in cui la cognizione dei documenti di gara degli altri concorrenti è resa problematica dalla disciplina dettata nell’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016, che al comma terzo vieta di comunicare o comunque di rendere noti gli atti di gara, l’accesso ai quali è differito all’aggiudicazione e, al suo comma quarto, rende punibile, ai sensi dell’art. 326 c.p. (rivelazione di segreti d’ufficio), la condotta del pubblico ufficiale o degli incaricati di pubblico servizio (endiadi in cui sono compresi tutti i funzionari addetti alla procedura di gara) inosservante del divieto.
La cogenza di tale incondizionato divieto, oltre a porre questioni di coordinamento con l’art. 29 cit., lascia prevedere una giustificata ritrosia dei soggetti responsabili della procedura a rendere ostensibile, oltre al provvedimento di ammissione, la documentazione amministrativa dei concorrenti, costringendo gli operatori a proporre ricorsi “al buio” ovvero, come confermato dalle già numerose pronunce intervenute sul punto, a presentare ulteriori ricorsi per l’accertamento del diritto di accesso alla documentazione necessaria per la proposizione del ricorso ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a.;
   3) formulare censure avverso ogni atto di ammissione, per evitare di incorrere nell’inammissibilità di un ricorso cumulativo (ogni ammissione potrebbe risultare affetta da vizi propri e distinti rispetto all’altra, con diversità oggettiva e soggettiva per ogni ricorso), con la necessaria proposizione di tanti ricorsi quante sono le ditte ammesse e quindi con la conseguenza di dover versare il contributo unificato per ogni ricorso (può dirsi acclarata la funzione dissuasiva all’azione giurisdizionale indotta dal cumulo di tributi giudiziari dovuti in caso di impugnazione separata degli atti di ammissione e di aggiudicazione nell’ambito della stessa procedura di gara).
Risulta, ad avviso del Tar, netto il contrasto con il principio di effettività sostanziale della tutela assicurato dalla direttiva recepita (89/665), laddove prevede una decadenza di motivi ricorsuali deducibili nel momento in cui l’esigenza di tutela soggettiva diviene concreta ed attuale, cioè con l’aggiudicazione.
Sotto ulteriore profilo, la normativa interna in esame comporta, sempre ad avviso del Tar, anche la violazione del principio di proporzionalità, che, com’è noto, costituisce parte integrante dei principi generali del diritto comunitario ed esige che la normativa nazionale non ecceda i limiti di ciò che è idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi pur legittimamente perseguiti da ciascuno Stato. Alla stregua di tale principio, infatti, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno restrittiva e penalizzante, in modo che gli inconvenienti causati dalle stesse misure non siano sproporzionati rispetto ai fini da raggiungere (Tar Piemonte, Sez. I, ordinanza 17.01.2018 n. 88 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Qualora, in sede di partecipazione ad una gara d'appalto, non venga dichiarata l'esistenza di una sentenza di patteggiamento, l'omessa (incompleta) dichiarazione viola l'art. 38, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006.
In tale caso, la tesi del “falso innocuo” (sussistente quando il falso non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati) non può trovare applicazione, poiché, nelle procedure di evidenza pubblica, la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente (in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità) la celere decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara, con la conseguenza ulteriore che una dichiarazione inaffidabile (perché falsa e incompleta) è già di per se stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti “sostanzialmente” di partecipare alla gara.
Le ricorrenti sono infatti operatori professionali ai quali è richiesta una diligenza qualificata nell’interpretare i bandi di gara.
Ne consegue che, a fronte della univocità delle prescrizioni imposte dall’art. 38 del decreto legislativo n. 163/2006 e riprodotte nell’avviso di gara che, senza possibilità di fraintendimento, richiedeva ai soggetti indicati nel citato art. 38 la dichiarazione di tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali avessero beneficiato della non menzione (punto A.3 dell’avviso – all. 5 del ricorso), l’impresa che intenda aderirvi non può avere alcun dubbio sul fatto che violando dette prescrizioni, sarebbe passibile di esclusione, esclusa ogni possibilità di sanatoria mediante soccorso istruttorio.
E’ infatti oggettivamente falsa, quindi sanzionabile con l’esclusione, non essendo richiesto a tal fine la sussistenza dell’elemento soggettivo, la dichiarazione del socio amministratore della ... che ha asseverato l’assenza di condanne irrevocabili, nonostante l’esistenza di un pregiudizio penale a suo carico ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
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Nel caso di specie, nessuna rilevanza può avere il fatto che in precedenza la stessa stazione appaltante non avesse irrogato alle ricorrenti la sanzione dell’esclusione a causa di detta condanna, per l’evidente ragione che fra le due alternative, quella imposta dalla legge di gara e quella derivante da un precedente amministrativo certamente non cogente, l’operatore professionale non deve avere dubbi nel conformarsi alla prima e, quand’anche ne avesse, avrebbe l’onere di inoltrare una richiesta di chiarimenti alla stazione appaltante che in specie non risulta assolto.
Nessun affidamento è quindi riconoscibile nel caso in decisione, anzi esso è senz’altro escluso dalla violazione dell’obbligo di diligenza esigibile dalle ricorrenti nel compilare gli atti di gara secondo le prescrizioni della lex specialis.
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Le società ricorrenti, costituite in raggruppamento temporaneo d’impresa, impugnano l’esclusione dalla gara per l’affidamento del servizio di custodia di veicoli sottoposti a sequestro, indetta dall’Agenzia del demanio con bando prot. n. 21214 in data 08.10.2015, e chiedono il ristoro dei danni che ne sarebbero derivati.
L’esclusione è motivata dal fatto che il rappresentante legale della mandante -OMISSIS- non avrebbe dichiarato una sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p., sebbene il bando richiedesse la dichiarazione di tutti i precedenti penali, ivi comprese le sentenze di patteggiamento e di condanna per reati pur se dichiarati estinti.
Deducono principalmente l’affidamento riposto nel diverso esito della precedente gara di affidamento del servizio, in seno alla quale il pregiudizio penale in questione era emerso, ma fu ritenuto ininfluente dall’Agenzia del demanio che aggiudicò il servizio alle ricorrenti.
Esse pertanto censurano l’esclusione dalla gara per il rinnovo dell’affidamento per violazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163 del 12.04.2006 ed eccesso di potere, lamentando il diverso ed ingiustificatamente rigido trattamento loro riservato dalla stazione appaltante in luogo del soccorso istruttorio che avrebbe permesso di integrare una dichiarazione incolpevomente irregolare.
Con motivi aggiunti hanno impugnato, per illegittimità derivata, l’aggiudicazione disposta in favore della controinteressata.
Resiste l’Amministrazione intimata.
Il ricorso e i motivi aggiunti sono infondati.
Il Collegio condivide l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale qualora, in sede di partecipazione ad una gara d'appalto, non venga dichiarata l'esistenza di una sentenza di patteggiamento, l'omessa (incompleta) dichiarazione viola l'art. 38, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006; in tale caso, la tesi del “falso innocuo” (sussistente quando il falso non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati) non può trovare applicazione, poiché, nelle procedure di evidenza pubblica, la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente (in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità) la celere decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara, con la conseguenza ulteriore che una dichiarazione inaffidabile (perché falsa e incompleta) è già di per se stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti “sostanzialmente” di partecipare alla gara (in termini TAR Sardegna, Sez. I 23.05.2012 n. 508; conf. TAR Roma, Sez. III, 14.07.2017, n. 8515; Consiglio di Stato, Sez. III, 06.02.2014, n. 583; Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9; Consiglio di Stato Sez. V, 05.11.2014, n. 5470; Consiglio di Stato, Sez., V, 30.09.2013 n. 4842, più di recente, in senso conforme, Consiglio di Stato, Sez. V, 04.12.2017, n. 570; Sez. III, 21.11.2017, n. 5414; Sez. VI, 20.11.2017, n. 5331; TAR Salerno Sez. I, 14.11.2017, n. 1606; TAR Milano Sez. IV, 25.09.2017, n. 1858).
Le ricorrenti sono infatti operatori professionali ai quali è richiesta una diligenza qualificata nell’interpretare i bandi di gara.
Ne consegue che, a fronte della univocità delle prescrizioni imposte dall’art. 38 del decreto legislativo n. 163/2006 e riprodotte nell’avviso di gara che, senza possibilità di fraintendimento, richiedeva ai soggetti indicati nel citato art. 38 la dichiarazione di tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali avessero beneficiato della non menzione (punto A.3 dell’avviso – all. 5 del ricorso), l’impresa che intenda aderirvi non può avere alcun dubbio sul fatto che violando dette prescrizioni, sarebbe passibile di esclusione, esclusa ogni possibilità di sanatoria mediante soccorso istruttorio.
E’ infatti oggettivamente falsa, quindi sanzionabile con l’esclusione, non essendo richiesto a tal fine la sussistenza dell’elemento soggettivo (Consiglio di Stato sez. V, 13.07.2017 n. 3445), la dichiarazione del 10.12.2015 del socio amministratore della -OMISSIS- che ha asseverato l’assenza di condanne irrevocabili, nonostante l’esistenza di un pregiudizio penale a suo carico ai sensi dell’art. 444 c.p.p.
Nessuna rilevanza può infine avere il fatto che in precedenza la stessa stazione appaltante non avesse irrogato alle ricorrenti la sanzione dell’esclusione a causa di detta condanna, per l’evidente ragione che fra le due alternative, quella imposta dalla legge di gara e quella derivante da un precedente amministrativo certamente non cogente, l’operatore professionale non deve avere dubbi nel conformarsi alla prima e, quand’anche ne avesse, avrebbe l’onere di inoltrare una richiesta di chiarimenti alla stazione appaltante che in specie non risulta assolto.
Nessun affidamento è quindi riconoscibile nel caso in decisione, anzi esso è senz’altro escluso dalla violazione dell’obbligo di diligenza esigibile dalle ricorrenti nel compilare gli atti di gara secondo le prescrizioni della lex specialis (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 05.01.2018 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A tenore dell'art. 900 cod. civ., le luci sono costituite dalle finestre e dalle altre aperture sul fondo del vicino che danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo predetto; ne consegue che non costituisce "luce" una rete metallica apposta all'aperto sul confine col fondo del vicino, la quale non svolga la funzione di dare luce ed aria ad una fabbrica, ma serva solo alla protezione delle proprietà o —trattandosi di fondi in dislivello— anche di tutela della incolumità delle persone.
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2. — Col secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione delle norme in materia di distanze legali delle vedute, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale escluso la configurabilità di una veduta dalla terrazza dell'edificio del convenuto verso il sovrastante fondo attoreo e per avere, ancora, ritenuto l'esistenza di una luce irregolare di cui fruiva il fondo attoreo tramite la rete metallica installata sul confine e condannato parte attrice alla regolarizzazione di tale luce; ciò —a dire della ricorrente— senza considerare che la rete metallica era stata apposta dallo stesso convenuto (e non dall'attore, come erroneamente ritenuto) e che, in ogni caso, la rete metallica non aveva le caratteristiche per essere qualificata "luce".
Il motivo contiene due censure, la prima delle quali attiene al rigetto della domanda di eliminazione della veduta asseritamente realizzata dal Po. sulla sua terrazza, la seconda concerne la condanna alla regolarizzazione della luce.
2.1. — La prima censura è inammissibile per mancanza di specificità.
La ricorrente si duole della veduta esercitata dal vicino dalla sua terrazza; ma —a fronte della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza della veduta (p. 35 della sentenza di appello)— omette di trascrivere le risultanze della C.T.U. con riferimento all'accertata situazione dei luoghi, non ponendo così questa Corte nelle condizioni di valutare la fondatezza della doglianza. Non rimane, pertanto, che dichiarare inammissibile il motivo sul punto.
2.2. — È fondata invece la seconda censura.
Secondo la Corte territoriale, parte attrice avrebbe realizzato una luce irregolare a confine con la proprietà del convenuto, precisamente a mezzo di una rete metallica installata sul confine.
Sul punto, tuttavia, la sentenza impugnata si palesa priva di adeguata motivazione, in quanto dà per scontato che la rete de qua sia stata installata dalla società attrice, senza considerare che —secondo l'accertamento del C.T.U. riportato nel ricorso— lungo il confine esistono due reti metalliche adiacenti: una, "preesistente", alta fino a cm. 110; e un'altra, "successiva", alta cm. 210. Pertanto, prima di ordinare la schermatura della rete metallica per un'altezza non inferiore a due metri dal piano di calpestio del fondo attoreo, condanna evidentemente riferita alla più recente rete alta cm. 210, la Corte di Appello avrebbe dovuto stabilire quale, tra le due parti in causa, avesse apposto tale rete. Invero, può essere condannata alla schermatura della rete più alta solo la parte che l'ha installata, non quella che ne ha subito l'installazione.
Ma la sentenza risulta viziata anche sotto altro profilo.
L'art. 900 cod. civ. stabilisce che le finestre e le altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: «luci», quando danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; «vedute o prospetti», quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.
Essenziale rilievo, ai fini dello scrutinio della censura in esame, assume la definizione del concetto di «finestra» e di «altra apertura». Questa Corte ha affermato che, ai fini dell'applicabilità delle norme di cui agli artt. 900 e segg. cod. civ., per «porta» deve intendersi un'apertura praticata in una parete o in una recinzione al fine di crearvi un passaggio, mentre per «finestra» (che può costituire veduta o luce a seconda che consenta o meno l'affaccio) deve intendersi quella apertura praticata nelle pareti esterne di un edificio al fine di consentire l'areazione e l'illuminazione degli ambienti interni (Sez. 2, Sentenza n. 1954 del 27/04/1989, Rv. 462590).
Anche il concetto di «apertura» presuppone un'apertura praticata in una parete o in una recinzione; anche se tale concetto è stato esteso dalla giurisprudenza fino a ricomprendervi la terrazza di copertura dell'edificio e il lastrico solare (Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 12/05/2003, Rv. 562925; Sez. 2, Sentenza n. 5718 del 10/06/1998, Rv. 516271; Sez. 2, Sentenza n. 2084 del 05/04/1982, Rv. 419948; Sez. 2, Sentenza n. 2698 del 11/05/1979, Rv. 399018).
Va tuttavia considerato che l'«apertura» presuppone, in ogni caso, la realizzazione di una fabbrica, di un'opera creata dall'uomo; mentre non è configurabile un'«apertura» in mancanza di opera dell'uomo e con riferimento all'assetto naturale dei terreni. In altri termini, il concetto di apertura implica —anzitutto sul piano logico— il riferimento a costruzioni o installazioni umane; non vi può essere, invece, apertura se si è già all'aperto, nel naturale piano di campagna dei fondi.
Orbene, nel caso di specie, l'accertata situazione dei luoghi è costituita da due fondi posti in dislivello, a confine dei quali è stata installata una rete metallica (recte, due reti metalliche adiacenti).
Se la rete svolgesse esclusivamente la funzione di protezione delle proprietà e —trattandosi di fondi in dislivello— anche di tutela della incolumità delle persone, essa non potrebbe essere qualificata come "luce", non risultando collegata all'opera dell'uomo e non svolgendo la funzione di dare passaggio alla luce e all'aria destinate ad una fabbrica, come pretende l'art. 900 cod. civ. Diversamente sarebbe se la rete fornisse aria e luce alla fabbrica dell'attrice.
Perciò, i giudici di merito, prima di accogliere la domanda di regolarizzazione della luce, avrebbero dovuto verificare lo stato dei luoghi, con particolare riguardo alla funzione che la rete metallica svolgeva rispetto alle fabbriche di parte attrice.
Non avendo i giudici di appello svolto tale accertamento e, comunque, non avendo motivato in ordine alla funzione svolta dalla rete metallica, la sentenza impugnata va cassata sul punto, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, la quale, previo puntuale accertamento della situazione dei luoghi, si conformerà al seguente principio di diritto: «
A tenore dell'art. 900 cod. civ., le luci sono costituite dalle finestre e dalle altre aperture sul fondo del vicino che danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo predetto; ne consegue che non costituisce "luce" una rete metallica apposta all'aperto sul confine col fondo del vicino, la quale non svolga la funzione di dare luce ed aria ad una fabbrica, ma serva solo alla protezione delle proprietà o —trattandosi di fondi in dislivello— anche di tutela della incolumità delle persone» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.07.2016 n. 15458).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto allo sbancamento del terreno, la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’intervento, pur in assenza di opere in muratura, modifica in modo durevole l'ambiente circostante e necessita, pertanto, di permesso di costruire.
Nella fattispecie, tale indirizzo va senz’altro confermato, anche tenendo conto del fatto che la immutatio loci di cui trattasi è stata realizzata al fine di incrementare l’immobile di un piano fuori terra sul lato ovest, anche mediante la demolizione del muro di contenimento del terreno.
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L’apertura di una finestra, quale modifica del prospetto dell’edificio, è soggetta al permesso di costruire di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. 380/2001, pena la sanzionabilità della stessa, come nella specie, con l’ingiunzione di demolizione di cui al successivo art. 31.
Alle stesse conclusioni deve, infine, pervenirsi quanto allo spostamento della scala esterna al fabbricato, che comporta la modifica, oltre che del prospetto del manufatto, anche della sua sagoma.
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Con l’odierno gravame la ricorrente ha interposto azione impugnatoria avverso l’ordinanza del Comune di Monte Porzio Catone n. 7 del 09.03.2007, che le ha ingiunto la demolizione di opere abusive realizzate in via Romoli, località Valle Formale, nell’ambito di un immobile di proprietà sito in area soggetta a vincolo paesistico, sismico e idrogeologico.
Tali opere consistono nello sbancamento di un terrapieno adiacente l’ingresso del garage posto al piano interrato, con demolizione del muro di contenimento dello stesso, nell’apertura di una finestra sulla parete ovest del villino, per l’effetto risultante posizionata fuori terra, nello spostamento della scala esterna in cemento armato di accesso al primo piano.
...
3. Nel merito, il ricorso è infondato.
4. I primi tre motivi di ricorso sono basati sul comune assunto che le opere per cui è causa rientrino nell’attività edilizia libera di cui all’art. 6 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, o siano, al più, assoggettate al regime di cui al successivo art. 22 (dichiarazione di inizio attività), da cui la ricorrente fa derivare l’impossibilità di applicare la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 dello stesso D.P.R. 380/2001, irrogata nella fattispecie, e la non necessità dell’autorizzazione paesistica.
La tesi non può essere condivisa.
Quanto allo sbancamento del terreno, la giurisprudenza, cui la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che l’intervento, pur in assenza di opere in muratura, modifica in modo durevole l'ambiente circostante e necessita, pertanto, di permesso di costruire (C. Stato, V, 10.04.1991, n. 486; Tar Campania, Napoli, 20.10.2003, n. 12922; Tar Piemonte, Torino, 14.12.2005, n. 4057; Tar Campania, Napoli, IV, 21.04.2009, n.2068; III, 05.12.2013, n.5620; Tar Lazio, Roma, II-ter, n. 2986/2007; I-quater, 22.04.2014, n. 4359).
Nella fattispecie, tale indirizzo va senz’altro confermato, anche tenendo conto del fatto che la immutatio loci di cui trattasi è stata realizzata al fine di incrementare l’immobile di un piano fuori terra sul lato ovest, anche mediante la demolizione del muro di contenimento del terreno.
Parimenti è a dirsi quanto all’apertura di una finestra sullo stesso lato ovest del fabbricato, che, per effetto dello sbancamento di cui sopra, all’esito dei lavori risulta posizionata fuori terra.
Infatti, l’apertura di una finestra, quale modifica del prospetto dell’edificio, è soggetta al permesso di costruire di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. 380/2001 (da ultimo, Tar Lazio, Roma, I-quater, 23.11.2015, n. 13190), pena la sanzionabilità della stessa, come nella specie, con l’ingiunzione di demolizione di cui al successivo art. 31.
Alle stesse conclusioni deve, infine, pervenirsi quanto allo spostamento della scala esterna al fabbricato, che comporta la modifica, oltre che del prospetto del manufatto, anche della sua sagoma (Tar Campania, Napoli, VI, 24.09.2009, n. 5071; VIII, 22.06.2010, n. 15545).
Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto nelle censure in esame, le opere in parola, realizzate in area soggetta a vincolo paesistico, in quanto alteranti lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore dell’edificio, erano soggette sia a permesso di costruire che all’autorizzazione paesistica.
I primi tre motivi di ricorso vanno pertanto respinti (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.04.2016 n. 4536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consolidata giurisprudenza ritiene che l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento del carattere abusivo di opere edilizie è misura sanzionatoria che consegue automaticamente all’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata puntualmente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; esso, pertanto, quale atto dovuto, sorge in virtù di un presupposto di fatto, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere considerato ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
Ne consegue che l’amministrazione comunale, nell’esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi, non è tenuta a motivare specificamente in ordine alla comminatoria della sanzione ripristinatoria, che consegue necessariamente all’accertamento dell’abusività dell’intervento edilizio posto in essere.
In sintesi, quindi, l’ordine demolitorio di interventi abusivi è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendosi nemmeno ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non potrebbe legittimare.

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Con l’odierno gravame la ricorrente ha interposto azione impugnatoria avverso l’ordinanza del Comune di Monte Porzio Catone n. 7 del 09.03.2007, che le ha ingiunto la demolizione di opere abusive realizzate in via ..., località Valle Formale, nell’ambito di un immobile di proprietà sito in area soggetta a vincolo paesistico, sismico e idrogeologico.
Tali opere consistono nello sbancamento di un terrapieno adiacente l’ingresso del garage posto al piano interrato, con demolizione del muro di contenimento dello stesso, nell’apertura di una finestra sulla parete ovest del villino, per l’effetto risultante posizionata fuori terra, nello spostamento della scala esterna in cemento armato di accesso al primo piano.
...
3. Nel merito, il ricorso è infondato.
...
6. Con l’ultima censura la ricorrente si duole della carenza nella fattispecie dell’interesse pubblico alla messa in pristino dell’area.
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Consolidata giurisprudenza, da cui non vi è qui alcun motivo di discostarsi, ritiene che l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento del carattere abusivo di opere edilizie è misura sanzionatoria che consegue automaticamente all’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata puntualmente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; esso, pertanto, quale atto dovuto, sorge in virtù di un presupposto di fatto, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere considerato ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (C. Stato, IV, 28.04.2014, n. 2194; II, 26.06.2013, n. 649; IV, 15.02.2013, n. 915; VI, 29.11.2012, n. 6071; IV, 18.09.2012, n. 4945; IV, 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Ne consegue che l’amministrazione comunale, nell’esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi, non è tenuta a motivare specificamente in ordine alla comminatoria della sanzione ripristinatoria, che consegue necessariamente all’accertamento dell’abusività dell’intervento edilizio posto in essere.
In sintesi, quindi, l’ordine demolitorio di interventi abusivi è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendosi nemmeno ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non potrebbe legittimare (da ultimo, C. Stato, V, 27.05.2014, n. 2696).
7. Alle rassegnate conclusioni consegue la reiezione della domanda demolitoria e della connessa domanda risarcitoria avanzate in ricorso (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 19.04.2016 n. 4536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’interesse a ricorrere del terzo avverso il permesso di costruire trova piena giustificazione quando esiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con l’area coinvolta da una costruzione che, se illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima.
Pertanto, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico.

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In via preliminare, è destituita di fondamento l’eccezione in rito sollevata dalla difesa dell’amministrazione comunale.
Sul punto, non vi è ragione per discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’interesse a ricorrere del terzo avverso il permesso di costruire trova piena giustificazione quando esiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con l’area coinvolta da una costruzione che, se illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima; pertanto, nel caso in esame, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico (Consiglio di Stato, Sez. IV, 31.05.2007 n. 2849; 05.01.2011 n. 18) (TAR Campabia-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.05.2013 n. 2356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 3, della legge 07.08.1990, n. 241, prevede che tutti i provvedimenti amministrativi, tranne gli atti normativi e quelli a contenuto generale, devono essere motivati, precisando che: <<La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria>>.
Nella specie, l’ordinanza impugnata si limita a fondare l’ordine di ripristino o di demolizione sulla base della mera generica affermazione che le opere edilizie di cui al punto 1 (<<presenza sul lato est del fabbricato di n. 4 finestre, di cui 2 aventi distanza di m 1, 30 circa dal confine e 2 su proprietà privata e sopraelevazione del fabbricato>>) <<…risultano realizzate in parziale difformità dalle concessioni edilizie n. 5 del 07/03/1987 e n. 89/1990…>>.
Sicché, la medesima risulta illegittima.

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7.- Strettamente connesso al motivo di censura appena esaminato è il terzo motivo di ricorso, con il quale l’ordinanza impugnata è censurata per difetto di motivazione, nonché per eccesso di potere nella parte in cui denuncia una difformità parziale delle quattro finestre del lato est e della sopraelevazione dal permesso di costruire.
7.1.- Anche tale censura coglie nel segno.
L’art. 3, della legge 07.08.1990, n. 241, prevede che tutti i provvedimenti amministrativi, tranne gli atti normativi e quelli a contenuto generale, devono essere motivati, precisando che: <<La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria>>.
Nella specie, l’ordinanza impugnata si limita a fondare l’ordine di ripristino o di demolizione sulla base della mera generica affermazione che le opere edilizie di cui al punto 1 (<<presenza sul lato est del fabbricato di n. 4 finestre, di cui 2 aventi distanza di m 1, 30 circa dal confine e 2 su proprietà privata e sopraelevazione del fabbricato>>) <<…risultano realizzate in parziale difformità dalle concessioni edilizie n. 5 del 07/03/1987 e n. 89/1990…>>.
Non vi è traccia nell’ordinanza dell’avvenuto esame dei progetti delle opere assentite con le concessioni edilizie n. 5/1987 e n. 89/1990 e dell’analitica indicazione delle difformità riscontrate
(TAR Basilicata, sentenza 02.08.2011 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'indicazione dell'area di sedime da acquisire al patrimonio comunale non deve considerarsi requisito essenziale dell'ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- poiché non incide sulla funzione principale dell'atto (ovvero quella ripristinatoria). Tale specificazione costituisce invece elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto.
Ne consegue che l’omessa indicazione delle aree da acquisire al patrimonio dell’ente non vizia l'ordinanza di demolizione, fermo restando, però, che l'individuazione delle aree da acquisire sia comunque comunicata all'interessato nell'ambito del procedimento sanzionatorio prima di procedere alla demolizione e quindi almeno con il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, in modo da consentire all’interessato di verificare il rispetto dei limiti quantitativi all'acquisizione previsti dall'art. 31 d.p.r. n. 380/2001.

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L'ordine di demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione e correlativa esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e concreto alla demolizione né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare.
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8.- Con riferimento all’ordine di demolizione relativo ai due manufatti abusivi (il primo delle dimensioni di m 3 x 2,50 di altezza m 2, 00 circa ed il secondo di m 3 x 2 di altezza) realizzati in assenza di permesso di costruire, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, poiché non sarebbero state specificate le aree che in caso di inottemperanza sarebbero state acquisite di diritto al patrimonio del Comune.
8.1.- Il motivo è infondato.
Secondo l'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali..., ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
Ritiene il Collegio, in adesione al pacifico e condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa (ex multis: Consiglio Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659) che l'indicazione dell'area di sedime da acquisire al patrimonio comunale non deve considerarsi requisito essenziale dell'ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- poiché non incide sulla funzione principale dell'atto (ovvero quella ripristinatoria). Tale specificazione costituisce invece elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto.
Ne consegue che l’omessa indicazione delle aree da acquisire al patrimonio dell’ente non vizia l'ordinanza di demolizione, fermo restando, però, che l'individuazione delle aree da acquisire sia comunque comunicata all'interessato nell'ambito del procedimento sanzionatorio prima di procedere alla demolizione e quindi almeno con il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, in modo da consentire all’interessato di verificare il rispetto dei limiti quantitativi all'acquisizione previsti dall'art. 31 d.p.r. n. 380/2001.
9.- Sempre con riferimento all’ordine di demolizione relativo ai due manufatti abusivi, il ricorrente deduce che uno dei due manufatti sarebbe stato realizzato in data anteriore al 1987 e pertanto il lungo tempo trascorso dalla sua realizzazione e l’inerzia della P.A. preposta alla vigilanza avrebbe necessitato una più specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla necessità della sua rimozione.
9.1.- La censura non merita accoglimento.
E’ ius receptum di questo Tribunale che l'ordine di demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione e correlativa esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e concreto alla demolizione né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare (TAR Basilicata Potenza, sez. I, 06.04.2011, n. 159; TAR Basilicata Potenza, 15.02.2006, n. 96; TAR Basilicata Potenza, 17.07.2002, n. 518)
(TAR Basilicata, sentenza 02.08.2011 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - Localizzazione delle SRB - Regolamento comunale - Tutela della salute umana dalle emissioni - Attribuzione alla legislazione concorrente Stato-Regioni.
E’ illegittimo un regolamento comunale in tema di fissazione dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare) quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-Regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3 (in tal senso: Cons. Stato, Sez. VI, sent. 28.04.2010, n. 2436; id., Sez. VI, sent. 20.12.2002, n. 7274).
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - SRB - Istanza di autorizzazione ex art. 87 d.lgs. n. 259/2003 - Parere dell’ARPA - Attivazione dell’impianto.
La previsione ci cui all’art. 87, d.lgs. 259 del 2003 postula che il parere dell’ARPA sia richiesto solo ed esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell’impianto, non sussistendo un onere per il richiedente di allegare il parere in questione in sede di presentazione dell’istanza (ovvero della D.I.A.), né un puntuale obbligo di far pervenire il parere medesimo all’Ente procedente entro il termine di novanta giorni di cui al comma 9 dell’art. 87, cit..
L'accertamento, da parte dell'Organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36 della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della citata legge 22.02.2001, n. 36 deve infatti seguire, e non già precedere, la produzione dell'istanza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2010 n. 7128 - link a www.ambientediritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 25.01.2018

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
La deroga di cui alla lett. f) del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” ha carattere eccezionale e, per prevalere sulla norma generale, essere specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Sicché va condiviso quanto statuito dai giudici di prime cure laddove precisano che “solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito. In caso contrario, qualora la norma locale si proponesse finalità diverse, quali sono ad es. quelle meramente urbanistiche, essa non derogherebbe alla citata disciplina statale che -in quanto informata a tutelare il buon regime delle acque pubbliche nonché a prevenire i danni che possono derivare da una disordinata attività costruttiva e manutentiva lungo i corsi d'acqua- impone divieti da qualificarsi come tassativi”.
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Nessuna opera realizzata in violazione della norma può essere sanata ed è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente a fabbricati realizzati all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica integrante ex se, ai sensi dell’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47, un vincolo d’inedificabilità.
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1. È appellata la sentenza del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, SEZIONE II n. 1231/2011, con la quale ha respinto i ricorsi riuniti rispettivamente proposti da S.r.l. O.S.C. impianti avverso il parere sfavorevole, sotto il profilo idraulico, pronunciato il 25.07.1996 dal Genio civile, relativo alla realizzazione, in assenza di concessione edilizia, di due depositi nonché il diniego di concessione edilizia in sanatoria, opposto dal Sindaco di Cellatica il 10.10.1996, con richiamo al parere negativo 25.07.1996 del Genio Civile e la conseguente ordinanza di demolizione n. 21, emessa in pari data.
2. Nei motivi d’appello, la società ha dedotto gli errori di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure per aver omesso di scrutinare l’assenza nel parere sfavorevole di alcuna concreta valutazione sulla compatibilità dei manufatti che non impediscono od ostacolano il libero deflusso delle acque del torrente Mandolossa.
Pretermettendo di considerare, lamenta ancora al società, la deroga contenuta nell’art. 96, lett. f), R.D. 523/1904.
3. Si è costituta in giudizio la regione Lombardia.
4. Alla pubblica udienza del 21.11.2017 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.
5. L’appello è infondato.
6. Il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
6.1 La deroga di cui alla lett. f) del citato art. 96, per cui la distanza minima si applica in mancanza di “discipline vigenti nelle diverse località” ha carattere eccezionale e, per prevalere sulla norma generale, essere specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga.
Sicché va condiviso quanto statuito dai giudici di prime cure laddove precisano che “solo se lo scopo dell'attività costruttiva lungo il corso d'acqua è quello specifico di salvaguardarne il regime idraulico la disciplina locale assume valenza derogatoria della norma statale, in quanto meglio ne attua l'interesse pubblico perseguito. In caso contrario, qualora la norma locale si proponesse finalità diverse, quali sono ad es. quelle meramente urbanistiche, essa non derogherebbe alla citata disciplina statale che -in quanto informata a tutelare il buon regime delle acque pubbliche nonché a prevenire i danni che possono derivare da una disordinata attività costruttiva e manutentiva lungo i corsi d'acqua- impone divieti da qualificarsi come tassativi”.
6.2 Nel caso in esame è assente la specifica disciplina di natura idraulica.
6.3 A corollario, nessuna opera realizzata in violazione della norma può essere sanata ed è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente a fabbricati realizzati all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica integrante ex se, ai sensi dell’art. 33 l. 28.02.1985 n. 47, un vincolo d’inedificabilità.
6.4 Il diniego di sanatoria opposto dal Sindaco di Cellatica è atto: la legittimità del parere del Genio civile, preclude in radice la sanabilità delle opere.
6.5 L’ordinanza di demolizione, a sua volta, scaturisce, ex artt. 31 e 33 d.P.R. n. 380/2001, in presa diretta dall’abusività delle opere non suscettibili di sanatoria.
6.6 Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.01.2018 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Sicché, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse.
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione, secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.

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Oggetto del ricorso in esame è il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale di Nembro è intervenuta a sanzionare, mediante l’ordine di rimozione, una serie di opere consistenti nella realizzazione di recinzioni collocate lungo il tratto della valletta demaniale denominata Rio Lujo.
Dette opere risultano essere state realizzate in difformità rispetto a quanto prescritto dal Genio Civile di Bergamo in occasione del rilascio dell’autorizzazione, parzialmente in sanatoria, per quanto riguarda le recinzioni correnti lungo il corso della valletta in corrispondenza con i mappali di proprietà dei ricorrenti, non rispettando le distanze imposte dalla circolare adottata dal Servizio del Genio Civile in applicazione del disposto di cui all’art. 96 del R.D. 523/1904, insistendo su tale tratto della valletta così da costituire un pericolo per il normale deflusso delle acque, oltre a intercludere e occupare aree demaniali.
L’ordine di rimozione impartito dal Comune con i provvedimenti impugnati è conseguenza della espressa segnalazione effettuata dal Servizio di Vigilanza della Comunità Montana Valle Seriana che aveva rilevato la presenza di recinzioni ostruenti la valletta, nonché della comunicazione effettuata il 17.08.2000 dalla Direzione Generale del Genio Civile di Bergamo.
Ciò premesso, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento (Cass., S.U., 12/05/2009, n. 10845; TAR Toscana, III, 06/04/2010, n. 938; TAR Campania, Napoli, VIII, 07/12/2009, n. 8602).
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse (Cass., I, 11/01/2001, n.315; Corte Costituzionale, 19/07/1996, n. 259).
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione (cfr. Tar Piemonte, I, n. 427/2013), secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cass. civ. Sez. Unite, 12.05.2009 n. 10845; Cons. Giustizia Amministrativa Sicilia 26.05.2010, n. 740; Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; TAR Lazio Roma, sez. II-quater 24.04.2012, n. 3740).
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia, ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere riassunto nei termini di rito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2017 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, nell’ambito della previsione normativa di cui all'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.
Il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è peraltro nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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Il Collegio deve preliminarmente esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione, stante la preminenza dell’accertamento della potestas decidendi rispetto alla decisione di merito e con preminenza anche rispetto alle altre eccezioni avanzate in giudizio.
L’eccezione di difetto di giurisdizione è fondata.
Secondo il consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, nell’ambito della previsione normativa di cui all'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Firenze, sez. III, 20/12/2016 n. 1824; idem, 26/09/2014, n. 1497; Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009)”.
Il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è peraltro nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16/07/2012, n. 495; TAR Piemonte Sez. I, 19/10/2000, n. 1024 e Cass. civ., SS.UU. Ord., 14/06/2006, n. 13692.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione, con compensazione delle spese di giudizio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.12.2017 n. 1529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La questione in esame rientra nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità un provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
Ed infatti, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria in corrispondenza dell’argine di un corso d’acqua pubblico, rileva una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
La giurisdizione del menzionato Tribunale superiore, sancita da tale norma, ha per oggetto, difatti, i ricorsi -quale, appunto, quello in epigrafe- avverso i provvedimenti amministrativi che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, come nella specie, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche interferendo con corsi d’acqua pubblici, come nella specie.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa”.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa solo per le controversie che incidono via “indiretta” e “mediata” sul regime delle acque pubbliche.
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2. Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione in presenza di controversia devoluta, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche.
Nel caso in esame si controverte in ordine alla legittimità del provvedimento prot. n. 36723 del 07.07.2016 con cui il Comune di Montesilvano ha respinto l’istanza inoltrata dalla ricorrente per la demolizione e ricostruzione di un fabbricato commerciale situato in via Maresca n. 33 recependo il parere negativo vincolante del Genio Civile adottato con atto prot. 113362/RA del 28.04.2015 con la seguente motivazione: “l’area adiacente al fabbricato da ristrutturare, indicata sia in pianta che nel prospetto su via Maresca con la dicitura “terrapieno”, nella realtà dei fatti, è un argine del Fiume Saline. Il fabbricato oggetto di intervento interessa detto argine destro del corso d’acqua citato. Lo stesso fabbricato ricade all’interno della perimetrazione del psda”.
Per quanto rileva in questa sede, il r.d. n. 1775 del 1933, recante Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, nel delineare all’art. 140 la competenza giurisdizionale del Tribunale delle Acque Pubbliche, stabilisce altresì all’art. 143 che: “Appartengono alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle acque pubbliche:
   a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche;
   b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti dell'autorità amministrativa adottati ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; e contro i provvedimenti adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523, modificato con l'art. 22 della L. 13.07.1911, n. 774, del R.D. 19.11.1921, n. 1688, e degli artt. 378 e 379 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F;
   c) i ricorsi la cui cognizione è attribuita al Tribunale superiore delle acque dalla presente legge e dagli artt. 23, 24, 26 e 28 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con R.D. 08.10.1931, n. 1604 .(…)
”.
Inoltre l’art. 217 del T.U. 1775/1933 stabilisce che le opere alle sponde dei pubblici corsi di acqua che possono alterare o modificare le condizioni delle derivazioni o della restituzione delle acque derivate non si possono eseguire senza speciale autorizzazione del competente ufficio del Genio civile e sotto l'osservanza delle condizioni dal medesimo imposte.
Tanto premesso in diritto, si può affermare che la questione in esame rientri nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche ove si consideri che è stato impugnato per vizi tipici di legittimità un provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata (cfr. art. 143, lett. a).
Ed infatti, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria in corrispondenza dell’argine di un corso d’acqua pubblico, rileva una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
La giurisdizione del menzionato Tribunale superiore, sancita da tale norma, ha per oggetto, difatti, i ricorsi -quale, appunto, quello in epigrafe- avverso i provvedimenti amministrativi che, pur se promananti da autorità diverse da quelle preposte al settore, come nella specie, sono caratterizzati dall'incidenza immediata e diretta sulla materia delle acque pubbliche interferendo con corsi d’acqua pubblici, come nella specie.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa”; la giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa solo per le controversie che incidono via “indiretta” e “mediata” sul regime delle acque pubbliche (cfr., Cass., S.S.U.U., 18.12.1998, n. 12076; 15.07.1999, n. 403; 27.04.2005, n. 8696; 27.10.2006, n. 23070; 24.04.2007, n. 9844; 17.04.2009, n. 9149; 12.05.2009, n. 10845; Cons. Stato, sez. VI, 17.12.2003, n. 8246; sez. V, 14.05.2004, n. 3139; sez. IV, 14.04.2006, n. 2123; sez. VI, 15.06.2006, n. 3533; 12.10.2006, n. 6070; sez. IV, 12.05.2008, n. 2192; sez. V, 12.06.2009, n. 3678; Trib. sup. acque, 18.03.2003, n. 32; 21.07.2004, n. 87; 06.10.2004, n. 100; 03.05.2005, n. 63; 06.10.2008, n. 159; 13.03.2009, n. 39; 13.07.2007, n. 123; Tar Veneto Venezia sez. II 26.01.2015, n. 63; 09.10.2014, n. 1289 e 09.07.2014, n. 993; Tar Toscana, sez. III, 27.03.2013, n. 510; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 07.12.2009, n. 8602; Tar Lazio, Roma, sez. III, 22.07.2004, n. 7232; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 12.05.2005, n. 94; sez. IV, 29.10.2007, n. 6189; Tar Brescia, sez. I, 28.05.2007, n. 462; Milano).
E’ evidente che, nel caso trattato, l’amministrazione resistente abbia inteso adottare un provvedimento direttamente funzionale alla tutela del corso d’acqua pubblico, sotto lo specifico aspetto della garanzia riservata a quel settore di territorio protetto costituito dall’argine di un corso d’acqua pubblico. Né rilevano le censure sul punto mosse dalla ricorrente tenuto conto che, anche in caso di contestazione, l’art. 2 del R.D. 523/1904 attribuisce all’amministrazione il potere di statuire e provvedere “sulle opere di qualunque natura, (…), che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche”.
Va quindi declinata la giurisdizione del Tar adito fermo restando che, ai sensi dell’art. 11, co. 1 e 2, del c.p.a., restano salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda qui proposta se il processo sarà riassunto dinnanzi al giudice munito di giurisdizione entro il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.10.2017 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Tribunale Superiore delle acque, oltre a costituire giudice di secondo grado rispetto alle sentenze emesse dai Tribunali regionali delle acque, è investito, com’è noto, di una giurisdizione di unico grado per i ricorsi con cui si deduce la illegittimità di tutti gli atti amministrativi concernenti la utilizzazione delle acque; trattasi, di una competenza generale di legittimità (art. 143 lett. a) r.d. 11.12.1933, n. 1775), simmetrica a quella del Consiglio di Stato, in cui rientrano i ricorsi contro i provvedimenti lesivi di interessi legittimi che incidano sul regime delle acque pubbliche o che abbiano a riferimento ad un’opera necessaria per l’utilizzazione delle acque.
Sono riservati alla cognizione del Tribunale Superiore, peraltro, non già tutti i provvedimenti che abbiano un qualche remoto collegamento con l’acqua pubblica, ma solo quelli per i quali l’acqua pubblica costituisca l’oggetto diretto ed immediato; onde non rientrano in tale giurisdizione i ricorsi contro gli atti di aggiudicazione di appalti di lavori di opere idrauliche, ovvero i provvedimenti di determinazione delle tariffe per la cessione delle acque.
Sussiste, pertanto, la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, a norma dell’articolo 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all’uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell’utenza nei confronti della PA), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa.
Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale, le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque.
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque (e rientrano in quella del giudice amministrativo) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico.
Sussiste pertanto la giurisdizione di legittimità di detto Tribunale, a norma dell'art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento. Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque".

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E' legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile.
Pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 l. n. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.
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Va preliminarmente affrontata la questione inerente alla giurisdizione, sollevata dall’Ufficio legislativo e legale, che sostiene che la controversia in esame rientri nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, per cui il ricorso in esame sarebbe inammissibile.
Ritengono queste Sezioni Riunite che tale questione non sia fondata.
Il Tribunale Superiore delle acque, oltre a costituire giudice di secondo grado rispetto alle sentenze emesse dai Tribunali regionali delle acque, è investito, com’è noto, di una giurisdizione di unico grado per i ricorsi con cui si deduce la illegittimità di tutti gli atti amministrativi concernenti la utilizzazione delle acque; trattasi, di una competenza generale di legittimità (art. 143 lett. a) r.d. 11.12.1933, n. 1775), simmetrica a quella del Consiglio di Stato, in cui rientrano i ricorsi contro i provvedimenti lesivi di interessi legittimi che incidano sul regime delle acque pubbliche o che abbiano a riferimento ad un’opera necessaria per l’utilizzazione delle acque.
Sono riservati alla cognizione del Tribunale Superiore, peraltro, non già tutti i provvedimenti che abbiano un qualche remoto collegamento con l’acqua pubblica, ma solo quelli per i quali l’acqua pubblica costituisca l’oggetto diretto ed immediato; onde non rientrano in tale giurisdizione i ricorsi contro gli atti di aggiudicazione di appalti di lavori di opere idrauliche (Cass. civ., 17.03.1989, n. 1358), ovvero i provvedimenti di determinazione delle tariffe per la cessione delle acque (C.G.A., sez. giur., 25.10.1988, n. 166).
Sussiste, pertanto, la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, a norma dell’articolo 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all’uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell’utenza nei confronti della PA), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche (Cass., sez. un., 08.04.2009, n. 8509), ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa (Cass., sez. un., 12.05.2009 n. 10846; Id., 07.11.1997 n. 10934; Id., 27.04.2005 n. 8686; Id., 26.07.2002 n. 11099).
Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale, le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque (Cons. St., sez. V, 07.07.2014, n. 3436).
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque (e rientrano in quella del giudice amministrativo) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico (Cass., sez. un., 12.05.2009, n. 10846).
Sussiste pertanto la giurisdizione di legittimità di detto Tribunale, a norma dell'art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775/1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (Cass., sez. un., 19.04.2013, n. 9534, 20.06.2012, n. 10148, 13.05.2008, n. 11848 e 21.06.2005, n. 13293).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento. Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque" (Cons. St., sez. V, 01.10.2010, n. 7276; nello stesso senso: sez. IV, 06.07.2009, n. 4306; sez. V, 07.05.2008, n. 2091; sez. V, 18.09.2006, n. 5442).
Nel caso di specie, trattasi di provvedimenti di diniego di sanatoria e di ordine di demolizione che hanno ad oggetto non già opere idrauliche, ma bensì opere di ristrutturazione di un fabbricato, costruite in difformità dal titolo edilizio e, pertanto, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo.
La costruzione abusiva, poi, secondo quanto affermato dal Comune, è stata realizzata a ridosso dell’argine del torrente ed in area di in edificabilità ex art. 41-bis delle NTA.
Ora, ai sensi dell’art. 32, c. 27, del d.l. n. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003 “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora: … d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela di interessi idrogeologici e delle falde acquifere …”.
A tale riguardo deve ritenersi legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato, come nella specie, all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. n. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 l. n. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (Cons. St., sez. V, 23.06.2014, n. 3147) (CGARS, parere 05.07.2017 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consolidato orientamento giurisdizionale ha sancito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”.
Invero, il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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Con il presente ricorso i Sig.ri Ci. hanno impugnato l’ordinanza n. 184/2016 del 28.11.201, unitamente alla comunicazione di avvio del procedimento e al verbale di sopralluogo effettuato in data 02.11.2015, provvedimenti questi ultimi riferiti ad un’autocarrozzeria situata sul confine con la sponda destra del torrente Ciuffenna.
Detti provvedimenti hanno a oggetto la contestazione dell’asserita abusività delle seguenti opere:
   a) la realizzazione, in “ambito di tutela idraulica” di una tettoia realizzata con struttura in metallo e copertura in pannelli sandwich avente dimensioni in pianta pari a 10,90 x 7,00 m e altezza max pari a 4,65 mt.;
   b) il posizionamento, all'interno della sopramenzionata tettoia, di un forno di verniciatura e relativo gruppo motore, rispettivamente delle dimensioni in pianta pari a 4,50 x 7,50 e 1,70 x 4,10 mt.;
   c) la parte della tettoia dove risulta collocato il forno è stata tamponata, fino ad una certa altezza, con pannelli sandwich.
Avverso i sopracitati provvedimenti i Sig.ri Ci. hanno proposto varie censure riferite alla violazione del nulla osta rilasciato ai fini idraulici dalla Provincia di Arezzo e dell’art. 96, lett. f), del R.D. 523/1904 sostenendo, nel contempo, la compatibilità dell’attuale collocazione del forno e della tettoia rispetto alle previsioni del vigente Regolamento Urbanistico del Comune di Terranuova Bracciolini.
Nella camera di consiglio del 28.03.2017 questo Tribunale ha eccepito, ai sensi dell’art. 73 comma 3, l’esistenza di elementi idonei a ritenere insussistente la giurisdizione amministrativa.
Nella stessa camera di consiglio, uditi i procuratori delle parti costituite anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 60 cpa, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
Il ricorso è inammissibile, risultando fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione.
L’ordinanza di ingiunzione n. 184/2016 del 28.11.2016 è motivata in considerazione della violazione di quanto previsto dall'art. 96, comma 1, lett. f), del R.D. 523/1904 nella parte in cui vieta ad una distanza minore di dieci metri dal piede degli argini "le fabbriche e gli scavi".
Costituisce, infatti, circostanza incontestata che il forno di cui si controverte è collocato sulla fascia di rispetto dell’argine del torrente Ciuffenna.
L’incidenza delle opere nella fascia di rispetto, e la possibilità di queste ultime di interferire con gli argini del torrente, è confermata dal contenuto del nulla osta idraulico rilasciato dalla Provincia di Arezzo (Determinazione Dirigenziale n. 386/DS del 16/07/2009), nella parte in cui la stessa Amministrazione ha rilevato come l’argine dello stesso torrente abbia subito nel corso del tempo una progressiva riduzione, tale da rendere indispensabile la realizzazione di opere di consolidamento.
Ciò premesso è possibile aderire al consolidato orientamento giurisdizionale, già fatto proprio in precedenza anche da questo Tribunale, nella parte in cui ha sancito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia riferita “al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Firenze, sez. III, 20/12/2016 n. 1824; idem, 26/09/2014, n. 1497; Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009)”.
Invero, il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere anch’essi su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16/07/2012, n. 495; TAR Piemonte Sez. I, 19/10/2000, n. 1024 e Cass. civ., SS.UU. Ord., 14/06/2006, n. 13692.
In considerazione di quanto sopra evidenziato va, pertanto, dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo in luogo del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
Restano salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domanda, se il processo è riproposto innanzi al sopra citato Tribunale entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, ex art. 11 c.p.a. (traslatio iudicii) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.04.2017 n. 561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla base di un orientamento consolidato, la giurisdizione riservata al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall'art. 143 R.D. n. 1775 del 1933 si estende anche ai provvedimenti amministrativi che, se pure emanati da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque, siano comunque caratterizzati dall'incidenza sulla materia delle acque pubbliche.
Rientrano, pertanto, nella giurisdizione di detto Tribunale i provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati avuto riguardo all'ubicazione degli immobili oggetto di sanatoria in prossimità degli argini dei corsi d'acqua demaniali.
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La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche deve essere confermata anche per quanto concerne il presente ricorso, laddove i ricorrenti hanno impugnato il successivo provvedimento di demolizione, fondato anch’esso sull’accertata violazione dell’art. 96 sopra citato e diretta conseguenza dei provvedimenti di diniego sopra citati.
Come si è già avuto modo di precisare non ha rilievo il preteso frazionamento dell'immobile in distinte porzioni e, ciò, sia considerando il fatto che non è stata dimostrata l'autonomia delle singole parti sia, soprattutto, in ragione del fatto che, ad un eventuale frazionamento, sarebbe di ostacolo il principio dell’inammissibilità della duplicità di azioni giudiziarie in relazione ad una stessa fattispecie, sussistendo il pericolo di contraddittorietà tra diversi giudicati.
Si consideri, peraltro, che il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali.
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1. Il ricorso è inammissibile, risultando fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione.
1.1 Con le sentenze n. 1497/2016 e n. 769/2016 questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che, sulla base di un orientamento consolidato, la giurisdizione riservata al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall'art. 143 R.D. n. 1775 del 1933 si estende anche ai provvedimenti amministrativi che, se pure emanati da autorità diverse da quelle istituzionalmente preposte alla tutela delle acque, siano comunque caratterizzati dall'incidenza sulla materia delle acque pubbliche.
Rientrano, pertanto, nella giurisdizione di detto Tribunale i provvedimenti di diniego di condono edilizio adottati avuto riguardo all'ubicazione degli immobili oggetto di sanatoria in prossimità degli argini dei corsi d'acqua demaniali (per tutte, cfr. Cass. civ., SS.UU., 12.05.2009, n. 10845; TAR Toscana, sez. III, 27.03.2013, n. 496).
1.2 Risulta, altresì, accertato che le ragioni che hanno determinato il rigetto dei precedenti dinieghi di condono afferiscono proprio alla circostanza che i manufatti ricadono nella fascia di rispetto dei quattro metri dal limite della sponda destra del Rio Bonazzera II, in violazione del divieto stabilito dall' art. 96, lett. f), R.D. n. 523 del 1904.
1.3 In particolare, con riferimento al diniego di condono del 04.07.1998, si è già avuto modo di evidenziare che la controversia presenta profili di immediata incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, come peraltro chiaramente emerge dal parere del Genio Civile, secondo cui la presenza delle opere abusive non consentirebbe eventuali ampliamenti del corso d'acqua.
1.4. Si consideri, da ultimo che dette pronunce, divenute peraltro definitive a seguito del decorrere dei termini per il passaggio in giudicato, hanno già respinto le argomentazioni dei ricorrenti laddove sostenevano che il divieto di cui all’art. 96 non fosse suscettibile di riguardare una parte dei manufatti, in quanto posizionata al di fuori dei quattro metri di cui alla fascia di rispetto.
1.5 Nella sentenza n. 1497/2016, inoltre, si è chiarito che appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque la questione inerente la pretesa ammissibilità di una sanatoria parziale, relativa cioè alle porzioni di fabbricati che non ricadrebbero nella fascia di rispetto del fossato demaniale e, ciò, in virtù del consolidato principio secondo cui l'opera edilizia abusiva va identificata, ai fini della concessione in sanatoria, con riferimento all'unitarietà dell'edificio realizzato.
2. Ciò premesso la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche deve essere confermata anche per quanto concerne il presente ricorso, laddove i ricorrenti hanno impugnato il successivo provvedimento di demolizione, fondato anch’esso sull’accertata violazione dell’art. 96 sopra citato e diretta conseguenza dei provvedimenti di diniego sopra citati.
Come si è già avuto modo di precisare non ha rilievo il preteso frazionamento dell'immobile in distinte porzioni e, ciò, sia considerando il fatto che non è stata dimostrata l'autonomia delle singole parti sia, soprattutto, in ragione del fatto che, ad un eventuale frazionamento, sarebbe di ostacolo il principio dell’inammissibilità della duplicità di azioni giudiziarie in relazione ad una stessa fattispecie, sussistendo il pericolo di contraddittorietà tra diversi giudicati.
Si consideri, peraltro, che il tenore dell’art. 143 del r.d. 11.12.1933 n. 1775 è nel senso di non escludere che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche possa essere estesa anche ai provvedimenti demolitori, suscettibili di incidere su manufatti situati in prossimità dei corsi d'acqua di natura pubblica e realizzati nella fascia di rispetto dell'argine e, ciò, come peraltro confermato da precedenti arresti giurisprudenziali (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 16.07.2012, n. 495 e TAR Piemonte Sez. I, 19.10.2000, n. 1024 e Cass. civ. Sez. Unite Ord., 14.06.2006, n. 13692 (rv. 589543).
3. In definitiva, risultando fondata l’eccezione sopra citata, va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo Tribunale in luogo del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
Restano salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domanda, se il processo è riproposto innanzi al sopra citato Tribunale nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, ex art. 11 c.p.a. (traslatio iudicii) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 28.03.2017 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Nel processo amministrativo è proponibile l'azione volta a conseguire una pronuncia costitutiva ai sensi dell'art. 2932, c.c. al fine di ottenere l'esecuzione di una convenzione di lottizzazione, ed in particolare l'accertamento e la declaratoria del trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita.
Anche il Giudice del riparto ha avuto modo di rilevare che, anche se gli artt. 29 e 30 del cod. proc. amm. non prevedono che il giudice amministrativo possa emettere la sentenza costitutiva ex art. 2932 del cod. civ., può ritenersi sussistente la giurisdizione del g.a. nella considerazione che il giudice amministrativo, a norma degli artt. 24, 103, 111 e 113 della Costituzione, nelle controversie rimesse alla sua giurisdizione esclusiva, può erogare ogni forma di tutela del diritto soggettivo, anche in considerazione del fatto che agli accordi amministrativi (e cioè alla fattispecie per cui si controverte) si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, come sancito dall'art. 11 della legge n. 241 del 1990.
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Risulta accertato l’inadempimento dell’obbligo di controparte di dare esatta esecuzione alle obbligazioni nascenti dalla convenzione sicché va accolta la domanda del Comune volta ad ottenere il trasferimento coattivo e gratuito delle aree destinate alle opere di urbanizzazione e catastalmente, disponendo per l’effetto la trascrizione della presente sentenza a cura del Conservatore dei registri immobiliari.
Inoltre, considerato che parte delle predette opere di urbanizzazione risultano non eseguite o completate a regola d’arte, la parte intimata va condannata al pagamento della somma necessaria a tale scopo, determinata in € 23.649,14 e maggiorata di interessi e rivalutazione dalla data di pubblicazione della sentenza.
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In esecuzione di piani attuativi approvati dal Comune di Montespertoli negli anni dal 1980 al 1983 venivano stipulate convenzioni per lottizzazioni di iniziativa privata con diversi soggetti, tra cui la coop. Il Qu..
A seguito del fallimento di detta cooperativa, con decreto del giudice delegato del Tribunale di Firenze del 15.05.2000, veniva trasferito alla Cooperativa Ed.Ar.Ca. un vasto appezzamento di terreno ricompreso nella predetta lottizzazione.
Il Comune, con deliberazione consiliare n. 56 dell’11.06.2001, disponeva il subentro di quest’ultima nella realizzazione del PEEP in località Martignana, come da convenzione rogata dal Segretario comunale il 05.07.1990.
La Cooperativa Ed.Ar.Ca. si impegnava a realizzare le opere di urbanizzazione “disciplinate dalla concessione edilizia che farà seguito al progetto approvato dalla Commissione edilizia il 06.04.2001”.
Faceva seguito, in data 18.09.2001, la sottoscrizione di una convenzione nella quale erano dettagliatamente indicate le opere di urbanizzazione da realizzarsi a cura della cooperativa, oltre agli obblighi di cessione successiva al Comune delle opere realizzate (verde pubblico, strade e parcheggi).
Venivano quindi rilasciate alla cooperativa le concessioni edilizie necessarie.
Constatato che, a distanza di moti anni, le opere in discorso non erano state realizzate, il Comune, con nota dell’01.12.2014, intimava alla cooperativa di dare esatto adempimento agli obblighi nascenti dalla convenzione di cui sopra, completando le opere di urbanizzazione e disponendone la cessione gratuita all’amministrazione.
L’intimazione restava senza seguito.
Conseguentemente, con il ricorso all’esame il Comune di Montespertoli instava per l’accertamento dell’obbligo della Cooperativa Ed.Ar.Ca. di risarcire il danno causato dalla mancata o incompleta realizzazione delle opere di urbanizzazione di cui alla convenzione rep. n. 52850 del 18.09.2001 ed alle concessioni edilizie n. 23/2001 e n. 52/2004, oltre all'obbligo della medesima di cedere gratuitamente le aree (comprensive delle opere di urbanizzazione, per la parte in cui esse sono state realizzate) in forza della stessa convenzione.
Domandava, inoltre, la condanna della Cooperativa al risarcimento del danno, quantificato in euro 30.955,59, oltre interessi e rivalutazione monetaria e l'emissione, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., di una sentenza costitutiva producente il trasferimento a titolo gratuito, in favore del Comune, delle proprietà delle aree destinate alle opere di urbanizzazione con riferimento alle particelle individuate al catasto terreni del Comune di Montespertoli, foglio 44, dalle particelle n. 270, 265, 328, 330, 322, 370, 335, 369, 251, 268, 260, 349, 261, e 364, con conseguente ordine di trascrizione della sentenza.
La Cooperativa Ed.Ar.Ca. non si costituiva in giudizio.
Nella pubblica udienza del 28.11.2017 il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
In via preliminare va ricordato che nel processo amministrativo è proponibile l'azione volta a conseguire una pronuncia costitutiva ai sensi dell'art. 2932, c.c. al fine di ottenere l'esecuzione di una convenzione di lottizzazione, ed in particolare l'accertamento e la declaratoria del trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita (ex multis, TAR Umbria, 15.06.2015, n. 292; TAR Lombardia, Brescia, 26.03.2014, n. 298; TAR Lazio, Latina, 12.04.2013, n. 318).
Anche il Giudice del riparto ha avuto modo di rilevare che, anche se gli artt. 29 e 30 del cod. proc. amm. non prevedono che il giudice amministrativo possa emettere la sentenza costitutiva ex art. 2932 del cod. civ., può ritenersi sussistente la giurisdizione del g.a. nella considerazione che il giudice amministrativo, a norma degli artt. 24, 103, 111 e 113 della Costituzione, nelle controversie rimesse alla sua giurisdizione esclusiva, può erogare ogni forma di tutela del diritto soggettivo, anche in considerazione del fatto che agli accordi amministrativi (e cioè alla fattispecie per cui si controverte) si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, come sancito dall'art. 11 della legge n. 241 del 1990 (Cass. civ., Sez. Un., 09.03.2015, n. 4683).
Considerata la necessità di procedere ad un approfondimento istruttorio in ordine ai fatti prospettati dall’amministrazione ricorrente, con ordinanza n. 144 del 26.01.2017 veniva disposta una consulenza tecnica d’ufficio, affidata all’ing. Ma.Ba., Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Firenze, al quale venivano posti i seguenti quesiti:
   “1) accerti il c.t.u. lo stato dei luoghi, avendo a riferimento la documentazione prodotta in giudizio dal Comune di Montespertoli, con riferimento alle opere di urbanizzazione eventualmente non eseguite e/o incomplete e/o difettose;
   2) quantifichi la spesa che l'Amministrazione Comunale dovrebbe eventualmente sostenere per addivenire alla completa e regolare esecuzione delle opere di urbanizzazione, completando quelle non ultimate ed eliminando i difetti eventualmente riscontrati;
   3) accerti l'esatta individuazione catastale delle aree di proprietà della Cooperativa Ed.Ar.Ca. che dovrebbero eventualmente essere trasferite gratuitamente al Comune di Montespertoli, in forza della convenzione rep. n. 52850 del 18.9.2001;
   4) individui la particella priva di numero compresa tra le aree da cedere al Comune ed attribuire alla medesima la propria identificazione catastale, disponendo, ove necessario, gli opportuni frazionamenti catastali
”.
Veniva altresì disposta la corresponsione al c.t.u. di un anticipo sul suo compenso, nella misura di euro 1.000,00 a carico della parte ricorrente.
Dopo il deposito della relazione conclusiva del c.t.u. il Comune ricorrente produceva di memorie conclusive.
Esaminata la relazione depositata dal c.t.u. il ricorso si palesa fondato nei termini di seguito precisati.
In ordine ai primi due quesiti il consulente del Tribunale evidenziava il completamento dell’edificio costituito dai 16 appartamenti di cui al P.E.E.P. previsto nella convenzione nr. 52850 del 18/09/2001, mentre le opere di urbanizzazione contemplate nella stessa convenzione, risultano in parte non completate, come da dettagliato elenco in relazione.
In particolare, non risultano eseguite quelle relative “all’esecuzione del tappeto di usura dei marciapiedi e dei parcheggi nella zona a monte di Via Po oltre alle opere a verde previste che non sono state neanche iniziate”. L’ammontare della spesa che il Comune dovrebbe sostenere per l’esecuzione e il completamento delle suddette opere viene determinato in € 23.649,14.
A completamento dell’indagine il perito evidenziava che “non sono state né segnalate dall’Amministrazione né rilevate nel corso delle operazioni peritali lavorazioni difettose o non eseguite a regola d’arte”.
Con riferimento al terzo quesito si rilevava che, in forza della convenzione, la Cooperativa edificatrice Arno Casa dovrà cedere a titolo gratuito all’Amministrazione comunale le seguenti particelle: Foglio 44, part. n. 251, 260, 261, 265, 268, 270, 322, 328, 330, 335, 349, 364, 369 e 370.
Infine, in ordine al quarto quesito il c.t.u. riferiva che “non esiste alcuna particella priva di numero ma semplicemente un errore di rappresentazione grafica” atteso che la particella 265 del Foglio n. 44 trae origine nel 1993 dal frazionamento della particella 226 e dopo tale data non è più stata oggetto di modifiche di alcun tipo.
In conclusione, risulta accertato l’inadempimento dell’obbligo di controparte di dare esatta esecuzione alle obbligazioni nascenti dalla convenzione più volte citata, seguendone che va accolta la domanda del Comune volta ad ottenere il trasferimento coattivo e gratuito delle aree destinate alle opere di urbanizzazione e catastalmente individuate come sopra, disponendo per l’effetto la trascrizione della presente sentenza a cura del Conservatore dei registri immobiliari di Firenze.
Inoltre, considerato che parte delle predette opere di urbanizzazione risultano non eseguite o completate a regola d’arte, la parte intimata va condannata al pagamento della somma necessaria a tale scopo, determinata in € 23.649,14 e maggiorata di interessi e rivalutazione dalla data di pubblicazione della sentenza.
In ordine alle competenze spettanti al c.t.u., vista la nota dal medesimo depositata e considerato che il compenso di € 1.940,84 relativo al punto 4 del quesito appare sostanzialmente duplicare, in relazione all’impegno occorso per il suo espletamento, quanto riferito al punto 3, la somma totale viene liquidata in € 10.698,00 oltre a IVA e C.P., al lordo della somma corrisposta a titolo di anticipazione dalla parte ricorrente.
Le altre spese del giudizio seguono la soccombenza come in dispositivo liquidate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto e, per l'effetto, dispone:
   a) ai sensi dell'art. 2932 cod. civ. il trasferimento della proprietà in favore del Comune di Montespertoli delle particelle di terreno, così catastalmente individuate nel Catasto urbano del Comune: fg. 44, part. n. 251, 260, 261, 265, 268, 270, 322, 328, 330, 335, 349, 364, 369 e 370;
   b) ordina al Conservatore dei registri immobiliari di Firenze di procedere, su istanza di parte, alla trascrizione della presente sentenza;
   c) condanna la Cooperativa Ed.Ar.Ca. al pagamento in favore del Comune di Montespertoli della somma di € 23.649,14, oltre a interessi e rivalutazione decorrenti dalla data di pubblicazione della sentenza (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.01.2018 n. 68 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
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L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato».
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7.- Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
8.- È indubbio che il Comune di San Pietro in Casale, allorché tra i motivi posti alla base della sospensione della D.I.A. ha identificato la carenza di titolo alla presentazione della medesima D.I.A. abbia inteso riferirsi, seppur implicitamente, alla carenza del titolo di proprietà che avrebbe legittimato l’intervento sanante di cui trattasi.
In tal senso, ad avviso del Collegio, non ci si trova al cospetto di un’integrazione postuma della motivazione del provvedimento quanto di un’indicazione che, seppur in modo sintetico, ha rilevato la carenza di presupposti per avvalersi della possibilità di ottenere un titolo postumo idoneo a sanare le opere abusivamente realizzate.
Sul punto, costituisce, invero, ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere, non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia, ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia ed anche la l.r. Em. Rom. n. 23 del 2004, art. 17) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
Nel caso di specie, la mancata acquisizione del consenso da parte del Condominio «Il Mu», odierno proprietario del bene, non può giustificarsi sulla base della asserita qualità di cointeressato che lo stesso Condominio rivestirebbe, dovendosi, al contrario, ritenere che il medesimo soggetto giuridico potrebbe astrattamente serbare un interesse alla rimessione in pristino dei luoghi e non già alla conservazione delle opere realizzate in difformità dal titolo abilitativo.
9.- Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta l’inapplicabilità delle misure di salvaguardia al caso di specie poiché non viene in rilievo una D.I.A. ordinaria bensì una D.I.A. in sanatoria volta ad ottenere l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione si porrebbe, ad avviso del ricorrente, poiché è vero che il R.U.E ha introdotto, anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia, la separazione acque bianche/acque nere ma lo stesso R.U.E., seppur adottato anteriormente alla presentazione della D.I.A. in sanatoria, è stato approvato in un momento successivo ad essa.
Tale circostanza deporrebbe, ad avviso della Er. s.r.l., per l’applicazione alla vicenda per cui è causa del pregresso assetto normativo comunale, ossia dell’art. 24 del previgente regolamento per il servizio di fognatura e depurazione approvato nel 1986.
9.1.- Il motivo non è meritevole di pregio.
9.2.- L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato» (Cass. pen. Sez. III, n. 21781 del 2011; sul punto già Cass., sez. III, n. 291 del 2004).
...
11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato (TAR Emilia Romagna-Bolgna, Sez. II, sentenza 10.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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VARILe società sportive dilettantistiche. Dal regime fiscale alle agevolazioni: cosa cambia dopo la legge di Bilancio 2018.
Con la società sportiva dilettantistiche lucrativa (Ssdl) introdotta dalla legge di Bilancio 2018, il mondo dello sport è stato attraversato da un'autentica rivoluzione.
La novità normativa prevista dal legislatore consente di introdurre nel nostro ordinamento una società low profit che ruota attorno ai due profili della lucratività, quella soggettiva e quella oggettiva: le nuove Ssdl non avranno limiti né sul piano della redistribuzione degli utili (lucro soggettivo), né sul piano del fatturato (lucro oggettivo).
Si tratta di un ulteriore segnale del processo di ibridazione in atto che sta interessando l'economia reale: il «non profit» si trasforma in «for profit» e quest'ultimo nel primo. Secondo l'attuale normativa, inoltre, le attività sportive dilettantistiche potranno essere esercitate da ogni tipo di società anche con scopi lucrativi. Sul piano fiscale, le Ssdl potranno fruire dell'Ires ridotta al 50%, ma non potranno accedere ad alcune agevolazioni fiscali, che rimarranno invece prerogativa esclusiva delle entità dilettantistiche associative e societarie prive di fini di lucro.
In particolare, alle Ssdl è negata la possibilità di accedere ai benefici fiscali previsti dalla legge 398/1991, anche se a queste società low profit è riconosciuta un significativo beneficio fiscale, che consiste nel dimezzamento dell'Ires. La manovra 2018 ha inoltre ampliato la no tax area già fruita dalle retribuzioni di questo settore: la soglia di esenzione dall'Irpef delle indennità, dei rimborsi forfettari e dei premi e compensi di cui all'art. 67, lett. m), Tuir è stata elevata da 7.500 a 10.000 euro.
Dal 01.01.2019, saranno assoggettati ad aliquota Iva ridotta al 10% i servizi di carattere sportivo resi dalle Ssdl riconosciute dal Coni, nei confronti di chi pratica l'attività sportiva a titolo occasionale o continuativo in impianti gestiti da tali società (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.01.2018).

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, gennaio 2018).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto “legge di bilancio 2018" - integrazioni alla circolare del 23.11.2017, n. 3 "Indirizzi operativi in materia di valorizzazione dell’esperienza professionale del personale con contratto di lavoro flessibile e superamento del precariato" (circolare 09.01.2018 n. 1/2018).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – risposta al quesito inerente la necessità che l’informazione sia svolta in forma prioritaria ed esclusiva, dal Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, interpello n. 2/2017 del 16.01.2018 n. 847 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: sanzioni amianto - ulteriore chiarimento lr n. 17/2003 (Regione Lombardia, nota 23.11.2017 n. 34480 di prot.).
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Ad integrazione della nota 13.11.2017 n. 33278 di prot. si ritiene chiarire (... continua).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 4 del 23.01.2018, "Disposizioni per la disciplina e la classificazione delle aziende ricettive all’aria aperta in attuazione dell’articolo 37 della legge regionale 01.10.2015, n. 27 «Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo»" (regolamento regionale 19.01.2018 n. 3).

ENTI LOCALI: G.U. 22.01.2018 n. 17 "Codice della protezione civile" (D.Lgs. 02.01.2018 n. 1).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: G.U. 19.01.2018, suppl. ord. n. 4, "Ripubblicazione del testo della legge 27.12.2017, n. 205, recante: «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020», corredato delle relative note".

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 3 del 19.01.2018, "Regolamento di attuazione del titolo IX «Disposizioni sull’incremento e la tutela del patrimonio ittico e sull’esercizio della pesca nelle acque della Regione Lombardia» della legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, caccia, pesca e sviluppo rurale)" (regolamento regionale 15.01.2018 n. 2).

VARI: G.U. 16.01.2018 n. 12 "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento" (Legge 22.12.2017 n. 219).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 16.01.2018 n. 12 "Disciplina delle procedure per la notificazione dei verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite posta elettronica certificata" (Ministero dell'Interno, decreto 18.12.2017).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 16.01.2018 n. 12 "Modalità e limiti di spesa per i servizi di supporto e di indagine per il collaudo di infrastrutture di grande rilevanza o complessità affidate con la formula del contraente generale, in attuazione dell’articolo 196, comma 2, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, e successive modificazioni" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 07.12.2017).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: M. Noccelli, I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia (20.01.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: Cap. 1 – La documentazione antimafia (art. 82 e ss. del d.lgs. n. 159 del 2011). Cap. 2 – Lo scioglimento del Consiglio comunale o provinciale per infiltrazioni della criminalità organizzata (art. 143 del d.lgs. n. 267 del 2000).

EDILIZIA PRIVATA: DIA e SCIA: norme e giurisprudenza sui profili problematici (17.01.2018 - link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Gualdani, La conferma della discrezionalità dell’annullamento d’ufficio (17.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. - 2. Le ipotesi di annullamento doveroso: le eccezioni alla regola della discrezionalità dell’annullamento d’ufficio. - 3. L’incidenza delle intervenute riforme sulla natura dell’annullamento d’ufficio. - 4. Dal particolare al generale: la rilevanza della pronuncia della Corte Costituzionale n. 181 del 2017, sull’autotutela tributaria, nell’annullamento d’ufficio, di cui all’art. 21-nonies. – 5. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Otranto, Decisione amministrativa e digitalizzazione della p.a. (17.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: – 1. Incidenza dei profili organizzativi sulla decisione amministrativa. – 2. Decisione amministrativa e consultazioni pubbliche digitali. – 3. Riorganizzazione dei servizi online e partecipazione telematica. – 4. Procedimento amministrativo e tecnologie dell’informazione e della comunicazione. – 5. L’atto amministrativo ad elaborazione elettronica: vincolatezza, discrezionalità ed intelligenza artificiale. – 6. Linee ricostruttive per una ricerca.

PATRIMONIO: P. Rossi, Partenariato pubblico-privato e valorizzazione economica dei beni culturali nella riforma del codice degli appalti (17.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il parametro costituzionale del rapporto di sponsorship pubblico-privata nella valorizzazione del patrimonio culturale. 2. Le sponsorizzazioni dei beni culturali nel Codice Urbani. (segue) 3. L’eccesso di procedimentalizzazione nell’evoluzione del quadro normativo. Criticità applicative. 4. La non-soluzione dello strumento agevolativo del c.d. art bonus. 5. La nuova regolazione della sponsorship pubblico-privata dei beni culturali nel D.lgs. 50/2016, tra semplificazione, specialità e innovazione. (segue) 6. Le ulteriori forme di partnership pubblico-privata: verso un’effettiva sussidiarietà orizzontale nella valorizzazione dei beni culturali?

APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: LEGGE DI BILANCIO 2018 - Legge n. 205 del 27.12.2017 - LE PRINCIPALI MISURE DI INTERESSE DEL SETTORE DELLE COSTRUZIONI (ANCE, 15.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: F. Vitale, L’abuso edilizio nella giurisprudenza penale: il diverso concetto di pertinenze nel codice civile e nella materia urbanistica.
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Il presente commento è relativo ad una recente pronuncia del Tribunale di Palermo, nell’ambito della quale la nozione di pertinenza e la sua diversa esegesi nel settore urbanistico e nel diritto civile sono risultate fondamenti della decisione di assoluzione dell’imputato dal reato di abuso edilizio previsto dal t.u. in materia edilizia.
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(TRIBUNALE di Palermo, Sez. III penale, sentenza 13.11.2017 n. 5017 - tratto da www.giurisprudenzapenale.com).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Il singolo incarico di patrocinio legale va inquadrato come appalto di servizi.
A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs..
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A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata, la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti, del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17 (recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina dei principi summenzionati, conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale incardinato nell’ufficio legale, ove istituito, a svolgere l’incarico (così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con il Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione, che nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dal quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerte.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano ragioni di urgenza, motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi dettagliatamente motivato, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale” (C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca” (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 e seg., del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale.
A esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Infine, si ricorda come il d.lgs. 14.03.2013, n. 33 recante “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, all’art. 15 (“Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi di collaborazione o consulenza”), comma 4, abbia stabilito per i titolari di incarichi di collaborazione o consulenza che i dati di cui al comma 1, i relativi atti di conferimento (questi ultimi completi di indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato), nonché l’afferente comunicazione alla Presidenza del consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, debbano essere pubblicati entro tre mesi dall’attribuzione dell’incarico e per i tre anni successivi alla cessazione dello stesso.
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite e dai dati relativi agli incarichi affidati all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio e di consulenza legale in un atto di programmazione
L’Ente non ha inserito in alcun atto di programmazione gli incarichi di patrocinio e di consulenza legale che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
La relativa inclusione sarebbe stata rispondente a un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche, anche per agevolare una stima appropriata delle consequenziali coperture finanziarie.

Ricorso all’affidamento diretto fino al 2015
L’attribuzione diretta, fino al 2015, di incarichi professionali esterni, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria, giurisprudenza oggi avvalorata dalle richiamate novità normative di cui al d.lgs. n. 50/2016.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.

Mancanza di uno specifico disciplinare che regola l’affidamento degli incarichi legali - omessa formalizzazione dell’accertamento sull’impossibilità di svolgere il patrocinio all’interno dell’Ente
L’Ausl ha predisposto, nel 2016, un elenco di avvocati esterni formato sulla base di avviso pubblico, avendo inoltre adottato, nel 2013, un atto che definisce i criteri per la determinazione delle tariffe da riconoscere per le prestazioni effettuate. Peraltro, non risulta uno specifico disciplinare che regolamenti l’attribuzione degli incarichi legali tra gli avvocati esterni selezionati ed, in particolare, che garantisca il doveroso rispetto del criterio di rotazione nell’affidamento dei patrocini.
A riprova dell’inefficacia del sistema predisposto che negli effetti non si discosta dal previo metodo di affidamento diretto, ad esito di interrogazione effettuata sul sito dell’Ente si rileva che nel 2017 sono stati affidati al medesimo legale 12 patrocini su 16 totali attribuiti ad avvocati esterni. Si tratta, peraltro, dello stesso professionista cui, nel 2015, venivano conferiti direttamente 9 patrocini legali su 10.
Al contrario,
se pur è ammissibile la predisposizione di un sistema di qualificazione, ovvero “la redazione di un elenco di operatori qualificati mediante una procedura trasparente e aperta oggetto di adeguata pubblicità (cfr. deliberato Anac richiamato), è altrettanto vero che l’applicazione di una rotazione, quanto meno minima, tra i richiamati operatori qualificati e pertanto del tutto idonei al compito da affidare, rappresenta un’imprescindibile esigenza di salvaguardia dei principi di non discriminazione, concorrenzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.
L’anomalia segnalata è da correggere ed assume particolare rilievo alla luce del pregresso storico dell’Ente che nell’annualità oggetto di esame, ovvero il 2015, ha attribuito direttamente patrocini legali quasi sempre allo stesso professionista,
precostituendogli pertanto, di fatto, un indebito vantaggio competitivo visto che tra i requisiti di ammissione alla procedura per l’iscrizione all’elenco è richiesta l’assunzione di un certo numero incarichi difensivi per enti sanitari. Inoltre, per i due conferimenti esterni di patrocinio specificamente esaminati, non risulta formalizzato il previo accertamento dell’impossibilità di svolgere l’incarico all’interno dell’Ente.
In proposito si sottolinea che
una normativa finalizzata a disciplinare la materia dovrebbe, tra l’altro, prevedere che l’affidamento degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all’Ente. Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità, per i legali dipendenti dall’Ente, di assumere il patrocinio.
In mancanza di una disciplina specifica sarebbe stato comunque onere dell’Ausl dare riscontro formale del previo accertamento dell’impossibilità, da parte dei componenti dell’ufficio legale, a svolgere gli incarichi, allo scopo di evitare una possibile spesa inutile e, pertanto, un conseguente danno all’erario.
Un accertamento di tale tipo sarebbe da considerarsi presupposto necessario per l’affidamento legittimo anche qualora si considerasse la scelta del libero professionista come a carattere fiduciario, ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi.

Tutela dei principi di imparzialità, parità di trattamento e trasparenza ex art. 4 del d.lgs. n. 50/2016
Anac declina i principi di cui all’art. 4 del Codice dei contratti pubblici precisando che “
l’effetto restrittivo della concorrenza derivante dalla limitazione temporale della presentazione delle istanze [di ammissione all’Elenco dei legali dell’Ente] dovrebbe essere contemperato dalla riduzione del termine di validità dell’iscrizione, che potrebbe essere portata a un anno, in modo da rendere più frequenti le finestre temporali entro le quali i soggetti qualificati possono manifestare l’interesse all’iscrizione nell’elenco (60 giorni ogni anno e non 60 giorni ogni tre anni)” (Anac, Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP). In conformità l’Ausl non si è avvalsa della facoltà di proroga per un massimo di due anni prevista nell’avviso pubblico di cui alla deliberazione n. 138 del 01.06.2016.
In proposito, peraltro, la Sezione rimarca la necessità di attenersi ai criteri operativi richiamati, espungendo dal nuovo avviso, in fase di approvazione, la facoltà dell’Azienda di prorogare, per un massimo di 24 mesi, la durata di validità dell’Elenco, altresì stabilendo un termine non inferiore a 60 giorni per la presentazione delle relative domande di ammissione.
Contraddittorietà della clausola del modello di contratto approvato nel 2013 dal Collegio Tecnico AVEC con il requisito della comprovata esperienza richiesta nella deliberazione n. 138/2016 recante “Avviso pubblico inerente la formazione di un elenco di avvocati per l’affidamento di incarichi difensivi in applicazione dell’istituto contrattuale del patrocinio legale
Nell’esaminare il modello di contratto per l’affidamento a legali esterni di prestazioni di assistenza legale, approvato nel 2013 dal Collegio Tecnico AVEC, si riscontra una criticità al relativo punto 4, laddove viene precisato che “Il Professionista può avvalersi, sotto la propria responsabilità, di sostituti e collaboratori per lo svolgimento della prestazione, nonché di domiciliatari, senza costi aggiuntivi”.
La clausola, laddove non circoscrive l’attività di eventuali sostituti e collaboratori ad aspetti marginali della prestazione, si pone in contraddizione con uno dei criteri fissati per l’iscrizione nell’elenco degli avvocati dell’Ente, ovvero il possesso di una particolare e comprovata esperienza specifica (punto 6 dei requisiti di ammissione). Una siffatta causa rende, altresì, possibile il mancato rispetto di principi rilevanti nell’affidamento dei patrocini ad esterni, in particolare la procedura di comparazione effettuata sulla base del curriculum vitae.
L’Ente ha, comunque, dichiarato che è in fase di approvazione un nuovo avviso pubblico per la formazione di un elenco di avvocati da utilizzarsi per l’affidamento di incarichi difensivi, lo schema di domanda (all.A) per la richiesta di iscrizione e l’atto relativo alle Condizioni Generali (all.B) che deve essere sottoscritto dal professionista e il cui rispetto costituisce “condizione necessaria per il mantenimento nell’Elenco e il successivo conferimento di eventuali incarichi”.
In proposito, l’art. 3 di questo ultimo atto, rubricato “Accettazione dell’incarico e modalità di espletamento” prevede che “Il professionista si impegna a svolgere il mandato personalmente e in piena autonomia tecnico-organizzativa, garantendo la propria personale reperibilità sia nello svolgimento di incarichi conferiti dall’ente, sia nello svolgimento di incarichi conferiti da personale aziendale”.
La Sezione ribadisce che la richiamata “autonomia tecnico-organizzativa” non può implicare la facoltà di avvalersi di eventuali sostituti e collaboratori se non per aspetti marginali della prestazione, richiedendo una puntualizzazione in tal senso.
Per quanto sopra esposto, la Sezione
INVITA L’ENTE
ad assicurare il rispetto della normativa e dei principi per l’affidamento di incarichi legali;
INVITA L’ORGANO DI REVISIONE
a vigilare sulla legittimità dell’azione dell’Ente nell’affidamento di incarichi legali;
DISPONE
   - che la deliberazione sia trasmessa - mediante posta elettronica certificata al Legale Rappresentante, nonché all’Organo di revisione;
   -
che copia della presente deliberazione sia trasmessa alla Procura della Corte dei Conti per la Regione Emilia-Romagna, in relazione agli eventuali profili di danno erariale conseguenti all’affidamento diretto di incarichi di patrocinio legale, deliberati senza che vi sia stata una previa valutazione formalizzata in merito alla possibilità, da parte degli avvocati interni, di svolgere detti patrocini (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 16.01.2018 n. 4).

ENTI LOCALI: Il Comune non può rimborsare spese non documentate ad un’associazione di volontariato, indipendentemente dal fatto che i servizi siano stati effettivamente resi e che le relative spese siano inferiori ai costi di mercato.
Costituisce condotta illecita del funzionario che ha gestito la convenzione l’aver corrisposto all'associazione il rimborso di spese prive di documentazione, in violazione sia dell’art. 7 della convenzione sia dell’art. 13, comma 3, lett. d), della L.R. n. 12/2005, che configurano l’obbligo di servizio che il funzionario doveva adempiere.
Tale condotta è imputabile a titolo di colpa grave, considerata la chiara disposizione contenuta nell’art. 7 della convenzione e la semplicità, per il responsabile del servizio competente a gestire la convenzione, dell’adempimento richiesto: disporre il pagamento solo delle spese documentate nelle forme ivi previste.
La descritta condotta si pone in rapporto causale con il danno subito dal Comune, che è costituito dalla spesa effettuata in violazione della disciplina convenzionale, e quindi in assenza di utilità per l’Ente che ha pagato tali importi privi di oggetto ed in mancanza della prova dell’ammontare della spesa sostenuta dall’associazione e della sua riferibilità ai servizi che dovevano essere resi.
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1. Il Pubblico Ministero ha convenuto in giudizio gli amministratori ed i dipendenti del Comune di Castelvetro di Modena (BO) indicati in epigrafe, ognuno nelle rispettive qualità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno cagionato al Comune in relazione all’approvazione ed alla gestione delle convenzioni con cui il Comune ha affidato all’Associazione di volontariato “Ce.AU. di Modena”, negli anni 2013 e 2014, alcuni servizi di gestione del verde pubblico in parchi e giardini comunali, ai sensi della L. 11.08.1991, n. 266 e della L.R. 21.02.2005, n. 12.
Secondo la Procura, la responsabilità del Sindaco e della Giunta, a titolo di colpa grave, consiste nell’aver approvato, con delibere n. 36, 37 e 38 in data 15.04.2013, l’art. 7 dello schema di convenzione, nella parte in cui consente al comune di rimborsare all’Associazione di volontariato “Ce.AU. di Modena” spese non documentabili, clausola nulla e foriera di danno in quanto contraria ai principi di contabilità pubblica che impongono la rendicontazione documentata delle spese che l’amministrazione rimborsa a terzi.
La responsabilità dei funzionari, a titolo di colpa grave, consiste nell’aver corrisposto all’associazione il rimborso delle spese richieste, in parte non previste tra le spese rimborsabili (quali, ad esempio, la quota parte dei costi generali) e sempre in assenza della documentazione giustificativa a comprova dell’effettivo sostenimento.
...
6. Da quanto sopra consegue, in primo luogo, l’infondatezza della domanda di condanna proposta nei confronti del Sindaco e dei componenti della Giunta, che hanno approvato le convenzioni, per assenza della condotta illecita, in quanto l’art. 7 delle convenzioni è conforme all’art. 13, comma 3, lett. d), della L.R. n. 12/2005 e non consente il rimborso delle spese non documentate.
7. Si evince, al contrario, che costituisce condotta illecita del funzionario che ha gestito la convenzione, il Sig. Gi.Cu., l’aver corrisposto all’AU. il rimborso di spese prive di documentazione, in violazione sia dell’art. 7 della convenzione sia dell’art. 13, comma 3, lett. d), della L.R. n. 12/2005, che configurano l’obbligo di servizio che il funzionario doveva adempiere.
8. Tale condotta, la cui realizzazione appare dimostrata dalla documentazione versata in atti e non contestata (anche nella memoria difensiva di costituzione, pag. 4 e 5, si ammette che il Cu. ha effettuato i rimborsi in assenza della pertinente documentazione di spesa), è imputabile a titolo di colpa grave, considerata la chiara disposizione contenuta nell’art. 7 della convenzione e la semplicità, per il responsabile del servizio competente a gestire la convenzione, dell’adempimento richiesto: disporre il pagamento solo delle spese documentate nelle forme ivi previste.
9. La descritta condotta si pone in rapporto causale con il danno subito dal Comune, che è costituito dalla spesa effettuata in violazione della disciplina convenzionale, e quindi in assenza di utilità per l’Ente che ha pagato tali importi privi di oggetto ed in mancanza della prova dell’ammontare della spesa sostenuta dall’AU. e della sua riferibilità ai servizi che dovevano essere resi.
10. Deve, invece, essere rigettata la domanda di condanna proposta della Procura nei confronti della Sig.ra Lo.Bo., responsabile del Servizio finanziario che ha svolto il controllo di regolarità contabile previsto dagli artt. 50, comma 3, e 54 del reg. cont. comunale ed emesso i mandati di pagamento ai sensi dell’art. 51.
Infatti, dagli atti di causa si evince che la Sig.ra Bo. ha correttamente reso parere favorevole ai relativi impegni di spesa adottati dal responsabile del settore, ai sensi dell’art. 43, comma 2, reg. cont. comunale, avendone verificata la copertura finanziaria sui pertinenti capitoli di bilancio ai sensi dell’art. 183, comma 7, del D. Lgs.vo 18.08.2000, n. 267, ed ha emesso i mandati di pagamento sulla base degli atti di liquidazione della spesa adottati dal Cu., ai sensi dell’art. 184 del D.Lgs.vo n. 267/2000 e degli artt. 49 e 50 del reg. cont., nei quali ha attestato la regolare esecuzione del servizio (doc. 3 allegato alla memoria difensiva).
Non è quindi ravvisabile, in capo alla Sig.ra Bo., alcuna condotta illecita o violazione dei propri obblighi di servizio, avendo correttamente attuato i procedimenti di spesa come previsti dalla legge (artt. 147-bis, 153, 183 e ss. del D. Lgs.vo n. 267/2000) e dal regolamento di contabilità comunale.
11. Il danno cagionato dal Sig. Cu., per avere disposto il rimborso all’associazione delle spese non documentate in violazione dell’art. 7 della convenzione, ammonta, pertanto, ad € 25.000,00, come correttamente quantificato sulla base dei mandati di pagamento in atti (nota dep. 1, doc. 6), riferibili agli esercizi finanziari 2013 e 2014 oggetto del giudizio, e non ad altri.
In ordine alla sussistenza del danno, appare irrilevante l’osservazione, formulata dalla difesa, che l’importo corrisposto dal Comune all’AU. rimane notevolmente inferiore, rispetto a quanto l’Ente avrebbe speso se avesse appaltato i medesimi servizi con un contratto ad evidenza pubblica. Si tratta, infatti, di una comparazione tra due elementi non omogenei, in quanto la convenzione non prevede un pagamento di un corrispettivo, ma solo il rimborso dei costi sostenuti dall’associazione di volontariato senza scopo di lucro, in attuazione dei fini solidaristici previsti dalla citata L.R., fattispecie totalmente differente dall’affidamento concorrenziale di un servizio ad una impresa commerciale.
L’aver corrisposto somme in violazione della convenzione realizza quindi il danno, in quanto, in assenza della pertinente documentazione, le somme non dovevano essere corrisposte.
Per le medesime ragioni le somme corrisposte non possono nemmeno essere comparate con i listini della Camera di Commercio, in quanto questi indicano i prezzi medi dei servizi svolti da imprese commerciali in condizioni di libero mercato, situazione non omogenea ai rimborsi previsti a favore delle associazioni di volontariato senza fini di lucro, che, come detto, hanno per oggetto i soli costi sostenuti dall’ente previsti in convenzione, senza utile di impresa. La richiesta CTU, finalizzata a determinare quale sarebbe stato il costo sostenuto dal Comune se avesse affidato i servizi in appalto, è quindi irrilevante.
Deve anche rigettarsi, in quanto irrilevante, la richiesta prova testimoniale formulata dalla difesa del Cu., perché non è contestato che l’associazione ha reso i servizi oggetto della convenzione nella quantità e qualità ivi prevista. Di tale circostanza dovrà quindi tenersi conto nella quantificazione del danno risarcibile.
12. Confermata la sussistenza di tutti gli elementi che compongono la responsabilità amministrativa, il Collegio ritiene che al Sig. Cu. non sia imputabile l’intero danno indicato in citazione, pari ad € 10.000,00 (il 40% di € 25.000,00), tenuto conto dell’utilità comunque conseguita dalla collettività amministrata dal Comune, che ha tratto beneficio dalla corretta esecuzione delle convenzioni (art. 1, comma 1-bis, della L. 14.01.1994, n. 20). Il Collegio ritiene, inoltre, che la complessiva condotta del Cu., sia pure gravemente colposa, sia stata realizzata con il soggettivo intento di perseguire l’utilità collettiva, senza alcuna finalità egoistica.
Tali circostanze, benché non siano idonee ad elidere completamente il danno arrecato al Comune, sono comunque rilevanti per determinare una riduzione del danno risarcibile da addossare al convenuto.
Considerato, quindi, il contesto fattuale in cui si inserisce la condotta tenuta dal convenuto, la Sezione, ai sensi dell’art. dell’art. 83, comma 1, del R.D. n. 2440/1923, dell’art. 52, comma 2, del R.D. n. 1214/1934 e dell’art. 19, comma 2, del D.P.R. n. 3/1957, ritiene di condannare il convenuto Gi.Cu. al pagamento, a favore del Comune di Castelvetro di Modena (MO), del danno complessivamente quantificato nella misura di € 5.000,00, comprensivi di rivalutazione monetaria.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
***
P.Q.M.
***
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia Romagna, definitivamente pronunciando
CONDANNA
CU.GI. al pagamento, a favore del Comune di Castelvetro di Modena (MO), della somma di € 5.000,00 (cinquemila/00), comprensivi di rivalutazione monetaria, e al pagamento degli interessi legali dal deposito della sentenza sino al soddisfo.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro 360,35 (trecentosessanta/35).
RIGETTA
Le domande formulate dalla Procura Regionale nei confronti dei convenuti Lo.Bo., Gi.Mo., Do.Ba., Fe.Fr., Gi.Gi. e Ma.Gi. (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna, sentenza 27.12.2017 n. 250).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Affidamento diretto e consultazione preventiva operatori economici.
Domanda
È possibile avere un chiarimento pratico su come debba essere interpretata la modifica apportata all’art. 36, comma 2, lett. a) del codice dei contratti ed in particolare del riferimento al fatto che l’affidamento diretto può avvenire anche senza “previa consultazione” di operatorie economici?
Risposta
Il legislatore, anche in seguito alle constatate difficoltà di chiarire l’aspetto della motivazione nell’affidamento diretto –declinato dall’ANAC come normalmente determinato da un confronto tra preventivi– ha cercato di introdurre una semplificazione in relazione all’affidamento diretto di commesse nell’ambito dei 40mila euro.
L’inciso innestato dal legislatore, oggettivamente, è infelice e sembra quasi consentire l’affidamento “discrezionale” ovvero senza alcuna motivazione da parte del RUP.
Naturalmente, sotto il profilo pratico/operativo, non è e non può essere così. Il RUP (che non coincida con il dirigente/responsabile del servizio) nella predisposizione della proposta di determina di affidamento –e prima ancora nella determina a contrarre che avvia la procedura– deve motivare adeguatamente sia il ricorso alla procedura dell’affidamento diretto sia le modalità ed il perché abbia individuato tal contraente piuttosto che altri.
Indicazioni interessanti, anche pratiche, sulla corretta procedura che deve seguire il RUP si possono leggere nello schema di linee guida n. 4, approvato dall’ANAC il 20.12.2017 e trasmesse al Consiglio di Stato per il parere. Pur non essendo ancora in vigore risultano, le indicazioni, molto utili in quanto chiariscono le azioni possibili da intraprendere per operare in modo corretto.
Un primo aspetto su cui si sofferma l’ANAC è che il RUP può –prima di determinarsi all’affidamento diretto– “acquisire informazioni, dati, documenti volti a identificare le soluzioni presenti sul mercato per soddisfare i propri fabbisogni e la platea dei potenziali affidatari”.
Circa la questione della motivazione, nello schema si legge che “in ottemperanza agli obblighi di motivazione del provvedimento amministrativo sanciti dalla legge 07.08.1990 n. 241 e al fine di assicurare la massima trasparenza” il RUP “motiva in merito alla scelta dell’affidatario, dando dettagliatamente conto del possesso da parte dell’operatore economico selezionato dei requisiti richiesti nella determina a contrarre o nell’atto ad essa equivalente, della rispondenza di quanto offerto all’interesse pubblico che la stazione appaltante deve soddisfare, di eventuali caratteristiche migliorative offerte dall’affidatario, della congruità del prezzo in rapporto alla qualità della prestazione, nonché del rispetto del principio di rotazione”.
In particolare, il RUP può ricorrere:
   • alla comparazione dei listini di mercato;
   • ad offerte precedenti per commesse identiche o analoghe;
   • all’analisi dei prezzi praticati ad altre amministrazioni.
In ogni caso, il confronto dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori economici rappresenta una best practice ovvero una buona pratica anche alla luce del principio di concorrenza.
Il RUP potrebbe altresì avviare –con degli avvisi pubblici– la predisposizione di specifici elenchi da cui attingere, secondo il principio di rotazione, per i vari affidamenti (24.01.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se il regolamento non lo vieta espressamente. La materia è interamente demandata alle fonti di autonomia locale.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può, di fatto, impedire la formazione del gruppo misto monopersonale, disciplinando la costituzione del gruppo misto nel senso di prevedere che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
Il ministero dell'interno ha già in precedenza espresso il proprio orientamento in materia, evidenziando che, in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere ad un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo consiliare.
Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale; è, pertanto, evidente che tale avviso non possa essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in esame.
A tal proposito il Consiglio di stato, con sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato che, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Di conseguenza, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: Taglio 10 per cento indennità amministratori e gettoni presenza.
Domanda
La mancata proroga per il 2018 del taglio del 10% di cui all’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 riguarda anche le indennità degli amministratori (sindaco e assessori) ed i gettoni dei consiglieri comunali?
Risposta
No, l’art. 6, comma 3, del d.l. 78/2010 non riguarda le indennità di funzione di sindaco e assessori.
Il d.l. 78/2010 disciplinava la riduzione dei compensi di questa tipologia all’art. 5, comma 7, demandandone l’attuazione all’adozione di un successivo decreto del Ministro dell’interno, ai sensi dell’art. 82, comma 8, del TUEL 267/2000.
Dunque, la materia delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori degli enti locali trova la sua disciplina nell’art. 82 del TUEL che rinvia ad apposito decreto ministeriale la determinazione degli emolumenti in questione sulla base di criteri predeterminati.
Il decreto ministeriale avrebbe dovuto essere rinnovato ogni tre anni, tuttavia, quello vigente è tutt’ora il d.m. 04.04.2000, n. 119, che rappresenta ancora oggi la fonte che disciplina la misura dell’indennità in quanto, non solo non è stato aggiornato ai sensi del comma 10 dell’art. 82, ma neppure è stato sostituito da un nuovo decreto del Ministro dell’interno, previsto dal comma 7 dell’art. 5 del d.l. 78/2010.
Oltre a ciò permane ovviamente la riduzione strutturale delle indennità di funzione imposta dall’art. 1, comma 54, della l. 266/2005 (e non il comma 58 come riportato nella norma citata che, invece, si riferisce ad altra tipologia di organi collegiali), cioè la riduzione del 10 per cento rispetto all’ammontare delle indennità in godimento alla data del 31.12.2005.
Infine, occorre fare riferimento alle disposizioni introdotte dalla successiva legge “Delrio” n. 56/2014, che con i commi 135 e 136, è intervenuta sulla composizione numerica di consigli e giunte e ha introdotto misure di invarianza della spesa rispetto al sistema previgente (18.01.2018 - link a www.publika.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento incarichi legali.
Domanda
Nell’ente (una pubblica amministrazione) ci si è posti il problema di come procedere con l’affidamento degli incarichi legali relativamente alla difesa in giudizio.
Alla luce delle varie posizioni –dell’ANAC e della giurisprudenza– circa la possibilità degli incarichi fiduciari, della configurazione in termini di appalti (che emerge dal codice dei contratti) o della possibilità di costituire degli elenchi, si chiede cortesemente quale possa essere il procedimento corretto che gli uffici devono seguire.
Risposta
Il quesito, effettivamente, presenta estrema attualità e delicatezza ed a tal proposito si preferisce fornire un duplice riscontro, in questa prima parte si affronta la tematica in generale nella seconda parte ci si soffermerà sulla costituzione dell’elenco/albo dei legali tenendo conto delle indicazioni fornite dall’ANAC, nelle linee guida ancora non definitive –ma utilissimi al RUP– e della giurisprudenza.
L’affidamento dell’incarico legale, secondo anche le indicazioni dell’ANAC e delle delibere di controllo della Corte dei Conti, può avvenire con la scelta dei soggetti direttamente da albi predisposti dalla stazione appaltante.
La pratica operativa di costituire ed attingere dall’albo di professionisti costituisce, anzi, una modalità virtuosa del RUP di gestire il procedimento di affidamento (e non solo per gli appalti del servizio legale ma per ogni procedimento di acquisto soprattutto nell’ambito sotto soglia comunitaria).
Pertanto deve ritenersi non solo facoltativa ma doverosa per assicurare imparzialità ed oggettività nell’assegnazione degli appalti.
A tal proposito si legge nello schema di linee guida dell’ANAC sui servizi legali (non ancora formalizzato) che “Anche per l’affidamento dei servizi legali di cui all’art. 17 del Codice (così come per i contratti sotto soglia di cui all’art. 36, comma 2), gli operatori economici a cui richiedere preventivi per una valutazione comparativa possono essere selezionati da elenchi previamente costituiti dall’amministrazione”.
È bene da subito evidenziare che l’albo/elenco non è una graduatoria ma, appunto, una sorta di “catalogo” da cui il RUP deve attingere per avviare una micro–competizione o, in specifiche ipotesi, avviare l’affidamento diretto.
La Corte dei Conti ha avuto modo di evidenziare (nella delibera della sezione regionale Emilia Romagna, n. 129/2017) che dall’albo i professionisti possono essere selezionati “su una base non discriminatoria”, a presentare offerte.
Quanto, deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell’importanza della causa e del compenso prevedibile.
In tema di deroga ai principi appena richiamati è interessante riportare proprio la riflessione della Corte dei Conti, nella delibera appena citata.
Nella deliberazione si legge che “l’affidamento diretto di incarichi professionali esterni si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria. La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza“.
La riflessione è comune alle varie sezioni che rammentano, oramai, che l’incarico dei servizi legali –con il nuovo codice degli appalti– è sicuramente un appalto che, per ciò stesso, impone il rispetto delle disposizioni classiche delle procedure (sia pur, in questo caso, con delle semplificazioni).
Le semplificazioni, in ogni caso, non possono giungere a violare palesemente la necessità di oggettività nell’affidamento (si rammenta che deve essere sicuramente abbandonata la prassi di affidare gli incarichi intuitu personae con delibera giuntale).
La sezione, in ogni caso, non esclude che insistano effettivamente delle ragioni di urgenza che non rendano praticabile una “competizione/confronto” tra i soggetti iscritti all’albo ed in questo caso ammette l’affidamento diretto.
Sul punto nella deliberazione citata –ma anche in questo caso si tratta di una affermazione consueta– qualora vi siano ragioni di urgenza, motivate “e non derivanti da un’inerzia dell’Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all’affidamento diretto degli incarichi dettagliatamente motivato, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi)”.
La giurisprudenza amministrativa
La recente sent. n. 334 del 06.02.2017, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel giudicare l’affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente.
Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche che rappresenta l’obiettivo del pubblico dipendente.
Naturalmente occorre affrontare anche la questione del criterio di aggiudicazione ed il criterio del minor prezzo ha un ambito di utilizzo fortemente limitato (questo in generale anche da quanto emerge dalla disposizioni del codice dei contratti).
Nel documento dell’ANAC si legge che riguardo al criterio di aggiudicazione, i servizi legali non rientrano nelle fattispecie individuate dall’art. 95, comma 4, del Codice per le quali è consentito l’utilizzo del criterio del minor prezzo.
Però, trattandosi di servizi di natura intellettuale per essi è espressamente previsto dall’art. 95, comma 3, lett. b), del codice l’obbligo di utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo nel caso di servizi di importo pari o superiore a 40.000.
In definitiva, il criterio del minor prezzo può essere utilizzato solo per gli affidamenti di contratti di importo inferiore a 40.000 euro.
L’ANAC comunque suggerisce che proprio la natura dei servizi in questione e l’importanza degli interessi alla cui tutela è preposta l’attività difensiva l’utilizzo anche per gli affidamenti di minor valore, del multi criterio che consente di selezionare il professionista cui affidare l’espletamento dei servizi legali richiesti attraverso sub-criteri tali in grado di valorizzare la qualità del legale sulla base di credenziali di esperienza e di competenza.
I criteri di valutazione delle offerte
I criteri di valutazione delle offerte all’uopo utilizzabili –nella competizione avviata attingendo i nominativi dall’albo– possono riguardare:
   a) la professionalità e adeguatezza dell’offerta desunta dal numero di servizi svolti dal concorrente affini a quelli oggetto dell’affidamento;
   b) le caratteristiche metodologiche dell’offerta desunte dall’illustrazione delle modalità di svolgimento delle prestazioni oggetto dell’incarico;
   c) il ribasso percentuale unico indicato nell’offerta economica. E’ molto importante rilevare –circa il valore (il punteggio) da attribuire al ribasso- che la giurisprudenza ha configurato come illegittimo il comportamento della stazione appaltante (invero del RUP) che individua criteri/sub-criteri che annullano la rilevanza del prezzo. I punti da assegnare all’offerta economica devono essere contingentati nell’ambito dei 30 punti come ora –per effetto del decreto legislativo correttivo– dispone l’articolo 95, comma 10 -bis (in questo senso il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 21.08.2017 n. 4044);
   d) i titoli accademici o professionali attinenti alla materia oggetto del servizio legale oggetto di affidamento.
I sub-criteri
Con riferimento ai sub-criteri e sub-pesi sulla base dei quali la commissione giudicatrice dovrà valutare la migliore offerta, a titolo meramente esemplificativo, il RUP può considerare che:
   – per il criterio di valutazione relativo alla professionalità e adeguatezza dell’offerta può farsi riferimento al numero e al valore economico degli incarichi pregressi assunti dal concorrente;
   – per il criterio di valutazione relativo alle caratteristiche metodologiche dell’offerta può farsi riferimento a proposte di miglioramento e di innovazione dei servizi offerti rispetto a quelli descritti nella documentazione di gara.
A ciascun criterio di valutazione debbano essere attribuiti, nei documenti di gara, i fattori ponderali secondo un principio di proporzionalità e adeguatezza e nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 95, comma 8, del codice
Per assicurare la qualità della prestazione, i fattori ponderali, per ciascun criterio, devono mantenersi all’interno di parametri da determinarsi anche avendo riguardo al tipo di formula prescelta.
Altre indicazioni dell’Autorità anticorruzione
Resta fermo che, qualora le esigenze del mercato suggeriscano di assicurare un maggiore confronto concorrenziale, anche per gli appalti “esclusi” le stazioni appaltanti, nell’esercizio della propria discrezionalità, possono ricorrere alle procedure ordinarie previste per gli appalti sopra soglia o a quelle semplificate per gli appalti sotto soglia.
Il rispetto dei suddetti principi informatori aiuta a garantire un uso efficiente del denaro pubblico e a prevenire corruzione e favoritismi (17.01.2018 - link a www.publika.it).

SEGRETARI COMUNALI: Relazione RPCT.
Domanda
È possibile avere qualche informazione aggiuntiva sulla Relazione annuale del responsabile della prevenzione e trasparenza? Va spedita all’ANAC? In termine è perentorio?
Risposta
La normativa di riferimento per la relazione annuale del Responsabile dell’anticorruzione e trasparenza (RPCT) è contenuta nell’articolo 1, comma 14, della legge 06.11.2012, n. 190 (legge Severino). In data 11.12.2017, l’ANAC ha pubblicato, nel suo sito web, il modello e le istruzioni per la compilazione della relazione riferita all’anno 2017, prevedendo che la pubblicazione vada effettuata entro il 31.01.2018.
Di seguito si riportano le seguenti ulteriori informazioni:
   • la relazione va compilata sul modello in formato excel, pubblicato nel sito dell’ANAC, seguendo le istruzioni ivi contenute;
   • non ci sono sostanziali modifiche rispetto a quella del 2016;
   • va pubblicata nel sito web dell’ente, entro il 31.01.2018, su Amministrazione trasparente>Altri contenuti>Prevenzione della Corruzione. Il termine non è perentorio ma è sempre bene rispettare la scadenza, peraltro prorogata di un mese e mezzo rispetto alle norme di legge;
   • non va spedita all’ANAC. Va trasmessa all’organo politico (Sindaco) e OIV o NdV. Nei casi in cui l’organo di indirizzo lo richieda o qualora il RPCT lo ritenga opportuno, quest’ultimo riferisce sull’attività svolta;
   • l’OIV o NdV (Nucleo di Valutazione) esamina la Relazione annuale del RPCT recante i risultati in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza;
   • per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e documenti aggiuntivi.
La scheda è composta da tre fogli excel:
   •1. Anagrafica. In questo foglio vanno inserite le informazioni relative al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o, laddove questa figura sia assente nell’amministrazione/società/ente, all’organo di indirizzo.
   •2. Considerazioni generali. In questo foglio vanno inserite le valutazioni del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza rispetto all’effettiva attuazione delle misure di prevenzione della corruzione e al proprio ruolo all’interno dell’amministrazione/società/ente.
   •3. Misure anticorruzione. In questo foglio vanno inserite informazioni sull’adozione e attuazione delle misure di prevenzione della corruzione formulando un giudizio sulla loro efficacia oppure, laddove le misure non siano state attuate, sulle motivazioni della mancata attuazione (16.01.2018 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI: Richiesta parere "Regolare funzionamento dei servizi comunali dell'Area amministrativa-contabile".
Gli enti locali possono ricorrere al mercato esterno di soggetti specializzati in grado di fornire un’attività di mero supporto e assistenza agli uffici comunali, mediante proprio personale, nel rispetto della vigente normativa disciplinante le modalità e procedure da seguire per la corretta stipulazione di detti contratti d’appalto, accertata comunque la compatibilità con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di affidare a soggetti terzi lo svolgimento di attività di supporto e di assistenza all’area amministrativa-contabile (gestione biblioteca, assistenza gestione tributi).
L’Ente rappresenta di versare in una situazione di oggettiva difficoltà operativa, a causa di una rilevante carenza di personale, e manifesta pertanto l’intenzione di provvedere a fornire supporto ad alcuni uffici mediante l’affidamento a ditte specializzate di determinate attività, al fine di consentire l’espletamento delle funzioni di competenza.
Si precisa inoltre che le attività di supporto avverranno sotto la direzione ed il coordinamento dei responsabili dei settori interessati e che la ditta aggiudicataria dovrà attenersi alle indicazioni dell’Amministrazione. Le modalità di prestazione dei servizi, da parte della ditta aggiudicatrice, saranno stabilite in un capitolato d’oneri accettato da entrambe le parti.
In via preliminare, si ritiene doveroso evidenziare che l'attività dello scrivente Servizio consiste nel fornire un ausilio giuridico in termini generali agli enti locali per le questioni che si presentano nel loro concreto operare, affinché questi possano assumere autonomamente le decisioni più opportune in relazione alle particolarità delle singole fattispecie da affrontare.
Alla luce di un tanto, si esprimono le considerazioni che seguono, inquadrando in linea generale la materia in esame, sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali reperiti al riguardo.
E’ da osservare che la magistratura contabile
[1] ha rimarcato che l’ambito di estensione dell’istituto concernente l’esternalizzazione dei servizi locali può riguardare tutti i cosiddetti servizi pubblici di rilevanza economica, rimanendo però escluse da tali fattispecie le funzioni pubbliche essenziali che il Comune deve svolgere direttamente tramite le proprie strutture, non potendo le medesime essere appaltate a soggetti esterni, in quanto si tratta di funzioni strettamente connaturate al soggetto pubblico che ne è titolare.
Ne consegue che per gli enti locali è possibile procedere all’attivazione di processi di esternalizzazione di servizi pubblici a rilevanza economica, purché tale scelta produca “economie di gestione”, dovendo invece necessariamente continuare ad essere svolte in via diretta, mediante l’imputazione dell’attività amministrativa alle proprie strutture, quelle attività che sono connaturate all’esistenza stessa dell’Ente, incluse tra queste ultime le attività dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
Nell’esaminare poi, nello specifico, la problematica inerente all’affidamento a terzi, anche disgiunto, dell’accertamento e della riscossione dei tributi comunali, la magistratura amministrativa ha fornito importanti delucidazioni. Ha precisato ad esempio la distinzione tra l’attività di riscossione in senso stretto delle entrate (tributarie e non) degli enti locali (per la quale è richiesta l’iscrizione all’albo ex art. 53 del d.lgs. 446/1997) e l’affidamento delle attività di supporto alla gestione, accertamento e riscossione delle predette entrate, evidenziando che qualora l’oggetto dell’appalto sia costituito dall’attività di supporto alla gestione, ecc., e non già dall’affidamento di una concessione del servizio di gestione, ecc., non viene in rilievo l’attribuzione di funzioni pubbliche, mentre si configura una mera attività di supporto alla gestione, accertamento e riscossione quando “il controllo e la responsabilità su tutte le attività di accertamento e riscossione rimane in capo alla stazione appaltante, attraverso l’utilizzo di modelli da questa predisposti, nonché attraverso il controllo e l’assunzione di responsabilità da parte del funzionario responsabile del Comune su tutte le attività svolte dall’aggiudicataria”.
[2]
In conclusione si ritiene percorribile quanto esplicitato da codesto Comune, in considerazione del fatto che, nella fattispecie prospettata, si tratta di garantire comunque un’attività di mero supporto agli uffici comunali, in un momento di incontestabile difficoltà, e non si configura la diversa ipotesi di esternalizzazione di servizi.
Appare possibile pertanto, alla stregua di quanto sopra riportato, il ricorso al mercato esterno di soggetti specializzati in grado di fornire un’attività di mero supporto e assistenza agli uffici comunali, mediante proprio personale, ovviamente nel rispetto della vigente normativa disciplinante le modalità e procedure da seguire per la corretta stipulazione di detti contratti d’appalto, accertata comunque la compatibilità con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica.
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[1] Cfr. Corte dei conti, sez. di controllo della regione Friuli Venezia Giulia, deliberazione n. 4/2017/PAR.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 5952/2012 e TAR Lazio, sez. II, sentenza n. 1105/2016. Tale orientamento è stato confermato anche dall’ANAC (cfr. parere n. 170 del 23.10.2013)
(10.01.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOCcnl statali, arretrati più vicini. Strada in discesa per l'una tantum già a febbraio. Dopo l'ok della Rgs, è arrivato il parere favorevole del cdm sul contratto delle funzioni centrali.
Strada in discesa per il pagamento degli arretrati agli statali già nella busta paga di febbraio. Dopo l'ok della Ragioneria dello stato (si veda ItaliaOggi del 17 gennaio) è arrivato anche il semaforo verde del governo.

Il consiglio dei ministri di ieri ha infatti autorizzato la ministra Marianna Madia a esprimere il parere favorevole dell'esecutivo sull'ipotesi di Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto funzioni centrali per il triennio 2016-2018.
L'intesa, sottoscritta il 23 dicembre scorso dall'Aran e dai sindacati, porterà nella busta paga di 240 mila lavoratori di agenzie fiscali, ministeri ed enti pubblici non economici (oltre ad Agid, Cnel ed Enac) aumenti medi mensili di 85 euro (assieme alla salvaguardia del bonus fiscale di 80 euro per chi lo percepisce) come previsto dall'intesa del 30.11.2016 che ha dato il via alla stagione dei rinnovi contrattuali, dopo anni di blocchi stipendiali, giudicati illegittimi dalla Consulta nel 2015 (sentenza n. 148). Ora l'ultimo «ostacolo» sulla strada che conduce al pagamento degli arretrati già a febbraio è rappresentato dalla Corte dei conti. Dopo il visto dei giudici contabili il nuovo Ccnl potrà essere definitivamente firmato.
La parte economica
Gli aumenti, in busta paga da marzo, varieranno da un minimo di 63 euro a un massimo di 117 euro. Grazie all'ulteriore tranche di 21-25 euro mensili prevista in funzione perequativa per le fasce retributive più basse, l'adeguamento risulterà di almeno 84 euro per tutti.
Le amministrazioni più ricche potranno inoltre contare su un surplus (dai 9 a i 14,5 euro a testa) nel salario accessorio. Gli arretrati relativi al biennio contrattuale 2016-2017 verranno invece corrisposti con un'una tantum di importo variabile (dai 370 euro della classe retributiva più bassa ai 712 di quella più alta, per una media di 492 euro).
La parte normativa
Molte le novità anche sul fronte normativo che adeguano il nuovo contratto ai principi della riforma Madia. Viene introdotto l'istituto delle ferie solidali, che consente ai dipendenti con figli minori in gravi condizioni di salute, che necessitino di una particolare assistenza, di poter utilizzare le ferie cedute da altri lavoratori. Più tutele per le donne vittime di violenza le quali, oltre al riconoscimento di appositi congedi retribuiti, potranno avvalersi anche di una speciale aspettativa. Per le vittime di violenza viene altresì prevista la possibilità di ottenere il trasferimento ad altra sede in tempi rapidi e con procedure agevolate.
Rafforzate le sanzioni a carico dei molestatori
In prima battuta l'autore della violenza incapperà in una sospensione (fino a un massimo di sei mesi). Ma in caso di reiterazione della condotta scatterà l'espulsione definitiva. Licenziamento anche per chi chiede regali sopra i 150 euro come scambio di favori.
Ampliate, inoltre, le tutele riconosciute in caso di malattie gravi che richiedano terapie salvavita (quali chemioterapia ed emodialisi). Le condizioni di miglior favore, prima previste per i soli giorni di assenza nei quali si effettuano le terapie, vengono estese anche al periodo successivo nel quale sia impossibile tornare al lavoro, per gli effetti invalidanti dovuti alle terapie effettuate. Il contratto ha inoltre recepito le nuove disposizioni sulle Unioni civili, prevedendo che tutte le tutele del contratto riferite al matrimonio riguardino anche ciascuna delle parti dell'unione civile.
E per finire viene confermato, in coerenza con lo spirito della riforma Madia, il tetto ai contratti precari nella p.a. Il contratto a tempo determinato non potrà superare i 36 mesi, prorogabili di altri 12 ma solo se in via eccezionale. Come nel privato, il numero dei dipendenti a termine non potrà andare oltre il 20% del totale (articolo ItaliaOggi del 20.01.2018).

ENTI LOCALIBanche dati aperte ai vigili. Al via l'integrazione dei sistemi di videosorveglianza. I chiarimenti del Viminale. Il 24 gennaio in Unificata le linee guida sulla sicurezza.
Al via la collaborazione fattiva dei sistemi di videosorveglianza urbana in uso alla polizia locale con la banca dati delle forze di polizia dello stato. In particolare con l'integrazione dei sistemi di lettura targhe comunali con il sistema nazionale targhe e transiti dei veicoli rubati. Ma prima di tutto occorrerà effettuare una valutazione in sede di comitato provinciale per l'ordine pubblico.

Lo ha chiarito la circolare del 12.01.2018 del dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell'Interno indirizzata a tutte le questure.
Il collegamento dei moderni sistemi di videosorveglianza cittadina con la banca dati dei veicoli rubati È un obiettivo imprescindibile della sicurezza urbana integrata introdotta dal pacchetto sicurezza dello scorso anno. Ma i limiti operativi della polizia municipale si riverberano pesantemente nell'effettiva attivazione del servizio.
Per cercare di assecondare le numerose richieste di collegamento che pervengono dai territori, il Viminale ha diramato le prime indicazioni concrete. L'accesso al sistema denominato Scntt (Sistema centralizzato nazionale targhe e transiti) È regolato da un decreto ad hoc, «che individua i trattamenti dati effettuati dalle forze di polizia in attuazione dell'art. 53 del codice per la protezione dei dati personali».
L'architettura di un sistema ibrido polizia locale e dello stato dovrà essere particolarmente articolata, prosegue la nota. Spetterà in ogni caso al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica esprimere una prima valutazione di fattibilità. Con una definizione analitica dei diversi ruoli e prerogative di tutti gli operatori coinvolti. E a tal fine il ministero metterà a disposizione un facsimile di protocollo d'intesa stato-comuni da adottare localmente.
L'integrazione delle due banche dati rappresenterà un primo tassello nella costruzione del sistema di sicurezza urbana integrata disegnato dal decreto Minniti (dl 14/2017 convertito nella legge n. 48/2017). Il principale arriverà molto probabilmente la prossima settimana con l'adozione delle linee generali sulla sicurezza da parte della Conferenza unificata, appositamente anticipata dall'8 febbraio al 24 gennaio. In assenza di linee guida, infatti, l'utilizzo da parte dei comuni degli strumenti previsti dal decreto Minniti è stata molto eterogenea sul territorio nazionale.
Il riferimento è soprattutto all'ordine di allontanamento (cosiddetto mini Daspo urbano) che ai sensi del dl può essere comminato dalla polizia municipale nei confronti di chi limita la libera accessibilità di alcuni luoghi pubblici «sensibili» (ferrovie, aeroporti, porti, stazioni del trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, art. 9, commi 1 e 2).
In caso di reiterazione, il questore, qualora dalla condotta possa derivare pericolo per la sicurezza, potrà disporre il Daspo vero e proprio per un periodo non superiore a sei mesi. Sull'applicazione dei due istituti, distinti ma connessi tra loro, ha acceso i riflettori l'Anci che ha avviato una ricognizione per verificare la risposta dei comuni alle nuove prerogative in materia di sicurezza offerte dal decreto Minniti (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOElezioni, straordinari extra a carico dei comuni.
Le eccedenze di straordinario del personale comunale nel periodo elettorale resteranno a carico dei sindaci. Per periodo elettorale si intende il periodo che va dal giorno 08.01.2018, cinquantacinquesimo giorno antecedente la data delle consultazioni, fino al 09.03.2018, quinto giorno successivo al giorno del voto.

Lo ha chiarito la direzione centrale finanza locale del Ministero dell'Interno con la circolare 08.01.2018 n. 1/2018 inviata alle prefetture.
Il monte ore individuale mensile per le esigenze lavorative connesse con le elezioni (nazionali e regionali), ricorda la nota, è fissato entro il limite medio di spesa di 40 ore mensili per persona fino ad un massimo individuale di 60 ore mensili. La circolare del Viminale ricorda che la determina che autorizza l'effettuazione degli straordinari del personale addetto agli uffici elettorali deve essere adottata preventivamente, pena l'inibizione nel pagamento dei compensi.
Nella determinazione autorizzativa devono essere indicati i nominativi del personale previsto e, a fianco di ciascun nominativo, il numero di ore di lavoro straordinario da effettuare e le funzioni da assolvere.
Le suddette determinazioni devono essere adottate, per legge, dai responsabili dei servizi, così come individuati dall'art. 107 del Tuel. L'importo massimo per straordinari che potrà essere assegnato a ciascun municipio sarà comunicato non appena il Viminale conoscerà dal Mef l'ammontare del finanziamento disposto. Nel frattempo, la direzione finanza locale ha sollecitato i comuni a contenere le spese per straordinario nei limiti strettamente indispensabili, in quanto, come detto, eventuali eccedenze rispetto all'importo massimo assegnabile resteranno a carico degli enti medesimi.
Sempre con una nota diffusa ieri (circolare 16.01.2018 n. 3/2018) la direzione finanza locale del Mininterno ha comunicato gli importi per presidenti di seggio e scrutatori impegnati ai seggi. Si va dai 187 euro per i presidenti (e 145 per scrutatori e segretari) delle elezioni politiche ai 224 euro (170 per il resto del seggio) in caso di abbinamento di elezioni politiche e regionali (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

LAVORI PUBBLICICollaudi, 10% della spesa tetto massimo per i servizi. Previsto dal decreto del Mit attuativo del codice dei contratti.
Per il collaudo di opere complesse affidate a contraenti generali si potranno affidare incarichi di supporto e di indagine a servizio della commissione di collaudo, con il limite del 10% della spesa complessivamente prevista per i collaudatori.

Lo prevede il decreto del ministero delle infrastrutture del 07.12.2017 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16.01.2018 che definisce le modalità e i limiti di spesa per i servizi di supporto e di indagine per il collaudo di infrastrutture di grande rilevanza o complessità affidate con la formula del contraente generale.
Si tratta di uno dei numerosi provvedimenti attuativi del codice dei contratti (dlgs, n. 50/2016 e successive modificazioni). In questo caso la norma che viene attuata è il comma 2 dell'articolo 196 che fa parte della più ampia disciplina del contraente generale (articoli da 194 a 199 del codice).
In particolare, la disposizione del codice dei contratti pubblici precisa che, per le infrastrutture di grande rilevanza o complessità, il soggetto aggiudicatore può autorizzare le commissioni di collaudo ad avvalersi dei servizi di supporto e di indagine di soggetti specializzati nel settore. Gli oneri relativi sono a carico dei fondi a disposizione del soggetto aggiudicatore per la realizzazione delle predette infrastrutture secondo modalità e limiti stabiliti con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze.
Va notato che la disposizione del codice prevede una precisa disposizione sull'incompatibilità dell'affidatario dell'incarico di supporto al collaudo; non potrà avere rapporti di collegamento con chi ha progettato, diretto, sorvegliato o eseguito in tutto o in parte l'infrastruttura.
Una norma molto netta e chiara che va anche oltre le sentenze della Corte Ue sulle incompatibilità laddove prevedono sempre la prova della mancanza di effetti distorsivi sulla concorrenza in capo al soggetto potenzialmente incompatibile.
Nel decreto si stabilisce che la stazione appaltante che abbia affidato infrastrutture di grande rilevanza o complessità con la formula del contraente generale, sulla base di motivata richiesta della commissione di collaudo e prima dell'emissione del certificato di collaudo, può autorizzare la stessa ad avvalersi di soggetti specializzati per lo svolgimento di servizi di supporto e di indagine finalizzati alle operazioni di collaudo.
La scelta del soggetto che dovrà essere affidatario dei servizi di supporto dovrà essere scelto comunque con le procedure di affidamento previste dal codice dei contratti pubblici; si dovrà comunque trattare di un soggetto specializzato nelle materie di interesse. Il decreto prevede anche un limite massimo alla spesa per l'affidamento dei servizi di supporto: non potranno superare il 10% del valore dei compensi previsti per la commissione di collaudo.
Della spesa si dovrà avere evidenza nel quadro economico nell'ambito delle spese generali e per imprevisti, in maniera distinta dalle spese per verifiche tecniche, collaudi specialisti e accertamenti di laboratorio già previsti in contratto (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

SICUREZZA LAVOROSicurezza. Formazione, decide il datore.
Spetta al datore di lavoro scegliere a chi affidare il compito di fornire l'informazione ai propri dipendenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello n. 2/2017, in data 16.01.2018 n. 847/2018 di prot., in risposta all'Unione generale del lavoro (Ugl) che ha chiesto alla commissione di fornire l'interpretazione corretta del combinato disposto degli artt. 31 e 36 del dlgs n. 81/2008 (T.U. sicurezza), con particolare riferimento alla necessità che l'informazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro venga impartita in «forma prioritaria ed esclusiva» dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp).
La commissione, innanzitutto, richiama l'art. 2, comma 1, lett. bb), del Tu sicurezza, il quale definisce l'informazione quale «complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili all'identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro». Ciò posto fa notare che, ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. l) dello stesso Tu sicurezza, è posto a carico del datore di lavoro e del dirigente l'obbligo di «adempiere agli obblighi d'informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37» del Tu sicurezza. Di questi articoli, il 36 precisa i casi in cui è obbligatorio provvedere a una «adeguata informazione» e specifica che è il datore di lavoro a dovervi provvedere, nonostante non sia un obbligo non delegabile a terzi per quanto previsto dall'art. 17 del Tu.
Infine, l'art. 33, comma 1, lett. f) del Tu sicurezza, elencando i «compiti» dell'intero servizio di prevenzione e protezione dai rischi, e non quindi solamente quelli del suo responsabile (Rspp), specifica che vi è anche quello di «fornire ai lavoratori le informazioni di cui all'articolo 36». Tutto ciò premesso, la commissione conclude nel ritenere che rientra nella scelta del datore di lavoro decidere, caso per caso, a chi affidare l'onere di erogare l'adeguata informazione a ciascuno dei propri lavoratori (articolo ItaliaOggi del 18.01.2018).

ENTI LOCALI - VARILa multa adesso arriva pure via Posta elettronica certificata.
Multe notificate via Posta elettronica certificata. La regolamentazione è contenuta nel decreto del ministero dell'interno 18.12.2017 di «Disciplina delle procedure per la notificazione dei verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite Posta elettronica certificata», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16.01.2018.
Il dm dà attuazione alla legge 09.08.2013, n. 98, la quale all'art. 20, comma 5-quater, prevede che con decreto siano «disciplinate, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le procedure per la notificazione dei verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite Posta elettronica certificata».
Il dm si applica al procedimento di notificazione dei verbali di contestazione, redatti dagli organi di polizia stradale a seguito dell'accertamento di violazioni del codice della strada, osservando le regole del Codice dell'amministrazione digitale (Cad) e del dpr 68/2005. La notificazione via Pec è consentita nei confronti: di colui che ha commesso la violazione, se è stato fermato ed identificato al momento dell'accertamento dell'illecito ed abbia fornito un valido indirizzo Pec, ovvero abbia un domicilio digitale; del proprietario del veicolo con il quale è stata commessa la violazione, ovvero di un altro soggetto obbligato in solido con l'autore della violazione, quando abbia domicilio digitale ovvero abbia, comunque, fornito un indirizzo Pec all'organo di polizia procedente, in occasione dell'attività di accertamento dell'illecito.
Se l'indirizzo Pec non è stato comunicato al momento della contestazione, ovvero qualora la contestazione della violazione non sia stata effettuata al momento dell'accertamento dell'illecito, l'indirizzo Pec dell'interessato deve essere ricercato nei pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni elettroniche.
La ricevuta di avvenuta consegna della Pec fa piena prova dell'avvenuta notificazione del contenuto del messaggio ad essa allegato. Messaggio che contiene intanto la dizione «di atto amministrativo relativo ad una sanzione amministrativa prevista dal codice della strada» e poi una relazione di notificazione con denominazione esatta e l'indirizzo dell'amministrazione, indicazione del responsabile del procedimento di notificazione, indirizzo e telefono dell'ufficio, indirizzo di Posta elettronica certificata a cui gli atti o provvedimenti vengono notificati, copia per immagine su supporto informatico di documento analogico del verbale di contestazione, ogni altra comunicazione o informazione utile al destinatario per esercitare il proprio diritto alla difesa ovvero ogni altro diritto o interesse tutelato.
Se la notificazione mediante Pec non sia possibile per causa imputabile al destinatario, la notifica del materiale avverrà nei modi e nel rispetto delle forme e dei termini del codice della strada, con oneri a carico del destinatario (articolo ItaliaOggi del 17.01.2018).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHENessuna incertezza sugli incentivi ai tecnici.
Gli incentivi per le funzioni tecniche negli appalti non rientrano nel tetto della spesa per la contrattazione decentrata e non debbono essere finanziati dal connesso fondo.

Sono le inevitabili conseguenze dell'articolo 1, comma 526, della legge 205/2017, che ha inserito nell'articolo 113 del codice dei contratti il seguente nuovo comma 5-bis: «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Secondo alcuni commentatori ed operatori, la norma non sarebbe di per sé sufficiente a risolvere il problema posto dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Corte dei conti. Infatti, secondo questa linea interpretativa prudenziale o dubitativa, manca nel nuovo comma 5-bis del dlgs 50/2016 la precisazione espressa che gli incentivi non transitano nel fondo delle risorse decentrate o che, comunque, non entrano nel tetto della spesa per i trattamenti accessori.
Indubbiamente il legislatore avrebbe potuto essere meno laconico; la circostanza che in modo diffuso questa estrema sintesi porti molti a esprimere teorie restrittive aprirà verosimilmente la stura ad un enorme contenzioso davanti al giudice del lavoro, esito del quale difficilmente potrà essere la condivisione dell'inclusione delle spese per gli incentivi nel tetto della spesa della contrattazione collettiva, che significa, in termini concreti, sottrarre a tutti gli altri dipendenti le risorse destinate ad incentivare le funzioni tecniche.
Ma, tali tesi dubitative non considerano la circostanza che il nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 del Codice dei contratti pone nel nulla drasticamente la motivazione in base alla quale la sezione autonomie ha tratto il principio di diritto enunciato nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
La sezione, infatti, fonda la propria conclusione così: «nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)». Una volta, però, che la legge stabilisce espressamente che gli incentivi fanno capo al capitolo di spesa previsto per i contratti di lavori servizi e forniture, devono trarsi due necessarie conclusioni.
Per quanto riguarda i lavori, poiché sono finanziati con capitoli di spesa di investimento, il ragionamento della sezione autonomie risulta del tutto privato di ogni sostegno e non più giuridicamente fondato. Ma, anche per forniture e servizi, la precisazione della fonte di provenienza degli incentivi, cioè i relativi capitoli di spesa, deve far ritenere che detti incentivi non transitino nel fondo della contrattazione decentrata e ne restino fuori, sì da non poter essere computati nel tetto della spesa contrattuale.
La legge, semmai, ha il difetto di non aver messo in evidenza l'altro elemento critico dell'interpretazione della sezione autonomie. La
deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha ritenuto, infatti, che gli incentivi per le funzioni tecniche «non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla p.a. come risulta anche dal chiaro disposto dell'art. 113, comma 3, dlgs n. 50/2016».
Si tratta di conclusioni non condivisibili. Infatti, il personale destinatario degli incentivi non solo può, ma deve essere specificamente individuato, secondo i criteri che le amministrazioni sono obbligate a definire nel regolamento imposto dall'articolo 113, comma 2, del dlgs 50/2013. In secondo luogo, il comma 3 del medesimo articolo 113, diversamente da quanto afferma la sezione autonomie, non condiziona per nulla l'incentivo alla possibilità di acquisire le prestazioni da incentivare dall'esterno (articolo ItaliaOggi del 16.01.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOLavoratrici dipendenti, ci vuole un anno in più per la pensione. Vecchiaia e anticipata: i requisiti operativi dal 2018 introdotti dalla riforma Fornero.
Donne più tempo a lavoro. Da quest'anno, infatti, vanno in pensione più tardi: esattamente un anno più tardi se lavoratrici dipendenti, sei mesi più tardi se lavoratrici autonome.

La novità è frutto della riforma Fornero delle pensioni del 2011, secondo il piano degli incrementi d'età verso il traguardo dei 67 anni fissato per l'anno 2021.
In realtà, il traguardo sarà raggiunto già dal prossimo 01.01.2019 quando, per effetto della «speranza di vita» (decreto pubblicato sulla G.U. n. 289/2017 del 12.12.2017), tutti i requisiti delle pensioni dovranno salire di 5 mesi per il biennio 2019/2020, salvo alcune eccezioni previste dalla legge Bilancio 2018 (si veda altro articolo).
Quattro vie per pensionarsi. Le «pensioni ordinarie» (i trattamenti, cioè, che ordinariamente sono conseguiti da chi lavora dopo un certo numero di anni di attività e dopo aver maturato una certa età) sono due: vecchiaia e anticipata.
Per ognuna delle due pensioni sono previste due categorie di requisiti: una per i lavoratori in regime «retributivo» o «misto» (cioè lavoratori che hanno iniziato a lavorare prima del 01.01.1996); un'altra per i lavoratori in regime «contributivo» (cioè lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 31.12.1995).
Di conseguenza, le «vie» per pensionarsi diventano quattro: due per ognuna delle due pensioni. Vediamo i requisiti di pensionamento validi dal 01.01.2018.
Pensione di vecchiaia. Per accedere alla «pensione di vecchiaia» occorre aver maturato una certa età (requisito anagrafico) e occorre, inoltre, essere in possesso di un minimo di anni di contributi (requisito contributivo).
Le novità in vigore da gennaio 2018 riguardano il requisito anagrafico che, già dal 01.01.2016, è andato sempre peggiorando per due ragioni: per l'incremento di 4 mesi per effetto della variazione della «speranza di vita» (il prossimo aumento ci sarà il 01.01.2019); per gli aumenti programmati dalla riforma Fornero.
La batosta, in particolare, c'è stata per le donne lavoratrici autonome e dipendenti del settore privato; alle donne occupate nel settore pubblico, invece, i requisiti già erano stati maggiorati negli anni passati.
Lavoratori del sistema «retributivo» o «misto». Nell'anno 2017 questi lavoratori potevano conseguire il diritto alla pensione di vecchiaia in presenza di almeno 20 anni di contributi e un'età pari a:
   a) 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato;
   b) 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome e le lavoratrici iscritte alla gestione separata;
   c) 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti e le lavoratrici dipendenti del settore pubblico, per i lavoratori dipendenti del settore privato, nonché per i lavoratori autonomi e i lavoratori iscritti alla gestione separata sempre del settore privato.
Dal 01.01.2018 possono conseguire il diritto alla pensione di vecchiaia, ferma restando la presenza di almeno 20 anni di contributi, con un'età pari a:
   d) 66 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato (+ 1 anno);
   e) 66 anni e 7 mesi per le lavoratrici autonome e le lavoratrici iscritte alla gestione separata (+ 6 mesi);
   f) 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti e le lavoratrici dipendenti del settore pubblico, per i lavoratori dipendenti del settore privato, nonché per i lavoratori autonomi e i lavoratori iscritti alla gestione separata sempre del settore privato.
Ai fini del raggiungimento del requisito contributivo (20 anni) è valutabile la contribuzione a qualsiasi titolo versata o accreditata in favore del lavoratore.
Lavoratori del sistema «contributivo». Nell'anno 2017 questi lavoratori hanno avuto due vie per il diritto alla pensione di vecchiaia.
A) Prima via:
   - con almeno 20 anni di contribuzione e un'età pari a:
      a) 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato;
      b) 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome (artigiane, commercianti ecc.) e le lavoratrici parasubordinate (iscritte alla gestione separata);
      c) 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti (privato e pubblico), le lavoratrici dipendenti del settore pubblico, i lavoratori autonomi e quelli iscritti alla gestione separata;
   - a condizione di aver diritto a una pensione d'importo non inferiore a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale (c.d. «importo soglia»), fissato con riferimento all'anno 2012, cioè euro 644,12 mensili (1,5 volte l'importo dell'assegno sociale dell'anno 2012 che è pari euro 429,41 mensili). Ai fini del raggiungimento dell'anzianità contributiva (20 anni) si tiene conto di tutta la contribuzione a qualsiasi titolo versata o accreditata al lavoratore. Inoltre, sono riconosciuti i seguenti periodi di accredito figurativo:
      • per assenza dal lavoro per periodi di educazione e assistenza dei figli fino al sesto anno di età in ragione di 170 giorni per ciascun figlio;
      • per assenza dal lavoro per assistenza a figli dal sesto anno di età, al coniuge e al genitore purché conviventi (art. 3 della legge n. 104/1992), per la durata di 25 giorni complessivi l'anno, nel limite massimo complessivo di 24 mesi.
B) Seconda via:
   - all'età di 70 anni e 7 mesi in presenza di almeno 5 anni di contributi «effettivi», a prescindere dall'importo della pensione. Attenzione; ai fini del requisito di 5 anni di contributi è utile solo la contribuzione effettivamente versata (obbligatoria, volontaria, da riscatto) con esclusione di quella accreditata figurativamente a qualsiasi titolo (maternità, malattia, ecc.).
Dal 01.01.2018 restano le due vie per maturare il diritto alla pensione di vecchiaia, ma con le seguenti variazioni:
A) Prima via:
   - almeno 20 anni di contribuzione e un'età pari a:
      d) 66 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato (+ 1 anno);
      e) 66 anni e 7 mesi per le lavoratrici autonome (artigiane, commercianti, ecc.) e le lavoratrici parasubordinate iscritte alla gestione separata (+ 6 mesi);
      f) 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti (privato e pubblico), le lavoratrici dipendenti del settore pubblico, i lavoratori autonomi e quelli iscritti alla gestione separata;
   - a condizione che l'importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale (c.d. «importo soglia»).
B) Seconda via:
   - all'età di 70 anni e 7 mesi in presenza di almeno 5 anni di contributi «effettivi», a prescindere dall'importo della pensione.
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Speranza di vita, aumenti limitati. Niente aggiunta di cinque mesi del requisito d'età (dal 2019) nel caso di lavori gravosi.
Il tempo si è fermato per maestre d'asilo, facchini, spazzini e operai agricoli. Almeno dal punto di vista pensionistico, infatti, per tali categorie di lavoratori (e per altre che appartengono ai c.d. «lavori gravosi») non ci sarà il programmato aumento di cinque mesi del requisito d'età ai fini del pensionamento (vecchiaia e/o anzianità) decorrente dal prossimo 01.01.2019.
A stabilirlo è la legge Bilancio 2018 che ha modificato il criterio di calcolo della speranza di vita.
La «speranza di vita».
Quando andrò in pensione? Quanto prenderò di pensione? Le variabili che condizionano sia l'accesso alla pensione e sia la misura sono due: l'età anagrafica e i contributi versati all'Inps. Un tempo l'età anagrafica era fissata per legge ed era immodificabile se non per mezzo di una nuova legge.
Oggi, invece, vige un particolare criterio che, automaticamente, senza necessità di un intervento specifico da parte di una legge, produce aumenti al requisito d'età per l'accesso a tutte le pensioni in misura pari alla variazione della c.d. «speranza di vita». Questa «speranza di vita» altro non è che un modo per indicare l'indice statistico, calcolato dall'Istat, che misura la probabilità di vita: se la vita si allunga, automaticamente si elevano anche tutti i requisiti anagrafici (l'età) per la pensione.
L'ultimo adeguamento alla speranza di vita c'è stato il 01.01.2016, quando tutti i requisiti hanno subito l'innalzamento di quattro mesi; il precedente e primo adeguamento c'era stato a gennaio 2013. Il prossimo adeguamento, il terzo, ci sarà dall'anno 2019 e d'allora in avanti gli aumenti saranno biennali. Qui, tuttavia, è intervenuta la legge di Bilancio 2018, introducendo alcune novità.
Il calcolo della speranza di vita.
In primo luogo ha modificato il meccanismo di calcolo dell'adeguamento, a partire dal 2021, prevedendo che si deve far riferimento alla media dei valori della probabilità di vita registrati nei singoli anni del biennio di riferimento rispetto alla media dei valori registrati nei singoli anni (dello stesso biennio precedente). Finora, invece, si è fatto riferimento alla differenza di valore tra l'ultimo anno del biennio (o del triennio di riferimento) e l'ultimo anno del periodo precedente; e così ancora sarà per l'adeguamento che ci sarà dal 2019.
Per l'adeguamento successivo (decorrente dal 2021 e per il quale il biennio di riferimento è costituito dagli anni 2017-2018) si farà riferimento alla differenza tra la media dei valori registrati nei singoli anni del suddetto biennio 2017-2018 e il valore registrato nell'anno 2016. Per gli adeguamenti ancora successivi, si dovrà fare riferimento alla media dei valori registrati nei singoli anni del biennio di riferimento rispetto alla media dei valori registrati nei singoli anni del biennio precedente.
Un limite all'adeguamento.
In secondo luogo la legge Bilancio ha stabilito che, a partire dall'adeguamento previsto dal 01.01.2021:
   • gli aumenti della speranza di vita non potranno essere superiori a 3 mesi (con recupero dell'eventuale eccedenza in occasione dell'adeguamento o degli adeguamenti successivi);
   • gli adeguamenti non avranno luogo qualora la variazione sia di segno negativo, salvo, anche in questo caso, il recupero della variazione negativa in sede di adeguamenti successivi mediante compensazione con gli eventuali incrementi).
Gli «esentati» dalla speranza di vita.
In terzo luogo ha previsto l'esclusione dall'incremento della speranza di vita, pari a 5 mesi con decorrenza dal 01.01.2019, dei requisiti per la pensione di vecchiaia e per la pensione anticipata nelle seguenti situazioni:
   • lavoratori dipendenti che svolgano da almeno 7 anni, nell'ambito dei 10 anni precedenti il pensionamento, le professioni di cui all'allegato B alla legge Bilancio 2018 (si veda tabella) e che siano in possesso di un'anzianità contributiva pari ad almeno 30 anni;
   • lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (cd «usuranti», ex dlgs n. 67/2011), a condizione che le stesse attività usuranti siano svolte al momento dell'accesso al pensionamento e siano state svolte per una certa durata nel corso della carriera lavorativa e i lavoratori siano in possesso di anzianità contributiva non inferiore a 30 anni;
   • lavoratori precoci;
   • soggetti che godano, al momento del pensionamento, dell'Ape sociale.
Alle precedenti categorie di lavoratori, inoltre, la legge Bilancio ha stabilito anche l'esclusione dall'elevazione del requisito d'età per la pensione di vecchiaia a 67 anni, previsto a partire dal 01.01.2021 dalla riforma Fornero (art. 24, comma 9, del dl n. 201/2011), come norma di principio generale (a prescindere, cioè, dall'esito degli automatici adeguamenti che ci saranno fino al 31.12.2020).
La legge Bilancio ha demandato a un decreto, da emanarsi entro il 31 gennaio, la definizione delle modalità attuative delle nuove norme, con particolare riguardo alle specificazioni delle professioni gravose e alle procedure per presentare la domanda di accesso al beneficio e per la verifica della sussistenza dei requisiti da parte dell'Inps.
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Pensione anticipata, contano i contributi.
La pensione anticipata (ex pensione di anzianità) ha la particolarità di poter essere conseguita solo con il requisito contributivo (quindi a qualunque età). Anche in tal caso vanno distinte due situazioni:
   - lavoratori con contributi già versati al 31.12.1995 (lavoratori, cioè, del regime «retributivo» o «misto»);
   - lavoratori che hanno iniziato a lavorare e pagare contributi dal 01.01.1996 (lavoratori, cioè, del regime «contributivo»).
Lavoratori del sistema «retributivo» o «misto». Come l'anno scorso, anche nel 2018 possono conseguire la pensione anticipata con le seguenti anzianità contributive, valutando tutti i contributi a qualsiasi titolo versati o accreditati:
   • uomini = 42 anni e 10 mesi;
   • donne = 41 anni e 10 mesi.
Lavoratori del sistema «contributivo». Come l'anno scorso, anche nel 2018 hanno avuto due vie per maturare il diritto alla pensione anticipata.
A) Prima via. Con le seguenti anzianità contributive:
   • uomini = 42 anni e 10 mesi;
   • donne = 41 anni e 10 mesi.
In tal caso si valutano tutti i contributi a qualsiasi titolo versati o accreditati con esclusione dei contributi volontari; i contributi da lavoro versati prima dei 18 anni d'età vengono moltiplicati per 1,5 (valgono cioè una volta e mezzo).
B) Seconda via: al compimento di 63 anni e 7 mesi in presenza di almeno 20 anni di contributi «effettivi» (obbligatori, volontari, riscatto, esclusi contributi figurativi) e a condizione che l'ammontare mensile della prima rata di pensione risulti non inferiore a un importo soglia mensile, pari a 2,8 volte l'importo mensile dell'assegno sociale nel 2012: cioè 1.202,35 euro mensili (l'importo dell'assegno sociale dell'anno 2012 era pari a 429,41 mensili) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.01.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPiù tempo con i figli per i papà. Congedi da 2 a 4 giorni. E uno al posto della mamma. Dall'1/1 si è allungata l'astensione obbligatoria fruibile entro i cinque mesi dalla nascita.
Raddoppia il congedo obbligatorio per i papà lavoratori dipendenti. Dal 1° gennaio, infatti, il periodo obbligatorio di astensione dal lavoro, da fruire entro i cinque mesi dalla nascita di un figlio, passa da due (fino al 31.12.2017) a quattro giorni, da godere anche in via non continuativa. Sempre dal 1° gennaio, inoltre, il papà lavoratore dipendente può astenersi dal lavoro per un ulteriore giorno in sostituzione della madre che rinunci a un giorno di congedo obbligatorio a lei spettante.

Le novità arrivano dall'art. 1, comma 354, della legge di Bilancio 2017 (legge n. 232/2016) che, da una parte ha prorogato fino al 31.12.2018 la misura a sostegno della genitorialità e della maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli prevista dalla riforma Fornero (legge n. 92/2012), e dall'altro ha previsto un giorno in più di congedo facoltativo scambiabile tra i coniugi.
Raddoppia il congedo obbligatorio. Dal 1° gennaio, dunque, ai papà lavoratori dipendenti spetta il doppio di giorni di «congedo obbligatorio»: quattro anziché due.
Tale congedo, come dice la parola stessa, costituisce un «obbligo» vero e proprio di astensione dal lavoro.
Per quattro giorni, consecutivi o in più tappe a sua scelta, comunque nei primi cinque mesi di vita del figlio, il papà deve lasciare il lavoro per restare a casa e dedicarsi al neonato.
La fruizione va fatta sempre per giornate intere di lavoro, una o due, perché per espressa previsione di legge non è possibile il frazionamento a ore.
La fruizione, inoltre, può avvenire anche mentre il coniuge (madre del neonato) sta fruendo del congedo di maternità. Il congedo di maternità, si ricorda, riconosce alla madre lavoratrice dipendente l'obbligo di astenersi dal lavoro per un totale di cinque mesi da suddividere prima e dopo la nascita. Ordinariamente la ripartizione è due mesi prima della data presunta del parto e tre mesi dopo la nascita; ma la lavoratrice può decidere di posticipare fino a un mese il periodo di astensione obbligatoria prima della data presunta del parto, al fine di allungare (di conseguenza) quello post partum che così può arrivare fino a quattro mesi (è la c.d. «flessibilità» del congedo di maternità).
Ovviamente, poiché la legge impone al papà di fruire del congedo obbligatorio «nei primi cinque mesi di vita del figlio», la sua astensione in contemporanea al congedo di maternità del coniuge può avvenire soltanto nel periodo post partum.
Riguardo alla durata del congedo obbligatorio Fornero, l'Inps ha precisato che, analogamente a quanto disposto per il congedo di maternità, la durata non subisce variazioni in caso di parto plurimo.
Ciò significa, in altre parole, che in caso di parto gemellare o plurigemellare il papà avrà sempre e comunque diritto/obbligo a quattro giorni di congedo.
Va considerato, infine, che nei casi di morte o grave infermità della madre o di abbandono del figlio da parte della madre, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre, il papà ha diritto al «congedo di paternità»: diritto ad assentarsi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità che sarebbe spettata alla madre lavoratrice dipendente o, se già in parte fruito, per la parte residua.
La ricorrenza di quest'ipotesi non pregiudica al papà il diritto al nuovo congedo obbligatorio di quattro giorni che, di conseguenze, va a sommarsi al periodo di congedo di paternità.
Trattamento durante le assenze. Il congedo obbligatorio Fornero è retribuito e coperto da contributi.
In particolare, il papà ha diritto a percepire, per i quattro giorni di astensione, un'indennità a giornaliera a carico Inps pari al 100 per cento della retribuzione e sempre a carico dell'Inps c'è pure la contribuzione (c.d. «figurativa»). L'indennità è corrisposta al lavoratore dal datore di lavoro, il quale la recupera mediante conguaglio con i contributi che deve versare mensilmente all'Inps.
La richiesta del congedo. Il papà che intende fruire del congedo obbligatorio deve darne comunicazione in forma scritta al proprio datore di lavoro, specificando il giorno o i giorni in cui vorrebbe assentarsi. La comunicazione va fatta con un anticipo non inferiore a 15 giorni, ove possibile in relazione all'evento nascita, sulla base della data presunta del parto (si veda facsimile in pagina).
Un giorno di congedo facoltativo. È la nuova opportunità in vigore dal 01.01.2018; in verità, un simile congedo facoltativo di due giorni è rimasto in vigore fino al 31.12.2016 (non è stato invece prorogato, come lo è stato il congedo obbligatorio, per l'anno 2017).
Il nuovo congedo dà opportunità al padre, lavoratore dipendente, di fruire di un ulteriore giorno di astensione dal lavoro.
A differenza del congedo obbligatorio di quattro giorni, il quale spetta incondizionatamente, il congedo facoltativo è subordinato alla scelta del coniuge (madre del neonato), anch'essa lavoratrice dipendente, di non fruire di un giorno del proprio congedo di maternità.
Non è previsto un termine per fruire del congedo facoltativo; però poiché è condizionato all'alternativa fruizione da parte della madre, appare logico che la fruizione possa avvenire entro il termine di validità del diritto al congedo di maternità da parte della mamma (ordinariamente entro i primi tre mesi di vita del figlio) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.01.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa legge di bilancio non libera dai tetti gli incentivi tecnici. Personale. Interpretazione ancora da chiarire.
Sugli incentivi per le funzioni tecniche, l'intervento della legge di bilancio 2018 non consente di dormire sonni tranquilli. Viene specificato che questi compensi sono finanziati dai capitoli di spesa su cui gravano i costi dell'opera, ma non risulta immediata la loro esclusione dal tetto del salario accessorio.
Ma andiamo con ordine.
Con l'approvazione del nuovo codice degli appalti (Dlgs 5012016) i vecchi compensi Merloni vengono trasformati in incentivi per le funzioni tecniche, aventi per oggetto non più la progettazione ma le attività amministrative che attengono alle gare di appalto. Questo aveva fatto sorgere il dubbio che fosse venuto meno il presupposto per il quale la Corte dei Conti ne aveva decretato, a suo tempo, l'esclusione dal tetto per il trattamento economico accessorio. Le sezioni Riunite, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, avevano individuato nella prestazione professionale specialistica offerta da soggetti qualificati il motivo dell'esclusione.
Il dubbio è divenuto certezza quando la questione è stata rimessa alla sezione Autonomie, la quale ha affermato che i nuovi incentivi rientrano nel vincolo previsto dal comma 236 della legge 208/2015, oggi traslato nell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Conseguenza immediata è stata il blocco della contrattazione decentrata, ponendo gli enti di fronte a un bivio: o ripagano i compensi per le funzioni tecniche oppure si corrispondono i premi per la performance. La soluzione non poteva che essere legislativa, arrivata con l'emendamento proposto dall'Unitel, l'unione dei tecnici degli enti locali (comma 526 della legge 205/2017): all'articolo 113 del D.Lgs. 50/2016 viene aggiunto un comma nel quale si prevede che gli incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Ovviamente l'Unione canta vittoria: se i compensi fanno capo ai capitoli dell'opera non devono più transitare per il fondo decentrato e, di conseguenza, sono escluse dal tetto al salario accessorio. Ma la conseguenza non è così matematica, per una serie di motivazioni.
In primis
non è stata abrogata la norma contrattuale (articoli 15 e 17 del contratto nazionale del 01.04.1999) che obbliga l'ente a far transitare dal fondo i compensi previsti a favore del personale da norme di legge. Non c'è poi dubbio che gli incentivi mantengano la loro natura di trattamento accessorio e, nel nostro ordinamento, sono presenti voci del salario accessorio che non vengono finanziate dal fondo e che sono soggette al tetto. Ne è un esempio la retribuzione di posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa negli enti privi di dirigenza.
Nel dossier di Camera e Senato, a commento del comma 526, viene precisato che «per approfondire la tematica relativa al computo della spesa di personale della Pa per tali incentivi, si rinvia a due recenti pronunce della Corte dei Conti, la
deliberazione 29.06.2017 n. 58 della sezione ligure e la deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie». Come dire: a livello di spesa di personale (e quindi di vincoli) con la manovra non sarebbe cambiato nulla.
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Tre ostacoli
01 - IL CONTRATTO
Gli articoli 15 e 17 del contratto nazionale del 01.04.del 1999 obbligano gli enti locali a far transita re dal fondo decentrato i compensi previsti per il personale da norme di legge. Questo ostacolo dovrebbe essere superato dal nuovo contratto, che si dovrà adeguare alla legge nazionale.
02 - LA CONTABILITÀ
Gli incentivi restano in ogni caso una parte del trattamento accessorio, e l'ordinamento prevede forme di trattamento accessorio che non vengono finanziate dal fondo decentrato ma sono soggette comunque ai tetti di spesa, per cui la nuova definizione prevista in manovra non produce in sé effetti automatici
03 - LE INDICAZIONI
I dossier di Camera e Senato che illustrano la norma fanno espresso riferimento ai tetti di spesa (articolo Il Sole 24 Ore del 15.01.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire ed il procedimento di accertamento dell’intervenuta decadenza dello stesso ai sensi dell’art. 15, d.P.R. n. 380/2001, sono procedimenti autonomi che sfociano in autonomi e distinti provvedimenti. Da ciò inevitabilmente deriva che il ricorso, infruttuosamente, spiegato nei confronti del primo non spiega effetti nei confronti del ricorso proposto avverso il secondo.
Al contrario, l’esito favorevole del ricorso proposto in caso di mancato accertamento dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire fa venire meno l’interesse alla decisione del ricorso proposto avverso quest’ultimo atto.
Infatti, la decadenza del permesso di costruire impone che ne venga rilasciato uno nuovo, situazione quest’ultima che determina il venir meno di quella lesione, su cui fonda l’interesse del ricorrente all’impugnazione del permesso.
Occorre, altresì, rammentare che la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine di inizio e di ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.

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La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che l’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
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6.1. Deve innanzitutto chiarirsi che il procedimento per il rilascio del permesso di costruire ed il procedimento di accertamento dell’intervenuta decadenza dello stesso ai sensi dell’art. 15, d.P.R. n. 380/2001, sono procedimenti autonomi che sfociano in autonomi e distinti provvedimenti. Da ciò inevitabilmente deriva che il ricorso, infruttuosamente, spiegato nei confronti del primo non spiega effetti nei confronti del ricorso proposto avverso il secondo.
Al contrario, l’esito favorevole del ricorso proposto in caso di mancato accertamento dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire fa venire meno l’interesse alla decisione del ricorso proposto avverso quest’ultimo atto. Infatti, la decadenza del permesso di costruire impone che ne venga rilasciato uno nuovo, situazione quest’ultima che determina il venir meno di quella lesione, su cui fonda l’interesse del ricorrente all’impugnazione del permesso.
Occorre, altresì, rammentare che la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine di inizio e di ultimazione dei lavori, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo (cfr. Cons. St., Sez. VI, 20.11.2017, n. 5324).
Tanto premesso, non può convenirsi con quanto affermato dall’amministrazione comunale, secondo la quale il primo giudice avrebbe errato nell’esaminare il ricorso per motivi aggiunti per primo. Infatti, la ricostruzione sopra operata dei rapporti tra i due procedimenti, unitamente, al principio di economicità, che anima il processo amministrativo, impongono di esaminare prioritariamente quella domanda, che se fondata, consente il raggiungimento del bene della vita, in questo caso l‘interesse oppositivo dell’originario ricorrente alla realizzazione dell’intervento edilizio oggetto del permesso di costruire.
Rispetto a ciò, appare perfino superfluo rammentare che il ricorso per motivi aggiunti già nella versione dell’abrogato art. 21, l. TAR, era concepito come strumento di concentrazione processuale delle domande tese al soddisfacimento di un comune interesse sostanziale. Struttura e funzione mantenute dal vigente art. 43 c.p.a.
6.2. Superata la censura avente ad oggetto l’ordine processuale di esame delle domande da parte del TAR, deve passarsi ad esaminare la bontà della conclusione raggiunta da quest’ultimo in ordine all’intervenuta decadenza del permesso di costruire.
Al riguardo, deve rammentarsi che la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che l’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto. Pertanto i lavori debbono ritenersi iniziati quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 19.09.2017).
Nella fattispecie in esame la documentazione in atti milita nel senso che alla data del 17.05.2011 i lavori non fossero stati in concreto iniziati. Ad una simile conclusione si giunge attraverso un raffronto dei luoghi sulla base delle foto prodotte in primo grado dalle parti, dalle quali si evince che a quella data non vi fosse alcuna significativa attività edilizia in corso, pur a fronte delle particolarità urbanistiche della zona, per l’assenza di qualsivoglia tipo di macchinario o di strumentazione all’uopo necessaria o di qualsivoglia traccia di attività edilizia in corso.
Né in senso opposto può argomentarsi sulla scorta del verbale del sopraluogo dei tecnici comunali, atteso che quest’ultimo, da un lato, testimonia con efficacia fidefaciente soltanto lo stato dei luoghi al 30.05.2011, ossia in data successiva all’inutile decorso del termine per l’intrapresa dei lavori; dall’altro, anche in forza della sua laconicità, non consente di ritenere che ivi fossero stati effettuati lavori non realizzabili nel lasso temporale intercorrente tra la data di intervenuta decadenza del permesso e la data di sopraluogo.
In ogni caso è da ricordare in generale che il verbale redatto dai pubblici ufficiali fa piena prova in ordine ai fatti materiali ivi rappresentati ma non nelle parti in cui esprime giudizi soggettivi (cioè mere valutazioni) del verbalizzante.
Ancora non può giungersi alle conclusioni invocate dalle appellanti neanche sulla scorta di quanto meramente dichiarato nel diario del Direttore dei lavori, che indica l’effettuazione di attività meramente preparatorie all’intervento edilizio assentito.
Infine, del tutto neutro è il dato relativo alla stipulazione da parte dell’originaria controinteressata in data 21.04.2011 del contratto (registrato il 13/05/2011) d’appalto relativo alla esecuzione di tutte le opere necessarie alla realizzazione dell’intervento edilizio assentito, poiché la stipula del contratto non prova in concreto l’inizio dei lavori (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2018 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Non può essere attribuita rilevanza fidefacente alla descrizione delle opere (presunte abusive) contenuta verbale di Polizia Edilizia (cui rinvia l’impugnato provvedimento) in termini di demolizione e ricostruzione delle tettoia, poiché sul punto detto verbale costituisce una valutazione effettuata dalla Polizia Edilizia, non venendo in rilievo fatti avvenuti in presenza del pubblico ufficiale o dallo stesso compiuti.
Infatti, “Se, per un verso, è vero che i verbali della polizia municipale, come tutti i verbali provenienti da pubblici ufficiali, hanno efficacia di piena prova, fino a querela di falso (art. 2700 c.c.) solo relativamente alla provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (mentre tale fede privilegiata non si estende né agli apprezzamenti del pubblico ufficiale ovvero alle sue ulteriori valutazioni e deduzioni); d’altra parte, è pur vero che le valutazioni e deduzioni in tal modo svolte dai pubblici ufficiali possono essere confutate nella loro consistenza solo attraverso l’allegazione di circostanziate deduzioni in contrario”.
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4. - Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Giudice che il ricorso debba essere accolto in quanto fondato.
Invero, come evidenziato da parte ricorrente, la documentazione fotografica dell’11.02.2016 della Polizia Edilizia e le foto relative allo stato dei luoghi prodotte dalla stessa interessata e risalenti al 02.04.2016 ritraggono una tettoia/porticato identica per sagoma e superficie a quella di cui alle foto allegate alla istanza di accertamento di conformità del 23.02.1995.
Pertanto, non è possibile sostenere che vi sia stata alcuna opera recente di demolizione e ricostruzione della tettoia quale quella contestata nel gravato provvedimento n. 30/16, trattandosi -a ben vedere- di porticato preesistente rispetto all’anno 1995.
Ne discende che il censurato provvedimento è viziato da eccesso di potere per travisamento dei fatti.
Né può essere attribuita rilevanza fidefacente alla descrizione delle opere contenuta verbale di Polizia Edilizia del 10.03.2016 (cui rinvia l’impugnato provvedimento) in termini di demolizione e ricostruzione delle tettoia, poiché sul punto detto verbale costituisce una valutazione effettuata dalla Polizia Edilizia, non venendo in rilievo fatti avvenuti in presenza del pubblico ufficiale o dallo stesso compiuti.
Infatti, come evidenziato da Cons. Stato, Sez. VI, 24.9.2010, n. 7129, “Se, per un verso, è vero che i verbali della polizia municipale, come tutti i verbali provenienti da pubblici ufficiali, hanno efficacia di piena prova, fino a querela di falso (art. 2700 c.c.) solo relativamente alla provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (mentre tale fede privilegiata non si estende né agli apprezzamenti del pubblico ufficiale ovvero alle sue ulteriori valutazioni e deduzioni); d’altra parte, è pur vero che le valutazioni e deduzioni in tal modo svolte dai pubblici ufficiali possono essere confutate nella loro consistenza solo attraverso l’allegazione di circostanziate deduzioni in contrario”.
Con la produzione delle foto sopra indicate parte ricorrente ha assolto al proprio onere di allegazione di circostanziate deduzioni in contrario.
5. - Dalle argomentazioni espresse in precedenza discende l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento dell’ordinanza dirigenziale impugnata(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 22.01.2018 n. 82 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISubappalto alla Giustizia europea. Sotto la lente: compatibilità limite del 30% con le norme Ue. Richiesta del Tar Lombardia all'organismo comunitario che aveva già risposto all'Ance.
La disciplina italiana sul subappalto sarà giudicata dalla Corte di giustizia europea per decidere se il limite del 30% sia o meno conforme al diritto europeo.

La decisione dei giudici europei arriverà a valle della sentenza non definitiva 05.01.2018 n. 28 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I, che ha chiesto alla Corte di giustizia europea (con separata ordinanza 19.01.2018 n. 148) di decidere in merito alla compatibilità con il diritto comunitario (principi e direttiva 24/2014) dell'articolo 105, comma 2, del codice dei contratti pubblici che fissa al 30% il limite del subappalto, obbligando l'impresa a realizzare in proprio il resto delle lavorazioni.
Nella sentenza del Tar era stata affrontata in primo luogo la questione del presunto superamento da parte di un'impresa della soglia del 30% prevista per il subappalto: discuteva in particolare se il valore percentuale dovesse essere riferito all'importo dei lavori posto a base di gara oppure al valore del contratto come risultante dall'aggiudicazione.
La sentenza prende atto che la formulazione letterale della norma «non è univoca» perché il generico riferimento all'«importo complessivo del contratto di lavori non consente di prendere posizione in un senso o nell'altro». Però, in chiave sistematica e in ossequio ai principi di certezza del diritto e di parità di trattamento tra i concorrenti, l'espressione «importo complessivo del contratto di lavori non può che riferirsi all'importo a base di gara».
Risolto questo problema, i giudici italiani hanno deciso di rinviare al giudice europeo la questione di compatibilità della norma italiana rispetto all'articolo 71 della direttiva 24/2014 che non prevede detto limite.
In precedenza, la Commissione europea, su esposto dell'Ance, si era espressa nel senso di ritenere non conformi le regole italiane sia con riguardo alle norme dell'Unione sia con riferimento alla giurisprudenza della Corte, con ciò quasi anticipando il verdetto che adesso sarà inevitabile (se non quasi annunciato).
La risposta della Commissione di fine marzo scorso aveva infatti evidenziato che le norme italiane non risultavano coerenti con gli obiettivi di creare un mercato libero sia per quel che riguarda il libero commercio di merci e servizi sia soprattutto, in relazione alla necessità di promuovere la partecipazione delle piccole e medie imprese nelle procedure di appalto.
Il tema del subappalto, al centro di molte discussioni in sede di approvazione della riforma del codice, non soltanto per il limite del 30% ma anche per l'obbligo di presentare in sede di offerta una terna di subappaltatori.
Una situazione, anche questa, mal digerita da una parte significativa di imprese e non solo di costruzioni.
La disciplina del codice appalti era finita nelle mire dell'Ance anche per diversi altri punti che, adesso, si vedrà se saranno presi in considerazione dai giudici europei, laddove la Commissione li dovesse ritenere rinviabili anch'essi alla Corte. Era stato infatti segnalato alla Commissione l'obbligo di Ati verticale per le categorie superspecialistiche, la ribassabilità massima, per le prestazioni affidate in subappalto, del 20% dei prezzi risultanti dall'aggiudicazione e il divieto di ribasso sui costi della manodopera relativi alle prestazioni affidate in subappalto; l'obbligo del pagamento diretto del subappaltatore in caso di micro o piccola impresa, sia in caso di appalto sia di concessioni.
Gli occhi sono quindi tutti puntati sulla Corte europea anche perché, nella discussione sui futuri destini del codice dopo le elezioni, il subappalto sarà uno dei punti di maggiore attenzione (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).

APPALTI: Regola dell'anonimato nelle procedure ad evidenza pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte – Principio dell’anonimato – Violazione – Presupposti – Individuazione.
Nella procedura ad evidenza pubblica, per determinare la violazione del principio dell'anonimato nella presentazione dell'offerta e la conseguente esclusione, non è sufficiente una imperfezione nella confezione della documentazione di gara, ma occorre anche la concreta portata decettiva, da verificare anche alla luce dell'inesistenza di modalità più facilmente esperibili (1).

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   (1) Ad avviso del Tar non è configurabile la violazione del principio dell’anonimato nel caso in cui il codice alfanumerico (richiesto al precipuo fine di garantire l’anonimato) 10CL6 indicato dal concorrente nella busta dei propri elaborati progettuali, e quello (10CLO6) stampigliato sul plico e sulla busta della documentazione amministrativa contenente il progetto sia di una cifra in più (0), potendo tale cifra in più essere ricondotta ad un mero lapsus calami in cui è incorso il concorrente, e non ad un segno idoneo a consentirne, tanto meno intenzionalmente, l’identificazione e conseguentemente a ledere l’esigenza dell’anonimato fissata nel bando ed il corrispondente principio valevole per le pubbliche procedure selettive, tanto più alla luce della circostanza che il codice era di libera scelta del concorrente: l’alterazione del codice rappresenta quindi un mezzo del tutto ultroneo rispetto al fine dell’aggiramento dell’anonimato, essendo a ciò sufficiente la semplice comunicazione della scelta (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.01.2018 n. 13 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso principale è infondato.
1.1. In ordine al primo motivo deve osservarsi che per quanto concerne la fase due del concorso, nella quale è previsto che i concorrenti già ammessi devono sviluppare l’idea progettuale presentata nella prima fase a livello di progettazione preliminare, l’art. 4 del bando stabilisce che la partecipazione avverrà in forma anonima e che “deve pertanto essere omessa qualsiasi indicazione che possa compromettere l’anonimato del concorrente, pena l’esclusione dal concorso”.
La disposizione della lex specialis, per la parte di interesse, prosegue stabilendo che “i concorrenti dovranno consegnare un plico – riportante il codice alfanumerico necessario per garantire l’anonimato contenente gli elaborati e i documenti di seguito indicati”, e che “il codice alfanumerico in formato Arial 48 PT, sarà formato di cinque numeri/lettere così composto in ordine: 2 cifre, 2 lettere, 1 cifra. Tale codice alfanumerico dovrà essere tassativamente diverso da quello indicato in prima fase a pena di esclusione”.
Ciò posto, sotto un primo profilo deve rilevarsi che mentre l’eventuale reiterazione -nella seconda fase del concorso- del medesimo codice alfanumerico già utilizzato dai concorrenti nella prima è tale da comportare automaticamente l’esclusione, e ciò in quanto l’abbinamento al nominativo del concorrente dell’idea progettuale inizialmente proposta è già avvenuto (dunque in tal caso la commissione ne conoscerebbe l’identità nella fase successiva della valutazione del progetto preliminare), per quanto riguarda l’utilizzo del (diverso) codice alfanumerico da indicarsi nella seconda fase, pur nel prosieguo della norma previsto in una sequenza di cinque numeri/lettere, la sanzione espulsiva si pone su un piano differente, essendo ricollegata alla presenza di elementi indicativi da ritenersi idonei, sulla scorta di una valutazione-giudizio, a comprometterne l’anonimato.
Occorre, quindi, a legittimare l’esclusione dalla gara in questa seconda fase, una caratteristica nella forma di presentazione del progetto tale da evidenziarne l’autore; tale non è stata ritenuta la discrasia, rilevata nella seduta pubblica del 21.08.2017 (prima degli abbinamenti), fra il codice alfanumerico 10CL6 indicato dal concorrente nella busta dei propri elaborati progettuali, e quello (10CLO6) stampigliato sul plico e sulla busta della documentazione amministrativa, e questa considerazione del Presidente della commissione aggiudicatrice appare condivisibile.
In effetti l’anteposizione al quinto carattere del codice alfanumerico di una cifra in più (0), in base ad un ragionevole, e nel caso di specie motivato, giudizio può essere ricondotto ad un mero lapsus calami in cui è incorso il concorrente, e non ad un segno idoneo a consentirne, tanto meno intenzionalmente, l’identificazione e conseguentemente a ledere l’esigenza dell’anonimato fissata nel bando ed il corrispondente principio valevole per le pubbliche procedure selettive, tanto più alla luce della circostanza che il codice era di libera scelta del concorrente: l’alterazione del codice rappresenta quindi un mezzo del tutto ultroneo rispetto al fine dell’aggiramento dell’anonimato, essendo a ciò sufficiente la semplice comunicazione della scelta.
Vale, sul punto, richiamare il prevalente insegnamento giurisprudenziale ispirato a criteri sostanzialistici, al quale questo Tribunale aderisce in relazione alla peculiarità del caso in esame, secondo cui
nell’ambito dei concorsi pubblici, i cui principi sono applicabili a tutte le procedure di tipo concorsuale, gli elementi dai quali eventualmente evincere la violazione della regola dell’anonimato consistono nell’univoca idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione nonché nell’inequivoca intenzione del concorrente di farsi riconoscere (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 12.11.2015, n. 5137; idem sez. VI, 08.09.2006 n. 5220; Tar Marche, sez. I, 31.07.2017 n. 628; Tar Sardegna, sez. I, 15.02.2016 n. 129; Tar Lombardia Milano, sez. III, 24.12.2013 n. 2962), presupposti questi congiuntamente necessari per legittimare l’esclusione del soggetto interessato ma che -nella fattispecie in esame- non sono oggettivamente rinvenibili, dovendosi altresì escludere, in forza del predetto insegnamento, ogni ipotesi di nullità delle clausole inserite nel bando del concorso in esame (art. 4, 4.1. e 4.2) a tutela dell’anonimato.
Né, in senso opposto, appare significativo quanto ulteriormente dedotto dal ricorrente principale in merito alla presenza di altri asseriti “contrassegni”, quali la “sorta di lettera D rossa” negli elaborati descrittivi e lo stampiglio del “numero seriale della stampante” su due pagine dell’elaborato H (Capitolato prestazione impianti): quanto al primo di questi è lo stesso ricorrente a riconoscere che si tratta di un (mero) ricalco dello sviluppo planimetrico del progetto, quanto al secondo -non meglio individuato dal deducente- la documentazione in atti non ne consente l’apprezzamento.

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare le ammissioni dalla gara se alla relativa seduta è presente il rappresentante della ditta.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione di ammissioni e esclusioni – Dies a quo – Individuazione - Presenza di un rappresentante della ditta alla seduta in cui viene decretata l’ammissione – Irrilevanza ex se.
Considerata la specialità della normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e il suo carattere derogatorio dei principi in materia di impugnativa non è sufficiente a far decorrere l’onere di impugnare il provvedimento di ammissione dalla gara la sola presenza di un rappresentante della ditta alla seduta in cui viene decretata l’ammissione, e ciò in quanto tale presenza determina al più la conoscenza del provvedimento di ammissione e di quanto ivi emerso, oltre alla mera conoscibilità di eventuali ulteriori profili di illegittimità all’esito di successive indagini, ma non certamente la percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove esistenti, inficino le relative determinazioni; atteso l’indicato carattere derogatorio, il criterio dell’effettiva completa conoscenza dell’atto impugnabile, comprensivo di tutti gli aspetti di lesività e illegittimità dello stesso, deve essere applicato in modo restrittivo, ai soli casi in cui, per gli elementi emersi nella seduta di gara, si evince che la parte dovesse essere sin da allora pienamente consapevole dei profili di illegittimità sollevabili (1).
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   (1) Il Tar ha dato atto che sul punto si sono formati due orientamenti.
Un primo orientamento giurisprudenziale rileva che il termine per ricorrere decorre in ogni caso dall'avvenuta conoscenza dell'atto di ammissione o esclusione, anche a prescindere dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo del committente ai sensi dell'articolo 29, comma 1, d.lgs. 18.04.2016 n. 50. Ciò purché siano percepibili i profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato (Tar Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582; Tar Bari, sez. III, 08.11.2016, n. 1262).
Un secondo orientamento giurisprudenziale ritiene, al contrario, che il termine per l’impugnativa decorra esclusivamente dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo del committente ai sensi dell'articolo 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 (Tar Napoli, sez. V, 06.10.2017, n. 4689; Tar Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379). Ciò in quanto la disposizione di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. prevede espressamente ed inequivocamente che il dies a quo per proporre tale particolare impugnativa coincide con la data di pubblicazione del provvedimento che determina l’esclusione o l’ammissione sul profilo della stazione appaltante, stante la specialità di una simile previsione, che prevarrebbe su ogni altra previsione o applicazione di tipo giurisprudenziale (Tar Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379).
Ha affermato il Tar di condividere in linea di principio la natura speciale della normativa che impone l’onere di immediata impugnativa, ma che nei casi in cui la parte non solo sia a conoscenza dell’esistenza del provvedimento di esclusione o ammissione ma sia esattamente a conoscenza dei profili di illegittimità da sollevare in giudizio, avendo avuto piena conoscenza degli atti della procedura, si presenta preferibile l’indirizzo che dà rilevo all’avvenuta conoscenza.
Non vi sarebbe, infatti, ragione per procrastinare il termine di impugnativa prolungando la situazione di incertezza sulla sorte finale della gara d’appalto che la norma sull’onere di impugnativa immediata ha inteso ridurre (Tar Napoli, sez. VIII, 07.11.2017, n. 5221).
A fronte della tutela delle ragioni del concorrente all’esercizio dell’azione di impugnativa vi sono, infatti, anche le ragioni di interesse pubblico alla pronta definizione delle controversie in materia di gare di appalto, che non consentono indugi nella promozione dell’azione giurisdizionale.
D’altra parte il riferimento dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. alla pubblicazione sul profilo del committente, nell’ambito della sezione "Amministrazione trasparente" ai sensi dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, con conseguente applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33, è volto a consentire la piena conoscenza degli atti consultabili sul profilo del medesimo committente, in modo che non vi si vede ragione di consentire alla parte di rimandare l’impugnativa una volta che ha aliunde preso piena conoscenza dei profili di illegittimità da sollevare (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.01.2018 n. 394 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Nel caso di specie non vi è prova che sia intervenuta la pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante del provvedimento di ammissione, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del d.lgs. 18.04.2016 n. 50.
Ben conosce il Collegio che sulla questione della decorrenza del termine per impugnare gli atti di ammissione ed esclusione alla procedura di gara, secondo il cosiddetto rito super-accelerato, si registrano opposti orientamenti.
In particolare, l'art. 120, comma 2-bis, c.p.a. prevede l’impugnativa immediata dei provvedimenti di esclusione e di ammissione alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, prescrivendo che “il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11".
Al riguardo, un primo orientamento giurisprudenziale rileva che il termine per ricorrere decorre in ogni caso dall'avvenuta conoscenza dell'atto di ammissione o esclusione, anche a prescindere dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo del committente ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del d.lgs. 18.04.2016 n. 50. Ciò purché siano percepibili i profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato (TAR Toscana Firenze, Sez. I, 18.04.2017, n. 582; TAR Puglia Bari, Sez. III, 08.11.2016, n. 1262).
Viene richiamato in proposito il principio generale secondo il quale, pur in difetto della formale comunicazione dell'atto, il termine di impugnazione decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto (TAR Veneto Venezia, Sez. I, 17.05.2017, n. 492) e in assenza di una specifica ed espressa previsione legislativa in senso derogatorio e di un rapporto di incompatibilità, si deve ritenere che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. non abbia apportato una deroga al principio generale della decorrenza del termine di impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto.
Sebbene, quindi, il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a, faccia riferimento, ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ciò non implica l’inapplicabilità del generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, c.p.a. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto, o in difetto di pubblicazione dell’atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante, il termine decorre dal momento dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell’interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale.
La piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata può provenire da qualsiasi fonte, che determina la decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso, non solo in assenza della pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, ma anche nel caso in cui la pubblicazione avvenga successivamente (Cons. Stato, Sez. VI, 13.12.2017, n. 5870).
Un secondo orientamento giurisprudenziale ritiene, al contrario, che il termine per l’impugnativa decorra esclusivamente dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo del committente ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 (TAR Campania Napoli, Sez. V, 06.10.2017, n. 4689; TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, 22.08.2017 n. 9379; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 19.07.2017 n. 8704; TAR Puglia-Bari I, 07.12.2016 n. 1367; TAR Campania, Napoli, sez. I, 29.05.2017, n. 2843; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 13.01.2017 n. 24). Ciò in quanto la disposizione di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a prevede espressamente ed inequivocamente che il dies a quo per proporre tale particolare impugnativa coincide con la data di pubblicazione del provvedimento che determina l’esclusione o l’ammissione sul profilo della stazione appaltante, stante la specialità di una simile previsione, che prevarrebbe su ogni altra previsione o applicazione di tipo giurisprudenziale (TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, 22.08.2017 n. 9379).
Ad esempio, il termine per l’impugnazione del provvedimento di ammissione alla gara non potrebbe decorrere dalla data della seduta in cui è stata disposta l’ammissione stessa, anche nel caso in cui risulti che i legali rappresentanti della società ricorrente vi siano stati presenti (TAR Campania Napoli, Sez. V, 06.10.2017, n. 4689).
Viene indicato il carattere derogatorio dei principi in materia di impugnativa di cui all’art. 120, comma 2-bis del c.p.a., che ha previsto un meccanismo notevolmente oneroso per i potenziali ricorrenti, e deve quindi essere interpretato in maniera restrittiva, non potendo questa norma trovare applicazione nel caso di mancata pubblicazione delle ammissioni sul profilo del committente della stazione appaltante ai sensi dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 19.07.2017 n. 8704).
Si ritiene che il rito speciale in materia di impugnazione degli atti di esclusione e ammissione costituisca un’eccezione al regime “ordinario” processuale degli appalti (che a sua volta è un’eccezione rispetto al rito ordinario e allo stesso rito accelerato ex art. 119 c.p.a.) e, in quanto tale debba essere applicato solo nel caso espressamente previsto (TAR Puglia Bari I, 07.12.2016 n. 1367), ovverosia quando sia stato emanato il provvedimento di cui all'art. 29, comma 1, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016. In caso contrario l'impugnativa dell'ammissione dell'aggiudicatario deve essere formulata congiuntamente con quella del provvedimento di aggiudicazione (TAR Campania, Napoli, sez. I, 29.05.2017, n. 2843).
Questa Sezione si è, in tempi relativamente recenti, espressa al riguardo indicando di condividere in linea di principio la natura speciale della normativa che impone l’onere di immediata impugnativa, ma che nei casi in cui la parte non solo sia a conoscenza dell’esistenza del provvedimento di esclusione o ammissione ma sia esattamente a conoscenza dei profili di illegittimità da sollevare in giudizio, avendo avuto piena conoscenza degli atti della procedura, si presenta preferibile il primo indirizzo che dà rilevo all’avvenuta conoscenza.
Non vi sarebbe, infatti, ragione per procrastinare il termine di impugnativa prolungando la situazione di incertezza sulla sorte finale della gara d’appalto che la norma sull’onere di impugnativa immediata ha inteso ridurre (TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.11.2017, n. 5221).
A fronte della tutela delle ragioni del concorrente all’esercizio dell’azione di impugnativa vi sono, infatti, anche le ragioni di interesse pubblico alla pronta definizione delle controversie in materia di gare di appalto, che non consentono indugi nella promozione dell’azione giurisdizionale.
D’altra parte il riferimento dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. alla pubblicazione sul profilo del committente, nell’ambito della sezione "Amministrazione trasparente" ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, con conseguente applicazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, è volto a consentire la piena conoscenza degli atti consultabili sul profilo del medesimo committente, in modo che non vi si vede ragione di consentire alla parte di rimandare l’impugnativa una volta che ha aliunde preso piena conoscenza dei profili di illegittimità da sollevare.
Nel caso del precedente richiamato, infatti, la parte ricorrente, non solo era stata presente con un suo rappresentante alla seduta di gara in cui è stata disposta l’ammissione in gara della controinteressata, ma aveva anche presentato successivamente un’istanza di autotutela alla stazione appaltante nella quale aveva lamentato lo stesso profilo di illegittimità dell’ammissione dell’aggiudicataria, poi presentato come motivo di ricorso. La Sezione ha quindi ritenuto che da quest’ultimo momento dovesse sicuramente decorrere il termine per presentare ricorso.
Venendo al caso in esame nel presente giudizio,
il Collegio, tenendo presente quanto indicato, ritiene di dover valorizzare la specialità della normativa e il carattere derogatorio dei principi in materia di impugnativa di cui all’art. 120, comma 2-bis, del c.p.a., nel senso cioè di non ritenere sufficiente la presenza di un rappresentante della ditta controinteressata alla seduta del 01.03.2017.
Tale presenza determina al più la conoscenza del provvedimento di ammissione e di quanto ivi emerso, oltre alla mera conoscibilità di eventuali ulteriori profili di illegittimità all’esito di successive indagini, ma non certamente la percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove esistenti, inficino le relative determinazioni.
Stante l’indicato carattere derogatorio, infatti, il criterio dell’effettiva completa conoscenza dell’atto impugnabile, comprensivo di tutti gli aspetti di lesività e illegittimità dello stesso, deve essere applicato in modo restrittivo, ai soli casi in cui, per gli elementi emersi nella seduta di gara, si evince che la parte dovesse essere sin da allora pienamente consapevole dei profili di illegittimità sollevabili.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: E' idonea domanda di partecipazione ad un concorso pubblico trasmessa dall’interessato a mezzo di propria casella di posta elettronica certificata (PEC) ancorché in assenza di apposizione di firma nella copia cartacea scansionata, ovvero nei relativi allegati (tra cui copia della propria carte di identità), ed anche in assenza di apposizione di firma digitale.
Invero, con la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, n. 12/2010 del 03/09/2010,  il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ha avuto modo:
   - di ricordare che “il d.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4, prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini inviate tramite PER nel rispetto dell’art. 65, comma 1, del decreto legislativo n. 85 del 2005. L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo”;
   - di chiarire quindi che “Nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 4 del D.P.R. n. 487/1994, pertanto, l'inoltro tramite posta certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 (vedi sopra lettera c-bis) è già sufficiente a rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a ritenere la stessa regolarmente sottoscritta. Non si rinviene in alcun modo nella normativa vigente in tema di concorsi la necessità di una presentazione dell'istanza con le modalità qualificate di cui alle lettere a), b) e c) sopra richiamate, fermo restando che qualora utilizzate dal candidato sono senz'altro da considerare valide da parte dell'amministrazione”;
   - di auspicare l’adeguamento alla medesima circolare da parte delle amministrazioni pubbliche, atteso che “la normativa sopra richiamata e gli indirizzi che ne scaturiscono non necessitano di interventi regolamentari di specifiche del bando di concorso per essere efficaci”.
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Risulta fondata ed assorbente la prima doglianza con la quale parte ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 65 D.Lgs. n. 82/2005, dell’art. 61 d.P.C.M. 22/02/2013, dell’art. 9 del d.P.R. 68/2005 e della Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, n. 12/2010 del 03/09/2010.
La questione di diritto è da individuare essenzialmente nella idoneità di una domanda di partecipazione ad un concorso pubblico trasmessa dall’interessato a mezzo di propria casella di posta elettronica certificata (PEC) ma in assenza di apposizione di firma nella copia cartacea scansionata, ovvero nei relativi allegati (tra cui copia della propria carte di identità), ed anche in assenza di apposizione di firma digitale: ipotesi queste ultime contemplate dalla lex specialis quale modalità suppletive rispetto all’ordinario canale di inoltro della domanda di partecipazione a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento.
Segnatamente al punto 2 del bando l’Amministrazione ha previsto quanto segue: “Inoltre si precisa che le domande trasmesse mediante PEC, saranno valide solo se accompagnate da fotocopia del documento di identità in corso di validità, inviate in formato non modificabile e se:
   - sottoscritte mediante firma digitale;
   - oppure sottoscritte nell'originale scansionato
”.
Diversamente da quanto opinato dall’Amministrazione resistenze, anche in sede di discussione alla presente adunanza camerale, la fattispecie in esame rientra nell’ambito di applicazione della circolare sopra citata, n. 12/2010, con cui il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dettato specifiche indicazioni chiarimenti e criteri interpretativi sull’utilizzo della PEC per le procedure concorsuali con particolare riferimento alle modalità di presentazione della domanda di ammissione ai concorsi pubblici indetti dalle amministrazioni.
Nel contesto di tale specifico settore, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ha avuto modo:
   - di ricordare che “il d.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4, prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini inviate tramite PER nel rispetto dell’art. 65, comma 1, del decreto legislativo n. 85 del 2005. L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo” (cfr. pag. 4 della citata circolare);
   - di chiarire quindi che “Nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 4 del D.P.R. n. 487/1994, pertanto, l'inoltro tramite posta certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 (vedi sopra lettera c-bis) è già sufficiente a rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a ritenere la stessa regolarmente sottoscritta. Non si rinviene in alcun modo nella normativa vigente in tema di concorsi la necessità di una presentazione dell'istanza con le modalità qualificate di cui alle lettere a), b) e c) sopra richiamate, fermo restando che qualora utilizzate dal candidato sono senz'altro da considerare valide da parte dell'amministrazione” (cfr. Pag. 6 Circolar cit.);
   - di auspicare l’adeguamento alla medesima circolare da parte delle amministrazioni pubbliche, atteso che “la normativa sopra richiamata e gli indirizzi che ne scaturiscono non necessitano di interventi regolamentari di specifiche del bando di concorso per essere efficaci” (cfr. pag. 7 Circolare cit.).
Alla stregua di dette chiare indicazioni, approntate dall’amministrazione statale a chiarimento e interpretazione della normativa di riferimento (in ordine alle modalità di presentazione, a mezzo PEC, delle domande di partecipazione ai concorsi indetti dalle pubbliche amministrazioni), l’impugnato bando di selezione non appare coerente con le disposizioni appena illustrate, risultando in parte qua illegittimo laddove preclude l’ammissibilità delle domande, in quanto prive di firma (digitale o sulla copia scansionate dei documenti allegati), ancorché presentate da un candidato a mezzo PEC, con casella di posta intestata allo stesso mittente.
Secondo quanto sopra evidenziato, l’utilizzo di una casella di posta elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere soddisfatto il requisito della apposizione della firma.
In accoglimento della predetta censura il ricorso risulta fondato e va quindi accolto, con conseguente annullamento in parte qua e per quanto di ragione dei provvedimenti impugnati (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 18.01.2018 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Garanzia fideiussoria richiesta a pena di esclusione - Mancata produzione impegno fideiussore a rilasciare la garanzia definitiva - Divieto di soccorso istruttorio.
Appare condivisibile quella giurisprudenza secondo cui, “con l'art. 83, comma 9, del D.Lgs. 50/2016, il legislatore ha sostanzialmente confermato il perimetro dell'istituto del soccorso istruttorio contenuto nel vecchio codice dei contratti pubblici, escludendo che quest'ultimo istruttorio possa essere utilizzato per integrare l'offerta, circoscrivendone l'utilizzo alle "carenze di qualsiasi elemento formale"… il soccorso istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni riguardanti elementi essenziali ai fini della partecipazione, pena la violazione della par condicio fra concorrenti, ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara”.
Peraltro “detta interpretazione è stata, da ultimo condivisa anche da recenti pronunce che hanno affermato che in caso di mancata produzione della garanzia ex art. 93 del nuovo Codice dei contratti pubblici non possa farsi ricorso al soccorso istruttorio, in quanto l'art. 83 del D.lgs. 50/2016 prevede il soccorso istruttorio solo per "le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda", e tale non si può qualificare la mancanza della garanzia.
In ogni caso la previsione testuale della sanzione dell’esclusione prevista tuttora dall’articolo 93, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016 è senz’altro un ulteriore elemento a favore dell’interpretazione qui accolta (“l'offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui agli articoli 103 e 104, qualora l'offerente risultasse affidatario”).
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Considerato che:
   - la ricorrente impugna l’aggiudicazione alla controinteressata del servizio di gestione e uso dell'impianto sportivo comunale denominato “pista di mini moto”;
   - la medesima lamenta che l’Amministrazione avrebbe dovuto viceversa escludere la controinteressata, atteso che, come risulta dal verbale della commissione di gara del 03.01.2017, ai sensi del punto 13.9 della lettera d'invito e dell'art. 93, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016, “l'offerta doveva essere altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui all'articolo 103 e 105 dello stesso decreto legislativo n. 50/2016, qualora l'offerente risultasse affidatario"; che tale impegno non è stato adempiuto dalla controinteressata; che, sempre secondo la ricorrente, alla mancata presentazione della garanzia fideiussoria definitiva per l’esecuzione dell’appalto non si potrebbe rimediare con il cd. soccorso istruttorio, come ha fatto invece l’Amministrazione nel caso di specie, ai sensi dell’articolo 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016;
...
   - nel merito il ricorso è fondato, atteso che nel caso di specie non è stato presentato unitamente alla domanda un impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto in caso di aggiudicazione (nonostante tale onere fosse previsto a pena di esclusione dal punto 13.9 della lettera d'invito, oltre che dall'art. 93, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016;); sicché la domanda era mancante di un elemento negoziale essenziale e ad essa funzionalmente collegato, e non si può pertanto rientrare nel perimetro della mera integrazione documentale;
   - difatti, appare condivisibile quella giurisprudenza secondo cui, “con l'art. 83, comma 9, del D.Lgs. 50/2016, il legislatore ha sostanzialmente confermato il perimetro dell'istituto del soccorso istruttorio contenuto nel vecchio codice dei contratti pubblici, escludendo che quest'ultimo istruttorio possa essere utilizzato per integrare l'offerta, circoscrivendone l'utilizzo alle "carenze di qualsiasi elemento formale"… il soccorso istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni riguardanti elementi essenziali ai fini della partecipazione, pena la violazione della par condicio fra concorrenti, ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (Cons. Stato Sez. V, 28.12.2016, n. 5488)” (cfr. Tar Bologna, sentenza n. 345 del 2017); e peraltro “detta interpretazione è stata, da ultimo condivisa anche da recenti pronunce che hanno affermato che in caso di mancata produzione della garanzia ex art. 93 del nuovo Codice dei contratti pubblici non possa farsi ricorso al soccorso istruttorio, in quanto l'art. 83 del D.lgs. 50/2016 prevede il soccorso istruttorio solo per "le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda", e tale non si può qualificare la mancanza della garanzia (Tar Lazio, sez. I-ter, 18.01.2017, n. 878)” (Tar Bologna, ibidem);
   - in ogni caso la previsione testuale della sanzione dell’esclusione prevista tuttora dall’articolo 93, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016 è senz’altro un ulteriore elemento a favore dell’interpretazione qui accolta (“l'offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui agli articoli 103 e 104, qualora l'offerente risultasse affidatario”) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.01.2018 n. 16 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il contratto collettivo deve essere «pertinente» all’oggetto dell’appalto
Negli gare di appalto di servizi l’imprenditore non può scegliere discrezionalmente il contratto collettivo da applicare ai dipendenti, perché tale scelta può squilibrare l’offerta economica, rendendola incongrua.

Questo è il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 17.01.2018 n. 276, relativa al servizio di facchinaggio della Regione Sardegna.
La vicenda
Nel caso specifico, l’impresa aggiudicataria aveva formulato un’offerta applicando, genericamente, il contratto collettivo per i servizi ausiliari e fiduciari, cioè un contratto molto vasto perché disciplina, oltre al portierato, l’accoglienza e indirizzo della clientela, servizi di controllo dell’attività di spettacolo e intrattenimento, la prevenzione e il primo intervento antincendio e l’incasso per conto terzi, per un totale di circa 20 prestazioni, ognuna ampiamente comprensiva di mansioni varie.
La decisione
Su ricorso di un’impresa collocatasi al secondo posto in una gara di oltre 4 milioni di euro, il Consiglio di Stato ha espresso due principi: da un lato conferma che l’applicazione di un determinato contratto collettivo rientra nelle prerogative dell’imprenditore e nella libertà negoziale delle parti, con la conseguenza che il bando di gara non può imporre ai concorrenti un Ccnl determinato; d’altro lato, tuttavia, deve essere rispettata la coerenza del contratto nazionale di categoria con l’oggetto dell’appalto posto in gara. Se il contratto collettivo nazionale di lavoro è inappropriato o non pertinente al rapporto contrattuale, emergono infatti squilibri nell’offerta economica.
Questo orientamento conferma quanto già sostenuto per un servizio assistenza disabili (Tar Lazio 1969/2016), cioè che il bando non può imporre un determinato Ccnl, nemmeno in presenza della cosiddetta clausola sociale, relativa alla riassunzione dei dipendenti dell’impresa uscente: la clausola è infatti rispettata se sono adeguatamente salvaguardati livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti.
Sul tema, si era espresso anche il Tar Piemonte (23/2015, confermata da Consiglio di Stato 3329/2015), ammettendo la competizione tra un concorrente che applicava al personale un Ccnl (sorveglianza antincendio) differente da quello (multiservizi) previsto dal bando (per antincendio con elisoccorso); ragionamento opposto (con esclusione) è quello del Tar Veneto 4/2012, per un servizio di contact center di un’azienda energetica pubblica: se il bando prevede il Ccnl settore terziario, non si può concorrere offrendo il trattamento previsto per il settore metalmeccanico grande industria.
Peraltro, i Ccnl specifici hanno solo un valore presuntivo, per ciò che riguarda il “costo” della prestazione lavorativa: in caso di dubbio di dumping contrattuale o di utilizzo di contratti collettivi “gialli”, la stazione appaltante dovrà verificare se il Ccnl applicato dal concorrente sia stato sottoscritto da un sindacato “comparativamente più rappresentativo”. L’esito favorevole di questa verifica (Consiglio di Stato, 4699/2015, Corte costituzionale 51/2015) elimina il rischio di anomalia dell’offerta sul costo del lavoro (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2018 n. 276 - (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza, il rilascio del certificato di agibilità, ai sensi dell’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001, presuppone non soltanto la regolarità igienico-sanitaria dell’immobile, ma anche la sua conformità al titolo edilizio che ne ha consentito la costruzione o la trasformazione.
Siffatto accertamento può e deve essere eseguito dall’Amministrazione in ogni tempo, quando sia richiesto il rilascio dell’attestazione di agibilità, senza limitazioni correlate alla risalenza dell’ultimazione dei lavori, restando a carico del proprietario dell’immobile le conseguenze pregiudizievoli dell’omessa esecuzione delle opere di urbanizzazione alle quali si era obbligato il titolare del permesso di costruire.
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Nella specie, nessun affidamento meritevole di tutela può ravvisarsi in favore della società ricorrente, la quale ha ultimato ed utilizzato il capannone artigianale senza aver adempiuto all’obbligo accessorio di cessione delle aree a standards e servizi.
Invero,
con atto unilaterale d’obbligo dell'01.07.1992, il legale rappresentante della società ricorrente aveva assunto l’impegno alla realizzazione delle aree a servizi, parcheggio, verde, centri e servizi socialib contestualmente alla realizzazione dell’ampliamento del capannone e prima della richiesta dell’agibilità.
Ciò non si è verificato e legittima l'amministrazione comunale a diniegare il rilascio del richiesto certificato di agibilità.

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Premesso, in fatto:
   - che la società ricorrente impugna il provvedimento in epigrafe, con il quale il Comune di Cumiana ha negato il rilascio del certificato di agibilità, in relazione alla pratica edilizia n. 87/92 i cui lavori si erano conclusi nel 1994 (ampliamento di un capannone artigianale in via Provinciale n. 166);
   - che il diniego è scaturito, in esito ad una lunga corrispondenza tra il Comune la ricorrente To. s.r.l., dal rilievo che “ad oggi non risulta definita la questione della messa a disposizione o monetizzazione dell’area a servizi, come da atto di impegno sottoscritto dalla società” ai sensi dell’art. 21 della legge regionale n. 56 del 1977;
   - che, in effetti, con atto unilaterale d’obbligo del 01.07.1992, il legale rappresentante della To. s.n.c. aveva assunto l’impegno alla realizzazione delle aree a servizi, parcheggio, verde, centri e servizi sociali, come da planimetria allegata (doc. 2), contestualmente alla realizzazione dell’ampliamento del capannone e prima della richiesta dell’agibilità;
   - che la ricorrente deduce la violazione dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, la violazione del legittimo affidamento e l’eccesso di potere sotto molteplici profili: a suo dire, sarebbe prescritto per decorso del termine decennale il diritto del Comune di esigere la realizzazione delle opere di urbanizzazione o, in alternativa, la loro monetizzazione;
   - che il Comune di Cumiana si è costituito, chiedendo il rigetto del ricorso;
Ritenuto, in diritto:
   - che le censure dedotte dalla ricorrente possono essere esaminate unitariamente e sono del tutto infondate;
   - che è pacifico l’inadempimento all’atto d’obbligo sottoscritto nel 1992 dal titolare della concessione edilizia;
   - che non può fondatamente farsi questione della prescrizione del diritto dell’Amministrazione a richiedere l’adempimento alle obbligazioni discendenti dall’atto di impegno accessorio alla concessione edilizia, poiché la società ricorrente ha richiesto il rilascio della certificazione di agibilità, con istanza in data 22.07.2011 (in occasione della presentazione di un nuovo progetto per il cambio di destinazione d’uso di una porzione del capannone esistente) e l’Amministrazione l’ha correttamente negato, dopo il sopralluogo che ha rivelato la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione;
   - che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza, il rilascio del certificato di agibilità, ai sensi dell’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001, presuppone non soltanto la regolarità igienico-sanitaria dell’immobile, ma anche la sua conformità al titolo edilizio che ne ha consentito la costruzione o la trasformazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.05.2013 n. 2665; Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 20.12.2013 n. 2534; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 02.04.2015 n. 1917);
   - che siffatto accertamento può e deve essere eseguito dall’Amministrazione in ogni tempo, quando sia richiesto il rilascio dell’attestazione di agibilità, senza limitazioni correlate alla risalenza dell’ultimazione dei lavori, restando a carico del proprietario dell’immobile le conseguenze pregiudizievoli dell’omessa esecuzione delle opere di urbanizzazione alle quali si era obbligato il titolare del permesso di costruire;
   - che, nella specie, nessun affidamento meritevole di tutela può ravvisarsi in favore della società ricorrente, la quale ha ultimato ed utilizzato il capannone artigianale senza aver adempiuto all’obbligo accessorio di cessione delle aree a standards e servizi;
Ritenuto, in conclusione, di dover respingere il ricorso, con condanna della ricorrente alla refusione delle spese processuali (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 17.01.2018 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ritenersi che non sia autonomamente impugnabile la disposta acquisizione del bene al patrimonio comunale per effetto dell'inottemperanza all'ordine di demolizione nei termini di legge, anche nel caso in cui non sia stato autonomamente impugnato in via amministrativa il silenzio-rifiuto ovvero il rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, che, come è noto, costituisce elemento che il giudice del merito è incidentalmente tenuto a valutare, ai fini della legittimità dell'adozione del provvedimento acquisitivo ex art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, dovendo valutare il giudice la situazione giuridica complessiva ovvero se in presenza di istanza di concessione in sanatoria ovvero di impugnazione di silenzio rifiuto, l'eventuale rilascio di provvedimento sia incompatibile con l'acquisizione al patrimonio finalizzata alla demolizione da parte dell'ente pubblico in danno dell'inadempiente.
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4. - Il ricorso non è fondato per le ragioni qui esposte.
5.- Costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui,
ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione della costruzione abusiva comporta l'automatica acquisizione del bene al patrimonio comunale in favore del quale deve essere disposta la restituzione, e l'acquisizione non costituisce impedimento giuridico alla demolizione da parte del proprietario in assenza di delibera comunale che dichiari la sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell'opera.
L'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede un'articolata disciplina per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali. Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale «il bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune».
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita, è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare «non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali». Lo stesso art. 31, inoltre, come è noto, stabilisce che il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, ordina la demolizione delle opere abusive, se non sia stata altrimenti eseguita.
La giurisprudenza di questa Corte è orientata nel ritenere che, dal tenore letterale della norma,
l'effetto ablatorio si verifica ope legis alla inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari... (Sez. 3, n. 23718 del 08/04/2016, Pacera, Rv. 267676; Sez. 3, n. 45705 del 26/10/2011, Perticaroli, Rv. 251321; Sez. 3, n. 22237 del 22.04.2010, Gotti, Rv. 247653; Sez. 3, n. 39075 del 21/5/2009, Bifulco, Rv. 244891; Sez. 3, n. 1819 del 21/10/2008, Ercoli, Rv. 242254), e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, P.M. in proc. Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, P.G. in proc. Mancini, Rv. 238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposanto e altri, Rv. 230652).
6.- Anche la giurisprudenza amministrativa ha recentemente ribadito il principio secondo cui «
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall'art. 7, comma 3, della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 31 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001) è, un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi» (Cons. Stato, sez. IV, sentenza 29.09.2017, n. 4547; Cons. Stato, sez. V, 18.12.2002, n. 7030; Cons. Stato, sez. V, 24.03.2011, n. 1793).
Con le pronunce citate, i giudici amministrativi hanno ribadito che,
dopo aver accertato l'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, il provvedimento di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime è consequenziale e, dunque, non è autonomamente impugnabile in mancanza di tempestiva impugnazione dell'ordine stesso (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2017 n. 4547; Sez. V, 24.03.2011, n. 1793), da cui la conclusione che «E' inammissibile il ricorso avverso l'atto di acquisizione al patrimonio del Comune delle opere abusive e dell'area di sedime, ex art. 7 comma 3, della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 31 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001), in caso di mancata impugnativa dell'atto presupposto, costituito dall'ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi rimasto inottemperato».
Dunque,
l'autonomia del provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale e l'automaticità dell'acquisizione alla accertata scadenza del termine per la demolizione, comportano, quale consequenzialità logica che questo non sia autonomamente impugnabile in assenza di impugnazione del medesimo ordine di demolizione, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa (vedi supra) per il principio di consequenzialità all'inottemperanza all'ordine di demolizione.
Non di meno, secondo i condivisibili arresti della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza amministrativa,
deve ritenersi che non sia autonomamente impugnabile la disposta acquisizione del bene al patrimonio comunale per effetto dell'inottemperanza all'ordine di demolizione nei termini di legge, anche nel caso, qual è quello in scrutinio, in cui non sia stato autonomamente impugnato in via amministrativa il silenzio-rifiuto ovvero il rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, che, come è noto, costituisce elemento che il giudice del merito è incidentalmente tenuto a valutare, ai fini della legittimità dell'adozione del provvedimento acquisitivo ex art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, dovendo valutare il giudice la situazione giuridica complessiva ovvero se in presenza di istanza di concessione in sanatoria ovvero di impugnazione di silenzio rifiuto, l'eventuale rilascio di provvedimento sia incompatibile con l'acquisizione al patrimonio finalizzata alla demolizione da parte dell'ente pubblico in danno dell'inadempiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2018 n. 1564).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di proroga dei permessi di costruire rappresenta certamente un atto autonomo e dotato di natura provvedimentale, in quanto rende legittima la prosecuzione dei lavori edilizi non completati nel termine originariamente previsto dal titolo (avente durata massima triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale, soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa richiede la proposizione della domanda anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla consolidata giurisprudenza che si è formata sulle controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente impugnabili: sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la differente natura, con tutte le conseguenze di natura processuale, di un atto a seconda del contenuto negativo (diniego di proroga del termine) o del contenuto positivo (ammissione della predetta proroga).
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Il mancato completamento dei lavori nei termini impone il rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, con la possibilità che, l’eventuale entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe la stessa possibilità di completamento e potrebbe addirittura condurre alla riduzione in pristino della parte di opere prive di una loro idoneità di tipo funzionale.
Infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente, senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico.
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Nella fattispecie de qua la società controinteressata ha chiesto al Comune la proroga del termine di ultimazione dei lavori relativi ai permessi di costruire rilasciati, giustificandola con la circostanza “che le operazioni preliminari per la realizzazione di sottopasso alla Strada Statale e relativa deviazione stradale hanno interessato il fermo dei lavori di cui alla premessa [e] che la natura, la quantità e consistenza del terreno da asportare (Roccia dura) si sono protratti nel tempo per oltre anni uno”.
L’Ufficio Tecnico comunale ha accordato la proroga richiesta, indicando la data entro la quale avrebbero dovuto essere ultimati i lavori. Tale atto di proroga risulta assolutamente immotivato e rinvia, del tutto genericamente, al contenuto della richiesta di proroga e alla tipologia dei lavori da eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non imputabilità al soggetto privato del ritardo nella conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che l’hanno determinata.
Difatti, è stato affermato in giurisprudenza che la proroga è disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione”.
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione.
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2.1. Le eccezioni sono infondate.
Con una prima eccezione si contesta la carenza di interesse dei ricorrenti per mancata tempestiva impugnazione degli originari permessi di costruire quali atti da cui discenderebbe l’effettiva lesione, essendo gli atti di proroga sforniti di propria autonomia provvedimentale e pertanto inoppugnabili, se isolatamente intesi.
La prospettazione della difesa comunale non può essere condivisa.
L’atto di proroga dei permessi di costruire rappresenta certamente un atto autonomo e dotato di natura provvedimentale, in quanto rende legittima la prosecuzione dei lavori edilizi non completati nel termine originariamente previsto dal titolo (avente durata massima triennale); la natura provvedimentale si ricava dalla circostanza che si tratta di atto di natura discrezionale, soggetto ad uno stringente obbligo motivazionale, e non certo di un atto dovuto, accordato in modo automatico sul semplice presupposto di una richiesta di parte.
Del resto, l’avvenuto rilascio del permesso di costruire risulta essere una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere la proroga, visto che a tal fine la normativa richiede la proposizione della domanda anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Quanto evidenziato in precedenza risulta avallato dalla consolidata giurisprudenza che si è formata sulle controversie riguardanti i dinieghi di proroga del termine di ultimazione dei lavori, confermandosi che si tratta di provvedimenti autonomi e dotati di lesività, certamente impugnabili (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564; per una fattispecie in cui è stata impugnata la proroga del termine di ultimazione dei lavori edilizi, TAR Lombardia, Milano, II, 11.01.2018, n. 48): sarebbe contraddittorio e illogico ammettere la differente natura, con tutte le conseguenze di natura processuale, di un atto a seconda del contenuto negativo (diniego di proroga del termine) o del contenuto positivo (ammissione della predetta proroga).
Pertanto, la suesposta eccezione va respinta.
2.2. Anche l’eccezione fondata sulla impossibilità per i ricorrenti di ritrarre alcun vantaggio da un eventuale annullamento degli atti di proroga, stante l’avvenuto pressoché integrale completamento delle opere, deve essere respinta.
In realtà, in giudizio non è stato affatto dimostrato che le opere siano state sostanzialmente completate, quanto piuttosto sembra emergere l’esatto contrario, sia in ragione dell’avvenuta presentazione della richiesta di proroga, altrimenti non necessaria, sia sulla base delle produzioni della difesa dei ricorrenti da cui emerge –senza alcuna smentita sul punto– il mancato completamento dei lavori alla data odierna (cfr. all. 11 al ricorso).
Risulta evidente perciò che sussiste l’interesse al ricorso, atteso che il mancato completamento dei lavori nei termini impone il rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, con la possibilità che, l’eventuale entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, impedirebbe la stessa possibilità di completamento e potrebbe addirittura condurre alla riduzione in pristino della parte di opere prive di una loro idoneità di tipo funzionale; infatti, non può che essere tutelato l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente, senza consentire il protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico (Consiglio di Stato, I, parere n. 1852/2017 dell’08.08.2017; TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564).
Quindi, anche la predetta eccezione va respinta.
2.3. Infine, si eccepisce l’assenza della vicinitas per almeno per uno dei due permessi, considerato che riguarderebbe opere da realizzarsi a monte della Statale Regina che separerebbe le proprietà dei ricorrenti e della società controinteressata.
L’eccezione è infondata, in via assorbente, per la natura unitaria delle opere oggetto dei permessi di costruire che, non a caso, sono stati prorogati con un unico provvedimento –impugnato nella presente sede– il cui contenuto non può essere scisso e quindi non può che essere scrutinato nella sua interezza.
2.4. In ragione di quanto evidenziato in precedenza, le eccezioni di inammissibilità del ricorso devono essere respinte, in quanto infondate.
3. Passando al merito del ricorso, lo stesso è fondato.
4. Con l’unica censura di ricorso si assume l’illegittimità della proroga del termine di ultimazione dei lavori di cui ai permessi di costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, in quanto la stessa sarebbe stata assunta sulla base di una carente istruttoria e si presenterebbe come sostanzialmente immotivata, contrariamente alle previsioni della normativa di settore che consentirebbe la proroga dei termini, di natura perentoria, con provvedimento motivato ed esclusivamente per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso, debitamente accertati; in aggiunta, si deduce anche l’illegittimità della reiterazione dell’invito alla società controinteressata a presentare la denuncia per opere in cemento armato, che invece avrebbe dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori.
4.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato in precedenza, al fine di poter procedere al completamento dei lavori edilizi non ultimati nel termine previsto dal titolo, al massimo di durata triennale, la normativa richiede che la domanda debba essere proposta anteriormente alla scadenza dell’originario temine di ultimazione dei lavori e che la proroga possa essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ed “esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, nelle versione vigente ratione temporis).
Nella fattispecie de qua la società controinteressata ha chiesto al Comune, in data 09.02.2007, la proroga del termine di ultimazione dei lavori relativi ai permessi di costruire n. 1/2004 e n. 2/2004, giustificandola con la circostanza “che le operazioni preliminari per la realizzazione di sottopasso alla Strada Statale e relativa deviazione stradale hanno interessato il fermo dei lavori di cui alla premessa [e] che la natura, la quantità e consistenza del terreno da asportare (Roccia dura) si sono protratti nel tempo per oltre anni uno” (all. 9 al ricorso); l’Ufficio Tecnico comunale, in data 19.02.2007, ha accordato la proroga richiesta, indicando la data entro la quale avrebbero dovuto essere ultimati i lavori.
Tale atto di proroga risulta assolutamente immotivato e rinvia, del tutto genericamente, al contenuto della richiesta di proroga e alla tipologia dei lavori da eseguire.
È mancata, pertanto, una verifica e una attività istruttoria, seppure di minima entità, che attestasse la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per concedere la proroga, soprattutto in relazione alla non imputabilità al soggetto privato del ritardo nella conclusione dei lavori e alla sopravvenienza dei motivi che l’hanno determinata.
Difatti, è stato affermato in giurisprudenza che la proroga è disposta “con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione” (Consiglio di Stato, IV, 04.03.2014, n. 1013).
Trattandosi di un atto che, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è esercizio di discrezionalità amministrativa, lo stesso presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio della edificazione (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.08.2016, n. 1564; 29.01.2016, n. 201; TAR Friuli-Venezia Giulia, I, 22.04.2015, n. 186).
4.2. Anche la reiterazione della richiesta di presentazione della denuncia per opere in cemento armato appare illegittima, visto che la stessa avrebbe dovuto essere prodotta prima dell’inizio dei lavori, come espressamente previsto dall’art. 65, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001. Anzi la mancata presentazione della denuncia avrebbe dovuto condurre alla inibizione anche dei lavori avviati in seguito al rilascio degli originari permessi di costruire.
4.3. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura determina l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.01.2018 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale formatosi con riferimento a quanto previsto dall'articolo 28 della Legge n. 1150/1942, relativo ai piani particolareggiati -ma applicabile in via analogica ai piani di lottizzazione-, questi ultimi hanno una durata decennale, con la conseguenza che decorso il relativo termine essi perdono automaticamente efficacia.
Il termine iniziale, a partire dal quale occorre computare il termine decennale di efficacia del piano stesso, va identificato non nella data di approvazione del piano di lottizzazione, bensì nella data di perfezione e di efficacia del titolo convenzionale da cui propriamente originano i diritti ed obblighi scaturenti dalla convenzione di lottizzazione, ovvero dal diverso termine di durata del rapporto convenzionale eventualmente stabilito pattiziamente.
Orbene, poiché nel caso di specie non risulta ancora stipulata alcuna convenzione in attuazione del Piano di Lottizzazione per cui è controversia, deve ritenersi che quest’ultimo non abbia ancora perso efficacia, come invece sostenuto dalla ricorrente.
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C
ondivisibile giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 23 della Legge n. 1150/1942 ritiene che la piena disponibilità delle proprietà delle aree rientranti nel comparto costituisca comunque un presupposto necessario per la successiva presentazione ed approvazione del relativo piano di lottizzazione.
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Al riguardo, il Tribunale si limita a richiamare il prevalente orientamento giurisprudenziale formatosi con riferimento a quanto previsto dall'articolo 28 della Legge n. 1150/1942, relativo ai piani particolareggiati -ma applicabile in via analogica ai piani di lottizzazione-, secondo cui questi ultimi hanno una durata decennale, con la conseguenza che decorso il relativo termine essi perdono automaticamente efficacia (Consiglio Stato, IV Sezione, 07/02/2012 n. 2045; Tar Sardegna, II Sezione, 31/03/2011 n. 294), con la precisazione che il termine iniziale, a partire dal quale occorre computare il termine decennale di efficacia del piano stesso, va identificato non nella data di approvazione del piano di lottizzazione, bensì nella data di perfezione e di efficacia del titolo convenzionale da cui propriamente originano i diritti ed obblighi scaturenti dalla convenzione di lottizzazione, ovvero dal diverso termine di durata del rapporto convenzionale eventualmente stabilito pattiziamente (Tar Liguria, sezione I, sentenza 29.01.2015, n. 148); orbene, poiché nel caso di specie non risulta ancora stipulata alcuna convenzione in attuazione del Piano di Lottizzazione per cui è controversia, deve ritenersi che quest’ultimo non abbia ancora perso efficacia, come invece sostenuto dalla ricorrente.
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Ciò posto, osserva il Tribunale che il ricorso è fondato nel merito e deve pertanto trovare accoglimento, con consequenziale annullamento degli atti impugnati.
Ed invero, secondo il Collegio, è fondata ed assorbente la denunciata violazione, sollevata dalla ricorrente già nel primo motivo di ricorso, dell’art 27, primo comma, della Legge Regionale Pugliese n. 56/1980, ratione temporis applicabile, considerato quanto previsto dall’art. 20, primo comma, della L.R. n. 20/2001, ed atteso che solo con l’art. 37 della L.R. Puglia n. 22 del 19.07.2006, evidentemente successivo all’approvazione del Piano di Lottizzazione per cui è causa, è stata estesa a tutti gli strumenti urbanistici attuativi la legittimazione a presentare l'istanza lottizzatoria anche a coloro che rappresentino solo il 51% dei proprietari degli immobili compresi nel perimetro dell'area interessata.
Orbene, il menzionato art. 27, primo comma, della Legge Regionale Pugliese n. 56/1980 espressamente prevede che «il piano di lottizzazione è adottato, unitamente allo schema di convenzione, con delibera del Consiglio Comunale e su proposta di tutti i proprietari degli immobili interessati, compresi in una o più unità minime di intervento».
Né può validamente sostenersi, come fa la difesa dell’Amministrazione Comunale resistente, che nella specie sarebbe sufficiente l’iniziativa della maggioranza dei proprietari che rappresentino almeno il 75% del valore catastale degli immobili del comparto, in virtù del richiamo a quanto previsto dalla disciplina di cui agli artt. 23 L. n. 1150/1942 e 15 L.R. Puglia n. 6/1979; a tale riguardo il Collegio richiama la condivisibile giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 23 della Legge n. 1150/1942, che ritiene che la piena disponibilità delle proprietà delle aree rientranti nel comparto costituisca comunque un presupposto necessario per la successiva presentazione ed approvazione del relativo piano di lottizzazione (cfr. TAR Sicilia, Catania, 28.11.1995, n. 2541, TAR Puglia-Bari, 15.04.2005, n. 1607), oltre che ad evidenziare che l’art. 27, primo comma, della L.R. Pugliese n. 56/1980 è -in ogni caso- successivo rispetto agli invocati artt. 23 L. n. 1150/1942 e 15 L.R. Puglia n. 6/1979.
Ciò posto, appare evidente come nel caso di specie il Piano di Lottizzazione del "Comparto n. 17 via Merine”, risultando adottato ed approvato in difetto della proposta da parte di tutti i proprietari degli immobili interessati, oltre che in difetto della partecipazione della ricorrente al relativo iter procedimentale, debba giudicarsi illegittimo e meritevole di annullamento in conformità a quanto richiesto dalla ricorrente stessa.
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente illustrate, il ricorso va accolto con consequenziale annullamento degli atti impugnati
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.01.2018 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la datazione di un'opera edilizia, che valore ha la "dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà"?
Secondo quanto affermato dalla condivisibile giurisprudenza formatasi proprio in tema di datazione delle opere entro la data di scadenza del condono edilizio, che "la dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata.
Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere. Detta dichiarazione sostitutiva non preclude all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest'ultima l'onere di fornire la prova dell'ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall'interessato.
La prova sulla realizzazione delle opere abusive entro la data fissata grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario, il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l'Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria".
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La ricorrente lamenta in primo luogo che l’Amministrazione intimata abbia erroneamente ritenuto, esclusivamente in base agli esiti del sopralluogo effettuato dalla P.M. di Copertino in data 30.03.2004, che le opere oggetto dell’istanza di sanatoria presentata in data 09.12.2004 siano state realizzate dopo la data del 31.03.2003, mentre invece le stesse risultavano in realtà già ultimate allo stato rustico ben prima del 20.03.2003, ed all’atto del citato sopralluogo della P.M. avevano luogo solo opere ordinarie di rifinitura.
Ciò posto, l’odierna ricorrente impugna il rigetto della richiesta del permesso di costruire in sanatoria, lamentando che il Comune di Lecce non abbia tenuto conto della data di ultimazione dei lavori dalla stessa indicata nelle istanze di sanatoria presentate.
Orbene, il Collegio non ritiene condivisibile quanto sostenuto dalla ricorrente.
Al riguardo, il Collegio evidenzia in primo luogo come, secondo quanto affermato dalla condivisibile giurisprudenza formatasi proprio in tema di datazione delle opere entro la data di scadenza del condono edilizio, che "la dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere. Detta dichiarazione sostitutiva non preclude all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest'ultima l'onere di fornire la prova dell'ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall'interessato. La prova sulla realizzazione delle opere abusive entro la data fissata grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario, il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l'Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria" (TAR Lazio Roma Sezione II, 06.12.2010, n. 35404).
Orbene, osserva il Collegio che nel caso di specie la ricorrente non ha fornito alcun ulteriore elemento atto a provare di avere realizzato le opere per cui è controversia prima della data del 30.03.2003, stabilita dall’art. 32, comma 25, del Decreto Legge 30.09.2003 n. 269 (convertito dalla Legge 24.11.2003 n. 326) quale termine ultimo per potere usufruire del “condono” ivi previsto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.01.2018 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Valutazione di impatto ambientale su un impianto di produzione di energia eolica.
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Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale – Regione Molise – Competenza – Art. 8, l. reg. n. 21 del 2000 – E’ della Giunta regionale.
  
Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale - Impianto di produzione di energia eolica – Valutazione negativa – Comunicazione di avvio del procedimento – Omissione – Irrilevanza.
  
Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale - Impianto di produzione di energia eolica – Conferenza di servizi unitaria – Ratio.
  
Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale - Impianto di produzione di energia eolica – Autorizzazione semplificata, in funzione del c.d. sviluppo sostenibile.
  
Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale - Impianto di produzione di energia eolica – Preclusione per intere aree – Esclusione.
  
Energia elettrica – Fonti alternative – Valutazione di impatto ambientale - Impianto di produzione di energia eolica – Sotterazione di intere aree – Presupposti.
  
Nella Regione Molise, ai sensi dell’art. 8, comma 2, l.reg. Molise 24.03.2000, n. 21 rientra nella competenza della Giunta regionale l’adozione della valutazione di impatto ambientale sul progetto di realizzazione di impianto di produzione di energia eolica.
  
La valutazione di impatto ambientale negativa sul progetto di realizzazione di impianto di produzione di energia eolica non deve essere preceduta dal preavviso di rigetto, non trattandosi di provvedimento conclusivo del procedimento di autorizzazione alla realizzazione dell’impianto stesso (1).
  
Lo strumento della conferenza dei servizi unitaria a cui devono essere necessariamente presenti tutti i soggetti pubblici aventi titolo a pronunciarsi sulla realizzazione dell’impianto di produzione di energia elettrica con fonti rinnovabili è stato prescelto dal legislatore non solo in funzione di semplificazione del procedimento e di garanzia di una sua maggiore celerità ma in special modo perché tutti i soggetti pubblici coinvolti abbiano modo di maturare il proprio parere nella piena consapevolezza del complesso degli elementi di valutazione addotti da tutti i partecipanti in modo che la valutazione finale di sintesi di competenza dell’autorità procedente sia sostenuta da una istruttoria per quanto possibile completa e, comunque, non deve essere privata di alcun apporto previsto dalle norme dello specifico procedimento (2).
  
La diffusione degli impianti di produzione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili (nella specie, impianto di produzione di energia eolica) è un obiettivo fondamentale per garantire l’approvvigionamento energetico con un minor impatto ambientale rispetto a quello conseguente allo sfruttamento delle fonti di produzione di tipo fossile e per raggiungere tale obiettivo è stato introdotto un meccanismo procedimentale di autorizzazione semplificata, in funzione del c.d. sviluppo sostenibile (direttiva 2001/77/CE: considerando 1), con il quale si designa quel modello di evoluzione che non assegna incondizionato valore al progresso scientifico, economico e sociale, ma ci si sforza di contemperare questi obiettivi con la tutela dell’ambiente nella consapevolezza, oramai acquisita anche nella legislazione degli ultimi decenni, che lo sviluppo non è un valore assoluto e che può essere anche limitato allorché ponga a rischio il primario valore della salute che, anche da un punto di vista logico, non può non avere prevalenza sulla promozione del benessere in quanto la conservazione dell’ecosistema costituisce un presupposto necessario di quest’ultimo (3).
  
L’Amministrazione, nell’ambito del procedimento di autorizzazione per la realizzazione di impianto di produzione di energia eolica non può precludere in via generale per intere aree la realizzazione di tali impianti, essendo chiamata a compiere una valutazione specifica ed individualizzata della singola istanza senza applicare una nuova aprioristica gerarchia che inverta la scala dei valori, ma compiendo una valutazione in concreto che tenga conto quindi di tutte le circostanze fattuali del caso, astenendosi da giudizi astratti, sconnessi cioè dalle caratteristiche specifiche della singola intrapresa (4).
  
La sottrazione di intere aree all’installazione di impianti di produzione da energie rinnovabili può avvenire solo per effetto di vincoli di tipo normativo ovvero per effetto di scelte di tipo pianificatorio adottate con lo speciale procedimento previsto dalle Linee Guida nazionali approvate con d.m. 10.09.2010 del Ministero dello Sviluppo Economico (5).
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   (1) Il Tar ha ricordato che secondo il Giudice delle leggi (03.05.2013, n. 81) la disposizione della legge regionale che appunta sulla Giunta regionale la competenza ad adottare la VIA “non appare irragionevole, anche in considerazione della particolare complessità della VIA. In quest’ultimo atto, infatti, a verifiche di natura tecnica circa la compatibilità ambientale del progetto, che rientrano nell’attività di gestione in senso stretto e che vengono realizzate nell’ambito della fase istruttoria, possono affiancarsi e intrecciarsi complesse valutazioni che –nel bilanciare fra loro una pluralità di interessi pubblici quali la tutela dell’ambiente, il governo del territorio e lo sviluppo economico– assumono indubbiamente un particolare rilievo politico. In ragione di ciò, il riparto di competenze previsto dalla disposizione censurata, in un ambito caratterizzato da un intreccio di attività a carattere gestionale e di valutazioni di tipo politico, non viola l’art. 97 Cost.”.
Anche nel caso della disciplina della Regione Molise, la Giunta è chiamata ad adottare la Valutazione di Impatto Ambientale sulla base di un’istruttoria tecnica compiuta da un organo tecnico composto dai responsabili dei servizi tecnici della Regione, con ciò replicando l’assetto di competenze ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la pronuncia appena riportata: né la circostanza che con la delibera contestata non sia stata introdotta alcuna modifica regolamentare conduce all’esclusione della competenza della Giunta, atteso che la distinzione tra atti di indirizzo politico e di gestione amministrativa non si identifica in quella tra atti regolamentari o generali e provvedimenti riferiti ad un caso specifico, ben potendo atti di tale ultima tipologia concorrere ad esprimere l’indirizzo politico dell’ente e quindi essere adottati, come nel caso di specie, dall’organo a tal fine competente.
   (2) Tar Molise 10.03.2011, n. 109; id. 04.06.2013, n. 397; id. n. 423 del 2015.
Ha chiarito il Tar che la funzione appena riportata si sia verificata anche nel caso di specie, atteso che risulta comunque realizzata la concentrazione nell’unica sede ed in un unico momento, de visu, della manifestazione degli interessi di cui è portatore ciascuno dei soggetti partecipanti, i quali nella sede della conferenza manifestano e discutono le reciproche posizioni maturate sulla base delle istruttorie svolte da ciascuna Amministrazione e che, nel caso della VIA, presentano un grado di notevole complessità che ne impone lo svolgimento e la predisposizione al di fuori della sede conferenziale.
A quest’ultima è invece demandata la funzione di realizzare una sintesi delle posizioni espresse dai partecipanti pervenendo a soluzioni il più possibile condivise, ma senza tuttavia ripetere tutti i singoli accertamenti tecnici svolti dai partecipanti, perché altrimenti la conferenza perderebbe la funzione di strumento di semplificazione che essa assolve.
Peraltro, la stessa esigenza di concentrazione a cui risponde la conferenza di servizi risulta soddisfatta anche se la VIA sia adottata in anticipo, non inibendosi in tal modo il confronto e la discussione all’interno della conferenza.
   (3) Ha chiarito il Tar che i principi fondamentali fissati dal legislatore statale in attuazione della “Direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”, sono consacrati nell’art. 12, commi 3 e 4, d.lgs. 29.12.2003, n. 387 che ha disciplinato il procedimento amministrativo volto al rilascio dell’autorizzazione Unica per la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia anche alla luce degli impegni europei conseguenti all’adesione dell’Italia ai protocolli di Kyoto sul contenimento del CO2 ed alle successive integrazioni relative alla limitazione dell’uso dei combustibili fossili e degli idrocarburi.
Si tratta, peraltro, di profili che in Italia interferiscono non solo con il piano ambientale, ma anche con quello propriamente economico, data la quasi totale dipendenza in materia di idrocarburi dalle importazioni.
In conseguenza, la disciplina legislativa sul procedimento autorizzatorio degli impianti destinati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ha natura di normativa speciale, informata al canone della massima semplificazione al fine di “… rendere più rapida la costruzione degli impianti di produzione di energia alternativa..." (Corte cost. n. 13 del 28.01.2014).
Il sostanziale favor del legislatore europeo e nazionale, sottolineato anche dal Giudice delle leggi (17.10.2012, n. 224) come limite alla competenza legislativa delle Regioni, comporta che il margine di intervento riconosciuto alla Regione non tolleri in alcun modo irragionevoli limitazioni, anche in via di fatto, all’istallazione dei generatori sul territorio regionale (come ad esempio “… la fissazione di un indice massimo di affollamento, il parametro di controllo P”: Corte cost. 26 novembre n. 344), poiché ciò contrasterebbe con il principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, stabilito dalla ricordata disciplina statale ed europea (cfr. Corte Cost. 17.10.2012, n. 224).
A ciò si aggiunga il considerando n. 1 della citata direttiva 2001/77/CE il quale dispone espressamente che “Il potenziale di sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili è attualmente sottoutilizzato nella Comunità. Quest'ultima riconosce la necessità di promuovere in via prioritaria le fonti energetiche rinnovabili, poiché queste contribuiscono alla protezione dell'ambiente e allo sviluppo sostenibile”.
In applicazione di tali principi il Tar ha ritenuto che l’impugnato provvedimento di VIA si mostra lacunoso in quanto richiama genericamente a supporto del parere negativo il pregiudizio al valore ambientale, senza tuttavia individuare gli specifici aspetti per i quali l’ambiente verrebbe ad essere pregiudicato dalla realizzazione dell’impianto.
Ha aggiunto il Tar che, secondo quanto ha stabilito il comma 3 dell’art. 4, d.lgs. n. 152 del 2006 “valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica. Per mezzo della stessa si affronta la determinazione della valutazione preventiva integrata degli impatti ambientali nello svolgimento delle attività normative e amministrative, di informazione ambientale, di pianificazione e programmazione”.
La disposizione dimostra che la valutazione ambientale non può esaurirsi in una mera verifica della presenza nell’area di interesse di siti aventi una qualche rilevanza ambientale, ma deve sostanziarsi in un vero e proprio giudizio di complessiva compatibilità, al quale non sono estranee valutazioni relative all’attività economica imprenditoriale la quale non può essere pregiudizialmente inquadrata come un controinteresse rispetto alla tutela ambientale, come invece l’Amministrazione regionale ha opinato nella fattispecie. Tale ultima considerazione è ancora più valorizzabile in un contesto, come quello dello sfruttamento delle energie rinnovabili, in cui la stessa tutela dell’ambiente, come accennato, passa attraverso una legislazione nazionale ed europea che favorisce chiaramente la produzione di energia con mezzi non inquinanti.
   (4) Ha ricordato il Tar che il procedimento di autorizzazione unica agli impianti eolici è disciplinato dall’art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003 e nel dettaglio dalle Linee Guida nazionali approvate con d.m. 10.09.2010 del Ministero dello Sviluppo Economico (sostanzialmente trasfuso nelle linee guida regionali approvate con delibera n. 621 de 2011) che ne individua i presupposti e le scansioni in cui esso si articola.
Rilevano, in particolare, nel caso di specie il punto 1.1 secondo cui l’attività di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili costituisce “attività libera”, il successivo punto 1.2 a mente del quale le sole Regioni e Province possono porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatico o pianificatorio per l’installazione di specifiche tipologie di impianti alimentati a fonti rinnovabili ed esclusivamente nell’ambito e con le modalità di cui al punto 17 del medesimo testo normativo, secondo cui le Regioni e Province per l’accelerazione dell’iter autorizzatorio possono procedere all’indicazione delle aree non idonee.
Pertanto in base alle Linee Guida, al di fuori delle preclusioni conseguenti all’apposizione di vincoli che rendano incompatibili gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili nelle specifiche zone individuate, la Regione e la Provincia possono procedere alla determinazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti “attraverso un'apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell'ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione”.
In altre parole, la sottrazione di intere aree all’installazione di impianti di produzione da energie rinnovabili può avvenire solo per effetto di vincoli di tipo normativo ovvero per effetto di scelte di tipo pianificatorio adottate con lo speciale procedimento descritto nelle predette Linee Guida.
   (5) Ha chiarito il Tar che l’Amministrazione, nell’ambito del procedimento di autorizzazione delle iniziative del tipo di quella oggetto di causa, non può precludere in via generale per intere aree la realizzazione degli impianti in questione, essendo chiamata a compiere una valutazione specifica ed individualizzata della singola istanza senza applicare una “nuova aprioristica gerarchia che inverta la scala dei valori, ma compiendo una valutazione in concreto che tenga conto quindi di tutte le circostanze fattuali del caso, astenendosi da giudizi astratti, sconnessi cioè dalle caratteristiche specifiche della singola intrapresa".
Né può argomentarsi che un siffatto vincolo sorga per effetto della prossimità dell’area oggetto di considerazione rispetto ad un bosco (distante 50 volte l’altezza dell’aerogeneratore più vicino) che, in quanto tale, risulta oggetto di vincolo ex lege ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004. Ed invero, almeno con riguardo ai boschi, la sussistenza di un’area contermine può difficilmente ravvisarsi. E infatti, le linee guida nazionali dettano una specifica disciplina al punti 4.3 e 4.4 dell’allegato IV relativamente agli impatti degli impianti eolici sull’ecosistema compresi i boschi in considerazione della vicinanza dell’impianto da realizzare.
Sennonché, la previsione nelle linee guida di siffatte specifiche misure di mitigazione dell’impatto nel caso di prossimità degli impianti rispetto ai boschi non avrebbe alcun senso se tali impianti dovessero essere, come regola generale, realizzati ad una distanza di almeno 7 KM dall’area boschiva.
In altre parole, le stesse linee Guida nel regolamentare gli impatti degli impianti eolici sulle zone boschive limitrofe, muovono dall’evidente presupposto che non vi siano aree contermini, altrimenti non vi sarebbe stata la necessità di dettare una specifica regolamentazione volta a limitare l’incidenza degli stessi impianti sulle aree boschive (TAR Molise, sentenza 15.01.2018 n. 15 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La SCIA per sua natura, poiché dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge e non certo istanza di parte per l’avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, non ammette la comunicazione dei motivi ostativi al suo accoglimento prima dell’esercizio da parte dell’Autorità dei poteri inibitori e di controllo.
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E' comunque legittimo il diniego di sanatoria che elenca una serie di documenti che difettavano alla SCIA presentata poiché, diversamente, pretendere da parte del Comune la loro produzione si tradurrebbe in un inutile aggravio a carico del privato, posto che, stante il contrasto delle opere abusive con la vigente disciplina urbanistica, il procedimento comunque non avrebbe potuto avere un esito diverso.
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Con il primo motivo di impugnazione parte ricorrente lamenta che il diniego di sanatoria e l’ordine di demolizione siano intervenuti senza la preventiva comunicazione, ex articolo 10-bis L. n. 241/1990, dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, e senza alcuna richiesta di integrazione della documentazione che secondo l’Amministrazione avrebbe dovuto corredare SCIA in sanatoria.
La doglianza è infondata in entrambi i profili in cui si articola.
Quanto al primo aspetto, va ribadito che la SCIA per sua natura, in quanto cioè è dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge, e non certo istanza di parte per l’avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, non ammette la comunicazione dei motivi ostativi al suo accoglimento prima dell’esercizio da parte dell’Autorità dei poteri inibitori e di controllo (cfr., TAR Abruzzo–L’Aquila, sentenza n. 347/2017; TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, sentenza n. 1599/2017).
Quanto al secondo aspetto, è ben vero che l’ordinanza di diniego di sanatoria elencava una serie di documenti che difettavano alla SCIA presentata dalla società ricorrente e tuttavia pretendere da parte del Comune la loro produzione si sarebbe tradotto in un inutile aggravio a carico del privato, posto che, stante il contrasto delle opere abusive con la vigente disciplina urbanistica, il procedimento comunque non avrebbe potuto avere un esito diverso (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.01.2018 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza Plenaria la questione del risarcimento da perdita di chance in caso di illegittimo affidamento diretto di appalto ad altra impresa.
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Responsabilità civile – Contratti pubblici – Affidamento diretto illegittimo – Impresa concorrente – Danno – Perdita di chance – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Va rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico (1).

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   (1) I. - Con una articolata motivazione la quinta sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione della spettanza, in favore di un’impresa del settore, del risarcimento del danno per perdita di chance, in caso di illegittimo affidamento diretto di appalto pubblico ad altra impresa concorrente.
La rimessione è stata disposta in relazione a un complesso giudizio, avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità dell’affidamento diretto ad un’impresa concorrente, nell’ambito del quale era stata successivamente proposta anche una domanda risarcitoria, accolta dalla sentenza di primo grado.
In particolare, il Tar aveva accolto la domanda di ristoro per equivalente della chance di aggiudicazione di una «gara che l’amministrazione avrebbe dovuto indire», muovendo da una qualificazione di tale posizione giuridica come «possibilità di conseguire un risultato favorevole», lesa dall’illegittimo affidamento senza gara del servizio.
   II.- Prima di deferire la questione alla Plenaria, la sentenza in esame ha approfondito il tema dei presupposti della domanda risarcitoria, al fine di dirimere i punti controversi (dedotti con altrettanti mezzi di gravame). 
In particolare:
   a)   è stata accertata la consistenza della chance di aggiudicazione mediante gara, vantata dall’impresa concorrente, nella misura del 20%, derivante dall’esistenza di cinque operatori qualificati nel mercato dei servizi di comunicazione elettroniche per le pubbliche amministrazione; 
   b)   è stato evidenziato che in materia di responsabilità civile ex art. 2043 c.c., nel cui paradigma è inquadrabile la responsabilità della pubblica amministrazione per illegittimità provvedimentale: 
      b1) la c.d. teoria della causalità alternativa ipotetica ha rilievo solo in relazione agli illeciti omissivi; solo per questa categoria occorre, infatti, stabilire se l’evento dannoso non si sarebbe verificato se il preteso responsabile avesse posto in essere la condotta doverosa imposta; 
      b2) diversamente, la stessa teoria è priva del suo presupposto rispetto ad illeciti commissivi, quali appunto quelli derivanti dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, come nel caso oggetto del presente giudizio; in relazione a quest’ultima categoria, l’accertamento del giudice deve stabilire se gli atti amministrativi abbiano costituito la causa del danno lamentato, e dunque se costituiscano il fatto illecito che è fonte di responsabilità ai sensi della clausola generale dell’art. 2043 c.c.;
   c)   si è concluso ricordando che la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che la domanda risarcitoria va respinta una volta accertata la legittimità dell’atto impugnato, perché diviene carente il requisito dell’ingiustizia del danno, essenziale per integrare la fattispecie di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; se ne desume, a contrario, che una volta accertata l’illegittimità dell’atto, non resta possibile per l’amministrazione sottrarsi all’addebito di responsabilità civile invocando asserite alternative provvedimentali; tanto meno quando queste possano configurare ulteriori ragioni di illegittimità del medesimo atto; infatti, in questa ipotesi si opererebbe una scissione nel rapporto di necessaria consequenzialità tra il giudizio di legittimità sul provvedimento amministrativo oggetto della domanda di annullamento e il rimedio del risarcimento del danno «per lesione di interessi legittimi», la cui cognizione è devoluta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo (art. 7, comma 4, c.p.a.).
   III.- La rimessione
Una volta accertata la sussistenza dei presupposti della domanda risarcitoria ed il relativo inquadramento teorico, la quinta sezione ha registrato, sul punto specifico della risarcibilità per equivalente della perdita di possibilità, un contrasto tra pronunce aderenti alla teoria della chance ontologica e quelle che invece optano per la chance eziologica.
Secondo un primo orientamento (ritenuto come esemplificato dalle seguenti pronunce: sez. III, 09.02.2016, n. 559; sez. V, 01.10.2015, n. 4592) il risarcimento della chance, a fronte della mancata indizione di una gara, è condizionato dalla prova di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita negato dall’amministrazione per effetto di atti illegittimi. 
Secondo un diverso approccio (ritenuto come esemplificato dalle seguenti decisioni: sez. V, 01.08.2016, n. 3450id. 08.04.2014, n. 1672id. 02.11.2011, n. 5837), in circostanze analoghe, di mancata indizione della gara, va riconosciuto il risarcimento della chance vantata dall’impresa del settore.
Ciò sulla base del rilievo che, in caso di mancato rispetto degli obblighi di evidenza pubblica (o di pubblicità e trasparenza), non è possibile formulare una prognosi sull’esito di una procedura comparativa in effetti mai svolta e che tale impossibilità non può ridondare in danno del soggetto leso dall’altrui illegittimità, per cui la chance di cui lo stesso è titolare deve essere ristorata nella sua obiettiva consistenza, a prescindere dalla verifica probabilistica dell’ipotetico esito della gara.
All’esito del confronto ricostruttivo, la discriminante tra le due opposte configurazioni viene individuata nel rilievo da attribuire alla possibilità di conseguire il bene della vita illegittimamente privato dall’amministrazione e, in particolare, sul grado di probabilità statistica: quale fattore incidente sulla sola quantificazione del danno risarcibile nel primo caso e sull’an stesso del risarcimento nel secondo. 
In tale contesto, mentre la teoria della chance ontologica configura tale posizione giuridica come un danno emergente, ovvero come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, la cui lesione determina una perdita suscettibile di autonoma valutazione sul piano risarcitorio, la teoria eziologica intende la lesione della chance come violazione di un diritto non ancora acquisito nel patrimonio del soggetto, ma potenzialmente raggiungibile, con elevato grado di probabilità, statisticamente pari almeno al 50%.

Si tratta dunque di un lucro cessante.
   IV.- Per completezza si segnala quanto segue:
      d)   in punto di risarcibilità dei danni in materia di appalti pubblici, con particolare riferimento alla liquidazione del danno da mancata aggiudicazione, 
Cons. Stato, Ad. plen. 12.05.2017, n. 2 (oggetto della 
News US in data 16.05.2017, nonché in Foro it., 2017, III, 433, con nota di TRAVI; Guida al dir., 2017, fasc. 24, 95, con nota di PONTE;  Corriere giur., 2017, 1252, con nota di SCOCA, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui: “Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto). Spetta, in ogni caso, all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità —o di estrema difficoltà— di una precisa prova sull'ammontare del danno “;
      e)   in tema di responsabilità precontrattuale, Cons. Stato sez. III, 24.11.2017, n. 5492 (oggetto della News US in data 28.11.2017, ai cui approfondimenti si rinvia), secondo cui “Vanno rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni:
   a) se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione;
   b) se, nel caso di risposta affermativa, la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell’amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all’emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, che ne ponga nel nulla gli effetti o ne ritardi l’eliminazione o la conclusione
“;
      f) in tema di danno da perdita di chance per condotta illegittima della P.A. lesiva di interesse legittimo: 
         f1) Cass., sez. lav., 12.04.2017, n. 9392, in Foro it., 2017, I, 1512, secondo cui “Nell'ipotesi di accertata illegittimità del procedimento di valutazione negativa di un dirigente pubblico per il mancato raggiungimento degli obiettivi -nella specie, per tardiva indicazione degli stessi rispetto al periodo in cui avrebbero dovuti essere perseguiti- non compete un risarcimento automaticamente commisurato all'indennità di risultato non percepita, in quanto il giudice ordinario non può sostituirsi all'organo deputato alla verifica dei risultati che ne condizionano l'erogazione, ma, ove ritualmente richiesto, non può essere escluso il danno da perdita di "chance", dimostrabile anche per presunzioni e con liquidazione necessariamente equitativa”;
         f2) Cass. civ., sez. I, 29.11.2016, n. 24295, in Foro it., 2017, I, 1374, secondo cui “il danno patrimoniale da perdita di "chance" è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati. In altre parole, il danno in oggetto presuppone la prova, in via presuntiva e probabilistica, della concreta e non meramente ipotetica possibilità di conseguire vantaggi economicamente apprezzabile. (Nel caso in esame ad un soggetto veniva preclusa la possibilità di partecipazione a gare pubbliche per la illegittima mancata iscrizione dell'impresa nell'Albo Nazionale Costruttori per le categorie di lavori ed importi indicati)”;
         f3) Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23933 (in Foro it., 2013, I; 3419 con nota di MANENTI ai cui riferimenti si rinvia; Guida al diritto 2014, 1, 31 con nota di IORIO e di MECCA), secondo cui “in tema di responsabilità aquiliana, nella comparazione delle diverse concause, nessuna delle quali appaia del tutto inverosimile e senza che una sola assuma con evidenza una efficacia esclusiva rispetto all'evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia "più probabile che non" rispetto alle altre nella determinazione dell'evento. Ne consegue che, nell'ipotesi in cui si sostenga l'esistenza d'un nesso causale tra la condotta posta in essere da organi della p.a. per il depistaggio di indagini giudiziarie, avviate a seguito di un disastro aereo, e il danno da fallimento della compagnia aerea proprietaria del velivolo coinvolto nel disastro, la cui immagine si lamenta essere stata lesa dal depistaggio finalizzato ad avvalorare la tesi del cedimento strutturale dell'aereo e dell'inaffidabilità tecnica e commerciale della compagnia, è incongruo limitarsi ad attribuire alla situazione di preesistente dissesto finanziario - desunto dalla revoca della concessione di volo intervenuta sei mesi dopo il disastro - la causa del fallimento della società, e del danno da questo derivante, essendo invece necessario comparare le concause, verificando in concreto se la situazione di irrecuperabile dissesto fosse effettivamente preesistente al disastro aereo, oppure se uno stato debitorio non patologico per una compagnia aerea si sia aggravato in modo decisivo proprio per la riconosciuta attività di depistaggio con discredito commerciale”;
         f4) Cons. Stato, sez. III, 17.11.2017, n. 5303 in lamministrativista.it, 20.11.2017, secondo cui “quando viene giudicato illegittimo l’affidamento diretto di un appalto (e, quindi, la gara non è stata proprio indetta), l’impresa che, come operatrice del settore, lo ha impugnato, lamentando la sottrazione al mercato di quel contratto, riceve, in via generale, una tutela risarcitoria integralmente satisfattiva per mezzo dell’effetto conformativo che impone all’Amministrazione di bandire una procedura aperta per l’affidamento dell’appalto (ed alla quale potrà partecipare, conservando, perciò, integre le possibilità di aggiudicazione del contratto). Nelle ipotesi, tuttavia, in cui tale forma di tutela (in forma specifica) non sia più possibile perché l’Amministrazione abbia deciso di gestire direttamente il servizio, internalizzandone l’esercizio, quella risarcitoria per equivalente da perdita di chance resta, in ogni caso, preclusa dall’assorbente rilievo che l’impresa asseritamente danneggiata non può certo dimostrare, per il solo fatto di operare nel settore dell’appalto illegittimamente sottratto al mercato, di aver perduto, quale diretta conseguenza dell’invalida assegnazione del contratto ad altra impresa, una occasione concreta di aggiudicarsi quell’appalto o, in altri, termini che, se l’Amministrazione lo avesse messo a gara, se lo sarebbe con elevata probabilità aggiudicato”;
   g) sulla necessità di ancorare a rigorosi presupposti la compensazione della lesione della chance, nel caso di omessa partecipazione alla gara di appalto, e dunque nella prospettiva evidente di prevenire il surrettizio passaggio dalla logica risarcitoria a quella indennitaria, Cons. Stato sez. V, 30.06.2015, n. 3249 (in Foro it., 2015, III, 440, con nota adesiva di TRIMARCHI BANFI e in Nuovo notiziario giur., 2015, 570, con nota di GIANI), secondo cui “il danno da "perdita di chance" può essere ravvisato e risarcito solo avuto riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita, cioè ove lo stesso dimostri che aveva una possibilità di successo (nella specie di vedersi aggiudicato un appalto) almeno pari al 50 per cento, perché diversamente diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo statisticamente non significative “;
   h) sulla non spettanza dei costi di partecipazione alla gara in caso di perdita di chance, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2017, n. 731, secondo cui “il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara pubblica, non è risarcibile, in favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell'appalto (o anche la perdita della relativa chance). Difatti, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti questi profili dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in rilievo solo la pretesa risarcitoria del contraente che si duole di essere stato coinvolto in trattative inutili”;
   i) sulla non necessità di accertare la illegittimità dell’atto amministrativo ex art. 34, comma 3, c.p.a., ove la domanda risarcitoria risulti inaccoglibile per carenza della prova del danno, Cons. Stato, sez. V, 04.11.2016, n. 4628, secondo cui “l'adozione di un singolo atto illegittimo, o più atti illegittimi, non sono, di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo la presenza di un complessivo disegno persecutorio, qualificato da comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa “;
   j) sulla prova rigorosa della perdita di chance e del nesso causale fra condotta ed evento in generale, Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2195, secondo cui “la prova dell'esistenza dell'antigiuridicità del danno derivante dal provvedimento o comportamento illecito della p.a. deve intervenire all'esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l'esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l'esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell'ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall'agire (o dall'inerzia) illegittima della p.a.”; sez. IV, 15.09.2014, n. 4674 in Foro it., 2015, III, 106, con nota di GALLI, secondo cui “al fine di ottenere il risarcimento per perdita di una chance, è necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto”;
   k) sulla impossibilità di configurare il risarcimento del danno in caso di annullamento dell’atto per vizi formali cfr. Cons. Stato sez. IV, 04.07.2017, n. 3255, secondo cui fra l’altro “è legittimo il rigetto d'istanza risarcitoria per danno esistenziale quando dalla qualità della vita personale dell'istante il Collegio giudicante rileva l'inesistenza stessa del danno esistenziale come categoria autonoma di danno”;
   l) in dottrina, nell’ambito di una vasta letteratura sul danno da perdita di chance, cfr. di recente SCOGNAMIGLIO, Le Sezioni unite ed i danni puntivi, tra legge e giudizio, in Resp. civ. e prev. 2017, 1109, fasc. 4; TRIMARCHI BANFI, L’interesse legittimo attraverso il filtro dell’interesse a ricorrere, in Diritto Processuale Amministrativo, 2017, 771, fasc. 3; ANZINI, Il riparto dell'onere probatorio nelle due specie di responsabilità civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, 228, fasc. 1; QUAGLIA, Risarcimento per equivalente e appalti pubblici, in Riv. giur. edilizia, 2017, 31, fasc. 1; SAVOIA, Omessa iscrizione all'Albo Costruttori per colpa del Ministero: è danno da perdita di chances, in Diritto & Giustizia, 2016, 6, fasc. 93; DI GIOVANNI, Brevi riflessioni sulla dubbia esistenza della chance nel settore dei contratti pubblici, in Urb. e app., 2017, 778, che nega, muovendo dalla esaustiva analisi della migliore dottrina e giurisprudenza, che la chance possa ricondursi alla categoria dei beni giuridici ovvero dell’interesse legittimo pretensivo, specie avuto riguardo: 
      l1) alla immanenza del potere esercitato ed esercitabile (dopo il giudicato) dalla stazione appaltante; 
      l2) alla necessità di evitare una distorsione del meccanismo di compensazione dei danni (effettivamente) subiti dalle imprese interessate; 
      l3) alla dissimmetria tra il rimedio risarcitorio per equivalente e quello in forma specifica, con la conseguente destabilizzazione di un ordinamento giuridico che ha peculiari logiche di funzionamento ispirate alla tutela dell’interesse generale (sia collettivo che della finanza pubblica)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2018 n. 118 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINegli appalti pubblici offerta immodificabile. Ammesse solo correzioni di errori.
Ammesse le mere correzioni di meri errori materiali dell'offerta; per il resto vige il principio dell'immodificabilità delle offerte.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 11.01.2018 n. 113 della V Sez..
I giudici premettono che nella materia degli appalti pubblici si applica il principio generale della immodificabilità dell'offerta, per assicurare imparzialità e trasparenza dell'agire della stazione appaltante, ma anche la concorrenza e la parità di trattamento tra gli operatori economici che prendono parte alla procedura concorsuale.
Alla luce di questa premessa i giudici ribadiscono che nelle gare pubbliche è ammissibile un'attività interpretativa della volontà dell'impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell'offerta, ciò purché si giunga ad esiti certi circa la portata dell'impegno negoziale con essi assunti.
Per quanto riguarda le offerte, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l'effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all'offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell'offerente.
Rispetto alla fattispecie esaminata dal Consiglio di stato si dà atto che non vi sia stata alcuna (inammissibile) attività manipolativa a opera della Commissione che si era al più limitata a correggere un mero errore materiale, a fronte di una volontà correttamente espressa dalla partecipante in relazione all'offerta economica, nei limiti indicati dalla consolidata giurisprudenza in materia.
Ciò è del tutto legittimo perché, dice la sentenza, l'errore materiale direttamente emendabile è soltanto quello che può essere percepito o rilevato «ictu oculi» dal contesto stesso dell'atto e senza bisogno di complesse indagini ricostruttive di una volontà agevolmente individuabile e chiaramente riconoscibile da chiunque. Nel correggere l'errore materiale la stazione appaltante non aveva quindi posto in essere un'operazione lesiva concreto la par condicio dei concorrenti (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).
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MASSIMA
I motivi di appello, da trattarsi congiuntamente, non sono fondati.
Va, invero, preliminarmente osservato che, come a più riprese chiarito dalla giurisprudenza amministrativa,
nella materia degli appalti pubblici vige il principio generale della immodificabilità dell’offerta, che è regola posta a tutela della imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, nonché ad ineludibile tutela del principio della concorrenza e della parità di trattamento tra gli operatori economici che prendono parte alla procedura concorsuale.
In applicazione di tale principio avente carattere generale, il Collegio condivide e intende dare continuità all’orientamento consolidato di questo Consiglio, secondo cui “
nelle gare pubbliche è ammissibile un’attività interpretativa della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta, purché si giunga ad esiti certi circa la portata dell’ impegno negoziale con essi assunti; evidenziandosi, altresì, che le offerte, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l’effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente” (Consiglio di Stato, IV, 06.05.2016 n. 1827).

URBANISTICA: Programmazione urbanistica e misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti
Il TAR Milano torna sul tema del mantenimento di talune attività in rapporto a previsioni urbanistiche che possano avere un effetto espulsivo e richiama l’orientamento secondo il quale se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati.
Secondo tale orientamento, gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità; la programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, non ravvisando il Collegio ragioni per disattendere le statuizioni espresse in sede cautelare.
Con entrambi i motivi, che in ragione della stretta dipendenza tematica possono essere esaminati congiuntamente, la ricorrente ha sostanzialmente dedotto il difetto d’istruttoria in cui sarebbe incorso l’ufficio tecnico comunale, il quale ha reputato che l’intervento oggetto della DIA presentata il 06.04.2007 avrebbe contemplato una ristrutturazione edilizia, tale, dunque, da determinare una trasformazione dell’organismo edilizio (quindi violando la disciplina di cui all’art. 29 delle norme tecniche di attuazione del PRUG), piuttosto che un intervento di manutenzione ordinaria o, al limite, straordinaria, entrambi connotati dalla necessità, nel primo caso, di “integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti”, ovvero, nella seconda ipotesi, di provvedere alla “realizzazione ed integrazione dei servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
Sul punto, l’esito della cognizione cautelare ha accertato la legittima prerogativa della società ricorrente di effettuare nella propria officina un adeguamento tecnologico imposto da una sopravvenuta normativa di derivazione comunitaria (si tratta della Direttiva del Consiglio n. 13/1999/CE sulla “limitazione delle emissioni di composti organici volatili dovute all'uso di solventi organici in talune attività e in taluni impianti”, recepita nell'ordinamento italiano con D.M. 16.01.2004, n. 44), consistente nell’installazione di un macchinario di fatto essenziale per la sopravvivenza dell’attività.
Tale profilo interseca il tema del mantenimento di talune attività in rapporto a previsioni urbanistiche che possano avere un effetto espulsivo: questione sulla quale la giurisprudenza ha espresso posizioni chiare e consolidate.
Si è, in particolare, statuita l’illegittimità di un effetto espulsivo delle attività già insediate sul presupposto che “se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati. (…) Gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente - i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni - mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità (Consiglio di Stato, sez. V - 19/2/97 n. 176). La programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore e che sono stati più volte evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione (sentenza 31/05/1986 n. 185)” (cfr., da ultimo, TAR Lombardia–Brescia, 15.03.2017, n. 374).
In ragione di quanto rilevato deve concludersi che l’istruttoria procedimentale è stata deficitaria, il che ha determinato l’adozione di un provvedimento illegittimo, che merita di essere annullato.
Per tali ragioni, il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.01.2018 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Circa il mancato riscontro delle osservazioni presentate in sede procedimentale, non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e confutazione, in capo all'Amministrazione procedente, delle singole osservazioni e controdeduzioni rassegnate dalla parte nell'ambito della partecipazione procedimentale, bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del provvedimento, l'intervenuta acquisizione di tali apporti partecipativi.
Nel caso di specie il provvedimento ha dato specificamente atto di aver valutato le osservazioni di parte ricorrente e, pertanto, la censura si rivela infondata.
Inoltre, l’eventuale vizio si configurerebbe quale vizio di natura procedimentale e, pertanto, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, L.241/1990, il provvedimento gravato non sarebbe comunque annullabile.
Ed invero, in considerazione dell’infondatezza degli altri motivi di ricorso, la violazione dedotta non potrebbe, comunque, condurre all’annullamento dell’atto gravato, in quanto nell’ipotesi di specie, trattandosi di attività vincolata, il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.

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1. Il ricorso si palesa infondato.
2. Infondato è il primo motivo di ricorso basato sul mancato riscontro delle osservazioni presentate dai ricorrenti in sede procedimentale.
Non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e confutazione, in capo all'Amministrazione procedente, delle singole osservazioni e controdeduzioni rassegnate dalla parte nell'ambito della partecipazione procedimentale, bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del provvedimento, l'intervenuta acquisizione di tali apporti partecipativi (TAR Molise Campobasso, sez. I, 10.12.2010, n. 1543; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.11.2010 , n. 23703). Nel caso di specie il provvedimento ha dato specificamente atto di aver valutato le osservazioni di parte ricorrente e, pertanto, la censura si rivela infondata.
Inoltre, l’eventuale vizio si configurerebbe quale vizio di natura procedimentale e, pertanto, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, L.241/1990, il provvedimento gravato non sarebbe comunque annullabile.
Ed invero, in considerazione dell’infondatezza degli altri motivi di ricorso, la violazione dedotta non potrebbe, comunque, condurre all’annullamento dell’atto gravato, in quanto nell’ipotesi di specie, trattandosi di attività vincolata, il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.01.2018 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In generale, deve osservarsi come sia il proprietario o il responsabile dell'abuso assoggettato a ingiunzione di demolizione ad avere l'onere di provare il carattere risalente del manufatto, con riferimento a epoca anteriore alla cosiddetta legge "ponte" n. 765 del 1967, che ha imposto l'obbligo generalizzato di previa licenza edilizia per le costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano, come quella di parte ricorrente, potendo tale principio ammettere un temperamento nel solo caso in cui, da un lato, il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio.
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3. Risultano infondati anche il terzo e quarto motivo di ricorso, basati sull’anteriorità della realizzazione dell’immobile in questione rispetto alla data del 01.09.1967, ovverosia prima che la legge n. 765 del 1967 introducesse in via generalizzata la necessità di un titolo abilitativo per l’esercizio dello ius aedificandi (i lavori sarebbero stati realizzati e terminati nell’agosto 1967), e sulla inaffidabilità degli elementi impiegati in via istruttoria dalla P.A. per accertare la circostanza che le opere siano state realizzate successivamente e, in particolare, delle aereofotogrammetrie utilizzate.
Al riguardo il Collegio osserva come, in generale, sia il proprietario o il responsabile dell'abuso assoggettato a ingiunzione di demolizione ad avere l'onere di provare il carattere risalente del manufatto, con riferimento a epoca anteriore alla cosiddetta legge "ponte" n. 765 del 1967, che ha imposto l'obbligo generalizzato di previa licenza edilizia per le costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano, come quella di parte ricorrente (TAR Campania Napoli Sez. IV, 19.10.2016, n. 4774; TAR Lazio Latina Sez. I, 15.06.2016, n. 391; TAR Campania Napoli Sez. II, 27.11.2014, n. 6118; Cons. St., sez. IV, 06.08.2014 n. 4208; Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3414), potendo tale principio ammettere un temperamento nel solo caso in cui, da un lato, il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio (TAR Campania, Sez. VIII, 31.10.2017, n. 5092; Cons. Stato Sez. VI, 18.07.2016, n. 3177)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.01.2018 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare, e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato, non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Tale orientamento ha, peraltro, ormai trovato l’autorevole avallo dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato secondo la quale il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.

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4) Nel quarto e ultimo motivo parte ricorrente ha richiamato la tesi secondo cui, in caso di decorso di un notevole lasso di tempo tra la realizzazione delle opere abusive e l’esercizio del potere repressivo, l’amministrazione avrebbe l’obbligo di motivare la sanzione demolitoria evidenziando la sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla demolizione, anche considerando che i ricorrenti sono divenuti titolari dell’immobile solo nel 2013.
Il motivo è infondato.
Sul punto il Collegio ribadisce l’orientamento secondo cui il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato, non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Tale orientamento ha, peraltro, ormai trovato l’autorevole avallo dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato secondo la quale il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino (Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017 n. 9).
5) Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.01.2018 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Qualora un bando di gara richieda espressamente che la busta contenente le offerte sia, a pena di esclusione, sigillata e controfirmata "su tutti i lembi di chiusura" (apparendo, tale clausola, connotata da un certo margine di incertezza e dovendosi intendere per lembo di chiusura di una busta il lembo aperto costituente l'imboccatura della busta stessa e soggetto ad operazione di chiusura a sé stante), per adempiere a quanto richiesto si dovrà far riferimento al lembo della busta che viene chiuso da chi la utilizza, con esclusione dei lembi preincollati dal fabbricante.
Ne consegue che si deve ritenere abbia assolto all'onere richiesto, l'impresa che ha apposto il sigillo e la controfirma solo sul lembo aperto di una busta c.d. "a sacchetto" senza l'ulteriore sigillatura sul lembo originariamente incollato dal fabbricante della busta medesima.
Peraltro, non appare superfluo osservare che, in un’ottica sostanzialistica (che ha poi trovato conferma nel criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006), deve ritenersi che l’onere di sigillatura delle buste contenenti offerta e documentazione risulti integrato da una modalità di chiusura ermetica, tale da assicurare l'integrità del plico ed impedirne l'apertura senza lasciare manomissioni o segni apprezzabili, al fine di assicurare il raggiungimento delle finalità per cui tale adempimento è richiesto.
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1. - Il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Catania ha invitato l’ing. Te., l'ing. Fr. e altri tre ingegneri, ex art. 91 D.lgs. 163/2006, a presentare offerta per l'aggiudicazione (al prezzo più basso sull'importo a base di gara di € 95.341,17) dell'incarico professionale per progettazione definitiva, direzione lavori, misura contabilità e coordinamento per la sicurezza nelle fasi di progettazione ed esecuzione delle opere relative al “Centro servizi integrato alle imprese”, inserito nel programma triennale delle opere pubbliche e ammesso a finanziamento per l'importo complessivo di € 1.249.685,20.
Avendo presentato un’offerta quattro ingegneri, in data 19.09.2011 si riuniva il seggio di gara, che, ammessi i concorrenti e aperte le buste contenenti le offerte, prendeva atto che il maggiore ribasso era quello offerto dall’ing. Fr.Fr. (48,50%), seguito da quello del ricorrente ing. Ma.Te. (41,712).
Con successiva determina il Direttore generale del Consorzio ASI aggiudicava definitivamente l'incarico all'ing. Fr..
2. - Avverso tali atti insorge l’ing. Terranova, il quale, con un unico ed articolato motivo deduce la “Violazione e falsa applicazione del bando di gara e dei principi in materia di par condicio e segretezza e immutabilità dell’offerta”.
Assume parte ricorrente che l’offerta dell’ing. Fr. avrebbe dovuto essere esclusa in quanto le modalità di presentazione della stessa sarebbero state diverse da quelle prescritte nel bando; in particolare detta offerta non sarebbe stata inclusa in plico sigillato con ceralacca e non avrebbe portato alcun timbro o firma sui lembi laterali della busta.
Sulla base di tale censura, il ricorrente ha chiesto l’annullamento degli atti di gara, del contratto di appalto ove stipulato nonché l'affidamento integrale dell'appalto ovvero di quella parte ritenuta di giustizia dal Tribunale, oltre al risarcimento dei danni economico-finanziari subiti in conseguenza dei provvedimenti impugnati.
...
6. – Il ricorso è infondato.
La lettera di invito prevede che “il plico contenente l'offerta, che deve essere contenuto in una busta separata, ma incluso nella busta contenente i documenti, deve essere chiuso con ceralacca e sigillato o mediante l'apposizione di una impronta su ceralacca oppure mediante timbro o firma sui lembi di chiusura che confermino l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente al fine di escludere ogni manomissione”.
L’ing. Fr., di fronte all'opzione “o mediante l'apposizione di un'impronta sulla ceralacca, oppure mediante timbro o firma sui lembi di chiusura” ha scelto di apporre il timbro e la firma sui “lembi di chiusura”, cioè sui lembi coincidenti con l'apertura della busta e il seggio di gara non ha riscontrato alcuna abrasione o alterazione che potessero far dubitare dell'efficacia di tale chiusura. Né alcuna manomissione è stata indicata dal ricorrente, presente alla seduta di gara.
Non può essere condivisa la tesi del ricorrente secondo cui avrebbero dovuto essere firmate anche le altre parti “laterali” (ricorso pag. 4) della busta contenente l’offerta.
Invero tale adempimento non era richiesto dalla lettera d’invito, (che, invece, fa esclusivo riferimento ai lembi di chiusura) e ove lo fosse stato sarebbe risultato eccessivo come confermato da quella giurisprudenza, che il Collegio ritiene di condividere, secondo cui “qualora un bando di gara richieda espressamente che la busta contenente le offerte sia, a pena di esclusione, sigillata e controfirmata "su tutti i lembi di chiusura" (apparendo, tale clausola, connotata da un certo margine di incertezza e dovendosi intendere per lembo di chiusura di una busta il lembo aperto costituente l'imboccatura della busta stessa e soggetto ad operazione di chiusura a sé stante), per adempiere a quanto richiesto si dovrà far riferimento al lembo della busta che viene chiuso da chi la utilizza, con esclusione dei lembi preincollati dal fabbricante. Ne consegue che si deve ritenere abbia assolto all'onere richiesto, l'impresa che ha apposto il sigillo e la controfirma solo sul lembo aperto di una busta c.d. "a sacchetto" senza l'ulteriore sigillatura sul lembo originariamente incollato dal fabbricante della busta medesima” (Cons. Stato Sez. VI, 04.06.2007, n. 2946).
Peraltro, non appare superfluo osservare che, in un’ottica sostanzialistica (che ha poi trovato conferma nel criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006), deve ritenersi che l’onere di sigillatura delle buste contenenti offerta e documentazione risulti integrato da una modalità di chiusura ermetica, tale da assicurare l'integrità del plico ed impedirne l'apertura senza lasciare manomissioni o segni apprezzabili, al fine di assicurare il raggiungimento delle finalità per cui tale adempimento è richiesto (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 10.03.2011, n. 1553).
In conclusione, per le considerazioni che precedono, il ricorso va rigettato in quanto destituito di giuridico fondamento (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.01.2018 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive - Incidenza dell'intervento edilizio - Carico urbanistico - Effetti pregiudizievoli del reato - Requisito della concretezza - Adeguata motivazione - Fattispecie: sequestro preventivo di immobili abusivi ultimati - Art. 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 - D.M. 02.04.1968, n. 1444.
L'incidenza di un intervento edilizio sul carico urbanistico deve essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968.
Inoltre, il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2018 n. 170 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti per l'accoglimento, il quale non si verifica ogni qualvolta manchino i requisiti di fatto e di diritto richiesti dalla legge, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in mancanza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio.
In particolare, è stato affermato che “Se il decorso del tempo senza che l'amministrazione abbia provveduto rende possibile l'esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento dell'istanza presentata dal privato, nondimeno perché tale provvedimento sia legittimo occorre che sussistano tutte le condizioni, normativamente previste per la sua emanazione, non potendosi ipotizzare che, per silenzio, possa ottenersi ciò che non sarebbe altrimenti possibile mediante l'esercizio espresso del potere da parte dell'amministrazione. Diversamente opinando, si determinerebbe una situazione di sostanziale disparità tra ipotesi sostanzialmente identiche, dipendente solo dal sollecito (o meno) esercizio del potere amministrativo e, dove non fosse ipotizzabile l'intervento in via di autotutela dell'amministrazione, si verrebbe a configurare una “disapplicazione” di norme per mero (e casuale) decorso del tempo”.
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I termini intermedi previsti dall’art. 20 TUE, in mancanza di espressa previsione di perentorietà, hanno carattere meramente ordinatorio e acceleratorio, e dunque il loro decorso non produce effetti sostanziali sull’esito del procedimento, tanto più in assenza dei presupposti sostanziali per l’assentibilità dell’istanza.
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6. Con il primo motivo, il ricorrente ha eccepito l’intervenuta formazione del silenzio-assenso sull’istanza di permesso di costruire presentata il 21.05.2014, essendo il provvedimento espresso di diniego intervenuto in data 09.04.2015, dopo il decorso del termine di 90 giorni prescritto dall’art. 20 del D.P.R. 380 del 2001, sia assumendo come dies a quo quello di presentazione dell’istanza, sia assumendo quello della successiva integrazione documentale operata dal ricorrente in data 24.07.2014, su richiesta dell’amministrazione.
La censura è infondata.
6.1. Secondo noti principi, la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti per l'accoglimento, il quale non si verifica ogni qualvolta manchino i requisiti di fatto e di diritto richiesti dalla legge, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in mancanza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio (Consiglio di Stato, sez. IV 05.09.2016 n. 3805; TAR Napoli, sez. VIII, 03.04.2017 n. 1776; TAR Salerno, sez. II, 22.08.2016 n. 1909; TAR Bari, sez. III, 14.01.2016 n. 37).
In particolare, è stato affermato che “Se il decorso del tempo senza che l'amministrazione abbia provveduto rende possibile l'esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento dell'istanza presentata dal privato, nondimeno perché tale provvedimento sia legittimo occorre che sussistano tutte le condizioni, normativamente previste per la sua emanazione, non potendosi ipotizzare che, per silenzio, possa ottenersi ciò che non sarebbe altrimenti possibile mediante l'esercizio espresso del potere da parte dell'amministrazione. Diversamente opinando, si determinerebbe una situazione di sostanziale disparità tra ipotesi sostanzialmente identiche, dipendente solo dal sollecito (o meno) esercizio del potere amministrativo e, dove non fosse ipotizzabile l'intervento in via di autotutela dell'amministrazione, si verrebbe a configurare una “disapplicazione” di norme per mero (e casuale) decorso del tempo” (Consiglio di Stato sez. IV 05.09.2016 n. 3805).
6.2. Nel caso di specie, per le ragioni evidenziate dall’amministrazione nel provvedimento espresso di diniego del 09.04.2015 –ragioni che, come si dirà, resistono nel complesso alle censure formulate dal ricorrente- il progetto di opere di urbanizzazione sottoposto all’esame dell’amministrazione è risultato carente ab origine di requisiti essenziali relativi al sistema viario di accesso al costruendo fabbricato e agli allacciamenti idrico e fognario, prescritti dall’art. 7, commi 2 e 3, delle NTA del vigente PRGC del Comune di Bene Vagienna; sicché, alla stregua dei principi sopra affermati, in mancanza di tali presupposti essenziali per l’assentibilità del progetto, nessun silenzio-assenso si è potuto formare sull’istanza di permesso di costruire.
La censura va quindi disattesa.
7. Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione delle forme e dei termini procedimentali prescritti dall’art. 20 del TUE in relazione: a) alla comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento (entro 10 giorni dalla presentazione della domanda); b) alla richiesta di integrazione documentale (entro 30 giorni dal deposito della domanda); c) all’acquisizione del parere della Commissione Edilizia (entro 60 giorni dalla presentazione della domanda); d) all’acquisizione del parere del gestore del servizio idrico-integrato (entro 60 giorni dalla presentazione della domanda).
Inoltre, l’istruttoria della pratica sarebbe stata effettuata in modo lacunoso e superficiale, attraverso richieste di integrazioni documentali e di modifiche progettuali giunte in tempi diversi, anziché essere svolte contemporaneamente.
Anche tale censura non può essere condivisa.
7.1. I termini intermedi previsti dall’art. 20 TUE, in mancanza di espressa previsione di perentorietà, hanno carattere meramente ordinatorio e acceleratorio, e dunque il loro decorso non produce effetti sostanziali sull’esito del procedimento, tanto più in assenza dei presupposti sostanziali per l’assentibilità dell’istanza.
7.2. Le plurime richieste di integrazione documentale formulate dall’amministrazione, correlate ad esigenze sostanziali (soprattutto quelle afferenti ai profili evidenziati dal gestore del servizio idrico-integrato) non sono sintomo di superficialità dell’istruttoria, ma se mai del suo contrario (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo consolidati principi giurisprudenziali:
   - le scelte urbanistiche operate dall'Amministrazione in ordine alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che può evincersi dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano; il che, peraltro, non è che una logica conseguenza della norma che non prevede l'obbligo di motivazione per gli atti generali;
   - un obbligo di motivazione specifica si reputa esistente soltanto nel caso in cui debba riconoscersi al privato un'aspettativa qualificata, come quella discendente da una lottizzazione approvata e convenzionata o da un giudicato di annullamento del diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto;
   - in particolare, in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico, le situazioni di diritto quesito o di aspettativa qualificata capaci di assicurare al proprietario un affidamento specifico sono costituite dalla lottizzazione già approvata, dal piano particolareggiato, dalla sentenza su un obbligo di lottizzare dopo la relativa autorizzazione, dall'annullamento sostanziale (e non per motivi formali) del diniego di concessione edilizia e simili;
   - in sostanza, le scelte pianificatorie operate dall’amministrazione “non possono essere condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato e tale, quindi, da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione”.
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9. Il ricorso è infondato e va respinto.
9.1. Giova premettere che, secondo consolidati principi giurisprudenziali:
   - le scelte urbanistiche operate dall'Amministrazione in ordine alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che può evincersi dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano; il che, peraltro, non è che una logica conseguenza della norma che non prevede l'obbligo di motivazione per gli atti generali;
   - un obbligo di motivazione specifica si reputa esistente soltanto nel caso in cui debba riconoscersi al privato un'aspettativa qualificata, come quella discendente da una lottizzazione approvata e convenzionata o da un giudicato di annullamento del diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto;
   - in particolare, in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico, le situazioni di diritto quesito o di aspettativa qualificata capaci di assicurare al proprietario un affidamento specifico sono costituite dalla lottizzazione già approvata, dal piano particolareggiato, dalla sentenza su un obbligo di lottizzare dopo la relativa autorizzazione, dall'annullamento sostanziale (e non per motivi formali) del diniego di concessione edilizia e simili;
   - in sostanza, come ribadito anche di recente dalla giurisprudenza amministrativa, le scelte pianificatorie operate dall’amministrazione “non possono essere condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato e tale, quindi, da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione” (Consiglio di Stato, sez. IV, 24.08.2017 n. 4063; in senso analogo Consiglio di Stato, sez. IV, 03.07.2017, n. 3237; TAR Torino, sez. II, 21.06.2017 n. 752) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPolizia locale. La lite familiare può costare cara all'agente.
L'operatore di polizia municipale che rientra a casa tardi alterato dall'alcol litigando violentemente con i propri familiari rischia la revoca della qualifica di pubblica sicurezza e quindi dell'abilitazione all'uso delle armi. Specialmente se i carabinieri intervenuti per sedare la lite domestica trovano sul pavimento dell'abitazione la pistola di ordinanza.

Lo ha chiarito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 03.01.2018 n. 5.
Un agente di polizia locale è stato trovato dai carabinieri in stato di alterazione ed in preda ad una violenta lite familiare determinata da futili motivi, con l'arma di servizio sul pavimento di casa vicino a gocce di sangue. Contro la conseguente revoca della qualifica di pubblica sicurezza adottata dal prefetto su segnalazione del comune l'interessato ha proposto censure al collegio, ma senza successo.
È evidente l'inaffidabilità del soggetto, in relazione all'uso delle armi, specifica la sentenza. E per questo il prefetto ha ampia discrezionalità di intervento, nonostante l'art. 5 della legge n. 65/1986 subordini la qualifica di ps e quindi il correlato porto di pistola ad una serie di requisiti diversi analiticamente determinati (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).
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MASSIMA
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 5 della legge n. 65/1986, che attribuirebbe carattere vincolato al provvedimento di attribuzione della qualifica di agente pubblica sicurezza, legato a requisiti stabiliti in modo rigido:
   a) godimento dei diritti civili e politici;
   b) non avere subito pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione;
   c) non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici.
Secondo il ricorrente solo il venire meno di tali requisiti determinerebbe la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Si tratta di motivo infondato.
La giurisprudenza prevalente ritiene che, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 5 della legge n. 65/1986, la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza possa essere disposta allorché siano venuti meno i requisiti di idoneità psicofisica del soggetto ovvero costui non dia più affidamento del buon uso del titolo di polizia, secondo la valutazione latamente discrezionale dell’autorità prefettizia (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 23.03.2010 n. 1560; Tar Campania, Napoli, sez. V 23.01.2003 n. 377; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 31.05.1997 n. 885).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
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5.3.2. Nemmeno può trovare accoglimento la deduzione per cui verrebbe in considerazione un’opera di natura pertinenziale.
Viene invece in rilievo un’opera edilizia che, per consistenza e tipologia, ha comportato una trasformazione del territorio e del suolo non irrilevante e che in modo corretto è stata fatta ricadere nella categoria degli interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In proposito, più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons. St., Sez. Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Nella specie, anche alla luce della documentazione in atti, inclusa quella fotografica, il carattere pertinenziale dell’opera è escluso proprio in ragione del fatto che, come osserva il TAR, “la tettoia originaria, proprio perché di non ridotte dimensioni, ha una propria autonoma funzionalità che ne esclude il carattere pertinenziale rispetto agli edifici circostanti”: di qui, la correttezza della decisione del Comune, avallata in sentenza, di applicare la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del t.u. n. 380 del 2001 (a differenza di quanto sostiene l’appellante, il quale invoca “l’irrogazione di una mera sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del TU edilizia”, considerando inapplicabile il regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del t.u. medesimo).
Infine, la questione dell’ampiezza dell’area di sedime della cui acquisizione di diritto gratuita al patrimonio del Comune si tratta, esula dall’ambito della verifica sulla (il) legittimità della ingiunzione di demolizione, in quanto tale individuazione ben potrà essere compiuta con atti successivi, “a valle” dell’ordine di demolizione.
In conclusione, in disparte il possibile profilo di inammissibilità dell’appello e del ricorso di primo grado, in relazione alla mancata tempestiva impugnazione del provvedimento del 26.02.2015 di decadenza dell’efficacia del permesso di costruire, l’appello va respinto e la sentenza confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2018 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Grava sul privato l'onere di comprovare l'avvenuta edificazione del manufatto, al di fuori del centro abitato, prima della entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, poiché la P.A. di norma non è materialmente in grado di accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio.
L’onere di provare la data della realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di elementi concreti ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Soltanto l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto. In difetto di tali prove, rimane integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
In presenza di un manufatto edilizio privo di un titolo abilitativo che lo legittimi, la P.A. ha unicamente il potere-dovere di sanzionare l’abuso ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, l’ordine di demolizione.
Del resto, non può non gravare se non sul privato l’onere di comprovare l’avvenuta edificazione del manufatto, al di fuori del centro abitato, prima della entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, poiché la P.A. di norma non è materialmente in grado di accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio.
Pertanto, colui che realizza interventi edilizi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare in maniera rigorosa, se intende evitare le misure repressive di legge, la preesistenza dell’avvenuta edificazione rispetto alla entrata in vigore della c.d. “legge Ponte”, e ciò in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 cod. civ..
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5. L’appello è infondato e va respinto.
L'onere di fornire la prova della “risalenza” del manufatto a un’epoca anteriore al settembre del 1967 non risulta raggiunto.
Preliminarmente e in termini generali, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa consolidata (su cui v., da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, n. 5472 del 2017), l’onere di provare la data della realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di elementi concreti ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione. Soltanto l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto. In difetto di tali prove, rimane integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
In presenza di un manufatto edilizio privo di un titolo abilitativo che lo legittimi, la P.A. ha unicamente il potere-dovere di sanzionare l’abuso ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, l’ordine di demolizione.
Del resto, non può non gravare se non sul privato l’onere di comprovare l’avvenuta edificazione del manufatto, al di fuori del centro abitato, prima della entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, poiché la P.A. di norma non è materialmente in grado di accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio.
Pertanto, colui che realizza interventi edilizi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare in maniera rigorosa, se intende evitare le misure repressive di legge, la preesistenza dell’avvenuta edificazione rispetto alla entrata in vigore della c.d. “legge Ponte”, e ciò in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 cod. civ..
Guardando adesso più da vicino il caso in esame, e puntualizzato che in sentenza, e in atti, si muove dall’assunto che ci si trovi in un’area posta al di fuori del centro abitato, con conseguente non necessità del titolo abilitativo edilizio “ante legge Ponte”; per quanto riguarda il capannone in ferro e acciaio, di circa 100 mq. di superficie coperta, manufatto che integra la parte preponderante delle opere abusive delle quali il Comune ha ordinato la rimozione, al di là della perizia di parte, dal contenuto oltremodo generico, avente data successiva di alcuni mesi a quella dell’ordinanza di demolizione e, anche per questa ragione, non in grado di supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato interessato, l’avvenuta edificazione, in data anteriore al settembre del 1967, risulta sfornita di qualsivoglia elemento probatorio, sicché bene in sentenza si evidenzia che in atti emerge in maniera netta la diversa, e maggiore, consistenza del manufatto in discussione, come descritto nel verbale n. 168/2014 oltre che nelle premesse dell’ingiunzione di demolizione, rispetto a ciò che risulta dall’atto notarile di compravendita del 05.07.2012.
Nel citato atto di compravendita, tra Si.Lo., venditrice, e An. e Vi.Lo., acquirenti, si fa riferimento unicamente a un “piccolo fabbricato rurale della consistenza catastale di circa mq. 43”, la cui realizzazione, nella ricostruzione cronologica notarile, “è stata iniziata prima del 01.09.1967, anche se la relativa menzione richiesta dalla l. n. 47/1985 non era stata inserita nel rogito notarile in data 13.12.2000”. Come giustamente si sottolinea in sentenza, è un fatto, di cui tenere conto, che la menzione del fabbricato rurale di 43 mq. mancava nel precedente atto di compravendita del 13.10.2000.
La dichiarazione della venditrice Si.Lo. ha in concreto consentito la commerciabilità del bene.
Se quindi per il capannone di circa 100 mq. –e, inoltre, bisogna ritenere, con riferimento alla veranda di circa 25 mq., realizzata con legno lamellare e coperta con tegole, anch’essa menzionata nell’ingiunzione di demolizione ma sulla quale ultima nulla di specifico dicono gli appellanti- non è stato fornito alcun indizio idoneo a rendere plausibile la preesistenza del manufatto, a confronto con la data della entrata in vigore della l. n. 765 del 1967; per quanto attiene al fabbricato rurale di circa 43 mq., il privato comunque non risulta avere fornito elementi idonei a comprovare tale preesistenza, e ciò in una situazione in cui all’Amministrazione spettava unicamente accertare il carattere abusivo del manufatto.
Per le ragioni esposte sopra, la prova della “risalenza”, a data anteriore al settembre del 1967, non risulta minimamente raggiunta per quanto riguarda il capannone, e appare insufficientemente raggiunta con riguardo al fabbricato rurale di 43 mq., e ciò in un contesto in cui spetta al privato l’onere di dimostrare in modo adeguato l’avvenuta realizzazione del manufatto in un momento tale da escludere la necessità del possesso della “licenza edilizia” del Sindaco, mentre alla P.A. soltanto di accertare il carattere abusivo delle opere eseguite.
L’appello va pertanto respinto e la sentenza impugnata confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2018 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile oggetto dei lavori), non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione della circostanza che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia su una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuta proprio a fatto del privato.
Su questa linea interpretativa si è attestata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, affrontando la questione in adunanza plenaria (n. 8 del 2017), ha concluso nel senso che, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale.
La locuzione ‘termine ragionevole’ richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie.
Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
In particolare, in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità.
Si tratta del resto (e ai limitati fini che qui rilevano) di un’impostazione del tutto coerente con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 21-nonies, cit. (per come introdotto con la novella del 2015), secondo cui “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (si osserva anzi che la nuova disposizione neppure richiama per tali ipotesi la nozione di ragionevolezza del termine, limitandosi a stabilire che in tali casi l’annullamento possa essere disposto dopo la scadenza del generale termine di diciotto mesi).
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2.4. In ogni caso vale rammentare che l'annullamento d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile oggetto dei lavori), non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione della circostanza che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia su una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuta proprio a fatto del privato.
2.5. Vale per completezza soggiungere che su questa linea interpretativa si è attestata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, affrontando la questione in adunanza plenaria (n. 8 del 2017), ha concluso nel senso che, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale.
2.5.1. La locuzione ‘termine ragionevole’ richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie.
Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
In particolare, in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità.
Si tratta del resto (e ai limitati fini che qui rilevano) di un’impostazione del tutto coerente con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 21-nonies, cit. (per come introdotto con la novella del 2015), secondo cui “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (si osserva anzi che la nuova disposizione neppure richiama per tali ipotesi la nozione di ragionevolezza del termine, limitandosi a stabilire che in tali casi l’annullamento possa essere disposto dopo la scadenza del generale termine di diciotto mesi) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.01.2018 n. 19 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’intervenuto riconoscimento, da parte dell'amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni.
Se in linea generale il principio tradizionale affermato dall’Adunanza plenaria con la decisione 15.09.2005 n. 7 era nel senso che l’intervenuto riconoscimento, da parte dell'amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni, ancora di recente la giurisprudenza ha ricordato che per «danno ingiusto» risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto.
Ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico.
In materia, quindi, va ribadito che la pretesa risarcitoria, relativa al danno da ritardo, deve essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento.
In tale contesto va ritenuto in astratto possibile configurare un danno da ritardo, derivante dall'incertezza illegittimamente causata sul modo in cui regolarsi nell'attesa che l'amministrazione si pronunci sulla stessa spettanza del bene della vita: anche in tali fattispecie, infatti, è possibile configurare l'esistenza della lesione, che comunque andrebbe rigorosamente provata, di un interesse economicamente rilevante.
Tale prospettazione, peraltro, è preliminare e distinta rispetto a quella con cui si domandi il risarcimento di un danno emergente e di un lucro cessante pieni ed attuali, rispetto all’illegittimo diniego adottato dall’amministrazione avverso l’iniziativa privata. Se ciò nel caso di specie comporta l’assenza del ne bis in idem, per ciò solo non esime dalla necessaria prova degli elementi concernenti la sussistenza della fattispecie risarcitoria.
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Assume ulteriore rilievo dirimente, in termini di insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della generica domanda risarcitoria, il principio di cui all’art. 1227 comma 2, c.c. che, pur se non espressamente richiamato dall’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., per orientamento costante viene reputato come pacificamente applicabile nel processo amministrativo, nel senso che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa attivazione dei rimedi di tutela (nella specie ad esempio tramite riproposizione dei vizi erroneamente assorbiti ovvero attivazione del rimedio dell’ottemperanza) non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
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4. Peraltro, anche alla luce degli elementi acquisiti anche in via istruttoria, le domande risarcitorie proposte appaiono infondate nel merito.
Infatti, dall’analisi degli atti prodotti nonché dell’approfondimento istruttorio svolto emerge, già in fatto, la mancanza della prova della colpa della p.a. nonché del presupposto inerente la probabilità della spettanza del bene della vita.
4.1 Le conclusioni negative non mutano, in relazione alla prima domanda, analizzandola secondo la prospettazione del danno in termini di ritardo.
In proposito, se in linea generale il principio tradizionale affermato dall’Adunanza plenaria con la decisione 15.09.2005 n. 7 era nel senso che l’intervenuto riconoscimento, da parte dell'amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni, ancora di recente la giurisprudenza (anche della sezione: cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 10.07.2017 n. 3392) ha ricordato che per «danno ingiusto» risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico.
In materia, quindi, va ribadito (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. IV 30.06.2017 n. 3222) che la pretesa risarcitoria, relativa al danno da ritardo, deve essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento.
In tale contesto va ritenuto in astratto possibile configurare un danno da ritardo, derivante dall'incertezza illegittimamente causata sul modo in cui regolarsi nell'attesa che l'amministrazione si pronunci sulla stessa spettanza del bene della vita: anche in tali fattispecie, infatti, è possibile configurare l'esistenza della lesione, che comunque andrebbe rigorosamente provata, di un interesse economicamente rilevante.
Tale prospettazione, peraltro, è preliminare e distinta rispetto a quella con cui si domandi il risarcimento di un danno emergente e di un lucro cessante pieni ed attuali, rispetto all’illegittimo diniego adottato dall’amministrazione avverso l’iniziativa privata. Se ciò nel caso di specie comporta l’assenza del ne bis in idem, per ciò solo non esime dalla necessaria prova degli elementi concernenti la sussistenza della fattispecie risarcitoria.
4.2 Nel caso di specie per entrambe le domande è mancata in primo luogo la dimostrazione della colpa della p.a., anche facendo ricorso ai più consolidati parametri presuntivi.
Da un lato è evidente che l’annullamento del diniego, disposto in accoglimento del reputato assorbente profilo meramente procedurale dell’illegittima espressione del parere negativo della competente Soprintendenza al di fuori del modulo della conferenza di servizi, non era di per sé in grado di costituire automatico presupposto del danno invocato, il quale restava oggetto di necessaria specificazione e prova. Infatti, lungi dal contestare nella sostanza l’esito del procedimento, il vizio accolto -di carattere eminentemente procedimentale- imponeva il riavvio della procedura dal momento in cui era intervenuto il dato reputato illegittimo dal Tar con l’esame da parte delle amministrazioni competenti al fine di giungere all’esito della pratica.
Né quest’ultimo poteva ritenersi vincolato alla luce delle limitate statuizioni contenute in sentenza, rese nei più ristretti ambiti derivanti dall’assorbimento delle restanti censure. La mancata riproposizione in appello di queste ultime non consente il necessario relativo approfondimento; né l’odierna parte appellante risulta aver attivato il percorso della tutela esecutiva, in sede di ottemperanza, dinanzi al giudice che ha accolto l’originario ricorso in parte qua.
A quest’ultimo proposito assume ulteriore rilievo dirimente, in termini di insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della generica domanda risarcitoria, il principio di cui all’art. 1227 comma 2, c.c. che, pur se non espressamente richiamato dall’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., per orientamento costante viene reputato come pacificamente applicabile nel processo amministrativo, nel senso che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa attivazione dei rimedi di tutela (nella specie ad esempio tramite riproposizione dei vizi erroneamente assorbiti ovvero attivazione del rimedio dell’ottemperanza) non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. V 17.07.2014 n. 3812).
Se le considerazioni appena svolte appaiono già dirimenti in via di principio, nella fattispecie in esame il riavvio del procedimento, oltre a non fornire elementi nella direzione del probabile esito positivo dell’iter, ha anzi escluso la realizzabilità dell’impianto, cui infatti la società ha nella sostanza autonomamente rinunciato, come emerso dalla mancata attivazione dei rimedi predetti, anche a cagione delle novità normative. Se queste ultime all’evidenza non possono imputarsi all’amministrazione attiva, essendo ricollegabili alla diversa autonoma e insindacabile –a fini risarcitori– attività legislativa (piuttosto, come noto, la giurisprudenza di questo Consiglio riconosce che l’incertezza legislativa possa costituire causa di esclusione della colpevolezza della p.a.), neppure è invocabile alcun elemento di colpa in capo al comportamento delle amministrazioni interessate dal procedimento.
Come emerso in specie dall’istruttoria svolta, la p.a. ha adeguatamente valutato il contesto in esame (laddove i diversi esiti di altri progetti non appaiono invocabili, sia per mancata riproposizione delle censure, sia a fronte della diversità di situazione giuridica e di fatto), senza che all’opposto parte appellante abbia fornito i necessari elementi di prova, rinviando ad una generica valutazione equitativa, cui come noto il giudice può ricorrere unicamente in caso di difficoltà nel quantificare un danno la cui esistenza sia dimostrata nei relativi elementi essenziali.
In proposito va ribadito (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 30.12.2014 n. 6428) che anche nel giudizio di equità la norma dell'art. 2697 Cod. civ. rappresenta un principio informatore del risarcimento dei danni, con la conseguenza che qualsiasi vicenda di danno lamentato da chi agisce in giudizio per il risarcimento debba essere provata dal danneggiato, sia pure con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici, fermo restando che la relativa articolazione va dimostrata nello specifico del caso concreto, cioè caso per caso, e non fatto discendere in via generale ed astratta quale conseguenza connessa automaticamente all'evento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2018 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 06.06.2001, n. 380, sono subordinati al rilascio del permesso di costruire in generale tutti gli «interventi di nuova costruzione».
Per la giurisprudenza, sono tali tutti gli interventi che si sostanziano nella costruzione di nuovi manufatti non riconducibili ai casi in cui, sempre in base al T.U., è previsto in modo espresso che sia sufficiente un titolo edilizio minore, e che siano volti a soddisfare esigenze non meramente temporanee dell’interessato.
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Alla realizzazione di opere edilizie senza il necessario permesso di costruire corrisponde, come sanzione necessaria, l’ordine di demolizione, che per sua natura non è ‘graduabile’ entro un minimo e un massimo.
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Né dall’art. 27, comma 3, del T.U 380/2001, che prevede l’istituto dell’ordinanza di sospensione, né dal successivo art. 31, che prevede invece l’ordinanza di demolizione delle opere abusive eseguite senza permesso di costruire, si ricava infatti alcuna norma che imponga di lasciar decorrere un dato termine fra i due provvedimenti, che pertanto ben possono essere, come nella specie, contestuali.
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Per costante giurisprudenza, l’ordinanza di demolizione non deve indicare a pena di illegittimità l’area che, in caso di inottemperanza, viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune, poiché ciò avviene, con piena garanzia per il destinatario, nel successivo ed eventuale atto di accertamento, da emanare per il caso di inottemperanza.
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3. Il primo motivo, incentrato sulla prospettata non necessità del permesso di costruire per le opere in questione, è infondato.
Va anzitutto premesso che ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 06.06.2001, n. 380, sono subordinati al rilascio del permesso di costruire in generale tutti gli «interventi di nuova costruzione».
Per la giurisprudenza, sono tali tutti gli interventi che si sostanziano nella costruzione di nuovi manufatti non riconducibili ai casi in cui, sempre in base al T.U., è previsto in modo espresso che sia sufficiente un titolo edilizio minore, e che siano volti a soddisfare esigenze non meramente temporanee dell’interessato (per tutte, C.d.S., sez. V, 12.07.2017, n. 3435, e sez. VI, 22.10.2008, n. 5191).
Nel caso di specie, tanto le opere oggetto del ricorso n. 4049, quanto quelle oggetto del ricorso n. 4050 presentano le caratteristiche di opere durature, oltretutto di consistenza tutt’altro che modesta, dato che, come detto in premesse, sono state realizzate per soddisfare alle esigenze di approvvigionamento di acqua potabile di alcune utenze.
Le opere in questione vanno poi viste come unitarie, senza che sia possibile distinguere fra il serbatoio di cui constano e le opere ad esso accessorie.
Ciò vale anzitutto per la recinzione che protegge i serbatoi stessi, realizzata comunque con strutture di particolare impatto, che eccedono le caratteristiche di una recinzione leggera (per la quale, ove isolatamente considerata, si può porre la questione della sufficienza di un titolo edilizio minore: C.d.S., sez. VI, 04.01.2010, n. 10).
Lo stesso vale anche per i movimenti di terreno descritti nell’ordinanza, che non si limitano ad una ‘ripulitura’ fine a sé stessa, ma in base alla semplice descrizione dei terrazzamenti, che ne sono il risultato, costituiscono parte integrante della realizzazione dei serbatoi in questione.
Va poi rilevato che, a prescindere dalle loro caratteristiche costruttive, le opere in questione si trovano in zona assoggettata a vincolo ambientale, il che, ove realizzate senza titolo, ne comporta comunque la demolizione ai sensi dell’art. 167, comma 5, del codice n. 42/2004, che non ne consente la sanatoria.
...
6. Il quarto motivo di appello è a sua volta infondato, perché alla realizzazione di opere edilizie senza il necessario permesso di costruire corrisponde, come sanzione necessaria –per tutte, sul punto la recente sentenza dell’Adunanza Plenaria 17.10.2017, n. 9- l’ordine di demolizione, che per sua natura non è ‘graduabile’ entro un minimo e un massimo: in proposito, quindi, una violazione del principio di proporzionalità non è configurabile.
7. Il quinto motivo di appello è ancora infondato.
Né dall’art. 27, comma 3, del T.U 380/2001, che prevede l’istituto dell’ordinanza di sospensione, né dal successivo art. 31, che prevede invece l’ordinanza di demolizione delle opere abusive eseguite senza permesso di costruire, si ricava infatti alcuna norma che imponga di lasciar decorrere un dato termine fra i due provvedimenti, che pertanto ben possono essere, come nella specie, contestuali.
Del resto, è evidente che l’autore di un abuso edilizio è soggetto nello stesso istante ai due obblighi fondamentali che da ciò possono derivare, ovvero da un lato l’obbligo di non portare l’abuso a conseguenze ulteriori proseguendo il lavoro, dall’altro l’obbligo di eliminare l’abuso stesso, con la rimessione in pristino.
8. Infine, va respinto anche il sesto motivo.
Per la costante giurisprudenza, infatti, l’ordinanza di demolizione non deve indicare a pena di illegittimità l’area che, in caso di inottemperanza, viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune, poiché ciò avviene, con piena garanzia per il destinatario, nel successivo ed eventuale atto di accertamento, da emanare per il caso di inottemperanza (così per tutte C.d.S., sez. IV, 27.10.2016, n. 4508, e 26.09.2008, n. 4659).
9. Per le ragioni che precedono, gli appelli vanno accolti limitatamente al secondo motivo, mentre vanno respinti per il resto. Pertanto, in parziale accoglimento dei ricorsi di primo grado, vanno annullati gli atti impugnati limitatamente alle parti in cui hanno disposto il pagamento di sanzioni pecuniarie, in aggiunta all’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2018 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria e molestie olfattive - Emissioni odorigene nauseabonde ed emissioni in atmosfera di composti organici volatili - Getto pericoloso di cose e requisiti del reato - Criterio della "stretta tollerabilità" - Sequestro preventivo - Restituzione dell'intero impianto produttivo Fonderie - Abuso d'ufficio - Falsità ideologica e falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - VIA VAS AIA - Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) - Assenza - Articoli 323, 479-476, codice penale - Artt. 29-ter, 137, 256 e 279 decreto legislativo n. 152 del 2006 - Sito natura 2000 ZPS - Art. 181 d.lgs. n.42/2004.
Il reato di cui all'articolo 674 del codice penale è configurabile anche in presenza di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche -e, quindi, valori soglia- in materia di odori (Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi; Sez. 3, n. 37037 del 29/05/2012, Guzzo); con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione.
Né vale, in senso contrario, l'assunto, anche contenuto nell'ordinanza impugnata, per il quale, in alcune occasioni, la configurabilità dell'articolo 674 del codice penale è esclusa in presenza di immissioni provenienti da attività autorizzata e contenute nei limiti di legge, o dell'autorizzazione, perché tali pronunce si riferiscono a casi nei quali vi è piena corrispondenza "qualitativa" e "tipologica" tra le immissioni riscontrate e quelle oggetto del provvedimento amministrativo o disciplinate dalla legge ossia tra quelle accertate e quelle che l'agente si era impegnato a contenere entro determinati limiti; situazione nella quale, come in precedenza precisato, il rispetto di questi ultimi implica una presunzione di legittimità del comportamento, concepita dall'ordinamento come necessaria per contemperare le esigenze di tutela pubblica con quelle della produzione economica (Sez. 3, n. 37495 del 13/07/2011, Dradi; Sez. 3, n. 40849 del 21/10/2010, Rocchi; Sez. 3, n. 15707 del 09/01/2009, Abbaneo).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni da un'attività autorizzata o da un'attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali - Presunzione di legittimità del comportamento ed evento del reato di cui all'art. 674 c.p..
In linea generale, il reato di cui all'articolo 674 del codice penale, capo d) della rubrica, non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da un'attività autorizzata o da un'attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali perché l'osservanza delle leggi di settore e la presenza di specifici provvedimenti amministrativi che disciplinano l'attività produttiva, regolamentando le emissioni, implicano una presunzione di legittimità del comportamento.
Tuttavia, l’evento del reato di cui all'art. 674 c.p. consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità, pertanto, qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Prova del dolo intenzionale - Indici fattuali - Verifiche obbligatorie del giudice - Fattispecie: Sequestro preventivo di un impianto industriale.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti tra l'agente e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge cosicché, in tema di sequestro preventivo, ai fini dell'affermazione del fumus commissi delicti del reato proprio contestato anche a soggetti che non rivestono la qualifica tipica, è necessario che il giudice motivi anche sull'elemento psicologico dell'autore del reato proprio, atteso che la mancanza del dolo intenzionale impedisce la stessa astratta configurabilità del predetto reato.
Pertanto, il giudice penale, anche nei casi in cui nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo (autorizzazione, concessione, permesso), non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica del provvedimento amministrativo, ma deve esclusivamente verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela", interesse che nell'abuso d'ufficio è costituito dal buon andamento e dall'imparzialità della pubblica amministrazione, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo (Sez. U., n. 11635 del 12/11/1993, Borgia).
Fattispecie: riferita ad un impianto industriale la cui dimensione "cartolare" risultava del tutto diversa da quella reale, in quanto l'autorizzazione integrata ambientale avrebbe assentito un impianto che solo dal punto di vista "documentale" era più piccolo e diverso di quello reale, giacché nella cartografia era stata omessa la presenza di uno dei manufatti destinati alle attività industriali, con la conseguenza che non sarebbe stato evidenziato un immobile che rappresentava circa il 50% dell'intero impianto, determinando ciò sia l'illiceità connessa al reato di falso e sia l'illiceità della procedura, con conseguente integrazione della violazione di legge fondante, in uno ad altri elementi, il reato di abuso di ufficio, perché si sarebbe dovuto tenere conto, in primo luogo, che la presenza di tale consistente manufatto, coincidente con circa la metà degli impianti (e, quindi, la reale consistenza), non era stata valutata ai fini dell'impatto ambientale e della complessiva autorizzabilità dell'intera attività industriale; che, in secondo luogo, l'impianto industriale era collocato all'interno del centro urbano della città di Salerno, al confine con l'area del parco urbano Valle dell'Imo, di interesse regionale, ai sensi della legge n. 394 del 1991, cosicché l'insediamento industriale, pur risalente nel tempo, era da ritenersi del tutto incompatibile con l'area nella quale era allocato, se ed in quanto l'attività industriale svolta fosse di tipo inquinante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire - Effetti - Completamento opere - Limiti alla disponibilità dell'immobile abusivo - Vincolo di asservimento del fondo agricolo - Necessità di contestazione - Artt. 10, 30 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reato di esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire, per individuare la natura e la sussistenza di detta difformità non è necessario attendere il completamento dell'opera ove, da quanto già realizzato, si possa desumere che il manufatto, una volta ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle progettate (Cass. Sez. 3, n. 13592 del 30/01/2008, Dinolfo).
Né può essere escluso il pericolo che la libera disponibilità dell'immobile abusivamente realizzato possa aggravare o protrarre le conseguenze dell'illecito ovvero agevolarne la commissione di altri (cfr. Sez. 3, n. 39731 del 28/09/2011, Rainone e altro, Rv. 251304) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57954 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale - Delibera comunale che dichiara l'esistenza di un interesse pubblico prevalente sul restauro dell'assetto urbanistico violato - Incidenza delle delibere delle amministrazioni comunali - Incompatibilità con la loro demolizione - Necessità di precisa individuazione dell'immobile - Verifiche e poteri del giudice dell'esecuzione - Fattispecie: violazione di sigilli, plurime violazioni urbanistiche e reato paesaggistico - Art. 31 e 44 d.P.R. n.380/2001 - delitto paesaggistico di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 349 cod. pen..
La delibera comunale che dichiara l'esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell'assetto urbanistico violato, sottraendo l'opera abusiva al suo normale destino di demolizione previsto per legge, non può fondarsi su valutazioni di carattere generale o riguardanti genericamente più edifici, ma deve dare conto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto, precisamente individuato (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia, relativa a fattispecie nella quale la Corte ha reputato legittimo il rigetto, da parte del giudice dell'esecuzione, di istanza di sospensione dell'ordine di demolizione, in presenza di due delibere comunali aventi per oggetto i criteri per individuare l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive e i criteri per locare gli immobili già acquisiti al patrimonio comunale; conf. Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone; Sez. 3, n. 30170 del 24/05/2017, Barbuti; cfr. anche Sez. 3, n. 11419 del 29/01/2013, Bene, nella quale è stato chiarito che "Il giudice dell'esecuzione, al quale sia richiesto di revocare l'ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna, ha il potere di sindacare la delibera di acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio comunale, che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici rispetto al ripristino dell'assetto urbanistico violato") (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57942 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione di fabbricati rurali - Rilascio del permesso di costruire subordinato ad un duplice requisito - Soggettivo, costituito dallo status - Oggettivo, rapporto di strumentalità delle opere alla coltivazione del fondo - DIRITTO AGRARIO - Artt. 16, 17, 31, 44 d.p.r. n. 380/2001.
Il rilascio del permesso di costruire fabbricati rurali in zone agricole è subordinato ad un duplice requisito: il primo di natura soggettiva, costituito dallo status di proprietario coltivatore diretto, proprietario conduttore in economia, proprietario concedente, imprenditore agricolo, il secondo di natura oggettiva, rappresentato dal rapporto di strumentalità delle opere alla coltivazione del fondo, precisando che la ratio della previsione è ovviamente nel senso di evitare che qualsiasi individuo, benché sprovvisto della qualità di coltivatore, possa legittimamente costruire un immobile ad uso residenziale in zona agricola.
Ciò avrebbe l'evidente conseguenza di consentire la trasformazione di una zona agricola, tutelata dall'ordinamento, in un'area sostanzialmente residenziale e si porrebbe quindi in contrasto con la ratio della disciplina vincolistica che è volta allo scopo di attuare un equilibrato componimento tra le contrapposte esigenze e cioè, da un lato, consentire una razionale possibilità di sfruttamento edilizio delle aree agricole per scopi di sviluppo economico e, dall'altro, garantire la loro destinazione esclusiva ad attività agronomiche (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione di cubatura o asservimento in sede di rilascio di permesso di costruire - Condizioni e limiti - Fondi compresi nella medesima zona urbanistica - Effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti.
La cessione di cubatura o asservimento é istituto utilizzabile, in sede di rilascio di permesso di costruire, solo in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica (in quanto, se così non fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe determinarsi un superamento della densità edilizia massima consentita dallo strumento urbanistico e tra fondi contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una "effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti" (ex multis, C. Stato, Sez.5 n. 6734 del 30/10/2003).
Corretto sviluppo della densità edilizia - Rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria - Limiti fissati dal piano - Stretto e inscindibile legame tra atti di asservimento e normativa urbanistica - Asservimento illegittimo.
Ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia, della materiale collocazione dei fabbricati -atteso che per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano- non sono, con tutta evidenza, ammissibili, ai fini del rilascio di provvedimenti autorizzativi in materia edilizia, atti di asservimento tra terreni ubicati in comuni diversi, disarticolandosi, in tal caso, lo stretto e inscindibile legame tra atti di asservimento e rispetto delle prescrizioni della normativa urbanistica, quale espressione del governo e della pianificazione del territorio comunale (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di "totale difformità" - Particolare tenuità del fatto e ordine di demolizione.
Ai fini della integrazione del reato di cui all'articolo 44, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato in "totale difformità" qualsiasi intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentite per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso di costruire, dovendosi, a tal fine, considerare che i parametri normativi di riferimento enunciati dall'articolo 31 d.p.r. n. 380 del 2001 sono tra loro alternativi e non cumulativi e che, per stabilire l'entità della difformità, è necessario confrontare il realizzato con l'autorizzato nel senso che il giudice deve svolgere un preciso raffronto tra l'opera approvata e quella eseguita (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Prova del dolo intenzionale - Macroscopica illegittimità dell'atto - Vantaggio - Art. 323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie non richiede l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ben potendo essere desunta anche da altri elementi sintomatici quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell'atto (Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza) e ben potendo l'intenzionalità del vantaggio prescindere dalla volontà di favorire specificamente un determinato privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011, Farina).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Mancanza della macroscopica illegittimità dell'atto dal pubblico amministratore - Rilievo del comportamento "non iure" osservato dall'agente - Vantaggio patrimoniale o danno ingiusto - Presenza tra anomalie istruttorie e rapporti personali tra l'agente e soggetto ricevente i benefici dell'atto.
In tema di abuso d'ufficio, quando l'illegittimità dell'atto, pur sussistente, non sia macroscopica oppure quando manchi, come nella specie, una adeguata e logica motivazione su punti decisivi al fine di sovvertire (o meno) il giudizio di evidente illegittimità dell'elemento normativo di fattispecie, la prova del dolo intenzionale deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo), cosicché la certezza della prova del dolo (intenzionale), ossia che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, non può, in questi casi, provenire esclusivamente dal comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Baria, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916) (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese legali anche col dubbio.
È illegittimo il provvedimento con il quale la p.a. ha rigettato una istanza di rimborso delle spese legali sostenute da un dipendente perché assolto in sede penale con la formula «perché il fatto non sussiste» e quindi con formula dubitativa.

Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 29.12.2017 n. 6194.
Nel caso in esame la Procura di Napoli aveva promosso un'azione penale nei confronti di un assistente capo della Polizia di stato adibito a mansioni di magazziniere presso lo spaccio interno della Questura di Napoli. Si era ritenuto, infatti, che lo stesso si fosse più volte appropriato della merce di cui aveva la disponibilità in ragione di tale attività e veniva contestato il reato di peculato aggravato in continuazione (artt. 81 e 314 c.p.). Con sentenza passata in giudicato, tuttavia, l'interessato era stato assolto dai reati ascrittigli «perché il fatto non sussiste».
Il ministero dell'Interno aveva, comunque, rigettato l'istanza di rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente ex art. 18 dl n. 67 del 1997, convertito in legge n. 135 del 1997, dal momento che i fatti che avevano portato a giudizio il poliziotto erano in diretta connessione con l'espletamento del servizio e con l'assolvimento degli obblighi istituzionali, a nulla rilevando il fatto che il dispositivo della sentenza penale recasse il formale richiamo all'art. 530 cpp.
Il Consiglio di stato, però, la pensa in modo diverso.
Nella sentenza in oggetto osserva come l'art. 18, comma 1, del decreto legge 25.03.1997, n. 67, con l'espressione «sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità», non può non riferirsi anche al caso di assoluzione con la formula dubitativa.
La responsabilità è esclusa da qualunque sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 530 cpp, anche quella che si avvalga della cosiddetta formula dubitativa.
Nella pluralità di formule assolutorie di cui all'art. 530 cpp, danno diritto al rimborso delle spese solo quelle che consentono di dire accertata –secondo il sistema processuale penale– l'assenza di responsabilità rispetto ad atti e fatti connessi senza tuttavia alcuna distinzione, all'interno di queste, tra i casi di «formula piena» e quelli in cui manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova (art. 530, comma 2, cpp) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.01.2018).

URBANISTICA: La generale questione della necessità di ripubblicare o meno lo strumento pianificatorio generale è stata risolta dalla giurisprudenza dei giudici d’appello nel senso di seguito esposto: <<L’art. 9, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica) prevede che “il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge”.
L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione. Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
Tale conclusione, del tutto ragionevole e condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni>>.

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Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato, in altre parole nell’esclusiva ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che hanno presieduto alla sua impostazione; viceversa, detto obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
Il predetto “incisivo e sostanziale” mutamento dell’impostazione originaria non è certamente configurabile per effetto della presentazione delle (pur numerose) osservazioni di un terzo (peraltro non esplicitate nel loro integrale contenuto, salvo quella di interesse), non risultando incise le linee generali della pianificazione. Ne deriva che i riflessi sfavorevoli (in sede di controdeduzioni) nei confronti della ricorrente non comportavano l’obbligo di riaprire la fase istruttoria con una nuova pubblicazione dell’intero progetto di Piano.
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Sulla necessità di motivare la scelta definitiva, si richiama il consolidato e indiscusso approdo per cui le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati consistono in meri apporti collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
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La ricorrente censura il provvedimento di approvazione definitiva del PGT del Comune di Provaglio d’Iseo, nella parte in cui –sovvertendo la previsione relativa al capannone di proprietà racchiusa nel Piano adottato– introduce il vincolo della SLP massima esistente (cfr. art. 27 NTA), in accoglimento dell’osservazione di un terzo.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate.
1. La prima doglianza non è passibile di positivo scrutinio.
1.1 La generale questione della necessità di ripubblicare o meno lo strumento pianificatorio generale è stata risolta dalla giurisprudenza dei giudici d’appello (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 19/04/2017 n. 1829, che ha richiamato il precedente della sez. IV – 08/06/2011 n. 3497) nel senso di seguito esposto: <<L’art. 9, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica) prevede che “il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge”. L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni. Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione. Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale. Tale conclusione, del tutto ragionevole e condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 11.10.2007 n. 5357), incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni>>.
1.2 Recentemente, anche questa Sezione si è pronunciata sulla questione (cfr. sez. I – 08/05/2017 n. 614; sez. I – 09/01/2017 n. 29 che ha richiamato TAR Campania Napoli, sez. I – 11/03/2015 n. 1510; sez. VIII – 07/03/2013 n. 1287 e Consiglio di Stato, sez. IV – 04/12/2013 n. 5769), osservando che un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato, in altre parole nell’esclusiva ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che hanno presieduto alla sua impostazione; viceversa, detto obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (si veda anche, nello stesso senso, TAR Lombardia Milano, sez. II – 13/04/2017 n. 856, che ha richiamato numerosi precedenti del Consiglio di Stato).
1.3 Il predetto “incisivo e sostanziale” mutamento dell’impostazione originaria non è certamente configurabile per effetto della presentazione delle (pur numerose) osservazioni di un terzo (peraltro non esplicitate nel loro integrale contenuto, salvo quella di interesse), non risultando incise le linee generali della pianificazione. Ne deriva che i riflessi sfavorevoli (in sede di controdeduzioni) nei confronti della ricorrente non comportavano l’obbligo di riaprire la fase istruttoria con una nuova pubblicazione dell’intero progetto di Piano.
1.4 Oltre a ciò, nessun argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni ….” (comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9).
1.5 Sulla necessità di motivare la scelta definitiva, si richiama il consolidato e indiscusso approdo per cui le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati consistono in meri apporti collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. per tutte TAR Lombardia Milano, sez. II – 29/11/2016 n. 2250).
Peraltro, una seppur sintetica motivazione è rintracciabile nella scheda di esame delle osservazioni (doc. 8) ove, dopo aver menzionato il richiedente (Ve.Se.) e la sua prospettazione, l’amministrazione controdeduce che “Al fine di favorire il riuso e la riconversione di volumi non consoni all’ambiente in cui sono inseriti, ma anche di moderare gli interventi si intende precisare che la Slp max sarà pari a quella esistente” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2017 n. 1496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La variante di un piano regolatore generale che conferisca una nuova (e svantaggiosa) destinazione ad aree già urbanisticamente classificate non necessita di apposita motivazione quando l'interesse del ricorrente alla preesistente destinazione sia qualificabile come una mera aspettativa generica alla non reformatio in peius, la quale recede di fronte alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica.
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La ricorrente censura il provvedimento di approvazione definitiva del PGT del Comune di Provaglio d’Iseo, nella parte in cui –sovvertendo la previsione relativa al capannone di proprietà racchiusa nel Piano adottato– introduce il vincolo della SLP massima esistente (cfr. art. 27 NTA), in accoglimento dell’osservazione di un terzo.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate.
...
2. Anche la seconda doglianza è infondata.
2.1 Anzitutto, come statuito da questa Sezione (cfr. sentenza 04/10/2016 n. 1282) la variante di un piano regolatore generale che conferisca una nuova (e svantaggiosa) destinazione ad aree già urbanisticamente classificate non necessita di apposita motivazione quando l'interesse del ricorrente alla preesistente destinazione sia qualificabile come una mera aspettativa generica alla non reformatio in peius, la quale recede di fronte alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica (si veda anche C.G.A. Sicilia – sez. riunite 23/10/2017 n. 878).
2.2 Peraltro, nella fattispecie ci troviamo di fronte a un’ipotesi diversa e meno penalizzante, in cui il nuovo PGT conferisce una disciplina comunque migliorativa rispetto alla preesistente classificazione agricola: l’immobile è comunque collocato tra gli “edifici non agricola in zona agricola”, con destinazione turistico-alberghiera al fine di promuoverne il riutilizzo e la riconversione. Lo strumento urbanistico contestato reca una disciplina più favorevole rispetto a quella previgente, e il ridimensionamento subito è intervenuto all’interno del procedimento di approvazione del PGT.
2.3 Non ricorre nella fattispecie alcuno dei casi-limite in cui la presenza di un’aspettativa qualificata o di un legittimo affidamento richiedono, a fronte di una reformatio in peius operata dallo strumento programmatorio, una motivazione dettagliata e circostanziata: le valutazioni spettanti al pianificatore sono di ampio respiro, anche con l’ausilio degli apporti collaborativi dei privati.
2.4 In aggiunta, rileva il Collegio che:
   • le conseguenze provocate (dovute all’assenza di solette intermedie che precludono di sfruttare l’intera volumetria dell’edificio) non alimentano un interesse “meritevole di tutela” e si rivelano insuscettibili di integrare un vizio di legittimità del PGT;
   • la nuova disciplina non assume portata retroattiva, in quanto le previsioni del Piano adottato non rivestono efficacia esterna ma solo endo-procedimentale, e inoltre (con riferimento al PRG previgente) erano valide le regole stabilite per le zone agricole e l’immobile non era qualificato come ricettivo-alberghiero;
   • l’analisi dell’effettiva situazione preesistente e delle concrete conseguenze delle prescrizioni urbanistiche approvate non necessita di approfondimenti specifici in sede di formazione di uno strumento urbanistico generale, e in ogni caso la stessa ricorrente che ammette che il pianificatore si è preoccupato di disciplinare in modo puntuale gli edifici meritevoli di recupero (come quello di sua proprietà).
3. In conclusione, la pretesa avanzata in giudizio non si rivela degna di apprezzamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2017 n. 1496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA: Legittima la votazione per parti separate del piano urbanistico in caso di conflitto di interesse dei consiglieri comunali.
Con riguardo agli effetti dell'obbligo di astensione in sede di votazione dello strumento urbanistico dei consiglieri in posizione di conflitto di interessi ai sensi dell’art. 78, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, occorre riconoscere la possibilità di dar luogo a votazioni frazionate su singole componenti del piano, di volta in volta senza la presenza di quei consiglieri che possano astrattamente ritenersi interessati, in modo da conciliare l'obbligo di astensione con l'esigenza -improntata al rispetto del principio di democraticità- di evitare il ricorso sistematico al commissario ad acta.
Ne consegue la legittimità, proprio al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni, di una approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l'astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; si è aggiunto anche che in tale ipotesi a quest'ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell'amministratore in conflitto.

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4. – Con il primo motivo di ricorso si deduce che la deliberazione sarebbe viziata dal conflitto di interessi che riguarda diversi consiglieri, i quali –pur astenendosi sulla decisione circa le osservazioni presentate da loro o dai loro congiunti– hanno poi partecipato alla votazione con cui è stato definitivamente approvato l’intero piano strutturale comunale.
Il motivo è infondato.
Come di recente evidenziato dalla giurisprudenza (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 07.04.2016, n. 1766), con riguardo agli effetti dell'obbligo di astensione in sede di votazione dello strumento urbanistico dei consiglieri in posizione di conflitto di interessi ai sensi dell’art. 78, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, occorre riconoscere la possibilità di dar luogo a votazioni frazionate su singole componenti del piano, di volta in volta senza la presenza di quei consiglieri che possano astrattamente ritenersi interessati, in modo da conciliare l'obbligo di astensione con l'esigenza -improntata al rispetto del principio di democraticità- di evitare il ricorso sistematico al commissario ad acta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2004, n. 4429; Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2011, n. 3663; TAR Veneto, Sez. I, 06.08.2003, n. 4159).
Ne consegue la legittimità, proprio al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni, di una approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l'astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; si è aggiunto anche che in tale ipotesi a quest'ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell'amministratore in conflitto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2011, n. 3663; Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2004, n. 4429).
Alla luce di tale condivisibile orientamento, risulta legittimo l'operato del Comune di Limbadi nel caso di specie, essendosi proceduto a votazioni separate per le singole osservazioni e quindi a votazione finale dell'approvazione del piano strutturale comunale nella sua globalità, con la regolare partecipazione di tutti i consiglieri che nelle singole votazioni precedenti avevano ritenuto di non partecipare alla deliberazione, in quanto versavano in situazioni di conflitto di interessi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 22.12.2017 n. 2128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria accoglie la tesi della cessazione degli effetti del vincolo preliminare di notevole interesse pubblico ante novella del 2006, d.lgs. n. 42 del 2004 e modula la portata temporale della propria pronuncia.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di dichiarazione di notevole interesse – Sopravvenienza della norma che introduce un termine di 180 giorni per la approvazione –  Mancata conclusione del procedimento – Decadenza delle misure di salvaguardia.
  
Giustizia amministrativa – Principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria – Irretroattività – Condizioni.
  
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e dell’art. 139, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni». (1)
  
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: 
      a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; 
  
   b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; 
  
   c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche». 
«Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza». (2)
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   (1) I. – Il caso.
La questione oggetto della pronuncia in rassegna concerne la tematica della perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate nel 2006-2008 al Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42 del 2004), non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di appello proposto da una società –interessata al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le disposizioni della presente Parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria di tutela si protraeva fino alla approvazione del vincolo, senza indicazione di termini di efficacia della misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs. n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co. 1”  (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari, possessori o detentori dei beni che “non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata dalla competente commissione prima della data di entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche in assenza della approvazione mediante l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   a) alla data di entrata in vigore del Codice ha continuato a trovare applicazione la medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae fino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
   b) l’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che “le disposizioni della presente parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”, non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo, termini perentori per il perfezionamento della procedura o forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs. 26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto una espressa decadenza per le proposte non approvate dal Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò consegue che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo formulate antecedentemente alla entrata in vigore del Codice;
   c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157, comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”, poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare la statuizione di primo grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs. n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co. 2, del medesimo Codice che, al contrario, la confermerebbe.
   II.- La rimessione.
Con 
ordinanza 12.06.2017, n. 2838 (oggetto della 
News US in data 13.06.2017) la quarta sezione del Consiglio di Stato, dopo aver disatteso alcune questioni preliminari, ha deferito la questione all’Adunanza plenaria, ricostruendo i due orientamenti esegetici che si fronteggiano sul tema e richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons. Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 21.03.2005 n. 1121 che si richiamano ai principi espressi da Corte cost., 23.07.1997 n. 262, Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010 n. 16476; TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
     
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella A, allegata al d.m. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1, del Codice.
Tale affermazione si fonda sul sistema di tutela introdotto dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata adozione del provvedimento di vincolo nel termine di conclusione del procedimento a tal fine previsto non comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che, applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della proposta, diviene definitivo con l’adozione della dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997 cit.);
      e) il legislatore del 2006-2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004;
      f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del “tempus regit actum”;
      g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
      h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di effetti le proposte di vincolo a seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr. 
sentenza n. 57 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza plenaria (cfr. 
sentenza n. 6 del 06.07.2015, in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che estende misure decadenziali a fatti storici anteriori dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie, come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria);
      i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il paesaggio come valore primario costituzionale (ma riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa, pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo della violazione del principio generale della proporzionalità (cfr. negli esatti termini Corte di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano Siragusa).
Secondo un diverso più recente orientamento, maturato in seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (
Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2016 n. 4746
TAR Puglia–Bari, sez. III, 08.03.2012, n. 521 e TAR Venezia, sez. II, 08.04.2005, n. 1393), anche per le proposte di vincolo approvate prima della entrata in vigore della novella al d.lgs. n. 42 del 2004, varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento ministeriale conclusivo del relativo procedimento. 
Ciò in quanto:
      j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal punto di vista del tenore letterale, una tale differenziazione nel regime giuridico delle proposte di vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni, elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo per intervenuta decadenza;
      k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (a differenza di quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004;
      l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
   III.- La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la decisione in rassegna, l’Adunanza plenaria ha ritenuto di fare propria la tesi minoritaria, definita di “discontinuità”, ravvisando tuttavia l’esigenza di arricchirne (e in parte modificarne) le argomentazioni e di individuarne gli effetti, nei termini così sintetizzati:
      m) occorre distinguere tra efficacia delle proposte di vincolo ed efficacia del vincolo preliminare sul bene che ne costituisce oggetto; la conservazione della “efficacia a tutti gli effetti”, dal punto di vista della interpretazione letterale, è predicata dall’art. 157, comma 2, in relazione alle sole proposte non anche al vincolo preliminare sul bene che ne discende. Quest’ultimo è soggetto ad una propria disciplina avente finalità cautelare;
      n) il rinvio operato dall’art. 157, comma 2, alle disposizioni della Parte III del d.lgs. n. 42/2004 deve intendersi come comprensivo della regola della decadenza introdotta nell’art. 141 dal d.lgs. 157/2006 e riformulata dal d.lgs. 63/2008, non avendo alcun fondamento la tesi secondo cui esso sia limitato alle norme di tutela (dunque al solo art. 146) o che si tratta di rinvio fisso al testo originario dell’art. 141 che inizialmente non contemplava la cessazione del vincolo preliminare;
      o) il rinvio non ha natura recettizia, ma formale (quindi mobile), come si evince dalla formulazione letterale, che si riferisce alla fonte (“Le disposizioni della presente Parte”) e non al contenuto;
      p) posto, dunque, che l’art. 157, comma 2, rinvia tanto all’art. 141, comma 5, quanto all’art. 146, comma 1, per evitare l’assurdo logico che esso implichi allo stesso tempo che l’effetto preliminare delle proposte anteriori (art. 141, comma 5) persista (art. 146, comma 1), l’unica soluzione possibile è interpretarlo nel senso che esso intenda da un lato conservare l’efficacia delle proposte anteriori alla novella del 2006 al Codice, dall’altro assoggettarne l’effetto preliminare di vincolo alla disciplina vigente sulla decadenza allo spirare del termine di 180 giorni previsto per la conclusione del procedimento;
      q) non può prospettarsi una questione di violazione del principio di irretroattività della legge perché nel caso di specie v’è una norma transitoria, l’art. 157, comma 2, che prevede espressamente l’applicabilità alle situazioni pendenti della nuova disciplina sulla decadenza della misura di salvaguardia introdotta nel 2006 e confermata nel 2008. In tal modo, infine, viene fatta corretta applicazione alla fattispecie del principio tempus regit actum, dal momento che la nuova disciplina viene applicata alla fase del procedimento (valutazione della proposta ai fini dell’assunzione del provvedimento definitivo) ancora in corso;
      r) sussiste l’opportunità di uniformare il sistema, per esigenze di coerenza e di parità di trattamento, che viene in rilievo allorquando si debbano valutare fatti accaduti nel passato i cui effetti si producono nel presente;
      s) sul piano teleologico, la tesi della discontinuità si giustifica alla luce della considerazione, da parte del legislatore, di una pluralità di valori costituzionali, quali, oltre quello del paesaggio, la protezione della proprietà privata (art. 41 Cost., nonché art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU e quindi art. 117 Cost.), e il buon andamento della pubblica amministrazione;
      t) la tesi della continuità si pone in conflitto con il canone della ragionevolezza, poiché ammette che il vincolo preliminare possa essere efficace anche a distanza di numerosi anni dalla proposta, ancorché da tempo sia stata introdotta nel Codice una disposizione che ne sancisce la perdita di efficacia;
      u) la nuova disciplina, introdotta con il d.lgs. 157/2006 e con il d.lgs. 63/2008, non priva di efficacia le proposte, ivi comprese quelle di cui all’art. 157, c. 2, ma conforma diversamente il potere di imposizione del vincolo, comportando la decadenza delle sole misure di salvaguardia in caso di inerzia protrattasi oltre 180 giorni.
   IV.- Per completezza, sulla tematica della tutela del paesaggio, si segnala:
      v) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490) -secondo il quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9 Cost.- 
Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem 25.01.1990, n. 139; 
Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121Sez. V, 11.10.2005, n. 5484Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
      w) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla titolarità ed all’esercizio dei poteri di tutela, controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
      x) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del territorio, 
Corte cost., 24.07.2013, n. 23818.07.2013, n. 211 e 24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza;
      y) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it., 2013, I, 2733.
   (2) I.- Gli effetti della pronuncia dell’Adunanza Plenaria e il prospective overruling «sostanziale».
A fronte della obiezione della difesa erariale sulla compromissione della tutela paesaggistica che deriverebbe dalla tesi della «discontinuità», implicando la cessazione ex abrupto di un numero indefinito (ma verosimilmente elevato) di proposte di vincolo, che lascerebbe prive di protezione aree pregiate dal punto di vista naturalistico o culturale, l’Adunanza plenaria ha affermato i seguenti importanti principi:
      a) ha ribadito che a cessare è solo l’effetto preliminare di vincolo, non l’efficacia della proposta;
      b) la decadenza dell’effetto preliminare non è immediata, ma una volta decorso il termine di 180 giorni;
      c) circa la decorrenza del predetto termine, dopo aver rammentato che in base al combinato disposto dell’art. 140, comma 1, e dell’art. 139, comma 5, del Codice, tale termine decorre dalla pubblicazione della proposta (sicché, per le proposte anteriori al Codice, il vincolo preliminare sarebbe decaduto decorsi 180 giorni dall’entrata in vigore –ad opera del d.lgs. 63/2008– dell’attuale testo dell’art. 141, comma 5, che tale decadenza commina, ovvero, ancor prima, per effetto del d.lgs. 157/2006, che l’ha introdotta), precisa che in un quadro di incertezza normativa, ben può, in via del tutto eccezionale, la sola Adunanza plenaria modulare la portata temporale della propria sentenza, facendone decorrere gli effetti solo per il futuro; tanto alla stregua delle seguenti considerazioni:
         c1) la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha già da tempo affermato –nell’ambito della giurisdizione di annullamento sugli atti delle istituzioni– che il principio dell’efficacia ex tunc dell’annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata assoluta e che la Corte può dichiarare che l’annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia effetto ex nunc o che, addirittura, l’atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l’istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l’atto impugnato; ciò al fine di tener conto non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare rilevante. Tale giurisprudenza trova oggi un fondamento testuale nel secondo comma dell’art. 264 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea (FUE);
         c2) i principi europei sono trasferibili nell’ordinamento nazionale in virtù dell’art. 1 del Codice sul processo amministrativo, secondo cui “La giurisdizione amministrativa  assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”;
         c3) la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato può, sia pure in circostanze assolutamente eccezionali, trovare una deroga, con la limitazione parziale della retroattività degli effetti o con la loro decorrenza ex nunc: il Consiglio di Stato ha già fatto applicazione di codesti principi (il leading case è rappresentato da Cons. Stato, sez. VI, n. 2755 del 2011 cui adde in motivazione sez. VI, 09.03.2011, n. 1488);
         c4) lo stesso ordinamento nazionale riconosce la possibilità di graduare l’efficacia delle decisioni di annullamento di un atto amministrativo (cfr. l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e l’art. 34, comma 1, lettera a), c.p.a. nonché artt. 121 e 122 c.p.a.);
         c5) anche la Corte costituzionale, pur partendo dal principio della natura intrinsecamente retroattiva delle sentenze dichiarative dell’incostituzionalità di una legge (che altrimenti sarebbero inutili per la parte vittoriosa del giudizio a quo), ha ritenuto possibile la graduazione degli effetti nel tempo della sentenza di accoglimento qualora vi sia «l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali» (così Corte cost. 11.02.2015 n. 10, in Foro it., 2015, I, 1502, con nota di ROMBOLI; id.,  2015, I, 1922 (m), con nota di TESAURO; Riv. giur. trib., 2015, 384, con nota di BORIA; Corriere trib., 2015, 958, con nota di STEVANATO; Riv. dir. trib., 2014, II, 455, con nota di RUOTOLO, CAREDDA; Dir. e pratica trib., 2015, II, 436, con nota di CAMPODONICO; Giur. it., 2015, 1324 (m), con nota di COSTANZO, MARCHESELLI, PINARDI SCAGLIARINI; Dialoghi trib., 2015, 62, con nota di GALLIO, SOLAZZI BADIOLI, STEVANATO, LUPI; Giur. costit., 2015, 45, con nota di ANZON DEMMIG, GROSSO, PUGIOTTO, GENINATTI SATÈ; Riv. neldiritto, 2015, 1055, con nota di PIROZZI; Giur. costit., 2015, 585, con nota di NOCILLA; Riv. dir. trib., 2015, II, 3, con nota di FEDELE, CROCIANI; Dir. e pratica trib., 2015, II, 905 (m), con nota di MISTRANGELO, ZANOTTI; Riv. trim. dir. trib., 2015, 981, con nota di AMATUCCI);
         c6) secondo quanto desumibile dall’esegesi dell’art. 99 c.p.a., le pronunce dell’Adunanza plenaria hanno natura essenzialmente interpretativa -in particolare quando essa ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione rimettente– e, analogamente  alle sentenze di annullamento e a quelle di incostituzionalità, hanno efficacia retroattiva;
         c7) in tali ipotesi, la deroga alla retroattività trova fondamento, più che nel principio di effettività della tutela giurisdizionale, nel principio di certezza del diritto: si limita la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni;
         c8) la deroga alla retroattività trova giustificazione anche nel dato testuale dell’art. 113 Cost. secondo cui “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”, con la precisazione che l’interposizione del legislatore non occorre allorquando via sia un principio generale dell’ordinamento UE direttamente applicabile che permetta al giudice amministrativo di pronunciarsi sulla legittimità degli atti della pubblica amministrazione modulando gli effetti della propria sentenza, e ciò vale in particolare quando il giudizio di annullamento presenti uno spiccato carattere interpretativo;
         c9) dalla natura interpretativa delle pronunce dell’Adunanza plenaria discende altresì la praticabilità del prospective overruling, in forza del quale il principio di diritto, affermato in contrasto con l’orientamento prevalente in passato, non verrà applicato (con vari aggiustamenti) alle situazioni anteriori alla data della decisione. In questi casi il prospective overruling si esplicita, dunque, nella possibilità per il giudice di modificare un precedente, ritenuto inadeguato, per tutti i casi che si presenteranno in futuro, decidendo però il caso alla sua immediata cognizione in base alla regola superata;
         c10) le condizioni che devono ricorrere perché l’Adunanza plenaria possa limitare al futuro l’applicazione del principio di diritto sono: 
   - l’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; 
   - l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; 
   - la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche;
         c11) nella fattispecie in esame sussistono tutte le indicate condizioni, poiché:
   - il dato letterale è equivoco;
   - la tesi della continuità è prevalente;
   - è necessario, a tutela del paesaggio, evitare la cessazione istantanea di tutti i vincoli preliminari attualmente esistenti su aree di interesse naturalistico o culturale;
         c12) ne consegue che, fermo il potere del legislatore di intervenire per ridisciplinare la materia, la delimitazione al futuro del principio di diritto affermato implica che l’effetto preliminare di salvaguardia cessi decorsi 180 giorni dalla pubblicazione della sentenza.
   II.- Sulla possibilità di modulare gli effetti delle sentenze dell’Adunanza plenaria si segnala: 
      d) il leading case, citato in motivazione, rappresentato da Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2011, n. 2755 (in Urb. e app., 2011, 927, con nota di TRAVI; Riv. neldiritto, 2011, 1228, con nota di RONCA; Guida al dir., 2011, fasc. 26, 103 (m), con nota di LORIA; Giornale dir. amm., 2011, 1310 (m), con nota di MACCHIA; Giur. it., 2012, 438 (m), con nota di FOLLIERI; Riv. giur. ambiente, 2011, 818 (m), con nota di DE FEO, TANGARI; Dir. proc. amm., 2012, 260, con nota di GALLO, GIUSTI; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2012, 566, con nota di AMOROSO, ANNUNZIATA), in cui, rilevata l’illegittimità del piano faunistico venatorio regionale, piuttosto che annullarlo (così eliminando le –pur insufficienti– misure protettive per la fauna), il giudice amministrativo ne ha accertato la illegittimità statuendo al contempo l’obbligo di procedere entro dieci mesi all’approvazione di un nuovo piano faunistico, in conformità alla motivazione di accoglimento del ricorso.
In questo caso la pronuncia si è dichiaratamente ispirata al principio di effettività della tutela onde evitare che l’annullamento potesse paradossalmente pregiudicare la posizione della associazione ambientalista ricorrente, anche se vittoriosa, rammentando che «la funzione primaria ed essenziale del giudizio è quella di attribuire alla parte che risulti vittoriosa l'utilità che le compete in base all'ordinamento sostanziale»; la sentenza della sesta sezione ha suscitato un ampio dibattito dottrinale, nel quale sono emerse in genere posizioni critiche (cfr. MACCHIA, L’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giornale dir. amm., 2011, 1310; FOLLIERI, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, 438; GALLO, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, e GIUSTI, La «nuova» sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2012, 260; TRAVI, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e «non annullamento» dell’atto illegittimo, in Urb. e app., 2011, 927; BERTONAZZI, Sentenza che accoglie l’azione di annullamento amputata dell’effetto eliminatorio?, in Dir. proc. amm., 2012, 1128; CARBONE, Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, in Dir. proc. amm., 2013, 428; DIPACE, L'annullamento tra tradizione e innovazione; la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 1273); 
      e) il precedente della VI sezione (invero anticipato da Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2011, n. 1488, anch’esso citato in motivazione, sebbene nella diversa ottica del bilanciamento di interessi più che di effettività della tutela, in una fattispecie in cui, annullata una destituzione, è stato escluso, sul piano retributivo, l’effetto ripristinatorio) ha avuto un qualche seguito nella successiva giurisprudenza amministrativa di primo grado (cfr. Tar per l’Abruzzo, Pescara, 13.12.2011 nn. 693-700, in un caso di adozione di una variante alle NTA del PRG in assenza di preventiva V.A.S. e Tar per il Molise, 21.11.2014, n. 637, in caso di accertata illegittimità di una autorizzazione unica per la realizzazione di un impianto a biomasse in mancanza della VINCA, in un’ottica tuttavia di bilanciamento di valori costituzionali, nonché Tar per l’Abruzzo, Pescara, 03.07.2012, n. 336; Tar per il Lazio, Sez. III-bis, 09.04.2014, n. 3838) e incontrato il favore della più recente dottrina (DE NICTOLIS, L'autotutela provvedimentale di annullamento degli atti illegittimi tra principi costituzionali, regole e eccezioni, in www.giustizia-amministrativa.it; CHIEPPA e GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2011506);
      f) la possibilità di modulare nel tempo gli effetti della sentenza di annullamento è stata successivamente esclusa da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI nonché in Urb. e app., 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it., 2015, 1693 (m), con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI); tale pronuncia (non menzionata dalla Plenaria in oggetto), chiamata a decidere una fattispecie in cui si è negato che il g.a. possa convertire, d’ufficio, la domanda di annullamento in tutela risarcitoria,  ha ritenuto espressamente (ai §§ 6 -8 ), di non poter recepire i principi elaborati dalla richiamata sentenza della VI sezione n. 2755 del 2011 (valore paradigmatico dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e degli artt. 34, comma 1, lettera a), nonché 121 e 122 c.p.a.; non trasponibilità, nell’ordinamento italiano, delle regole del processo dinanzi alla Corte di giustizia UE di cui all’art. 264 FUE); dopo aver rammentato che la giurisdizione amministrativa di legittimità è una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, ha anche precisato che non è “consentito al giudice, in presenza dell’acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda” (nello stesso senso, sia prima che dopo, v. Ad. plen.  25.02.2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429 con nota di SIGISMONDI; Ad. plen., 27.04.2015, n. 5, id., 2015, III, 265, con nota di TRAVI); 
      g) sull’effetto retroattivo della sentenza di annullamento –da cui discende, tra gli altri, l’effetto ripristinatorio- si veda per tutti, nella dottrina classica, CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento (voce), in Enc. dir., Milano, 1958, 496;
      h) nel caso esaminato dalla pronuncia in rassegna, la modulazione temporale degli effetti cassatori:
         h1) non è stata applicata ad una statuizione di annullamento –avendo la Plenaria rimesso la decisione alla sezione rimettente– bensì all’effetto naturalmente retroattivo della sentenza che, affermando il principio di diritto applicabile al caso di specie, ha natura dichiarativa e non costitutiva;
         h2) è stata applicata -al contrario di quanto sancito dal leading case della VI Sezione n. 2755 del 2011- a sfavore della parte ricorrente; per un primo commento sul punto si veda ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13) in Lexitalia 05.01.2018secondo il quale la limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (su cui di recente si veda Cass. civ., sez. un., 29.12.2017 n. 31226 secondo cui “alla tradizionale interpretazione “statica” –propria delle disposizioni codicistiche– del concetto di giurisdizione rilevante ai fini dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, si è andata affiancando una ulteriore interpretazione, “dinamica” o “funzionale”, sottesa agli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, Cost. e al primo comma dello stesso art. 111, come novellato dalla legge costituzionale 23.11.1999, n. 2. In base a tale interpretazione “dinamica”, attiene alla giurisdizione l’interpretazione della norma che l’attribuisce non solo in quanto ripartisce tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall’ordinamento risulti realizzata, dall’altro i presupposti del loro esercizio; sicché è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca”);
      i) sul valore del precedente, sulla funzione nomofilattica delle corti supreme, e sul difficile rapporto fra interpretazione della legge e creazione della norma, si vedano, da ultimo e nell’ambito di una sterminata letteratura, gli scritti di F. PATRONI GRIFFI, La funzione nomofilattica: profili interni e sovranazionali, in Federalismi.it, n. 19/2017 ; R. RORDORF, Il precedente nella giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 277; A. PROTO PISANI, Tre note sui <<precedenti>> nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, nella giurisprudenza di una Corte di cassazione necessariamente ristrutturata e nella interpretazione delle norme processuali, ibidem, 286; V. FERRARI, L’equivoco del giudice legislatore, ibidem, 295 (cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza anche in chiave comparata).
   III. – Il prospective overruling.
In tema di overruling -e cioè di mutamento della precedente interpretazione della norma processuale da parte dell’organo nomofilattico che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, di modo che l’atto compiuto dalla parte, od il comportamento da questa tenuto secondo l’orientamento precedente, risultino irrituali per effetto ed in conseguenza diretta del mutamento dei canoni interpretativi- si segnala quanto segue:
      j) a partire da Cass. civ., sez. un., 11.07.2011 n. 15144 (in Foro it., 2011, I, 3343, con nota di CAPONI, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, nonché in Corr. giur. 2011, 1392, con commenti di CONSOLO, CAVALLA e DE CRISTOFARO, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling) e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015, n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n. 12521, 13.02. 2014, n. 3308, in Foro it., 2014, I, 1114 con nota di P. CERBO, cui si rinvia per ogni approfondimento; e, da ultimo, Cass. civ., sez. un., 13.09.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per configurare il c.d. prospective overruling (istituto creato nel diritto nordamericano degli anni trenta proprio per mitigare gli effetti della naturale retroattività dei revirement delle corti supreme), e quindi per attribuire carattere innovativo, con decorrenza ex nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: 
         j1) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; 
         j2) l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un ragionevole affidamento; 
         j3) l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa; 
   k) tale impostazione è stata pedissequamente seguita anche dal giudice amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in considerazione dalla decisione in commento), Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9, in Foro it. 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI, (specie § 4, in cui si afferma esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.”); successivamente, 
Cons. Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138 (oggetto della 
News US in data 14.11.2017 cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento); la pronuncia in rassegna ha esteso il prospective overruling alla interpretazione innovativa di una norma di diritto sostanziale (anziché processuale), con il rischio di privare il ricorrente sia della tutela cassatoria che di quella risarcitoria, e senza che si fosse formato un diritto vivente sul punto controverso (tanto che era stato necessario rimettere la questione alla Plenaria proprio per la presenza di un contrasto di giurisprudenza maturato in seno al Consiglio di Stato); nel caso di specie la Plenaria ha ritenuto di estendere la portata del prospective overrulling ad una decadenza procedimentale dell’Amministrazione (decadenza delle misure cautelari di salvaguardia) ravvisando la medesima ratio della decadenza processuale, sul presupposto della inderogabile necessità di tutelare un valore costituzionale, qual è il paesaggio e quindi di dover consentire alle Soprintendenze di concludere nel termine di legge di 180 gg. (decorrente dalla pubblicazione della sentenza della Plenaria) i procedimenti di vincolo avviati prima dei correttivi al codice dei beni culturali e mai conclusi, con salvezza delle misure di salvaguardia che, diversamente, sarebbero risultate irrimediabilmente travolte dall’effetto retroattivo della pronuncia che ne ha accertato la cessazione;
   l)  sulla valenza inderogabilmente retroattiva della esegesi di norme di carattere sostanziale anche in presenza di un overruling, si veda Cass. civ., Sez. V, 18.11.2015, n. 23585: “La regola secondo cui, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile revirement giurisprudenziale non operano nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente sul precedente consolidato orientamento attiene unicamente al profilo deglieffetti del mutamento di una consolidata interpretazione del giudice della nomofilachia in ordine a norme processuali. Il sopravvenuto consolidamento di un nuovo indirizzo giurisprudenziale su norme di carattere sostanziale che in astratto consentirebbero la riforma di una precedente decisione non può quindi giustificare la rimessione in termini invocata dalla parte onde superare il giudicato formale formatosi per la mancata tempestiva impugnazione di una sentenza” (in termini, Sez. VI, 09.01.2015, n. 174, Riv. giur. trib., 2015, 315, con nota di MARCHESELLI; Nuova giur. civ., 2015, I, 501, con nota di MOLINARO) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 22.12.2017 n. 13 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla nozione di volume tecnico.
La nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
Invero, "integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima”; e, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va fatto riferimento a tre ordini di parametri:
   - il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
   - il secondo e il terzo negativi, ricollegati all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa.
In tale tipologia realizzativa appieno si inquadrano gli interventi posti in essere dall’odierno ricorrente.
Consegue a tale considerazione l’inassoggettabilità degli stessi ai limiti di ordinarietà posti alle realizzazioni edilizie quanto all’osservanza delle distanze fra edifici, per come –condivisibilmente– ritenuto in giurisprudenza.
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È, in primo luogo, incontroverso che le realizzazioni oggetto del provvedimento gravato integrino volumi tecnici.
Trattasi infatti –come evidenziato, anche con corredo di documentazione progettuale e fotografica, dalla parte ricorrente– di vani tecnici di altezza pari a 1,80-1,90 mt., non chiusi da tutti i lati e destinati ad alloggio di pompa di calore, addolcitori e altre condotte esclusivamente tecniche.
Come costantemente ribadito in giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2017 n. 5516) la nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
Nello stesso senso, Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272, secondo cui: “integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima” (Cons. Stato, sez. IV, 04.05.2010 n. 2565; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 09.07.2007 n. 1749; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.04.2002 n. 1337); e, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 15.01.2005 n. 143).
Per l’identificazione della nozione di volume tecnico, va fatto riferimento a tre ordini di parametri:
   - il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
   - il secondo e il terzo negativi, ricollegati all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa.
In tale tipologia realizzativa appieno si inquadrano gli interventi posti in essere dall’odierno ricorrente.
Consegue a tale considerazione l’inassoggettabilità degli stessi ai limiti di ordinarietà posti alle realizzazioni edilizie quanto all’osservanza delle distanze fra edifici, per come –condivisibilmente– ritenuto in giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, 1272/2014 cit.; nonché Cons. Stato, sez. IV, 15.01.2013 n. 223).
In ogni caso, come ritenuto dalla Sezione in sede di delibazione dell’istanza cautelare incidentalmente proposta dalla parte ricorrente, anche laddove si ritenesse operante alla fattispecie in esame la prescrizione di cui all’art. 827 c.c. (che, come è noto, impone il rispetto di una distanza minima di tre metri tra le costruzioni), nel caso in esame risulta essere stata comunque rispettata la distanza minima dal confine di 1,5 metri.
Alla riscontrata fondatezza del gravame accede l’annullamento dell’atto con esso avversato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.12.2017 n. 1456  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILocali agricoli, tassa sui rifiuti assimilati.
I rifiuti prodotti nei fabbricati destinati all'attività agricola non possono essere considerati rifiuti solidi urbani. In mancanza di assimilazione dei rifiuti agricoli ai rifiuti urbani, industriali o artigianali, quindi, la richiesta della tassa è illegittima.

Lo ha stabilito la sezione seconda della Ctp di Pavia, nella sentenza 16.11.2017 n. 307/2/2017.
Nel caso specifico, il comune di Travacò Siccomario (comune della provincia di Pavia posto a 2 chilometri a Sud dal capoluogo, tra il Ticino e il Po) notificava un avviso di accertamento a un coltivatore diretto. L'Ufficio del comune, nell'atto, richiedeva la Tarsu per l'anno 2011 sui locali destinati a residenza ed esercizio dell'attività agricola. L'applicazione della tassa rifiuti alle superfici produttive di rifiuti agricoli e ai fabbricati rurali coincide con quella relativa ai rifiuti speciali delle attività industriali.
Pertanto, il comune potrà applicare la tassa alle superfici ove si producono i rifiuti assimilati, e quindi anche i locali destinati a capannone o a magazzino agricolo, solo se avrà provveduto ad assimilare i rifiuti speciali provenienti dalle attività economiche, e dunque anche quelli provenienti dall'attività agricola; il tutto, sempre che non venga dimostrato che si tratta di locali inidonei a produrre rifiuti, a norma dell'art. 62, comma 2, del dlgs n. 507/1993.
Occorre ricordare che l'art. 66, comma 4, del dlgs n. 507/1993, ha disposto la facoltà per i comuni di prevedere nel regolamento la riduzione della tassa rifiuti in misura non superiore al 30% per gli agricoltori che occupano la parte abitativa della costruzione rurale. In seguito, l'art. 12-bis del dl 20.06.1996, n. 323, convertito dalla legge 28.12.1995, n. 425, ha stabilito che i comuni possono prevedere l'esenzione dalla tassa rifiuti dei fabbricati rurali, utilizzati come abitazione da produttori e lavoratori agricoli, sia in attività che in pensione, e che siano situati in zone agricole. La portata della norma è stata ampiamente chiarita con la risoluzione del Ministero dell'economia e delle finanze n. 272/E del 30/12/1996.
Tuttavia, nel caso specifico, i rifiuti prodotti nell'esercizio di una attività agricola, stante la loro specifica e intrinseca natura (i rifiuti vengono dispersi in campagna e utilizzati come concime) non possono essere considerati rifiuti solidi urbani. Peraltro la loro assimilazione ai rifiuti urbani o a quelli industriali o artigianali non era neanche rinvenibile nel regolamento Tarsu del Comune accertatore.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La contribuente ha presentato ricorso avverso l'avviso di accertamento n. 1/2016 emesso per l'anno 2011 dal comune di Travacò Siccomario in materia di Tarsu (tassa smaltimento rifiuti urbani).
Poiché la ricorrente è coltivatrice diretta, conduce un fondo rustico con annessi fabbricati destinati a residenza ed esercizio della propria attività agricola. È da precisare che poiché i rifiuti prodotti nei fabbricati destinati all'esercizio dell'attività agricola sono qualificati (materia fecale e altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nell'attività agricola) vengono smaltiti direttamente dall'opponente mediante dispersione in campagna.
OSSERVA
la Commissione che i rifiuti, prodotti nei fabbricati destinati all'esercizio dell'attività agricola, non possono considerarsi rifiuti solidi urbani, stante la loro specifica e intrinseca natura, la quale appunto per questo fa sì che essi vengano dispersi in campagna.
Peraltro la loro assimilazione ai rifiuti urbani o a quelli industriali o artigianali non è neanche rinvenibile nel Regolamento Tarsu del Comune accertatore.
PQM annulla l'atto impugnato. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 22.01.2018).

CONDOMINIOTelecamere, meglio il fai-da-te. Sulle posizioni incerte prevale l'autoregolamentazione. Discordanti le tesi di garante privacy, giudici penali e civili sulle riprese: ecco la via d'uscita.
Telecamere sulle parti comuni: sì, no, forse. Il garante dice di no, il giudice penale dà l'ok; il giudice civile non ha ancora una posizione univoca.
Nel frattempo o si sceglie l'alea giudiziaria o ci si mette d'accordo tra privati.

L'ultimo caso è stato affrontato dal TRIBUNALE di Avellino (sentenza 30.10.2017, solo ora resa nota).
Il vicino installa all'esterno del suo cancello una telecamera, puntata sulla proprietà esclusiva dei dirimpettai, che si sentono costantemente spiati. La telecamera è puntata sul vialetto di accesso alle abitazioni.
Chi ha installato la telecamera ha subito furti di appartamento e intende tutelare la propria sicurezza.
Il vicino non gradisce che siano prese le immagini sugli spostamenti suoi e di chi lo viene a trovare.
Garante contro giudici. Per il fatto non c'è una sola regola, ma più regole in conflitto tra loro.
Una regola fa prevalere la sicurezza; l'altra la riservatezza. La seconda viene applicata dal garante della privacy; la prima viene applicata, ma non in maniera concorde, dai giudici dei tribunali.
In attesa che una delle autorità si adegui all'orientamento dell'altra, bisogna sapere a cosa si va incontro se si va dall'una o dall'altra.
Se si va dal garante è molto probabile ricevere un ordine di non trattare dati con la telecamera sul vialetto; ma non bisogna dimenticare che i provvedimenti sono impugnabili davanti al giudice.
Se si va dal giudice penale è molto probabile che chi ha messo la telecamera sul vialetto sarà assolto dal reato di interferenze illecite sulla vita privata; se si va dal giudice civile (subito o in opposizione a provvedimenti del garante), bisogna considerare che qualche giudice di merito ritiene vincolanti il provvedimento del garante (divieto di riprese delle parti comuni) e che qualche altro giudice si pronuncia indipendentemente dal provvedimento di garante (e quindi dà il via libere alle telecamere sul vialetto).
Facile constatare un groviglio di incertezze, rispetto al quale l'unica soluzione ragionevole sarebbe l'autoregolamentazione: gli interessati si siedono attorno al tavolo e, cercando di capire le rispettive ragioni, stilano il loro regolamento sulla videosorveglianza del vialetto.
Magari riusciranno a darsi delle regole (contrattuali) sull'oggetto della ripresa, sui tempi delle riprese, sulla conservazione e sulla cancellazione delle immagini, sui costi da condividere e in che misura, ecc.
Se questo non è possibile, allora via libera al contenzioso. Ma non dimentichiamo che nelle more di una legge o di un orientamento consolidato della giurisprudenza, qualcuno potrà mettere le telecamere e qualcun altro no, qualcuno dovrà subire di essere ripreso mentre dal cancello di ingresso percorre il vialetto che porta all'uscio di casa sua e qualcun altro, invece, no.
Ma passiamo a esaminare i vari passaggi e le varie tesi contrapposte, che sono, tra l'alto, riepilogate dalla sentenza del Tribunale di Avellino.
Non è penale. Non c'è responsabilità penale per interferenze alla vita privata (articolo 615-bis del codice penale): le scale di un condominio e i pianerottoli delle scale condominiali non assolvono la funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo da sguardi indiscreti, perché sono, in realtà, destinati all'uso di un numero indeterminato di soggetti. Di conseguenza, per i giudici penali, non comportano interferenze illecite nella vita privata le videoriprese del «pianerottolo» di un'abitazione privata, oltre che dell'area antistante all'ingresso di un garage condominiale; le videoregistrazioni dell'ingresso e del piazzale di accesso a un edificio sede dell'attività di una società commerciale; l'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso.
La legge sulla privacy. L'articolo 5, comma 3, del dlgs 196/2003 dispone che «il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all'applicazione del codice della privacy solo se i dati sono destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione».
Alla ripresa di immagini del vialetto non si applica il codice della privacy, perché il trattamento è eseguito dal resistente per finalità esclusivamente personali, relative alla tutela dell'incolumità della famiglia e della proprietà.
Posizione garante privacy. Il garante per la protezione dei dati personali nel suo provvedimento in materia di videosorveglianza dell'08/04/2010 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 99 del 29/4/2010), quanto ai trattamenti effettuati per finalità esclusivamente personali, non accompagnati da comunicazione sistematica o diffusione di dati, ha preso una posizione di cautela.
Anche se non si applica la disciplina del codice della privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (articolo 615-bis codice penale), ha scritto il garante, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (per esempio antistanti all'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini.
La posizione del tribunale. Se non è penale, siano di fronte a un illecito civile?
Alcuni tribunali, come quello di Avellino, che è in buona compagnia, prendono le distanze dal garante.
Le indicazioni dettate dal garante, dicono i sostenitori di questo orientamento, non tengono conto, del fatto che le aree comuni non rientrano nei concetti di domicilio, di privata dimora e di appartenenza di essi.
Inoltre, per essere al riparo da occhi indiscreti non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre altresì che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi: se l'azione può essere liberamente osservata dai terzi senza dover ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può avanzare una pretesa di riservatezza.
Quindi, secondo questo filone, le parti comuni di un edificio ben possono essere oggetto di sorveglianza video, contrariamente a quanto affermato nel citato provvedimento del garante.
In sostanza, il garante, nel momento in cui ha dato le indicazioni sopra riportate su quale angolo visuale dovrebbero tenere le telecamere, ha affermato che seguire tale indicazioni è necessario al fine di «evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata» (articolo 615-bis codice penale).
Però le sentenze penali, hanno escluso che la ripresa relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini integri di per sé reato, ogniqualvolta si tratti di spazio fisico direttamente e materialmente accessibile nonché visibile da parte di chiunque, senza che sia necessario il consenso di nessuno.
Quindi, nota il tribunale di Avellino, il garante, per mezzo delle indicazioni da lui fornite con il provvedimento del 2010 (relative a evitare che l'angolo visuale della telecamera riprenda «aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti all'abitazione di altri condomini» ha fornito un'interpretazione del reato di cui all'art. 615-bis c.p. in buona parte smentita dalla giurisprudenza di legittimità.
Quindi se le indicazioni del Garante non sono corrette, allora non possono in alcun modo vincolare o condizionare il giudice civile.
I passaggi del giudice civile sono i seguenti:
   1. il trattamento di dati effettuato da chi riprende il vialetto, oltre a non essere penalmente rilevante, non è neppure soggetto al codice della privacy;
   2. il vialetto oggetto di ripresa da parte della telecamera è spazio fisico direttamente e materialmente accessibile da parte di chiunque (non essendovi alcun cancello o altro ostacolo apposto all'inizio di esso), senza che sia necessario il consenso di nessuno;
   3. bisogna tener conto del diritto alla tutela dell'incolumità fisica;
   4. ritenere che la telecamera dovrebbe avere un angolo visuale tale da escludere del tutto la ripresa del vialetto di accesso significherebbe frustare del tutto lo scopo dell'apposizione della telecamera, la quale potrebbe a questo punto essere rivolta solo verso l'interno della dimora dell'interessato, senza poter in alcun modo identificare chi percorra il vialetto anche con scopi eventualmente illeciti o penalmente rilevanti di aggressione all'incolumità fisica;
   5. l'apposizione della telecamera con angolo visuale relativo al solo vialetto è proporzionata a quanto sia necessario per la tutela dell'incolumità fisica e non viola, nell'ambito del necessario bilanciamento da operare tra diritti aventi entrambi fondamento costituzionale, il diritto alla riservatezza altrui (articolo ItaliaOggi Sette del 22.01.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPolizia locale. L'ufficiale che cestina le multe rischia sospensioni.
Rischia anche la sospensione dal servizio il vice comandante della polizia locale che sistematicamente omette di curare l'inoltro tempestivo dei ricorsi alla prefettura. Con conseguente annullamento dei verbali elevati dai vigili.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 25.10.2017 n. 25378.
Un funzionario apicale della polizia municipale ha omesso di istruire tempestivamente circa 300 ricorsi che non sono arrivati in tempo sul tavolo della prefettura e per questo sono stati necessariamente annullati.
Contro la conseguente sanzione disciplinare adottata dal comune l'interessato ha proposto ricorso fino ai giudici del Palazzaccio ma senza successo. L'aver sistematicamente omesso di rispettare le direttive del dirigente sulla tempestività necessaria nella trattazione dei ricorsi avverso le sanzioni amministrative stradali ha determinato un danno economico e all'immagine dell'ente.
Per questo motivo oltre alla responsabilità contabile fatta valere dalla corte dei conti il funzionario risulta anche soggetto, legittimamente, alla sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per qualche giorno, senza stipendio (articolo ItaliaOggi del 19.01.2018).
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MASSIMA
FATTI DI CAUSA
La Corte d'Appello di Firenze con sentenza in data 22/01/2016, in riforma della sentenza del Tribunale di Grosseto n. 365/2014, ha accertato la legittimità della sanzione disciplinare di otto giorni di sospensione dal servizio con privazione della retribuzione irrogata dal Comune di Follonica nei confronti di Ma.An.Bu., vice comandante della Polizia Urbana Municipale, per omissioni e ritardi nella gestione dell'istruttoria di numerosi ricorsi amministrativi (circa trecento pratiche) avverso la contestazione della violazione delle norme del codice della strada, ai sensi dell'art. 3, co. 4, lett. c), del c.c.n.l. vigente per i dipendenti delle Regioni e delle autonomie locali, con le aggravanti previste dallo stesso per il ritardo nell'esecuzione delle disposizioni di servizio e per il danno economico e di immagine causato dal disservizio.
La Corte territoriale non ha ravvisato irregolarità formali nel procedimento disciplinare, né sotto il profilo della specificità degli addebiti contestati né sotto quello della proporzionalità della sanzione, essendo risultato chiaro, dall'istruttoria, il disvalore della condotta contestata e posta dall'amministrazione comunale a base dell'adozione del provvedimento sospensivo.
Le negligenze emerse, riguardanti gravi e reiterati comportamenti omissivi o dilatori di adempimenti prevalentemente procedurali nella gestione delle pratiche assegnate (mancato rispetto del termine perentorio per l'invio dei ricorsi al Prefetto e delle relative controdeduzioni previste dall'art. 203, co. 2, d.lgs. n. 285/1992, nonché inadempimenti relativi alle modalità di trattamento dei ricorsi in opposizione alle sanzioni comminate per violazioni del codice della strada, impartite con disposizione operativa del dirigente del servizio) avevano reso impossibile alla Prefettura assumere le proprie conseguenti determinazioni entro i termini di legge, causando un danno economico al Comune (danno che il Bu. era stato condannato a rifondere dalla Corte dei Conti Toscana con sentenza 28.03.2013 n. 112, in seguito alla quale l'ente si era risolto ad aprire il procedimento disciplinare), e ledendo la credibilità dell'amministrazione in quanto condotte idonee a ingenerare il sospetto di illeciti favoritismi.
Avverso questa decisione interpone ricorso in Cassazione Ma.An.Bu. con cinque censure cui resiste con tempestivo controricorso il Comune di Follonica.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 del codice di rito.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La prima censura contesta violazione e falsa applicazione dell'art. 7 St. lav. e dell'art. 55, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 modif. dal d.lgs. n. 150/2009 e confermato dalla Circ. Dip. Funz. Pubb. 1.14/2010; art. 25, co. 10, c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali, per avere, la Corte territoriale, considerato irrilevante il mancato aggiornamento del codice disciplinare in relazione alle fattispecie di illecito previste dal d.lgs. n.150/2009, ritenendo nella specie, i fatti attribuiti al lavoratore, astrattamente rientranti nelle ipotesi di illecito disciplinare già contemplate dalla contrattazione collettiva applicabile ratione temporis.
Secondo parte ricorrente, la mancata integrale affissione del codice disciplinare equivarrebbe all'assenza di pubblicità dello stesso e determinerebbe, pertanto, la nullità dell'intero procedimento disciplinare.
L'aver ritenuto soddisfatto, come vuole la sentenza gravata, il requisito della pubblicità attraverso il sito Intranet del Comune, avrebbe violato inoltre, l'art. 25, co. 10, del c.c.n.l. vigente.
Il motivo è infondato.
Sul punto giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte, assestatasi ormai sul principio che "
...in tutti i casi in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario che sia data adeguata pubblicità al codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell'illiceità della propria condotta" (Cass. 19183/2016 e, conformemente in argomento: Cass. n. 1926/2011; Cass. n. 22626/2013 nonché, da ultimo, Cass. n. 4826/2017).
La censura non dà prova di tener conto di tale orientamento consolidato, né si rivela adeguata nel contestare le due principali affermazioni della sentenza a riguardo: a) che l'onere di pubblicità potesse dirsi assicurato dalla pubblicazione del codice disciplinare sul sito Intranet del Comune; b) che il fatto che gli illeciti non fossero stati "aggiornati" in base alla L. n. 150/2009 era del tutto irrilevante, poiché i fatti contestati erano già sanzionabili sotto la vigenza del c.c.n.l. temporalmente applicabile.
Il ricorrente, sul punto sub a) richiama il co. 10, dell'art. 25 del c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali, il quale così dispone: "Al codice disciplinare di cui al presente articolo deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre".
Così richiamata la norma non è tuttavia in grado di fornire al ricorrente uno strumento interpretativo utile a confutare l'affermazione del Giudice d'Appello in merito all'esistenza della pubblicazione del codice disciplinare con modalità informatica, né a spiegare in qual modo, una siffatta forma di diffusione, si ponga in contrasto con i canoni di accessibilità e tassatività prescritti dall'autonomia collettiva.
Quanto poi al punto sub b), la censura esprime un dissenso immotivato rispetto all'affermazione, contenuta nella decisione di seconde cure, circa l'irrilevanza del mancato aggiornamento del codice disciplinare in ragione del fatto che le condotte contestate fossero comunque contemplate dalla disciplina contrattuale vigente, dunque sanzionabili.
In ogni caso, anche se tale diversa opinione fosse stata in qualche modo argomentata, su ogni altra considerazione prevale l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte innanzi richiamato, che avverte l'interprete circa la diversa e meno rigida rilevanza da attribuire al requisito di pubblicità del codice disciplinare laddove il lavoratore abbia potuto rendersi conto, al di là di un'analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell'illiceità della propria condotta, del che la Corte d'Appello ritiene sia emersa piena prova in giudizio.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Attività di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi (rottami ferrosi) - Liberalizzazione dell'attività di ambulante - Iscrizione nell'albo dei gestori ambientali - Art. 212, 256, 266, d.Lgs. 152/2006.
L'abrogazione degli art. 121 e 124 TULPS non ha comportato la liberalizzazione dell'attività di ambulante (Cass., Sez. 3, n. 27290/2012, e n. 6602/2011, cui è da aggiungersi la n. 34917/15) e quindi rimane pur sempre necessaria l'abilitazione di cui all'art. 266, comma 5, d.Lgs. 152/2006.
Pertanto, il reato di attività di gestione dei rifiuti è comune e può essere commesso anche da chi svolge l'attività di gestione dei rifiuti in modo secondario e consequenziale all'esercizio di un'attività primaria diversa (Cass., Sez. 3, n. 29077/2013). Sicché, è irrilevante il dato formale della qualifica di soggetto imprenditore o professionista, dovendosi far riferimento al concetto di "attività" e "concrete modalità di svolgimento della stessa" (Cass., Sez. 3, n. 24431/2011).
Nella specie, integra il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.Lgs. 152/2006, l'effettuare attività di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi, per lo più rottami ferrosi, senza l'iscrizione nell'albo dei gestori ambientali di cui all'art. 212 dello stesso decreto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2017 n. 48437 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGA: RIFIUTI - Autovetture "fuori uso" - Rivendita di pezzi di ricambio - Discarica abusiva - Verifiche attraverso documentazione fotografica - Reato di cui all'art. 256, c. 1, lett. a), d.Lgs. 152/2006.
In tema di rifiuti, una discarica abusiva può essere rilevata da parte del Giudice, anche, sulla base di una documentazione fotografica. Nella specie, integrazione del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.Lgs. 152/2006, perché, il ricorrente, aveva raccolto nel capannone situato dietro al suo negozio di rivendita di pezzi di ricambio, una notevole quantità di rifiuti speciali non pericolosi, consistenti soprattutto in varie componenti di autovetture "fuori uso", ai sensi dell'art. 3, d.Lgs. 209/2003, come sportelli, motori, gomme, fari, sospensioni, tappezzerie, paraurti e cruscotti, raccogliendo presso il capannone diverse autovetture smantellate e/o incidentate, destinate alla demolizione, da cui asportava pezzi di ricambio che poi rivendeva "sotto banco" nel suo esercizio commerciale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2017 n. 48436 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, è rilevante l'anzianità maturata. Consiglio di stato sulle posizioni economiche.
In un bando pubblico, la previsione che richiede «il possesso dei seguenti requisiti alla data di scadenza del termine della domanda di partecipazione» non può essere letta nel senso di escludere, ai fini della partecipazione, la considerazione dell'anzianità maturata nella posizione economica precedentemente posseduta, considerandosi che comunque trattasi di un requisito (sia pur relativo a precedente posizione economica) del quale il dipendente è comunque in possesso nel senso dell'appartenenza al suo patrimonio professionale (e, dunque, come tale posseduto alla data di presentazione della domanda di partecipazione).

Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 20.07.2017 n. 3589.
Il thema decidendum verteva su una sentenza con la quale il tribunale amministrativo regionale accoglieva il ricorso proposto da Tizio, inteso a ottenere l'annullamento del decreto della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici, avente ad oggetto l'esclusione dalle procedure di passaggio dall'area B alla posizione C1 nel profilo professionale di esperto in comunicazione ed informazione.
La sentenza esponeva in fatto che con il presente gravame Tizio impugnava l'esclusione dalle procedure di passaggio dall'area B alla posizione C1, profilo professionale di esperto in comunicazione e informazione. Il ricorso era affidato a due profili di gravame relativi alla violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990; dell'articolo 2 del bando e dei principi in materia concorsuale; nonché eccesso di potere per manifesta illogicità, errore sui presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà ed eccesso di potere. Con ordinanza la sezione ha accolto l'istanza cautelare sulla base del fumus, alla luce dell'orientamento del giudice di appello (cfr. Cons. stato, VI, 08/10/2008, n. 4928).
Nonostante la puntuale notifica della predetta ordinanza, l'amministrazione non ammetteva la ricorrente al corso di formazione connesso alla procedura in questione, per cui con ordinanza per l'esecuzione la sezione ordinava l'ammissione con riserva al primo ciclo del percorso formativo utile. L'Amministrazione si era costituita in giudizio e con analitica memoria per la discussione ha confutato le argomentazioni di controparte, concludendo per il rigetto.
Avverso la decisione del giudice di primo grado il ministero per i Beni culturali ha proposto appello dinanzi al Consiglio di stato, deducendo l'erroneità della sentenza e chiedendone l'integrale riforma, affidando il gravame ad unico ed articolato motivo (articolo ItaliaOggi Sette del 15.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
L’ordine di demolizione non esige né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare.

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Sia l’ordine di demolizione che l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non sono riconducibili al paradigma dell’autotutela e non richiedono, pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso o l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
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Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile alcuna violazione del principio di irretroattività.
Invero:
   - "il calcolo dell’ammontare della sanzione pecuniaria dovrà essere effettuato tenendo conto del momento in cui la stessa viene irrogata, in applicazione del principio generale per cui gli interventi abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina vigente al momento in cui avviene la repressione…Ne consegue che ai fini della determinazione della sanzione da infliggere per la realizzazione di opere edilizie abusive, deve tenersi conto del valore delle stesse al tempo della relativa irrogazione e non a quello corrente al momento della commissione dell’abuso, atteso che solo così operando l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto all’alternativa sanzione della demolizione”;
   - "il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività”.
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La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R. 61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio formale e non dinamico.
In altri termini la norma sanzionatoria fa proprio quel meccanismo di calcolo del costo di produzione attualizzato e lo rende indifferente alle successive modifiche apportate alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il maggior onere pecuniario della sanzione.
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Il ricorrente ha impugnato il provvedimento in epigrafe indicato con cui gli è stata irrogata una sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione, pari a circa 33 milioni di lire, per aver realizzato opere in difformità dalla concessione edilizia (ampliamento della casa al mare): a sostegno del ricorso ha dedotto plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.
Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia contrastando le avverse pretese.
Il ricorso non merita accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. L’ordine di demolizione non esige né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (Ad Plen. n. 9/2017; Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV, 12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n. 3750).
Analoghi principi valgono, ad avviso del Collegio, per l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione prevista dall’art. 93 della L.R.V. n. 61 del 1985.
E, invero, sia l’ordine di demolizione che l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non sono riconducibili al paradigma dell’autotutela e non richiedono, pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso o l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
Quanto ai dedotti vizi formali e procedimentali, il Collegio rileva che, nel caso di specie, non era necessaria la comunicazione di avvio del procedimento di irrogazione della sanzione né la previa diffida a ripristinare lo stato dei luoghi poiché è stato lo stesso interessato a chiedere l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione ex art. 93 della L.R.V. n. 61 del 1985.
Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile alcuna violazione del principio di irretroattività (cfr. TAR Veneto n. 473/2013 secondo cui “il calcolo dell’ammontare della sanzione pecuniaria dovrà essere effettuato tenendo conto del momento in cui la stessa viene irrogata, in applicazione del principio generale per cui gli interventi abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina vigente al momento in cui avviene la repressione…Ne consegue che ai fini della determinazione della sanzione da infliggere per la realizzazione di opere edilizie abusive, deve tenersi conto del valore delle stesse al tempo della relativa irrogazione e non a quello corrente al momento della commissione dell’abuso, atteso che solo così operando l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto all’alternativa sanzione della demolizione”; Cons. St. n. 4943/2016 secondo cui “il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività”).
La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R. 61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio formale e non dinamico: in altri termini la norma sanzionatoria fa proprio quel meccanismo di calcolo del costo di produzione attualizzato e lo rende indifferente alle successive modifiche apportate alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il maggior onere pecuniario della sanzione (cfr.: Cons. Stato, V, 30.09.1980 n. 800; TAR Veneto 23.04.1982 n. 393; TAR Veneto n. 1140/2001).
Per quanto sin qui esposto il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.12.2017 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine del rilascio del permesso in sanatoria, la norma statale prescrive che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di cui all’art. 36 (cosiddetta doppia conformità).
Come confermato dalla giurisprudenza di legittimità e dalla recente giurisprudenza amministrativa, il rilascio del permesso in sanatoria estingue il reato di cui all’art. 44 del Testo unico dell’edilizia, sempre che «ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 della normativa e precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della c.d. sanatoria giurisprudenziale, o impropria, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica».
L’art. 36 del t.u. edilizia stabilisce, inoltre, che, trascorsi 60 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che l’ufficio competente si sia pronunciato, si formi il cosiddetto silenzio-rigetto, che pertanto esclude l’effetto estintivo del reato.
Questa Corte si è più volte occupata del principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 t.u. edilizia e ha affermato che esso, che costituisce «principio fondamentale nella materia governo del territorio», è «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità».
Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto «fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali», laddove il condono edilizio «ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia».
Anche a prescindere da tali classificazioni, occorre ricordare che, sebbene questa Corte abbia riconosciuto che la disciplina dell’accertamento di conformità attiene al governo del territorio, ha comunque precisato che spetta al legislatore statale la scelta sull’an, sul quando e sul quantum della sanatoria, potendo il legislatore regionale intervenire solo per quanto riguarda l’articolazione e la specificazione di tali disposizioni.
Quanto alle Regioni ad autonomia speciale, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, si è puntualizzato che esse devono, in ogni caso, rispettare il limite della materia penale e di «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di grande riforma», come nel caso del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
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4.– Viene, poi, impugnato l’art. 14 della medesima legge regionale n. 16 del 2016, in specie là dove, recependo nell’ordinamento regionale l’art. 36 del t.u. edilizia in materia di “accertamento di conformità”, stabilisce, al comma 1, che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» e, al comma 3, che «[i]n presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita».
Tali previsioni sarebbero entrambe costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 14, primo comma, lettera f), dello statuto speciale e dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Infatti, la prima (il comma 1) introdurrebbe una surrettizia forma di condono edilizio e con ciò eccederebbe dalla competenza legislativa esclusiva attribuita alla Regione in materia di urbanistica dall’art. 14, primo comma, lettera f), dello statuto, con conseguente invasione della sfera di competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Quanto alla seconda (il comma 3 del medesimo art. 14), essa, nella parte in cui introduce un meccanismo di silenzio-assenso ai fini del rilascio del permesso in sanatoria, che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni, in contrasto con la normativa statale, determinerebbe un effetto estintivo delle contravvenzioni contemplate dall’art. 44 del t.u. edilizia, incidendo, anche in tal caso, sulla competenza esclusiva del legislatore statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
L’art. 14, commi 1 e 3, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost. in quanto, secondo il ricorrente, introdurrebbe una discriminazione ingiustificata fra soggetti operanti in diverse Regioni, a parità di comportamento tenuto.
4.1.–
Le questioni promosse nei confronti dell’art. 14, commi 1 e 3, della legge regionale n. 16 del 2016, in riferimento agli artt. 14, primo comma, lettera f ), dello statuto speciale e 117, secondo comma, lettera l ), Cost., sono fondate.
Le disposizioni impugnate sono contenute nell’art. 14 della legge regionale n. 16 del 2016, intitolato «Recepimento con modifiche dell’articolo 36 “Accertamento di conformità” del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380».
Come si evince dalla stessa intitolazione, l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina l’accertamento di conformità e cioè quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di manufatti o opere, realizzati in assenza di titolo edilizio.
Al fine del rilascio del permesso in sanatoria, la norma statale prescrive che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di cui all’art. 36 (cosiddetta doppia conformità).
Come confermato dalla giurisprudenza di legittimità (di recente Cass., sez. terza, n. 26425 del 2016; Cass., sez. terza, n. 35872 del 2016) e dalla recente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), il rilascio del permesso in sanatoria estingue il reato di cui all’art. 44 del Testo unico dell’edilizia, sempre che «ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 della normativa e precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della c.d. sanatoria giurisprudenziale, o impropria, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica» (Cass., sez. terza, n. 26425 del 2016). L’art. 36 del t.u. edilizia stabilisce, inoltre, che, trascorsi 60 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che l’ufficio competente si sia pronunciato, si formi il cosiddetto silenzio-rigetto, che pertanto esclude l’effetto estintivo del reato.
Questa Corte si è più volte occupata del principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 t.u. edilizia e ha affermato che esso, che costituisce «principio fondamentale nella materia governo del territorio» (da ultimo, sentenza n. 107 del 2017), è «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità» (sentenza n. 101 del 2013).
Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto «fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali», laddove il condono edilizio «ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia» (sentenza n. 50 del 2017).
Anche a prescindere da tali classificazioni, occorre ricordare che, sebbene questa Corte abbia riconosciuto che la disciplina dell’accertamento di conformità attiene al governo del territorio, ha comunque precisato che spetta al legislatore statale la scelta sull’an, sul quando e sul quantum della sanatoria, potendo il legislatore regionale intervenire solo per quanto riguarda l’articolazione e la specificazione di tali disposizioni (sentenza n. 233 del 2015).
Quanto alle Regioni ad autonomia speciale, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, si è puntualizzato che esse devono, in ogni caso, rispettare il limite della materia penale e di «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di grande riforma», come nel caso del titolo abilitativo edilizio in sanatoria (sentenza n. 196 del 2004).
Nel caso di specie, la norma regionale impugnata consente il rilascio del permesso in sanatoria nel caso di intervento edilizio di cui sia attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al solo momento della presentazione della domanda e non anche a quello della realizzazione dello stesso, in difformità dall’art. 36 del t.u. edilizia (comma 1). La stessa norma (comma 3) introduce anche l’istituto del silenzio-assenso, in luogo di quello del silenzio-rigetto, previsto dal citato art. 36.
Sennonché la scelta della qualificazione giuridica del comportamento omissivo dell’amministrazione costituisce espressione di una norma di principio, condizionando –come nel caso di specie– fra l’altro l’effetto estintivo delle contravvenzioni contemplate dall’art. 44 del tu. edilizia. Queste disposizioni finiscono con il configurare un surrettizio condono edilizio e comunque travalicano la competenza legislativa esclusiva attribuita alla Regione in materia di urbanistica dall’art. 14, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, invadendo la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla sanatoria di abusi edilizi.
Né alcun rilievo assume la presunta coerenza delle disposizioni impugnate con gli approdi di una parte della giurisprudenza amministrativa (sulla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale), peraltro contraddetta da orientamenti consolidati, espressi anche di recente (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), «perché un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe che provenire dal legislatore statale» (sentenza n. 233 del 2015).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 3, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» (comma 1) e non anche a quella vigente al momento della realizzazione dell’intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni» (comma 3) dalla presentazione dell’istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria.
4.2.– Resta assorbita l’ulteriore censura rivolta alle stesse disposizioni in riferimento all’art. 3 Cost.
...
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
...
   2)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 3, della legge della Regione siciliana n. 16 del 2016, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» (comma 1) e non anche a quella vigente al momento della realizzazione dell’intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni» (comma 3) dalla presentazione dell’istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria (Corte Costituzionale, sentenza 08.11.2017 n. 232).

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l'illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge regionale Sicilia n. 16 del 2016, nella parte in cui consente l’inizio dei lavori edilizi nelle località sismiche, senza la necessità della previa autorizzazione scritta.
Invero, l’art. 94 del Testo unico dell’edilizia, oggetto di recepimento, è volto, come risulta dalla medesima intitolazione, a disciplinare l’«autorizzazione per l’inizio dei lavori» e prescrive, al comma 1, che «nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione».
Come ripetutamente affermato da questa Corte, tale principio costituisce espressione evidente «dell’intento unificatore che informa la legislazione statale, palesemente orientata […] ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
Sicché, l’art. 16, comma 1, della legge regionale n. 16/2016, nella parte in cui consente l’avvio dei lavori nelle zone sismiche in assenza della previa autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione, contrasta con il principio fondamentale espresso dall’art. 94 del Testo unico dell’edilizia, secondo cui, nelle zone sismiche, «l’autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione condiziona l’effettivo inizio di tutti i lavori, nel senso che in mancanza di essa il soggetto interessato non può intraprendere alcuna opera, pur se in possesso del prescritto titolo abilitativo edilizio».
Si tratta, peraltro, di un principio che «riveste una posizione “fondante” del settore dell’ordinamento al quale pertiene, attesa la rilevanza del bene protetto», costituito dall’incolumità pubblica, che «non tollera alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali».
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Sussiste, altresì, l'illegittimità costituzionale del comma 3 dello stesso art. 16 della citata legge regionale, nella parte in cui stabilisce che «[p]er lo snellimento delle procedure di denuncia dei progetti ad essi relativi, non sono assoggettati alla preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio del Genio civile le opere minori ai fini della sicurezza per le costruzioni in zona sismica, gli interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici e le varianti in corso d’opera, riguardanti parti strutturali che non rivestono carattere sostanziale, in quanto definiti e ricompresi in un apposito elenco approvato con deliberazione della Giunta regionale» e che «[i]l progetto di tali interventi, da redigere secondo le norme del D.M. 14.01.2008 e successive modifiche ed integrazioni, è depositato al competente ufficio del Genio civile prima del deposito presso il comune del certificato di agibilità».
Anche in tal caso si tratta di disposizioni riconducibili alla materia della «protezione civile», di cui la necessità della previa autorizzazione scritta costituisce principio fondamentale, al quale sono strettamente e strumentalmente connessi gli obblighi di preventiva «[d]enuncia dei lavori e presentazione dei progetti di costruzioni in zone sismiche», nonché di generale preventiva denuncia dei lavori allo sportello unico, di cui agli artt. 93 e 65 del medesimo t.u. edilizia.
Le disposizioni regionali impugnate, pertanto, là dove sottraggono alla autorizzazione scritta le “opere minori”, escludendo peraltro ogni forma di comunicazione dei relativi progetti, si pongono in contrasto con il principio fondamentale della previa autorizzazione scritta, contemplato dall’art. 94 del t.u. edilizia, in materia di «protezione civile», e con i connessi principi di previa comunicazione dei relativi progetti.
Con riguardo ad analoghe norme regionali, questa Corte ha dichiarato che nessun rilievo riveste la circostanza che la norma regionale esenterebbe dalla previa autorizzazione sismica le sole opere “minori”, rispetto alle quali sarebbe sufficiente l’autocertificazione del tecnico sul rispetto della disciplina di settore.
Per un verso, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente (alcuni dei quali possono anche presentare rilevante impatto edilizio) sono ricompresi nell’ampio e trasversale concetto di opera edilizia rilevante per la pubblica incolumità utilizzato dalla normativa statale (artt. 83 e 94 del t.u. edilizia) con riguardo alle zone dichiarate sismiche, e ricadono quindi nell’ambito di applicazione dello stesso art. 94. Per altro verso, l’autorizzazione preventiva costituisce «uno strumento tecnico idoneo ad assicurare un livello di protezione dell’incolumità pubblica indubbiamente più forte e capillare».
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5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, inoltre, della legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge regionale n. 16 del 2016, nella parte in cui consente l’inizio dei lavori edilizi nelle località sismiche, senza la necessità della previa autorizzazione scritta.
Tale norma determinerebbe una violazione dell’art. 14 dello statuto speciale e dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con il principio della previa autorizzazione scritta all’inizio dei lavori edilizi nelle località sismiche, contenuto nell’art. 94 del Testo unico dell’edilizia e qualificato come principio fondamentale in materia di protezione civile, materia di competenza concorrente.
5.1.–
La questione è fondata.
La disposizione impugnata è contenuta nell’art. 16, intitolato «Recepimento con modifiche dell’articolo 94 “Autorizzazione per l’inizio dei lavori” del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380». Il comma 1 del predetto art. 16 testualmente recita: «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, il richiedente può applicare le procedure previste dall’articolo 32 della legge regionale 19.05.2003, n. 7».
Tale art. 32 delinea un regime relativo alla realizzazione di opere in zone sismiche secondo il quale «non si rende necessaria l’autorizzazione all’inizio dei lavori», che «possono essere comunque avviati, dopo l’attestazione di avvenuta presentazione del progetto rilasciata dall’Ufficio del Genio civile».
L’art. 94 del Testo unico dell’edilizia, oggetto di recepimento, è volto, come risulta dalla medesima intitolazione, a disciplinare l’«autorizzazione per l’inizio dei lavori» e prescrive, al comma 1, che «nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione».
Come ripetutamente affermato da questa Corte, tale principio costituisce espressione evidente «dell’intento unificatore che informa la legislazione statale, palesemente orientata […] ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (così la citata sentenza n. 182 del 2006)» (sentenza n. 60 del 2017).
La disposizione regionale impugnata, pertanto, deve essere ricondotta alla materia della «protezione civile», rispetto alla quale lo statuto speciale non assegna alcuna specifica competenza alla Regione siciliana, cosicché, in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), deve applicarsi anche ad essa quanto previsto dall’art. 117, terzo comma, Cost.
L’art. 16, comma 1, della legge regionale n. 16 del 2016, di conseguenza, nella parte in cui consente l’avvio dei lavori nelle zone sismiche in assenza della previa autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione, contrasta con il principio fondamentale espresso dall’art. 94 del Testo unico dell’edilizia, secondo cui, nelle zone sismiche, «l’autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione condiziona l’effettivo inizio di tutti i lavori, nel senso che in mancanza di essa il soggetto interessato non può intraprendere alcuna opera, pur se in possesso del prescritto titolo abilitativo edilizio» (sentenza n. 272 del 2016).
Si tratta, peraltro, di un principio che «riveste una posizione “fondante” del settore dell’ordinamento al quale pertiene, attesa la rilevanza del bene protetto», costituito dall’incolumità pubblica, che «non tollera alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (sentenza n. 272 del 2016).
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, della legge regionale n. 16 del 2016.
6.– Sulla base dei medesimi argomenti e in riferimento agli stessi parametri, è, infine, promossa questione di legittimità costituzionale nei confronti del comma 3 dello stesso art. 16 della citata legge regionale, nella parte in cui stabilisce che «[p]er lo snellimento delle procedure di denuncia dei progetti ad essi relativi, non sono assoggettati alla preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio del Genio civile le opere minori ai fini della sicurezza per le costruzioni in zona sismica, gli interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici e le varianti in corso d’opera, riguardanti parti strutturali che non rivestono carattere sostanziale, in quanto definiti e ricompresi in un apposito elenco approvato con deliberazione della Giunta regionale» e che «[i]l progetto di tali interventi, da redigere secondo le norme del D.M. 14.01.2008 e successive modifiche ed integrazioni, è depositato al competente ufficio del Genio civile prima del deposito presso il comune del certificato di agibilità».
Il ricorrente sostiene che tali disposizioni introducano una categoria di lavori (“minori” secondo il legislatore siciliano), sottratti all’autorizzazione scritta preventiva, estranei all’orizzonte della disciplina statale e quindi in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto in contrasto con i principi fondamentali della normativa statale vigente in materia di protezione civile, desumibili dagli artt. 94, 93 e 65 del t.u. edilizia, che impongono anche di dare comunicazione delle opere prima del loro inizio.
6.1. – La questione è fondata sulla base dei medesimi argomenti svolti nel paragrafo 5.1.
Anche in tal caso si tratta di disposizioni riconducibili alla materia della «protezione civile», di cui la necessità della previa autorizzazione scritta costituisce principio fondamentale, al quale sono strettamente e strumentalmente connessi gli obblighi di preventiva «[d]enuncia dei lavori e presentazione dei progetti di costruzioni in zone sismiche», nonché di generale preventiva denuncia dei lavori allo sportello unico, di cui agli artt. 93 e 65 del medesimo t.u. edilizia.
Le disposizioni regionali impugnate, pertanto, là dove sottraggono alla autorizzazione scritta le “opere minori”, escludendo peraltro ogni forma di comunicazione dei relativi progetti, si pongono in contrasto con il principio fondamentale della previa autorizzazione scritta, contemplato dall’art. 94 del t.u. edilizia, in materia di «protezione civile», e con i connessi principi di previa comunicazione dei relativi progetti.
Con riguardo ad analoghe norme regionali, questa Corte ha dichiarato che nessun rilievo riveste la circostanza che la norma regionale esenterebbe dalla previa autorizzazione sismica le sole opere “minori”, rispetto alle quali sarebbe sufficiente l’autocertificazione del tecnico sul rispetto della disciplina di settore (sentenza n. 272 del 2016).
Per un verso, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente (alcuni dei quali possono anche presentare rilevante impatto edilizio) sono ricompresi nell’ampio e trasversale concetto di opera edilizia rilevante per la pubblica incolumità utilizzato dalla normativa statale (artt. 83 e 94 del t.u. edilizia) con riguardo alle zone dichiarate sismiche, e ricadono quindi nell’ambito di applicazione dello stesso art. 94. Per altro verso, l’autorizzazione preventiva costituisce «uno strumento tecnico idoneo ad assicurare un livello di protezione dell’incolumità pubblica indubbiamente più forte e capillare» (sentenza n. 272 del 2016).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 3, della legge regionale n. 16 del 2016.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
...
   3)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1 e 3, della legge della Regione siciliana n. 16 del 2016 (Corte Costituzionale, sentenza 08.11.2017 n. 232).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, debbono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
Inoltre, traendo le norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi. Invero, è stato statuito: “Tanto chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata”.
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
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Osserva in contrario senso il Collegio, che:
   a) innanzitutto la deroga di cui all'
’articolo 9, comma 3, del d.m. 02.04.1968 n. 1444 potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel contesto di un isolato già edificato;
   b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m. 1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici, e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe ricompreso quello erigendo;
   c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato in senso rigido detta disposizione affermando che:
- “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale";
- "la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante con il muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici”.
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Il
l Collegio non ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese espressi dalla Sezione che hanno puntualizzato la necessità di una rigida interpretazione della prescrizione secondo la quale il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente.
In particolare, a parere della giurisprudenza civile ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia; ciò, salve ovviamente le ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore della norma- che già non rispettavano tale prescrizione, non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
La richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che “rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”.

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3. Venendo al merito delle censure proposte, ritiene il Collegio che entrambi i motivi dell’appello siano infondati e debbano essere respinti, per le considerazioni –che rivestono portata assorbente- che seguono.
3.1. Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose (tra le più recenti, Cass. Civ., sez. II, 03/03/2008 n. 5741, Cons. Stato, sez. V, 26/10/2006, n. 6399), debbono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi (tra le tante, Cass. Civ. 22495/2007 e 20574/2007; Cons. Stato, sez. IV, 2094/2007; 1206/2007; in particolare, la sentenza n. 3094/2007 della IV sezione del Consiglio di Stato così testualmente statuisce: “Tanto chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata”).
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
3.2. La censura accolta dal Tar, si strutturava nella dedotta violazione dell’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, in quanto il progetto autorizzato avrebbe violato le distanze minime inderogabili.
3.3. La disposizione di cui all’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, così prevede: “le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
   1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
   2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
   3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
   - ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
   - ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
   - ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche
.”.
3.3. La tesi dell’appellante sulla quale si fonda la asserita legittimità del titolo edilizio annullato dal Tar è quella per cui, dal combinato-disposto delle disposizioni del Prg comunale (che non prevede limiti di distanze per le ristrutturazioni) e dalle disposizioni di legge regionale attuative del c.d. Piano casa, discendesse che i limiti di cui al citato art. 9 (nel caso di specie, distanza pari all’altezza del fabbricato degli originari ricorrenti, e quindi mt. 14,88) non trovassero applicazione.
3.4. Osserva in contrario senso il Collegio, che:
   a) innanzitutto (si veda Cons. Stato, sezione IV n. 856 del 29.02.2016, in particolare dal considerando 3.2.1.) la deroga di cui al comma 3 potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel contesto di un isolato già edificato;
   b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m. 1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici, e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe ricompreso quello erigendo;
   c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato in senso rigido detta disposizione affermando che (ex aliis Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206 “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale -cfr. Corte cost., 16.06.2005, n. 232; Cass., sez. un., 22.11.1994, n. 9871; Tar Bari, sez. III, 22/06/2012, n. 1235 “la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante con il muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.. Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.”).
...
   e) invero, in disparte tutti gli altri profili (riproposti dalla parte originaria ricorrente con il proprio appello incidentale) asseritamente ostativi alla realizzazione della contestata ristrutturazione, deve osservarsi che:
      I) la disposizione “fondante” l’avversato atto abilitativo (art. 4 della Legge regionale della Campania 28.12.2009, n. 19, così statuisce: “1. In deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici:
   a) edifici residenziali uni-bifamiliari;
   b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi;
   c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
2. L’ampliamento di cui al comma 1 è consentito:
   a) su edifici residenziali come definiti all’articolo 2, comma 1, la cui restante parte abbia utilizzo compatibile con quello abitativo;
   b) per interventi che non modificano la destinazione d’uso degli edifici interessati, fatta eccezione per quelli di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968;
   c) su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati;
   d) su edifici residenziali ubicati in aree esterne agli ambiti dichiarati in atti formali a pericolosità idraulica e da frana elevata o molto elevata;
   e) su edifici ubicati in aree esterne a quelle definite ad alto rischio vulcanico;
   f) su edifici esistenti ubicati nelle aree sottoposte alla disposizioni di cui all’ articolo 338, comma 7, del Regio Decreto 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) e successive modifiche, nei limiti di tale disciplina;
   g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della [presente] legge regionale 18.01.2016, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale 2016).
3. Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale, nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma 4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da volumetria esistente non residenziale a volumetria residenziale per una quantità massima del venti per cento.
4. Per la realizzazione dell’ampliamento sono obbligatori:
   a) l’utilizzo di tecniche costruttive, con criteri di sostenibilità e utilizzo di materiale eco-compatibile, che garantiscano prestazioni energetico-ambientali nel rispetto dei parametri stabiliti dagli atti di indirizzo regionali e dalla vigente normativa. L’utilizzo delle tecniche costruttive ed il rispetto degli indici di prestazione energetica fissati dalla Giunta regionale sono certificati dal direttore dei lavori con la comunicazione di ultimazione dei lavori. Gli interventi devono essere realizzati da una ditta con iscrizione anche alla Cassa edile comprovata da un regolare Documento unico di regolarità contributiva (DURC). In mancanza di detti requisiti non è certificata l’agibilità, ai sensi dell’articolo 25(R) del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A), dell’intervento realizzato;
   b) la conformità alle norme sulle costruzioni in zona sismica;
   [c) il rispetto delle prescrizioni tecniche di cui agli articoli 8 e 9 del decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche), al fine del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.]
5. Per gli edifici [residenziali] e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.
6. L’ampliamento non può essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in corso la procedura di accatastamento. L’ampliamento non può essere realizzato, altresì, in aree individuate, dai comuni provvisti di strumenti urbanistici generali vigenti, con provvedimento di consiglio comunale motivato da esigenze di carattere urbanistico ed edilizio, nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della presente legge.
7. E’ consentito su edifici non residenziali regolarmente assentiti, destinati ad attività produttive, commerciali, turistico-ricettive e di servizi, fermi restando i casi di esclusione dell’articolo 3 della presente legge, la realizzazione di opere interne finalizzate all’utilizzo di volumi esistenti nell’ambito dell’attività autorizzata, per la riqualificazione e l’adeguamento delle strutture esistenti, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
I medesimi interventi possono attuarsi all’interno di unità immobiliari aventi una superficie non superiore a millecinquecento metri quadrati, non devono in alcun modo incidere sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio, né costituire unità immobiliari successivamente frazionabili.
”;
      II) è agevole riscontrare che la disposizione in parola, non soltanto non deroga al regime dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, ma, anzi, ne presuppone il rispetto;
      III) nel caso di specie, è fondamentale rammentare che l’intervento prevede anche la trasformazione e ricostruzione in cemento armato di un volume pari a circa 35 mq, e quindi superiore al 10% della volumetria complessiva (come peraltro ammesso dalla parte appellante alla pag. 11 del proprio atto di appello, pur svalutandosene la portata) destinato ad essere unito al preesistente fabbricato: trattasi di modifica sostanziale, tale da indurre a ritenere che non ci si trovi al cospetto di una ristrutturazione (l’immobile diviene oggettivamente diverso dal preesistente) e si sia trasmodando in una nuova costruzione, che come tale prevede in ogni caso il rispetto dei cogenti limiti di cui al d.m. citato;
      IV) il Collegio, sul punto, non ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese espressi dalla Sezione (tra le tante, si veda la sentenza n. 5552 del 30.12.2016 resa proprio con riferimento al c.d. “piano casa” della regione Campania) che hanno puntualizzato la necessità di una rigida interpretazione della prescrizione secondo la quale il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, nr. 3929);
   - in particolare, a parere della giurisprudenza civile ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741; Consiglio di Stato, sez. IV, 12.06.2014, n. 2995; TAR Sardegna, sez. II, 05.07.2016, n. 566); ciò, salve ovviamente le ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore della norma- che già non rispettavano tale prescrizione, non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
   - la richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che “rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”.
Il Collegio condivide e fa proprio tale orientamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.10.2017 n. 4992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 15.01.2018

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALILa difesa in giudizio è un appalto di servizi. Sì alle short list di avvocati.
La difesa in giudizio è un appalto di servizi rientrante tra quelli esclusi dal campo di completa applicazione del codice dei contratti, del quale si applicano solo i principi indicati nell'articolo 4. Dunque sono legittimi albi o «short list» di avvocati, come quella realizzata da Equitalia, per attingervi allo scopo di selezionare professionisti cui affidare le cause.

La sentenza 09.01.2018 n. 150 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis rappresenta un decisivo cambio di rotta della giurisprudenza amministrativa, per molti tratti ancora aggrappata ad una pronuncia del Consiglio di Stato del 2012, da considerare superata, secondo la quale gli incarichi non sarebbero appalti di servizi ma prestazioni professionali.
Il Tar Lazio, infatti, ha respinto su tutta la linea i motivi di ricorso contro la short list di Equitalia, presentati dal Consiglio dell'ordine degli avvocati, fierissimo avversario della qualificazione della difesa in giudizio come appalto di servizi.
La sentenza ha, in primo luogo, considerato legittimo formare una short list di avvocati, con la fissazione di un termine di 60 giorni dalla pubblicazione dell'avviso per chiedere l'inserimento in elenco e la possibilità di aggiornarla ogni anno.
Il termine per la presentazione delle candidature e la chiusura della lista per la durata di un anno non sono da considerare lesivi della concorrenza, ma al contrario sono considerati un sistema razionale per la gestione degli incarichi.
Né dalla legge sulla disciplina della professione forense, la legge 247/2012, secondo il Tar, si può desumere alcuna illegittimità del sistema di selezione degli avvocati mediante short list (sistema per altro consigliato dall'Anac).
In secondo luogo, il Consiglio dell'ordine, contraddicendo il proprio orientamento contrario all'applicabilità degli articoli 4 e 17 del dlgs 50/2017 alla difesa legale, avevano lamentato che Equitalia nel regolamentare la short list avrebbe violato delle norme, stabilendo compensi lesivi della decoro professionale, perché limitai al 60% della tariffa regolata dal dm 55/2014.
Il Tar Lazio ha respinto anche questo motivo di ricorso, rilevando che i compensi tariffari sono rimessi alla pattuizione delle parti e che la tariffa non risulta obbligatoria; per altro, secondo la sentenza, non necessariamente il regolamento di disciplina della short list imponeva la riduzione dei compensi al 60% della tariffa, limitandosi, invece, a prenderla come parametro per la loro determinazione con l'offerta.
Gli strali dei ricorrenti hanno riguardato anche un tetto massimo per i compensi degli avvocati di complessivi 35.000 euro indipendente dal numero di giudizi affidati.
La sentenza ha respinto la presunta illegittimità per violazione dell'articolo 36 della Costituzione.
Il limite complessivo dei compensi, infatti, non è forfetario e non corrisponde a un numero infinito di affari assegnati al singolo avvocato. Si riferisce, invece, in modo razionale, al limite di spesa per incarichi «seriali» superato il quale scatta l'obbligo di affidamento ad un altro legale.
Infine, i ricorrenti hanno censurato la presunta violazione dell'articolo 4 del codice dei contratti, sull'assunto che i criteri selettivi per l'accesso alla short list sarebbero stati eccessivamente restrittivi, tali da impedire l'accesso ai giovani avvocati, in violazione dell'articolo 1, comma 2, lettera D, della legge 247 del 2012 e del principio di concorrenza.
Da notare che il Consiglio ritiene, in propri scritti, che invece il principio di concorrenza non sarebbe mai applicabile e che gli incarichi agli avvocati da parte delle p.a. resterebbero ancora «fiduciari».
Il motivo di ricorso è un'evidente contraddizione in termini che indebolisce le argomentazioni del Consiglio forense contro le regole del codice dei contratti, poiché è un implicito riconoscimento della sua necessaria applicazione.
In ogni caso, per il Tar Lazio la disciplina di accesso alla short list è legittima: è stato nella sostanza richiesto un volume d'affari annuo di 33,000 euro di fatturato, soglia che «non appare sproporzionata rispetto ai compensi mediamente percepiti dagli avvocati di normale professionalità» (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).
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MASSIMA
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente deduce la violazione della legge numero 247 del 2012 e la violazione dell’articolo 4 del decreto legislativo numero 50 del 2016 per violazione dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, libera concorrenza e massima partecipazione:
Gli atti impugnati sarebbero illegittimi nella parte in cui prevedono che le richieste di iscrizione debbano essere presentate entro 60 giorni dalla pubblicazione dell’avviso e che l’elenco abbia una durata predeterminata in un anno; tali limitazioni si tradurrebbero in restrizioni della concorrenza, atteso che l’iscrizione agli elenchi dovrebbe essere aperta; un elenco chiuso, immotivatamente così previsto, non assicurerebbe la massima partecipazione dei professionisti interessati; eppure l’Autorità nazionale anticorruzione, nel parere reso ad Equitalia sullo schema dell’avviso impugnato, avrebbe precisato che l’iscrizione avrebbe dovuto essere consentita senza limitazioni temporali; le stesse Linee Guida numero 4 adottate dall’Autorità anticorruzione per le procedure di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria e per la formazione e gestione di elenchi di operatori economici avrebbero stabilito l’iscrizione degli operatori economici provvisti dei requisiti richiesti senza limitazioni temporali, al fine di assicurarne la più ampia partecipazione; solo in via subordinata l’Autorità nazionale anticorruzione avrebbe prospettato l’ipotesi alternativa di ridurre ad un solo anno la validità dell’elenco, al fine di mitigarne l’effetto restrittivo della concorrenza che comunque l’iscrizione a scadenza fissa inevitabilmente comporterebbe; Equitalia, quindi, non avrebbe ottemperato alle indicazioni contenute nel parere dell’Autorità anticorruzione, senza alcuna apprezzabile giustificazione.
Il motivo è infondato.
La L. 31/12/2012, n. 247, Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, all’art. 1 prevede che l'ordinamento forense, stante la specificità della funzione difensiva e in considerazione della primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta, garantisce l'indipendenza e l'autonomia degli avvocati, indispensabili condizioni dell'effettività della difesa e della tutela dei diritti.
Si tratta di norma da cui non discende alcuna illegittimità del regolamento impugnato che, nel prevedere un elenco chiuso, limitato a chi abbia presentato la domanda di iscrizione entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione dell’avviso, non reca alcuna lesione all’indipendenza e all’autonomia degli avvocati.
L’altra norma citata dai ricorrenti a fondamento del motivo di impugnazione è l’art. 4 del D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, Codice dei contratti pubblici, recante i principi relativi all'affidamento di contratti pubblici esclusi. Essa stabilisce che l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture e dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.
Ad avviso dei ricorrenti la formazione di un elenco chiuso si risolverebbe in una illegittima restrizione della concorrenza, ma la deduzione non è confortata né dal parere dell’Autorità nazionale anticorruzione da essi richiamato, né dalle Linee guida della stessa Autorità allegate a sostegno della censura.
In realtà
il parere dell’Autorità anticorruzione risulta favorevole alla predisposizione di un elenco chiuso, a condizione che l’effetto restrittivo derivante dalla limitazione temporale della presentazione delle domande sia contemperato, come di fatto è avvenuto, dalla riduzione del termine di validità dell’iscrizione, da portare a un anno, in modo da rendere più frequenti le finestre temporali entro le quali i soggetti interessati possono iscriversi nell’elenco.
La soluzione suggerita dall’Autorità anticorruzione e adottata dall’amministrazione resistente è condivisibile in quanto da una parte, stabilendo un termine di 60 giorni dalla presentazione delle domande, consente a Equitalia di sapere in qualsiasi momento su quali professionisti potrà contare per la gestione del proprio contenzioso; ciò sarebbe meno agevole nel caso di previsione di un elenco aperto, sottoposto a continui aggiornamenti che determinerebbe inevitabili difficoltà nella concreta attività di affidamento degli incarichi; d’altra parte, la limitazione di durata dell’elenco a un solo anno consente il ricambio frequente degli avvocati interessati e pertanto risulta pienamente aderente ai principi di massima concorrenza, parità di trattamento, trasparenza e pubblicità evocati dai ricorrenti e tutelati dall’ordinamento.
Con il 2º motivo, i ricorrenti deducono che, in violazione degli articoli 4 e 17 del codice dei contratti pubblici, sarebbero stati stabiliti compensi irrisori e lesivi del decoro della professione di avvocato, in quanto commisurati al 60% della tariffa di cui al decreto ministeriale numero 55 del 2014; inoltre il regolamento prevederebbe una sorta di gara tra i professionisti iscritti nell’elenco, un confronto competitivo mediante offerte al ribasso su una base di partenza già irrisoria, in quanto commisurata al 60% della tariffa e quindi irragionevolmente compressa; sarebbe perfino previsto un tetto massimo per il compenso pari ad euro 35.000, aumentato ad euro 45.000 solo per il caso di opzione per tutti i tribunali del circondario, a fronte di un numero indeterminato di giudizi affidati; la misura del compenso quindi, non sarebbe adeguata all’importanza dell’opera o al decoro della professione; inoltre la gara tra i professionisti non sarebbe richiesta dal codice, trattandosi di servizi contemplati dall’articolo 17, per cui l’affidamento dei servizi legali non dovrebbe avvenire tramite un confronto economico competitivo; per giunta, di volta in volta, la scelta del professionista dovrebbe avvenire mediante selezione dei preventivi forniti da tre professionisti selezionati per ogni singolo incarico, in base al criterio del minor prezzo; ciò sarebbe in violazione dell’articolo 95 del codice che consente il criterio del minor prezzo solo per i servizi con caratteristiche standardizzate ovvero caratterizzati da elevata ripetitività.
Anche il 2º motivo è infondato.
Come correttamente eccepito dalla amministrazione resistente,
per effetto del superamento del sistema tariffario, nel nostro ordinamento i compensi delle attività forensi sono demandati ad accordi fra le parti.
Ne deriva che le tabelle allegate al decreto ministeriale numero 55 del 2014 non possono più essere elevate a parametro di legittimità dei compensi contrattualmente stabiliti.
Gli importi indicati nel decreto ministeriale numero 55 del 2014 per la liquidazione dei compensi agli avvocati in sede giudiziaria sono stati presi in considerazione dal regolamento impugnato come parametro di riferimento, ma il regolamento non prevede necessariamente la decurtazione del 60% lamentata dai ricorrenti.
In realtà il regolamento prevede un sistema complesso per la determinazione dei compensi, distinguendo gli incarichi relativi al contenzioso sulla riscossione, per i quali è previsto un compenso fisso, oltre spese generali e il contenzioso relativo ad altre materie per cui si prevede una determinazione tenendo conto del valore della lite, del grado di complessità dell’incarico e dell’importanza dell’opera.
Le tabelle evocate dai ricorrenti sono prese in considerazione, con possibilità di riduzione non superiore al 60%, ma anche di incremento, non superiore al 20%. Tale sistema di predeterminazione, in linea generale, dei compensi, non risulta adottato in violazione di alcuna legge, né appare palesemente irragionevole, tenendosi conto di parametri oggettivi quali il valore della lite e il grado di complessità della controversia.
Il fatto che sia poi prevista una procedura selettiva per l’affidamento del singolo incarico non configura una violazione del codice dei contratti pubblici che, come dedotto dai ricorrenti, esclude i servizi legali dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici e, soprattutto, esclude che tali servizi possano essere affidati con il criterio del prezzo più basso.
In realtà il regolamento impugnato non prevede alcuna procedura competitiva al ribasso, limitandosi a prestabilire un criterio della scelta del singolo professionista cui affidare uno specifico incarico.
Il sistema adottato consiste nel sorteggio di una lettera da applicare all’ordine alfabetico in cui sono iscritti gli avvocati, procedendo quindi, in base a criteri di rotazione, all’affidamento degli incarichi.
Solo per il caso di incarichi legali particolarmente complessi e rilevanti il regolamento prevede un interpello fra tre avvocati iscritti nell’elenco acquisendo i rispettivi preventivi.
Invece, per il contenzioso della riscossione davanti a giudici di merito, considerato più semplice, gli incarichi vengano affidati direttamente con il criterio della rotazione, in modo che, quando un avvocato ha raggiunto il tetto massimo predefinito per il compenso, il successivo incarico viene conferito ad altro professionista.
Non si tratta, quindi, dell’affidamento del servizio legale tramite una gara al massimo ribasso, ma di una procedura oggettiva per scegliere, in casi particolari, il professionista cui affidare l’incarico in base al preventivo meno oneroso per l’amministrazione.
Con il 3º motivo, i ricorrenti deducono la violazione dell’articolo 4 del decreto legislativo 50 del 2016 per essere stati stabiliti criteri di ammissione sproporzionati, tali da impedire l’accesso ai giovani professionisti, in violazione dell’articolo 1, comma 2, lettera D, della legge 247 del 2012, ostacolando la possibilità di iscrizione di avvocati competenti potenzialmente interessati; in violazione del principio della concorrenza sarebbero stati introdotti criteri di selezione discriminatori, di ostacolo e restrittivi alla predisposizione delle offerte; il fatturato globale minimo, il fatturato specifico, il numero minimo di questioni trattate sarebbero illegittimi avendo stabilito l’Autorità anticorruzione che, per consentire la partecipazione anche ai giovani professionisti, in alternativa al fatturato può essere richiesta altra documentazione idonea; nella fattispecie oltre il 90% degli avvocati iscritti alla cassa di previdenza e assistenza forense del 2016 non avrebbe un reddito medio sufficiente per assolvere il requisito di iscrizione; in particolare le donne e i giovani sarebbero discriminati percependo redditi inferiori alla media; il requisito alternativo dei 50 incarichi analoghi espletati non sarebbe sufficiente al contemperamento e anche il requisito dell’iscrizione nella sezione sul contenzioso del lavoro sarebbe irragionevole facendo riferimento a incarichi conferiti da soggetti con più di 1000 dipendenti; il requisito organizzativo della collaborazione di due avvocati e di una segreteria sarebbe illegittimo e irragionevole perché il compenso non sarebbe remunerativo se si dovesse sostenere il costo del lavoro dei collaboratori.
Il motivo è infondato.
Seppure è condivisibile la considerazione dei ricorrenti per cui i principi della contrattualistica pubblica esigono che sia rispettata la parità di trattamento tra tutti gli operatori economici e che non siano introdotti criteri di selezione discriminatori,
nella fattispecie non si è in presenza di requisiti di iscrizione alla lista eccessivamente restrittivi oppure irragionevoli.
Il regolamento, nell’introdurre quale requisito di iscrizione alla lista un determinato volume d’affari, non ha stabilito un criterio di selezione irragionevole, essendo riconducibile il volume d’affari di un avvocato all’attività professionale esercitata e all’esperienza maturata.
Il requisito non è neppure eccessivamente restrittivo, posto che è stato richiesto un volume d’affari complessivo di EUR 100.000 nel triennio, corrispondente a un fatturato annuo di circa EUR 33.000.
Si tratta di una soglia discrezionalmente stabilita dall’amministrazione resistente che comunque non appare sproporzionata rispetto ai compensi mediamente percepiti dagli avvocati di normale professionalità.

Si deve considerare, al riguardo, che volume d’affari è nozione diversa dal reddito, corrispondente alla differenza tra i ricavi e le spese, per cui anche con riferimento ai professionisti operanti nelle regioni meridionali, ai giovani e alle donne che mediamente percepiscono redditi meno elevati, le soglie di fatturato prescritte per l’iscrizione nella lista non possono essere ritenute incongrue.
Neppure i requisiti speciali prescritti per l’iscrizione appaiono sproporzionati, laddove viene richiesto un fatturato triennale di almeno EUR 50.000 in attività analoghe a quelle della sezione di contenzioso di interesse oppure, in alternativa e per la sola iscrizione nella sezione contenzioso sulla riscossione, lo svolgimento di almeno 50 incarichi nel triennio, requisiti corrispondenti a circa EUR 16.600 di fatturato specifico per anno e a 16 incarichi specifici per anno, numeri, questi ultimi, non esorbitanti per il contenzioso sulla riscossione generalmente contraddistinto da una certa serialità; per la iscrizione nella sezione sul contenzioso sul lavoro, il regolamento richiede lo svolgimento nell’ultimo anno solare di almeno 3 incarichi conferiti da organizzazioni con più di 1000 dipendenti; requisito di esperienza che risulta corrispondente alle speciali caratteristiche del contenzioso del lavoro di interesse di Equitalia, organizzazione complessa comprendente migliaia di dipendenti, per cui è necessario che la difesa in giudizio sia prestata da avvocati esperti nelle problematiche di gestione del rapporto di lavoro proprie delle organizzazioni complesse.
Quanto al requisito organizzativo, rappresentato da una struttura comprendente almeno altri due avvocati con la dotazione di una segreteria, si deve ritenere anche esso ragionevole e adeguato alle esigenze dell’amministrazione che deve poter contare su un servizio legale costantemente disponibile e reperibile, pena l’impossibilità di gestire efficacemente il contenzioso di cui si tratta.
...
Il ricorso, in conclusione, deve essere respinto, per l’infondatezza di tutti i motivi di impugnazione dedotti.

IN EVIDENZA

PATRIMONIOSisma, sì al sequestro preventivo. Il sindaco non può opporsi alla chiusura della scuola. La Cassazione: non rileva che il rischio sia basso, le regole di edificazione vanno rispettate.
Va posto sotto sequestro preventivo un edificio dedicato ad attività scolastiche, risultato inadeguato dal punto di vista dell'idoneità statica, anche se il rischio sismico risulta essere lieve.

Lo sottolinea la VI Sez. della Corte di Cassazione, sentenza 08.01.2018 n. 190, accogliendo il ricorso del capo della procura di Grosseto contro la decisione del Riesame di revocare il sequestro disposto dal gip di un plesso scolastico situato a Ribolla, plesso che accoglieva 300 alunni.
Il tribunale aveva ritenuto l'insussistenza di un «pericolo concreto ed attuale di crollo», anche se dall'accertamento del tecnico che aveva redatto il certificato di idoneità statica dell'edificio il rischio sismico era risultato essere (in applicazione dell'indicatore del rischio di collasso previsto dalle norme tecniche per le costruzioni del 2008) pari a 0,985, registrando così una «inadeguatezza minima rispetto ai vigenti parametri costruttivi antisismici soddisfatti al raggiungimento del valore «1», espressivo dell'assenza di criticità in caso di terremoto», in un territorio, come quello del caso in esame, «a bassa sismicità».
La procura di Grosseto, dunque, aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che «in materia antisismica il pericolo legittimante l'adozione del sequestro preventivo, nella non prevedibilità dei terremoti, doveva intendersi insito nella violazione della normativa di settore, indipendentemente dall'esistenza di un pericolo in concreto»: dunque, secondo il pm, «nessun rilievo avrebbe potuto attribuirsi alla circostanza che l'edificio insistesse su un territorio classificato a bassa sismicità o che l'inadeguatezza dell'immobile rispetto ai parametri costruttivi antisismici fosse minima». La Suprema corte ha condiviso questa tesi, rilevando che «nel carattere non prevedibile dei terremoti la regola tecnica di edificazione è ispirata alla finalità di contenimento del rischio di verificazione dell'evento».
Il rischio, apprezzato in chiave generale su tutto il territorio nazionale, classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della percentuale di esposizione all'evento sismico, si traduce, scrivono i giudici, «nella mappatura dell'intero patrimonio immobiliare con attribuzione alle singole costruzioni di un indicatore del rischio del collasso». L'inosservanza della regola tecnica di edificazione, conclude il Palazzaccio, «integra pur sempre la violazione di una norma di aggravamento del pericolo e come tale va indagata e rileva ai fini dell'applicabilità del sequestro preventivo» (articolo ItaliaOggi del 09.01.2018).
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MASSIMA
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Grosseto ricorre in cassazione avverso l'ordinanza del 26.04.2017 con cui il Tribunale di Grosseto, in accoglimento della richiesta di riesame proposta da Fr.Li., sindaco del comune di Roccastrada, indagato per il reato di cui all'art. 328 cod. pen., aveva revocato il sequestro preventivo disposto dal G.i.p. sul plesso scolastico sito in Ribolla, frazione dell'indicato comune.
2. Al Li. nell'indicata qualità, in concorso con l'assessore ai lavori pubblici ed al dirigente dei servizi tecnici, si contesta, in via provvisoria, di avere indebitamente rifiutato un atto del proprio ufficio che, per ragioni di sicurezza pubblica, egli avrebbe dovuto compiere senza ritardo, omettendo di chiudere l'indicato edificio nonostante dal certificato di idoneità statica dell'immobile, redatto il 28.06.2013, ne emergesse la non idoneità sismica.
3. Il Tribunale aveva ritenuto l'insussistenza di un pericolo concreto ed attuale di crollo ragionevolmente derivante dal protratto utilizzo del bene secondo destinazione d'uso, avuto riguardo all'attività scolastica nel primo svolta ininterrottamente dalla fine degli anni sessanta.
4. In ragione dell'accertamento condotto dal tecnico che aveva redatto il certificato di idoneità statica dell'edificio, il rischio sismico era risultato —in applicazione del cd. indicatore del rischio di collasso previsto dalle 'Norme tecniche per le costruzioni' emanate con il d.m. 14.01.2008— pari a 0,985, registrando in tal modo una 'inadeguatezza minima rispetto ai vigenti parametri costruttivi antisismici' soddisfatti al raggiungimento del valore '1', espressivo dell'assenza di criticità in caso di terremoto, in un territorio a bassa sismicità, qual era quello su cui insisteva l'edificio già attinto da sequestro.
5. Il Pubblico ministero ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e delle norme integrative, deducendo che in materia antisismica il pericolo legittimante l'adozione del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, cod. proc. pen., nella non prevedibilità dei terremoti, doveva intendersi insito nella violazione della normativa di settore, indipendentemente dall'esistenza di un pericolo in concreto.
Nessun rilievo avrebbe pertanto potuto attribuirsi alla circostanza che l'edificio insistesse su territorio classificato a bassa sismicità o che l'inadeguatezza dell'immobile rispetto ai parametri costruttivi antisismici fosse minima.
Il richiesto periculum sarebbe stato integrato infatti dal mantenere in funzione un edificio scolastico che, in quanto non rispettoso  della normativa antisismica, sarebbe stato portatore di possibili conseguenze sulla incolumità dei terzi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e nel suo accoglimento va disposto l'annullamento dell'ordinanza impugnata nei termini e per le ragioni di seguito indicate.
2.
In tema di sequestro preventivo, il periculum rilevante al fine della adozione della misura cautelare deve presentare i requisiti della concretezza e della attualità e deve essere valutato con riferimento alla situazione esistente al momento della sua adozione, sicché esso deve essere inteso, non già come mera astratta eventualità, ma come concreta possibilità —desunta dalla natura del bene e da tutte le circostanze del fatto— che la libera disponibilità del bene assuma carattere strumentale rispetto alla agevolazione della commissione di altri reati della stessa specie.
Inoltre,
è necessaria la sussistenza del requisito della pertinenzialità del bene sequestrato, nel senso che il bene oggetto di sequestro preventivo deve caratterizzarsi da una intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso non essendo sufficiente una relazione meramente occasionale tra la res ed il reato commesso (Sez. 5, n. 12064 del 16/12/2009, dep. 2010, Marcante, Rv. 246881).
3. Il Tribunale del riesame cautelare, incorrendo in erronea applicazione dell'indicato principio, ha ritenuto di poter escludere l'aggravamento delle conseguenze del reato di omissione di atti di ufficio —contestato, ai sensi dell'art. 328, primo comma, cod. pen., all'indagato, sindaco di Roccastrada per aver omesso di inibire al persistente uso della collettività un edificio scolastico, in quanto non rispondente a criteri di adeguatezza sismica— in ragione della bassa sismicità della zona e del rilevato minimo scostamento dai parametri tecnici della tecnica di edificazione dell'immobile.
4.
In materia di sequestro preventivo di cui all'art. 321 cod. proc. pen., ove venga in considerazione il pericolo di aggravamento del reato con riguardo al perdurante utilizzo di un immobile pubblico la cui realizzazione sia soggetta al rispetto di normativa antisismica, la nozione di concreta possibilità del pericolo, che va scrutinata in ragione della natura del bene e di tutte le circostanze che connotino il fatto, è insita nella violazione della normativa dì settore (arg. ex Sez. 4, n. 6382 del 18/01/2007, Gagliano, Rv. 236104).
Nel carattere non prevedibile dei terremoti la regola tecnica di edificazione è ispirata alla finalità di contenimento del rischio di verificazione dell'evento.
Il rischio, apprezzato in chiave generale su tutto il territorio nazionale, classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della percentuale di esposizione all'evento sismico, si traduce nella mappatura dell'intero patrimonio immobiliare con attribuzione alle singole costruzioni di un indicatore del 'rischio di collasso', calcolato in ragione dell'esposizione al rischio sismico di zona.
La inosservanza della regola tecnica di edificazione proporzionata al rischio sismico di zona, anche ove quest'ultimo si attesti su percentuali basse di verificabilità, integra pur sempre la violazione di una norma di aggravamento del pericolo e come tale va indagata e rileva ai fini dell'applicabilità del sequestro preventivo.

5. Nella mancata applicazione dei richiamati principi, si impone l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
6. Il Tribunale in sede di rinvio procederà a nuovo esame in punto di pericolosità provvedendo altresì a dare conto del presupposto giudizio di pertinenzialità tra il reato di omissione di atti di ufficio, contestato all'indagato ai sensi dell'art. 328, primo comma, cod. pen., ed il giudizio dì persistente disponibilità del bene destinata ad aggravare o protrarre le conseguenze del reato.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Tanto l’interpretazione delle fonti normative, quanto quelle di un bando che di esse costituisce applicazione, sono governate in primo luogo dall’interpretazione letterale, come si evince proprio dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Il primato dell’interpretazione testuale è un principio pacifico, che esprime l’assiomatica verità per cui l’ordinamento giuridico è costruito attraverso proposizioni formali, i cui enunciati sono espressi in formulazioni linguistiche, con lo scopo di rendere chiaro e intellegibile il significato delle regole poste.
La certezza del diritto è garantita innanzitutto dalla precisione del linguaggio e dalla univocità della relazione tra il significante ed il significato. Ciò non implica la neutralizzazione degli altri canoni ermeneutici, che però vengono in rilievo solo se l’interpretazione testuale è ambigua (in claris non fit interpretatio).
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3. I motivi di appello possono dividersi in due gruppi (3.1-3.3 e 3.4-3.6), afferenti al primo e al terzo motivo del ricorso al Tar. Le rispettive censure possono dunque essere esaminate congiuntamente.
3.1 La censure di ordine sostanziale si articolano in primo luogo (3.1) sulla critica all’interpretazione del bando, in secondo luogo (3.2-3.3) sulla contestazione del più sfavorevole rapporto UBA/Ha ritenuto dal Tar.
La questione centrale attiene alla legittimità o meno della scelta da parte della P.A. di considerare tutti i capi costituenti la consistenza zootecnica aziendale e non solo quelli richiesti a premio, poiché da ciò è dipeso l’accertamento di un rapporto UBA/Ha che eccede il limite prescritto dal bando.
A tal riguardo tutto gioca sull’esegesi dei par. 10 e 11 del bando e sulla premessa dell’appellante secondo cui “Il principio di diritto enunciato nel punto della decisione censurata si manifesta contrario alle più elementari norme a governo dell’interpretazione delle fonti, che ammettono, ed anzi privilegiano, rispetto alla mera interpretazione di natura letterale, interpretazioni sistematiche, basate sull’analisi del rapporto tra norme e regole disciplinanti interi sistemi normativi anche se ognuna delle quali precipuamente finalizzata a scopi diversi. Pertanto, ritenere inconferente o inammissibile il riferimento a norme disciplinanti aspetti diversi dello stesso fenomeno giuridico, per giustificare una interpretazione di diritto, conduce ad un’applicazione delle disposizioni normative del tutto estranea alle concrete esigenze per cui le medesime sono state emanate” (p. 10 dell’appello).
Tale premessa non è corretta.
Tanto l’interpretazione delle fonti normative, quanto quelle di un bando che di esse costituisce applicazione, sono governate in primo luogo dall’interpretazione letterale, come si evince proprio dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Il primato dell’interpretazione testuale è un principio pacifico, che esprime l’assiomatica verità per cui l’ordinamento giuridico è costruito attraverso proposizioni formali, i cui enunciati sono espressi in formulazioni linguistiche, con lo scopo di rendere chiaro e intellegibile il significato delle regole poste.
La certezza del diritto è garantita innanzitutto dalla precisione del linguaggio e dalla univocità della relazione tra il significante ed il significato. Ciò non implica la neutralizzazione degli altri canoni ermeneutici, che però vengono in rilievo solo se l’interpretazione testuale è ambigua (in claris non fit interpretatio) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 28.12.2017 n. 6129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Regime edilizio per delle strutture metalliche destinate all’esposizione e al deposito della merce in vendita (nella fattispecie si trattava di scaffalature metalliche destinate all’esposizione e al deposito della merce in vendita; di altezze e dimensioni variabili, aperte su quattro lati, in taluni casi sormontate da lastre in plexiglas a protezione delle merci collocate nella parte superiore, fissate alla pavimentazione esterna, per ragioni di sicurezza, mediante tasselli).
Le strutture metalliche destinate all’esposizione e al deposito della merce in vendita all’interno di un’area adibita alla vendita all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti per l’edilizia e al ricevimento e allo stoccaggio delle merci sono nuove costruzioni ai fini edilizi.
In realtà, la giurisprudenza ritiene che la trasformazione debba essere intesa in senso funzionale e non strutturale, ossia assume rilievo decisivo non la natura del manufatto o i suoi caratteri costruttivi, ma la tipologia di esigenze che tale manufatto è destinato a soddisfare.
L’astratta rimovibilità delle opere infatti non impedisce di considerarle come nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzativo.
Difatti, i manufatti funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.
Le strutture metalliche sono strettamente collegate e serventi rispetto all’attività imprenditoriale svolta della ricorrente e non sono certamente destinate ad un utilizzo temporaneo e contingente.
Secondo la consolidata giurisprudenza, “la ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante”
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In presenza di una pavimentazione debitamente autorizzata, non è possibile ritenere che possa poi liberamente procedersi alla realizzazione sulla stessa di ulteriori manufatti, che magari creano anche nuova volumetria, senza ottenere, volta per volta, il necessario e pertinente titolo edilizio.
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Quanto all’asserita natura pertinenziale dei manufatti, va chiarito che in ambito urbanistico la nozione di pertinenza è più limitata di quella afferente all’ambito civilistico; un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.
Inoltre, come si può ricavare dalla descrizione delle opere realizzate si tratta di interventi che da un punto di vista dimensionale e costruttivo danno vita ad una nuova edificazione, alterando in modo significativo l’assetto del territorio, e quindi per essere realizzati richiedono il rilascio di un permesso di costruire, indipendentemente dalla loro proporzione rispetto all’opera che si può considerare come principale.
Del resto, ‘la qualifica di pertinenza urbanistica è (…) applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica’.
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1. Con ricorso introduttivo, notificato in data 20.07.2016 e depositato il 27 luglio successivo, la società ricorrente ha impugnato l’ordinanza del Responsabile del Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di Caronno Pertusella n. 86 del 16.06.2016, avente ad oggetto la demolizione di manufatti e il rispristino dello stato dei luoghi, unitamente alla comunicazione prot. n. 23899/2015 del 04.11.2015, recante avviso di avvio del procedimento di emanazione dell’ordinanza.
La ricorrente è una società operante nel settore del commercio ed è locataria di un complesso commerciale denominato “Br.” in Caronno Pertusella, Viale ... n. 2095; la struttura commerciale è composta da due edifici e da aree pertinenziali destinate, oltre che a parcheggio, alla vendita all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti per l’edilizia (c.d. drive) e al ricevimento e allo stoccaggio delle merci.
Con un permesso di costruire rilasciato il 17.06.2015 (n. 2015-PER/0006) si è provveduto a riqualificare l’area convertendo all’uso commerciale anche uno dei due edifici in precedenza destinato ad altra funzione e sono state altresì riorganizzate le aree pertinenziali, ampliando l’area di vendita (drive) e sistemandola in maniera più razionale e sicura.
Sia nell’area drive che in quelle di stoccaggio sono state installate delle scaffalature metalliche destinate all’esposizione e al deposito della merce in vendita; tali scaffalature sono delle strutture metalliche di altezze e dimensioni variabili, aperte su quattro lati, in taluni casi sormontate da lastre in plexiglas a protezione delle merci collocate nella parte superiore, fissate alla pavimentazione esterna, per ragioni di sicurezza, mediante semplici tasselli, facilmente smontabili e agevolmente amovibili.
Il Comune di Caronno Pertusella, nell’ambito di un’attività di controllo, ha accertato che l’installazione di strutture metalliche adibite a deposito per l’immagazzinaggio delle merci nelle aree pertinenziali del complesso commerciale non era stata dichiarata in alcun tipo di pratica edilizia, né risultava prevista in alcun modo dal piano attuativo, pur trattandosi di manufatti idonei a produrre nuova superficie coperta e incidenti anche sulla sicurezza antincendio, in quanto collocati altresì in corrispondenza delle aree previste per i parcheggi pertinenziali; quindi con nota n. 23889/2015 del 04.11.2015, la ricorrente è stata avvisata dell’avvio del procedimento di emanazione di un’ordinanza di demolizione.
In data 13.11.2015 la ricorrente ha controdedotto alla nota comunale, sottolineando come le problematiche antincendio fossero state risolte e che le scaffalature non fossero da qualificare quali manufatti da assoggettare al rilascio di un titolo edilizio. Il Comune non ha condiviso la prospettazione della ricorrente e, sul presupposto di essere al cospetto di interventi di nuova costruzione, ha ordinato la demolizione delle scaffalature metalliche attraverso il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
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3. Con la prima censura del ricorso si assume l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, in quanto il Responsabile Tecnico comunale avrebbe erroneamente qualificato come “terreni” le aree in cui sono state installate le scaffalature metalliche, mentre in realtà si tratterebbe di aree dotate di pavimentazione e quindi già perfettamente edificate.
3.1. La doglianza è infondata.
L’ordinanza impugnata evidenzia con chiarezza che l’abuso edilizio oggetto di sanzione risulta essere l’insieme dei “manufatti con struttura in tubolari di metallo di varie altezze e dimensioni con copertura in lastre di plexiglass”, ovvero le strutture metalliche installate nelle aree pertinenziali del complesso commerciale, in relazione alle quali la pavimentazione, pur regolarmente assentita, non assume alcun rilievo determinante da un punto di vista edilizio.
Difatti, in presenza di una pavimentazione debitamente autorizzata, non è possibile ritenere che possa poi liberamente procedersi alla realizzazione sulla stessa di ulteriori manufatti, che magari creano anche nuova volumetria, senza ottenere, volta per volta, il necessario e pertinente titolo edilizio.
3.2. Pertanto, la prima censura va respinta.
4. Con le tre successive doglianze, da scrutinare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume che la posa delle strutture metalliche, peraltro facilmente amovibili, sarebbe intrinsecamente collegata all’attività commerciale svolta dalla ricorrente e debitamente autorizzata, giacché si tratterebbe di attrezzature strumentali necessarie e funzionali alle attività di vendita (drive) e di stoccaggio delle merci, implicitamente ricomprese nel progetto, approvato dal Comune, con cui sono state realizzate le aree destinate alle predette attività.
In ogni caso, le scaffalature potrebbero al più essere qualificate alla stregua di interventi sottoposti a s.c.i.a. e giammai quali nuove costruzioni, con il pertinente regime sanzionatorio; in via subordinata, si tratterebbe di manufatti di natura pertinenziale che, non concorrendo alla creazione di un volume superiore al 20% di quello degli edifici cui accedono, sarebbero assoggettabili a s.c.i.a., con l’esclusiva applicabilità, in caso di violazioni, di una sanzione di natura pecuniaria.
4.1. Le doglianze sono infondate.
In primo luogo, va evidenziato come la stessa parte ricorrente ammetta che le strutture metalliche oggetto del presente contenzioso non risultano rappresentate negli elaborati di progetto presentati all’Amministrazione comunale (ma solo nelle planimetrie inoltrate ai Vigili del Fuoco). A ciò consegue che non può ritenersi che i predetti manufatti siano stati assentiti per via implicita, tranne che non si voglia qualificarli come interventi di edilizia libera, ai sensi della normativa edilizia.
A tale proposito, la ricorrente ritiene che le scaffalature metalliche non possano rientrare nel novero degli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.7), del D.P.R. n. 380 del 2001, proprio perché non vi è trasformazione permanente di suolo inedificato (rientrano negli “interventi di nuova costruzione […] la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”).
In realtà, la giurisprudenza ritiene che la trasformazione debba essere intesa in senso funzionale e non strutturale, ossia assume rilievo decisivo non la natura del manufatto o i suoi caratteri costruttivi, ma la tipologia di esigenze che tale manufatto è destinato a soddisfare.
L’astratta rimovibilità delle opere infatti non impedisce di considerarle come nuove costruzioni ai fini edilizi e quindi necessitanti di un titolo autorizzativo.
Difatti, i manufatti funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.
Le strutture metalliche sono strettamente collegate e serventi rispetto all’attività imprenditoriale svolta della ricorrente e non sono certamente destinate ad un utilizzo temporaneo e contingente.
Secondo la consolidata giurisprudenza, “la ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante” (Consiglio di Stato, VI, 04.09.2015, n. 4116; altresì 01.04.2016, n. 1291; 03.06.2014, n. 2842; TAR Emilia Romagna-Bologna, I, 28.06.2016, n. 655).
4.2. Quanto all’asserita natura pertinenziale dei manufatti, va chiarito che in ambito urbanistico la nozione di pertinenza è più limitata di quella afferente all’ambito civilistico; un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme (Consiglio di Stato, VI, 04.01.2016, n. 19; TAR Emilia-Romagna, Bologna, I, 28.06.2016, n. 655).
Inoltre, come si può ricavare dalla descrizione delle opere realizzate –percepibile agevolmente anche dalle numerose fotografie prodotte in giudizio dalle parti– si tratta di interventi che da un punto di vista dimensionale e costruttivo danno vita ad una nuova edificazione, alterando in modo significativo l’assetto del territorio, e quindi per essere realizzati richiedono il rilascio di un permesso di costruire, indipendentemente dalla loro proporzione rispetto all’opera che si può considerare come principale (sulla rilevanza dell’aspetto dimensionale, cfr. TAR Campania, Napoli, VI, 21.06.2017, n. 3377); del resto, ‘la qualifica di pertinenza urbanistica è (…) applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica’ (Consiglio di Stato, VI, 10.11.2017, n. 5180).
4.3. Quindi anche tali doglianze vanno respinte.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.12.2017 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE -BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2018, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.12.2017, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 11.01.2018 n. 5).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 12.01.2018 n. 9 "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, concernente modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 13.12.2017 n. 217).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 2 del 12.01.2018, "Requisiti igienico-sanitari, di sicurezza e di decoro urbano per lo svolgimento dell’attività dei centri massaggi di esclusivo benessere" (regolamento regionale 09.01.2018 n. 1).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 dell'11.01.2018, "Integrazione dei criteri approvati con decreto n. 3490 del 29.03.2017 per l’accertamento delle infrazioni e l’irrogazione delle sanzioni, di cui all’art. 27 della legge regionale n. 24/2006 e s.m.i., conseguenti alla trasgressione delle disposizioni per la redazione degli attestati di prestazione energetica degli edifici, in attuazione della d.g.r. 5900 del 28.11.2016" (decreto D.U.O. 08.01.2018 n. 53).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 05.01.2018 n. 4 "Requisiti dei distributori degli impianti di benzina, attrezzati con sistemi di recupero vapori" (Ministero dell'Interno, decreto 27.12.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 21.12.2017, "Indirizzi di semplificazione per le modifiche di impianti in materia di emissioni in atmosfera ai sensi della parte quinta del d.lgs. 152/2006 e s.m.i." (deliberazione G.R. 18.12.2017 n. 7570).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 12.12.2017 n. 289 "Adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di vita" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 05.12.2017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Decreto legislativo n. 75/2017 - Polo unico per le visite fiscali. Consultazione esiti visite disposte su iniziativa dell’Inps (INPS,  messaggio 12.01.2018 n. 137.

APPALTI SERVIZI: Oggetto: Iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali e regolarità DURC (ANCE di Bergamo, circolare, 12.01.2018 n. 12).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Denuncia dei quantitativi di acqua pubblica derivati nell’ANNO 2017 (ANCE di Bergamo, circolare, 12.01.2018 n. 11).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Indicazioni operative sulla corretta applicazione della disposizione di cui all’articolo 34, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2008 relativa allo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di primo soccorso prevenzione incendi e di evacuazione (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 11.01.2018 n. 1/2018).

APPALTI SERVIZI: Oggetto: Regolarità del pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori (DURC) (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, nota 08.01.2018 n. 31 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI  -VARI: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per l’anno 2018 (ANCE di Bergamo, circolare, 05.01.2018 n. 7).

APPALTI: Oggetto: Nuove soglie comunitarie per gli appalti pubblici dal 01.01.2018 (ANCE di Bergamo, circolare, 05.01.2018 n. 6).

APPALTI: Oggetto: proroga SISTRI e invio tramite PEC della quarta copia del formulario rifiuti (ANCE di Bergamo, circolare, 05.01.2018 n. 5).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: “Misure in materia di valorizzazione dell’esperienza professionale del personale con contratto di lavoro flessibile e superamento del precariato” (ANCI, nota tecnica prot. n. 2/VSG/SD/AB/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti sulla gestione degli esiti delle verifiche sismiche condotte in ottemperanza all'art. 2, comma 3, dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 23.03.2003 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 04.11.2010 n. 83283 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti alla Circolare del Capo Dipartimento prot. n. DPC/SISM/31471 del 21.04.2010 sullo stato delle verifiche sismiche previste dall’OPCM 3274/2003 e programmi futuri (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 09.10.2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Circolare sullo stato delle verifiche sismiche previste dall'OPCM 3274/2003 e programmi futuri (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 21.04.2010 n. 31471 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: L’evergreen del dubbio sulla possibilità di stabilizzare articoli 110 e 90 D.Lgs. 267/2000 (13.01.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: LEGGE DI BILANCIO 2018 (Legge 27.12.2017, n. 205) - NOTA DI LETTURA SULLE NORME DI INTERESSE DEGLI ENTI LOCALI (ANCI-IFEL, 09.01.2018).

APPALTI: SOS codice appalti (07.01.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a dirigenti decisi prima delle selezioni. Ecco cosa voleva legalizzare la riforma Madia (07.01.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni: schema dei tetti per il personale a tempo indeterminato e flessibile (aggiornato a l. 205/2017) (04.01.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Nullità della delega conferita da un dirigente ad un funzionario? La gran confusione causata dal Tar Toscana (03.01.2018 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

LAVORI PUBBLICI: A. Barone, Programmazione e progettazione nel codice dei contratti pubblici (03.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La programmazione dei lavori pubblici: una “specialità” italiana?; 2. Trasparenza e partecipazione: privato “forte” e privato “debole”; 3. I rapporti tra programmazioni; 4. Il dibattito pubblico; 5. Il favor per la progettazione.

APPALTI: A. Corrado, La trasparenza negli appalti pubblici, tra obblighi di pubblicazione e pubblicità legale (03.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. 2. Il regime di pubblicità in materia di contratti pubblici. 2.1. La pubblicità che produce effetti legali. 2.2. La pubblicità degli atti di gara nella sezione “Amministrazione trasparente”. 3. L’obbligo di pubblicare i provvedimenti di ammissione e di esclusione: pubblicità legale o pubblicità ai fini della trasparenza? 4. Le ulteriori modifiche operate con il d.lgs. 56/2017 al regime di pubblicità nei contratti pubblici. 5. Verso il superamento dell’albo on-line?

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Palma, La ricostruzione concettuale della nozione di “danno ingiusto” nell’ambito dell’azione amministrativa e la sua ripercussione sul rapporto organico del funzionario: un approccio alla problematica (03.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1) Necessaria premessa; 2. L’attività amministrativa di diritto privato e la responsabilità per “danno ingiusto”; 3) L’attività amministrativa di diritto pubblico e la responsabilità per “danno ingiusto”; 4) Ulteriore ordine argomentativo a favore dell’orientamento ricostruttivo; 5) Breve conclusione.

EDILIZIA PRIVATA: P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico-edilizia (03.01.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. – 2. La ricostruzione fatta dalla pronuncia n. 12/1983 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in relazione alla rilevanza del decorso del tempo sull’ordine di demolizione della p.a. – 3. La diversa prospettazione avallata dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 17.10.2017. – 4. Considerazioni critiche sulla consistenza dell’onere motivazionale: a) Premessa; b) L’ipotesi di tardivo ordine di demolizione privo, “a monte”, di titolo edilizio illegittimo; c) Effetti sull’abusivismo edilizio; d) L’ipotesi di tardivo ordine di demolizione caratterizzato da un preesistente titolo edilizio illegittimo. – 5. La tutela dell’affidamento del privato: spunti ricostruttivi. – 6. Conclusioni.

CONSIGLIERI COMUNALI: A. Foglia, La natura giuridica del provvedimento di revoca dell’assessore comunale: atto politico o atto amministrativo? (De Iustitia n. 4/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. L’atto politico e l’atto di alta amministrazione. 3. La natura giuridica del provvedimento di revoca dell’assessore comunale.

APPALTI: S. Palomba, L’impugnativa del bando di gara in assenza della domanda di partecipazione: nuovi orizzonti? (De Iustitia n. 4/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La legittimazione ad agire nel processo amministrativo. 2. Il bando di gara. 2.1. Natura e impugnazione. 2.2. Prime aperture giurisprudenziali: quando si ammette l’impugnativa immediata del bando di gara. 2.3. Gli ulteriori spunti applicativi della più recente giurisprudenza. 3. Nuovi scenari: è ammissibile l’impugnativa del bando di gara senza domanda di partecipazione? La questione affrontata dal TAR Liguria con l’ordinanza n.263/2017. 3.1. Il caso di specie. 3.2. La posizione della Corte costituzionale n. 245 del 2016. 3.3. La posizione del TAR Liguria: la questione viene rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 4. Osservazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Dezio, La nuova conferenza di servizi (De Iustitia n. 3/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Genesi e ratio della fattispecie. 3. Natura giuridica. 4. La legge n. 241/1990 e i successivi interventi normativi. 5. La conferenza di servizi alla luce del d.lgs. 30.06.2016, n. 127. 6. Le modalità di svolgimento e la fase conclusiva. 7. Brevi conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA - VARI: A. Auletta, L’evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche: brevi riflessioni circa la (possibile) incidenza sulla vendita forzata (De Iustitia n. 3/2017 - tratto da www.deiustitia.it).

APPALTI: A. Vorraro, Il nuovo soccorso istruttorio (De Iustitia n. 3/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il soccorso istruttorio: breve premessa introduttiva. 2. Il soccorso istruttorio nel procedimento amministrativo. 2.1. Linee generali. 2.2. Il soccorso istruttorio nelle procedure concorsuali. 3. Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica. 3.1. Precisazioni preliminari e breve ricognizione delle origini del soccorso istruttorio. 3.1.1. L’originaria formulazione dell’art. 46 DLgs. 163/2006. 3.1.2. L’art. 46 DLgs 163/2006 come modificato dal d.l. 70/2011 (convertito in l. 106/2011). 3.1.3. L’art. 46 d.lgs. 163/2006 come modificato dal d.l. 90/2014 (convertito in L. 114/2014). 3.2. Il soccorso istruttorio nel nuovo Codice degli appalti: l’art. 83, c. 9, d.lgs. 50/2016. 3.3. Il soccorso istruttorio dopo il d.lgs. 56/2017 (c.d. Decreto Correttivo). 3.4. Il soccorso istruttorio successivo alla fase istruttoria. 4. Esame casistico. 4.1. Il soccorso istruttorio e gli oneri di sicurezza aziendale. 4.2. Il preavviso di DURC negativo.

APPALTI: A. Napolitano, Il contratto di avvalimento ed i suoi aspetti problematici alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici (De Iustitia n. 3/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Breve premessa. 2. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’istituto in ambito europeo. 3. La disciplina dell’avvalimento nell’ordinamento nazionale: Il Decreto Legislativo n. 163 del 06. 3.1. L’oggetto dell’avvalimento. 4. L’avvalimento nella Direttiva Appalti 2014/24/UE. 5. Il contratto di avvalimento nel nuovo codice dei contratti pubblici: Il Decreto Legislativo n. 50 del 2016. 6. L’impatto del Decreto Legislativo n. 56 del 17 sull’avvalimento. 7. Brevi considerazioni conclusive.

APPALTI: A. Mezzotero e S. P. Putrino Gallo, Il sistema delle informative antimafia nei recenti arresti giurisprudenziali (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Finalità e ambito di applicazione - 3. Profili procedimentali - 4. Gli elementi sintomatici del tentativo di infiltrazione mafiosa - 4.1. I c.d. «reati spia» quali esemplificazione codicistica di fattispecie aperte. Gli elementi di precedenti informative e l’informativa antimafia c.d. «atipica» - 4.2. Le vicende dell’impresa e dei soggetti ad essa riconducibili - 4.3. I rapporti di parentela - 4.4. Le frequentazioni - 5. L’attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa - 6. Profili processuali in materia di informative antimafia. La giurisdizione in materia di impugnazione del provvedimento prefettizio - 6.1. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative al recesso della stazione appaltante dal contratto già stipulato - 6.2. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative alla revoca dell’aggiudicazione - 6.3. (segue) La competenza - 6.4. (segue) Il rito applicabile - 7. Conclusioni.

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiani performance nei mini-enti. In mancanza, bloccati premi di risultato e assunzioni. Corte conti Sardegna: obbligo per i piccoli comuni anche se non tenuti a redigere il Peg.
Anche i comuni con meno di 5 mila abitanti, pur non essendo tenuti all'adozione del Peg, devono redigere il piano delle performance. Tale adempimento rappresenta una condizione necessaria per l'esercizio della facoltà assunzionale e per l'erogazione della retribuzione di risultato.

Sono alcuni dei chiarimenti forniti dalla Corte dei conti - Sez. regionale di controllo della Sardegna, con il parere 09.01.2018 n. 1.
La questione nasce dal fatto che il nuovo comma 3-bis dell'art. 169 del Tuel prescrive che il piano dettagliato degli obiettivi e il piano della performance sono unificati organicamente nel piano esecutivo di gestione (Peg).
Quest'ultimo, tuttavia, è obbligatorio solo nei comuni superiori ai 5 mila abitanti (precedentemente il limite era di 15 mila abitanti), mentre per quelli con popolazione inferiore a tale soglia demografica vale la rilevazione unitaria dei fatti gestionali secondo la struttura del piano dei conti di cui all'art. 157, comma 1-bis, dello stesso Tuel.
Tuttavia, la pronuncia rammenta che il dlgs 33/2013, recante «riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni», all'art. 10, dispone che: «Ogni amministrazione, sentite le associazioni rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, adotta un programma triennale per la trasparenza e l'integrità, da aggiornare annualmente. Esso definisce le misure, i modi e le iniziative volti all'attuazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, ivi comprese le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi informativi. Le misure del programma triennale sono collegate, sotto l'indirizzo del responsabile, con le misure e gli interventi previsti dal piano di prevenzione della corruzione. A tal fine, il programma costituisce di norma una sezione del piano di prevenzione della corruzione».
Gli obiettivi indicati nel Programma triennale sono formulati in collegamento con la programmazione strategica e operativa dell'amministrazione, definita in via generale nel piano della performance e negli analoghi strumenti di programmazione previsti negli enti locali. La promozione di maggiori livelli di trasparenza costituisce un'area strategica di ogni amministrazione, che deve tradursi nella definizione di obiettivi organizzativi e individuali.
Da ciò, argomentano i giudici contabili sardi, si può desumere che anche i mini-enti, pur non essendo tenuti all'adozione del Peg, devono redigere il piano delle performance. Data la ridotta dimensione dell'ente, che comporta una minima dotazione di personale e spazi angusti nella programmazione della spesa, si tratta di una programmazione minimale, ma comunque necessaria in quanto le norme in materia non hanno previsto aree di esenzione.
L'adozione del piano, per tutti gli enti locali, è condizione necessaria per l'esercizio della facoltà assunzionale negli esercizi finanziari a venire. Inoltre «l'assegnazione, in via preventiva di precisi obiettivi da raggiungere e la valutazione successiva del grado di raggiungimento degli stessi rappresentano una condizione indispensabile per l'erogazione della retribuzione di risultato» (sez. controllo Veneto, deliberazione n. 161/Par/2013; sez. controllo Puglia, deliberazione n. 123/Par/2013 e 15/Par/2016).
L'eventuale accertamento della mancata adozione del piano della performance (e del Peg per i comuni superiori ai 5 mila abitanti), può comportare, inoltre, il divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti/responsabili che ne risultino responsabili (articolo ItaliaOggi del 10.01.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La Sezione si conforma ai principi di diritto contenuti nelle delibere della Sezione della Autonomie deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24 pronunciatesi sulla questione, oggetto del parere, che “involge la problematica concernente l’inclusione, o meno, degli oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016, nel computo della spesa per il personale rilevante ai fini della verifica del rispetto….dei limiti del trattamento accessorio disciplinato dall’art. 1, c. 236, della l. n. 208 del 2015 …”.
La Sezione delle Autonomie, ritenuto che i nuovi incentivi per le "funzioni tecniche" di cui all'art. 113, co. 2, del d.lgs. n. 50/2016 si presentano, all’evidenza, con caratteristiche diverse rispetto a quelli disciplinati dal previgente codice degli appalti, sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità degli stessi nonché la non sovrapponibilità del compenso incentivante previsto dall’art. 113, co. 2, del nuovo codice degli appalti all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, co. 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, ha affermato che i predetti incentivi sono da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, co. 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, co. 236, della l. n. 208/2015– posto che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e, quindi, di personale (cfr. deliberazione 06.04.2017 n. 7).
Il Collegio richiama, infine, quanto deliberato dalla Sezione delle Autonomie nella succitata
deliberazione 10.10.2017 n. 24
circa le modifiche normative sopravvenute successivamente al deliberato medesimo “Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Cava de’ Tirreni (Sa), dopo aver premesso che:
   “- con deliberazione 06.04.2017 n. 7, avente ad oggetto “Incentivi per funzioni tecniche – art. 113, comma 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e applicabilità del tetto del salario accessorio previsto all’art. 9, comma 2-bis, del d.l. 31.05.2010 n. 78”, la Sezione delle autonomie ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, c. 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, c. 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”;
   - detto principio va letto alla luce della novella legislativa recata dall’art. 23 del d.lgs. 25.05.2017 n. 75, il quale prevede che “a decorrere dal 01.01.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016. A decorrere dalla predetta data l’art. 1, c. 236 della l. 28.12.2015, n. 208, è abrogato”;
   - dall’applicazione del citato principio di diritto discende che, se questo ente –il quale fino alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016 ha erogato gli incentivi previsti dall’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 senza ricomprendere gli stessi all’interno del tetto dei trattamenti accessori– intendesse erogare gli incentivi di cui all’art. 113, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016, che invece vanno considerati nel tetto, determinerebbe lo sforamento del vincolo finanziario. Per evitare detto sforamento, l’Ente dovrebbe operare la riduzione per il corrispondente importo, delle altre quote del fondo, quelle cioè che fanno riferimento al trattamento accessorio di tutti (gli altri) dipendenti, con un calo, quindi, dei trattamenti economici accessori dei lavoratori…..;
   - pertanto, al fine di rendere omogeneo il dato, si chiede il parere di codesta Corte in merito alla possibilità di ricalcolare il tetto del salario accessorio 2016 –che costituisce il limite valevole dall’01.01.2017– includendovi anche gli incentivi alle progettazioni di cui all’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006.
...
La questione oggetto del parere è stata valutata e risolta dalla Sezione delle Autonomie di questa Corte con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, e con la successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24 (emessa successivamente alla data di proposizione del quesito in oggetto) che rinvia alla prima, considerando la questione riproposta sostanzialmente sovrapponibile alla precedente, e che si esprime nei termini che seguono in merito “alla questione di massima sollevata dalla sezione regionale di controllo per la Liguria” che “involge la problematica concernente l’inclusione, o meno, degli oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016, nel computo della spesa per il personale rilevante ai fini della verifica del rispetto….dei limiti del trattamento accessorio disciplinato dall’art. 1, c. 236, della l. n. 208 del 2015 …”.
La Sezione delle Autonomie, nella suddetta
deliberazione 10.10.2017 n. 24, dopo aver ricordato che, con riferimento agli incentivi di cui al previgente codice degli appalti (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), gli organi della nomofilachia, in sede di controllo, “hanno:
   a) escluso dal computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296 gli incentivi per la progettazione interna di cui all’art. 92 del codice in ragione della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale” (Sezione delle autonomie,
deliberazione 13.11.2009 n. 16);
   b) escluso le risorse finalizzate a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche dal tetto del salario accessorio previsto dall’articolo 9, comma 2-bis, d.l. n. 78/2010 in quanto risorse correlate “allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica” in relazione ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti” per le quali le predette amministrazioni, in caso di carenza di personale interno qualificato, avrebbero dovuto “ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato” (SS.RR.
deliberazione 04.10.2011 n. 51);
   c) osservato come la struttura del vincolo di spesa per il trattamento economico accessorio del personale degli enti locali imposto dall’art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), ai fini del concorso delle autonomie territoriali al raggiungimento del riequilibrio complessivo e della stabilità della finanza pubblica, ricalcasse fedelmente, fatto salvo il diverso riferimento temporale, la lettera dell’art. 9, comma 2-bis, del decreto-legge n. 78/2010 riproducendone, per molti aspetti, analoghe problematiche interpretative già valutate dalla medesima Sezione in sede di nomofilachia (Sezione delle autonomie, deliberazione 07.12.2016 n. 34
)”,
continua considerando che:
   “A diversa conclusione si è invece pervenuti in relazione ai nuovi incentivi per “funzioni tecniche” di cui al d.lgs. n. 50/2016, entrato in vigore dal 19.04.2016, che ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente codice ed ha introdotto, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche” effettuate dai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici «esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti».
   Ritenuto, infatti, che i nuovi incentivi per le "funzioni tecniche" di cui all'art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 si presentano, all’evidenza, con caratteristiche diverse rispetto a quelli disciplinati dal previgente codice degli appalti, questa Sezione delle autonomie, sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi nonché la non sovrapponibilità del compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, ha affermato che i predetti incentivi sono da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015– posto che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e, quindi, di personale (Sezione delle autonomie, deliberazione 06.04.2017 n. 7)
”.
Occorre considerare che, successivamente al deliberato della Sezione delle autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7), l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 è stato modificato ad opera del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni correttive e integrative al d.lgs. 18.04.2016, n. 50), che con l’art. 76 ha sostituito al comma 1 dell’art. 113 le parole: “per la realizzazione dei singoli lavori” con “per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture” (art. 76, comma 1, lett. a) e nel contempo ha interamente sostituito il previgente comma 2 (art. 76, comma 1, lett. b) con il seguente: «2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione
».
Inoltre il comma 236 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità 2016) che disponeva in materia di limitazione alla crescita delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale in modo sostanzialmente sovrapponibile a quelle adottate con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, è stato abrogato dal d.lgs. 25.05.2017 n. 75 (Modifiche e integrazioni al d.lgs. n. 165/2001) che ha riformulato anche il tetto di spesa per la retribuzione accessoria.
La novella legislativa dispone, infatti, quanto segue (art. 23, comma 2): «Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell’anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016».
La Sezione delle Autonomie, nella succitata
deliberazione 10.10.2017 n. 24, continua considerando che “Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione.
Come sottolineato in detta deliberazione,
nel delineato nuovo scenario normativo gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/1999/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte esposte nella richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/1999/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e dalla Sezione delle autonomie con la deliberazione 13.11.2009 n. 16 (in relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e 562, della l. 296/2006)”.
Successivamente, in sede consultiva, si sono pronunciate le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia (rispettivamente con il parere 09.06.2017 n. 113 e parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto questa Sezione si pronuncia conformandosi alla chiara giurisprudenza delineatasi in materia, non avendo motivo alcuno di discostarsene (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 06.12.2017 n. 254).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale in comando senza tetto. Corte dei conti.
La spesa relativa al personale utilizzato in posizione di comando non è soggetta ai limiti di spesa riguardanti il lavoro flessibile.

Lo ha chiarito la Corte dei conti, Sezione delle autonomie con la deliberazione 15.05.2017 n. 12, ponendo fine a una annosa querelle interpretativa circa la portata dell'art. 9, comma 28, del dl 78/2010.
Tale disposizione prevede che le spese delle p.a. per lavoro flessibile e per le collaborazioni coordinate e continuative non possono essere superiori al 50% della analoga spesa sostenuta nell'anno 2009, limite che sale al 100% per gli enti che rispettano i limiti generali sul contenimento della spesa di personale. Fra i tanti dubbi che tale previsione ha sollevato uno dei più rilevanti riguardava la sua applicabilità o meno al personale in comando, ovvero a coloro che operano in un ente diverso da quello presso il quale sono inquadrati. In tali casi, l'ente che utilizza la risorsa umana rimborsa all'altro la spesa da esso sostenuta per pagare lo stipendio del lavoratore.
In altri termini, il comando non comporta una novazione soggettiva del rapporto di lavoro né, tanto meno, la costituzione di un rapporto di impiego con l'amministrazione destinataria delle prestazioni, ma solo una modificazione oggettiva del rapporto originario, nel senso che sorge nell'impiegato l'obbligo di prestare servizio nell'interesse immediato del diverso ente. Trattandosi di un incarico a tempo, in cui è previsto il futuro reintegro del dipendente presso l'ente di provenienza al termine del periodo stabilito, il posto lasciato momentaneamente libero nell'organico dell'ente cedente non è da considerarsi disponibile per una nuova assunzione. Per questo, argomentano i magistrati contabili, deve ritenersi escluso il rischio di incremento della spesa complessiva, purché l'ente cedente provveda all'imputazione figurativa delle somme sborsate.
Tale accortezza, peraltro, risulta necessaria solo laddove il personale comandato rientri in una delle tipologie di lavoro flessibile e non quando il comando riguardi (come normalmente accade) personale di ruolo a tempo indeterminato). In tal caso, infatti, l'ente cedente non deve computare nulla, perché il principio di neutralità finanziaria dell'istituto risulta automaticamente rispettato (articolo ItaliaOggi del 18.05.2017).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulle questioni di massima poste dalla Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo con la deliberazione n. 181/2016/PAR, enuncia il seguente principio di diritto: “
La spesa relativa al personale utilizzato in posizione di comando esula dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, ferma restando l’imputazione figurativa della spesa per l’ente cedente”.

A.N.AC.

APPALTIAnac, regole di gestione casellario online imprese. In consultazione lo schema di regolamento dell'Anticorruzione.
Annotazioni nel casellario informatico Anac da emettere entro 180 giorni dall'avvio del procedimento; previsto un ampio e articolato contraddittorio nella fase istruttoria; disciplinato il procedimento di comunicazione dalle procure all'Anac in caso di estorsioni o concussioni non denunciate dall'operatore economico.
È quanto prevede lo schema di "Regolamento per la gestione del Casellario Informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell’art. 213, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50" predisposto dall'Autorità nazionale anti corruzione (Anac) che definisce le procedure di gestione del casellario informatico delle imprese (consultazione on-line del 09.01.2018 – invio contributi entro il 29.01.2018).
La bozza disciplina, oltre alle modalità di trasmissione ad Anac di notizie e informazioni da parte delle Soa, degli operatori economici e delle stazioni appaltanti, anche il procedimento di annotazione delle notizie e delle informazioni nel casellario informatico e l'aggiornamento delle annotazioni nel casellario informatico, anche in relazione agli esiti del contenzioso.
Dopo avere precisato che le informazioni acquisite dall'Autorità nello svolgimento del procedimento di annotazione sono coperte dal segreto di ufficio fino al momento in cui le risultanze procedimentali non saranno comunicate alle parti interessate, lo schema specifica che tutte le comunicazioni devono essere effettuate tramite Pec e tramite procedura online accessibile dal sito dell'Autorità e che il casellario è diviso in tre sezioni. La prima ad accesso pubblico (attestazioni Soa), la seconda riservata alle Soa e ai destinatari dei provvedimenti di annotazione e la terza riservata all'Anac per la raccolta dei dati utili all'attività di vigilanza e controllo sul sistema di qualificazione e per l'implementazione del sistema di rating di impresa.
Per le annotazioni il regolamento prevede che le stazioni appaltanti e gli altri soggetti detentori di informazioni concernenti l'esclusione dalle gare o altri fatti emersi nel corso di esecuzione del contratto devono inviarle all'Autorità nel termine di 30 giorni decorrenti dalla conoscenza o dall'accertamento delle stesse, pena l'avvio di un procedimento sanzionatorio. L'annotazione potrà essere deliberata a seguito di un iter che potrà condurre o all'archiviazione, o all'avvio del procedimento entro 90 giorni dalla ricezione della segnalazione.
La procedura si basa sul principio del contraddittorio e dell'accesso alla documentazione relativa (possibili anche audizioni). Entro il termine di 180 giorni, decorrenti dalla data della comunicazione di avvio del procedimento, il responsabile del procedimento predispone una comunicazione di conclusione del procedimento con la quale indica il testo dell'annotazione che sarà inserito nel casellario, la sezione del casellario in cui sarà iscritta la fattispecie oggetto di comunicazione e gli effetti che derivano dall'iscrizione nel casellario all'esito del procedimento.
Lo schema disciplina anche le comunicazioni ad Anac di fatti penalmente rilevanti: in questi casi il procuratore della Repubblica competente comunica all'Autorità che l'operatore economico, pur essendo stato vittima dei reati di concussione ed estorsione non ha denunciato i fatti all'autorità giudiziaria. La circostanza deve emergere dagli indizi a base della richiesta di rinvio a giudizio formulata nei confronti dell'imputato nell'anno antecedente alla pubblicazione del bando (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAnac: trasparenza a due vie per i dirigenti. Cambia il vento sugli oneri di trasparenza.
L'Anac, con l'atto di segnalazione 20.12.2017 n. 6 concernente la disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, propone una serie di modifiche al dlgs 33/2013 (il decreto sulla trasparenza, già pesantemente «corretto» nel 2016) e in particolare all'articolo 14.
Il comma 1-bis di tale articolo, introdotto proprio nel 2016, quando era ancora in pista la riforma Madia della dirigenza, estese ai dirigenti gli obblighi di pubblicazione dei redditi e della situazione patrimoniale, già previsti per i componenti degli organi di governo.
L'atto di segnalazione dell'Anac propone di ammorbidire gli obblighi di pubblicazione.
Per gli organi di governo, chiedendo che i dati siano pubblicati in modo da non potere essere indicizzati. Per i dirigenti, invece, richiede una profonda revisione della normativa.
Si ricorderà che l'Authority presieduta da Raffaele Cantone rese concreto ed attuativo l'obbligo di pubblicazione i dati reddituali e patrimoniali con la delibera 241/2017, «Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione dell'art. 14 del dlgs. 33/2013». Ma, ricorda l'atto di segnalazione, con ordinanza del 28.02.2017, n. 1030, «il Tar Lazio, sez. I-quater, ha accolto la domanda di sospensione dell'esecuzione di provvedimenti adottati dal segretario generale del Garante della protezione dei dati personali relativi all'attuazione della pubblicazione dei dati e delle informazioni di cui all'art. 14, co. 1, lett. c) ed f)», cioè, appunto, di redditi e situazione patrimoniale.
In conseguenza di questa ordinanza, l'Anac ha sospeso gli effetti delle linee guida citate sopra, limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione degli obblighi di pubblicazione relativi a redditi e patrimoni di tutti i dirigenti pubblici, compresi quelli del Servizio sanitario nazionale. Sospensione d'efficacia che perdura a tutt'oggi.
La Corte costituzionale non si è ancora pronunciata sulla questione sollevata dal Tar Lazio, ma l'Anac vuole stringere i tempi, suggerendo al legislatore (il problema è che a camere sciolte l'invito rischia di risuonare nel vuoto) una revisione decisa della normativa.
La proposta dell'Authority è disporre una trasparenza più estesa per i titolari di incarichi dirigenziali di vertice di cui all'articolo 19, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e posizioni equiparate (come, tra queste, segretari e i direttori generali di comuni, province e regioni) e per i dirigenti con incarichi di responsabilità degli uffici di diretta collaborazione degli organi di governo. Infatti, secondo l'Anac, vista la particolare «vicinanza» di questi soggetti con gli organi di governo, dei quali sono espressione diretta, possono «essere pienamente sottoposti agli obblighi di trasparenza contenuti nell'articolo 14, comma 1».
Meno rigoroso può essere il regime per gli incarichi dirigenziali di livello generale e non generale non di vertice e per i titolari di posizioni organizzative a cui siano affidate deleghe in applicazione dell'articolo 17, comma 1-bis, del dlgs 165/2001. In questo caso, per quanto concerne i dati relativi a redditi e patrimoni l'Anac ritiene sufficiente la comunicazione e la pubblicazione solo in forma aggregata, secondo disposizioni che l'Anac stessa dovrebbe in futuro dettare con specifiche linee guida.
Infine, per i dirigenti non titolari di incarico ai quali siano attribuite solo funzioni di consulenza, studio e ricerca (ad esclusione di quelle ispettive) si dovrebbe del tutto escludere la pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali.
Dovrebbe, comunque, rimanere intatto l'obbligo per ogni dirigente di comunicare all'ente datore di lavoro gli emolumenti complessivamente percepiti a carico della finanza pubblica, in applicazione dell'articolo 13, comma 1, del dl 66/2014, convertito in legge 89/2014. Il che conferma il correlato obbligo per l'amministrazione di appartenenza di continuare a pubblicare sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo di tali emolumenti per ciascun dirigente.
Resta ancora fuori dall'analisi dell'Anac la semplice constatazione che l'assimilazione dei dirigenti, tranne quelli chiamati direttamente senza concorsi, alla politica è una forzatura che contrasta anche coi principi di separazione e autonomia delle due sfere amministrative (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

APPALTIAppalti sottosoglia, altro cambio. Maglie più larghe per la rotazione degli affidamenti. Bozza dell'Authority di Raffaele Cantone che aggiorna la linea guida n. 4 per le stazioni appaltanti.
Rotazione degli affidamenti da modulare a seconda del valore dei contratti; le stazioni appaltanti potranno prevedere un numero di affidamenti massimo diversificato per fasce di importo; riaffidamento allo stesso contraente ipotesi eccezionale da motivare adeguatamente.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse previsti nella bozza che aggiorna la linea guida n. 4, che l'Anac guidata da Raffaele Cantone, trasmessa al Consiglio di Stato per il parere di rito (Aggiornamento delle linee guida n. 4, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici - consultazione on-line dell’08.09.2017 – invio contributi entro il 25.09.2017).
La linea guida, prevista dall'articolo 36, comma 7, del codice dei contratti pubblici definisce delle modalità di dettaglio per supportare le stazioni appaltanti nelle attività relative ai contratti di importo inferiore alla soglia di rilevanza europea (5,548 milioni di euro). Le indicazioni di dettaglio previste dall'Anac si applicano nei settori ordinari, ivi inclusi i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria e i servizi sociali e gli altri servizi specifici elencati all'allegato IX del codice, ma anche nei cosiddetti settori speciali (acqua, energia, trasporti) in quanto compatibili.
Un primo aspetto trattato nell'aggiornamento del provvedimento Anac è quello del calcolo dell'importo a base di gara e il divieto di frazionamento artificioso degli appalti: l'Autorità ha chiarito che questo principio si applica anche nel caso di affidamento di opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione (art. 36, commi 3 e 4 del codice) «indipendentemente se si tratta di lavori di urbanizzazione primaria o secondaria». Fra i temi di più immediato interesse si segnala però quello della rotazione fra i soggetti che partecipano a queste procedure, spesso di valore molto ridotto.
Nella linea guida aggiornata si afferma espressamente che il principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti si applica alle procedure che abbiano ad oggetto commesse identiche o analoghe a quelle precedenti, nelle quali la stazione appaltante opera limitazioni al numero di operatori economici selezionati. I regolamenti interni possono prevedere fasce, suddivise per valore, sulle quali applicare la rotazione degli operatori economici.
In altre parole, la rotazione sarà applicata in maniera diversa a seconda del valore degli affidamenti, nel presupposto che una cosa è la rotazione applicata (nel caso di servizi o forniture) ad incarichi di 10 mila euro e altro è applicarla ad affidamenti da 150 mila euro Il rispetto del principio di rotazione, ha detto l'Anac, espressamente fa sì che l'affidamento o il reinvito al contraente uscente abbiano carattere eccezionale; non solo, ma se si riaffida allo stesso contraente occorrerà anche adempiere ad un «onere motivazionale più stringente». L'affidamento diretto o il reinvito all'operatore economico invitato in occasione del precedente affidamento, e non affidatario, deve essere motivato.
Altro punto trattato nella linea guida aggiornata è quello riguardante le modalità di affidamento di contratti di importo inferiore a 40 mila per i quali, in base all'articolo 36, comma 2, lettera a, del codice, la stazione appaltante può procedere con affidamento diretto o tramite amministrazione diretta (ex art. 3, comma 1, paragrafo gggg del codice). In questi casi l'Autorità ha precisato che le procedure semplificate di cui all'art. 36 del codice dei contratti pubblici prendono avvio con la determina a contrarre o con atto ad essa equivalente, contenente, tra l'altro, l'indicazione della procedura che si vuole seguire con una sintetica indicazione delle ragioni.
Il contenuto dell'atto può essere semplificato, per gli affidamenti di importo inferiore a 40 mila euro, in caso di affidamento diretto o di lavori in amministrazione diretta (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ballottaggi senza quorum. Per eleggere il presidente del consiglio. Spetta al regolamento disciplinare il funzionamento dell'assemblea.
Quale normativa deve essere applicata, in materia di elezione del presidente del consiglio comunale, qualora emergano differenze tra la disciplina statutaria e quella regolamentare dell'ente locale?

Nel caso di specie, lo statuto comunale prevede che il presidente sia eletto a maggioranza dei due terzi dei componenti l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da tenersi in due distinte sedute, nessun candidato ottiene la maggioranza prevista, nella terza votazione si effettua il ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece, un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata infruttuosa, in quanto stabilisce che, qualora nessun candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere, nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni vengano ripetute nella seduta successiva.
Considerato che, ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento, pertanto la disciplina del numero legale per la validità delle adunanze (cosiddetto «quorum strutturale») e delle votazioni (cosiddetto «quorum funzionale o deliberativo») è stata delegificata, nella fattispecie in esame non si ravvisa la discrasia tra le due fonti di autonomia locale. Ciò in quanto la normativa regolamentare si limita a disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa menzione nello statuto.
In altri termini, il regolamento del consiglio comunale non contrasta con nessuna norma statutaria poiché, in quanto fonte abilitata a porre norme sul funzionamento del consiglio, aggiunge un ulteriore passaggio alla procedura prevista dallo statuto per l'elezione del presidente del consiglio comunale.
Pertanto, le disposizioni normative recate dalle citate fonti di autonomia locale, con riferimento al ballottaggio da tenersi nella terza votazione, ancorché formulate in maniera piuttosto confusa, dovrebbero essere interpretate in coerenza con la ratio che, normalmente, ispira il sistema di ballottaggio, e cioè quella di considerare eletto colui tra i candidati che abbia ottenuto il più alto numero di voti, a prescindere dal numero dei votanti (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sostituzione dimissionario durante periodo di prova.
Domanda
Se un dipendente dà le dimissioni durante il periodo di prova, l’amministrazione prima di procedere allo scorrimento della graduatoria deve procedere con le azioni di cui all’art. 30 (mobilità volontaria) e 34-bis del d.lgs. 165/2001?
Risposta
La risposta è stata recentemente affrontata da Corte conti della Lombardia con la deliberazione n. 328/2017.
I magistrati contabili hanno ritenuto che se si pone mente alla natura della procedura complessa delineata ed all’effetto sostanzialmente “surrogatorio” dell’idoneo non vincitore nella posizione del vincitore, risulta evidente come gli obblighi inerenti il ricorso alle procedure di mobilità devono essere eventualmente complessivamente adempiuti prima dell’indizione della procedura concorsuale, ovvero prima del verificarsi della fattispecie complessa che muove dall’idoneità verso l’assunzione del dipendente.
In tale ipotesi non si verifica, infatti, una fattispecie di cessazione-assunzione, ma una più ampia fattispecie complessa, al contempo unitaria, che permette in definitiva alla procedura concorsuale di realizzare, sia pure in via indiretta, lo scopo suo proprio, ovvero quello di selezionare, tramite procedura comparativa, il candidato più idoneo per il posto rimasto scoperto
(11.01.2018 - link a www.publika.it).

APPALTI: Principio della forma contrattuale.
Domanda
Nel caso di RDO o Trattativa Diretta su Mepa, dopo l’aggiudicazione della prestazione disposta con determinazione del Dirigente o responsabile di servizio competente, è necessario concludere il contratto nell’ambito del Sistema di e-Procurement?
Risposta
Tutti i contratti in cui è parte la PA devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta (ad substantiam), in assenza della quale sono nulli e pertanto improduttivi di effetti giuridici e insuscettibili di sanatoria. Ne consegue che non può configurarsi una manifestazione tacita di volontà della PA desumibile da fatti concludenti o da comportamenti meramente attuativi, o dalla semplice adozione della determinazione di aggiudicazione/affidamento.
Quest’ultimo provvedimento, infatti, si sostanzia in un atto conclusivo di un procedimento amministrativo dove sono indicate le ragioni della scelta del contraente, l’assunzione dell’impegno di spesa, la legittimazione all’organo rappresentante della pubblica amministrazione a stipulare il contratto, ma non comporta l’assunzione dell’obbligazione giuridica che sorge solo con la stipula del contratto, quale titolo autorizzativo al pagamento.
Con riferimento al quesito in premessa, è necessario rifarsi alle regole di sistema di e-procurement della pubblica amministrazione, in particolare all’art. 53 rubricato “La conclusione del contratto” dove al comma 1 si stabilisce: ”Vista la peculiarità del MEPA quale strumento interamente telematico, il “Documento di Stipula” assumerà la forma di documento informatico sottoscritto con Firma Digitale dal Soggetto Aggiudicatore. Ferma la necessità di provvedere all’invio del predetto documento ai fini del completamento della transazione elettronica, ogni Soggetto Aggiudicatore potrà adottare ulteriori forme di stipula del Contratto tra quelle previste e disciplinate dall’art. 32, comma 14, del Codice dei Contratti e provvedere contestualmente ad integrare l’apposita sezione del sistema denominata “Dati e Documenti di Stipula”.
Pertanto, nel caso di strumenti di negoziazione quali RDO (richiesta di offerta) e Trattativa diretta, è possibile, ove espressamente indicato negli atti di gara (lettera d’invito, disciplinare, condizioni particolari di RDO/Trattativa), avvalersi di diverse forme e modalità di stipulazione del contratto, scegliendo tra quelle previste dall’art. 32, comma 14, del codice dei contratti, tra le quali lo scambio di lettera commerciale (firmata digitalmente) per affidamenti di importo non superiore ad euro 40.000. Tipologia contrattuale che ai sensi degli artt. 24 e 25 della tariffa parte II del d.p.r. 642/1972, non richiede l’imposta di bollo
(10.01.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Niente regole speciali sull'attività istituzionale. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di opposizione.
Un comitato di cittadini può chiedere la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale, al fine di verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali. In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come, le cosiddette commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuel, dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione; inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al Consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata. Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Ebbene, le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della commissione garanzia e controllo deve limitarsi alle verifiche sull'attività di governo (articolo ItaliaOggi del 05.01.2018).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Parere in merito all'applicabilità del regime di pagamento sanzionatorio ridotto di cui all'art. 16, comma 1, della legge 689/1981 all'oblazione prevista per i titoli abilitativi in sanatoria dall'art. 22 della l.r. 15/2008 – Comune di Rieti (Regione Lazio, nota 03.01.2018 n. 3176 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla necessità di autorizzazione paesaggistica in ipotesi di insussistenza del bene tutelato per legge ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del d.lgs. 42/2004 – Comune di Tolfa (Regione Lazio, nota 30.11.2017 n. 610249 di prot.).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Stazioni appaltanti e centrali di committenza, compensi ai funzionari in qualità di componenti delle commissioni giudicatrici alla luce del D.lgs. 50/2016 (parere 17.10.2017-491742, AL 15147/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2017).
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1. Con nota del 14.03.2017 n. 7643, il Provveditorato Interregionale oo.PP. per la Campania, Molise, Puglia e Basilicata ha chiesto parere all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli in riferimento allo schema di convenzione per concessione di committenza predisposto in occasione dell’entrata in vigore del D.lgs. 50/2016.
In particolare, l'Amministrazione ha sottoposto i seguenti quesiti:
   a) se i funzionari del Provveditorato - Centrale di committenza - nominati dalla stessa amministrazione componenti e personale di segreteria della commissione giudicatrice di cui all’art. 77, D.lgs. 50/2016 abbiano diritto ad un compenso; quale sia il possibile criterio di quantificazione, da eventualmente distinguersi in una fase transitoria ed una definitiva, all’esito dell’emanazione del decreto ministeriale di cui all’art. 77, comma 10, del medesimo D.lgs. 50/2016;
   b) se la disciplina dell’art. 113, comma 5, del D.lgs. 50/2016 comprenda anche detti compensi;
   c) se la stessa disciplina sia immediatamente applicabile. (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Crediti erariali e riscossione coattiva in caso di somme percepite e non dovute da dipendenti p.a. a titolo di retribuzione (parere 27.09.2017-456702, AL 35753/2015 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2017).
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Con la nota a riscontro, codesta Amministrazione -premesso di trovarsi spesso a dovere recuperare a vario titolo, soprattutto in esecuzione di sentenze che riformano gradi precedenti, emolumenti erogati ai propri dipendenti e non dovuti- chiede se sia possibile attivare la procedura di iscrizione a ruolo, di cui all’art. 17 del citato D.L.vo n. 46 del 1999 per il recupero dei predetti crediti, “trattandosi … di emolumenti a carattere retributivo”. (...continua).

APPALTI: Interpretazione dell’art. 84 d.lgs. 159/2011 e modalità di valutazione dei requisiti per l’iscrizione nelle “white list” (parere 12.07.2017-351086, AL 9436/2017 -Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Codesto Ministero chiede di conoscere il parere della Scrivente Avvocatura circa le modalità di valutazione dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei fornitori e prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo d’infiltrazione mafiosa (“white list”). (...continua).

LAVORI PUBBLICI: Il regime della revisione dei prezzi negli appalti di lavori a seguito della novellata disciplina del d.lgs. 50/2016 (parere 23.01.2017-35949, AL 40294/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Codesto Ministero ha chiesto il parere di questo G.U. in ordine all’applicazione della disciplina introdotta dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante “attuazione delle direttive 2014/23/ue, 2014/24/ue e 2014/25/ue, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione delle opere abusive nelle aree naturali protette: il principio “tempus regit actum (parere 16.12.2016-593183, AL 20874/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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L’Avvocatura distrettuale in indirizzo con la nota di riferimento ha rimesso a questo G.U. il proprio parere in ordine alla questione in oggetto, sollevata dall’ente Parco ... con nota del 09.03.2016 n. 1322, ritenuta rilevante ed avente portata di massima.
In particolare, l’ente Parco ha posto il quesito se prima della entrata in vigore della legge n. 426/1998 e della legge n. 296/2006, l’acquisizione delle proprietà delle aree soggette anche a vincolo di parco e sulle quali fu commesso un abuso edilizio, si verifichi esclusivamente in capo agli enti comunali allo scadere dei novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione da questi ultimi emanata. (...continua).

APPALTI: Interpretazione e disciplina attuativa dei contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del d.lgs. 50/2016 (parere 15.12.2016-591790, AL 31387/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Con la nota che si riscontra codesta Regione ha chiesto il parere di questa Avvocatura in merito all’applicazione dell’art. 4 del d.l.vo 18.04.2016, n. 50 secondo il quale: “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficacia energetica”. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull’incombenza dell’onere del contributo unificato (parere 01.12.2016-565316, AL 23130/2009 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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In esito al quesito posto con la nota in riscontro, osserva la scrivente quanto segue.
Premesso che il contributo unificato costituisce un tributo ed, in particolare, una tassa giudiziaria correlata alla richiesta di accesso al servizio giudiziario (oggetto dell’onere di anticipazione previsto dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. 30.05.2002, n. 115) in quanto costo del processo, esso è destinato, in caso di vittoria, ad essere recuperato a carico della controparte soccombente e, in caso di soccombenza, a rimanere definitivamente a carico della parte che l’ha anticipato al momento dell’iscrizione al ruolo della causa: il suo rimborso, secondo consolidata giurisprudenza, ha natura di un’obbligazione ex lege, il cui adempimento grava sulla parte soccombente a prescindere da un’apposita statuizione al riguardo (cfr. TAR Lazio-Roma, sez. III, n. 8133 del 10.06.2015). (...continua).

APPALTI: Sull’applicazione degli interessi di mora per il ritardato pagamento di una pubblica amministrazione (parere 28.11.2016-557440, AL 38590/2012 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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È richiesto il parere della Scrivente sulla compatibilità, rispetto alla disciplina prevista dalla D.lgs. 09.10.2002, n. 231, delle clausole di contratti relativi al servizio di mensa obbligatoria per il personale ... (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: L’istituto della mediazione e il rimborso delle spese legali per i giudizi proposti nei confronti dei dipendenti delle pp.aa. (parere 18.11.2016-540803, AL 6727/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Con la nota indicata a margine Codesto Ministero formulava allo Scrivente G.U. una richiesta di parere concernente la portata applicativa dell'articolo 18, comma 1, del decreto legge 25.03.1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.05.1997, n. 135 (che disciplina l'istituto del rimborso delle spese di patrocinio legale) in relazione all'istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, disciplinato dal decreto legislativo 04.03.2010, n. 28. (...continua).

LAVORI PUBBLICI: Sulla subappaltabilità dei lavori nelle ATI verticali (parere 09.11.2016-519908, AL 38532/2015 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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Con la nota che si riscontra del 07.10.2015 (prot. CDG 0116289) codesto ente chiede di conoscere il parere in linea legale di questa Avvocatura generale in ordine alla interpretazione da riservarsi al pertinente contesto normativo rispetto alla subappaltabilità dei lavori della categoria scorporabile da parte della mandante in caso di ATI verticale. (...continua).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVIPagamenti online a tutte le p.a.. Atti e verbali inviati al domicilio digitale del cittadino. In Gazzetta Ufficiale il secondo correttivo del Cad (decreto legislativo 82 del 2005).
Le pubbliche amministrazioni, i gestori di servizi pubblici e le società a controllo pubblico, notificheranno i propri atti, compresi i verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di accertamento e di riscossione, nonché le ingiunzioni, direttamente presso i domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato. Grazie al domicilio digitale per tutti (non solo imprese, professionisti e p.a.): si dialogherà e ci si scambieranno atti con valore legale con gli strumenti dell'elettronica.
In ambito tributario, si potrà praticare ancora la notifica a mezzo posta elettronica certificata, mentre p.a. e gestori di servizi pubblici e società a controllo pubblico dovranno consentire ai cittadini di effettuare pagamenti on-line tramite una piattaforma elettronica. Anche le transazioni economiche verso le pubbliche amministrazioni e omologate dovranno essere paper less e effettuabili dalla rete con click.

A prevederlo è il decreto legislativo n. 217 del 13.12.2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 9 di ieri e in vigore dal 27 gennaio prossimo, «Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, recante modifiche e integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».
Il secondo correttivo del Cad punta ad accelerare l'attuazione dell'agenda digitale europea, dotando cittadini, imprese e amministrazioni di strumenti e servizi idonei a rendere effettivi i diritti di cittadinanza digitale. Le linee portanti del nuovo intervento legislativo sono: rafforzare la natura di «carta di cittadinanza digitale» della prima parte del Codice, concentrando in essa le disposizioni che attribuiscono a cittadini e imprese il diritto a una identità e a un domicilio digitale (si veda ItaliaOggi Sette del 2 gennaio scorso), alla fruizione di servizi pubblici online in maniera semplice e mobile-oriented, a partecipare effettivamente al procedimento amministrativo per via elettronica e a effettuare pagamenti online; garantire maggiore certezza giuridica in materia di formazione, gestione e conservazione dei documenti digitali; rafforzare l'applicabilità dei diritti di cittadinanza digitale e accrescere il livello di qualità dei servizi pubblici e fiduciari in digitale; promuovere un processo di valorizzazione del patrimonio informativo pubblico e garantire un utilizzo più efficace dei dati pubblici attraverso moderne soluzioni di data analysis (articolo ItaliaOggi del 13.01.2018).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, obblighi pieni. Nessuna deroga anche se il datore fa da sé. Nota Inl sui casi di svolgimento diretto dei compiti di prevenzione.
Far da sé non sconta gli obblighi sulla sicurezza. Infatti, lo svolgimento diretto dei compiti di primo soccorso e di prevenzione incendi da parte del datore di lavoro, non lo esonera dagli obblighi di designare i lavoratori addetti alla sicurezza e di adottare le misure di prevenzione.

Lo precisa l'Ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 11.01.2018 n. 1/2018.
Compiti diretti. La precisazione riguarda le ipotesi in cui il datore di lavoro, adeguatamente formato, decida di svolgere da sé i compiti di primo soccorso, di prevenzione incendi e di evacuazione. Cosa che, fino alla riforma del Jobs act, era possibile solo nelle imprese o unità produttive fino a cinque dipendenti e fermo restando l'obbligo, per il datore di lavoro, di partecipare a specifici corsi di formazione per gli addetti antincendio e per gli addetti al primo soccorso.
Il dlgs n. 151/2015, modificando la normativa (art. 34 del dlgs n. 81/2008, il TU sicurezza), ha rimosso il limite di applicabilità di tale facoltà, riconoscendo la possibilità anche alle imprese con oltre cinque lavoratori.
Il chiarimento. In merito allo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione, l'ispettorato precisa che tale facoltà «non significa che lo stesso svolga tali compiti da solo, né che sia esonerato dal rispettare gli specifici obblighi previsti in capo al datore di lavoro dall'articolo 18» del Tu sulla sicurezza.
Nello specifico, aggiunge l'Inl, il datore di lavoro ha l'obbligo di «designare i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza» (art. 18, comma 1, lett. b), e ha l'obbligo di «adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell'evacuazione dei luoghi lavoro, nonché le misure per i casi di pericolo grave e immediato».
Le misure, spiega inoltre l'Inl, devono essere adeguate alla natura dell'attività, alle dimensioni dell'azienda o dell'unità produttiva e al numero delle persone presenti; mentre, ai fini delle designazioni dei lavoratori, il datore di lavoro deve tenere conto delle dimensioni dell'azienda e dei rischi specifici.
In conclusione, il fatto che il datore di lavoro possa svolgere determinati compiti in materia di sicurezza, non comporta che possa operare in totale autonomia nello svolgimento di tali compiti (articolo ItaliaOggi del 13.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVisite fiscali. P.a., online i verbali dell'Inps.
Online i dati sulle visite medico-fiscali operate dall'Inps nei confronti dei dipendenti pubblici. Le amministrazioni possono visualizzare, dal sito dell'istituto previdenziale, gli accertamenti eseguiti a partire dal 01.09.2017.

Lo spiega lo stesso Inps nel messaggio 12.01.2018 n. 137.
Polo unico. La novità è parte dell'implementazione dei servizi Inps dopo la costituzione del Polo unico per le visite fiscali, operativo dal 1° settembre scorso (dlgs n. 75/2017), tra i quali è previsto che l'istituto effettui anche d'ufficio, oltre che su richiesta da parte del datore di lavoro, i controlli medico legali nei confronti dei lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
L'Inps spiega di aver effettuato visite mediche di controllo domiciliare e ambulatoriale su iniziativa propria nei casi ritenuti utili per verificare lo stato di effettiva incapacità temporanea al lavoro dei dipendenti.
Dati online. In relazione a tali visite l'Inps ha aggiornato gli applicativi su internet per consentire ai datori di lavoro pubblici la visualizzazione, tramite sito, delle visite d'ufficio effettuate nei confronti dei loro dipendenti e dei relativi esiti. Al datore di lavoro pubblico, spiega l'Inps, spetta l'onere di valutare la giustificabilità dell'eventuale assenza del lavoratore alla visita fiscale. A tal fine può acquisire, per il tramite del lavoratore, il parere tecnico fornito dagli uffici medico legali dell'Inps.
Il servizio online di consultazione degli esiti delle visite fiscali dell'Inps è rivolto ai datori di lavoro pubblici (o consulenti delegati), i quali possono accedervi solo se in possesso di un Pin rilasciato dallo stesso Inps o di una Carta Nazionale dei Servizi o di un'identità Spid almeno di livello 2 con abilitazione.
L'applicazione è raggiungibile all'indirizzo www.inps.it, ricercando il servizio «Richiesta di visite mediche di controllo». Previa autenticazione, si può accedere alla funzione «Esiti Visite d'Ufficio per la p.a.» esposta sull'home page del portale (articolo ItaliaOggi del 13.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, stabilizzazioni al via. Sono circa 20 mila i lavoratori precari da assumere. L'Anci detta le istruzioni. Possibile avviare le procedure anche senza Piano dei fabbisogni.
Il posto fisso potrà diventare realtà per circa 20.000 dipendenti comunali. Numeri importanti, frutto del blocco del turnover, solo di recente superato, che per dieci anni ha ingessato il rinnovamento degli organici municipali.

Sarà questo, secondo le stime dell'Anci, l'impatto occupazionale delle nuove norme sulla stabilizzazione dei precari dal 01.01.2018 e per il prossimo triennio. Regole già previste dalla riforma del T.u. sul pubblico impiego voluta dalla ministra Marianna Madia (dlgs n. 75/2017) e potenziate dall'ultima legge di bilancio (n. 205/2017).
L'Anci ha diffuso la nota tecnica prot. n. 2/VSG/SD/AB/2018 (Oggetto: “Misure in materia di valorizzazione dell’esperienza professionale del personale con contratto di lavoro flessibile e superamento del precariato) per supportare i comuni nelle scelte delle procedure più idonee.
In materia di assunzioni, infatti, si sono stratificate numerose normative che restano ancora applicabili. Dalla proroga fino a tutto il 2018 delle graduatorie e delle procedure di stabilizzazione ai sensi del dl 101/2013 fino ai piani straordinari di reclutamento di cui al dl 113/2016 prorogati al 2020 con riferimento al personale educativo e docente.
Sul punto la nota dell'Anci, richiamando la circolare n. 3/2017 sul superamento del precariato emanata a fine novembre dalla Funzione pubblica, ricorda che sono ammessi a partecipare alle nuove procedure anche coloro che hanno già partecipato alle procedure speciali bandite in applicazione delle altre disposizioni di legge, a condizione ovviamente che abbiano i requisiti richiesti. Quali?
L'art. 20 del T.u. Madia distingue, a seconda dei casi, il personale (non dirigenziale) che potrà essere stabilizzato anche senza concorso da coloro che invece dovranno necessariamente passare attraverso nuove procedure concorsuali riservate.
Nel primo caso, per poter accedere alla stabilizzazione, il personale precario dovrà:
   - risultare in servizio successivamente al 28.08.2015 (data di entrata in vigore della delega Madia) con contratto di lavoro a tempo determinato;
   - essere stato reclutato con concorso;
   - aver maturato al 31.12.2017 almeno tre anni, anche non continuativi, negli ultimi otto alle dipendenze dell'amministrazione che procede all'assunzione.
Dovranno invece necessariamente superare procedure concorsuali riservate, i precari assunti senza concorso, titolari al 28.08.2015 di un contratto di lavoro flessibile (non solo contratti a tempo determinato ma anche co.co.co., con la sola esclusione dei contratti di somministrazione lavoro). Anche per questa categoria di lavoratori varrà l'ulteriore requisito della maturazione, al 31.12.2017, di almeno tre anni di contratto, anche non continuativi, negli ultimi otto, presso l'amministrazione che bandisce il concorso.
Stabilizzazioni anche senza piani dei fabbisogni di personale. Un importante chiarimento, contenuto nella circolare di palazzo Vidoni e ripreso dalla nota dell'Anci, riguarda la possibilità per le pubbliche amministrazioni di dar seguito alle procedure di stabilizzazione di cui all'art. 20 del dlgs 75/2017 anche nelle more dell'adozione delle linee di indirizzo per la predisposizione dei piani di fabbisogno di personale.
Ai sensi dell'art. 22 del dlgs, infatti, in sede di prima applicazione della riforma, il divieto di procedere ad assunzioni in assenza del piano triennale dei fabbisogni si applicherà solo a decorrere dal 30.03.2018 e comunque solo decorso il termine di 60 giorni dalla pubblicazione delle linee di indirizzo.
Le scelte a cui i sindaci saranno chiamati nei prossimi mesi riguarderanno innanzitutto se fare o meno ricorso alle procedure di cui all'art. 20 e, in caso affermativo, il coordinamento delle nuove stabilizzazioni con quelle già eventualmente avviate sulla base della normativa previgente.
Gli enti, suggerisce l'Anci, dovranno definire le opzioni più funzionali alle proprie esigenze, tenendo conto dei propri fabbisogni e disponibilità finanziarie e, da ultimo, valutando l'opportunità di ampliare le capacità assunzionali da turnover trasferendo una quota del budget da lavoro flessibile nella spesa a regime di personale (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

LAVORI PUBBLICI: Dibattito pubblico sugli appalti. Aeroporti, strade, industrie: consultazione obbligatoria. È in parlamento per il parere il dpcm che dà attuazione alla riforma dei contratti.
Per le opere pubbliche più rilevanti, quali aeroporti, strade extraurbane, tronchi ferroviari, porti commerciali, insediamenti industriali con dietro investimenti per oltre 300 milioni di euro, diverrà obbligatorio il dibattito pubblico, cioè la consultazione dei cittadini interessati dagli interventi.
Il débat public, mutuato dall'esperienza francese, sarà invece facoltativo, e su iniziativa dell'amministrazione, per opere di particolare interesse sociale, ambientale, culturale per le città e per il territorio. Lo scopo è sempre uguale: «Migliorare la qualità della progettazione e l'efficacia delle decisioni pubbliche». E la durata della procedura sarà al massimo di quattro mesi, prorogabile di due.

È quanto stabilisce il decreto (Atto del Governo n. 494 - Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recante regolamento concernente modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico) sul dibattito pubblico (o débat public), attuativo dell'articolo 22, comma 2, del codice dei contratti pubblici che regola la procedura di consultazione pubblica, trasmesso dalla presidenza del consiglio dei ministri alla camera dei deputati per il prescritto parere.
Il testo, uno degli assi portanti della riforma dei contratti pubblici del 2016, si occupa di stabilire, in relazione ai nuovi interventi avviati dopo la data di entrata in vigore del decreto, i criteri per l'individuazione delle opere, distinte per tipologia e soglie dimensionali, per le quali è obbligatorio il ricorso alla procedura di dibattito pubblico e di delineare le modalità di svolgimento e il termine di conclusione della medesima procedura.
Il decreto ha avuto una lunga gestazione ed è stato oggetto di diverse modifiche rispetto alla bozza approvata dal ministero proponente (quello delle infrastrutture e trasporti, guidato da Graziano Delrio) a fine novembre. Il dibattito pubblico sarà quindi obbligatorio per le opere indicate nell'allegato 1 in relazione ad alcuni parametri dimensionali variabili a seconda della tipologia delle opere. Non si farà invece per le opere inerenti la difesa e la sicurezza nazionale, per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauri, adeguamenti tecnologici e completamenti e per le opere già sottoposte a procedure preliminari di consultazione pubblica sulla base del Regolamento (Ue) n. 347 del 17.04.2013.
Le amministrazioni potranno però indire su propria iniziativa il dibattito pubblico quando rilevino l'opportunità di assicurare una maggiore partecipazione, in relazione alla specificità degli interventi in termini di rilevanza sociale, impatto sull'ambiente, sul patrimonio culturale e il paesaggio, sulle città e sull'assetto del territorio.
Il decreto prevede che il dibattito pubblico si apra nella fase di elaborazione del progetto di fattibilità quando le alternative progettuali sono ancora aperte e il proponente può ancora modificare il progetto. In particolare si apre sul «documento delle alternative progettuali» e i risultati del dibattito pubblico concorrono all'elaborazione del progetti di fattibilità. La durata del dibattito è stabilita in quattro mesi (prorogabili come detto di ulteriori due mesi nel caso di comprovata necessità).
Il dibattito pubblico è preceduto da una fase dedicata alla progettazione del processo decisionale della durata massima di tre mesi. Esso, organizzato e gestito in relazione alle caratteristiche dell'intervento e alle peculiarità del contesto sociale e territoriale di riferimento, consiste in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, in particolare nei territori direttamente interessati dall'opera e nella raccolta di proposte e posizioni da parte di cittadini, associazioni, istituzioni (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIDirettori lavori, incarichi dopo il collaudo.
Il direttore dei lavori non potrà accettare incarichi dall'impresa di costruzioni fino al collaudo; se ha incarichi in corso li deve segnalare alla stazione appaltante che deciderà sulla loro incidenza e rilevanza.

È questo uno dei punti del decreto (Atto del Governo n. 493 - Schema di decreto ministeriale recante regolamento di approvazione delle linee guida concernenti le modalità di svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore dell'esecuzione dei contratti relativi a servizi o forniture ) sulla direzione lavori e sulla contabilità dei lavori che è stato inviato dalla presidenza del Consiglio dei ministri alla camera per il parere di rito, prima dell'invio al Consiglio di stato.
Le commissioni parlamentari si possono infatti esprimere, ancorché a camere sciolte: è stato infatti chiarito che sono ricevibili gli atti trasmessi dal governo e che quindi è consentita alle commissioni, per prassi costante, l'espressione di pareri, ai sensi degli articoli 96-ter e 143, comma 4, del regolamento della camera. Stessa cosa al senato. Nel merito il provvedimento, che ha la forma di un decreto ministeriale, sulla base di una proposta dell'Anac, l'Authority anticorruzione, sostituirà le disposizioni regolamentari del dpr 207/2010 (ancora provvisoriamente in vigore) sulla direzione e contabilità dei lavori.
Fra i diversi punti trattati anche quello sulle incompatibilità del direttore dei lavori cui sarà precluso, dal momento dell'aggiudicazione e fino al collaudo, di accettare nuovi incarichi professionali dall'esecutore. Sugli incarichi già in essere il testo precisa che la compresenza di un rapporto con l'impresa non è, in sé, elemento ostativo allo svolgimento dell'incarico di direzione lavori. Il direttore dei lavori, una volta conosciuta l'identità dell'impresa aggiudicataria, deve però segnalare l'esistenza di rapporti in corso con l'impresa; sarà poi onere della stazione appaltante valutare «l'incidenza di detti rapporti sull'incarico da svolgere».
Il parametro da adottare per questa valutazione è quello indicato al comma 4 dell'articolo 42 del codice che rinvia, anche per la fase di esecuzione del contratto, alle incompatibilità normativamente previste per la fase di aggiudicazione dell'appalto o della concessione. La stazione appaltante dovrà quindi valutare se il rapporto in corso fra direttore dei lavori e impresa, «direttamente o indirettamente», possa «essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza» nel contesto della fase di esecuzione. In caso di mancata astensione dall'assunzione dell'incarico, se il direttore dei lavori è interno alla stazione appaltante, l'articolo 42, fatte salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale, prevede che scatti la responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico. Importante è anche la parte del testo che definisce la materia delle varianti in corso d'opera, disciplinate in via generale dall'articolo 106 del codice dei contratti pubblici (modifiche ai contratti in corso).
In particolare per le varianti che non superano il 20% del valore del contratto viene prevista la stipula di un «atto di sottomissione» dell'impresa per eseguire o non eseguire (con motivato dissenso) i lavori di cui alla perizia di variante, ma senza obbligo di eseguire i lavori alle stese condizioni del contratto originario, il che sembra aprire alla possibilità, per esempio, di fissare nuovi prezzi (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2018).

APPALTI SERVIZIAlbo gestori ambientali solo per chi è in regola col Durc.
L'iscrizione all'Albo gestori ambientali può essere concessa alle sole imprese in regola col pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori (Durc). Trascorsi 30 giorni dalla prima richiesta di verifica, tramite il servizio «Durc On line», senza riscontro positivo, le sezioni regionali debbono negare l'iscrizione o cancellare le imprese iscritte all'albo gestori ambientali.

Questi i chiarimenti forniti dal comitato nazionale dell'albo gestori ambientali, con la circolare 08.01.2018 n. 31 di prot., alla luce della disciplina contenuta nel dm 30.01.2015 (semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva) che consente di chiarire tempestivamente e telematicamente la regolarità contributiva delle imprese.
Laddove il sistema evidenzi esposizioni debitorie per contributi e/o sanzioni civili, e non è possibile attestare la regolarità contributiva in tempo reale, viene trasmesso tramite Pec, all'interessato o al soggetto da esso delegato (articolo 1 della legge 11.01.1979, n. 12), l'invito a regolarizzare con indicazione analitica delle cause di irregolarità rilevate da ciascuno degli enti tenuti al controllo. L'interessato, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun ente, può regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni dalla notifica dell'invito. Il sistema pertanto, riporta l'informazione dell'apertura di una fase istruttoria con la dicitura «verifica in corso».
L'invito a regolarizzare impedisce ulteriori verifiche e ha effetto per tutte le interrogazioni intervenute durante il predetto termine di 15 giorni e comunque per un periodo non superiore a 30 giorni dall'interrogazione che lo ha originato. Decorso inutilmente il termine di 15 giorni la risultanza negativa della verifica è comunicata ai soggetti che hanno effettuato l'interrogazione con indicazione degli importi a debito e delle cause di irregolarità (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe regole sul computo delle quote disabili valgono anche per la p.a..
Le regole sul computo nella quota di riserva dei lavoratori già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro (anche se non assunti tramite collocamento obbligatorio) e di coloro divenuti disabili nello svolgimento delle proprie mansioni si applicano anche alle pubbliche amministrazioni.

Il chiarimento, non scontato visti i numerosi dubbi interpretativi sollevati in passato sul punto, arriva dall'Accordo tra governo, regioni ed enti locali sancito in Conferenza unificata lo scorso 21 dicembre.
L'intesa, disponibile sul portale dell'Anci (www.anci.it), chiarisce alcune fattispecie che hanno dato adito nel corso degli anni ad interpretazioni difformi e difficoltà operative con particolare riferimento ai criteri di computo delle quote d'obbligo per i lavoratori disabili.
Sono quindi valide anche per le p.a. le norme contenute nell'art. 4, commi 3-bis e 4 della legge 12.03.1999 n. 68 («Norme per il diritto al lavoro dei disabili»). Il comma 3-bis, in particolare, dispone che i lavoratori, già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite collocamento obbligatorio, «sono computati nella quota di riserva nel caso in cui abbiano una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60%» o minorazioni ascritte dalla prima alla sesta categoria di cui alle tabelle annesse al T.u. delle norme in materia di pensioni di guerra o ancora con disabilità intellettive con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%.
Viceversa, nella predetta quota di riserva non possono essere computati i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle mansioni a seguito di infortunio o malattia se hanno subìto una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60%o, comunque, se sono divenuti inabili a causa dell'inadempimento, da parte del datore di lavoro, delle norme in materia di sicurezza e igiene. Per questa categoria di lavoratori, prosegue l'art. 4, comma 4 della legge n. 68/1999, «l'infortunio o la malattia non costituisce giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti o a mansioni inferiori».
E in caso di destinazione a mansioni inferiori, il lavoratore non subirà alcuna riduzione di stipendio, avendo infatti diritto «alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». Qualora non sia possibile l'assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, il lavoratore verrà avviato «ad attività compatibili con le residue capacità lavorative» senza essere inserito nella graduatoria delle persone disabili in cerca di lavoro di cui all'art. 8 delle legge (articolo ItaliaOggi del 10.01.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri al 2019. Contributi subito. Sanzioni sospese fino al 31/12. Adesioni da regolarizzare. Con la manovra slitta ancora la piena operatività del sistema di tracciabilità dei rifiuti.
Nuovo rinvio della piena operatività del Sistri, il sistema di tracciamento telematico dei rifiuti, ma con il parallelo avvio delle procedure per la regolarizzazione dei contributi di adesione non pagati.

Queste, assieme alla digitalizzazione delle scritture ambientali tradizionali e la nuova modulistica per la denuncia ambientale «Mud» da presentare entro il prossimo aprile 2018 le novità sul tracciamento rifiuti introdotte da due provvedimenti di fine 2017: la legge 27.12.2017 n. 205 (Bilancio 2018) e il Dpcm 28.12.2017.
La proroga Sistri. In base all'articolo 11 del dl 101/2013, come riscritto dalla legge 205/2017 (S.o. n. 62 alla G.U. del 29.12.2017 n. 302, in vigore dal 01.01.2018), «fino alla data del subentro nella gestione del servizio da parte del concessionario individuato con le procedure di cui al comma 9-bis (del dlgs 152/2006, ndr), e comunque non oltre il 31.12.2018»: non si applicano le sanzioni del Codice ambientale che puniscono omesso tracciamento Sistri dei rifiuti e inadempimenti connessi (articoli 260-bis, commi da 3 a 9, e 260-ter del dlgs 152/2006); si applicano, retroattivamente a decorrere dal 2015 ma con riduzione del 50%, le sanzioni dello stesso Codice per mancata iscrizione al Sistri e/o omesso versamento del contributo (260-bis, commi 1 e 2, stesso dlgs); continuano ad applicarsi gli adempimenti relativi alla tenuta di registri di carico/scarico rifiuti, formulario di trasporto, denuncia annuale Mud e relative sanzioni previsti dal dlgs 152/2006 nel testo previgente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010.
Dunque, i soggetti tenuti ad aderire al Sistri (grandi produttori di rifiuti speciali pericolosi, gestori professionali di pericolosi, enti e imprese della regione Campania gestori anche di urbani) o a esso iscritti su base volontaria dovranno continuare a effettuare il tracciamento dei rifiuti sia in base al sistema tradizionale che in base al Sistri e continueranno fino alla scadenza del primo dei due termini indicati a essere sanzionabili solo per irregolarità relative agli obblighi di «immatricolazione Sistri» e per inosservanza delle ordinarie regole sulle scritture «pre Sistri». In relazione ai termini iniziali della piena operatività del Sistri, l'alternativa al 01.01.2019 è dunque rappresentata dal «subentro nella gestione del servizio» da parte del nuovo concessionario.
In merito si ricorda che l'individuazione del nuovo gestore avvenuta l'01/02/2017 è stata impugnata innanzi al Tar Lazio, che con ordinanza 7610/2017 ha fissato la relativa udienza di merito nel 24.01.2017. Nelle more della risoluzione delle controversie è comunque garantita la continuità gestoria dell'attuale concessionaria, assicurata dalla legge 205/2017 nei medesimi termini della proroga sulla piena operatività del sistema.
La regolarizzazione dei contributi non pagati. Con la legge 205/2017 esordisce nel Codice ambientale un nuovo articolo 194-bis, dedicato, tra le altre, al «recupero dei contributi dovuti per il Sistri». Si prevede che con decreto di natura non regolamentare del Minambiente saranno definite le procedure per il recupero dei contributi dovuti e non corrisposti nonché per la gestione delle richieste di rimborso o di conguaglio da parte di utenti Sistri. Il decreto definirà, tra le altre, modalità semplificate per la regolarizzazione della posizione contributiva e strumenti di conciliazione giudiziale.
La regolarizzazione delle posizioni all'esito di tali procedure determinerà l'estinzione delle relative sanzioni per l'omesso pagamento previste dall'articolo 260-bis, comma 2, del dlgs 152/2006 e non comporterà il pagamento di interessi. L'azione di recupero interesserà i contributi ancora esigibili in base ai termini di prescrizione ordinaria ex articolo 2946 del codice civile (che, essendo decennale, promette di azionare tutti i diritti di credito insoddisfatti).
Digitalizzazione del tracciamento tradizionale rifiuti. Sempre nell'esordiente articolo 194-bis del Codice ambientale trovano collocazione le norme dedicate alla «Semplificazione del procedimento di tracciabilità dei rifiuti», che prevedono l'informatizzazione delle tradizionali scritture di tracciamento dei rifiuti.
In primo luogo si prevede infatti, in attuazione del dlgs 82/2005 (recante il Codice dell'amministrazione digitale) che la compilazione e tenuta sia del registro di carico e scarico rifiuti che del formulario di trasporto possano essere effettuati in formato digitale.
In secondo luogo si stabilisce che il Minambiente «può» con proprio decreto predisporre il formato digitale degli adempimenti relativi alle suddette due scritture (previste, rispettivamente, dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006).
In terzo luogo viene stabilito che la trasmissione della quarta copia del formulario di trasporto dei rifiuti (da parte del destinatario finale al detentore iniziale) è consentita (evidentemente ai fini probatori ex articolo 188 del dlgs 152/2006) anche mediante posta elettronica certificata.
Il nuovo Mud. Vigenti e pienamente operativi, anche per i soggetti Sistri, i tradizionali strumenti di tracciamento rifiuti, con Dpcm 28.12.2017 (S.o. n. 64 alla G.U. del 30.12.2017 n. 303) il legislatore di fine anno ha dettato il nuovo «Modello unico di dichiarazione ambientale» che dovrà essere utilizzato per la rituale comunicazione rifiuti e connessi beni da effettuarsi entro il prossimo 30 aprile.
Al centro della rinnovata modulistica vi è la scheda «Scheda Sbop – Immissione sul mercato borse di plastica», inserita nella «Comunicazione imballaggi – Sezione Consorzi», introdotta per allineare la modulistica alle disposizioni del dl 91/2017 di attuazione della direttiva 2015/720/Ue sulla riduzione dell'utilizzo di borse di plastica in materiale ultraleggero.
La scheda dovrà essere utilizzata per comunicare le quantità di borse di plastica, suddivise per tipologia (leggere, ultraleggere, oxodegradabili, biodegradabili e compostabili, altre) immesse nel mercato nel 2017. In tema si ricorda infatti che in base all'articolo 226-ter del Codice ambientale «dal 01.01.2018, possono essere commercializzate esclusivamente le borse biodegradabili e compostabili e con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%».
Il nuovo modello da utilizzare per comunicare alla p.a. entro il 30.04.2018 i rifiuti prodotti e/o gestiti e i nuovi beni ambientalmente sensibili immessi sul mercato nel corso del 2017 sostituisce quello recato dal dpcm 17.12.2014 e successive modifiche e integrazioni, apportate dal successivo dpcm 21.12.2015. Obbligati alla «comunicazione rifiuti», lo ricordiamo, sono: produttori e gestori di rifiuti ex articoli 189 del dlgs 152/2006 (nella versione precedente al dlgs 205/2010) e 220 dello stesso Codice; gestori di rifiuti portuali ex dlgs 182/2003. Obbligati alla «comunicazione veicoli fuori uso» i gestori dei rifiuti di settore ex dlgs 209/2003.
Obbligati alla «comunicazione imballaggi» sono i Consorzi e i gestori degli impianti di trattamento di rifiuti di imballaggio individuati dall'articolo 220 e seguenti del dlgs 152/2006. Obbligati alla comunicazione «Raee» (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) e sottese «Aee» interessa invece, rispettivamente, impianti di trattamento rifiuti e produttori/venditori di nuove apparecchiature individuati dal dlgs 49/2014. Obbligati alla comunicazione «Rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione», infine, i soggetti istituzionali responsabili dei servizi di gestione integrata dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAddio alle co.co.co. nella p.a.. Nonostante il divieto ex riforma Madia venga rinviato. MANOVRA 2018/ Un errore di coordinamento sterilizza la disposizione della legge 205.
Niente collaborazioni coordinate e continuative nella pubblica amministrazione, nonostante la proroga degli effetti del divieto disposto dalla riforma Madia, prevista dalla legge 205/2017 (legge di bilancio 2018).

L'articolo 1, comma 1148, lettera h), della manovra di bilancio ha modificato l'articolo 22, comma 8, del dlgs 75/2017, che adesso dispone: «Il divieto di cui all'articolo 7, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come introdotto dal presente decreto, si applica a decorrere dal 01.01.2019».
Il divieto di cui tratta l'articolo 22, comma 8, novellato, del dlgs 75/2017 è appunto quello stabilito dall'articolo 7, comma 5-bis, del dlgs 165/2001, introdotto sempre dalla riforma Madia, ai sensi del quale «è fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». Prescrizione accompagnata anche dalla nullità dei contratti stipulati e da pesanti responsabilità erariali e dirigenziali per i dirigenti che non la rispettino.
In apparenza, il rinvio all'01.01.2019 dell'operatività del divieto posto alle pubbliche amministrazioni di avvalersi di contratti di collaborazione coordinata e continuativa consentirebbe loro di stipulare i relativi contratti per tutto il 2018.
Tuttavia, il legislatore della legge di bilancio per il 2018 è incorso nel medesimo errore di coordinamento tra articolo 22, comma 8, del dlgs 75/2017 e testo dell'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, come modificato dal medesimo dlgs 75/2016. Di che si tratta?
L'articolo 7, comma 6, nel testo precedente alla riforma Madia prevedeva che «per specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità». Come si nota, la norma consentiva espressamente di avvalersi di contratti aventi «natura occasionale o coordinata e continuativa». Queste ultime parole, però, sono state cancellate esattamente dalla riforma Madia.
Pertanto, anche se il divieto di stipulare contratti di collaborazione posto dall'articolo 7, comma 5-bis, è rinviato all'01.01.2019, in realtà l'abolizione della facoltà di stipulare contratti di natura occasionale o coordinata e continuativa rende da subito impossibile per le pubbliche amministrazioni attivare co.co.co. anche nel 2019. Per altro, sempre la riforma Madia ha eliminato anche, nel corpo del comma 6 dell'articolo 7, alla lettera d), la determinazione del «luogo» di lavoro, allo scopo di escludere un indicatore di un contratto etero-diretto.
L'interpretazione coordinata delle disposizioni ricordate sopra porta a concludere che le amministrazioni possano comunque attivare esclusivamente contratti di lavoro autonomo veri e propri, privi dell'elemento del coordinamento del committente, della continuità intesa come dedizione personale all'attività costante nel tempo, nonché della fissazione del luogo di lavoro, proprio perché la norma che consente di avvalersi delle collaborazioni esterne, l'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, non prevede più espressamente la possibilità di avvalersi di collaborazioni coordinate e continuative (articolo ItaliaOggi del 04.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Risparmio energetico a dieta. È ridotta al 50% la detrazione per gli interventi. MANOVRA 2018/ L'agevolazione per gli acquisti e la posa in opera degli infissi.
Con la manovra 2018 ridotta al 50% la detrazione per gli interventi di risparmio energetico relativi agli acquisti e posa in opera di finestre, compresi gli infissi, di schermature solari e di impianti di climatizzazione invernale con caldaie a condensazione.
I commi da 344 a 349, dell'art. 1, legge 296/2006 (Finanziaria 2007) avevano introdotto una detrazione d'imposta, in misura pari al 55% delle spese documentate, sostenute entro il 31/12/2007, con riferimento a determinati interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici esistenti.
Successivamente, per effetto di un susseguirsi di proroghe e modifiche alla originaria disposizione normativa, il legislatore ha fissato, in relazione alle spese sostenute dal 06/06/2013 al 31/12/2017, nella misura del 65% la detta detrazione (legge di Bilancio 2017).
La detrazione in commento spetta alle persone fisiche, agli enti e ai soggetti di cui all'art. 5, dpr 917/1986 (Tuir), non titolari di reddito d'impresa, che sostengono le spese per l'esecuzione dei previsti interventi sugli edifici esistenti, su parti di edifici esistenti o su unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, posseduti o detenuti, ma anche ai soggetti titolari di reddito d'impresa che sostengono le spese per l'esecuzione dei previsti interventi sugli edifici esistenti, su parti di edifici esistenti o su unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, posseduti o detenuti.
La legge di Bilancio 2018 (205/2017), nel confermare la detrazione per gli interventi di efficienza energetica per il prossimo anno, ritocca al ribasso, la percentuale del 65% applicabile alla generalità dei detti interventi, per talune spese; restano impregiudicate tutte le precisazioni già fornite e, soprattutto, le modalità di sostenimento e di pagamento (bonifici), nonché di comunicazione all'Enea (90 giorni dalla fine dei lavori), mentre il limite massimo di detrazione, a seconda dell'intervento effettuato, deve essere riferito all'unità immobiliare oggetto dell'intervento e, di conseguenza, deve essere suddiviso tra i soggetti detentori o possessori dell'immobile che partecipano alla spesa, in ragione dell'onere da ciascuno effettivamente sostenuto.
La detrazione nella misura piena (65%) spetta anche, e questa è una novità, per l'acquisto e la posa in opera di micro-cogeneratori, in sostituzione di impianti esistenti, con un valore massimo della detrazione pari a euro 100 mila, sempreché gli interventi realizzino un risparmio di energia primaria (Pes) entro determinati valori.
L'aliquota ridotta del 50% si rende applicabile, invece, per le spese sostenute fino al 31/12/2018 relative agli interventi di acquisto e posa in opera di finestre, comprensive di infissi e di schermature solari, di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione o dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili; la detrazione resta ancora al 65% per gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione di efficienza pari almeno alla classe «a» di prodotto, di cui al regolamento 911/2013/UE e contestuale installazione di sistemi di termoregolazione evoluti.
La detrazione, nella misura del 50%, inoltre, è fruibile per le spese relative all'acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, per un ammontare massimo di 30 mila euro.
Sono, inoltre, esclusi dalla detrazione citata gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione inferiore alla classe «A» di prodotto, di cui al regolamento 811/2013/Ue.
Con riferimento alle spese sostenute per gli interventi di riqualificazione energetica per le parti a comune nel periodo intercorrente tra l'01/01/2017 e il 31/12/2021, il beneficiario «incapiente», di cui al comma 2, dell'art. 11 e della lettera a), comma 1 e lettera a), comma 5, dell'art. 13, dpr 917/1986 (Tuir) in luogo della detrazione possono eseguire a terzi la cessione del bonus.
Il nuovo comma 3-ter, inserito nell'art. 14, dl 63/2013, prevede che, con uno o più decreti interministeriali del ministero dello sviluppo economico, congiuntamente con il ministero dell'ambiente e delle infrastrutture e dei trasporti, siano definiti i necessari requisiti tecnici degli interventi agevolati, indicati nel medesimo articolo, nonché i massimali di spesa di ogni singola tipologia.
In effetti, a differenza degli interventi di ristrutturazione edilizia, il tetto di spesa è, da sempre, variabile in base alla tipologia dei vari interventi e quindi, la detrazione, comunque da spalmare in dieci annualità, può risultare di ammontare diverso, pur mantenendo la stessa percentuale di detrazione (50% o 65%) (articolo ItaliaOggi del 04.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., stretta contro i finti malati. Visite fiscali ripetute anche in prossimità del weekend. In Gazzetta Ufficiale il decreto con le nuove modalità di effettuazione dei controlli.
Visite fiscali sistematiche e ripetute, anche più volte al giorno e anche in prossimità dei giorni festivi o di riposo, sui dipendenti pubblici assenti dal lavoro per malattia.

A prevederlo è il decreto 17.10.2017, n. 206 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29.12.2017) che, in attuazione della riforma Madia della pubblica amministrazione, individua le modalità che dal 13 gennaio dovranno essere adottate per lo svolgimento dei controlli medici sui dipendenti assenti per malattia, a seguito della creazione del Polo Unico sulle visite fiscali in capo all'Inps dallo scorso 01.09.2017.
La visita fiscale può essere richiesta telematicamente dalla pubblica amministrazione fin dal primo giorno di assenza dal servizio per malattia all'Inps che procede all'assegnazione della visita ai medici incaricati.
Lo stesso ente di previdenza potrà disporre le visite di propria iniziativa, sulla base di un sofisticato «data mining» che elaborerà serie storiche di decine di milioni di casi di malattia, in modo da selezionare gli eventi più passibili di riduzione della prognosi.
Il lavoratore deve garantire la sua reperibilità dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18 (il decreto non ha previsto l'armonizzazione con il settore privato, dove le fasce orarie vanno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19), anche nei giorni non lavorativi e festivi. Sono esclusi dall'obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali l'assenza è dovuta a patologie gravi che richiedono terapie salvavita, causa di servizio con menomazioni gravi, stati patologici sottesi o connessi a situazioni di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%. Se la visita fiscale non viene effettuata per assenza del lavoratore all'indirizzo indicato, il medico (dopo aver dato comunicazione immediata all'amministrazione che ha richiesto il controllo) rilascia un apposito invito a visita ambulatoriale per il primo giorno utile presso l'Ufficio medico legale dell'Inps competente per territorio.
Dell'esito della visita il medico deve redigere apposito verbale con la valutazione medico legale relativa alla capacità o incapacità al lavoro riscontrata. Valutazione che il dipendente può non accettare, eccependo il proprio dissenso seduta stante. Il medico deve a quel punto annotare sul verbale il dissenso che deve essere sottoscritto dal dipendente e contestualmente invitare lo stesso a sottoporsi a visita fiscale, nel primo giorno utile, presso l'Ufficio medico legale dell'Inps competente per territorio, per il giudizio definitivo. In caso di rifiuto a firmare del dipendente, il medico fiscale informa tempestivamente l'Inps e predispone apposito invito a visita ambulatoriale. Il verbale è poi trasmesso telematicamente all'Inps per le attività di competenza e viene messo a disposizione del dipendente mediante apposito servizio telematico, nonché reso tempestivamente disponibile, attraverso il Portale dell'Istituto, al datore di lavoro pubblico.
Il decreto precisa infine che per la ripresa dell'attività lavorativa, per guarigione anticipata rispetto al periodo di prognosi inizialmente indicato nel certificato di malattia, il dipendente è tenuto a richiedere un certificato sostitutivo che va redatto dallo stesso medico che ha rilasciato il certificato di malattia oppure da altro medico in caso di assenza o impedimento assoluto del primo (articolo ItaliaOggi del 03.01.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Mud cambia pelle, varrà fino al sì al Sistri.
Un nuovo modello di dichiarazione ambientale, in sostituzione di quello vigente, così da poter acquisire i dati relativi ai rifiuti da tutte le categorie di operatori, in attuazione della più recente normativa europea.

A adottarlo è il decreto del presidente del consiglio dei ministri 28.12.2017 di «Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l'anno 2018», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30.12.2017, supplemento ordinario n. 64.
Il nuovo modello sostituisce quello allegato al decreto del presidente del consiglio dei ministri del 17.12.2014, confermato dal dpcm 21.12.2015.
Sarà utilizzato per le dichiarazioni da presentare entro il 30 aprile di ogni anno, data prevista dalla legge 25.01.1994, n. 70, con riferimento all'anno precedente e sino alla piena entrata in operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri) (articolo ItaliaOggi del 03.01.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestioni associate al rinvio. Fusioni al rilancio. Le direttrici della riorganizzazione della pubblica amministrazione locale.
Rinvio sulle gestioni associate e rilancio sulle fusioni.

È questa la cifra dell'ultima legge di Bilancio approvata e dell'intera legislatura che si appena chiusa rispetto all'annosa problematica del riassetto della pubblica amministrazione locale.
Come in occasione delle precedenti manovre, anche in quella 2018 si è riaperto (anche se con toni più dimessi che in passato) il dibattito fra i fautori delle fusioni obbligatorie come antidoto alla polverizzazione comunale e coloro che, al contrario, vogliono tutelare l'autonomia dei mini-enti.
La considerazione che accomuna tutti gli schieramenti è rappresentata dalla convinzione circa l'inefficacia dell'attuale normativa, che dal 2010 tenta di imporre ai comuni inferiori a determinate soglie demografiche (3.000 abitanti in montagna, 5.000 in collina e pianura) di aggregarsi in unioni o di stipulare convenzioni per svolgere il proprio core business, ovvero le c.d. funzioni fondamentali.
Il fallimento di tale approccio, più volte certificato sia dai Ministeri competenti che dalla Corte dei conti, è dimostrato in modo plastico dall'infinita serie di proroghe decise in questi anni, l'ultima delle quali è stata inserita nella l 205/2017 portando la dead-line al 31.12.2018.
Nel frattempo, il legislatore continua a spingere sulle fusioni, attraverso un nuovo incremento degli incentivi economici ai comuni che sceglieranno di intraprendere questa strada: in aggiunta ai trasferimenti ordinari, essi avranno per dieci anni il 60% dei trasferimenti che prendevano nel 2010 (e se consideriamo che nel 2010 i trasferimenti ai comuni erano circa il doppio di quelli attuali, risulta chiaro che stiamo parlando di non pochi soldi).
Per incrementare la torta a disposizione di chi decide di fondersi, la stessa l 205 ha previsto di devolvere alle premialità le economie sugli accantonamenti relativi al fondo di solidarietà comunale. Inoltre, ai comuni fusi è stata concessa una mini-deroga (anche se solo per il 2018) al blocco dei tributi locali, che si aggiunge alle disposizioni di maggior favore rispetto alla capacità assunzionale.
In ogni caso, per ora, la fusione non è mai imposta, ma può essere scelta liberamente dalle amministrazioni interessate. Ed è difficile pensare che la maggioranza dei sindaci accetti di togliersi la fascia tricolore per accontentarsi al più di un posto da assessore. Anche perché molti primi cittadini sperano in una flessibilizzazione degli obblighi di gestione associata, anziché in un loro inasprimento, attraverso una serie di correttivi alla disciplina vigente (tuttora contenuta nel dl 78/2010), che però finora sono rimati nel limbo delle buone (o cattive) intenzioni
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIEquo compenso senza trattative. Stop agli abusi dei clienti forti. Parametri fondamentali. La disciplina trova la sua forma definitiva. Le ultime modifiche in legge di Bilancio.
Una tutela per il libero professionista che si trova a espletare le proprie attività in favore di un cliente «forte», il quale avrà l'obbligo di corrispondere un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità della prestazione svolta. Una garanzia che si traduce, inoltre, nell'impossibilità della presenza di clausole «vessatorie» all'interno di un contratto. Un insieme di linee guida per il giudice che dovrà stabilire il compenso del professionista sulla base della legge e dei parametri ministeriali.

Questo è quanto previsto dalla norma sull'equo compenso per i professionisti, introdotta dal dl fiscale (dl 148/2017) e modificata dalla legge di Bilancio, approvata definitivamente lo scorso 23 dicembre.
Inizialmente, la norma contenuta nel collegato fiscale faceva riferimento esclusivamente alle prestazioni degli avvocati; è stato il passaggio in aula ad allargarla a tutte le professioni (e a comprendere tra i clienti forti la Pubblica amministrazione). In precedenza, nei due rami del Parlamento si stava già svolgendo la discussione di tre testi sul tema (ddl Sacconi al Senato, ddl Damiano e pdl Berretta alla Camera).
Compenso.
La norma stabilisce che banche, assicurazioni, grandi imprese e pubblica amministrazione abbiano, nei confronti del professionista a cui hanno conferito un incarico, l'obbligo di garantirgli un compenso che sia equo, ovvero proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione. Il compenso, inoltre, dovrà essere conforme ai parametri ministeriali.
Per i commercialisti, ad esempio, il decreto che li identifica è il 140/2012; per i consulenti del lavoro è il 46/2013; per gli avvocati il 55/2014 (la bozza del nuovo decreto per i parametri forensi è stata firmata dal ministro Orlando ed è in attesa di pubblicazione). Il riferimento ai parametri è stato reso più stringente dalla legge di bilancio (la locuzione «conforme ai parametri» ha sostituito quella di «tenuto conto dei parametri»)
Clausole vessatorie.
Vengono identificate, come detto, una serie di clausole la cui presenza non pregiudicherà la validità dell'intero contratto; saranno le singole clausole ad essere considerate nulle. La legge di bilancio è intervenuta anche sotto questo aspetto; è stata eliminata la possibilità di inserire le clausole previa trattativa, quindi con il consenso del professionista; ora ciò non è possibile. Sono considerate vessatorie le clausole che prevedano la possibilità, in capo al cliente, di modificare unilateralmente le condizioni del contratto; quelle che attribuiscano allo stesso la facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta dell'atto o di pretendere prestazioni aggiuntive che il professionista deve eseguire a titolo gratuito.
Non può essere prevista l'anticipazione delle spese della controversia a carico del professionista né possono essere stipulate clausole che lo obblighino a rinunciare al rimborso spese. Vietate previsioni di pagamento superiori ai sessanta giorni dalla data di ricevimento della fattura. Nei casi di consulenza in materia contrattuale, la corresponsione del compenso non può essere subordinata alla sottoscrizione dell'atto. No a importi minimi nei casi di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente. Infine, in caso di una nuova convenzione sostitutiva con lo stesso cliente, si all'applicazione retroattiva della nuova disciplina nel caso in cui l'accordo preveda compensi inferiori per gli incarichi pendenti o non ancora fatturati o definiti.
Il ruolo del giudice.
Il giudice avrà un ruolo molto importante nel garantire il rispetto della norma: egli dovrà accertare la non equità del compenso e la vessatorietà di una o più clausole; a quel punto dovrà dichiarare la nullità delle clausole e determinerà il compenso del professionista tenendo conto dei parametri ministeriali. La nullità opera solo a vantaggio del professionista che non avrà limiti temporali per esercitarla (il limite iniziale di 24 mesi è stato eliminato dalla legge di Bilancio).
Il ruolo del professionista.
Saranno tutelati tutti i professionisti; la norma prevede che le disposizioni si applicano, in quanto compatibili (definizione che lascia aperti alcuni dubbi), alle prestazioni rese dai professionisti di cui all'articolo 1 della legge 81/2017 (Jobs act del lavoro autonomo); l'articolo in questione prende a riferimento tutte le categorie professionali (riconosciute e non). Per le categorie non riconosciute bisognerà stabilire i parametri di riferimento, a oggi ancora non esistenti. Il professionista avrà il compito di far valere l'azione di nullità nel caso di clausola vessatoria.
L'ultimo articolo della norma istituisce una clausola di invarianza finanziaria; viene stabilito che dall'attuazione delle disposizioni non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. La clausola in questione rischiava di far saltare l'intero apparato normativo, in quanto la nota della ragioneria dello Stato alla legge di bilancio stilava in 150 milioni di euro il costo aggiuntivo derivato dall'applicazione; per ovviare a questo problema sono stati esclusi gli agenti della riscossione che quindi, quando conferiranno un incarico ad un professionista, non avranno l'obbligo di rispettare la normativa (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2018).

ATTI AMMINISTRATIVISentenze oscurate, più tempo. L'istanza fino alla definizione del grado di giudizio. PRIVACY/ Il Consiglio di stato ha diramato una serie di risposte a domande frequenti.
L'istanza di oscuramento dei dati sensibili dalla sentenza online può essere presentata fino alla definizione del grado di giudizio.

Lo afferma il Consiglio di stato, che ha diramato una serie di Faq (Frequently asked question) su adempimenti in materia di privacy e pubblicazione delle sentenze in Internet, alla luce del parere dell'ufficio studi dell'08.03.2017.
In particolare, per quanto riguarda il termine ultimo per richiedere l'annotazione volta a precludere l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell'istante riportati sulla sentenza o sul provvedimento, coincide con il momento della definizione del relativo grado del giudizio. Ne consegue che, dopo la definizione della controversia nel grado, cioè quando l'affare non è più pendente, la parte perde il diritto di chiedere l'oscuramento dei dati identificativi.
Palazzo spada chiarisce inoltre che la richiesta di annotazione, sull'originale della sentenza o del provvedimento, volta a precludere l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell'istante, può essere presentata non solo da una delle parti del giudizio, ma anche da qualsiasi interessato, ossia da ogni soggetto che potrebbe essere reso identificabile nel provvedimento attraverso l'indicazione delle generalità o di altri dati identificativi.
Inoltre, dopo la pubblicazione della sentenza, secondo quanto afferma il Consiglio di stato, la parte interessata può solo eventualmente sollecitare, con propria istanza, l'oscuramento nelle ipotesi in cui sia previsto come obbligatorio. Si tratta, in particolare, delle ipotesi contemplate dal codice della privacy, che vieta tout court la diffusione di tutti i dati idonei a rivelare lo stato di salute e stabilisce che “chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto a omettere in ogni caso, anche in mancanza dell'annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone”.
Palazzo spada chiarisce inoltre cosa occorre fare sulle istanze afferenti a sentenze e provvedimenti adottati prima dell'entrata in vigore del codice della privacy: per i provvedimenti emessi prima del 29.07.2003 non è possibile chiedere l'annotazione, sempre che non si tratti di casi di oscuramento obbligatorio. Un'altra Faq si concentra invece sulla possibilità, per gli interessati, di presentare la richiesta di oscuramento una volta concluso il giudizio nel grado e pubblicata la sentenza, nel caso in cui la richiesta era già stata presentata e l'autorità procedente non si sia pronunciata. In questo caso, l'obbligo di provvedere espressamente sull'istanza di anonimizzazione sopravvive alla definizione del relativo grado di giudizio.
Quindi, il giudice amministrativo conserva il potere di pronunciarsi e la pronuncia potrebbe essere sollecitata o con una richiesta formulata in sede di impugnazione o con l'attivazione del procedimento di correzione di errore materiale presso il giudice che ha omesso di provvedere ovvero con una istanza al segretario generale. Tale obbligo sussiste solo nei casi di oscuramento obbligatorio. Per gli oscuramenti facoltativi, invece, occorre sempre l'istanza di parte proponibile non oltre la conclusione del processo nel grado di riferimento.
Una ulteriore Faq è poi dedicata alla competenza a decidere sull'istanza di oscuramento, che spetta al segretario generale della giustizia amministrativa, responsabile del sito istituzionale anche nei casi in cui, per qualsiasi ragione, tale oscuramento non sia stato disposto in sentenza. Nei casi di oscuramento obbligatorio, il segretario generale deve provvedere anche in mancanza di parte di annotazione, perché l'interruzione della diffusione di dati sensibili costituisce un obbligo che grava sul soggetto responsabile della diffusione anche a prescindere dall'istanza di parte.
Infine, il Consiglio di stato chiarisce in una risposta ad hoc che gli obblighi di annotazione riguardano non solo le sentenze, ma anche i provvedimenti resi nella forma dell'ordinanza o del decreto i quali, sebbene non chiudano il giudizio, assumono, comunque, una valenza esterna e un tasso di pubblicità per alcuni profili analogo a quello delle sentenze (articolo ItaliaOggi Sette del 15.05.2017).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe regioni non possono dribblare i paletti sulle assunzioni di personale.
Le regioni non possono derogare ai limiti in materia di assunzioni posti dal legislatore statale perché ciò costituisce una violazione al coordinamento della finanza pubblica che spetta allo stato ai sensi dell'articolo 117 Cost.

Lo ha stabilito la Consulta nella sentenza 12.01.2018 n. 1, che ha accolto il ricorso del governo contro l'art. 9, comma 2, della legge della regione Toscana 18.10.2016, n. 72 (Disposizioni per il potenziamento dell'Autorità portuale regionale. Modifiche alla legge regionale n. 23/2012).
Tale norma autorizzava la giunta regionale a derogare dal 2017 ai vincoli relativi alle assunzioni stabiliti dalla legge di Stabilità 2016 (legge n. 208/2015) per incrementare la dotazione organica dell'Autorità portuale regionale e assumere personale non dirigenziale a tempo indeterminato per un massimo di dieci unità, finalizzate allo svolgimento da parte dell'Autorità di funzioni aggiuntive disposte dalla medesima normativa regionale.
La regione Toscana si è difesa sostenendo che i paletti posti dalla Manovra 2016 (la spesa per le assunzioni nel triennio 2016-2017 non avrebbe dovuto superare il 25% di quella relativa al personale cessato nell'anno precedente) non avrebbero trovato applicazione nei confronti dell'autorità portuale in quanto essa non disponeva di personale proprio. L'ente riteneva che la disposizione censurata rientrasse nei limiti della propria competenza legislativa in materia di organizzazione amministrativa degli enti pubblici regionali. Non solo.
In considerazione del fatto che le due nuove funzioni attribuite dalla legge regionale all'Autorità portuale non erano state svolte in passato da altre amministrazioni pubbliche, secondo la regione non vi era personale che potesse essere trasferito all'Autorità portuale stessa. Per questo secondo l'amministrazione guidata da Enrico Rossi non vi sarebbe stata nessuna lesione dei principi di coordinamento della finanza pubblica.
La Consulta, tuttavia, non è stata dello stesso avviso. La Corte ha ricordato la sentenza n. 191 del 2017 con cui essa ha riconosciuto come corretta espressione della funzione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica la disciplina dettata dall'art. 1, comma 228, della legge di Stabilità 2016 in materia di limiti alle assunzioni da parte delle regioni e degli enti regionali, dichiarando non fondata la questione di legittimità promossa nei confronti dello stato dalla regione Veneto, per una presunta violazione degli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost..
In quella sede, la Consulta ha considerato legittima la norma (che «reca principi di coordinamento della finanza pubblica nel rispetto dei requisiti che la giurisprudenza di questa Corte ha individuato per escludere l'illegittimità delle misure limitative dell'autonomia regionale»), in quanto «non prevede in modo esaustivo strumenti e modalità di perseguimento degli obiettivi, comunque rimessi all'apprezzamento delle regioni, e presenta un carattere transitorio e delimitato nel tempo».
In pratica, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, lo Stato può contenere la spesa del personale ponendo vincoli alle Regioni e agli enti locali, ma senza dettare norme invasive della sfera di competenza legislativa regionale in materia di organizzazione amministrativa.
Di conseguenza, ha concluso il giudice redattore Giulio Prosperetti, «non può dubitarsi che la norma statale interposta, evocata dal ricorrente, comporti l'obbligo per le Regioni e gli enti regionali di attenersi ai principi ivi affermati, per contribuire a realizzare l'obiettivo di contenimento e controllo della spesa nel settore del pubblico impiego».
Ne consegue che la disposizione regionale censurata, derogando ai vincoli stabiliti dalla legge di Stabilità 2016, «configura ex se una lesione della competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica» (articolo ItaliaOggi del 13.01.2018).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo. Licenziabile chi trascura il figlio.
Il genitore che fruisce di un congedo parentale per stare con il proprio bambino ma poi non si occupa del figlio rischia il licenziamento.

La Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza 11.01.2018 n. 509, ha rigettato il ricorso di un uomo licenziato dopo che il datore di lavoro aveva accertato che «per oltre la metà del tempo concesso a titolo di permesso parentale» il dipendente non aveva «svolto alcuna attività a favore del figlio» realizzando in tal modo, aveva sostenuto il giudice del merito (la Corte d'appello dell'Aquila) confermando il licenziamento, uno «sviamento dalla funzione tipica per la quale il congedo parentale era stato concesso, diretto a sostenere i bisogni affettivi e relazionali del figlio».
Decisione confermata ora dai giudici del Palazzaccio secondo cui «può verificarsi un abuso del diritto potestativo di congedo parentale», nel caso in cui «il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura» (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

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MASSIMA
2.1. Una sommaria ricognizione del contesto normativo riguardante le prestazioni previdenziali e assistenziali connesse alla protezione sociale della famiglia consente di rilevare, anzitutto, che la giurisprudenza costituzionale ha affermato, fin dagli anni ottanta, l'operatività della garanzia costituzionale -precisamente riferita all'art. 31 Cost.- anche in situazioni indipendenti dall'evento della maternità naturale, riferibili anche alla paternità, sul presupposto che la tutela assolve anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (e che vanno soddisfatte anche nel caso dell'affidamento, garantendo una paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed educazione della prole, senza distinzione o separazione dei ruoli fra uomo e donna) (cfr. Corte cost. n. 1 del 1987; n. 179 del 1993).
La successiva evoluzione del quadro normativo, secondo le linee indicate da questa giurisprudenza, ha portato -in base alla delega contenuta nella l. 08.03.2000, n. 53- alla introduzione del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. 26.03.2001, n. 151.
La l. n. 53 del 2000, art. 1, lett. a), prevede l'istituzione dei congedi dei genitori in relazione alla generale finalità di promuovere il sostegno della maternità e della paternità. Il d.lgs. n. 151 del 2001, art. 32, in attuazione introduce i congedi parentali e dispone che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro. Tale diritto compete: alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. a); al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. b).
Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto (comma 4); ai fini dell'esercizio del diritto il genitore è tenuto, salvi i casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo modalità e criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni (comma 3). Per i periodi di congedo parentale alle lavoratrici e ai lavoratori, è dovuta un'indennità, calcolata in misura percentuale sulla retribuzione secondo le modalità previste per il congedo di maternità (art. 34, commi 1 e 4).
Alla stregua di tale disciplina, il congedo parentale è configurabile come un diritto potestativo, caratterizzato da un comportamento con cui il titolare realizza da solo l'interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell'altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà. Tale diritto, in particolare, viene esercitato, con l'onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente previdenziale, nell'ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere l'indennità.
La natura di diritto potestativo del congedo parentale è successivamente ribadita da questa Corte in Cass. n. 17984 del 2010 e n. 6586 del 2012.
2.2. All'inserimento di tale diritto nel campo dei poteri diretti a creare, modificare, estinguere situazioni giuridiche con una manifestazione unilaterale di volontà, senza la partecipazione di colui che deve subirne gli effetti, non sembra ostare il fatto che la legge richieda nel momento genetico della concessione del beneficio il rispetto di taluni oneri formali (sui limiti del potere datoriale di controllo sulla ricorrenza di tali presupposti cfr. Cass. n. 15973 del 2017; v. pure Cass. n. 2803 del 2015, secondo cui l'esercizio del diritto potestativo al permesso può essere sottoposto ad un procedimento necessario alla verifica, anche da parte del soggetto passivo, degli elementi costitutivi).
In ogni caso la configurazione legale di tale diritto potestativo non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio nel suo momento funzionale, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale).
Tale verifica -come affermato da Cass. n. 16207/2008 cit.- trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che anche la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell'esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti -mediante i quali la prerogativa viene esercitata- da parte del giudice.
Quante volte esista un diritto soggettivo si configura necessariamente una corrispondenza oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e l'atto di esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente nella cd. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati in funzione della cura di interessi determinati, come avviene normalmente nell'autonomia pubblica, ma come avviene anche, sempre più diffusamente, nell'autonomia privata.
Anche in questo ambito l'esercizio del diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e senza limiti ma laddove l'autonomia è comunque collegata alla cura di interessi (soprattutto ove si tratti -come nella specie- di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza) il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abusivo in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento.
Sicché, con riferimento all'analogo caso esaminato da Cass. n. 16207 del 2008, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto di congedo si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico.
In base al descritto criterio della funzione può verificarsi un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia; ma analogo ragionamento può essere sviluppato anche nel caso sottoposto all'attenzione del Collegio in cui il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura, perché ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore.
Anche per tale congedo, infatti, si configura una ratio del tutto analoga a quella delineata dalla Corte costituzionale nelle pronunce che hanno storicamente influenzato le scelte del legislatore nella emanazione della legge delega del 2000 e del successivo testo unico del 2001: in particolare, con le sentenze n. 104 del 2003, n. 371 del 2003 e n. 385 del 2005 i giudici costituzionali hanno ribadito come la tutela della paternità si risolva in misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali dei bambino al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia; tutte esigenze che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al bambino, sono impedite dallo svolgimento dell'attività lavorativa (i.e. quella rispetto alla quale si chiede il congedo) e impongono pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro.
Aggiunge Cass. n. 16207 del 2008 che una siffatta conversione delle ore di lavoro, se pure non deve essere intesa alla stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può però ammettere un'accudienza soltanto indiretta, per interposta persona, mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare, poiché quest'ultima esigenza può essere assicurata da altri istituti (contrattuali o legali) che solo indirettamente influiscono sulla vita dei bambino e che, in ogni caso, mirano al soddisfacimento di necessità diverse da quella tutelata con il congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze puramente fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo della sua personalità sin dal momento dell'ingresso nella famiglia.
Tanto conduce la Corte nel precedente più volte citato ad affermare il seguente principio di diritto: "Il d.lgs. 26.03.2001, n. 151, att. 32, comma 1, lett. b), nel prevedere -in attuazione della legge-delega 08.03.2000, n. 53- che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall'ente previdenziale un'indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell'ente tenuto all'erogazione dell'indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia".
2.3. Analoghi percorsi argomentativi sono stati tracciati da questa Corte nel contiguo -anche se non sovrapponibile- campo della possibilità che costituisca giusta causa di licenziamento l'utilizzo da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992 per attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, violando la finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784 del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749 del 2016).
In coerenza con la ratio del beneficio, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela.
Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto
(cfr. Cass. n. 17968 del 2016), o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'Ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell'abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell'unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea: in termini v. Cass. n. 9217 del 2016).
2.4. Tutto ciò posto, la verifica in concreto, sulla base dell'accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell'esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito -anche in relazione al padre inteso non come mero percettore di reddito ma quale soggetto responsabile dedito alla cura diretta dei figli- appartiene alla competenza ed all'apprezzamento del giudice di merito; a questi spetta anche formulare il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso così come l'idoneità di esso a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, anche in forza del disvalore sociale comunemente percepito.
Pertanto, verificato che la Corte abruzzese non ha in diritto violato o falsamente applicato norme di legge, anzi uniformandosi ai principi già espressi da questa S.C., ogni ulteriore sindacato circa la ricostruzione dei fatti ed il grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del congedo, è precluso in sede di legittimità, tanto più nel vigore dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. novellato, trattandosi di apprezzamento appartenente al dominio dei giudici del merito cui è istituzionalmente riservato.

APPALTI: All’Adunanza plenaria la spettanza del risarcimento del danno in caso di aggiudicazione dell’appalto senza gara.
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● Risarcimento danni - Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità extracontrattuale - Art. 2043 - Teoria della causalità alternativa ipotetica – Configurabilità – Limiti.
  
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Risarcimento da perdita di chance - Affidamento senza gara – Impresa del settore – An risarcimento danni – Contrasto di giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria
  
● In materia di responsabilità civile, in particolare in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nel cui paradigma è inquadrabile la responsabilità della Pubblica amministrazione per illegittimità provvedimentale, la c.d. teoria della causalità alternativa ipotetica ha rilievo solo in relazione agli illeciti omissivi, per i quali occorre infatti stabilire se l’evento dannoso non si sarebbe verificato se il preteso responsabile avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli; la stessa teoria è priva del suo presupposto rispetto ad illeciti commissivi, quali appunto quelli derivanti dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, in relazione ai quali l’accertamento del giudice deve stabilire se gli atti amministrativi abbiano costituito la causa del danno lamentato, e dunque se costituiscano il fatto illecito che è fonte di responsabilità ai sensi della clausola generale dell’art. 2043 c.c. (1).
   ●
Va rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe che potuto concorrere quale operatore del settore economico (2).
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   (1) Ha chiarito l’Alto consesso che è secondo la teoria della causalità alternativa ipotetica laddove si dimostri che il danno lamentato si sarebbe comunque verificato per effetto di una sequenza causale diversa ed autonoma rispetto a quella concretamente verificatasi, lo stesso non sarebbe risarcibile per effetto di quest’ultima.
Ha ancora ricordato che la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che la domanda risarcitoria va respinta una volta accertata la legittimità dell’atto impugnato, perché diviene carente il requisito dell’ingiustizia del danno, essenziale per integrare la fattispecie di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Se ne desume, a contrario, che una volta accertata l’illegittimità dell’atto, non resta possibile per l’amministrazione sottrarsi all’addebito di responsabilità civile invocando asserite alternative provvedimentali; tanto meno quando queste possano configurare ulteriori ragioni di illegittimità del medesimo atto. Infatti, in questa ipotesi si opererebbe una scissione nel rapporto di necessaria consequenzialità tra il giudizio di legittimità sul provvedimento amministrativo oggetto della domanda di annullamento e il rimedio del risarcimento del danno «per lesione di interessi legittimi», la cui cognizione è devoluta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo (art. 7, comma 4, c.p.a.).
   (2) Ha chiarito l’Adunanza plenaria ha chiarito che sul punto si registra un contrasto tra pronunce aderenti alla teoria della chance ontologica e quelle che invece optano per la chance eziologica
Secondo un primo orientamento (sez. III, 09.02.2016, n. 559; V sez., 01.10.2015, n. 4592) il risarcimento della chance, a fronte della mancata indizione di una gara, è condizionato dalla prova di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita negato dall’amministrazione per effetto di atti illegittimi.
Altre decisioni (sez. V, 01.08.2016, n. 3450; id. 08.04.2014, n. 1672, id. 02.11.2011, n. 5837) hanno, invece, riconosciuto in circostanze analoghe, di mancata indizione della gara, il risarcimento della chance vantata dall’impresa del settore. Ciò sulla base del rilievo che, in caso di mancato rispetto degli obblighi di evidenza pubblica (o di pubblicità e trasparenza), non è possibile formulare una prognosi sull’esito di una procedura comparativa in effetti mai svolta e che tale impossibilità non può ridondare in danno del soggetto leso dall’altrui illegittimità, per cui la chance di cui lo stesso soggetto è portatore deve essere ristorata nella sua obiettiva consistenza, a prescindere dalla verifica probabilistica in ordine all’ipotetico esito della gara.
La discriminante tra le due opposte configurazioni si incentra sul rilievo da attribuire alla possibilità di conseguire il bene della vita illegittimamente privato dall’amministrazione e, in particolare, sul grado di probabilità statistica: quale fattore incidente sulla sola quantificazione del danno risarcibile nel primo caso e sull’an stesso del risarcimento nel secondo.
In altri termini, nell’ambito della dicotomia dei danni risarcibili ex art. 1223 c.c., la teoria della chance ontologica configura tale posizione giuridica come un danno emergente, ovvero come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, la cui lesione determina una perdita suscettibile di autonoma valutazione sul piano risarcitorio.
La teoria eziologica intende, invece, la lesione della chance come violazione di un diritto non ancora acquisito nel patrimonio del soggetto, ma potenzialmente raggiungibile, con elevato grado di probabilità, statisticamente pari almeno al 50%. Si tratta dunque di un lucro cessante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2018 n. 118 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione cartelli pubblicitari: no al silenzio-assenso.
In punto di diritto è legittimo il provvedimento che esclude il silenzio-assenso del Comune all’istanza di installazione di cartelli pubblicitari fondato su ragioni di pubblica sicurezza.
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4) Il ricorso va rigettato.
L'installazione di impianti pubblicitari è indubbiamente soggetta ad un provvedimento autorizzatorio da parte del Comune, come si evince dal chiaro tenore letterale degli artt. 3, comma 3, del d.lgs. 507/1993 e dall'art. 23, comma 4, del codice della strada, d.lgs. 285/1992, a mente del quale "la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse è soggetta in ogni caso ad autorizzazione da parte dell'ente proprietario della strada nel rispetto delle presenti norme. Nell'interno dei centri abitati la competenza è dei comuni, salvo il preventivo nulla osta tecnico dell'ente proprietario se la strada è statale, regionale o provinciale".
Ora, è ben vero che, in un'ottica di agevolazione delle attività private subordinate all'assenso della Pubblica amministrazione, con l'art. 20 della l. 241/1990, in attuazione del principio del buon andamento e della semplificazione amministrativa, il legislatore ha equiparato in linea di principio il silenzio al provvedimento di accoglimento dell'istanza per l'ottenimento di un titolo abilitativo.
Tuttavia, la portata generale dell'istituto non è illimitata.
L'art. 20, comma 4, della l. 241/1990 configura ragguardevoli eccezioni a tale principio; tra esse rientra la materia della pubblica sicurezza. Proprio alla pubblica sicurezza si impronta la ratio dell'art. 23, comma 4, dlgs. 285/1992. Nel richiedere un provvedimento espresso per l'autorizzazione dell'attività di affissione, quest'ultima norma demanda alla Pubblica Amministrazione un preciso onere di verifica circa le condizioni ed i presupposti per lo svolgimento di essa, cosicché risulta illegittima la previsione del meccanismo del silenzio assenso ad opera di fonti secondarie.
Per giunta, in attuazione dell'art. 20, comma 4, della l. 241/1990, il d.p.r. 26.04.1992, n. 300, concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, specifica i casi in cui il silenzio assume valenza significativa circa l'accoglimento dell'istanza. La normativa regolamentare è stata implementata dal d.p.r. 09.05.1994, n. 407 richiamato dal ricorrente.
Tale ultimo regolamento, all'allegato 1, punto 81, integra la tabella C del d.p.r. 300 del 1992, includendo la materia "pubbliche affissioni" in relazione al "d.p.r. 26.10.1972, n. 639, art. 28, comma 4", ricollegandovi la formazione del silenzio-assenso trascorsi 30 giorni dalla presentazione dell'istanza al Comune competente.
Nondimeno, come è agevole ricavare dal collegamento sistematico con l'art. 28, comma 4, del d.p.r. 639/1972 (peraltro abrogato) frutto del rinvio recettizio operato dal d.p.r. 407/1994, l'ambito di operatività del silenzio-assenso è limitato, giacché destinato a surrogare il consenso del Comune solo per l'ipotesi di "affissione diretta in spazi di pertinenza propri degli interessati", mentre il provvedimento ampliativo tacito non è ammesso per il procedimento in esame, relativo alla installazione di cartelli pubblicitari su strada statale (cfr. TAR Lombardia, Milano, III, 17.04.2002, n. 1490 e 16.12.2004, n. 6479; TAR Piemonte, I, 14.11.2005, n. 3523; v. anche TAR Sardegna, 23.01.2002, n. 56 e TAR Lombardia, Milano, III, 24.10.2005, n. 3891; TAR Umbria, 03.02.2010, n. 50).
Definita la cornice normativa, correttamente il Tribunale di Teramo ha disapplicato il regolamento comunale "per la disciplina della pubblicità e delle affissioni e per l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità e del diritto sulle affissioni" del 1995, per contrasto con la normativa di rango superiore, escludendo di conseguenza la formazione del silenzio-assenso.
Del resto, il mancato ricorso all'annullamento d'ufficio in autotutela non esonera il giudice dal sindacato sugli atti amministrativi, secondo le cadenze e gli effetti di cui agli artt. 4 e 5 All. E. l. 20.03.1865, n. 2248 (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 09.01.2018 n. 288).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego di permesso di costruire in sanatoria per una copertura in policarbonato di un terrazzo sul quale si affacciano unità immobiliari poste ai piani superiori tenuto conto che la distanza fra la tettoia e l'appartamento sovrastante è inferiore ai 3 mt. previsti dall’art. 907 del codice civile.
La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari.
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita della conformità dell’opera non solo alle specifiche disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla disciplina urbanistica ed edilizia vigente (cfr. art. 12).
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907: ”Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette [c.c. 900] verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905”.
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Nel caso di specie deve essere esclusa la natura pertinenziale della tettoia di copertura del terrazzo in quanto è assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo il manufatto parte integrante dell'edificio.
Inoltre, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
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1. Il signor Ca.Mu. proprietario di un appartamento in un condominio di Milano, ha impugnato il provvedimento del Comune con il quale è stata respinta la domanda di rilascio di un permesso di costruzione in sanatoria per la copertura del suo terrazzo.
In particolare, il signor Mu. ha realizzato sulla originaria struttura del terrazzo, composta anche da pilastri di cemento con piccole travi inserite nella facciata condominiale, una copertura in policarbonato e un grigliato in legno a chiusura dei tre lati.
Il Comune di Milano ha tuttavia respinto la richiesta di sanatoria per violazione della distanza minima di tre metri dall’affaccio dei condomini soprastanti prevista dall’art. 907 del cod. civ..
2. L’adito Tar per la Lombardia, sede di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il suo ricorso.
3. Contro la stessa sentenza il signor Mu. ha quindi proposto appello, prospettando i seguenti motivi di censura.
...
7. L’appello non è fondato.
8. Il comune di Milano, a seguito di un esposto di alcuni condomini, ha effettuato un sopralluogo nell’immobile di proprietà del signor Mu., rilevando che lo stesso aveva posizionato abusivamente una copertura in policarbonato sul proprio terrazzo sul quale si affacciano le unità immobiliari poste ai piani superiori.
A seguito dell'ispezione, l’appellante ha quindi presentato istanza per il rilascio di un permesso di costruzione in sanatoria, qualificando l’intervento come manutenzione straordinaria. Il Comune ha tuttavia respinto la sua istanza in quanto la distanza fra la tettoia e l'appartamento sovrastante era inferiore ai 3 mt previsti dall’art. 907 del codice civile.
9. Nei motivi di appello proposti contro la sentenza del Tar della Lombardia che ha respinto il suo ricorso, il signor Mu. deduce innanzitutto l’illegittimità della stessa decisione in quanto fondata sull’applicazione dell’art. 907 del codice civile. Per l’appellante, tale disposizione non avrebbe una valenza pubblicistica, ma solo di tutela del diritto del vicino alla veduta mediante la prescritta distanza dei tre metri e pertanto non avrebbe potuto essere richiamata, nel caso di specie, in sede di valutazione della sua istanza di sanatoria.
10. La tesi dell’appellante non può essere condivisa.
11. La sentenza impugnata ha richiamato l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, che prevede la possibilità di sanatoria per gli interventi edilizi che risultino conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda. Ha inoltre richiamato l'art. 12 dello stesso d.P.R., che richiede per il rilascio del permesso in sanatoria la conformità alla "disciplina urbanistica-edilizia vigente".
La sentenza di primo grado ha quindi correttamente ritenuto legittimo il provvedimento comunale impugnato che è stato adottato sul presupposto che, ai sensi delle citate disposizioni del Testo Unico dell’edilizia, la violazione delle distanze di cui all’art. 907 c.c. tra la tettoia e l’appartamento soprastante non riguardasse semplicemente i profili privatistici, ma incidesse sull’assetto regolatorio urbanistico–edilizio al pari delle altre disposizioni del codice civile relative alla distanze tra fabbricati.
In sostanza, l’art. 907 c.c., applicato dall’Amministrazione mediante il richiamo operato dalle disposizioni del testo unico dell’edilizia, sarebbe posto anche a tutela degli interessi pubblici connessi ad una corretta edificazione.
12. Ed in effetti, la realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti, come nel caso di specie, dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari (cfr. Cass. Pen., sez. III, 23.11.2012, n. 45819).
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita della conformità dell’opera non solo alle specifiche disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla disciplina urbanistica ed edilizia vigente (cfr. art. 12).
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907: ”Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette [c.c. 900] verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905”.
13. Ciò detto, va anche rilevato che nel caso concreto deve essere esclusa la natura pertinenziale della tettoia di copertura del terrazzo in quanto è assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo il manufatto parte integrante dell'edificio.
Inoltre, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354)
14. Quanto, infine, alla preesistente travettazione di ferro, la stessa non può ritenersi di per sé idonea a creare un’originaria ostruzione alla veduta, impedimento invece che si è concretizzato solo con la successiva realizzazione della copertura.
15. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2018 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gara telematica ed utilizzo, per l'invio dell'offerta, del file .pdf caricato a sistema delle liste di lavorazioni e forniture.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Gara telematica - Liste di lavorazioni e forniture - Scansione del relativo modulo in luogo del file .pdf caricato a sistema delle liste di lavorazioni e forniture – Esclusione dalla gara – Legittimità – Soccorso istruttorio – Impossibilità.
Deve essere escluso dalla gara telematica, ex art. dall’art. 57, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il concorrente che, invece di utilizzare, per l'invio dell'offerta, il file .pdf caricato a sistema delle liste di lavorazioni e forniture, come specificato dalla lettera di invito, ha proceduto alla scansione del modulo contenente le predette liste, compilandolo e inviandolo alla stazione appaltante, senza che sia possibile fare ricorso al soccorso istruttorio in quanto l’irregolarità rilevata concerne le modalità di formulazione dell’offerta economica e va ad incidere sul contenuto dell’offerta stessa, sì da dover essere qualificata come non sanabile (1).
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   (1) Il Tar ha chiarito, richiamando un proprio precedente in termini (Trga Trento 20.11.2017, n. 305), che il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara corrisponde anche alla necessità di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti, sicché solo in presenza di un’equivoca formulazione della lettera di invito, a fronte cioè di una pluralità di possibili interpretazioni, può ammettersi la preferenza per quella che può condurre alla partecipazione del maggior numero di aspiranti, ma non quando la prescrizione sia univoca e venga imposta dall’amministrazione appaltante a pena di esclusione, e che la misura espulsiva sancita dall’art. 57, comma 6, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 per il caso di mancato utilizzo del modulo relativo alla lista delle lavorazioni e forniture predisposto dalla stazione appaltante soddisfa, viepiù in ragione della tipologia di gara e dello svolgimento della stessa in via telematica, le prevalenti esigenze di certezza e celerità perseguite dall’amministrazione.
Ha aggiunto che è proprio l’apposizione della firma digitale del responsabile del procedimento sul “file .pdf caricato a sistema” l’adempimento che origina il documento “Lista delle lavorazioni e forniture” in originale, che deve essere utilizzato dal concorrente per la formulazione della propria offerta economica, sicché a tale documento non è assimilabile il documento scansionato, che non riporta i certificati di firma digitale riconducibili al responsabile del procedimento.
Infine, posto che l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 esclude espressamente l’operatività del soccorso istruttorio per le irregolarità essenziali afferenti all’offerta economica, la Commissione di gara correttamente non ha attivato il soccorso istruttorio in quanto l’irregolarità rilevata concerne le modalità di formulazione dell’offerta economica e va ad incidere sul contenuto dell’offerta stessa, sì da dover essere qualificata come non sanabile (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 08.01.2018 n. 4 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Diffida a bonificare le discariche abusive situate nei territori di enti sub-statali - Natura di diffida in senso stretto - Atti non immediatamente impugnabili - Distinzione tra diffide e atti idonei a produrre direttamente effetti giuridici.
Le diffide in senso stretto consistono nel formale avvertimento –indirizzato ad un soggetto (pubblico o privato), tenuto all’osservanza di un obbligo in base ad un preesistente titolo (legge, sentenza, atto amministrativo, contratto)- di ottemperare all’obbligo stesso. Esse, dunque, non hanno carattere novativo di tale obbligo e usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un termine dilatorio per l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari, i quali, nonostante l’intimazione, siano rimasti inosservanti del proprio obbligo.
Ne consegue che le diffide in senso stretto non sono immediatamente lesive della sfera giuridica del destinatario, a differenza dei successivi provvedimenti sfavorevoli, e, come tali, non sono ritenute atti immediatamente impugnabili (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2015 n. 2215; Cons. Stato, sez. IV, 09.11.2005 n. 6257).
A diverse conclusioni si perviene quando l’atto, comunque denominato, sia idoneo a produrre direttamente (immediatamente) effetti giuridici, facendo sorgere un obbligo prima non sussistente o assegnando in modo definitivo ad un bene o ad una condotta una nuova qualificazione giuridica, o vincolando (anche solo per alcuni profili) l’amministrazione alla successiva adozione di atti sfavorevoli; tale è, ad esempio, la diffida a demolire opere abusive. Alla luce di tale distinzione, l’atto adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM 21.12.2015) con cui gli enti sub-statali a sono stati diffidati a bonificare le discariche abusive situate nei rispettivi territori, ha natura di diffida in senso stretto.
Ed infatti esso si pone in termini meramente ricognitivi di obblighi discendono a carico dei Comuni interessati e della Regione Veneto, in termini generali ed astratti, direttamente da una norma di legge, quale l’art. 250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152; in secondo luogo, l’accertamento dell’inadempimento a tali obblighi ha carattere meramente preliminare rispetto alla definitiva valutazione di competenza del Consiglio dei Ministri; in terzo luogo, l’adozione dell’atto di diffida non priva in alcun modo le amministrazioni destinatarie del potere di adottare gli atti di propria competenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.01.2018 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Posa di pavimentazione su lastrico solare - Assenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione alla presenza stabile di persone - Natura - Manutenzione straordinaria.
La sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile, senza che possa rilevarsi l’apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture, non può essere considerato un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l’inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all’utilizzo per la presenza stabile di persone.
La semplice posa in opera di pavimentazione è quindi da qualificarsi come intervento di manutenzione straordinaria (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 24 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lastrico solare - Terrazzo - Differenza.
In termini di disciplina urbanistica, la differenza tra un lastrico solare e un terrazzo consiste nella circostanza che il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è intesa come ripiano anch’esso di copertura, ma che nasce già delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 24 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d’uso - Trasformazione di un solaio di copertura in terrazzo - Permesso di costruire - Necessità.
Nel caso si realizzi un cambio di destinazione d’uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 01/07/2010, n. 16540, TAR Liguria, Sez. I, 01/12/2016, n. 1177, TAR. Lazio–Latina, Sez. I, 24/12/2015, n. 870) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 24 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione di lastrici solari in terrazzi.
L’esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall’affermazione della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, si è avuto a statuire: “La sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile (senza peraltro che possa rilevarsi l’apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l’inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all’utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all’epoca con d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria appare pienamente giustificato”.
Invero, la possibilità di prescindere dal rilascio del permesso a costruire, e la conseguente sanzionabilità dell’abuso in termini pecuniari, si collega, infatti, alle caratteristiche precipue dell’intervento, tenuto presente nella specie, caratterizzato dalla sola pavimentazione del lastrico solare e dalla mancata apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture, tale da escludere “la destinazione all’utilizzo per la presenza stabile di persone”, laddove in parte motiva la stessa decisione precisa, inequivocabilmente, che: “(…) Il Collegio riconosce l’esistenza di una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e un terrazzo. Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è intesa come ripiano anch’esso di copertura, ma che nasce già delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti. Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di destinazione d’uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire”.
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Tal è il caso che viene in rilievo nella specie, essendosi per l’appunto in presenza della trasformazione, in più punti, del lastrico solare di copertura in terrazzo, destinato alla fruizione da parte del ricorrente, che, per l’appunto, “ha pavimentato tre terrazzi e/o lastrici solari e vi ha apposto le ringhiere di protezione”.
L’indirizzo in questione, d’altro canto, è corroborato da ulteriori pronunce, tutte nel senso dell’imprescindibilità, in casi siffatti, del permesso a costruire:
   - “La sostituzione della preesistente copertura inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato mediante l’apertura di una porta – finestra, forma parte funzionalmente integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di ristrutturazione edilizia”;
   - “La trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica gli elementi tipologici formali e strutturali dell’organismo preesistente –risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma dell’immobile– e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia”;
   - “Il mutamento di destinazione d’uso della terrazza e il complesso delle opere connesse (rivestimento dell’area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire, tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché, almeno in parte, una modifica del prospetto dell’edificio".
Insomma, ne risulta confermato che: “Nel caso si realizzi un cambio di destinazione d’uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001”.
E anche quando s’afferma, in giurisprudenza, che:
   - “La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico”,
ci si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in termini di terrazzo, laddove nella specie s’è invece in presenza, lo si ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri lastrici solari.

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La seconda censura –d’incompetenza della firmataria degli atti impugnati, arch. Ro.Ze., per non essere la stessa “un dirigente, anzi neppure un dipendente in pianta organica del Comune di Ravello”– è generica, in quanto non supportata da alcuna prova al riguardo (prova incombente sul ricorrente, in applicazione dei principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio tra le parti, e in particolare della regola fondamentale, espressa nel brocardo “Onus probandi incumbit ei qui dicit”), prova eventualmente idonea a superare la circostanza, ricavabile dalla mera lettura dei provvedimenti in questione, per cui il suddetto arch. Ro.Ze. era, al momento della loro emanazione, il “responsabile dell’ufficio” tecnico del Comune resistente.
La questione veramente centrale si pone, peraltro, rispetto alla terza censura, e all’ivi assunta non necessità del permesso a costruire, rispetto alla realizzazione delle opere, sopra analiticamente descritte, censura fondata, sostanzialmente, sulla constatazione che le stesse non avrebbero prodotto la creazione di nuovi volumi e superfici.
Orbene, se per talune delle opere, sopra descritte, può effettivamente convenirsi sulla deduzione di parte ricorrente (ci si riferisce –oltre che all’eliminazione del w.c., originariamente posto all’esterno dell’immobile– alla seduta in muratura, al forno, al lavandino e alle rampe di scale, di cui ai nn. 1), 3), 5), 6) e 7) dell’ordinanza gravata), il problema si pone –e va risolto diversamente– per quanto concerne la trasformazione del lastrico solare in terrazzo di copertura, secondo la specificazione contenuta ai nn. 2), 4) e 8) dello stesso provvedimento.
In relazione a tali opere, della cui consistenza materiale non v’è ragione alcuna di dubitare (lo stesso ricorrente, infatti, le qualifica tali), rileva il Tribunale come la questione non possa essere impostata nel senso che dette trasformazioni, non implicando aumento di superficie e volume utili, non necessiterebbero del previo rilascio del titolo ad aedificandum (all’epoca dei fatti, non consentita nel Comune di Ravello: su questa parte dei provvedimenti impugnati non è stata sollevata censura alcuna).
Come, infatti, precisato nel diniego di sanatoria, lo stesso si giustificava anche per la realizzazione non consentita, da parte del ricorrente, di “superfici non residenziali, scaturite dal mutamento di destinazione d’uso dei lastrici solari in terrazzi”.
Ebbene, l’esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall’affermazione della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, nella massima ricavata dalla sentenza del TAR Campania–Napoli, Sez. IV, del 06/03/2013, n. 1247, si legge: “La sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile (senza peraltro che possa rilevarsi l’apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l’inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all’utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all’epoca con d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria appare pienamente giustificato”.
In essa, la possibilità di prescindere dal rilascio del permesso a costruire, e la conseguente sanzionabilità dell’abuso in termini pecuniari, si collega, infatti, alle caratteristiche precipue dell’intervento, tenuto presente nella specie, caratterizzato dalla sola pavimentazione del lastrico solare e dalla mancata apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture, tale da escludere “la destinazione all’utilizzo per la presenza stabile di persone”, laddove in parte motiva la stessa decisione precisa, inequivocabilmente, che: “(…) Il Collegio riconosce l’esistenza di una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è intesa come ripiano anch’esso di copertura, ma che nasce già delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di destinazione d’uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire (TAR Lazio Roma, Sez. II, 22.03.2004, n. 2676; TAR Campania, Sez. VII, 01.07.2010, n. 16540) (…)
”.
Tal è il caso che viene in rilievo nella specie, essendosi per l’appunto in presenza della trasformazione, in più punti, del lastrico solare di copertura in terrazzo, destinato alla fruizione da parte del ricorrente, che, per l’appunto, “ha pavimentato tre terrazzi e/o lastrici solari e vi ha apposto le ringhiere di protezione (punti 2, 4 e 8 dell’ordinanza di demolizione)”.
La successiva deduzione del ricorrente, secondo la quale la diversa utilizzazione che ne è scaturita non dovrebbe essere assistita “dal rilascio del permesso di costruire (in sanatoria)”, è, anzitutto, contraddittoria, perché, ciò nonostante, la sanatoria (id est l’accertamento di conformità) è stata, di fatto, richiesta al Comune (che ha respinto l’istanza); e, in secondo luogo, infondata, giusta l’indirizzo giurisprudenziale testé riferito (che s’esprime, proprio in termini di necessità del permesso di costruire, tout court, per interventi di tal genere).
L’indirizzo in questione, d’altro canto, è corroborato da ulteriori pronunce, tutte nel senso dell’imprescindibilità, in casi siffatti, del permesso a costruire: “La sostituzione della preesistente copertura inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato mediante l’apertura di una porta – finestra, forma parte funzionalmente integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di ristrutturazione edilizia” (TAR Liguria, Sez. I, 01/12/2016, n. 1177); “La trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica gli elementi tipologici formali e strutturali dell’organismo preesistente –risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma dell’immobile– e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia” (TAR Lazio–Latina, Sez. I, 24/12/2015, n. 870); “Il mutamento di destinazione d’uso della terrazza e il complesso delle opere connesse (rivestimento dell’area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire, tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché, almeno in parte, una modifica del prospetto dell’edificio” (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 01/07/2010, n. 16540).
Insomma, ne risulta confermato che, secondo quanto sancito dalla succitata sentenza del TAR Campania–Napoli, n. 1247/2013: “Nel caso si realizzi un cambio di destinazione d’uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001”.
E anche quando s’afferma, in giurisprudenza, che: “La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 01/04/2016, n. 846; conforme: TAR Liguria, Sez. I, 11/07/2011, n. 1088), ci si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in termini di terrazzo, laddove nella specie s’è invece in presenza, lo si ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri lastrici solari
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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Ciò posto, s’osserva –quanto alla prima censura, imperniata sulla dedotta mancata osservanza della garanzie partecipative, ex art. 7 l. 241/1990 (censura riferita, peraltro, alla sola ordinanza di demolizione, laddove, quanto al precedente diniego di sanatoria, dalla sua lettura emerge che è stata inviata, dal Comune, la comunicazione, ex art. 10-bis l. 241/1990, senza che, da parte del ricorrente, fossero licenziate controdeduzioni al riguardo)– che la stessa è idoneamente avversata da un indirizzo della giurisprudenza amministrativa, ampiamente consolidato, espresso in massime, come la seguente: “L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 28/08/2017, n. 4122).
Nella specie, l’inutilità della partecipazione procedimentale alla fase terminale del procedimento d’irrogazione di sanzioni edilizie è confermata, del resto, proprio dalla surriferita circostanza, secondo cui, posto che l’ordinanza di demolizione, nella specie, s’è posta in rapporto di diretta consequenzialità, logica e cronologica, rispetto al presupposto diniego dell’istanza d’accertamento di conformità, ex art. 36 d. P. R. 380/2001, presentata dal ricorrente, quest’ultimo ben è stato posto in condizione d’intervenire, nella fase che ha preceduto l’emissione del provvedimento negativo, da parte del Comune, circa tale istanza, senza –peraltro– che lo stesso si sia avvalso di tale facoltà.
Onde sarebbe comunque sterile la doglianza d’omessa comunicazione d’avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, riferita all’atto conseguente, rappresentato dall’ordinanza che irroga –sul presupposto dell’impossibilità di sanare gli abusi– la sanzione della demolizione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.01.2018 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISi può impugnare anche all'aggiudicazione. Se illegittimo un criterio d'assegnazione.
Legittimo impugnare un criterio di aggiudicazione illegittimo anche al momento dell'aggiudicazione.

Lo sostiene il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con la sentenza 03.01.2018 n. 8 che si esprime in senso opposto alla giurisprudenza che richiede che un criterio di aggiudicazione previsto in difformità da quanto prevede la legge deve essere immediatamente impugnato. Nel caso specifico, relativo ad una gara con procedura aperta per l'affidamento di un appalto di servizi con il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, era stato presentato un ricorso sul bando di gara poi modificato dopo il primo correttivo del codice appalti.
Il comma 10-bis dell'art. 95 del codice, come risultante dal dlgs. n. 56/2017, stabilisce che la stazione appaltante, al fine di assicurare la effettiva individuazione del miglior rapporto qualità-prezzo, deve valorizzare gli elementi qualitativi dell'offerta e a tale scopo la norma prescrive che sia stabilito un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30%. Il bando di gara iniziale prevedeva un limite massimo del 50% al ribasso economico, ma il successivo bando integrativo non aveva previsto alcun adeguamento rispetto alla modifica di legge.
Viceversa, ha detto il Tar, la disciplina di gara avrebbe dovuto conformarsi con lo ius superveniens e non avrebbe potuto, quindi, conservare la previsione di incidenza di punteggio economico in ragione del 50%, notevolmente superiore al limite legale (30%) introdotto dal correttivo. Su questo motivo di ricorso i giudici si esprimono nel senso della sua ricevibilità perché «l'impugnazione del criterio con cui si svolgerà la gara non può che essere posticipata al momento dell'aggiudicazione, momento in cui si attualizza la potenziale lesione».
Inoltre, nella sentenza si tiene a precisare come il collegio non condivida l'impostazione di parte della giurisprudenza amministrativa che, in tali casi, richiede l'immediata impugnazione del bando di gara. Si tratta di un profilo, peraltro, che il Consiglio di Stato (ordinanza della terza sezione del 07.11.2017, n. 5138) ha rimesso all'Adunanza plenaria per definire un orientamento certo (articolo ItaliaOggi del 12.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Le previsioni sanzionatorie del D.Lgs. n. 42/2004 per gli abusi edilizi in aree vincolate non si pongono in termini sostitutivi ma aggiuntivi rispetto alle sanzioni previste nel D.P.R. n. 380/2001. Tra l’altro mentre le prime si incentrano sull’assenza dell’autorizzazione paesaggistica, le seconde si collegano all’assenza del permesso di costruire o, comunque, di un idoneo titolo edilizio, in aree paesaggisticamente vincolate.
Inoltre, la giurisprudenza ha sempre rilevato come l'art. 27 del D.P.R. 380/2001, riconosca al Comune un potere di vigilanza sull'attività edilizia, anche con riguardo agli immobili vincolati, in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, conferendogli la competenza e imponendogli l'obbligo di provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
Ciò indipendentemente dall’applicazione di altre sanzioni previste dall’ordinamento e dalla riconosciuta concorrente competenza sanzionatoria della Soprintendenza, quale autorità preposta alla vigilanza sul vincolo storico e artistico, in base alle specifiche norme di settore.

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L’art. 27 D.P.R. n. 380/2001 sanziona con la demolizione gli abusi edilizi su aree vincolate indipendentemente dal grado complessivo di edificazione delle aree su cui tali abusi insistono.
Inoltre, il testo del comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che il dirigente o il responsabile ordini la demolizione, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite” senza titolo in area vincolata.
Dal testo della norma in questione si evince chiaramente che la misura della demolizione per la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia che venga accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta completa esecuzione di interventi abusivi.
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere innanzitutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia ultimata.
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5. Con altro motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato l’illegittimità dell’ordine di demolizione in quanto basato sulla previsione dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001.
Sul punto va chiarito che le previsioni sanzionatorie del D.Lgs. n. 42/2004 per gli abusi edilizi in aree vincolate non si pongono in termini sostitutivi ma aggiuntivi rispetto alle sanzioni previste nel D.P.R. n. 380/2001. Tra l’altro mentre le prime si incentrano sull’assenza dell’autorizzazione paesaggistica, le seconde si collegano all’assenza del permesso di costruire o, comunque, di un idoneo titolo edilizio, in aree paesaggisticamente vincolate.
5.1. Inoltre, la giurisprudenza ha sempre rilevato come l'art. 27 del D.P.R. 380/2001, riconosca al Comune un potere di vigilanza sull'attività edilizia, anche con riguardo agli immobili vincolati, in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, conferendogli la competenza e imponendogli l'obbligo di provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
Ciò indipendentemente dall’applicazione di altre sanzioni previste dall’ordinamento e dalla riconosciuta concorrente competenza sanzionatoria della Soprintendenza, quale autorità preposta alla vigilanza sul vincolo storico e artistico, in base alle specifiche norme di settore (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05.08.2009, n. 4733; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 05.08.2009, n. 4735; TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 2625 del 13.05.2009; TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 7561/2006; TAR Campania Napoli, sez. IV n. 18670/2005).
5.2. Né vale sostenere che la demolizione ex art. 27 D.P.R. n. 380/2001 possa essere disposta solo per le opere eseguite su aree inedificate e per opere in corso e non ancora terminate, in quanto l’applicazione di questo articolo presupporrebbe, oltre al vincolo paesaggistico gravate sull’area, anche che i lavori si trovino allo stato iniziale mentre nel caso di specie i manufatti risultavano come interamente completati.
...
L’art. 27 D.P.R. n. 380/2001 sanziona con la demolizione gli abusi edilizi su aree vincolate indipendentemente dal grado complessivo di edificazione delle aree su cui tali abusi insistono.
Inoltre, il testo del comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che il dirigente o il responsabile ordini la demolizione, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite” senza titolo in area vincolata.
Dal testo della norma in questione si evince chiaramente che la misura della demolizione per la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate è applicabile sia che venga accertato l'inizio, sia nel caso di avvenuta completa esecuzione di interventi abusivi.
In particolare, la corretta interpretazione dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 -la cui formulazione differisce, tra l'altro, dal precedente art. 4 della L. n. 47/1985 anche nel riferimento espresso all'accertamento dell'esecuzione (e non più soltanto dell'"inizio") delle opere- conduce a ritenere innanzitutto che l'inizio dell'esecuzione dell'opera abusiva costituisca la condizione minima per l'adozione del provvedimento di demolizione, ma né la lettera né lo scopo della norma legittimano a ritenere che l'adozione di tale provvedimento sia preclusa nel caso in cui l'opera sia ultimata (TAR Lazio-Roma Sez. I-quater Sent., 16.04.2008, n. 3259; in termini Cons. Stato, Sez. IV Sent., 10.08.2007, n. 4396, TAR Campania Napoli Sez. VI, 30.01.2007, n. 766) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.01.2018 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Con riguardo ai profili di pretesa incompatibilità tra RUP (titolare anche del sub-procedimento di valutazione di anomalia dell’offerta) e presidente della commissione di gara, l’odierno Collegio non intravede ragioni per discostarsi dall’orientamento recentemente seguito, su un caso simile, da questo stesso Tribunale, che esclude forme di automatismo nell’individuare incompatibilità tra le funzioni qui in esame.
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2. Con il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 77 del D.Lgs. n. 50/2016, nella nomina della commissione di gara, essendo composta da soggetti incompatibili con l’esercizio di tali funzioni. In particolare viene dedotta:
   - l’incompatibilità del presidente perché al tempo stesso anche Responsabile Unico del Procedimento (RUP), Dirigente del Servizio Cultura (cioè l’articolazione amministrativa che sottoscriverà il contratto), titolare del subprocedimento di anomalia delle offerte, firmatario di bando e capitolato;
   - l’incompatibilità degli altri due componenti della commissione (dott.ssa Si.Me. in qualità di Specialista in servizi e culturali e dott.ssa Em.En. in qualità di Responsabile U.O. Iniziative Culturali) che, nell’organizzazione dell’ente, risultano in posizione gerarchicamente subordinata a quella del presidente della commissione, essendo questi anche dirigente del servizio.
Con il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti viene ulteriormente dedotta l’illegittima composizione della commissione per ulteriore incompatibilità di quest’ultimo commissario, nominato responsabile del procedimento per la fase esecutiva del contratto come dimostra l’avvenuta adozione della determina 13.10.2017 n. 2715 recante “ampliamento del servizio di gestione dei servizi bibliotecari ai sensi dell’art. 106, comma 12, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
2.1 Le censure vanno disattese.
2.2 Con riguardo ai profili di pretesa incompatibilità tra RUP (titolare anche del sub-procedimento di valutazione di anomalia dell’offerta) e presidente della commissione di gara, l’odierno Collegio non intravede ragioni per discostarsi dall’orientamento recentemente seguito, su un caso simile, da questo stesso Tribunale (cfr. TAR Marche, 06.02.2017 n. 108), che esclude forme di automatismo nell’individuare incompatibilità tra le funzioni qui in esame (cfr. anche TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 11.01.2017 n. 452 e giurisprudenza ivi richiamata).
Sul punto sarebbe quindi stato onere della ricorrente fornire precisi elementi di prova sull’esistenza di possibili e concreti condizionamenti, del componente in questione, in relazione all’attività di RUP (TAR Marche, sentenza 02.01.2018 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAvvalimento, mettere limiti è illegittimo. In fase di selezione dell'aggiudicatario.
È illegittimo ogni limite all'avvalimento.

Lo ha ribadito il TAR Piemonte, I Sez., con la sentenza 02.01.2018, n. 1.
La questione si era posta in relazione a un bando che aveva previsto limiti all'avvalimento (per i servizi svolti nel triennio) utilizzando il comma 4 dell'articolo 89 del codice dei contratti laddove ammette che si possa prevedere che alcuni compiti «essenziali» siano «direttamente svolti dall'appaltatore o da un singolo partecipante all'associazione temporanea d'imprese». Il Tar ha dato ragione al ricorrente affermando che la norma del codice si riferisce al momento dell'esecuzione del contratto, non già alla fase pubblicistica di selezione dell'aggiudicatario, «nella quale il diritto di qualificarsi mediante avvalimento non tollera ulteriori compressioni dovute a indebite interpretazioni estensive delle norme del Codice».
I giudici hanno spiegato che dovrà poi essere il responsabile unico del procedimento, ai sensi del nono comma dell'art. 89, a dovere accertare in corso d'opera che le prestazioni oggetto di contratto siano «svolte direttamente dalle risorse umane e strumentali dell'impresa ausiliaria» che il titolare del contratto, ossia l'impresa appaltatrice, utilizza in adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento. Le prestazioni «essenziali» sono pertanto eseguite dall'appaltatore, che ne risponde direttamente verso la stazione appaltante e che si avvale, con la forma liberamente prescelta nell'autonomia d'impresa, della manodopera e dei mezzi dell'ausiliaria che gli ha consentito di integrare la propria qualificazione ai fini dell'ammissione alla gara.
In generale, quindi, la direttiva 2004/18/Ce e la direttiva 2014/24/Ue hanno consentito senza riserve, ed in sostanziale continuità tra loro, il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di qualificazione imposti dall'amministrazione aggiudicatrice, purché si dimostri di disporre effettivamente dei mezzi delle imprese ausiliarie necessari all'esecuzione dell'appalto. Le direttive, in altre parole, consentono di esigere che, nella fase esecutiva, determinate lavorazioni siano riservate al solo appaltatore ovvero ad un membro del raggruppamento d'imprese (articolo ItaliaOggi del 05.01.2018).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
L’art. 89, quarto comma, del d.lgs. n. 50 del 2016, interpretato in conformità con i principi posti in tema di avvalimento dalla normativa comunitaria, non consente l’imposizione di un divieto quale quello stabilito dal Consorzio Ch. nella gara qui controversa (divieto di avvalimento e di divieto di possesso frazionato, per il requisito di capacità tecnica relativo allo svolgimento di un servizio di lettura e trasmissione dati di transponders).
Chiamata a pronunciarsi sugli artt. 47 e 48 della previgente direttiva 2004/18/CE, la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che il diritto dell’Unione non impone che l’impresa concorrente sia in grado di realizzare direttamente, con mezzi propri, la prestazione convenuta (sent. 23.12.2009, C‑305/08, Conisma). La direttiva 2004/18/CE, per tale aspetto non contraddetta dalla successiva direttiva 2014/24/UE, non vieta che un concorrente possa avvalersi delle capacità di una o più imprese ausiliarie, in aggiunta alle proprie capacità, al fine di soddisfare i criteri di qualificazione posti dal bando di gara, secondo lo schema del cosiddetto avvalimento “cumulativo” o “frazionato (sent. 10.10.2013, C‑94/12, Swm Costruzioni).
L’avvalimento “cumulativo” è oggi espressamente previsto e consentito dall’art. 89, sesto comma, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Secondo questa stessa giurisprudenza,
le direttive europee riconoscono il diritto di ogni operatore economico di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti “a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi” e purché sia dimostrato all’amministrazione aggiudicatrice che l’offerente disporrà dei mezzi di tali soggetti necessari per l’esecuzione della prestazione (sent. 14.01.2016, C-234/14, Ostas Celtnieks).
Pertanto,
deve ritenersi che la direttiva 2004/18/CE e la direttiva 2014/24/UE abbiano consentito senza riserve, ed in sostanziale continuità tra loro, il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di qualificazione imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla stessa si dimostri che l’appaltatore che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti ausiliari disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto. Tale interpretazione, per espressa affermazione della Corte di Giustizia, risponde all’obiettivo dell’apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, a vantaggio non soltanto degli operatori economici stabiliti negli Stati membri, ma parimenti delle amministrazioni aggiudicatrici. Essa, inoltre, è idonea a facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, principio enunciato dalla direttiva 2004/18/CE e rafforzato, come è noto, dalla direttiva 2014/24/UE.
I profili di discontinuità nella disciplina comunitaria dell’avvalimento sono invece ravvisati, dalla Corte, nel primo comma dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, laddove prevede che gli operatori economici possano fare affidamento sulle capacità di altri soggetti “solo se questi ultimi eseguono i lavori o i servizi per cui tali capacità sono richieste” (sent. 07.04.2016, C-324/14, Partner Apelski Dariusz).
La Corte aveva tuttavia rilevato, già in relazione alla disciplina degli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE, che non può escludersi a priori l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità, che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori. In tale ipotesi, che costituisce una situazione eccezionale e non può assurgere a regola generale, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo di qualificazione sia raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, facendo utilizzo di un numero limitato di operatori economici, laddove siffatta esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto dell’appalto (sent. 10.10.2013, C-94/12, Swm Costruzioni).
La Corte, sebbene in occasione dell’esame di questione pregiudiziale riguardante ratione temporis la direttiva 2004/18/CE, ha già avuto cura di chiarire il significato dell’art. 63, secondo comma, della direttiva 2014/24/UE, ai cui sensi è consentito “nel caso di appalti di lavori, di appalti di servizi e operazioni di posa in opera o installazione nel quadro di un appalto di fornitura” che le stazioni appaltanti esigano “che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente stesso o (…) da un partecipante al raggruppamento”.
La Corte, in proposito, ha affermato: “
(…) le specifiche disposizioni menzionate dal giudice del rinvio prevedono la possibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di esigere che il soggetto di cui ci si avvale per soddisfare i requisiti previsti in materia di capacità economica e finanziaria sia solidalmente responsabile (articolo 63, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 2014/24) o che, per taluni tipi di contratti, determinate prestazioni siano direttamente svolte dall’offerente stesso (articolo 63, paragrafo 2, di tale direttiva). Tali disposizioni non fissano quindi limiti specifici alla possibilità di avvalimento frazionato delle capacità di soggetti terzi” (sent. 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo).
Il secondo comma dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, che per la sua formulazione letterale pone una regola self-executing direttamente rivolta alle amministrazioni aggiudicatrici, non consente dunque di vietare il ricorso all’avvalimento per determinate prestazioni “essenziali”, bensì riconosce alle amministrazioni la facoltà di esigere che, nella fase esecutiva, dette lavorazioni siano riservate al solo appaltatore ovvero ad un membro del raggruppamento d’imprese. La norma, secondo l’interpretazione già emersa nella giurisprudenza comunitaria, si riferisce alla fase esecutiva dell’appalto e non autorizza l’amministrazione a restringere, in sede di gara, la possibilità di procurarsi mediante avvalimento le risorse tecniche ed economiche riguardanti i “compiti essenziali”.
Peraltro, alla stessa conclusione conduce l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, che dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE ha fatto recepimento.
Le limitazioni in senso stretto del diritto di avvalimento sono contemplate esclusivamente nei commi primo (per i requisiti di idoneità professionale), decimo (per l’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali) ed undicesimo (per le categorie SOA superspecialistiche) dell’art. 89. Il legislatore, quando ha voluto vietare l’avvalimento in gara, l’ha fatto con disposizioni chiare ed univoche.
Viceversa, il quarto comma dell’art. 89 si limita a stabilire, seppure nel contesto della disciplina dell’avvalimento e con fedele riproduzione della corrispondente norma della direttiva comunitaria, che la lex specialis di gara può prevedere che taluni compiti “essenziali” siano “direttamente svolti” dall’appaltatore o da un singolo partecipante all’associazione temporanea d’imprese, così riferendosi al momento dell’esecuzione del contratto, non già alla fase pubblicistica di selezione dell’aggiudicatario, nella quale il diritto di qualificarsi mediante avvalimento non tollera ulteriori compressioni dovute ad indebite interpretazioni estensive delle norme del Codice.
Il compito di vigilanza, nella fase esecutiva, è assegnato al responsabile unico del procedimento che, ai sensi del nono comma dell’art. 89, accerta in corso d’opera che le prestazioni oggetto di contratto siano “svolte direttamente dalle risorse umane e strumentali dell’impresa ausiliaria” che il titolare del contratto, ossia l’impresa appaltatrice, utilizza in adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento.
Le prestazioni “essenziali” sono pertanto eseguite dall’appaltatore, che ne risponde direttamente verso la stazione appaltante e che si avvale, con la forma liberamente prescelta nell’autonomia d’impresa, della manodopera e dei mezzi dell’ausiliaria che gli ha consentito di integrare la propria qualificazione ai fini dell’ammissione alla gara.

EDILIZIA PRIVATA: A mente dell’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, le varianti sono configurabili soltanto quando le modificazioni qualitative o quantitative sono di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario.
Gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono i parametri urbanistici e le volumetrie.
Nel caso di specie è provato che sono state modificate, per giunta in aumento, le superfici commerciali e le volumetrie, sicché è alterata la tipologia stessa dell’intervento.

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8. Nel merito, l’appello è infondato e non merita, dunque, accoglimento, per le seguenti ragioni.
8.1. Col primo mezzo sono dedotte l’unitarietà dell’intervento realizzato di demolizione e ricostruzione e la natura di mere “varianti in corso d’opera” delle nuove superfici e cubature realizzate, peraltro a lieve modificazione –si asserisce– rispetto all’intervento di ristrutturazione edilizia già autorizzato.
8.1.2. L’assunto non può essere condiviso.
8.1.3. Dalle produzioni documentali versate agli atti del giudizio si evince che la società Ro. non ha mai presentato alcuna richiesta di variante in corso d’opera, mentre è appurato che la stessa ha richiesto, dopo la realizzazione degli interventi, due istanze di sanatoria: la prima, in data 30.04.2005, per ottenere il rilascio di “permesso di costruire in sanatoria per la demolizione totale del fabbricato oggetto del piano di recupero”, e la seconda, in pari data, per ottenere il “permesso di costruire in sanatoria per ricostruzione di fabbricato oggetto di piano di recupero precedentemente demolito”.
In nessuna parte delle anzidette istanze la società ha qualificato l’intervento come “variante in corso d’opera”.
8.1.4. In ogni caso, pur a volere prescindere dalle qualificazioni formali, è provato che la società ricorrente ha, di fatto, in totale difformità da quanto autorizzato con la d.i.a. n. 143/2004, posto in essere un’abusiva demolizione totale dell’immobile (il quale, invece, avrebbe dovuto essere oggetto di un complesso intervento edilizio fatto di demolizioni parziali, ricostruzioni e risanamenti conservativi, soprattutto per quanto riguardava la facciata su via S. Stefano) con successiva ricostruzione dell’immobile medesimo, peraltro diverso rispetto all’originario progetto quanto a volumi e superfici.
8.1.5. Non ha trovato positivo riscontro in giudizio neppure l’assunto, propugnato dalla società ricorrente, secondo cui la variante in corso d’opera sarebbe stata resa necessaria dal pericolo di crollo strutturale dell’immobile, giacché non è stato offerto alcun elemento probatorio da cui inferire l’esistenza stessa delle condizioni legittimanti tale richiesta di variante, né –del resto– risulta essere stato sollecitato alcun atto di accertamento comunale ai sensi dell’art. 7 delle NTA del p.r.g..
8.1.6. Del tutto legittimamente, pertanto, come ritenuto dal giudice di prime cure, il comune ha proceduto a rilasciare i due permessi in sanatoria, applicando le relative sanzioni di legge: l’una (rimasta inoppugnata) pari ad euro 5.164,00 per la demolizione totale dell’edificio, per stigmatizzare un’attività edilizia compiuta in totale difformità rispetto all’intervento originariamente autorizzato, consistente in una combinazione di demolizioni parziali, ricostruzioni e risanamenti conservativi in modo da salvaguardare parte della struttura esistente, mantenendo alcuni elementi, quali –in particolare– la facciata (cd. specifiche di facciata); l’altra (oggetto dell’odierna impugnazione) per sanzionare la ricostruzione dell’edificio in totale difformità rispetto al progetto originariamente autorizzato per volumi e superfici.
8.1.7. Né, del resto, può condividersi la tesi secondo la quale i detti interventi costituirebbero, sul piano funzionale, un unicum costruttivo e, su quello contenutistico, delle mere varianti in corso d’opera.
Quanto al primo aspetto, infatti, gli interventi posti in essere appaiono distinti anche sul piano materiale, non comportando –la demolizione integrale in totale difformità– una necessaria attività di riedificazione in totale difformità, anch’essa, rispetto al progetto originariamente assentito. Il primo giudice ha, del tutto correttamente, evidenziato in punto di fatto questa circostanza, sottolineando che le difformità rispetto al progetto originariamente assentito sono state ben due, la prima consistente nell’integrale demolizione e, la seconda, nella riedificazione con volumi e superfici anch’essi diversi e, per giunta, in aumento.
Quanto, invece, all’asserita riqualificazione in termini di varianti, va osservato che, a mente dell’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, le varianti sono configurabili soltanto quando le modificazioni qualitative o quantitative sono di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario.
Gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono i parametri urbanistici e le volumetrie. Nel caso di specie è provato che sono state modificate, per giunta in aumento, le superfici commerciali e le volumetrie, sicché è alterata la tipologia stessa dell’intervento (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 21.03.2011, n. 1726) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2017 n. 6185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' del tutto pacifico che per "interventi di ristrutturazione edilizia" sono ricompresi in astratto, tra gli altri, anche gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria (un tempo, anche la sagoma), di quello preesistente.
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8.2. Col secondo motivo l’appellante assume la violazione e la falsa applicazione degli artt. 3 del d.p.r. n. 380/2001 e 27 della l.r. Lombardia n. 12 del 2005. L’argomento -come correttamente rilevato dal primo giudice– è, prima ancora che infondato, del tutto inconferente rispetto al caso all’esame.
Nella specie, infatti, non è in contestazione la fattibilità di un intervento edilizio di demolizione con successiva ricostruzione nel centro storico ai sensi dell’art. 29 delle NTA, ma il giudizio di totale difformità tra quanto previsto nel piano di recupero concordato tra il comune e il privato e divenuto oggetto di d.i.a. nel 2004 e quanto, poi, effettivamente realizzato.
Pertanto, diviene del tutto irrilevante discutere di cosa debba intendersi, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001 (e, quindi, della corrispondente norma regionale lombarda) per "interventi di ristrutturazione edilizia", giacché è del tutto pacifico che tale espressione è idonea a ricomprendere, in astratto, tra gli altri, anche gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria (un tempo, anche la sagoma), di quello preesistente.
Ora, in disparte l’(ovvia) considerazione che, per quanto sopra spiegato, nel caso di specie è addirittura mutata in aumento la volumetria, resta comunque argomento dirimente e insuperabile quello concernente l’oggetto specifico dell’attività sanzionatoria comunale, intervenuta per sanzionare un intervento eseguito non già in violazione dell’art. 29 delle NTA, ma in violazione del piano di recupero (rimasto inoppugnato), il quale circoscriveva esattamente ciò che poteva essere demolito e ricostruito e ciò che, invece, doveva essere conservato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2017 n. 6185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento (demolizione e ricostruzione) è stato realizzato in totale difformità dell’originario titolo edilizio sicché l’ottenimento del permesso in sanatoria è subordinato, tra le altre cose, al ricalcolo del contributo di costruzione in misura doppia, previo scomputo –ovviamente– di quanto già versato in pregresso.
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Come già illustrato, il provvedimento impugnato, di ricalcolo degli oneri di costruzione per la sanatoria della ricostruzione in totale difformità, è stato emesso ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, il quale esige, tra le altre condizioni, il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia.
Pertanto, del tutto legittimamente l’amministrazione comunale ha proceduto al detto ricalcolo sull’intera nuova volumetria realizzata, trattandosi di intervento in totale difformità.
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8.3. Pure il terzo mezzo non incontra migliore favore.
8.3.1. Il provvedimento impugnato di ricalcolo degli oneri di costruzione è stato emesso ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, a tenore del quale “1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 23, comma 1, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articolo 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso
”.
8.3.2. Per quanto sopra detto, l’intervento è stato realizzato in totale difformità dell’originario titolo edilizio (la d.i.a. del 2004), sicché l’ottenimento del permesso in sanatoria è subordinato, tra le altre cose, al ricalcolo del contributo di costruzione in misura doppia, previo scomputo –ovviamente– di quanto già versato in pregresso.
8.3.3. Né detta oblazione (la quale è riferita allo specifico intervento di ricostruzione in totale difformità, intervento per il quale è stata presentata la seconda istanza di rilascio di permesso in sanatoria da parte della società) può essere esclusa dal pagamento della sanzione amministrativa irrogata per il (diverso) intervento di demolizione totale in difformità della d.i.a. del 2004 (intervento per il quale la società ha presentato la prima domanda di rilascio di permesso in sanatoria).
Quest’ultima sanzione, infatti, sebbene inizialmente giustificata dal comune in base al richiamo all’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, e poi rettificata mediante il riferimento all’art. 33, comma 4, del medesimo d.p.r., (la rettifica è stata motivata dalla mera circostanza oggettiva dell’ubicazione dell’immobile in centro storico ed è rimasta, anch’essa, inoppugnata), concerne la (diversa) fattispecie della demolizione in totale difformità e, per giunta, oggi non può più essere contestata in difetto di tempestiva impugnazione.
8.4. Infine, del tutto infondato è pure il quarto mezzo.
8.4.1. Come sopra già illustrato, il provvedimento impugnato, di ricalcolo degli oneri di costruzione per la sanatoria della ricostruzione in totale difformità, è stato emesso ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, il quale esige, tra le altre condizioni, il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia. Pertanto, del tutto legittimamente l’amministrazione comunale ha proceduto al detto ricalcolo sull’intera nuova volumetria realizzata, trattandosi di intervento in totale difformità.
9. Per le considerazioni che precedono l’appello va, dunque, respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2017 n. 6185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale:
   a) nelle gare pubbliche il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci;
   b) il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non mira ad individuare specifiche e singole inesattezze nella sua formulazione ma, piuttosto, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto;
   c) al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico.
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Col secondo motivo le appellate denunciano che le giustificazioni prodotte dall’aggiudicataria rivelerebbero l’inattendibilità della sua offerta in quanto:
   a) i dati di rendimento delle caldaie sarebbero stati forniti unilateralmente dalla Si. e non garantirebbero un valore oggettivo, ciò viepiù in quanto la nuova verifica avrebbe dovuto superare le risultanze negative a cui era pervenuto il CTU nell’ambito del giudizio proposto dalle appellate contro l’aggiudicazione in favore della Si. (giudizio definito con sentenza 08.07.2015 n. 1028);
   b) l’utilizzo di tali dati solo da parte della Si. darebbe luogo ad una palese disparità di trattamento a danno degli altri concorrenti che non hanno potuto usufruirne al fine di formulare le proprie offerte;
   c) i dati di rendimento, la composizione e il costo del metano sarebbero variabili nel tempo, pertanto in sede di gara si dovrebbero prendere in considerazione i criteri dettati dalla normativa tecnica vigente, in ogni caso i costi della fornitura, come da capitolato, sarebbero adeguati al costo dei combustibili sul mercato;
   d) i nuovi giustificativi risulterebbero inattendibili in quanto nei primi due scenari prospettati dalla Si. verrebbe considerato, come unità di misura, il Nmc invece che il Smc e ciò, oltre che non consentito, rappresenta un’inammissibile modifica dell’offerta in sede di verifica dell’anomalia;
   e) nel primo e nel terzo scenario ipotizzati dalla stessa concorrente si eseguirebbero calcoli sulla base di rendimenti stagionali delle caldaie dalla medesima unilateralmente misurati a consuntivo e con uno strumento di cui non si conoscerebbero le caratteristiche, la sua conformità a norma e il certificato di taratura;
   f) in ciascuno dei tre scenari l’odierna appellante avrebbe rimodulato via via le singole voci di costo variando illegittimamente i valori dei costi complessivi.
La doglianza così sinteticamente riassunta non merita accoglimento.
In termini generali occorre premettere che un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui il Collegio non intende discostarsi, insegna che:
   a) nelle gare pubbliche il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci (Cons. Stato, V, 17.11.2016, n. 4755; III, 06.02.2017, n. 514);
   b) il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non mira ad individuare specifiche e singole inesattezze nella sua formulazione ma, piuttosto, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto;
   c) al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (Cons. Stato, V, 13.02.2017, n. 607 e 25.01.2016, n. 242; III, 22.01.2016, n. 211 e 10.11.2015, n. 5128).
Nel caso di specie, con apprezzamento tecnico insindacabile sotto il profilo del merito, la stazione appaltante, alla luce delle giustificazioni fornite dalla Si., ha ritenuto congrua l’offerta da quest’ultima presentata.
Per contro, le appellate si sono limitate a criticare i dati esposti dall’aggiudicataria e le giustificazioni dalla medesima fornite, senza, tuttavia, allegare, in modo specifico e dettagliato, quale sarebbe il maggior onere complessivamente da sostenere per l’esecuzione della commessa, di modo che non risulta addotto alcun elemento atto a dimostrare che i più elevati costi sarebbero tali da erodere completamente l’utile d’impresa dichiarato.
Così facendo hanno, però, violato l’onere, sulle medesime gravante, di fornire puntuali elementi di riscontro in ordine alla sussistenza della predicata anomalia (Cons. Stato, V, 12.05.2017, n. 2228) e ciò pregiudica irrimediabilmente la possibilità di accogliere la censura.
In definitiva, quindi, i motivi di gravame riproposti dalle appellate risultano infondati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2017 n. 6158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARITroppi cani creano disagio. Ai vicini.
Non è possibile ospitare un numero sempre crescente di animali da affezione in casa. E impedire agli organi di controllo di verificare lo stato di detenzione dei cani.

Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. II, con sentenza 29.12.2017 n. 1378.
Alcuni vicini hanno richiesto l'intervento del comune a causa del disagio provocato dallo stato di cattiva manutenzione dell'area esterna di una abitazione piena di cani. A seguito del sopralluogo dei servizi veterinari il sindaco ha adottato una prima ordinanza di ripristino e pulizia della zona rimasta però inapplicata.
Successivamente sono quindi intervenuti i Nas che hanno proceduto al sequestro di ben 29 cani con affidamento degli animali al locale servizio di ospitalità. Contro il conseguente provvedimento di convalida adottato dal sindaco gli interessati hanno proposto senza successo ricorso al Tar. Impedendo tra l'altro anche l'effettiva esecuzione dei provvedimenti adottati (articolo ItaliaOggi del 04.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Determinazione e liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione - Diritto dell’interessato alla restituzione - Controversie - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Le controversie attinenti alla determinazione e alla liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, nonché l'azione volta alla declaratoria del diritto dell'interessato alla restituzione delle somme versate al Comune per mancato utilizzo del titolo edilizio appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Si tratta, peraltro, di azione che può essere proposta a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario (ex multis, Tar Catania n. 2015 n. 2585).
Contributo per oneri di urbanizzazione - Decadenza del titolo edilizio - Diritto alla restituzione - Termine di prescrizione - Decorrenza.
In ipotesi di decadenza del titolo edilizio, ai fini della decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione decennale relativo alla restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, il "dies a quo" deve essere individuato nel momento in cui il diritto al rimborso può essere effettivamente esercitato dal privato, ossia nella data di scadenza del termine di decadenza
Contributo di costruzione - Rinuncia o decadenza del titolo edilizio - Effetti - Avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie - Diritto alla rideterminazione del contributo.
Il contributo di costruzione, essendo strettamente connesso al concreto esercizio della facoltà di costruire, non è dovuto in caso di rinuncia o di mancato utilizzo del titolo edificatorio.
Conseguentemente, allorché il privato rinunci al permesso di costruire o non lo utilizzi, ovvero in ipotesi di intervenuta decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi dell'art. 2033 c.c., o comunque, dell'art. 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il diritto alla restituzione del contributo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, peraltro, sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia utilizzato solo parzialmente (TAR Milano, n. 496 del 2017).
Tuttavia, in tal caso, si deve tener conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione, di talché l'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata (TAR Catania, n. 189 del 2017) (TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 29.12.2017 n. 610 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie attinenti alla determinazione e alla liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, nonché l'azione volta alla declaratoria del diritto dell'interessato alla restituzione delle somme versate al Comune per mancato utilizzo del titolo edilizio appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si tratta, peraltro, di azione che può essere proposta a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario.
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In ipotesi di decadenza del titolo edilizio, ai fini della decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione decennale relativo alla restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, il "dies a quo" deve essere individuato nel momento in cui il diritto al rimborso può essere effettivamente esercitato dal privato, ossia nella data di scadenza del termine di decadenza, che nel caso di specie è maturato decorsi tre anni dall’inizio dei lavori.
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Secondo la costante giurisprudenza, sussiste il diritto alla restituzione di quanto pagato a titolo di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione in caso di mancato utilizzo del titolo edilizio.
La giurisprudenza ha in particolare chiarito che il contributo di costruzione, essendo strettamente connesso al concreto esercizio della facoltà di costruire, non è dovuto in caso di rinuncia o di mancato utilizzo del titolo edificatorio. Conseguentemente, allorché il privato rinunci al permesso di costruire o non lo utilizzi, ovvero in ipotesi di intervenuta decadenza del titolo edilizio, come nel caso di specie, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi dell'art. 2033 c.c., o comunque, dell'art. 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il diritto alla restituzione del contributo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, peraltro, sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia utilizzato solo parzialmente.
Insomma, poiché il contributo concessorio è strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio, è evidente che, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito, con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente.
Tuttavia, in tal caso, si deve tener conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione, di talché l'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata.
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2. Oggetto della domanda attorea è il diritto al rimborso degli importi versati dalla società ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione e a titolo di contributo di costruzione relativamente alla pratica edilizia n. PC0008/08, nonché la condanna del Comune di Luco dei Marsi alla relativa restituzione.
In via preliminare, osserva il Collegio che le controversie attinenti alla determinazione e alla liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, nonché l'azione volta alla declaratoria del diritto dell'interessato alla restituzione delle somme versate al Comune per mancato utilizzo del titolo edilizio appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si tratta, peraltro, di azione che può essere proposta a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario (ex multis, Tar Catania n. 2015 n. 2585).
Sempre in via preliminare, ricorda il Collegio che, in ipotesi di decadenza del titolo edilizio, ai fini della decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione decennale relativo alla restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, il "dies a quo" deve essere individuato nel momento in cui il diritto al rimborso può essere effettivamente esercitato dal privato, ossia nella data di scadenza del termine di decadenza, che nel caso di specie è maturato decorsi tre anni dall’inizio dei lavori (29.09.2009).
Ne consegue che, ancorché il ricorso sia stato notificato solamente il 05.07.2017 e depositato ritualmente notificato il 21.07.2017, nessun termine prescrizionale risulta maturato.
Tanto premesso, nel merito, il Collegio ricorda che, secondo la costante giurisprudenza, sussiste il diritto alla restituzione di quanto pagato a titolo di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione in caso di mancato utilizzo del titolo edilizio (ex multis, Consiglio di Stato, n. 3456 del 2017).
La giurisprudenza ha in particolare chiarito che il contributo di costruzione, essendo strettamente connesso al concreto esercizio della facoltà di costruire, non è dovuto in caso di rinuncia o di mancato utilizzo del titolo edificatorio. Conseguentemente, allorché il privato rinunci al permesso di costruire o non lo utilizzi, ovvero in ipotesi di intervenuta decadenza del titolo edilizio, come nel caso di specie, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi dell'art. 2033 c.c., o comunque, dell'art. 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il diritto alla restituzione del contributo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, peraltro, sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia utilizzato solo parzialmente (TAR Milano, n. 496 del 2017)
Insomma, poiché il contributo concessorio è strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio, è evidente che, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito, con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente.
Tuttavia, in tal caso, si deve tener conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione, di talché l'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata (TAR Catania, n. 189 del 2017).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e va dichiarato il diritto della società ricorrente alla rideterminazione del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, versato in relazione al permesso di costruire n. 8 del 2008, in proporzione alla parte di opera effettivamente realizzata, e alla restituzione della quota del contributo stesso relativa alla parte non realizzata (TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 29.12.2017 n. 610 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gravi illeciti professionali dichiarazioni di penali ancora sub judice.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Penali ancora sub judice – Omessa dichiarazione – Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 – Non comporta esclusione.
Le penali comminate da una stazione appaltante sub judice non integrano ex lege una “significativa carenza nell'esecuzione di un precedente contratto”, prevista dall’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, rimanendo fuori della tipizzazione costituente il nucleo della pertinente norma di legge a base della dichiarazione sostitutiva da rendere, con la conseguenza che l’omessa dichiarazione in sede di presentazione della domanda di partecipazione alla gara non comporta l’esclusione del concorrente dalla procedura (1).
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   (1) Il comma 5 dell’art. 80 dispone che “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione; …”.
Ha chiarito il C.g.a. che possono essere considerate come “altre sanzioni”, l’incameramento delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di applicazione di penali in misura modesta. Se, pertanto, in relazione ad un pregresso contratto, non si sono prodotti tali effetti giuridici (risoluzione anticipata “definitiva” perché non contestata ovvero confermata in giudizio, penali, risarcimento, incameramento della garanzia), un eventuale “inadempimento contrattuale” non assurge, per legge, al rango di “significativa carenza”.
Ha aggiunto che la formulazione tipizzatrice recata dall’art. 80 al comma 5, lett. c), pone in primo piano l’importante ruolo ricoperto per le imprese dalla garanzia giurisdizionale.
Tale elemento si desume non solo dalla circostanza che la paradigmatica evenienza della risoluzione anticipata del contratto vale quale indice patologico ex lege soltanto quando la risoluzione stessa sia rimasta “non contestata in giudizio”, ovvero, nel caso opposto, solo ove sia risultata “confermata all'esito” dello stesso giudizio; ma anche dall’ulteriore considerazione che la seconda ipotesi tipizzata dal legislatore nella stessa lett. c) è quella della pronuncia di una “condanna al risarcimento del danno”, evenienza che postula certamente anch’essa la mediazione e l’accertamento imparziale di un Giudice.
Quanto alla terza ipotesi della lett. c), quella appunto sottesa alle parole “ad altre sanzioni”, non è del tutto chiaro sul piano testuale, per la verità, se tali parole debbano ricollegarsi specificamente al sostantivo “condanna” (“condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”), con la conseguente conferma anche in questo caso di quanto testé detto sulla necessità di un intervento giudiziale, o le dette parole debbano piuttosto rapportarsi al precedente predicato “hanno dato luogo” (“hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”).
Ha affermato il C.g.a. che peraltro, anche a seguire questa seconda opzione, in ogni caso, non sembra possibile interpretare la dizione normativa ritenendo che la sanzione inflitta direttamente dall’Amministrazione possa rientrare nella tipizzazione legislativa che costituisce il nucleo della norma in esame prescindendosi dal rispetto di quella garanzia giurisdizionale che permea comunque di sé, come si è visto, la norma nel suo insieme, presentandosi come un valore cui il legislatore, nello specifico del conflitto d’interessi considerato, ha mostrato di voler assegnare un ruolo essenziale. Questo anche perché la norma, laddove diversamente intesa, assumerebbe una portata apertamente contraddittoria.
Le violazioni più gravi di un’impresa appaltatrice, gravi al punto d’indurre la committente pubblica ad attivare il rimedio risolutorio per far cessare anzitempo il rapporto contrattuale, assumerebbero rilievo patologico ex lege solo in via eventuale e differita, a condizione, cioè, che tale risoluzione non fosse stata contestata in giudizio, oppure, in caso di controversia sul punto, ove la risoluzione venisse dal giudizio confermata.
Per converso, le violazioni contrattuali punite con semplici penali, per definizione meno gravi in quanto compatibili con la prosecuzione del rapporto in corso, avrebbero rilevanza immediata quali indici di criticità ex lege a carico dell’impresa colpitane, che si vorrebbe pertanto passibile di espulsione da qualunque gara secondo l’apprezzamento dell’Amministrazione, salvo poi magari ottenere, a distanza di tempo anche notevole, il riconoscimento giudiziale che la penale era stata irrogata senza fondamento, o anche solo in violazione del criterio di proporzionalità.
Se è vero, quindi, che tra le “altre sanzioni” possono essere incluse anche le penali contrattuali, deve però ritenersi che quando l’applicazione di una “altra sanzione” promani da una semplice controparte contrattuale, senza la mediazione dell’Autorità giudiziaria, anch’essa per ragioni di garanzia per l’impresa debba soddisfare, per poter efficacemente integrare la tipizzazione legislativa di cui si è detto, il requisito della definitività o conferma giurisdizionale.
L’esigenza di coordinare l’unilateralità dell’irrogazione delle penali contrattuali con i contenuti di garanzia della norma in esame porta a concludere, in altre parole, che le prime solo quando siano corredate del requisito appena detto possono soddisfare quell’indice di riconoscimento delle “significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto” che è stato ancorato dalla legge agli effetti giuridici prodotti (CGARS, sentenza 28.12.2017 n. 575 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In epoca recente si sono registrate opinioni diverse in sede giurisprudenziale in ordine alla verifica di sufficienza del criterio della vicinitas a considerare assolti gli oneri necessari a dimostrare la legitimatio ad causam con riferimento alla proposizione di controversie aventi ad oggetto la disciplina edilizia.
Per un primo orientamento la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il fondo oggetto dell'intervento contestato, è considerata come elemento di per sé sufficiente a sorreggere l'interesse a ricorrere avverso l'abuso del vicino.
In altri casi, però, la giurisprudenza ha, altresì, riconosciuto che "il mero criterio della vicinitas non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati".
Non mancano anche posizioni intermedie che pur affermando su di un piano generale la sufficienza della vicinitas quale presupposto della dimostrazione della esistenza di una legitimatio ad causam, fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo sia pur diversamente declinato.
E’ stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento amministrativo impugnato" con ciò richiedendo una lesione qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili (stabile collegamento o vicinitas), ravvisa la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili" si è giunti, con posizione meno restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili purché suscettibili di essere incise dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore altrui", con ciò riconoscendo rilevanza ad una tipologia di lesione meno caratterizzata.
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8. – Va preliminarmente scrutinata la eccezione con la quale le parti resistenti sostengono il difetto di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti nel caso di specie, non potendo ritenersi sufficiente a corroborare l’interesse alla proposizione del ricorso il mero richiamo al criterio della vicinitas.
In argomento va detto, in via generale, che in epoca recente si sono registrate opinioni diverse in sede giurisprudenziale in ordine alla verifica di sufficienza del criterio della vicinitas a considerare assolti gli oneri necessari a dimostrare la legitimatio ad causam con riferimento alla proposizione di controversie aventi ad oggetto la disciplina edilizia.
Per un primo orientamento (cfr., ex multis, TAR Basilicata, 28.11.2016 n. 1071 e TAR Piemonte, Sez. I, 28.11.2016 n. 1071) la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il fondo oggetto dell'intervento contestato, è considerata come elemento di per sé sufficiente a sorreggere l'interesse a ricorrere avverso l'abuso del vicino.
In altri casi, però, la giurisprudenza ha, altresì, riconosciuto che "il mero criterio della vicinitas non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2016 n. 383).
Non mancano anche posizioni intermedie che pur affermando su di un piano generale la sufficienza della vicinitas quale presupposto della dimostrazione della esistenza di una legitimatio ad causam, fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo sia pur diversamente declinato.
E’ stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento amministrativo impugnato" (così TAR Piemonte, Sez. I, 01.12.2016 n. 1477) con ciò richiedendo una lesione qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili (stabile collegamento o vicinitas), ravvisa la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili" si è giunti, con posizione meno restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili purché suscettibili di essere incise dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore altrui (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 7245 del 05.11.2004; sez. V, sent. n. 3757 del 07.07.2005; sent. 354 del 31.01.2006; n. 2086 del 07.05.2008; sez IV, sent. n. 1315 del 12.03.2015)" (cfr., testualmente, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 09.06.2016 n. 719), con ciò riconoscendo rilevanza ad una tipologia di lesione meno caratterizzata.
Nel caso di specie, invero, che sussista la legitimatio ad causam, in capo ai condomini ricorrenti, a contestare la realizzazione della struttura installata dalla Ca.Se. è fuori di dubbio; e ciò non solo per la innegabile e non contestabile prossimità spaziale che intercorre tra le proprietà ma anche per la evidente capacità invasiva della struttura in questione con riferimento agli indici di capacità condizionante in via pregiudizievole il godimento, da parte dei condomini ricorrenti, delle loro proprietà provocata dalla presenza dell’opera, secondo quanto è possibile agevolmente rilevare dalla copiosissima produzione fotografica versata in atti.
Infatti, in molte pose fotografiche che riprendono la non modesta struttura costruita in aderenza al fabbricato risulta con tutta evidenza che la costruzione è idonea a ridurre lo spazio visivo degli abitanti dei piani immediatamente sovrastanti e posti lateralmente rispetto alla costruzione, oltre al fatto che essa, con altrettanta evidenza, per le sue dimensioni, modifica la sagoma originaria del fabbricato.
Quanto sopra costituisce il cospicuo bagaglio di elementi di fatto utili a confermare la sussistenza dell’interesse a ricorrere da parte dei condomini ricorrenti e quindi a determinare la infondatezza della eccezione preliminare sollevata dalle parti resistenti
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 22.12.2017 n. 12632 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il giudice d’appello della giustizia amministrativa ha ritenuto che la “pergotenda”:
   1) è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
   3) per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
   4) la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi “pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non debbono presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
   5) inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
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10. – Il Collegio ritiene di poter considerare puntualmente adempiuto l’incarico assegnato al consulente tecnico d’ufficio e di poter tenere conte delle sue conclusioni tecniche pur dopo avere attentamente considerato il contenuto delle osservazioni prospettate dai consulenti tecnici di parte e riprodotte negli atti acquisiti al processo.
In particolare è bene rammentare che, in punto di interpretazione giurisprudenziale che si ritiene di condividere pienamente, il Consiglio di Stato in numerosi arresti (cfr., da ultimo, la sentenza della Sesta sezione 25.01.2017 n. 306, in linea con i precedenti della medesima sezione 27.04.2016 n. 1619 e 11.04.2014 n. 1777) ha puntualmente perimetrato l’ambito di riconoscibilità della c.d. attività edilizia libera, soprattutto con riferimento alle c.d. strutture amovibili.
In sintesi il giudice d’appello della giustizia amministrativa ha ritenuto che la “pergotenda”:
   1) è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
   3) per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
   4) la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi “pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non debbono presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
   5) inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 22.12.2017 n. 12632 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Nozione di spostamento e rimozione - Interventi soggetti ad preventiva autorizzazione - Fattispecie - Artt. 21, 169 e 176 del dlgs n. 42/2004.
L'art. 21, comma 2, del dlgs n. 42 del 2004, individua una serie di operazioni per le quali è richiesta la preventiva autorizzazione da parte dell'organo pubblico, riferendosi ai beni mobili concerne l'ipotesi del loro "spostamento", cosa diversa è la loro "rimozione" (concetto questo che, rispetto al mero "spostamento" -essendo esso consistente in una dislocazione solo spaziale del bene senza alcuna modificazione del suo status fisico-, comporta una più radicale e tendenzialmente definitiva alterazione della situazione del bene in questione che viene sottratto ad un contesto in cui era inserito e del quale, trattandosi di bene avente una rilevanza storico-culturale, era parte integrante, per essere trasferito in un altro ambito morfologicamente distinto dal precedente ovvero per essere addirittura eliminato, con una conseguente variazione di esso non solo fenomenica ma anche valoriale).
Fattispecie: bene stabilmente inserito nel muro di cinta dell'immobile assumendo la stessa natura di bene immobile del bene al quale ha acceduto.
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Opere illecite su beni protetti - Natura di reato formale di pericolo - Concreta lesione del valore storico-culturale della res - Criteri e presupposti.
Il reato di cui all'art. 169 del dlgs n. 42 del 2004, è un reato formale di pericolo, il quale è integrato attraverso il compimento delle attività descritte dalla norma incriminatrice senza il preventivo controllo amministrativo, finalisticamente preordinato ad evitare possibili pericoli e danni a carico del bene culturale. Esso, pertanto, si consuma anche se non si produce una concreta lesione del valore storico-culturale della res, sempre che, secondo una valutazione ex ante, non si tratti di interventi talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere anche il solo pericolo astratto di lesione dell'interesse protetto (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10/11/2016, n. 47258) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.12.2017 n. 57111 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le scelte di politica urbanistica espresse negli strumenti generali di pianificazione si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti.
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In giurisprudenza si è avuto modo di affermare che nel concetto di territorio coperto da bosco rientrano non solo la superficie sulla quale insistono i popolamenti arborei ma anche le aree limitrofe che servono per la salvaguardia e l'ampliamento.
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1. Con atto affidato alla notificazione il 17.06.2016, depositato il successivo 29 di giugno, la C.A. Costruzioni è insorta avverso gli atti in epigrafe, concernenti il regolamento urbanistico del Comune intimato.
1.1. In punto di fatto, parte ricorrente ha esposto quanto segue:
   - è proprietaria di un suolo nel territorio di Rotonda, alla località Cassaneto, identificato in catasto al foglio 10, particella n. 939;
   - nel precedente piano di fabbricazione, detto fondo era ricompreso in zona agricola;
   - il vigente piano territoriale di coordinamento del Pollino ne prevede la destinazione a zona D1 – insediamenti polifunzionali;
   - il nuovo regolamento urbanistico adottato dall’Ente intimato ha impresso all’area della ricorrente la destinazione di verde boschivo;
   - le osservazioni presentate al riguardo dalla società ricorrente, nel senso della disparità di trattamento rispetto a quella del fondo confinante, sono state disattese dal Consiglio comunale in sede di approvazione della deliberazione impugnata.
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1.1. Si è in primo luogo dedotto che il suolo oggetto di causa si troverebbe in un contesto urbano di “recente espansione”, completamente urbanizzato e servito dalle infrastrutture comunali a rete, oltre che da strada d'accesso. Nelle vicinanze vi sarebbero “importanti strutture pubbliche e private”.
Infine, sul fondo non graverebbero vincoli idrogeologici, ambientali o paesaggistici. Secondo la ricorrente, logica conseguenza di quanto innanzi sarebbe il riconoscimento di destinazione edificatoria al suolo in oggetto, anche in relazione alla previsione del regolamento urbanistico che ha inserito, nell'ambito urbano e fra i “tessuti edilizi di completamento”, tra l'altro, “limitate residue aree libere in contesti altamente urbanizzati”.
1.1.1. La censura non persuade.
Il Collegio richiama, dando a esso continuità, il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui le scelte di politica urbanistica espresse negli strumenti generali di pianificazione si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4291).
Nel caso di specie, l’Ente intimato ha puntualmente motivato in ordine alle ragioni che hanno determinato la contestata scelta urbanistica, evidenziando come venga in considerazione una “zona boschiva”, in continuità con l’area adiacente.
1.1.2. La ricorrente, avvalendosi di relazione tecnica di parte, ha opinato che difetterebbe tale situazione, in quanto non sarebbe riscontrabile neppure la presenza di una semplice radura.
In senso contrario, tuttavia, va considerato che la d.g.r. n. 1734 del 1999, emanata ai sensi dell’art. 15 della legge regionale 10.11.1998, n. 42, recante “Norme in materia forestale”, dispone che vadano comunque considerate come “bosco” le aree temporaneamente prive di soprassuolo, per cause naturali o artificiali, ma suscettibili di ricopertura, nonché le formazioni rupestri e ripariali e quelle del tipo “macchia mediterranea”. In senso conforme, in giurisprudenza si è avuto modo di affermare che nel concetto di territorio coperto da bosco, rientrano non solo la superficie sulla quale insistono i popolamenti arborei, ma anche le aree limitrofe che servono per la salvaguardia e l'ampliamento (Cass. Pen., sez. III, 26.03.1997, n. 3975).
Ora, la documentazione fotografica in atti consente di rilevare come effettivamente vi sia una sostanziale continuità tra l’area boschiva e il fondo in contestazione, quantomeno per un versante, mentre la finalità di salvaguardia della tutela “ambientale e paesaggistica”, pure valorizzata dalla relazione tecnica predisposta a seguito dell'adozione del piano, rende non irragionevole la scelta urbanistica in questione.
1.1.3. In tale prospettiva, le considerazioni svolte negli scritti difensivi dell’Ente intimato non si atteggiano a motivazione postuma del provvedimento impugnato, come sostenuto dalla deducente, bensì quale specificazione e sviluppo delle ragioni già sinteticamente esposte nell’atto impugnato, segnatamente laddove esattamente si evidenzia la presenza di vegetazione in corso di riformazione a seguito della cessazione di attività antropica precedentemente ivi svolta. D'altro canto, la presenza di vegetazione in situ traspare evidente dalle stesse immagini recate dalla produzione della ricorrente, così come l’assenza attuale di opere o attività umana.
1.1.4. Non sussiste il dedotto difetto d’istruttoria, risultando la metodologia di rilevazione prescelta dall’Amministrazione procedente adeguata allo scopo e scevra dalle censure formulate avverso di essa. Neppure si ravvisa, poi, alcuna disparità di trattamento, peraltro solo accennata in sede di ricorso, in relazione al differente trattamento urbanistico riservato al limitrofo “suolo 25”, essendo ravvisabile in loco la presenza di attività antropiche di coltivazione del suolo e la presenza di una costruzione, ovverosia di elementi idonei a fondare la diversa scelta comunale.
Del resto, a fronte di scelte discrezionali dell'Amministrazione, la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento è riscontrabile soltanto in caso di completa identità di situazioni di fatto, nella specie non ravvisabile, e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall´eventuale illegittimità compiuta in altra situazione (Cons. Stato, sez. VI, 11.06.2012, n. 3401).
2. Dalle considerazioni che precedono discende il rigetto del ricorso (TAR Basilicata, sentenza 21.12.2017 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIBocciato il comune che non vuole i camperisti. Tribunale amministrativo regionale della Calabria.
Il sindaco non può limitare la sosta degli autocaravan adducendo solo motivazioni formali senza alcun riferimento alle dimensioni dei veicoli e alla oggettiva difficoltà di circolazione di questi mezzi in determinate strade del centro.

Lo ha chiarito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 20.12.2017 n. 2093.
Con l'avvicinarsi dei periodi di festa si riaccende l'interesse sulla questione degli autocaravan spesso limitati nella circolazione e nella sosta per motivazioni diverse, non necessariamente conformi alla legge. L'autocaravan viene individuato dal codice stradale come un mezzo dedicato al trasporto e alloggio di persone.
La sosta, ove consentita, non costituisce campeggio se il veicolo poggia solamente sulle ruote e non sono previste installazioni. Nel centro abitato la sosta dei veicoli può essere vietata permanentemente per determinate categorie di utenti solo in presenza di particolari condizioni. In difetto di queste motivazioni il comune può in ogni caso vietare permanentemente la sosta dei veicoli in generale.
Nel caso di autocaravan, in assenza di particolari esigenze, il divieto di sosta limitato a questa singola categoria di utenti appare illegittimo. Spesso i sindaci limitano la sosta e la circolazione dei camper rappresentando inafferrabili motivi di ordine e sicurezza pubblica. Nel caso sottoposto all'esame del collegio un comune calabrese ha introdotto il divieto di sosta degli autocaravan fuori dalle aree attrezzate. Contro questa determinazione un utente stradale ha proposto con successo ricorso al Tar.
L'art. 185 del codice stradale dispone che gli autocaravan «ai fini della circolazione stradale in genere sono soggetti alla stessa disciplina prevista per gli altri veicoli. La sosta delle autocaravan, dove consentita, sulla sede stradale non costituisce campeggio, attendamento e simili se l'autoveicolo non poggia sul suolo salvo che con le ruote, non emette deflussi propri, salvo quelli del propulsore meccanico, e non occupa comunque la sede stradale in misura eccedente l'ingombro proprio dell'autoveicolo medesimo».
Dunque non è possibile adottare un generico divieto di sosta dedicato solo ai camper (articolo ItaliaOggi del 04.01.2018).

APPALTI: La Corte di giustizia fornisce ulteriori precisazioni sui requisiti di moralità professionale in relazione all’art. 38 del “vecchio” codice appalti.
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Contratti pubblici – Procedure di gara – Requisito della moralità professionale –Amministratore cessato dalla carica nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara – Omessa dichiarazione di condanna penale non ancora definitiva – Esclusione – Legittimità
La direttiva 2004/18 e in particolare l’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettere c), d) e g), di tale direttiva, nonché i principi di parità di trattamento e di proporzionalità, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consente all’amministrazione aggiudicatrice:
   – di tener conto, secondo le condizioni da essa stabilite, di una condanna penale a carico dell’amministratore di un’impresa offerente, anche se detta condanna non è ancora definitiva, per un reato che incide sulla moralità professionale di tale impresa, qualora il suddetto amministratore abbia cessato di esercitare le sue funzioni nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara d’appalto pubblico, e
   – di escludere tale impresa dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione di appalto in questione con la motivazione che, omettendo di dichiarare detta condanna non ancora definitiva, l’impresa non si è effettivamente e completamente dissociata dalla condotta del suddetto amministratore.

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   (1) I. – Il caso.
La sentenza della Corte di giustizia UE è stata occasionata da una controversia avente ad oggetto un provvedimento di esclusione da una gara di appalto di un’ATI, adottato dalla stazione appaltante, su conforme parere dell’ANAC reso ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n), d.lgs. n. 163 del 2006, dopo avere accertato, nella fase di ammissione, che a carico del legale rappresentante della capogruppo era stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato per reato incidente sulla moralità professionale; il provvedimento di esclusione veniva adottato nonostante la capogruppo mandataria avesse chiarito che la sentenza era passata in giudicato in data successiva a quella in cui era stata resa la dichiarazione circa il possesso dei requisiti di partecipazione e che anche la sentenza di primo grado era stata pubblicata in data successiva, adottando peraltro immediatamente incisive misure di dissociazione, compresa la rimozione da tutte le cariche sociali e l’allontanamento dagli organi di gestione.
L’ANAC, in particolare, rilevava che, sebbene, in mancanza di una sentenza irrevocabile, le dichiarazioni non potessero essere qualificate come «falsa dichiarazione», tuttavia la mancata tempestiva comunicazione dello sviluppo delle vicende penalmente rilevanti riguardanti uno dei soggetti menzionati all’articolo 38, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 163/2006 poteva costituire una violazione del dovere di leale collaborazione con la stazione appaltante, impedendo così l’effettiva e completa dissociazione rispetto al soggetto interessato.
L’esclusione veniva pertanto successivamente motivata dalla stazione appaltante in considerazione del fatto che i requisiti generali di cui all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006 non potevano ritenersi soddisfatti «in ragione dell’insufficiente e tardiva dimostrazione della dissociazione dalla condotta penalmente rilevante posta in essere dal soggetto cessato dalla carica», evidenziandosi al contempo che la condanna –e segnatamente la lettura del dispositivo in camera di consiglio- era intervenuta in un momento antecedente alla dichiarazione resa in gara e come tale avrebbe potuto essere dichiarata in sede di partecipazione (sulla rilevanza, quale indice di non dissociazione, di tale condotta omissiva cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.12.2014, n. 6284).
   II.- L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza n. 1160 del 21.03.2016 la VI sez. del Consiglio di Stato (oggetto della News del 26.03.2016), adita in sede di appello per la riforma della sentenza reiettiva del gravame, ha sollevato questione di compatibilità con il diritto euro-unitario della previsione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, come modificato dall’art. 4, comma 2, lett. b), d.l. 13.05.2011, convertito nella legge 12.07.2011, n. 106, applicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice, nella parte in cui estende ai soggetti cessati dalle cariche sociali ivi specificate nell’anno antecedente la pubblicazione del bando di gara la causa di esclusione costituita dalla pronuncia di sentenza di condanna passata in giudicato, di decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 Cod. proc. pen., per i reati contemplati nella citata disposizione legislativa, «qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata».
La sezione remittente ha prospettato, in particolare, un possibile contrasto col diritto comunitario della disposizione in parola nella parte in cui, di fatto, attribuisce all’ampia discrezionalità della stazione appaltante la valutazione della sussistenza in concreto di fatti idonei ad integrare la condotta dissociativa in assenza di indici normativamente predeterminati.
In particolare ha rimesso alla Corte di giustizia la seguente questione interpretativa: “Se osti alla corretta applicazione dell’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva [2004/18] e dei principi di diritto europeo di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, una normativa nazionale, quale quella dell’art. 38, comma 1, lett. c), [del decreto legislativo n. 163/2006], nella parte in cui estende il contenuto dell’ivi previsto obbligo dichiarativo sull’assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti), per i reati ivi indicati, ai soggetti titolari di cariche nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e configura una correlativa causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata di tali soggetti, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa che consente alla stazione appaltante di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara:
      i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;
      ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti;
      iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede
”.
   III.- La decisione della Corte di giustizia UE.
La Corte di giustizia non ha condiviso al riguardo i dubbi espressi dal giudice rimettente concludendo nel senso della conformità del diritto nazionale al diritto comunitario per le seguenti ragioni:
      a) in materia di cause facoltative di esclusione, conformemente all’articolo 45, paragrafo 2, ultimo comma, della direttiva 2004/18, spetta agli Stati membri, nel rispetto del diritto dell’Unione, precisarne le «condizioni di applicazione»; gli Stati membri pertanto hanno il potere di attenuare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione (sentenza del 14.12.2016, C‑171/15, Connexxion Taxi Services) godendo al riguardo di un ampio potere discrezionale;
      b) il diritto dell’Unione muove dalla premessa che le persone giuridiche agiscono tramite i propri rappresentanti. Il comportamento contrario alla moralità professionale di questi ultimi può quindi costituire un elemento rilevante ai fini della valutazione della moralità professionale di un’impresa. È quindi senz’altro possibile per gli Stati membri, nell’esercizio della loro competenza a stabilire le condizioni di applicazione delle cause facoltative di esclusione, prendere in considerazione, tra gli elementi rilevanti ai fini della valutazione dell’integrità dell’impresa offerente, l’eventuale esistenza di condotte degli amministratori di tale impresa contrarie alla moralità professionale. Ciò non configura quindi un’«estensione» dell’ambito di applicazione di tale causa di esclusione, bensì costituisce un’attuazione del medesimo che preserva l’effetto utile di detta causa di esclusione;
      c) quanto rilevato al punto che precede vale anche per gli amministratori cessati dalla carica, con la precisazione che la data a decorrere dalla quale un siffatto comportamento può giustificare l’esclusione dell’offerente va stabilita nel rispetto del principio di proporzionalità;
      d) poiché lo Stato membro ha il diritto di modulare le condizioni di applicazione delle cause facoltative di esclusione, può anche rinunciare ad applicare una causa di esclusione in caso di dissociazione dell’impresa offerente dalla condotta che costituisce reato. In tal caso, esso ha altresì il diritto di determinare le condizioni di tale dissociazione e di richiedere, come avviene nel diritto italiano, che l’impresa offerente informi l’amministrazione aggiudicatrice della condanna subìta dal suo amministratore, anche se tale condanna non è ancora definitiva;
      e) spetta all’amministrazione aggiudicatrice valutare le prove della dissociazione offerte dalla impresa concorrente;
      f) una condanna penale che incida sulla moralità professionale, anche se non definitiva, può integrare la causa di esclusione prevista all’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d), della direttiva 2004/18, che consente di escludere un offerente che, nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice. In questo caso la condanna, pur non ancora definitiva, può, a seconda dell’oggetto di tale decisione, fornire all’amministrazione aggiudicatrice un mezzo di prova idoneo a dimostrare la sussistenza di un grave errore professionale, ove tale decisione può comunque essere sottoposta a controllo giurisdizionale;
      g) il fatto di non informare l’amministrazione aggiudicatrice della condotta penalmente rilevante dell’ex amministratore può anch’esso costituire un elemento che consente di escludere un offerente dalla partecipazione a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ai sensi dell’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera g), della direttiva 2004/18, a mente del quale un offerente può essere escluso se si è reso gravemente colpevole di false dichiarazioni, ma anche qualora non fornisca le informazioni che possono essere richieste a norma della sezione 2 del capo VII del titolo II di tale direttiva, vale a dire quelle riguardanti i «criteri di selezione qualitativa».
La Corte di giustizia, infine, ha ritenuto che il giudice rimettente abbia omesso di precisare, in relazione ai principi di diritto dell’Unione evocati, sotto quale profilo, riguardo ai fatti del caso di specie, essi possano risultare pertinenti e ostare alla normativa nazionale di cui al procedimento principale.
   IV – Sul tema degli obblighi dichiarativi riferiti all’abrogato art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 si segnala per completezza:
      h) Cons. Stato, ad. plen. 04.05.2012, n. 10, in Foro it., 2012, 534 nonché in Urb. e app., 2012, 889, con nota di FILIPPETTI; Contratti Stato e enti pubbl., 2012, fasc. 3, 66, con nota di CALIANDRO; Nuovo notiziario giur., 2012, 410, con nota di BARBIERI, secondo cui “In caso di cessione d’azienda o di un suo ramo realizzatasi prima della partecipazione alla gara, la dichiarazione circa l’insussistenza di sentenze pronunciate per reati incidenti sulla moralità professionale deve essere resa, a pena di esclusione, anche da parte degli amministratori e dei direttori tecnici che hanno operato nel triennio (ora nell’anno, a seguito delle modifiche introdotte con l. 106/2011) presso l’impresa cedente”;
      i) Cons. Stato, ad. plen. 07.06.2012, n. 21, in Foro it., 2012, 1149 nonché in Nuovo notiziario giur., 2012, 411, con nota di BARBIERI, secondo cui “Nel caso di incorporazione o di fusione societaria, sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, 1º comma, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi, nell’ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell’ultimo anno), ferma restando la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione”;
      j) Cons. Stato, ad. plen. 16.10.2013, n. 23, in Foro it., 2015, III, 11 con nota di E. TRAVI, secondo cui “La dichiarazione sostitutiva concernente il possesso dei requisiti di ordine morale, richiesti dall’art. 38, 1º comma, lett. b) e c), d.lgs. 12.04.2006 n. 163, deve essere resa rispetto agli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o al direttore tecnico, e non anche rispetto ai procuratori ad negotia; in presenza di procuratori con poteri decisionali di particolare ampiezza, se il bando non contiene specifiche comminatorie, l’esclusione dell’impresa può essere disposta non già per la mera omissione della dichiarazione, ma per l’effettiva assenza del requisito in capo a tali procuratori”;
      k) Cons. Stato, ad. plen. 30.07.2014, n. 16, in Foro it., 2015, III, 11 con nota di E. TRAVI, secondo cui “La dichiarazione sostitutiva relativa all’assenza delle condizioni preclusive previste dall’art. 38 d.lgs. 163/2006 può essere legittimamente riferita in via generale ai requisiti previsti dalla norma e non deve necessariamente indicare in modo puntuale le singole situazioni ostative previste dal legislatore. La dichiarazione sostitutiva relativa all’insussistenza delle condizioni ostative previste dall’art. 38 d.lgs. 163/2006 non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti dei poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici”;
      l) Cons. Stato, ad. plen. 25.02.2014, n. 10 in Foro it., 2014, III, 213, nonché in Giur. it., 2014, 1179 (m), con nota di GNES; Urb. e app., 2014, 830, con nota di FOÀ; Dir. e pratica amm., 2014, fasc. 6, 65 (m), con nota di D’INCECCO BAYARD DE VOLO, secondo cui “Il termine di dieci giorni, previsto dall’art. 48, 2º comma, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 per la presentazione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa da parte dell’aggiudicatario di un appalto pubblico e del concorrente che segue in graduatoria, ha carattere perentorio”;
      m) sulla differenza fra obblighi sostanziali e obblighi dichiarativi, sulla differenza fra bando silente e bando che impone la dichiarazione personale agli amministratori e assimilati e sulla applicazione dei principi elaborati dalle plenarie nn. 9 e 16 del 2014, v. Cons. Stato, sez. V, 02.12.2015, n. 5458;
      n) sui profili penali delle false dichiarazioni sostitutive di certificazioni e atto notorio v. Cass. pen., sez. V, 26.11.2009, n. 2978 in Foro it., 2011, II, 51, con nota di I. GIACONA ivi ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza;
      o) sui soggetti per i quali rilevano le condanne penali nel nuovo codice dei contratti pubblici (art. 80) v. in dottrina R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 797 ss.;
      p) le modalità probatorie dei requisiti generali e speciali sono disciplinate nel nuovo codice negli artt. 81, 82, 85, 86, 87, 88, 90, 133 (per i settori speciali); in dottrina sulla prova dei requisiti nel nuovo codice v. R. DE NICTOLIS, op. cit., 1024 ss. (
Corte di Giustizia U.E., Sez. IV, sentenza 20.12.02017 - causa C-178/16 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La combustione di rifiuti vegetali che non sia finalizzata al reimpiego come fertilizzante può integrare la fattispecie di gestione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/2006.
Se, infatti, la combustione è finalizzata all’eliminazione del rifiuto, non è applicabile l’art. 182, comma 6-bis, del D.L.vo 152/2006, il quale esclude dall’attività di smaltimento le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro di paglia, sfalci e potature (di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, in quanto costituenti normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti (fattispecie relativa ad abbandono e bruciamento di rifiuti vegetali prodotti in luogo diverso da quello sul quale avveniva la combustione)
(massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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1. Il ricorso è infondato.
Il primo ed il secondo motivo di ricorso possono essere congiuntamente esaminati, premettendo che dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che le indagini avevano avuto origine dall'informazione, ricevuta da personale del Corpo Forestale dello Stato, di episodi di abbandono e bruciamento di rifiuti vegetali su un terreno, chiuso e recintato, che si accertava essere stato affidato all'imputato dal comproprietario che ne aveva la materiale disponibilità, con l'incarico di tenerlo in ordine e sorvegliarlo e con facoltà di raccogliere e trattenere i frutti prodotti dagli alberi ivi esistenti.
La polizia giudiziaria collocava pertanto nei pressi dell'ingresso del fondo una "foto-trappola",, costituita da un apparecchio fotografico attivato da un sensore di movimento, che consentiva di accertare, attraverso le fotografie scattate, nel periodo febbraio-marzo 2014, circa venti movimenti da parte dello stesso autocarro che trasportava materiale vegetale di risulta, frutto di potature effettuate su fondi diversi da quello al quale il mezzo accedeva e che veniva scaricato in quantità di circa 3 metri cubi alla volta e dato alle fiamme.
Ciò posto, ritiene il Collegio che il Tribunale abbia correttamente qualificato i fatti non riconoscendo l'applicabilità, nella fattispecie, dell'art. art. 182, comma 6-bis, dlgs 152/2006, il quale esclude che rientrino nell'attività di smaltimento, fase residuale della gestione di rifiuti, "le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione" in quanto costituenti "normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti".
Invero, come accertato in fatto dal giudice del merito, il materiale vegetale bruciato non era prodotto sul terreno ove avveniva la combustione ed, inoltre, questa non era evidentemente finalizzata al reimpiego come concime o ammendante dei residui, bensì alla mera eliminazione del rifiuto.
Parimenti risulta correttamente esclusa l'operatività dell'art. 256-bis dlgs 152/2006, originariamente contestato, tenuto conto che l'ultimo comma di tale disposizione prevede l'applicabilità delle sanzioni di cui all'articolo 255 se la condotta di illecita combustione riguarda rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e) (rifiuti urbani costituiti da rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali) ed esclude che le disposizioni dell'articolo si applichino ai casi di "abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato", rispetto ai quali restano ovviamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 256, comma 1, per l'illecita gestione.
Va peraltro osservato che la giurisprudenza richiamata in ricorso aveva ad oggetto casi in cui la combustione del materiale vegetale veniva effettuata sul luogo di produzione, circostanza fattuale, questa, esclusa dal giudice del merito sulla base della documentazione fotografica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.12.2017 n. 56277).

PUBBLICO IMPIEGO: Obbligo di versamento all’Inps gestione separata per l’attività di lavoro autonomo svolta dall’architetto dipendente pubblico.
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FATTI DI CAUSA
Con sentenza depositata il 29.6.2016, la Corte d'appello di Torino ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato l'arch. Ba.Fe. non tenuto al versamento di alcuna contribuzione alla gestione separata INPS con riferimento ai redditi prodotti quale lavoratore autonomo nell'anno 2008.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, essendo l'arch. Fe. dipendente pubblico e avendo per quell'anno versato all'INARCASSA il contributo integrativo, la sua iscrizione alla gestione separata dovesse essere esclusa in ragione del disposto dell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), il quale, nell'interpretare autenticamente la disposizione dell'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, aveva precisato che erano tenuti all'iscrizione coloro che avessero effettuato attività non soggette al versamento contributivo presso gli enti esponenziali di categoria, restando in contrario irrilevante la circostanza che il professionista non avesse potuto iscriversi all'INARCASSA in ragione del divieto di cui all'art. 2, l. n. 1046/1971.
Contro tali statuizioni ricorre l'INPS, con un unico motivo di censura, illustrato da memoria. L'arch. Fe. resiste con controricorso, riproponendo le questioni concernenti il merito della pretesa contributiva, ritenute assorbite dalla Corte territoriale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo del ricorso principale, l'INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 26, l. n. 335/1995, 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), 3, l. n. 179/1958, 10 e 21, l. n. 6/1981, e 7, 23 e 37 dello Statuto INARCASSA approvato il 28.11.1995, per avere la Corte di merito ritenuto che non sussistesse alcun obbligo di iscrizione alla gestione separata per gli ingegneri che svolgono attività autonoma libero-professionale e che non sono tenuti all'iscrizione all'INARCASSA in ragione del contemporaneo svolgimento di attività lavorativa subordinata per la quale godono di altra copertura assicurativa.
Vanno preliminarmente disattese le eccezioni d'inammissibilità del ricorso formulate da parte controricorrente in ragione dell'erronea indicazione del nominativo del ricorrente alle pagg. 12 e 17 del ricorso e della mancata indicazione delle argomentazioni della sentenza impugnata che si porrebbero in contrasto con le disposizioni di legge che figurano nella rubrica del motivo: circa il primo profilo, è sufficiente rilevare che trattasi in entrambi i casi di mero lapsus calami che non incide sulla corretta individuazione della parte; circa il secondo, vale osservare che le argomentazioni della sentenza contro cui si dirige il ricorso sono riportate per esteso alle pagg. 6-11 e sintetizzate a pag. 12 del ricorso.
Ciò posto, il motivo è fondato.
Va premesso che l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, ha previsto, per quanto qui interessa, che «sono tenuti all'iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l'INPS, e finalizzata all'estensione dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell'articolo 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni».
Questa Corte, al riguardo, ha già affermato che, con la creazione di tale nuova gestione, istituita a far data dal 01.01.1996, si è inteso non solo estendere la copertura assicurativa a coloro che ne erano completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, vale a dire a coloro che, pur svolgendo due diversi tipi di attività, erano assicurati, dal punto di vista previdenziale, solo per una delle due, facendo quindi in modo che a ciascuna attività corrispondesse una forma di assicurazione (Cass. S.U. n. 3240 del 2010).
Si tratta quindi di una gestione che presenta aspetti diversi rispetto alle altre, quali la gestione dell'assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e le gestioni dei lavoratori autonomi (ossia commercianti, artigiani, coltivatori diretti): mentre queste ultime sono caratterizzate da una definizione compiuta del proprio campo di applicazione, corrispondente alla natura dell'attività lavorativa svolta dall'iscritto, l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, opera un riferimento eteronomo e supportato esclusivamente dalle disposizioni di carattere fiscale ivi richiamate, di talché l'obbligazione contributiva dell'iscritto è basata sostanzialmente sulla mera percezione di un reddito e può essere o unica, in quanto corrispondente all'unica attività svolta, oppure complementare a quella apprestata dall'altra gestione a cui l'iscritto è assicurato in relazione all'ulteriore attività lavorativa espletata (così ancora Cass. S.U. n. 3240 del 2010, cit.).
Ne è conferma l'art. 6, d.m. n. 281/1996, che, nel recare la prima disciplina delle modalità e dei termini per il versamento dei contributi dovuti ai sensi dell'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, ha espressamente chiarito che «non sono soggetti alla contribuzione di cui al presente decreto i redditi già assoggettati ad altro titolo a contribuzione previdenziale obbligatoria».
E' in questo quadro generale che va esaminata la disposizione di cui all'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), il quale, nell'interpretare l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, cit., ha previsto che «i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti all'iscrizione presso l'apposita gestione separata INPS sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all'iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi statuti e ordinamenti», stabilendo altresì che «resta ferma la disposizione di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10.02.1996, n. 103» (ossia la possibilità che tali enti possano deliberare l'inclusione della categoria di cui sono esponenziali nell'ambito della gestione separata): trattandosi di una disposizione recante interpretazione di un'altra disposizione vigente, essa è infatti sprovvista di una propria autonomia precettiva ed è volta piuttosto a costruire un rapporto tra le proprie previsioni e quelle proprie della disposizione interpretata, tale che -come accade in genere per le disposizioni aventi carattere interpretativo- le une e le altre si saldino, dando luogo ad un precetto normativo unitario (così Corte cost. n. 397 del 1994).
Orbene, tenuto conto del rinvio operato dall'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011, cit., agli enti previdenziali di cui al precedente comma 11, vale a dire agli enti previdenziali gestori delle forme di previdenza dei lavoratori autonomi e professionisti di cui ai decreti legislativi nn. 509/1994 e 103/1996, tale precetto unitario, per quanto qui rileva, può essere agevolmente ricostruito nel senso che l'iscrizione alla gestione separata è obbligatoria per i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo di cui all'art. 49 (ora 53), comma 1, T.U. n: 917/1986, l'esercizio della quale non sia subordinato all'iscrizione ad appositi albi professionali ovvero, se subordinato all'iscrizione ad un albo, non sia soggetto ad un versamento contributivo agli enti previdenziali di riferimento che sia suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale.
Una diversa interpretazione, infatti, finirebbe per tradire la finalità universalistica dell'istituzione della gestione separata e si porrebbe in contrasto con la sua tipica modalità di funzionamento, che -come si è detto- collega l'obbligazione contributiva alla mera percezione di un reddito e mette capo ad una posizione previdenziale che può essere unica oppure complementare a seconda l'iscritto svolga o meno un'ulteriore attività lavorativa (cfr. Cass. S.U. n. 3240 del 2010, già cit.).
Così ricostruito il combinato disposto dell'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, e dell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011,
giova ricordare, con riguardo al caso di specie, che l'iscrizione all'INARCASSA è preclusa agli ingegneri e agli architetti che siano iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata (art. 2, l. n. 1046/1971, la cui disposizione è stata reiterata dall'art. 21, comma 5, l. n. 6/1981 e, da ultimo, dall'art. 7, comma 5, dello Statuto INARCASSA, approvato giusta le disposizioni del decreto legislativo n. 509/1994).
Costoro, conseguentemente, non sono tenuti al versamento del contributo soggettivo, bensì unicamente al versamento del contributo integrativo, dovuto da tutti gli iscritti agli albi di ingegnere e architetto, indipendentemente dall'iscrizione all'INARCASSA, nella forma di una maggiorazione percentuale che dev'essere applicata dal professionista su tutti i compensi rientranti nel volume di affari e versata alla Cassa indipendentemente dall'effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore, salva ripetizione nei confronti di quest'ultimo (art. 10, l. n. 6/1981, riprodotto negli stessi termini dall'art. 5 del Regolamento di previdenza INARCASSA).
Ora,
non è revocabile in dubbio che il versamento di tale contributo, in difetto di iscrizione all'INARCASSA, non possa mettere capo alla costituzione di alcuna posizione previdenziale a beneficio del professionista che è tenuto a corrisponderlo: la cassa di previdenza eroga le prestazioni previdenziali esclusivamente agli iscritti (art. 3, Statuto INARCASSA) e chi è iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria non può esserlo (cfr. da ult. Cass. n. 23687 del 2015).
Ma se così è, è inevitabile concludere che il suo versamento non può esonerare il professionista dall'iscrizione alla gestione separata INPS: la regola generale conseguente all'istituzione di quest'ultima è che all'espletamento di una duplice attività lavorativa, quando per entrambe è prevista una tutela assicurativa, deve corrispondere una duplicità di iscrizione alle diverse gestioni (così ancora Cass. S.U. n. 3240 del 2010, cit.).
Né ciò comporta alcuna duplicazione di contribuzione a carico del professionista, giacché il contributo integrativo, la cui istituzione si giustifica esclusivamente in relazione alla necessità dell'INARCASSA di disporre di un'ulteriore fonte di entrate con cui sopperire alle prestazioni cui è tenuta, è ripetibile nei confronti del beneficiario della prestazione professionale e dunque è in realtà posto a carico di terzi estranei alla categoria professionale cui appartiene il professionista e di cui l'INARCASSA è ente esponenziale (v. in tal senso Corte cost. n. 132 del 1984).
Contrari argomenti non possono desumersi dalla circostanza che il Regolamento di previdenza dell'INARCASSA abbia recentemente previsto che la «quota della contribuzione integrativa versata, secondo le modalità di computo previste nel comma 5 del presente articolo», venga computata nell'ambito del «montante contributivo individuale»: fermo restando che tale disposizione opera a decorrere dal 01.01.2013 (art. 26.5, Regolamento cit.), è decisivo rilevare, ancora una volta, che codesta retrocessione del contributo integrativo presuppone che il professionista sia iscritto all'INARCASSA e abbia dunque titolo per beneficiare delle sue prestazioni, ciò che gli ingegneri e gli architetti che sono iscritti ad altra gestione previdenziale non possono fare.
Né può sostenersi che, avendo la disposizione interpretativa dell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011, fatto genericamente riferimento ad un «versamento contributivo», non sarebbe consentito all'interprete distinguere tra contributo soggettivo e contributo integrativo: come anzidetto, il significato della disposizione interpretativa va ricavato per il tramite della sua congiunzione con la disposizione interpretata, ossia l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, ed è la ratio di quest'ultima ad imporre che l'unico versamento contributivo rilevante ai fini dell'esclusione dell'obbligo di iscrizione alla gestione separata sia quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale.
Per tacere del fatto che il canone ermeneutico secondo cui l'interprete dovrebbe astenersi dall'introdurre differenziazioni tra situazioni omologhe lì dove il legislatore non ne ha previste, traendo in specie la sua capacità di persuasione retorica dalla somiglianza o analogia che presuppone tra contributo soggettivo e contributo integrativo, al fine di disciplinarli egualmente, è frutto di un'interpretazione tutt'altro che "letterale" del dato normativo, non essendo certamente rinvenibili nell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011, cit., le ragioni della somiglianza o analogia che si vorrebbe presupporre.
Pertanto, in accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte d'appello di Torino, in diversa composizione, davanti alla quale potranno e dovranno riproporsi anche le questioni già ritenute assorbite e concernenti l'eccezione di prescrizione dei contributi oggetto del giudizio e la debenza e misura delle sanzioni.
Il giudice designato provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Tenuto conto dell'accoglimento del ricorso, va dato atto della insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 18.12.2017 n. 30345).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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Il perseguimento dell’interesse pubblico urbanistico è … interesse pubblico di carattere preminente e, dunque, l’ordinamento vuole che la legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario.
Tanto discende anche dalla natura “reale” dell’illecito e della sanzione urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino dell’equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul proprietario.
Nulla quaestio nel caso in cui egli sia soggetto connivente, ma nel caso in cui lo stesso non risulti responsabile dell’abuso né sia nella disponibilità e nel possesso del bene, risulta evidente che l’ordine non può produrre effetti nei suoi confronti se non quando egli ne riacquisti la disponibilità e il possesso e, dunque, sia nella materiale possibilità di dare corso all’esecuzione dell’ordine demolitorio.
Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alla applicazione della sanzione pecuniaria prevista per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione dai … commi 4-bis dell’articolo 31 del dpr n. 380/2001 … deve, dunque, evidenziarsi la non condivisibilità della statuizione della sentenza di primo grado, laddove ha ritenuto legittima l’irrogazione della sanzione pecuniaria a soggetti riconosciuti come non responsabili dell’abuso.
Né la stessa può derivare dalla qualifica di proprietari del terreno, considerandosi che essi, in qualità di nudi proprietari, non ne hanno disponibilità e possesso e, dunque, non sono nelle condizioni di eseguire l’ingiunzione di demolizione.
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E' pacifico che:
   - l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale è una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché la relativa ordinanza non richiede di essere preceduta da una comunicazione di avvio del procedimento;
   - l'art. 31, comma 5, del D.P.R. n. 380/2001 non condizione l’acquisizione ad un’autonoma suscettibilità funzionale del manufatto abusivo, il quale, di regola, una volta acquisito va demolito d’ufficio con oneri a carico del privato inadempiente: è solo con riferimento alla residuale possibilità (che la stessa norma prevede) che con una deliberazione comunque successiva all’acquisizione del bene l’amministrazione decida di non demolire l’opera per l’esistenza di prevalenti interessi pubblici che, eventualmente, può venire in rilievo un’autonoma suscettibilità di utilizzazione diretta del manufatto abusivo per la soddisfazione di interessi pubblici prevalenti rispetto al ripristino dello stato dei luoghi;
   - in materia di esecuzione di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la sussistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo non può costituire, per il responsabile, un’esimente per l’inosservanza dell’ordine di demolizione, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi parte attiva per chiedere alla competente autorità giudiziaria la revoca del sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto.
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Il ricorso contro l’ordinanza di demolizione è affidato a tre motivi d’impugnazione.
Con i primi due motivi i ricorrenti si dolgono della lesione delle garanzie di partecipazione al procedimento.
Col primo mezzo di censura, in particolare, denunciano l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, che avrebbe impedito loro di rappresentare fatti e argomenti rilevanti, e, col secondo mezzo, l’insussistenza delle ragioni di urgenza rappresentate nel provvedimento a giustificazione dell’omissione («per l’urgenza determinata dal fatto che l’opera è stata realizzata in assenza del deposito del calcolo delle strutture, della nomina del direttore dei lavori e del collaudatore delle stesse e pertanto costituisce pericolo per la pubblica e privata incolumità»), trattandosi di un pericolo soltanto ipotetico, il quale avrebbe, piuttosto, giustificato una sospensione cautelare dei lavori o, se effettivamente esistente, un ordine di demolizione immediata delle opere, anziché nei novanta giorni.
Le due censure vanno complessivamente disattese, non essendovi ragioni per discostarsi dal consolidato orientamento di questa Sezione secondo cui, poiché l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II, 14.11.2017, n. 5358; 18.10.2017, n. 4875; 12.06.2017, n. 3139; 05.05.2017, n. 2416).
...
Venendo all’esame dei motivi aggiunti, i ricorrenti impugnano l’ordinanza di acquisizione dell’opera abusiva e della relativa area di sedime al patrimonio comunale con cinque motivi di illegittimità propria e con un motivo di illegittimità derivata dall’ordinanza di demolizione non eseguita.
Con i primi cinque motivi di doglianza, in particolare, deducono, in estrema sintesi, che:
   1) l’acquisizione non può operare nei confronti delle nude proprietarie dell’area, estranee all’abuso ed impossibilitate ad eseguire la demolizione;
   2) manca l’esatta individuazione dell’area da acquisire;
   3) è stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’acquisizione;
   4) essendo l’acquisizione una misura alternativa alla demolizione, il Comune doveva evidenziare l’effettiva possibilità di destinare a fini pubblici il manufatto acquisito;
   5) la pendenza del sequestro penale impediva l’ottemperanza all’ordine di demolizione.
La prima doglianza risulta fondata, sulla scorta di quanto già chiarito dalla giurisprudenza con argomentazioni alle quali può senz’altro farsi rinvio a mente dell’art. 88, comma 2, lettera d), del c.p.a. (cfr. C.d.S., sez. VI, 10.07.2017, n. 3391: «Il perseguimento dell’interesse pubblico urbanistico è … interesse pubblico di carattere preminente e, dunque, l’ordinamento vuole che la legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende anche dalla natura “reale” dell’illecito e della sanzione urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino dell’equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul proprietario. Nulla quaestio nel caso in cui egli sia soggetto connivente, ma nel caso in cui lo stesso non risulti responsabile dell’abuso né sia nella disponibilità e nel possesso del bene, risulta evidente che l’ordine non può produrre effetti nei suoi confronti se non quando egli ne riacquisti la disponibilità e il possesso e, dunque, sia nella materiale possibilità di dare corso all’esecuzione dell’ordine demolitorio. Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alla applicazione della sanzione pecuniaria prevista per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione dai … commi 4-bis dell’articolo 31 del dpr n. 380/2001 … deve, dunque, evidenziarsi la non condivisibilità della statuizione della sentenza di primo grado, laddove ha ritenuto legittima l’irrogazione della sanzione pecuniaria a soggetti riconosciuti come non responsabili dell’abuso. Né la stessa può derivare dalla qualifica di proprietari del terreno, considerandosi che essi, in qualità di nudi proprietari, non ne hanno disponibilità e possesso e, dunque, non sono nelle condizioni di eseguire l’ingiunzione di demolizione»).
Nel caso di specie risulta ex tabulas dal provvedimento che l’amministrazione ha identificato Pe.Lu. come committente e responsabile dell’abuso e ha notifica l’ordine di demolizione a Pe.St. e Ti. in qualità, semplicemente, di nude proprietarie, quali in effetti risultano essere anche dal rogito notarile agli atti di causa.
Se tale circostanza non è stata dedotta nel ricorso introduttivo come motivo d’illegittimità del provvedimento di demolizione, lo è stata, invece, nei motivi aggiunti per dedurre, fondatamente, l’impossibilità, comunque, di imputare alle stesse una responsabilità per la mancata ottemperanza all’ordine demolitorio.
Da ciò l’accoglimento del motivo.
L’illegittimità, per le ragioni esposte, dell’acquisizione del fondo di proprietà delle ricorrenti Stefania e Ti.Pe. determina il venire meno dell’interesse all’esame del secondo motivo di ricorso, concernente la esatta quantificazione dell’area acquisita.
Le parti conservano, invece, interesse all’esame delle restanti censure, poiché investono anche l’acquisizione delle opere edilizie abusive, realizzate dal Pe. sul fondo delle nude proprietarie.
Esse sono infondate, giacché:
   - l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale è una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione (ex multis, cfr. C.d.S., sez. VI, 08.02.2013, n. 718), sicché la relativa ordinanza non richiede di essere preceduta da una comunicazione di avvio del procedimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.05.2015, n. 2691; 14.01.2015, n. 214);
   - l'art. 31, comma 5, del D.P.R. n. 380/2001 non condizione l’acquisizione ad un’autonoma suscettibilità funzionale del manufatto abusivo, il quale, di regola, una volta acquisito va demolito d’ufficio con oneri a carico del privato inadempiente: è solo con riferimento alla residuale possibilità (che la stessa norma prevede) che con una deliberazione comunque successiva all’acquisizione del bene l’amministrazione decida di non demolire l’opera per l’esistenza di prevalenti interessi pubblici che, eventualmente, può venire in rilievo un’autonoma suscettibilità di utilizzazione diretta del manufatto abusivo per la soddisfazione di interessi pubblici prevalenti rispetto al ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 2691/2015 cit.);
   - in materia di esecuzione di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la sussistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo non può costituire, per il responsabile, un’esimente per l’inosservanza dell’ordine di demolizione, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi parte attiva per chiedere alla competente autorità giudiziaria la revoca del sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto (cfr. C.d.S., sez. IV, 08.05.2013, n. 2484; C.d.S., sez. IV, 20.01.2010, n. 299; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 16.08.2011, n. 1530).
Infondata, infine, è la censura di illegittimità derivata, essendo, come si è visto, da respingere il ricorso contro l’ordine di demolizione.
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso introduttivo deve essere respinto, mentre il ricorso per motivi aggiunti dev’essere accolto limitatamente alla fondatezza del primo motivo di censura, con annullamento, per l’effetto, della disposizione dirigenziale n. 355/2010 del 30.09.2010, nella parte in cui dispone l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime delle opere sanzionate.
L’accoglimento soltanto parziale delle domande proposte giustifica la compensazione delle spese di lite (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 18.12.2017 n. 5927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per condivisibile giurisprudenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria.
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Con il terzo motivo di doglianza i ricorrenti contestano l’applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, poiché gli interventi realizzati non avrebbero richiesto il permesso di costruire, ma una semplice denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 22 dello stesso D.P.R.
Ciò sarebbe vero sia per la recinzione, in parte preesistente, sia per il capannone, asseritamente realizzato in sostituzione di precedenti baracche e di fatiscenti containers e perciò, in tesi, qualificabile come intervento di mera ristrutturazione o, comunque, di manutenzione straordinaria.
Il motivo è infondato.
L’assunto secondo cui il capannone sarebbe stato realizzato in ristrutturazione o manutenzione di precedenti manufatti (peraltro, indicati in baracche e containers) è priva di qualsivoglia sostegno probatorio e, perciò, destituita di fondamento anzitutto in fatto, ancor prima che in diritto.
Quanto alle opere di recinzione, di cui pure è indimostrata la parziale preesistenza, non soltanto non possono essere considerate in maniera avulsa dal contesto, ma va rammentato che per condivisibile giurisprudenza «si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria» (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 08.03.2016, n. 490, ed ivi ultt. citt.).
Per completezza può infine aggiungersi che, secondo quanto risulta dal certificato di destinazione urbanistica prodotto da parte ricorrente, il fondo era soggetto a vincolo ai sensi del d.lgs. 29.10.1999, n. 490, il che rendeva applicabile il comma 6 dell’invocato art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, in base al quale la realizzazione degli interventi allora soggetti a DIA (oggi a SCIA) su immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale era, comunque, subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.
Per queste ragioni il ricorso introduttivo non merita accoglimento (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 18.12.2017 n. 5927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va escluso che la natura vincolata del titolo edilizio costituisca elemento insuperabilmente ostativo al fine di imporre modalità esecutive, di ordine essenzialmente tecnico, per adeguare il progetto a determinate esigenze, anche prettamente estetiche e/o di decoro.
Un condivisibile insegnamento giurisprudenziale ha, infatti, ammesso la configurabilità del permesso di costruire “condizionato”, quale strumento idoneo a consentire un equilibrato contemperamento dell’interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica con l’interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica Amministrazione.
Invero:
   - “in base al principio di buona amministrazione, quando un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione”;
   - “se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell'Amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie”;
   - “la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata”.
L’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile, dunque, soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale; e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
In altri termini, la preclusione al rilascio di una concessione edilizia recante “prescrizioni” va astretta alla sola formulazione di condizioni “atipiche” rispetto al titolo edilizio (quali quelle che si pongano al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge; ovvero, che non riguardino la fase di realizzazione dell’intervento edilizio; o, ancora, che non trovino fondamento in prescrizioni dello strumento urbanistico).
La preclusa apponibilità di condizioni al titolo edilizio estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa, è agevolmente arguibile dalla considerazione per cui, laddove si ammettesse la perseguibilità di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato –legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal Legislatore.
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In data 04.08.1997, veniva rilasciata al ricorrente concessione avente ad oggetto "opere di recinzione e costruzione di muro di sostegno” recante l’indicazione "si prescrive la posa di piante tappezzanti".
La realizzazione del muro, nel progetto, veniva ipotizzata con uso di materiale di rivestimento in pietra.
Il muro veniva eseguito in conformità alla concessione edilizia (per quanto attiene al sedime, alle misure dimensionali e quant'altro), anche se non veniva eseguito il rivestimento in pietra.
Con comunicazione 16.02.2009 n. prot. 2583, il Responsabile dell’Area Territorio del Comune di Botticino dava inizio a procedimento amministrativo, rilevando che il muro oggetto di concessione nel 1997 non sarebbe stato eseguito in conformità al contenuto del titolo abilitativo in quanto "allo scopo di mitigare l'impatto visivo il muro in calcestruzzo avrebbe dovuto essere rivestito da pietra rustica, mentre allo stato attuale non presenta alcun rivestimento".
Inoltre, la comunicazione contestava, in difformità da prescrizione contenuta nella concessione edilizia, la mancata posa di piante tappezzanti.
...
4. Quanto alla sottoposta vicenda contenziosa:
   - se la realizzazione del muro di contenimento con rivestimento di pietra rustica consegue a indicazione promanante dallo stesso elaborato progettuale dal sig. Bu. presentato a corredo della richiesta di rilascio di titolo edificatorio;
   - la prescrizione circa la posa di “piante tappezzanti” è stata dall’Amministrazione esplicitamente apposta all’atto dell’adozione di quest’ultimo.
Ferma la vincolatività dell’impegno assunto in sede di presentazione del progetto –di talché, in difetto dell’osservanza di esso, la realizzazione posta in essere viene a configurare una “difformità” rispetto al titolo edificatorio formatosi in relazione ed in conseguenza della configurazione progettuale dell’intervento– deve escludersi che l’apposizione della prescrizione anzidetta riveli profili di illegittimità, per come dalla parte ricorrente sostenuto.
4.1 Va, innanzi tutto, escluso che la natura vincolata del titolo edilizio costituisca elemento insuperabilmente ostativo al fine di imporre modalità esecutive, di ordine essenzialmente tecnico, per adeguare il progetto a determinate esigenze, anche prettamente estetiche e/o di decoro.
Un condivisibile insegnamento giurisprudenziale ha, infatti, ammesso la configurabilità del permesso di costruire “condizionato”, quale strumento idoneo a consentire un equilibrato contemperamento dell’interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica con l’interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica Amministrazione.
Come sottolineato da TRGA Trentino Alto Adige, Trento, 27.07.2011 n. 204:
   - “in base al principio di buona amministrazione, quando un progetto edilizio presenta elementi ostativi alla sua approvazione di modesta rilevanza e tali da poter essere individuati e corretti o attraverso la modifica del progetto o il meccanismo della concessione condizionata, il sindaco non deve negare il titolo richiesto ma deve invitare l’interessato a modificare il progetto o rilasciare la concessione sub condicione, “in tal modo tutelando sia l'interesse pubblico al pieno rispetto della normativa urbanistica, sia l'interesse privato alla rapidità ed efficienza della pubblica amministrazione” (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 25.10.2006, n. 1960)”;
   - “se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell'Amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2010, n. 232);
   - “la violazione delle prescrizioni ha l'effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era apposta la condizione non rispettata (cfr., TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.11.2010, n. 4520)”.
4.2 L’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile, dunque, soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale; e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 22.05.2013 n. 617).
In altri termini, la preclusione al rilascio di una concessione edilizia recante “prescrizioni” va astretta alla sola formulazione di condizioni “atipiche” rispetto al titolo edilizio (quali quelle che si pongano al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge; ovvero, che non riguardino la fase di realizzazione dell’intervento edilizio; o, ancora, che non trovino fondamento in prescrizioni dello strumento urbanistico).
La preclusa apponibilità di condizioni al titolo edilizio estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa, è agevolmente arguibile dalla considerazione per cui, laddove si ammettesse la perseguibilità di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato –legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal Legislatore (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 10.09.2010 n. 5655; TRGA Trentino Alto Adige, Trento, 04.01.2011 n. 2; TAR Puglia, Lecce sez. III, 28.09.2012 n. 1623) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.12.2017 n. 1454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire in sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, postulerebbe:
   - non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla disposizione in parola
   - ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì –eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato a tali prescrizioni.
Altresì, “alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità”, atteso che “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica”.
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In data 04.08.1997, veniva rilasciata al ricorrente concessione avente ad oggetto "opere di recinzione e costruzione di muro di sostegno” recante l’indicazione "si prescrive la posa di piante tappezzanti".
La realizzazione del muro, nel progetto, veniva ipotizzata con uso di materiale di rivestimento in pietra.
Il muro veniva eseguito in conformità alla concessione edilizia (per quanto attiene al sedime, alle misure dimensionali e quant'altro), anche se non veniva eseguito il rivestimento in pietra.
Con comunicazione 16.02.2009 n. prot. 2583, il Responsabile dell’Area Territorio del Comune di Botticino dava inizio a procedimento amministrativo, rilevando che il muro oggetto di concessione nel 1997 non sarebbe stato eseguito in conformità al contenuto del titolo abilitativo in quanto "allo scopo di mitigare l'impatto visivo il muro in calcestruzzo avrebbe dovuto essere rivestito da pietra rustica, mentre allo stato attuale non presenta alcun rivestimento".
Inoltre, la comunicazione contestava, in difformità da prescrizione contenuta nella concessione edilizia, la mancata posa di piante tappezzanti.
...
4.3 Ben diversa è la problematica (e specularmente difformi le conclusioni della giurisprudenza), laddove venga in considerazione la apponibilità di “prescrizioni” al titolo edilizio rilasciato in sanatoria, ovvero conseguente ad accertamento di conformità, per come definito dall’art. 36 del D.P.R. 380/2001.
Esso (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 28.10.2016 n. 5010) muove dall’assunto che il presupposto espressamente richiesto dalla norma da ultimo citata, per potersi conseguire il permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate senza il previo rilascio del necessario titolo edilizio, sia che “l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda” (cd. “doppia conformità”).
Corollario di tanto è che il permesso di costruire in sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, postulerebbe:
   - non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla disposizione in parola
   - ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì –eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato a tali prescrizioni (cfr. TAR Liguria 15.01.2016 n. 45 e 16.12.2015 n. 1003; TAR Campania, Napoli 12.03.2015 n. 1527; TAR Campania, Salerno 28.05.2014 n. 1017; TAR Lazio, Latina 20.12.2012 n. 1004; TAR Lombardia, Milano 22.11.2010 n. 7311).
Omogeneamente, Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015 n. 4176, secondo cui “alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità”, atteso che “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.12.2017 n. 1454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione sismica, Cassazione: la zona 3 non è di bassa sismicità.
Per poter avviare i lavori in un territorio classificato zona sismica 3 è necessaria la speciale preventiva autorizzazione sismica.
Per poter avviare i lavori in un territorio classificato zona sismica 3 è necessaria la speciale preventiva autorizzazione sismica. Sono esentate dall’obbligo di legge di cui all'articolo 94 del d.P.R. 380/2001 solamente le zone 4, le quali sole sono di bassa sismicità.
Lo ha affermato la III Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 15.12.2017 n. 56040.
L'art. 94 d.P.R. 380/2001", ricorda la suprema Corte, “esclude la necessità della preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio regionale per le opere da realizzare in località a bassa sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83 del medesimo d.P.R. 380/2001.
Il secondo comma di tale disposizione prevede la definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme tecniche.
A tal fine è stata emanata l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 del 08.05.2003), con cui sono stati dettati i principi generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha delegato l'adozione della classificazione sismica del territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la relativa attribuzione a una delle quattro zone, a pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato il territorio nazionale.
E' stato così eliminato quello che in precedenza era il territorio "non classificato" ed è stata introdotta la zona 4, nella quale è facoltà delle Regioni prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica.
A ciascuna zona, inoltre, è stato attribuito un valore dell'azione sismica utile per la progettazione, espresso in termini di accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35 g, zona 2=0.25 g, zona 3=0.15 g, zona 4=0.05 g)
".
"Ora”, osserva la Cassazione, “alla luce della eliminazione del territorio non classificato e della previsione della facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative, come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, debbano essere considerate solamente quelle rientranti nella zona 4, cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione antisismica" (commento tratto da e link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: La sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi– non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente.
Invero, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha in proposito posto in luce che “il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre il ricorrente fornire la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente”, tanto che, si è affermato nella detta decisione, “la mera vicinanza di un fondo ad una cava non legittima per ciò solo ed automaticamente il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera, essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere”).
Il Collegio condivide pienamente tale approdo: invero il criterio della vicinitas se è idoneo a definire la sussistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata in astratto configurabile come interesse legittimo, tuttavia non esaurisce le condizioni necessarie cui è subordinata la legittimazione al ricorso, dovendosi da parte di chi ricorre fornire invece la prova del concreto pregiudizio patito e patiendo (sia esso di carattere patrimoniale o di deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri urbanistici che connotano l'area) a cagione dell’intervento edificatorio.
Il sistema così disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi: a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di dedurlo e provarlo.
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1.2.1. Anticipa il Collegio il proprio convincimento secondo cui l’appello è, in parte qua, certamente infondato, e che pertanto la sentenza debba essere confermata, e debba essere ribadita la originaria inammissibilità dei ricorsi di primo in quanto:
   a) la sentenza del Tar ha svolto una accurata disamina nell’ambito della quale ha esplorato tutti i possibili profili in forza dei quali sarebbe stato in via teorica possibile riconoscere la legittimazione ad agire e l’interesse a ricorrere in capo all’odierna parte appellante principale, ed in particolare:
      I) ha esaminato le vicissitudini di una porzione del compendio immobiliare originariamente di pertinenza della odierna parte appellante, ritenendo, all’evidenza, tale profilo di nodale importanza al fine di accertare il soggetto cui apparteneva, allo stato, la titolarità dell’area;
      II) ha poi tenuto conto della circostanza che, comunque, quanto ad una porzione dell’originario compendio immobiliare posseduto dalla odierna parte appellante, non v’era alcun dubbio che essa appartenesse ancora alla medesima, e che questa quindi rivestisse la qualità di confinante rispetto all’area ove avrebbe dovuto avere luogo l’avversato intervento edificatorio;
      III) ha escluso, anche sotto tale angolo prospettico in ultimo enunciato, la legittimazione ed interesse a ricorrere di parte appellante principale.
1.2.2. Le conclusioni cui è pervenuto il Tar sono assolutamente condivisibili –ad avviso del Collegio- per le ragioni che si illustrano di seguito:
   a) la circostanza che la parte originaria ricorrente abbia dato prova di essere proprietaria di una porzione di terreno confinante con quello dei controinteressati e con l’area ove dovrebbe essere eseguito il contestato intervento edificatorio non è dirimente al fine di affermare la legittimazione ed interesse a ricorrere della odierna parte appellante principale, sia per ragioni di natura sostanziale, che per motivi di carattere squisitamente processuale in quanto:
      I) sotto il profilo processuale è sufficiente compulsare il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per rendersi persuasi della circostanza che l’intero impianto ricorsuale si è fondato sulla affermata circostanza della permanente titolarità della striscia dell’area in passato “ceduta” al Comune in capo alla parte originaria ricorrente;
      II) ciò è evincibile con chiarezza, tenuto conto della circostanza che soltanto incidentalmente, ed in sede di illustrazione dell’assetto catastale e proprietario dei luoghi nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado si è fatto riferimento alla circostanza che una parte del compendio immobiliare in parola è rimasto nella titolarità della parte odierna appellante;
      III) ma soprattutto, ciò si ricava con evidenza tenuto conto della circostanza che giammai la odierna parte appellante ha fondato la propria legittimazione ad agire su tale elemento e che, ancor di più, giammai essa ha speso anche una sola parola per asserire o dimostrare che il proprio fondo avrebbe ricevuto danno o nocumento alcuno dal contestato intervento;
   b) correttamente, pertanto, il Tar ha escluso che tale semplice circostanza radicasse l’interesse a ricorrere in capo alla odierna appellante;
   c) in disparte tale rilievo processuale, il Tar ha esplorato la sfaccettatura sostanziale dell’argomento predetto, dando per incontestata (come in effetti è) la sussistenza di un rapporto di contiguità spaziale tra la porzione di fondo che ancora certamente appartiene alla odierna parte appellante principale, e quella ove dovrebbero effettuarsi gli avversati interventi edificatori;
   d) anche di tale argomento, però, è stata correttamente esclusa la rilevanza, in relazione al condivisibile rilievo per cui la sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi– non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente;
   e) invero, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha in proposito posto in luce che (tra le tante si veda in passato Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2013, n. 2108 e più di recente Consiglio di Stato, sez. V, 22.03.2016, n. 1182) “il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre il ricorrente fornire la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente”, tanto che, si è affermato nella detta decisione, “la mera vicinanza di un fondo ad una cava non legittima per ciò solo ed automaticamente il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera, essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere”);
   f) il Collegio condivide pienamente tale approdo: invero il criterio della vicinitas se è idoneo a definire la sussistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata in astratto configurabile come interesse legittimo, tuttavia non esaurisce le condizioni necessarie cui è subordinata la legittimazione al ricorso, dovendosi da parte di chi ricorre fornire invece la prova del concreto pregiudizio patito e patiendo (sia esso di carattere patrimoniale o di deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri urbanistici che connotano l'area) a cagione dell’intervento edificatorio;
   g) il sistema così disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi: a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di dedurlo e provarlo;
   h) nel caso di specie la parte originaria ricorrente non soltanto non ha provato alcunché, ma a ben guardare non ha neppure labialmente dedotto alcun pregiudizio, e pertanto correttamente il Tar ha escluso che dal mero rapporto di contiguità spaziale tra fondi potesse ricavarsi la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso in capo alla odierna parte appellante principale.
1.3. In più, può aggiungersi che:
   a) il contestato intervento era di portata modestissima, e si strutturava, in sostanza, nella creazione di un’apertura;
   b) la parte odierna appellante principale neppure ha dimostrato di risiedere nell’area limitrofa a quella ove doveva essere eseguito l’intervento, (si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 11.04.2007, n. 1672 e, di recente, Consiglio di Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4148 Consiglio di Stato, sez. III 04.02.2016 n. 441) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica.
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1.4.2. Fermandosi per un attimo a soppesare le conseguenze di quanto si è sino a questo momento evidenziato, tutte le censure di parte appellante volte ad avversare la conclusione secondo cui il comune fosse divenuto proprietario dell’area sono inaccoglibili, in quanto:
   a) nessuna sentenza del giudice civile ha mai posto nel nulla detto atto di cessione;
   b) la tesi secondo cui esso sarebbe stato invalido in quanto non sarebbe stata necessaria la concessione per procedere alla recinzione dell’area, è apoditticamente affermata, e non è neppure esatta in quanto collide con la consolidata giurisprudenza secondo la quale (tra le tante Consiglio di Stato, sez. V, 26.10.1998, n. 1537 “la concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica”);
   c) in disparte il nomen iuris impresso al titolo abilitativo, non v’è contezza della tipologia di recinzione realizzata a quel tempo, ed in ogni caso, ed a tutto concedere, tale tesi non potrebbe in alcun modo giovare all’appellante: l’atecnico richiamo al concetto di “nullità” è errato: semmai, dovrebbe dirsi, a tutto concedere, che la parte sarebbe incorsa in un errore essenziale in ordine alla doverosità della cessione dell’area, in quanto finalizzata ad ottenere la concessione per la realizzazione della recinzione: vi sarebbe quindi un negozio viziato da errore (in tesi essenziale, ai sensi del disposto di cui all'art. 1429, n. 3 c.c.): ma tale vizio del consenso non è mai stato fatto valere nei termini di legge attraverso un’azione volta alla annullabilità della pattuizione, e la stessa è ormai improponibile;
   c) per altro verso, ad abundantiam l’appellante non ha contestato né smentito la deduzione secondo cui la “recinzione” realizzata consisteva in un muro, per cui la concessione edilizia si appalesava necessaria, ed il diverso nomen attribuito al provvedimento abilitativo rilasciato alla odierna appellante non rileva affatto;
   d) tale tipologia di negozio era perfettamente consentita dalla antevigente legislazione -e lo è tuttora- come riconosciuto dalla giurisprudenza ordinaria di legittimità (si veda Cassazione civile, sez. I, 20.07.1988 n. 4715 sulla quale di seguito ci si soffermerà più approfonditamente);
   e) per completezza si rileva altresì che è certamente irricevibile l’impugnazione “diretta” della citata delibera consiliare n. 152 del 29.06.1987, per le considerazioni a più riprese affermate dalla giurisprudenza amministrativa (si veda, di recente, Consiglio di Stato, sez. IV 08.09.2016 n. 3825, considerando 2.3.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato che nel vigore della l. 06.08.1967 n. 765 abbia ceduto gratuitamente al comune un suolo quale condizione del rilascio (in seguito regolarmente avvenuto) della licenza edilizia, non può pretendere la restituzione dell'area ove la p.a. non ne abbia fatto l'uso che era stato originariamente previsto.
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Se si ritiene, allora, che la cessione della area è correlativa al rilascio della licenza edilizia, la circostanza che, dopo tale rilascio, la prevista opera di urbanizzazione non venga attuata, da parte della P.A. che ha ricevuta l'area predetta, non può essere, per il proprietario, fonte di diritti, ed in particolare non lo abilita certo a rimettere in discussione l'intero rapporto, cioè, in definitiva, a sostenere che sarebbe priva di causa giuridica l'attuata cessione dell'are.
In senso traslato e a solo titolo esemplificativo, si potrebbe dire che se il rilascio della licenza ha avuto come "corrispettivo" la cessione dell'area, il titolare della licenza non può pretendere la restituzione di quel "corrispettivo" solo perché la P.A. ricevente non ne ha fatto l'uso ch'era stato originariamente previsto.
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La cessione gratuita di un'area all'Amministrazione concedente per l'esecuzione di opere di urbanizzazione trova il suo corrispettivo nel rilascio della concessione edilizia, ma non anche nella effettiva realizzazione delle opere di urbanizzazione. Per tale motivo, il privato stipulante non potrà pretendere l'annullamento dell'atto di cessione qualora l'Amministrazione concedente decida una diversa utilizzazione dell'area.
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1.3.4. La parte odierna appellante principale contrasta poi l’approdo del Tar sotto altro angolo prospettico, ed ipotizza che, in virtù della clausola contenuta nel negozio di cessione (“il possesso legale e materiale delle zone di suolo sopra cedute passerà al Comune di Barletta al momento in cui il Comune stesso dovrà dare materialmente corso alla realizzazione del manufatto stradale”) e della circostanza che non si sia poi dato corso alla edificazione della strada, a tutto concedere l’atto di cessione non avrebbe prodotto gli effetti cui era preordinato, e che, pertanto, essa sarebbe rimasta proprietaria dell’area e potrebbe oggi opporsi alla iniziativa del comune e della parte controinteressata, da ciò facendo discendere la propria legittimazione attiva e l’interesse a ricorrere.
1.3.5. Anche tali argomenti critici non possono essere favorevolmente scrutinati in quanto:
   a) a fronte della espressa previsione contenuta nella delibera consiliare n. 152 del 29.06.1987 e nell’atto abilitativo n. 51/85 del 03.05.1985 per la recinzione del suolo di pertinenza della parte appellante (“che il rilascio della concessione era subordinato alla trascrizione nei Pubblici Registri Immobiliari del Vincolo di asservimento dell’intera superficie del predetto suolo alla costruzione a realizzarsi”) il richiamo al perdurante “possesso” in capo all’appellante medesima appare innanzitutto atecnicamente riferirsi al concetto di mera detenzione;
   b) ma in ogni caso, né tale circostanza giova a parte appellante, né le è utile l’insistito richiamo alla mancata realizzazione della strada da parte del Comune (ed alla supposta irrealizzabilità della medesima) in quanto, per la giurisprudenza di legittimità (si veda nuovamente Cassazione civile, sez. I, 20.07.1988 n. 4715 prima menzionata) “il privato che nel vigore della l. 06.08.1967 n. 765 abbia ceduto gratuitamente al comune un suolo quale condizione del rilascio (in seguito regolarmente avvenuto) della licenza edilizia, non può pretendere la restituzione dell'area ove la p.a. non ne abbia fatto l'uso che era stato originariamente previsto”;
   c) la condivisibile decisione dianzi richiamata, è perentoria nell’affermare che “se si ritiene, allora, che la cessione della area è correlativa al rilascio della licenza edilizia, la circostanza che, dopo tale rilascio, la prevista opera di urbanizzazione non venga attuata, da parte della P.A. che ha ricevuta l'area predetta, non può essere, per il proprietario, fonte di diritti, ed in particolare non lo abilita certo a rimettere in discussione l'intero rapporto, cioè, in definitiva, a sostenere che sarebbe priva di causa giuridica l'attuata cessione dell'are. In senso traslato e a solo titolo esemplificativo, si potrebbe dire che se il rilascio della licenza ha avuto come "corrispettivo" la cessione dell'area, il titolare della licenza non può pretendere la restituzione di quel "corrispettivo" solo perché la P.A. ricevente non ne ha fatto l'uso ch'era stato originariamente previsto": la premessa maggiore da cui muove la Corte di Cassazione nella richiamata decisione, è certamente traslabile alla fattispecie: per le parti in causa, la cessione dell’area era correlativa ad rilascio del titolo abilitativo edilizio; muovendo da tale caposaldo, è evidente che anche alla controversia in esame vada applicato il corollario di tale presupposto, e che, quindi, la parte odierna appellante né è rimasta proprietaria dell’area, né lo è ridiventata, ed in conseguenza di ciò non ha legittimazione né interesse a dolersi dell’utilizzo che ne voglia fare il comune, né dell’attività edilizia intrapresa dal vicino su area limitrofa a quest’ultima;
   d) la giurisprudenza di merito civile, condivide tale approdo, ed addirittura lo trasla all’ipotesi di inadempimento da parte dell’Amministrazione all’obbligo di eseguire opere di urbanizzazione a seguito di concessione, (Tribunale Chieti, 24/02/2006, n. 90 “la cessione gratuita di un'area all'Amministrazione concedente per l'esecuzione di opere di urbanizzazione trova il suo corrispettivo nel rilascio della concessione edilizia, ma non anche nella effettiva realizzazione delle opere di urbanizzazione. Per tale motivo, il privato stipulante non potrà pretendere l'annullamento dell'atto di cessione qualora l'Amministrazione concedente decida una diversa utilizzazione dell'area”) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINomi oscurati su istanza. Prima che sia definito il grado di giudizio. In alternativa, dice la Cassazione, la sentenza esce coi dati in chiaro.
L'oscuramento dei nomi riportati nelle sentenze va chiesto a tempo debito e cioè prima che venga definito il grado di giudizio. Se si arriva troppo tardi non c'è rimedio e le sentenze si possono pubblicare con i nomi in chiaro.

È quanto desumibile dalla decisione della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2017 n. 55500, che si è occupata della richiesta di oscuramento dei nomi di due condannati per reati tributari con una pronuncia del 2015.
Solo due anni dopo gli interessati hanno richiesto l'oscuramento dei propri dati personali in essa contenuti, ai sensi dell'articolo 52 del Codice della privacy (dlgs n. 196 del 2003). Gli interessati hanno messo in evidenza che la notizia di quella condanna impediva loro di aprire conti bancari. Tra l'altro le persone in questione hanno riferito che i dati erano conservati nel sito web www.word-check.com, che consentiva di accedere alla pagina web della suddetta sentenza pronunziata nei loro confronti.
Anzi a causa della notizia vari istituti di credito, italiani e stranieri, non solo avevano loro negato di costituire un rapporto di conto corrente, ma avevano anche cessato quelli in essere, impedendo così anche il reinserimento sociale dei due condannati.
La Cassazione ha respinto il ricorso, giudicato inammissibile, poiché tardivo.
In effetti l'articolo 52 del codice della privacy stabilisce che l'interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell'ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
Ci sono, dunque, due condizioni da rispettare. Primo: la richiesta degli interessati deve comunque essere sorretta da motivi legittimi; secondo: la richiesta deve rispettare un preciso di termine di decadenza, dovendo essere presentata prima che sia definito il relativo grado di giudizio.
Nel caso specifico la richiesta è stata presentata oltre il termine di legge. D'altra parte, aggiunge la cassazione, il termine è logico: non serve a niente un ordine di oscuramento dei dati successivo alla pubblicazione del provvedimento e, quindi, alla sua diffusione indiscriminata e senza limiti. Una volta pubblicato su internet, un ordine di cancellazione ha ben scarsa efficacia.
D'altra parte nel caso concreto non ricorrevano nemmeno i casi in cui l'oscuramento va ordinato d'ufficio (per esempio, per i casi concernenti minori), visto che il giudizio riguardava reati tributari.
Si aggiunge che, anche quando la richiesta è presentata in tempo, l'oscuramento non è e non può essere automatico, in quanto di deve valutare se la richiesta sia assistita da motivi legittimi. In proposito si ritiene che si deve tenere conto anche dell'effetto disincentivante dei profili afflittivi derivanti dalla sentenza di condanna (articolo ItaliaOggi del 03.01.2018).
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MASSIMA
1. Il ricorso è inammissibile.
2. L'art. 52 d.lgs. n. 196 del 30.06.2003, codice in materia di protezione dei dati personali, nel disciplinare l'indicazione dei dati personali nei provvedimenti giudiziari, stabilisce che: "1. Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado, l'interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell'ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
2. Sulla richiesta di cui al comma 1 provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La medesima autorità può disporre d'ufficio che sia apposta l'annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati.
3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, all'atto del deposito della sentenza o provvedimento, la cancelleria o segreteria vi appone e sottoscrive anche con timbro la seguente annotazione, recante l'indicazione degli estremi del presente articolo: "In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di....".
4. In caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l'annotazione di cui al comma 2, o delle relative massime giuridiche, e' omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell'interessato.
5. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 734-bis del codice penale relativamente alle persone offese da atti di violenza sessuale, chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado e' tenuto ad omettere in ogni caso, anche in mancanza dell'annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche in caso di deposito di lodo ai sensi dell'articolo 825 del codice di procedura civile. La parte può formulare agli arbitri la richiesta di cui al comma 1 prima della pronuncia del lodo e gli arbitri appongono sul lodo l'annotazione di cui al comma 3, anche ai sensi del comma 2. Il collegio arbitrale costituito presso la camera arbitrale per i lavori pubblici ai sensi dell'articolo 32 della legge 11.02.1994, n. 109, provvede in modo analogo in caso di richiesta di una parte.
7. Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali
".
La richiesta degli interessati, che deve comunque essere sorretta da motivi legittimi, risulta, dunque, soggetta a un preciso di termine di decadenza, dovendo essere presentata prima che sia definito il relativo grado di giudizio.
Quella in esame, presentata dai condannati Mo. e Fe. con l'istanza depositata in data 11.04.2017, risulta dunque tardiva, essendo successiva alla conclusione del giudizio di legittimità, avvenuta con la lettura del dispositivo della sentenza, resa all'udienza del 13.04.2016, la cui motivazione è stata depositata il 18.07.2016, e quindi si tratta di richiesta inammissibile, a causa del mancato rispetto del suddetto termine, stabilito a pena di decadenza, come si desume inequivocabilmente dall'impiego del verbo "deve".
La previsione di tale onere, e della conseguente decadenza per il caso di sua inosservanza, non risulta, poi, irrazionale, essendo conforme ad esigenze di funzionalità e buon andamento della attività giurisdizionale, oltre che di pronta e immediata tutela dei diritti degli interessati, risultando chiaramente inutiliter data una disposizione di oscuramento dei dati successiva alla pubblicazione del provvedimento e alla sua diffusione indiscriminata e senza limiti.
I ricorrenti non hanno, poi, neppure prospettato che si versasse in una ipotesi in cui l'oscuramento dei dati identificativi degli interessati avrebbe dovuto essere disposto d'ufficio, né ciò emerge dagli atti, posto che il giudizio riguardava reati tributari (violazione degli artt. 2 e 8 d.lgs. 74/2000 e 166 d.lgs. 58/1998), sicché non è dato ravvisare al riguardo alcuna omissione nell'esercizio dei poteri officiosi attribuiti in materia al Collegio.

INCARICHI PROFESSIONALISpese pari? Se in due si soccombe. Suprema corte.
La compensazione delle spese processuali può essere pronunziata solo in caso di soccombenza reciproca, o in presenza di gravi ed eccezionali ragioni.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con ordinanza 12.12.2017 n. 29690.
Le gravi ed eccezionali ragioni per procedere a compensazione devono peraltro essere espressamente enunciate nella motivazione e devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa, non potendo consistere in una formula generica, con riferimento alla particolarità della fattispecie, o all'entità della lite.
Anche in merito poi alla richiesta di condanna al risarcimento del danno per lite temeraria non può essere adottata una motivazione stereotipata, laddove il semplice riferimento all'assenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 96 cpc, per assenza di dolo o colpa grave, integra solo una motivazione apparente. Nel caso di specie, la Ctp aveva annullato l'avviso relativo all'applicazione di sanzione in materia di tasse sulle concessioni governative, compensando le spese del giudizio, pur preso atto che la risoluzione del contratto di telefonia era avvenuto in seguito a transazione precedente all'anno oggetto di accertamento.
Il contribuente proponeva quindi appello sul capo delle spese processuali, mentre l'Agenzia proponeva appello incidentale sul merito, al quale seguiva, da parte del contribuente, anche richiesta di condanna dell'ente impositore per lite temeraria. L'ufficio rinunciava poi all'appello incidentale. La Ctr rigettava l'appello principale e compensava le spese processuali. Il contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 15 del dlgs 546/1992 sulla compensazione delle spese di giudizio. Censura, secondo la Corte, fondata.
La motivazione addotta dalla Ctr era contraria a legge, avendo fatto riferimento all'ipotesi di compensazione per reciproca soccombenza, non ricorrente nel caso di specie. E anche la motivazione della sentenza, nella parte in cui aveva rigettato la richiesta risarcimento del danno per lite temeraria con motivazione generica, secondo la Corte, era illogica e non consentiva di comprendere le ragioni poste a base della decisione (articolo ItaliaOggi del 03.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTILe pale eoliche nella rendita catastale.
Pale eoliche, le torri di sostegno sono costruzioni, non imbullonati. E rientrano quindi nel calcolo della rendita catastale.

Con 39 sentenze (tra cui la sentenza 04.12.2017 n. 68), la Commissione tributaria provinciale di Matera ha fornito una articolata interpretazione circa l'inserimento, nel computo della rendita catastale degli impianti eolici, anche delle cosiddette «torri/pali» di sostegno degli aerogeneratori.
Secondo il collegio materano, si legge su FiscoOggi, la rivista telematica delle Entrate, per valutare quali elementi debbano essere inclusi o meno nella stima catastale, è necessario fare riferimento non solo al criterio dell'essenzialità degli stessi per la destinazione economica dell'unità immobiliare, ma anche alla circostanza che tali elementi siano «fissi», ovvero stabili (anche nel tempo), rispetto alle componenti strutturali della costruzione.
La Commissione tributaria condivide e fa proprio il contenuto espresso, sul punto, della circolare 27/2016 dell'Agenzia, la quale ha chiarito che «Quanto alle strutture di sostegno degli aerogeneratori delle centrali eoliche, più che di semplici pali, trattasi di vere e proprie torri ( ) nelle quali è possibile riconoscere i caratteri della solidità, della stabilità, della consistenza volumetrica, nonché della immobilizzazione al suolo» che «portano ad annoverare le stesse tra le costruzioni e, come tali, quindi, da includere nella stima diretta finalizzata alla determinazione della rendita catastale della centrale eolica».
Per supportare la propria tesi, i giudici si rifanno alle sentenze della Corte di cassazione 4028, 4029, 4030 del 14.03.2012.
A questi richiami si aggancia, infine, il corollario rappresentato dalla sentenza n. 162/2008 della Corte costituzionale, con la quale i giudici delle leggi hanno affermato che nella determinazione della rendita catastale, deve tenersi conto di tutti gli impianti che caratterizzano la destinazione dell'unità immobiliare, senza i quali la struttura perderebbe le caratteristiche che contribuiscono a definirne la specifica destinazione d'uso.
Il filone di sentenze in esame, dunque, confuta la tesi sostenuta da molte società operanti nell'ambito del fotovoltaico secondo cui sarebbe erronea l'inclusione, nel calcolo della rendita catastale, di uno dei tre elementi (nel caso specifico, la torre d'acciaio) costituenti l'aerogeneratore (articolo ItaliaOggi del 04.01.2018).

TRIBUTIImu, prescrizione differenziata. Termine ordinario solo per sentenze passate in giudicato. Il principio affermato dalla Cassazione sui crediti Ici esteso ad altri tributi locali.
Il credito Ici, ma la stessa regola vale per l'Imu, si prescrive in cinque anni, e non in dieci anni, dopo la notifica della cartella o dell'ingiunzione di pagamento. La prescrizione quinquennale matura se non viene notificata un'intimazione di pagamento o un atto interruttivo della prescrizione.
La prescrizione ordinaria decennale, infatti, si applica solo qualora il credito vantato dall'amministrazione comunale sia stato riconosciuto da una sentenza divenuta definitiva e non già quando risulti dovuto in seguito a un accertamento divenuto definitivo per omessa impugnazione.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 29.11.2017 n. 28576.
Per i giudici di legittimità, «la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. «conversione» del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale».
«Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo».
In base alla citata norma civilistica, che disciplina l'actio iudicati, i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, si prescrivono in dieci anni solo nel caso in cui sia stata emanata una sentenza di condanna passata in giudicato. In caso contrario, occorre fare riferimento al termine prescrizionale più breve fissato per il recupero del credito riguardante la specifica entrata. Nel caso in esame l'intimazione di pagamento, successiva alla cartella, era stata notificata oltre il termine quinquennale. La stessa regola vale qualora si fosse trattato dell'ingiunzione, quale atto della riscossione coattiva alternativo al ruolo.
Il recupero dei crediti degli enti locali. Sui termini per l'esperimento delle azioni esecutive riguardanti i tributi locali la giurisprudenza ha assunto una posizione chiara e netta. La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 47/2017) ha stabilito che il recupero forzoso del credito riguardante la tassa rifiuti è soggetto al termine di prescrizione quinquennale poiché si tratta di una prestazione periodica a carico del contribuente.
Dunque le azioni esecutive esperite da Equitalia, o da altri soggetti incaricati dalle amministrazioni comunali che riscuotono a mezzo ingiunzione, non possono essere adottate oltre il termine di cinque anni, a meno che non sia stato notificato un atto interruttivo della prescrizione. Il termine quinquennale vale anche per le ganasce fiscali. Infatti, è illegittimo il provvedimento di fermo amministrativo emanato oltre i cinque anni, ancorché si tratti di una misura cautelare.
Per il giudice d'appello, questo breve termine prescrizionale si applica a tutti i tributi e entrate locali che si pagano ad anno o frazione di anno. Trattandosi di una prestazione periodica va applicata la disposizione contenuta nell'articolo 2948 del codice civile, secondo cui il termine per recuperare il credito si riduce a cinque anni per tutto ciò che si paga periodicamente ad anno o in termini più brevi. E questo principio vale non solo per la tassa rifiuti ma, per i giudici tributari, è applicabile più in generale alle entrate locali che si pagano periodicamente.
Per stoppare il termine quinquennale è necessario notificare al debitore un atto interruttivo della prescrizione, che blocchi il suo decorso e lo faccia ripartire da zero. Del resto l'articolo 50, comma 2, del dpr 602/1973 obbliga Equitalia o il concessionario della riscossione, dopo un anno dalla notifica della cartella o dell'ingiunzione, a emanare un'intimazione al debitore prima di avviare le procedure esecutive.
La giurisdizione sugli atti esecutivi. Riguardo al giudice competente a decidere in caso di contestazione degli atti esecutivi, si è espressa la Cassazione con la sentenza 24965/2017.
Secondo le sezioni unite della Suprema corte, per l'opposizione agli atti esecutivi riguardanti il mancato pagamento dell'Ici, o di altre imposte e tasse, è competente il giudice tributario se è stata omessa o è invalida la notifica dell'ingiunzione di pagamento emanata dal comune. La competenza a decidere non può essere attribuita al giudice ordinario, come avviene normalmente per tutti gli atti di esecuzione forzata, poiché il contribuente ha inteso impugnare il primo atto, che può essere la cartella di pagamento o l'ingiunzione, con il quale l'ente ha manifestato la volontà di procedere alla riscossione coattiva.
In particolare, per le sezioni unite, «l'opposizione agli atti esecutivi che il contribuente assume essere viziato da nullità derivata dalla asserita nullità degli atti presupposti, si risolve nell'impugnazione del primo atto in cui viene manifestato al contribuente l'intento di procedere alla riscossione di una ben individuata pretesa tributaria: l'opposizione, pertanto, è ammissibile e va proposta davanti al giudice tributario».
Gli enti locali, oltre alla formale notifica dell'atto, sono poi onerati di provare il fondamento della loro pretesa creditoria, per consentire ai debitori di opporre eventuali contestazioni. Alle amministrazioni pubbliche è imposto di produrre la documentazione idonea a dimostrare la fondatezza dei loro crediti (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2018).

PUBBLICO IMPIEGOAgrotecnici e periti agrari sono figure equipollenti.
Nei concorsi pubblici le professioni di periti agrari e di agrotecnici sono equipollenti. Pertanto, non sono possibili discriminazioni concorsuali tra le due figure.

Ad affermarlo il Consiglio di Stato -Sez. V- che, nella sentenza 27.11.2017 n. 5550, ha ribadito l'illegittimità di un concorso riservato a diplomati periti agrari con iscrizione obbligatoria al loro albo professionale piuttosto che all'Albo degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati. Oltre ad eliminare differenti valutazioni sulle due figure professionali, la sentenza del Cds conferma la possibilità per i diplomati periti agrari di iscriversi liberamente nell'Albo degli agrotecnici.
La vicenda riguarda un concorso pubblico, indetto dalla provincia di Sassari nel 2010, che escludeva gli agrotecnici; la riammissione ha provocato diversi ricorsi incrociati da parte delle altre categorie professionali. Il Consiglio di stato, prima della sentenza 5550/217, si era già espresso a favore dell'equipollenza nel gennaio 2016 (sentenza 172).
Secondo il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati, che hanno commentato la decisione del Cds con una nota diffusa ieri, la sentenza in questione accerta alcuni principi di diritto oltre all'equipollenza dei titoli di studio: l'applicazione ai concorsi pubblici del principio dell'assorbenza di titoli superiori, cioè a dire che il possesso di un titolo di studio di livello maggiore include in qualche modo anche le competenze del titolo sottostante; che l'equipollenza dei titoli di studio non può essere disgiunta dalla conseguente abilitazione ed iscrizione al relativo Albo professionale e, dunque, anche in questo ambito non vi possono più essere discriminazioni in ragione dell'Albo professionale scelto per svolgere la propria attività.
Per il presidente del Consiglio degli agrotecnici, Roberto Orlandi, la decisione del Cds ha una portata estremamente positiva: «Con la sentenza 5550/2017 viene messa la parola fine ad una vicenda, quella dell'equipollenza dei titoli di studio e delle abilitazioni professionali, che si trascinava da fino troppo tempo, solo per alimentare sterili polemiche. Il Consiglio di stato ci restituisce così piena certezza del diritto» (articolo ItaliaOggi del 06.01.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono da parte dell’imprenditore fallito: il curatore fallimentare ne risponde?
Al curatore fallimentare non può essere imposto nessun ordine di ripristino per i rifiuti abbandonati prodotti dall’imprenditore fallito, non essendo il curatore chiamato a rispondere del precedente comportamento omissivo o commissivo dell’impresa fallita.
Il curatore, infatti, pur avendo “l’amministrazione del patrimonio fallimentare”, non può essere considerato un “detentore di rifiuti” ai sensi della direttiva 2008/98/CE e dell’art. 183, comma 1, lett. h), del D.L.vo. 152/2006: ai fini dell’applicazione della normativa europea e della normativa nazionale di recepimento, la produzione di rifiuti è innegabilmente connessa all’esercizio di un’attività imprenditoriale, attività che non viene proseguita dal curatore, che ha solamente il compito di liquidare i beni del fallito, per soddisfare i creditori ammessi al passivo
(massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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1. Torna nuovamente all’attenzione di questo Tribunale la delicata e controversa questione relativa alla posizione del curatore fallimentare in relazione ai beni del fallito direttamente definibili rifiuti o comunque contenenti fattori di inquinamento ambientale, tali da richiedere, secondo la normativa di settore, un intervento di bonifica.
Nel caso in esame, alla luce della relazione di sopralluogo del 03.03.2017, richiamata nella motivazione del provvedimento impugnato, non è in discussione la circostanza che il responsabile dell’inquinamento vada individuato nel presidente del consiglio di amministrazione della società IR.Co..
2. Questo Tribunale nella sentenza n. 93 del 2017 (richiamata nella successiva sentenza n. 173 del 2017) -relativa ad una fattispecie analoga a quella in esame, nella quale il curatore non era stato autorizzato all’esercizio provvisorio dell’impresa ai sensi dell’art. 104 del R.D. n. 267/1942 (c.d. legge fallimentare)- ha diffusamente analizzato la questione facendo proprio il prevalente orientamento giurisprudenziale (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 30.06.2014 n. 3274; id., 16.06.2009, n. 3885; id., 12.06.2009, n. 3765) che esclude la legittimazione passiva del curatore fallimentare (non autorizzato alla prosecuzione dell’attività della società fallita) con riferimento ad ordinanze sindacali che impongono la rimozione, l’avvio a recupero o smaltimento di rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi in quanto:
   A) «il fallimento non può essere reputato un subentrante, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio ... e correlativamente il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus pubblico rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942). Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite»;
   B) «il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito ... poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono gli obblighi del fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale».
3. L’Amministrazione chiede ora al Collegio di rimeditare tali conclusioni o comunque di adire la Corte di Giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 TFUE, invocando un precedente di altro Giudice amministrativo (TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 12.05.2016, n. 669), ove è stato affermato che «la curatela fallimentare è attualmente il detentore dei rifiuti secondo il diritto comunitario, e dunque ha l’obbligo di rimuovere gli stessi e di avviarli a smaltimento o recupero» in quanto:
   A) «L’art. 3, par. 1, punto 6, della Dir. 19.11.2008 n. 2008/98/CE (sostitutiva di direttive anteriori) definisce il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti. Nel diritto comunitario la categoria del possesso comprende anche la detenzione secondo il diritto interno (compresa la categoria che qualifica il tipo di detenzione esercitato sui beni del fallimento).
Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, infatti, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione, senza necessità di indagare il titolo giuridico sottostante. L’elemento decisivo è il carattere materiale della detenzione dei rifiuti. Anche i commercianti e gli intermediari hanno quindi il possesso dei rifiuti, ma nel loro caso la norma comunitaria prevede eccezionalmente che il possesso possa anche non essere materiale (v. 3 par. 1 punti 7-8 della Dir. 2008/98/CE)
»;
   B) «In base al diritto comunitario (v. art. 14, par. 1, della Dir. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale, o dai detentori del momento, o dai detentori precedenti dei rifiuti. Questo costituisce un applicazione del principio “chi inquina paga” (v. anche il considerando n. 1 della Dir. 2008/98/CE).
In altri termini, la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un’obbligazione comunitaria avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i rifiuti; (b) l’obbligo di smaltire gli stessi. Se per effetto di categorie giuridiche interne questa obbligazione non fosse eseguibile, l’effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato (v. C. Giust. Sez. IV 03.10.2013 C-113/12, Brady, punti 74-75).
Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi sono collocati, può invocare l’esimente interna dell’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006. La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi di tale norma, lasciando abbandonati i rifiuti
».
4. Al riguardo il Collegio -ricordando innanzi tutto che lo stesso Tribunale che ha emesso il richiamato precedente ha rimeditato il proprio orientamento, pervenendo successivamente ad affermare (TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 09.01.2017, n. 38) che «in sede di applicazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell’individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull’abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa fallita
»- conferma l’orientamento già espresso nell’accogliere la domanda incidentale proposta dal ricorrente con l’ordinanza cautelare n. 43 del 2017, non essendo fondati i dubbi di compatibilità della normativa nazionale (e, in particolare, dell’art. 31, comma 1, del R.D. n. 267/1942 e dell’art. 192, comma 3, del decreto legislativo n. 152/2006), con il diritto dell’Unione Europea (e, in particolare, con l’articolo 14, paragrafo 1, ed il considerando 26 della direttiva 2008/98/CE).
6. Il considerando 26 della direttiva 2008/98/CE in materia di rifiuti recita “Il principio «chi inquina paga» è un principio guida a livello europeo e internazionale. Il produttore di rifiuti e il detentore di rifiuti dovrebbero gestire gli stessi in modo da garantire un livello elevato di protezione dell’ambiente e della salute umana”.
La predetta direttiva:
   A) all’art. 3, paragrafo 1, n. 6), definisce detentore di rifiuti “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”;
   B) all’art. 14, paragrafo 1, prevede che “Secondo il principio «chi inquina paga», i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti”;
   C) all’art. 15, paragrafo 1, impone agli Stati membri di adottare “le misure necessarie per garantire che ogni produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provveda personalmente al loro trattamento oppure li consegni ad un commerciante o ad un ente o a un’impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti o ad un soggetto addetto alla raccolta dei rifiuti pubblico o privato in conformità degli articoli 4 e 13”.
Il decreto legislativo n. 152/2006:
   A) all’art. 183, comma 1, lett. h), definisce detentore di rifiuti “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”;
   B) all’art. 188, comma 1, primo periodo, prevede che “Il produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provvedono direttamente al loro trattamento, oppure li consegnano ad un intermediario, ad un commerciante, ad un ente o impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti, o ad un soggetto pubblico o privato addetto alla raccolta dei rifiuti, in conformità agli articoli 177 e 179”.
Il soggetto responsabile del trattamento dei rifiuti è, poi, destinatario delle sanzioni di cui all’art. 255 del decreto legislativo n. 152/2006, in tema di abbandono di rifiuti, e può essere destinatario delle ordinanze sindacali ripristinatorie di cui all’art. 192, comma 3, del decreto legislativo n. 152/2006, volte a dare attuazione all’obbligo di ripristino inadempiuto. L’art. 31, comma 1, del R.D. n. 267/1942 dispone che il curatore fallimentare “ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”.
7. Secondo l’Amministrazione, nel caso del curatore fallimentare ricorrerebbe la figura del “detentore dei rifiuti” come definita dalla normativa europea e, quindi, il curatore ben potrebbe essere destinatario di ordinanze ripristinatorie ai sensi dell’art. 192, comma 3, del decreto legislativo n. 152/2006.
In particolare il curatore, anche prescindendo dalle condotte dallo stesso poste in essere in caso di esercizio provvisorio dell’impresa ai sensi dell’art. 104 della legge fallimentare (nel qual caso il curatore stesso si pone come il produttore dei rifiuti), ben potrebbe essere chiamato a rispondere di abbandono di rifiuti prodotti (non da lui ma) dal fallito. Diversamente opinando, si finirebbe per trasferire «direttamente sulla collettività generale rappresentata ed impersonata dalle varie autorità della pubblica amministrazione» gli oneri connessi alla gestione dei rifiuti.
8. Tale tesi non è condivisibile perché il curatore -pur avendo “l’amministrazione del patrimonio fallimentare” (cfr. l’art. 31, comma 1, della legge fallimentare)- non può tuttavia essere considerato un “detentore di rifiuti” ai sensi dall’art. 3, paragrafo 1, n. 6), della direttiva 2008/98/CE e dalla relativa norma nazionale di recepimento, costituita dall’art. 183, comma 1, lett. h), del decreto legislativo n. 152/2006.
Difatti alla luce della sentenza della Corte di Giustizia U.E. n. 534 del 04.03.2015 il principio “chi inquina paga”, desumibile dall’art. 191, paragrafo 2, del TFUE, «comporta una preclusione alla normativa interna di imporre ai singoli costi per lo smaltimento dei rifiuti che non si fondino su di un ragionevole legame con la produzione dei rifiuti medesimi» (così Consiglio di Stato, Sez. V, 07.06.2017, n. 2724).
Inoltre, ai fini dell’applicazione della normativa europea e della normativa nazionale di recepimento, la produzione di rifiuti è innegabilmente connessa all’esercizio di un’attività imprenditoriale, attività che -salva l’ipotesi dell’esercizio provvisorio ai sensi dell’art. 104 del R.D. n. 267/1942 (in cui il curatore esercita attività di impresa)- non viene proseguita dal curatore, che ha il limitato compito di liquidare i beni del fallito per soddisfare i creditori ammessi al passivo (compito al quale è strettamente connessa “l’amministrazione del patrimonio fallimentare”).
Significativa al riguardo è la posizione assunta della giurisprudenza civile (Tribunale di Milano, Sezione fallimentare, 08.06.2017) secondo la quale deve escludersi che i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito costituiscano beni da acquisire alla procedura fallimentare per cui, a fronte dell’abbandono degli stessi, nessun ordine di ripristino può essere imposto alla curatela fallimentare.
In tal senso è orientata anche la giurisprudenza penale in materia fallimentare (Cass. pen., Sez. III, 16.06.2016, n. 40318), secondo la quale il curatore del fallimento -non essendo né rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell’amministrazione del suo patrimonio per l’esercizio di poteri conferitigli dalla legge, né essendo destinatario di specifici obblighi di sorveglianza- non può essere chiamato a rispondere di comportamenti del responsabile dell’inquinamento.
Deve allora conclusivamente ritenersi che «la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti» (così TAR Lombardia Milano, Sez. III, 03.03.2017, n. 520).
9. Né giova all’Amministrazione sostenere che, così ragionando, si finisce per trasferire «direttamente sulla collettività generale rappresentata ed impersonata dalle varie autorità della pubblica amministrazione» gli oneri connessi alla gestione dei rifiuti. Difatti, secondo la giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3885), se si ammettesse la legittimazione passiva del curatore si «determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga” scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento».
10. Resta allora solo da evidenziare che nel sistema del rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia a seconda che essi emettano o meno decisioni contro le quali sia possibile esperire un ricorso giurisdizionale di diritto interno; nel primo caso, il giudice nazionale ha una facoltà di rinvio (art. 267, comma 2, del TFUE), mentre nel secondo caso il giudice è sottoposto ad un vero e proprio obbligo di rinvio (art. 267, comma 3, del TFUE).
Ciò posto, risultando acquisito in giurisprudenza il principio di diritto per cui il curatore del fallimento non può essere considerato un detentore dei rifiuti ai sensi dall’art. 3, paragrafo 1, n. 6), della direttiva 2008/98/CE e dell’art. 183, comma 1, lett. h), del decreto legislativo n. 152/2006, il Collegio ritiene che non vi sia motivo per sollevare innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale prospettata dall’Amministrazione resistente.
11. Il ricorso in esame deve conclusivamente essere accolto e, per l’effetto, l’impugnata ordinanza del Sindaco del Comune di Lavis n. 22/2017 va annullata nella parte in cui si ordina al dott. St.In., in qualità di curatore del Fallimento IR.Co., una serie di attività connesse con la smaltimento dei rifiuti, ivi comprese la caratterizzazione e la rimozione di rifiuti abbandonati presso lo stabilimento di Lavis della IR.Co. (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 24.11.2017 n. 309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTICamion vela, imposte al Comune della sede.
L'imposta di pubblicità relativa all'affissione di messaggi pubblicitari su un c.d. camion «vela» deve essere corrisposta nel comune dove la proprietaria del veicolo ha la sede; di contro, è illegittima la pretesa vantata dai comuni limitrofi, seppur attraversati dal camion vela.

È quanto afferma la Ctp di Milano nella sentenza 23.11.2017 n. 6523/23/2017.
Il collegio meneghino riunisce due distinti ricorsi presentati da una società per azioni, aventi a oggetto l'impugnazione di due avvisi di accertamento per l'imposta sulla pubblicità emessi dai comuni di Trezzano sul Naviglio e Corsico. La pretesa era relativa al messaggio pubblicitario affisso su un camion vela che, secondo il parere dei resistenti comuni, sostava stabilmente nel proprio territorio, così da integrare i presupposti per la debenza del tributo pubblicitario.
Di contro, la società eccepiva di aver pagato l'imposta sulla pubblicità nel comune dove aveva sede e di non dover corrispondere alcunché ai comuni dove il mezzo transitava per il proprio consueto giro, sostando in ognuno di essi per un tempo compatibile con le esigenze del guidatore o del mezzo stesso.
La Ctp di Milano ha accolto i ricorsi e annullato gli avvisi di accertamento, optando tuttavia per la compensazione delle spese di giudizio in considerazione delle peculiarità del caso trattato.
La ricorrente, spiega il collegio, ha provato di aver corrisposto l'imposta di pubblicità nel comune ove ha sede la società proprietaria del camion vela. Nessun'altra pretesa, dunque, può essere vantata a tal proposito. La Commissione aggiunge anche che, eventualmente, i comuni avrebbero potuto (o dovuto) dimostrare che il camion sostava appositamente per lunghi periodi, intenzionalmente, nei loro territori, così da determinare una certa stabilità nella diffusione del messaggio pubblicitario.
All'uopo, non possono valere delle semplici fotografie del mezzo, rappresentato durante una sosta nel territorio del comune: dalla sola foto, infatti, non è possibile discernere se la sosta sia incompatibile con le esigenze del guidatore o del veicolo stesso. D'altronde, aggiunge il collegio, già il fatto che due comuni abbiano vantato la pretesa, a cui si aggiunge il terzo comune (quello della sede societaria, in cui l'imposta è stata corrisposta), non induce a pensare a una sosta forzata e stabile in un solo territorio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'avviso di accertamento è riferito a un cartello bifrontale, installato su automezzo di proprietà della società ( ) srl ( ) La società ricorrente ha impugnato l'avviso di accertamento sostenendo:
   a) di aver commissionato l'esecuzione di una campagna pubblicitaria alla società ( ) srl, da eseguirsi nel periodo dal 17 al 22.08.2015, su un veicolo a vela, campagna pubblicitaria che ha attraversato diversi comuni tra i quali quello di Corsico, come da certificato del report satellitare (doc. 5) attestante il percorso del mezzo;
   b) che per la detta campagna pubblicitaria l'( ) diede corso il pagamento dell'imposta al comune (doc. 6 e seg.) dove la stessa aveva sede quale proprietaria del veicolo; la ricorrente ha contestato, quindi, che il veicolo rimase fermo nel territorio del Trezzano sul Naviglio, sostenendo bensì che lo stesso mezzo percorse il tragitto riportato nel report allegato. ( )
Motivi della decisione Il ricorso merita accoglimento per i motivi di cui appresso. Parte ricorrente ha provato e parte resistente non lo ha contestato che il veicolo a vela venne utilizzato per una campagna pubblicitaria, svolta nel periodo sopra indicato, campagna pubblicitaria che attraversò diversi Comuni come risulta dal report agli atti.
Parte ricorrente ha prodotto il bollettino riferito all'imposta di pubblicità pagata dal soggetto proprietario del mezzo al Comune ove la società proprietaria del veicolo ha la propria sede.
La resistente nel procedimento n. 8082/15, in discussione alla stessa udienza, ha essa stessa prodotto una fotografia, sempre recante la data del 17.08.2015 (priva di orario), riferita allo stesso mezzo, in sosta lungo la Via ( ) strada rientrante nel Comune di Corsico. In entrambi gli avvisi di accertamento viene contestato il mancato pagamento dell'imposta di pubblicità, per il medesimo periodo temporale, e, lo stesso difensore della resistente, ha dichiarato a verbale d'udienza che la diversità degli importi chiesti per omesso pagamento dell'imposta di pubblicità, in ciascun avviso di accertamento, dipende dalle diverse tariffe applicate da ciascun Comune.
Le fotografie richiamate, prive di orario e recanti solo la data, provano che il veicolo, nello stesso giorno attraversò diversi Comuni con la conseguenza che non può essere contestata, da ciascun Comune attraversato, il mancato pagamento dell'imposta ordinaria afferente la pubblicità considerato che non è stato provato che il periodo della sosta in ciascun comune sia stato incompatibile con esigente del guidatore o del veicolo. Del pari priva di motivazione è l'applicazione di un diverso importo, a titolo di omesso pagamento dell'imposta di pubblicità, considerata l'identicità del mezzo pubblicitario.
( ) PQM La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.01.2018).

TRIBUTIIl fine di lucro incide sul classamento.
L'accatastamento di un'unità immobiliare destinata a casa di cura è strettamente condizionata dalla presenza del fine di lucro quale elemento di distinzione. Infatti, vengono censite nella categoria B/2 le Case di cura od Ospedali che non abbiano fini di lucro, mentre sono censite nella categoria D/4 le Case di cura od Ospedali che abbiano fini di lucro.

Lo ha stabilito la Sez. I della Commissione tributaria provinciale di Bergamo nella sentenza 13.11.2017 n. 555/1/2017.
La vertenza riguarda un avviso di accertamento con cui, l'Agenzia del territorio di Bergamo accertava una diversa categoria catastale e una diversa rendita catastale, a un immobile adibito a casa di cura sita in Clusone. La onlus ricorrente, faceva rilevare come l'Ufficio, erroneamente, avesse attribuito la categoria catastale D/4 a un immobile destinato a una casa di cura senza fini di lucro.
Costituendosi in giudizio, l'Agenzia del territorio palesava come la categoria catastale dovesse essere attribuita in base a dei parametri oggettivi posseduti dall'immobile e che il «fine di lucro» non poteva essere determinante nell'attribuire la categoria catastale; questa doveva dipendere dalle caratteristiche oggettive dell'immobile in relazione alla sua composizione strutturale e funzionale e non da quelle soggettive del possessore.
La Commissione tributaria provinciale di Bergamo, dopo aver rilevato che non è in discussione la mancanza di fine di lucro della ricorrente, ha accolto il ricorso della Onlus. Il quadro generale delle categorie catastali, in uso da oltre settant'anni in quanto dettato dal ministero delle finanze con circolare n. 134 del 06.07.1941, posta a base dell'integrazione disposta con dpr n. 138/1998 avente per oggetto la formazione del Nuovo catasto edilizio urbano, tiene espressamente conto del fine di lucro.
Questo stesso quadro generale delle categorie, anche se privo di valore di fonte normativa primaria, è l'unico testo scritto sul quale possa basarsi l'attribuzione della categoria catastale. Il Collegio provinciale rileva come, nel caso in esame, non sia in discussione la destinazione assistenziale senza fini di lucro. Si tratta quindi di attività istituzionali senza che possano ipotizzarsi usi industriali o commerciali e possa essere attribuita la categoria D/4 agli immobili. Accogliendo il ricorso, la Commissione provinciale meneghina ha compensato tra le parti in causa le spese di lite.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Infatti, il quadro generale delle categorie, in uso da oltre settant'anni in quanto dettato dal ministero delle finanze con circolare n. 134 del 06.07.1941, avente per oggetto la formazione del nuovo Catasto edilizio urbano, posto a base dell'integrazione disposta con dpr 23/03/1998 n. 138, tiene espressamente conto del fine di lucro.
Tale disposizione condiziona all' esistenza del fine di lucro l'assegnazione della categoria D/4 alle unità immobiliari destinate a case di cura e ospedali, mentre inserisce espressamente nella categoria B, classe B/2, le «Case di cura e Ospedali compresi quelli costruiti o adattati per tali speciali scopi e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni, se non hanno fine di lucro».
Osserva la Commissione che il sopra citato quadro generale delle categorie, anche se non ha valore di fonte normativa primaria, è l'unico testo scritto sul quale possa basarsi l'attribuzione della categoria catastale. La stessa Amministrazione finanziaria ha ritenuto a suo tempo di dover valorizzare il fine di lucro quale elemento di distinzione tra le case di cura di categoria B/2 e quelle di categoria D/4.
Nel caso in esame, non è in discussione il fatto che l'immobile in questione è destinato all'attività istituzionale di Residenza sanitaria assistenziale per anziani e Centro diurno integrato per anziani non autosufficienti. Né è in contestazione l'esistenza di un fine di lucro. Peraltro, la Fondazione ricorrente ha fornito ampia documentazione a sostegno del suo assunto Unico socio fondatore della Fondazione ( ) onlus è il comune di Clusone, che ha conferito gratuitamente l'immobile alla Fondazione e si fa carico di corrispondere, in concorso con altri enti pubblici, la differenza tra i costi sostenuti per l'attività istituzionale e le rette corrisposte dagli ospiti.
Né hanno particolare rilevanza le argomentazioni dell'Ufficio circa le caratteristiche della struttura (presenza di personale medico, infermieristico e amministrativo, rette differenziate per i residenti nel comune di Clusone o per le diverse tipologie di camera). Si tratta infatti di attività istituzionali (servizi socio-sanitari-assistenziali), che nel tempo hanno visto un progressivo miglioramento generalizzato, senza che per tale motivo possa ipotizzarsi un'attività industriale o commerciale e possa essere attribuita la categoria D/4 agli immobili, frequenti e diffusi su tutto il territorio nazionale.
Per quanto sopra, l'avviso di accertamento deve essere dichiarato infondato. Stante la peculiarità della materia, con orientamenti giurisprudenziali non concordi tra di loro, sussistono i motivi per la compensazione delle spese di giudizio.
PQM La Commissione. in accoglimento del ricorso, dichiara infondato l'accertamento. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.01.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIPec senza le garanzie della raccomandata.
La notifica a mezzo Pec delle cartelle di pagamento e delle intimazioni da parte dell'Agenzia della riscossione è nulla poiché non offre garanzie circa il contenuto dell'atto e l'effettiva ricezione dello stesso.

È il principio che si legge nella sentenza 10.11.2017 n. 961/02/2017 della Ctp di Frosinone (presidente Ferrara, relatore Isola).
Il ricorrente, una società immobiliare della città di Frosinone, impugnava un'intimazione di pagamento ricevuta sul proprio indirizzo Pec, a sua volta preceduta da cartelle notificate nello stesso modo. Nel ricorso introduttivo si contestava la legittimità di dette notifiche, con riflessi sulla nullità degli atti tributari ivi contenuti.
La Ctp ha accolto il ricorso, affermando che la posta elettronica certificata non offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale e non contiene affatto l'originale della cartella, ma solo una copia informatica priva di sottoscrizione e attestazione di conformità; inoltre, tale modalità di notificazione non garantisce l'effettiva consegna del documento al destinatario.
Sotto il primo aspetto, osserva la Ctp, la notifica via Pec non offre le garanzie della raccomandata tradizionale, poiché contiene in allegato una semplice copia in formato pdf della cartella, senza firma digitale né attestazione di conformità all'originale; attestazione che, peraltro, potrebbe essere apposta soltanto da un pubblico ufficiale, categoria in cui non rientra il concessionario per la riscossione. Una siffatta copia della cartella, dunque, non può avere alcun valore giuridico poiché non c'è garanzia che il documento inoltrato sia identico all'originale che, invece, con la notifica tradizionale, finisce sempre nelle mani del destinatario.
Sotto altro profilo, la Ctp critica la notifica via Pec perché non garantisce in maniera adeguata l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario: mentre con la notifica tradizionale, tale funzione è assolta dal postino o dall'incaricato alla notificazione, che si assicura di recapitare il plico con le modalità stabilite dalla legge, nel caso della Pec la consegna del messaggio è fornita da un sistema informatico che garantisce soltanto la disponibilità del documento nella casella di posta elettronica, e non anche l'apertura del messaggio e l'effettiva lettura.
A tal proposito la Commissione fa un raffronto con la notifica dell'atto di citazione, che quando viene «notificato da un legale alla controparte deve essere sottoscritto con firma digitale dello stesso legale e notificato, sempre via Pec alla cancelleria competente».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La seconda criticità della posta certificata è che essa non garantisce la piena prova dell'effettiva consegna del documento al destinatario. Invece, con il sistema tradizionale della notifica cartacea, tale circostanza è garantita dal postino, dall'ufficiale giudiziario o dal messo notificatore in quanto pubblici ufficiali e, come tali, capaci di dare «fede privilegiata» alla propria attestazione di consegna (sia essa la relata di notifica o il registro di consegne delle raccomandate a.r.).
Nel caso della Pec, l'attestazione di spedizione e d'immissione della mail nella casella del destinatario è fornita solo da un sistema informatico automatizzato, privo quindi di alcuna garanzia di certezza per il contribuente. Il gestore della posta certificata garantisce soltanto la disponibilità del documento nella casella di posta elettronica del destinatario, a prescindere da ogni possibile verifica della effettiva apertura e lettura del messaggio.
Ebbene, la semplice disponibilità di un documento nella casella Pec non equivale all'avvenuta consegna del documento al destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate ragioni non sempre dipendenti dalla propria volontà. Rispetto al sistema raccomandata, la Pec lascia incerto l'esito della sua ricezione oltre che la data di effettiva avvenuta conoscenza del messaggio, alterando il dies a quo per eventuali contestazioni successive.
Va ancora precisato che qualora sulla cartella di pagamento non sia riportato l'indirizzo della sede legale della società o della residenza del contribuente, la spedizione via Pec non può essere eseguita proprio per la non corrispondenza dell'indirizzo di destinazione del destinatario con quello apposto sulla cartella di pagamento.
Sostiene l'Amministrazione finanziaria (ma anche la normativa di riferimento) che la notifica a mezzo Pec equivale alla notifica a mezzo raccomandata.
La Pec è sì una raccomandata, ma non sottoscritta (serve la firma digitale); la firma digitale è sì una sottoscrizione ma non ha data certa e qualificata ai sensi dell'art. 2704 c.c.
Da quanto sopra ne consegue che l'intimazione opposta è stata irritualmente notificata e, pertanto il ricorso appare fondato e, quindi, meritevole di accoglimento.
Questa decisione assorbe e rende superfluo l'esame delle restanti eccezioni sollevate dalle parti.
Per il principio della soccombenza le parti ricorrenti vanno condannate al pagamento delle spese di lite che liquida come da dispositivo
PQM LA COMMISSIONE
Accoglie il ricorso. Condanna in solito le parti resistenti al pagamento delle spese di lite che quantifica in 1.500.00 (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.01.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Reato di deposito incontrollato di rifiuti - Responsabilità - Configurabilità - Fattispecie: attività di costruzione e demolizione - Art. 256, d.lgs. n. 152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti, previsto dall'art. 256, comma secondo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, è configurabile anche in caso di attività occasionale commessa non soltanto dai titolari di imprese e responsabili di enti che effettuano una delle attività indicate al comma primo della richiamata disposizione (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione), ma anche da qualsiasi impresa avente le caratteristiche di cui all'art. 2082 cod. civ., o di ente, con personalità giuridica o operante di fatto (Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017 - dep. 15/06/2017, Saldutti e altro).
Fattispecie: deposito incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da attività di costruzione e demolizione, quali calcestruzzo frammentato, terreno da scavo, rocce, plastica, miscele bituminose (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.10.2017 n. 47308 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al disposto dell' art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in tema di "pareti finestrate", il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti. Ai fini dell'operatività della previsione è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate.
Con riferimento al disposto dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, in tema di «pareti finestrate», la giurisprudenza evidenzia:
   - che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   - che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   - che, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, la norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   - che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili;
   - che, pertanto, il proprietario dell’area confinante con il muro finestrato altrui è tenuto a costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dallo stesso, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti.
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Le n.t.a. del piano regolatore del Comune prescrivono sì una distanza tra i fabbricati “minima assoluta” di metri 10 e impongono anche un distacco minimo dai confini di metri 5, ma al contempo prevedono che “sono ammesse costruzioni sul confine”.
Soccorre, quindi, quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni ma anche delle costruzioni dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l’edificare a distanza regolamentare e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo, con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
La ricorrente, in conclusione, ha fruito –quale preveniente– della possibilità di edificare sul confine e conserva il titolo giuridico a sopraelevare in verticale, titolo giuridico che verrebbe indebitamente sacrificato dalla costruzione realizzata dal controinteressato –quale prevenuto– senza arretrare il fabbricato alla distanza prescritta dall’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale e dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
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... per l'annullamento del permesso di costruire n. 21/2015 del 25.08.2015, rilasciato dal Comune di Pignataro Maggiore per la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta;
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Con il permesso di costruire n. 21/2015 del 25.08.2015 il Comune di Pignataro Maggiore assentiva, su suolo di proprietà del sig. Vi.Pa., la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta.
Proprietaria di una civile abitazione confinante con l’area interessata dall’intervento edilizio, la sig.ra Ri.Le. impugnava con ricorso straordinario al Capo dello Stato il suindicato titolo abilitativo ed impugnava altresì il verbale del sopralluogo (prot. n. 871 del 26.01.2017) effettuato dall’Amministrazione comunale a séguito di un suo esposto circa l’attività costruttiva in corso.
L’interessata denunciava, innanzi tutto, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per essere prevista la realizzazione di una parete finestrata a distanza di soli cinque metri dal suo confine, benché ella vi avesse già edificato una costruzione seminterrata con sporgenza dal piano di campagna per circa m. 1,50, e in ragione di ciò avesse titolo a sopraelevare in futuro sul confine senza incorrere nella preclusione legata ad una costruzione altrui collocata a distanza inferiore ai dieci metri previsti dalla normativa di settore; lamentava, inoltre, la violazione della medesima normativa in riferimento al fabbricato di un terzo, confinante con il sig. Pa. sul lato sud, ed in particolare una distanza tra le relative pareti finestrate pari a m. 7,60; deduceva, poi, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per non venire rispettata la distanza minima di m. 7,50 dalla strada avente larghezza superiore a m. 7; si doleva, infine, dell’inosservanza dell’art. 51 del regolamento edilizio, per non essere previsto un tratto piano di almeno m. 3,50 tra la rampa di uscita dall’autorimessa e la strada. Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati.
A séguito di opposizione formulata dal sig. Pa. ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 1199 del 1971, il ricorso straordinario veniva successivamente trasposto in sede giurisdizionale.
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Nel merito, una prima questione è legata alla circostanza che la prevista realizzazione di una parete finestrata a distanza di soli cinque metri dal confine della proprietà della ricorrente non terrebbe conto della preesistenza di un manufatto, sporgente per circa m. 1,50 dal piano di campagna, che la sig.ra Le. aveva a suo tempo realizzato proprio al confine tra i due fondi.
Il che integrerebbe la violazione dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale (distanza minima fra i fabbricati pari a m. 10) e dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), posto che –per essere inferiore a dieci metri il distacco dall’erigendo fabbricato– risulterebbe a questo punto preclusa la futura sopraelevazione del manufatto della ricorrente, con indebito sacrificio delle sue aspettative.
La doglianza è fondata.
Con riferimento al disposto dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, in tema di «pareti finestrate», la giurisprudenza (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 3522/2016 cit.) evidenzia:
   - che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   - che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   - che, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, la norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   - che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili;
   - che, pertanto, il proprietario dell’area confinante con il muro finestrato altrui è tenuto a costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dallo stesso, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti.
L’incontestata circostanza, allora, che in prossimità del confine sorga un manufatto seminterrato che fuoriesce dal piano di campagna (per circa m. 1,50, o anche solo per m. 1,00) dà titolo alla ricorrente a vedere arretrata di ulteriori cinque metri la parere finestrata del vicino, giacché la situazione attuale si consoliderebbe nel vedere preclusa qualsiasi sopraelevazione del manufatto della sig.ra Le., anche se a quota inferiore alle finestre antistanti e anche se con muro cieco; né, poi, rileva che l’altrui seminterrato sia in aderenza rispetto a quello della ricorrente e che a sua volta sporga in dimensioni quasi coincidenti, giacché la realizzazione di una parete finestrata che non rispetta il limite di distanza di dieci metri introduce comunque una preclusione assoluta alla futura sopraelevazione in verticale del manufatto della sig.ra Leone, il cui carattere abusivo –lo si adduce nella relazione tecnica dell’arch. Fe. (v. produzione del controinteressato)– si presenta in verità indimostrato o comunque meramente asserito.
Del resto, l’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore del Comune di Pignataro Maggiore prescrive sì una distanza tra i fabbricati “minima assoluta” di metri 10 e impone anche un distacco minimo dai confini di metri 5, ma al contempo prevede che “sono ammesse costruzioni sul confine” [lett. f)]; soccorre, quindi, quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni ma anche delle costruzioni dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l’edificare a distanza regolamentare e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo, con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (v. Cass. civ., Sez. II, 11.12.2015 n. 25032).
La ricorrente, in conclusione, ha fruito –quale preveniente– della possibilità di edificare sul confine e conserva il titolo giuridico a sopraelevare in verticale, titolo giuridico che verrebbe indebitamente sacrificato dalla costruzione realizzata dal controinteressato –quale prevenuto– senza arretrare il fabbricato alla distanza prescritta dall’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale e dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 13.10.2017 n. 4799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di “stabile collegamento” non è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere, quando –per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili– la vicinitas non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio, con la conseguenza che, se si tratta della distanza sussistente tra edifici, non è sufficiente il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato, occorrendo piuttosto dare plausibile riscontro dei danni, o delle potenziali lesioni, ricollegabili all’avversata struttura, ovvero dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, per non elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, alla stregua di un’azione popolare.
In particolare, quando si tratta della prescrizione di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, l’interesse pubblico tutelato dalla norma è quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva, e allora un simile interesse riguarda l’ambiente interno alla parete finestrata ma anche l’ambiente esterno coincidente con l’intercapedine, sì da assistere i due edifici frontistanti, anche quello eventualmente privo di parete finestrata, mentre resta indimostrato il pregiudizio che subirebbe nella circostanza la ricorrente, la quale –è vero– adduce la “… riduzione di visuale, di solarità e di riduzione del corridoio d’aria; ciò in quanto se un’intercapedine è dannosa per violazione delle distanze tra fabbricati frontistanti, il danno lo riceve anche il ricorrente che vi prospetta sul corridoio dell’intercapedine …”, con ciò però introducendo di fatto un ulteriore parametro di distanza rispetto ad altri fabbricati viciniori che la legge, nel salvaguardare la salubrità dell’edificato limitatamente agli “edifici antistanti”, in realtà non considera ed esclude evidentemente dalla relativa tutela perché privi di pregiudizio.

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... per l'annullamento del permesso di costruire n. 21/2015 del 25.08.2015, rilasciato dal Comune di Pignataro Maggiore per la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta;
...
Con il permesso di costruire n. 21/2015 del 25.08.2015 il Comune di Pignataro Maggiore assentiva, su suolo di proprietà del sig. Vi.Pa., la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta.
Proprietaria di una civile abitazione confinante con l’area interessata dall’intervento edilizio, la sig.ra Ri.Le. impugnava con ricorso straordinario al Capo dello Stato il suindicato titolo abilitativo ed impugnava altresì il verbale del sopralluogo (prot. n. 871 del 26.01.2017) effettuato dall’Amministrazione comunale a séguito di un suo esposto circa l’attività costruttiva in corso.
L’interessata denunciava, innanzi tutto, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per essere prevista la realizzazione di una parete finestrata a distanza di soli cinque metri dal suo confine, benché ella vi avesse già edificato una costruzione seminterrata con sporgenza dal piano di campagna per circa m. 1,50, e in ragione di ciò avesse titolo a sopraelevare in futuro sul confine senza incorrere nella preclusione legata ad una costruzione altrui collocata a distanza inferiore ai dieci metri previsti dalla normativa di settore; lamentava, inoltre, la violazione della medesima normativa in riferimento al fabbricato di un terzo, confinante con il sig. Pa. sul lato sud, ed in particolare una distanza tra le relative pareti finestrate pari a m. 7,60; deduceva, poi, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per non venire rispettata la distanza minima di m. 7,50 dalla strada avente larghezza superiore a m. 7; si doleva, infine, dell’inosservanza dell’art. 51 del regolamento edilizio, per non essere previsto un tratto piano di almeno m. 3,50 tra la rampa di uscita dall’autorimessa e la strada. Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati.
A séguito di opposizione formulata dal sig. Pa. ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 1199 del 1971, il ricorso straordinario veniva successivamente trasposto in sede giurisdizionale.
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Altra doglianza investe la distanza tra l’erigendo fabbricato e l’edificio di proprietà di un terzo, ubicato sul lato sud; si tratterebbe, a dire della ricorrente, di una distanza di m. 7,60 tra pareti finestrate, quindi di un ulteriore profilo di illegittimità del titolo edilizio impugnato.
Sennonché, il Collegio concorda con quell’orientamento secondo cui il concetto di “stabile collegamento” non è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere, quando –per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili– la vicinitas non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio, con la conseguenza che, se si tratta della distanza sussistente tra edifici, non è sufficiente il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato, occorrendo piuttosto dare plausibile riscontro dei danni, o delle potenziali lesioni, ricollegabili all’avversata struttura, ovvero dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, per non elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, alla stregua di un’azione popolare (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015 n. 1081); in particolare, quando si tratta della prescrizione di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, l’interesse pubblico tutelato dalla norma è quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva, e allora un simile interesse riguarda l’ambiente interno alla parete finestrata ma anche l’ambiente esterno coincidente con l’intercapedine, sì da assistere i due edifici frontistanti, anche quello eventualmente privo di parete finestrata (v. TAR Piemonte, Sez. II, 18.01.2014 n. 94), mentre resta indimostrato il pregiudizio che subirebbe nella circostanza la ricorrente, la quale –è vero– adduce la “… riduzione di visuale, di solarità e di riduzione del corridoio d’aria; ciò in quanto se un’intercapedine è dannosa per violazione delle distanze tra fabbricati frontistanti, il danno lo riceve anche il ricorrente che vi prospetta sul corridoio dell’intercapedine …” (così la memoria difensiva del 19.07.2017), con ciò però introducendo di fatto un ulteriore parametro di distanza rispetto ad altri fabbricati viciniori che la legge, nel salvaguardare la salubrità dell’edificato limitatamente agli “edifici antistanti”, in realtà non considera ed esclude evidentemente dalla relativa tutela perché privi di pregiudizio.
Di qui l’inammissibilità della censura perché formulata da soggetto privo di legittimazione a proporla (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 13.10.2017 n. 4799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Smaltimento non autorizzato di rifiuti frantumando inerti da demolizione - Operazioni di livellamento - Natura di deposito temporaneo - Esclusione - Artt. 183 e 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di cui all'art. 256 del D.Lgs. 152/2006, si integra anche quando si effettua attività, non autorizzata, di smaltimento rifiuti frantumando inerti da demolizione e provvedendo al loro spianamento e livellamento al suolo.
Nella specie, è stato escluso che a tale modalità di deposito dei materiali sia attribuibile la natura di deposito temporaneo, di cui all'articolo 183, lettera bb), D.Lgs. n. 152/2006, dal momento che essi furono livellati e frantumati con attività certamente irrazionali per un loro successivo smaltimento (che avrebbe richiesto di tenere tali materiali ben separati, al fine suddetto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2017 n. 45943 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper e case mobili, può ritenersi consentita in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti se sono diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono, mentre l’installazione stabile di mezzi (teoricamente) mobili di pernottamento determina una trasformazione irreversibile o permanente del territorio, con la conseguenza che per tali manufatti, equiparabili alle nuove costruzioni, necessita il permesso di costruire.
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Per quanto concerne poi il profilo motivazionale, il Collegio deve osservare che non sussistono nel caso concreto quegli elementi che, secondo parte della giurisprudenza, impongono alle amministrazioni di motivare in ordine alle ragioni di interesse pubblico che le inducono ad adottare atti repressivi dell’attività edilizia abusiva.
Va invero ricordato in proposito che a tal fine è necessaria la sussistenza di un affidamento qualificato in capo al proprietario, e che quindi:
   a) l’abuso sia alquanto risalente nel tempo;
   b) l’attuale proprietario non abbia compartecipato all’abuso;
   c) dopo l’abuso vi sia stato un trasferimento della proprietà del bene e tale trasferimento non sia stato effettuato al fine di eludere l’applicazione delle norme sanzionatorie.

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Il ricorrente deduce l’illegittimità della disposizione dell’atto impugnato che prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione e rispristino. Sostiene, infatti, di essere proprietario incolpevole che non può subire le conseguenze sanzionatorie conseguenti all’abuso.
Anche questa censura è del tutto infondata atteso che  la ricorrente non ha affatto dimostrato di aver assunto iniziative concrete nei confronti degli autori dei singoli abusi, avendo la stessa esclusivamente affermato di aver agito in giudizio nei confronti di uno solo di essi, e ciò a fronte di ben 311 situazioni abusive accertate.
A questo proposito occorre richiamare i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza secondo cui il proprietario –per dimostrare la sua estraneità all’abuso commesso da altri, ed andare quindi esente dal trattamento sanzionatorio riservato al proprietario colpevole– deve intraprendere iniziative volte ad indurre il vero responsabile ad attivarsi per il ripristino dello stato dei luoghi, in ottemperanza all'ordine impartito dall'Autorità.
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22. Ciò chiarito, si deve ancora osservare che, nell’ambito della articolata istruttoria espletata dal Comune, si è accertato che, nel corso degli anni, l’insediamento di cui si discute ha di fatto assunto perlopiù funzioni residenziali, e ciò anche attraverso la realizzazione di opere –quali l’allacciamento diretto delle case mobili e delle roulotte alla rete elettrica, alla rete idrica e a quella fognaria– atte a rendere quelle stesse strutture effettivamente idonee ad essere utilizzate come unità abitative.
23. Questa circostanza porta evidentemente ad escludere che i beni di cui si discute possano essere ascritti alla categoria delle strutture facilmente amovibili, non stabilmente ancorate al suolo, collocate all’interno di strutture ricettive, come tali non necessitanti di titolo edilizio ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto 5); del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 45, secondo comma, della legge della Regione Lombardia 01.10.2015, n. 27.
24. In proposito si osserva che, come ha di recente chiarito il Consiglio di Sato, per effetto di quanto disposto dal citato art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 <<…l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper e case mobili, può ritenersi consentita in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti se sono diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono, mentre l’installazione stabile di mezzi (teoricamente) mobili di pernottamento determina una trasformazione irreversibile o permanente del territorio, con la conseguenza che per tali manufatti, equiparabili alle nuove costruzioni, necessita il permesso di costruire>> (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 01.04.2016, n. 1291).
25. Peraltro, come ammette la stessa ricorrente, diversi utilizzatori delle case mobili e roulotte collocate all’interno dell’insediamento hanno addirittura richiesto al Comune di Azzate l’iscrizione nel registro della popolazione residente; questa circostanza –lungi dal rendere il Comune in qualche modo corresponsabile della situazione di abuso creatasi, posto che l’iscrizione nel registro della popolazione residente, a fronte della constatazione della dimora abituale del richiedente in una struttura collocata all’interno del territorio comunale, costituisce atto dovuto (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 03.05.2013, n. 1138)– esclude che i beni di cui trattasi possiedano, non solo il requisito della precarietà strutturale, ma anche quello della precarietà funzionale, confermandosi dunque la necessità del titolo edilizio per la loro installazione.
26. A fronte di tali constatazioni, e a fronte della mancanza di titoli edilizi autorizzanti l’insediamento nell’area di manufatti aventi funzioni residenziali, l’Amministrazione non poteva far altro che sanzionare l’intervento ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
27. In questo quadro, sono del tutto inconferenti, le argomentazioni di parte volte a sostenere: a) l’insussistenza di vincoli paesaggistici ed idrogeologici comportanti l’inedificabilità assoluta sull’area; b) la compatibilità degli interventi sanzionati con le disposizioni contenute nel PTCP; c) la non necessità delle autorizzazioni prescritte dalla legge per le strutture ricettive; come noto, infatti, la mancanza del titolo edilizio costituisce ragione di per sé sufficiente per fondare l’ordine di demolizione e rimessione in pristino di cui al citato art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
28. Per quanto concerne poi il profilo motivazionale, il Collegio deve osservare che, contrariamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non sussistono nel caso concreto quegli elementi che, secondo parte della giurisprudenza, impongono alle amministrazioni di motivare in ordine alle ragioni di interesse pubblico che le inducono ad adottare atti repressivi dell’attività edilizia abusiva. Va invero ricordato in proposito che a tal fine è necessaria la sussistenza di un affidamento qualificato in capo al proprietario, e che quindi: a) l’abuso sia alquanto risalente nel tempo; b) l’attuale proprietario non abbia compartecipato all’abuso; c) dopo l’abuso vi sia stato un trasferimento della proprietà del bene e tale trasferimento non sia stato effettuato al fine di eludere l’applicazione delle norme sanzionatorie (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, ord. 02.03.2017, n. 1337; id., 18.05.2015 n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013 n. 3847).
29. Nel caso di specie neppure è stata provato che gli abusi sono alquanto risalenti nel tempo, posto che a tal fine occorre far riferimento, non già all’epoca di realizzazione dell’intero insediamento (come pretende di fare l’interessata), ma ai successivi periodi in cui sono state realizzate quelle specifiche opere che hanno conferito carattere abitativo alle singole strutture mobili ivi collocate.
40. In ogni caso l’area è sempre rimasta di proprietà della società ricorrente la quale, come si vedrà nel prosieguo, non può considerarsi completamente estranea agli abusi; sicché è pure carente l’altro requisito necessario affinché, secondo parte della giurisprudenza, possa sorgere l’onere di motivazione rafforzata.
41. Né si può ritenere, per le motivazioni sopra illustrate, che la posizione di particolare affidamento della società proprietaria sia giustificata dall’iscrizione di alcuni fruitori delle case mobili nei registri della popolazione residente; tanto più che tale iscrizione non impedisce certo al proprietario di agire contro coloro che pregiudicano i suoi interessi utilizzando il bene in contrasto con le norme contrattuali.
42. Per tutte queste ragioni le censure esaminate sono infondate.
43. Con altra censura, sempre contenuta nel ricorso introduttivo, la parte deduce l’illegittimità della disposizione dell’atto impugnato che prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione e rispristino. La ricorrente sostiene infatti di essere proprietario incolpevole che non può subire le conseguenze sanzionatorie conseguenti all’abuso.
44. Anche questa censura è, a parere del Collegio, del tutto infondata atteso che, al di là di ogni altra considerazione, la ricorrente non ha affatto dimostrato di aver assunto iniziative concrete nei confronti degli autori dei singoli abusi, avendo la stessa esclusivamente affermato di aver agito in giudizio nei confronti di uno solo di essi, e ciò a fronte di ben 311 situazioni abusive accertate. A questo proposito occorre richiamare i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza secondo cui il proprietario –per dimostrare la sua estraneità all’abuso commesso da altri, ed andare quindi esente dal trattamento sanzionatorio riservato al proprietario colpevole– deve intraprendere iniziative volte ad indurre il vero responsabile ad attivarsi per il ripristino dello stato dei luoghi, in ottemperanza all'ordine impartito dall'Autorità (cfr., fra le tante, Toscana, sez. III, 16.05.2012, n. 959).
45. Con un’ultima censura, anch’essa contenuta nel ricorso introduttivo, la parte deduce il vizio di invalidità derivata riproponendo le censure già dedotte nel giudizio RG n. 2409/2011 proposto avverso il PGT comunale, il quale, a dire della parte, avrebbe illegittimamente conferito all’area destinazione ricettiva anziché residenziale.
46. Anche questa censura non merita condivisione giacché (al di là del fatto che il ricorso contro il PGT è stato respinto in primo grado con la sentenza di questo TAR n. 1138 del 2013 cit.), anche ammettendo che il PGT sia effettivamente viziato, ciò non toglie che le strutture sanzionate dall’atto impugnato sono state realizzate in assenza di titolo edilizio e sono quindi abusive, con conseguente necessità per il Comune di intervenire ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2017 n. 1824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione procedente è tenuta ad applicare la normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento finale, sebbene sopravvenuta: ciò che infatti rileva non è la data in cui il procedimento ha avuto avvio, bensì il momento in cui l’Amministrazione provvede, avendo l’obbligo di operare nel rispetto dello ius superveniens.
L’Amministrazione comunale deve considerare anche le modifiche normative intervenute nel corso del procedimento, dovendo la legittimità del provvedimento finale essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui esso è stato adottato, poiché il diritto sopravvenuto reca una nuova valutazione degli interessi pubblici.
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In quanto sussumibili nella previsione di cui all’allegato A.17 del del D.P.R. n. 31/2017 gli elementi di arredo, inclusi gli ombrelloni, oggetto dell’istanza della ricorrente (ombrelloni che non consta siano stabilmente ancorati al suolo con cemento, parti in muratura o simili) risultano, pertanto, esclusi dall’obbligo di qualsiasi autorizzazione paesaggistica, anche solo semplificata.
La previsione che esclude l’obbligo di ogni autorizzazione paesaggistica in relazione agli elementi di arredo e ombreggianti per cui è lite risulta coerente con le finalità perseguite dal D.P.R. n. 31/2017 che, come chiarito dalla Relazione Illustrativa, preso atto dei notevoli ritardi nel rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (e il caso di specie appare emblematico al riguardo), mira a togliere "il troppo e il vano" dalla funzione autorizzatoria paesaggistica.
Tale obiettivo è perseguito, da un lato, restituendo alla naturale area della libertà tutta una serie di piccoli interventi, come quelli all’esame, ritenuti innocui per il paesaggio (cioè irrilevanti sul piano paesaggistico in quanto inidonei anche solo in astratto ad arrecare pregiudizio ai valori paesaggistici protetti), dall'altro lato semplificando e accelerando le procedure per un'altra serie di interventi minori, di lieve entità, cosi da dimezzare i carichi degli uffici e consentire loro di concentrare le risorse scarse nell'esame approfondito e serio (e quindi anche tempestivo) degli interventi capaci di un effettivo impatto negativo sui beni tutelati.
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I motivi aggiunti proposti avverso i pareri negativi della Soprintendenza sono divenuti improcedibili in quanto, a prescindere da ogni considerazione in ordine alla loro legittimità, gli impugnati pareri risultano ormai superati dall’entrata in vigore degli artt. 2 e 13, comma 3, del D.P.R. n. 31 del 2017, che il Comune, non avendo ancora concluso il procedimento, dovrà applicare alla fattispecie per cui è causa in base al principio tempus regit actum, alla stregua del quale l’Amministrazione procedente è tenuta ad applicare la normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento finale, sebbene sopravvenuta: ciò che infatti rileva non è la data in cui il procedimento ha avuto avvio, bensì il momento in cui l’Amministrazione provvede, avendo l’obbligo di operare nel rispetto dello ius superveniens (Cass. civ., sez. un., sentenza n. 21949 del 28.10.2015; id, Cons. St. sez. VI, sentenza n. 17574 del 27.07.2010) e quindi sulla base della valutazione attuale degli interessi pubblici ad esso sottesi (Cons. St., sez. IV, sentenza n. 3880 del 17.07.2013).
Nel decidere sull’istanza della ricorrente l’Amministrazione comunale dovrà considerare anche le modifiche normative intervenute nel corso del procedimento, dovendo la legittimità del provvedimento finale essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui esso è stato adottato, poiché il diritto sopravvenuto reca una nuova valutazione degli interessi pubblici (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 26.02.2016, n. 2666).
Ciò posto, gli interventi per cui è causa devono ritenersi liberalizzati a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 2 e 13, comma 3, del D.P.R. n. 31 del 2017.
L’art. 2 del D.P.R. n. 31 /2017, rubricato “Interventi ed opere non soggetti ad autorizzazione paesaggistica”, ha, invero, stabilito che “Non sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all'Allegato «A» nonché quelli di cui all'articolo 4”.
L’allegato A ricomprende, al punto 17, le “installazioni esterne poste a corredo di attività economiche quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi facilmente amovibili quali tende, pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o strutture stabilmente ancorate al suolo”.
In quanto sussumibili nella previsione di cui all’allegato A.17 del del D.P.R. n. 31/2017 gli elementi di arredo, inclusi gli ombrelloni, oggetto dell’istanza della ricorrente (ombrelloni che non consta siano stabilmente ancorati al suolo con cemento, parti in muratura o simili) risultano, pertanto, esclusi dall’obbligo di qualsiasi autorizzazione paesaggistica, anche solo semplificata.
La previsione che esclude l’obbligo di ogni autorizzazione paesaggistica in relazione agli elementi di arredo e ombreggianti per cui è lite risulta coerente con le finalità perseguite dal D.P.R. n. 31/2017 che, come chiarito dalla Relazione Illustrativa, preso atto dei notevoli ritardi nel rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (e il caso di specie appare emblematico al riguardo), mira a togliere "il troppo e il vano" dalla funzione autorizzatoria paesaggistica.
Tale obiettivo è perseguito, da un lato, restituendo alla naturale area della libertà tutta una serie di piccoli interventi, come quelli all’esame, ritenuti innocui per il paesaggio (cioè irrilevanti sul piano paesaggistico in quanto inidonei anche solo in astratto ad arrecare pregiudizio ai valori paesaggistici protetti), dall'altro lato semplificando e accelerando le procedure per un'altra serie di interventi minori, di lieve entità, cosi da dimezzare i carichi degli uffici e consentire loro di concentrare le risorse scarse nell'esame approfondito e serio (e quindi anche tempestivo) degli interventi capaci di un effettivo impatto negativo sui beni tutelati.
In base a quanto statuito dall’art. 13, comma 3, del D.P.R. n. 31/2017 l'esonero dall'obbligo di autorizzazione paesaggistica delle categorie di opere e di interventi di cui all'allegato "A" si applica immediatamente in tutto il territorio nazionale, comprese le Regioni a statuto speciale, a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento (06.04.2017), trattandosi di norme che, da un lato, attengono alla tutela del paesaggio (cfr. Corte cost. 24.05.2009, n. 164; 17.03.2010, n. 101; 24.07.2013, n. 238; 18.07.2014, n. 210), specificative delle norme di natura di grande riforma economico sociale del Codice (cfr. Corte cost. 07.11.2007, n. 367; 23.11.2011, n. 309), dall'altro definiscono livelli essenziali delle prestazioni amministrative, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto norme di semplificazione procedimentale attuative del decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito dalla legge 11.11.2014, n. 164.
I motivi aggiunti proposti avverso l’ordinanza comunale di rimozione degli ombrelloni, adottata dal Comune su sollecitazione della Soprintendenza durante la vigenza della vecchia normativa, sono divenuti anch’essi improcedibili, considerato che l’interessato vi ha dato a suo tempo spontanea esecuzione e che, per il futuro l’ordinanza impugnata non potrà essere portata a conseguenze ulteriori dal Comune, risultando anch’essa superata dall’intervento di liberalizzazione operato dagli art. 2 e 13, comma 3, del D.P.R. n. 31 del 2017.
Va, infine, respinta l’azione risarcitoria proposta dalla ricorrente nel ricorso introduttivo e nei primi motivi aggiunti perché solo genericamente formulata e priva di adeguate allegazioni in ordine all’an e del quantum debeatur.
In definitiva, riassumendo le conclusioni cui si è pervenuti in ordine al ricorso avverso il silenzio e ai due ricorsi per motivi aggiunti, il Collegio così provvede:
   1) dichiara l’obbligo del Comune di definire con un provvedimento espresso, anche solo di archiviazione dell’istanza, il procedimento avviato a seguito delle istanze di autorizzazione paesaggistica presentate dalla società ricorrente.
Nel definire il procedimento l’Ente Locale dovrà tener conto delle motivazioni della presente sentenza e di quanto chiarito dall’Ufficio Legislativo del Ministero nella nota dd. 11.04.2017 in cui si precisa che “l’'esonero dall'obbligo di autorizzazione delle categorie di opere e di interventi di cui all'allegato "A" si applica in tutto il territorio nazionale a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento (06.04.2017), fermo restando il rispetto delle competenze delle Regioni a statuto speciale".
In tal caso, a meno che non si tratti di interventi già autorizzati, le relative istanze saranno archiviate dall'autorità procedente previa comunicazione al privato e alla Soprintendenza dell'entrata in vigore del nuovo regime autorizzatorio che individua le tipologie di interventi liberalizzati;
   2) dichiara improcedibili per sopravvenuta carenza d’interesse i ricorsi per motivi aggiunti volti a contestare la legittimità degli atti impugnati;
   3) respinge le azioni risarcitorie proposte dalla ricorrente (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.06.2017 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIRito sommario per le parcelle. Ma il compenso del legale non può essere troppo basso. Alcune recenti pronunce giurisprudenziali in materia di spese sostenute per gli avvocati.
Rito sommario per liquidare il legale e compenso dell'avvocato mai troppo basso. Sulle parcelle si sono recentemente espressi sia la Cassazione che il tribunale amministrativo regionale soffermandosi su momenti essenziali per la quotidianità della professione, prendendo, anzitutto in considerazione, il rito per la liquidazione delle spese legali, passando poi al requisito fondamentale per richiedere la maggiorazione del compenso, cioè la diligenza, ed, infine, la nota forse più interessante, è che, come detto, la richiesta di compenso da parte dell'avvocato non potrà essere troppo bassa.
Il rito sommario per liquidare le spese dell'avvocato. I giudici della Corte di cassazione (sez. VI civile – 3, ordinanza 03.05.2017 n. 10679) in tema di an e quantum pretesi dell'avvocato, hanno ribadito che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente previste dall'art. 28 della legge n. 794 del 1942 (come risultante all'esito delle modifiche apportate dall'art. 34 del dlgs n. 150 del 2011 e dell'abrogazione degli artt. 29 e 30 della medesima legge n. 794 del 1942) devono essere trattate secondo le regole del rito sommario di cognizione, anche nell'ipotesi in cui la domanda riguardi l'an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l'inammissibilità della domanda.
E in tal caso, i giudici di piazza Cavour hanno altresì osservato, come l'intero giudizio dovrà concludersi con un provvedimento che, seppur adottato in forma di ordinanza, avrà valore di sentenza, impugnabile unicamente con l'appello. La Cassazione era stata chiamata a esprimersi su un caso che vedeva il Tribunale rigettare la domanda proposta da Tizio e Caio per la condanna di Sempronio al pagamento di quanto da quest'ultimo asseritamente dovuto a titolo di competenze professionali di avvocato.
Il compenso per l'avvocato non può essere troppo basso. Circa poi la proporzionalità del compenso spettante ad una prestazione del professionista intellettuale, i giudici del Tar della Lombardia (sez. IV, sentenza 19.04.2017 n. 902) hanno evidenziato che, come disciplinato dall'art. 2, dm n. 55/2014, il compenso dovuto dovrà attenersi al principio di proporzionalità (si veda ItaliaOggi Sette dell'08/05/2017).
Un Comune avviava una procedura negoziata per l'affidamento del servizio di rappresentanza legale dell'ente nel procedimento giurisdizionale di recupero di un credito vantato dallo stesso Comune nei confronti della società Alfa. La procedura di gara era svolta per via telematica avvalendosi della piattaforma regionale ed il criterio di aggiudicazione era quello del prezzo più basso. Al termine del procedura, il servizio era affidato allo Studio Legale Caio.
L'avvocato Tizio, che aveva presentato offerta nella procedura, proponeva di conseguenza ricorso, con domanda di sospensiva. Si costituivano in giudizio il Comune e lo Studio Legale Caio, concludendo per l'inammissibilità e in ogni caso per l'infondatezza nel merito del gravame. Secondo i giudici amministrativi lombardi la gara di cui era causa aveva ad oggetto l'affidamento del servizio di recupero di un credito vantato dal Comune resistente nei confronti della società Alfa ed il criterio di aggiudicazione era quello del prezzo più basso.
L'esponente avv. Tizio offriva un prezzo molto inferiore a quello degli altri partecipanti, sicché il responsabile del procedimento (Rup) chiedeva chiarimenti agli offerenti, invitando a dettagliare l'offerta sulla base dei compensi da richiedersi a fronte di un ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato al recupero del credito dell'amministrazione. Il Tar, inoltre, ha ribadito che tale domanda di spiegazioni sulle offerte presentate non deve essere intesa come una modifica della legge di gara introdotta unilateralmente dal Rup, bensì come espressione del generale potere attribuito allo stesso Rup di chiedere chiarimenti nel corso del procedimento.
Circa la somma indicata in offerta il ricorrente specificava che la stessa corrispondeva soltanto alle spese «vive» dell'attività giurisdizionale, in quanto il vero e proprio compenso professionale sarebbe stato costituito dal compenso liquidato dal giudice a proprio favore e posto a carico della parte soccombente Vodafone, vista la «certezza della vittoria processuale pronosticata».
L'offerta dell'esponente era quindi formulata nel presupposto della certezza della vittoria processuale e della conseguente liquidazione a proprio favore delle spese di lite. Pertanto si trattava, secondo il tribunale milanese, di una situazione inammissibile ed indeterminata nel proprio contenuto e quindi non suscettibile di positiva valutazione e accoglimento da parte della stazione appaltante.
L'offerta appariva indeterminata e condizionata (laddove la condizione, quale evento futuro ed incerto, è costituita dalla liquidazione giudiziale in caso di successo processuale), senza contare che, nel caso di eventuale soccombenza, l'offerta del ricorrente –che dichiara di accontentarsi delle sole spese vive– finirebbe per essere un'offerta pari a zero. Un'offerta pari a zero appare di dubbia legittimità in quanto, in disparte ogni considerazione sulla serietà ed affidabilità della medesima, non si rinvengono nel caso di specie ragioni peculiari per le quali la prestazione del professionista intellettuale debba essere di fatto gratuita.
A ciò si aggiunga che l'offerta del ricorrente appare anche in contrasto con il contenuto del disciplinare di incarico, allegato all'offerta medesima e segnatamente con l'art. 2 del disciplinare stesso (cfr. il doc. 3 del resistente), che richiama il dm 55/2014 sulle tariffe professionali forensi. L'art. 2 del citato dm prevede che il compenso sia «proporzionato all'importanza dell'opera» (con una formula che ricalca quella dell'art. 2233 del codice civile) ed un'offerta a compenso zero appare in evidente contrasto con tale previsione normativa.
Se non c'è diligenza non ci sarà maggiorazione del compenso. Ed infine, una recente ordinanza della Cassazione (sez. VI civile – 2, ordinanza 30.03.2017 n. 8288) ha affermato che nel caso di poca diligenza mostrata dall'avvocato nell'esercizio della sua funzione, non sarà dovuta alcuna maggiorazione del compenso ex art. 5, comma 4, dm 08.04.2004, n. 127 (nel caso di avvocato che patrocina più persone aventi la stessa posizione processuale).
Uno dei motivi di causa riguardava la maggiorazione del compenso ai sensi dell'art. 5, comma 4, dm 08.04.2004, n. 127, tra le altre cose, la disposizione prevede una mera facoltà rientrante nel potere discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio non è denunciabile in sede di legittimità, se motivato (Cass. 21.07.2011, n. 16040, Rv. 619695).
Nel caso di specie la Corte d'appello aveva condiviso il ragionamento del giudice di primo grado che aveva ritenuto di non riconoscere tale incremento di ragione della mancanza di diligenza dell'avvocato, riguardando la successiva transazione curata da altro difensore subentrato nel giudizio - la domanda giudiziale svolta dall'avvocato nell'interesse dei suoi clienti sulla base di un'azione per lesione che risultava carente nella prospettazione dei suoi tipici presupposti fattuali (articolo ItaliaOggi Sette del 15.05.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Le disposizioni del D.M. n. 1444/1968, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esso successivi (e, dunque, alle costruzioni da realizzarsi sulla base dei medesimi), ai quali si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti, sono volte alla tutela dell'interesse pubblico all'ordinato sviluppo del territorio e rispondono alle finalità proprie della pianificazione urbanistica, in attuazione dei beni e valori costituzionalmente garantiti per suo tramite.
Più in particolare, l'art. 9 del citato D.M., nel prescrivere, a seconda delle zone del territorio comunale, precise distanze tra fabbricati intende garantire sia l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia, sia l'interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili.
Le distanze previste dall'art. 9 cit., dunque, sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all'uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario, il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l'attività edilizia assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da rendere attuale l'interesse ad agire in giudizio. In tal caso, sia la verifica delle condizioni dell'azione sia la verifica della violazione delle norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché a quest'ultima esse sono funzionali.
Diversamente, il soggetto che -non già innanzi al giudice ordinario, bensì innanzi al giudice amministrativo- invoca l'illegittimità del titolo edilizio rilasciato dall'amministrazione pubblica, poiché rilasciato in violazione delle prescrizioni del D.M. n. 1444/1968 in tema di distanze, richiede che il giudice verifichi la legittimità dell'atto in quanto (potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico, posta a tutela dell'interesse pubblico, e della quale egli si giova ad indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo.
Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell'azione si presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al giudice ordinario. Ed infatti, in questo caso, la legittimazione si collega alla titolarità di una posizione di interesse legittimo che può certamente trovare il suo "collegamento" con una preesistente posizione di diritto reale, ma che può fondarsi anche su altro titolo (quali, ad esempio, la titolarità di un contratto di locazione, il diritto alla salute, etc.).
E, dunque, l'interesse ad agire, volto ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all'interesse pubblico tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali. Pertanto, il giudice amministrativo, nell'esaminare i motivi di ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di cui all'art. 9 cit., deve:
   - quanto alle condizioni dell'azione, verificare la sussistenza di un "collegamento" stabile e giuridicamente apprezzabile tra il ricorrente e l'immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la verifica della sussistenza dell'interesse ad agire);
   - quanto al merito, verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell'interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata.
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Secondo consolidata giurisprudenza, “per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (…) è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata".
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In primo luogo, la qualificazione di una apertura come luce o finestra deve essere operata sulla scorta dell’art. 900 c.c., a mente del quale “le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”: ne consegue che, consentendo la suddetta apertura, per la sua altezza dal piano interno di calpestio (m. 1,42), di affacciarsi all’esterno, essa è pacificamente qualificabile come “veduta” o “finestra”, agli effetti del rispetto delle norme sulle distanze.
Né rileva che sulla facciata esterna la suddetta apertura abbia conservato la sua altezza originaria, pari a m. 2,5 dal suolo, atteso che, come appena detto, la qualificazione di una apertura come “luce” o come “finestra” va rapportata alla possibilità di utilizzo che essa consente, la quale prescinde dalla sua posizione esterna (altrimenti, occorrerebbe paradossalmente ritenere che tutte le finestre posizionate ad altezza esterna superiore a m. 2.5 debbano considerarsi come semplici luci).
In secondo luogo, come si è detto, le modifiche apportate dai ricorrenti, all’esito delle quali la suddetta apertura ha assunto le caratteristiche di una “quasi-finestra”, sono legittimate dal titolo edilizio richiamato dallo stesso c.t.u.: l’astratta possibilità per il confinante di esigere il ripristino dello status quo ante, ovvero delle condizioni che consentivano di qualificare l’apertura in questione come semplice luce e non come finestra o veduta, per la sua rilevanza meramente civilistica, non è suscettibile di influire sull’applicazione di una norma che, come quella contenuta nell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, per la sua rilevanza pubblicistica in precedenza evidenziata, non può che assumere a riferimento l’attuale situazione dei luoghi, non quella che potrebbe assumere ove l’avente titolo esigesse il rispetto delle disposizioni civilistiche in tema di regolamentazione dei rapporti tra proprietà confinanti.
Per le ragioni esposte, quindi, la suddetta parete dell’edificio di pertinenza dei ricorrenti deve senz’altro qualificarsi come “finestrata” agli effetti dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
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Viene adesso all’esame del Tribunale la censura con la quale viene dedotto che, in violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il progettato fabbricato “B” è posizionato a distanza inferiore a m. 10 dal fabbricato presente sul lato ovest del lotto e presenta pareti finestrate, mentre il fabbricato “A” è posto in quota parte in aderenza e quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di proprietà dei ricorrenti.
La censura, come illustrato anche dal c.t.u., si articola in due profili: il primo, inteso a rimarcare che la distanza tra l’erigendo fabbricato “B” e l’immobile di altra proprietà presente sul lato ovest del primo è inferiore a m. 10, ovvero pari a m. 6,81, come evidenziato nella relazione tecnica di parte; il secondo, inteso a sostenere che la distanza all’interno della chiostrina prevista tra il fabbricato “A” e quello costruito sul confine, di proprietà dei ricorrenti, è inferiore a quella prescritta di m. 10, essendo pari a m. 3,25, come indicato dal c.t.p. dei ricorrenti.
Deve premettersi che, come riconosciuto dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3510 del 03.08.2016), “le disposizioni del D.M. n. 1444/1968, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esso successivi (e, dunque, alle costruzioni da realizzarsi sulla base dei medesimi), ai quali si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti (Cass. civ., sez. II, 12.02.2016 n. 2848; Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015 n. 1951), sono volte alla tutela dell'interesse pubblico all'ordinato sviluppo del territorio e rispondono alle finalità proprie della pianificazione urbanistica, in attuazione dei beni e valori costituzionalmente garantiti per suo tramite (Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Più in particolare, l'art. 9 del citato D.M., nel prescrivere, a seconda delle zone del territorio comunale, precise distanze tra fabbricati intende garantire sia l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia, sia l'interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili (Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016 n. 856).
Le distanze previste dall'art. 9 cit., dunque, sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all'uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile. Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario, il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l'attività edilizia assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da rendere attuale l'interesse ad agire in giudizio. In tal caso, sia la verifica delle condizioni dell'azione sia la verifica della violazione delle norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché a quest'ultima esse sono funzionali.
Diversamente, il soggetto che -non già innanzi al giudice ordinario, bensì innanzi al giudice amministrativo- invoca l'illegittimità del titolo edilizio rilasciato dall'amministrazione pubblica, poiché rilasciato in violazione delle prescrizioni del D.M. n. 1444/1968 in tema di distanze, richiede che il giudice verifichi la legittimità dell'atto in quanto (potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico, posta a tutela dell'interesse pubblico, e della quale egli si giova ad indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo.
Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell'azione si presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al giudice ordinario. Ed infatti, in questo caso, la legittimazione si collega alla titolarità di una posizione di interesse legittimo che può certamente trovare il suo "collegamento" con una preesistente posizione di diritto reale, ma che può fondarsi anche su altro titolo (quali, ad esempio, la titolarità di un contratto di locazione, il diritto alla salute, etc.).
E, dunque, l'interesse ad agire, volto ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all'interesse pubblico tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali. Pertanto, il giudice amministrativo, nell'esaminare i motivi di ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di cui all'art. 9 cit., deve:
   - quanto alle condizioni dell'azione, verificare la sussistenza di un "collegamento" stabile e giuridicamente apprezzabile tra il ricorrente e l'immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la verifica della sussistenza dell'interesse ad agire);
   - quanto al merito, verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell'interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata
”.
Discende da tale condivisibile prospettiva interpretativa che la violazione delle distanze sancite dalla norma citata, per legittimare la proposizione (e l’accoglimento, in ipotesi di fondatezza), della corrispondente censura, non presuppone necessariamente che la posizione del ricorrente coincida con quella del proprietario dell’immobile in relazione al quale la questione delle distanze venga prospettata.
Quanto al primo profilo della doglianza in esame, quindi, il fatto che i ricorrenti non siano proprietari dell’immobile posto ad ovest, rispetto al quale viene dedotta la violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, non influisce sulla ammissibilità della censura medesima, a differenza di quanto ritenuto dal c.t.u. (tanto più in quanto il Tribunale, nel formulare il corrispondente quesito, aveva richiesto di verificare le distanze “con particolare”, ma non esclusivo riferimento al fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
Nemmeno assumono carattere decisivo, al fine di negare la fondatezza della presente censura, i rilievi del c.t.u. secondo cui “in ogni caso, non sono presenti pareti finestrate antistanti tra gli immobili (palazzina B ed “altra proprietà”) di cui la parte ricorrente contesta il mancato rispetto delle distanze di 10 m.”, atteso che l’immobile posto ad ovest della palazzina “B” è dotata di due piccole aperture non assimilabili a “finestre”, in quanto “trattasi di 2 pozzi di luce posti ad un’altezza, dal livello del suolo, che non consente un affaccio agevole verso la proprietà dei resistenti, per cui non trova applicazione il regime delle distanze di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968”: deve infatti osservarsi che, secondo consolidata giurisprudenza (cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, n. 109 del 23.02.2017), “per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (…) è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato sez. IV 31.03.2015 n. 1670; conferma TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014)”.
Ebbene, se da un lato il c.t.u. non chiarisce se possa considerarsi finestrata la parete del fabbricato “B” prospiciente il manufatto posto sul lato ovest del primo, la relazione del c.t.p. di parte ricorrente, laddove richiama (e riproduce) la Tav. A1 del progetto assentito (cfr. pag. 8 delle osservazioni trasmesse al c.t.u.), consente univocamente di accertare il carattere “finestrato” del fabbricato “B”, sul lato di interesse, con la conseguente sussistenza della violazione lamentata in ricorso.
Quanto al secondo profilo della censura in esame, il c.t.u. è pervenuto alla conclusione che le aperture presenti sulla parete del fabbricato di proprietà dei ricorrenti, ubicato a confine del lotto di proprietà della società resistente, sono qualificabili come semplici “luci”, per gli effetti applicativi dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
In particolare, quanto all’apertura posta al piano rialzato, posta ad una altezza da terra di m. 1,42 ed avente una larghezza di m. 1,38, il c.t.u. ha rilevato come l’accertamento tecnico preventivo svolto nel 2009 su richiesta della società controinteressata, al fine di verificare la consistenza delle aperture presenti sulla facciata del fabbricato di proprietà Pr. posta a confine del lotto, abbia consentito di accertare che essa “ha caratteristiche anomale, poiché essa non è né una finestra regolare con un prospetto regolare, né lume ingrediente (di sola areazione”).
In proposito, il c.t.u. nominato da questo Tribunale, rilevato che essa era inizialmente un semplice “pozzo di luce” e che, a seguito dell’esecuzione dei lavori assentiti con concessione edilizia n. 897 del 5.6.1978, e della conseguente modifica dell’altezza del piano di calpestio interno, è divenuta un’apertura “quasi regolare”, come rilevato in occasione del citato A.T.P., conclude nel senso che “siffatta modifica, operata in modo unilaterale dai ricorrenti, non può penalizzare il diritto del vicino che può esigere che l’apertura sia resa conforme alle caratteristiche originariamente possedute, ovvero quelle di apertura lucifera”.
Il Tribunale non condivide interamente le conclusioni del c.t.u..
In primo luogo, la qualificazione di una apertura come luce o finestra deve essere operata sulla scorta dell’art. 900 c.c., a mente del quale “le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”: ne consegue che, consentendo la suddetta apertura, per la sua altezza dal piano interno di calpestio (m. 1,42), di affacciarsi all’esterno, essa è pacificamente qualificabile come “veduta” o “finestra”, agli effetti del rispetto delle norme sulle distanze.
Né rileva che sulla facciata esterna la suddetta apertura abbia conservato la sua altezza originaria, pari a m. 2,5 dal suolo, atteso che, come appena detto, la qualificazione di una apertura come “luce” o come “finestra” va rapportata alla possibilità di utilizzo che essa consente, la quale prescinde dalla sua posizione esterna (altrimenti, occorrerebbe paradossalmente ritenere che tutte le finestre posizionate ad altezza esterna superiore a m. 2.5 debbano considerarsi come semplici luci).
In secondo luogo, come si è detto, le modifiche apportate dai ricorrenti, all’esito delle quali la suddetta apertura ha assunto le caratteristiche di una “quasi-finestra”, sono legittimate dal titolo edilizio richiamato dallo stesso c.t.u.: l’astratta possibilità per il confinante di esigere il ripristino dello status quo ante, ovvero delle condizioni che consentivano di qualificare l’apertura in questione come semplice luce e non come finestra o veduta, per la sua rilevanza meramente civilistica, non è suscettibile di influire sull’applicazione di una norma che, come quella contenuta nell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, per la sua rilevanza pubblicistica in precedenza evidenziata, non può che assumere a riferimento l’attuale situazione dei luoghi, non quella che potrebbe assumere ove l’avente titolo esigesse il rispetto delle disposizioni civilistiche in tema di regolamentazione dei rapporti tra proprietà confinanti.
Per le ragioni esposte, quindi, la suddetta parete dell’edificio di pertinenza dei ricorrenti deve senz’altro qualificarsi come “finestrata” agli effetti dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
Quanto alle due aperture presenti al primo piano del medesimo edificio, il c.t.u., condividendo le risultanze del citato A.T.P. (in base al quale “le n. 2 finestre del primo piano sono a lume ingrediente”), ha rilevato che esse, non offrendo la possibilità di affaccio verso la proprietà della società resistente, essendo poste ad una altezza di quasi m. 2 dal piano di calpestio interno, sono da considerarsi come semplici aperture “a lume ingrediente”.
Tale circostanza non modifica tuttavia la conclusione in precedenza raggiunta, in ordine alla qualificabilità come “finestrata” della parete del fabbricato dei ricorrenti, mentre non rileva, ai fini dell’applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che anche la prospiciente parete del fabbricato in costruzione presenti le stesse caratteristiche.
Quanto poi alla eventuale deroga delle distanze che deriverebbe dalla “chiostrina” ubicata tra l’edificio costruendo e quello di proprietà dei ricorrenti, si vedrà più avanti, in occasione dell’esame delle censure formulate in proposito in ricorso, che essa non è affatto configurabile, sì che la questione non può incidere sull’accoglimento della doglianza poc’anzi esaminata (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.04.2017 n. 758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “chiostrina” costituisce “uno spazio, funzionale a dare aria e luce ai cosiddetti ambienti di servizio (bagni, corridoi, locali deposito, ecc.), vale a dire a tutti gli quegli ambienti non destinati ad essere abitati: essa, dunque, serve a soddisfare esigente igieniche e a garantire la salubrità degli edifici ed, in questo ambito, è di norma disciplinata dal R.E. che ne stabilisce l'area e l'ampiezza minima.
Ancorché sovente la chiostrina sia ubicata all'interno di un edificio ovvero sia stata prevista nell'ambito di un'unica progettazione relativa a più edifici, nulla impedisce che la chiostrina medesima costituisca un'area contornata da unità immobiliari distinte (come nella specie): tale ultima evenienza è da ritenere che ricorra nella presente vicenda in quanto la normativa regolamentare in proposito -individuata dallo stesso appellante- si riferisce agli spazi interni ad edifici, senza alcun altra specificazione, sicché resta superata (anche per l'uso del plurale) sia la fattispecie dell'edificio unico, sia quella dell'unica progettazione di più edifici, non essendo praticabile tale limitazione in difetto di previsione".
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Viene infine in rilievo la censura con la quale i ricorrenti deducono che la prevista realizzazione di un chiostro contrasta con l’art. 29, comma 4, del R.E., ai sensi del quale “…negli spazi interni definiti come “chiostrine” possono affacciarsi soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici. Nelle “chiostrine” non vi possono essere né sporgenze, né rientranze. Tutti gli spazi interni devono essere accessibili dai locali di uso comune”.
Lamentano infatti i ricorrenti che la parete finestrata del fabbricato di loro proprietà è ad uso affaccio, che negli spazi interni della “chiostrina” vi sono sporgenze e rientranze, che un lato della stessa non risulta nemmeno chiuso e dalla linea di confine aperta non risulta rispettata la regolare distanza che dal progetto risulta essere di soli m. 4 anziché il minimo assoluto di m. 5, mentre, poiché l’altezza del fabbricato da realizzare è di m. 12,24, la distanza dovrebbe essere di m. 6,12, come previsto dal R.E..
La censura è meritevole di accoglimento.
Ai sensi dell’invocato art. 29, comma 4, R.E., infatti, “…negli spazi interni definiti come chiostrine possono affacciare soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici”.
Come già in precedenza rilevato, la parete dell’edificio dei ricorrenti prospiciente il fabbricato “A” assentito con il p.d.c. impugnato ha carattere “finestrato” e la finestra ivi presente è a servizio di una stanza da letto e cucina.
Ebbene, non può condividersi quanto sostenuto sul punto dal c.t.u., nel senso che dovrebbe attribuirsi rilievo, al fine di verificare il rispetto della suindicata disposizione, alle sole pareti del fabbricato progettato, sulle quali insistono solo aperture a servizio dei servizi igienici: la chiostrina, infatti, è formata sia dalle pareti del fabbricato costruendo sia da quelle del fabbricato preesistente, imponendo il rispetto, per tutte le pareti che concorrono a configurarla, dei requisiti delineati dal citato art. 29, comma 4, R.E..
Concorre a tale conclusione, del resto, la stessa giurisprudenza citata dal c.t.u. (Cassazione civile, sez. II, n. 7001 dell’08.05.2012), secondo cui la “chiostrina” costituisce “uno spazio, funzionale a dare aria e luce ai cosiddetti ambienti di servizio (bagni, corridoi, locali deposito, ecc.), vale a dire a tutti gli quegli ambienti non destinati ad essere abitati: essa, dunque, serve a soddisfare esigente igieniche e a garantire la salubrità degli edifici ed, in questo ambito, è di norma disciplinata dal R.E. che ne stabilisce l'area e l'ampiezza minima. Ancorché sovente la chiostrina sia ubicata all'interno di un edificio ovvero sia stata prevista nell'ambito di un'unica progettazione relativa a più edifici, nulla impedisce che la chiostrina medesima costituisca un'area contornata da unità immobiliari distinte (come nella specie): tale ultima evenienza è da ritenere che ricorra nella presente vicenda in quanto la normativa regolamentare in proposito -individuata dallo stesso appellante- si riferisce agli spazi interni ad edifici, senza alcun altra specificazione, sicché resta superata (anche per l'uso del plurale) sia la fattispecie dell'edificio unico, sia quella dell'unica progettazione di più edifici, non essendo praticabile tale limitazione in difetto di previsione".
La non configurabilità di una “chiostrina” conforme ai requisiti richiesti dal R.E. osta anche all’applicazione delle più favorevoli norme in tema di distanze, che quella fattispecie presuppongono.
La proposta domanda di annullamento, in conclusione, deve essere accolta sotto tutti i profili evidenziati.
Deve essere invece dichiarata inammissibile la domanda di condanna alla restitutio in integrum, non essendo ammissibile nell’ambito della giurisdizione amministrativa la pronuncia di condanne nei confronti di soggetti privati (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.04.2017 n. 758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAAnche sulle licenze antimafia «stretta». Consiglio di Stato. Applicabili i controlli degli appalti.
Anche licenze e autorizzazioni (come la Scia o l’Autorizzazione unica ambientale) necessarie ad avviare un’impresa possono essere soggette ai controlli più stringenti previsti dall’informativa antimafia. E quindi negate se le indagini disposte dal prefetto rilevano rischi di infiltrazione criminale a carico del richiedente.
È la conclusione cui giunge il Consiglio di Stato, bocciando il ricorso (e capovolgendo sul punto la sentenza del Tar Emilia Romagna) con cui una società attiva nel settore dei materiali da costruzione (prodotti da cava) aveva chiesto di imporre il ritiro dell’interdittiva antimafia emessa nei suoi confronti e che le impediva di ottenere l’autorizzazione unica ambientale (Aua) necessaria a svolgere l’attività. Motivo? In base al ricorso, la prefettura si sarebbe dovuta limitare ai controlli imposti dalla comunicazione antimafia (semplice verifica delle condanne penali) senza sconfinare nel perimetro dell’informativa antimafia (che prevede anche indagini e prove indiziarie).
Infatti, era la ricostruzione condivisa anche dai giudici di primo grado, per le autorizzazioni («non comportando alcun rapporto con la Pa») è richiesta solo la comunicazione antimafia. Mentre l’informativa è riservata a verificare l’assenza di infiltrazioni mafiose prima di stipulare contratti (appalti, concessioni) con le Pa. Una tesi che il Consiglio di Stato (Sez. III, con la sentenza 09.02.2017 n. 565) capovolge.
«La tendenza del legislatore -argomentano i giudici- muove, in questa materia, verso il superamento della rigida bipartizione tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad appalti, concessioni, contributi ed elargizioni».
I due comparti non possono essere più considerati impermeabili. Anche perché proprio questa filosofia dei compartimenti stagni «ha fatto sì che le associazioni di stampo mafioso potessero, comunque, gestire tramite imprese infiltrate, inquinate o condizionate da essa, lucrose attività economiche, in vasti settori dell’economia privata, senza che l’ordinamento potesse efficacemente intervenire per contrastare tale infiltrazione».
L’impostazione deve cadere anche alla luce dell’entrata in esercizio della nuova Banca dati unica antimafia finalizzata proprio all’aumento dei controlli, puntando a dare risposte in tempo reale. Questo obiettivo, è la conclusione della sentenza, «pienamente giustifica il potere prefettizio di emettere una informativa antimafia, in luogo e con l’effetto della richiesta comunicazione antimafia»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAFino alle modifiche introdotte dalla legge n. 765/1967 (cd. legge ponte) l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 imponeva di chiedere la licenza edilizia ove si intendesse “eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati e dove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7…”.
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La giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico.
Altresì, "La realizzazione di una tettoia di non irrilevante consistenza dimensionale e ancorata al suolo costituisce opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi e a trasformare il territorio permanentemente ed è tale da richiedere il previo rilascio del permesso di costruire”.
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Nel caso di specie, la tettoia non è ancorata al suolo (bensì al muro) e serve a coprire (nel senso di proteggere) una superficie inferiore a 12 mq. Tali elementi inducono ad escludere che ciò comporti impatto volumetrico e aumento del carico urbanistico.
In sostanza trova conferma nella realtà dei fatti l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui sotto il profilo edilizio il manufatto in questione è sostanzialmente irrilevante e dunque non è qualificabile come nuova costruzione, suscettibile di edificazione solo in base a permesso di costruire.
Se così è, l’ordine di demolizione è illegittimo; e tale conclusione non contrasta con l’orientamento giurisprudenziale della Sezione (precedentemente richiamato) proprio tenuto conto dei peculiari caratteri della tettoia di cui si discute. D’altra parte questo Tribunale si è già espresso in termini analoghi:
   -  “una tettoia ad una falda inclinata, delle dimensioni di mt. 2,50x3,40, sorretta da struttura in profilati metallici di cm. 5x5, addossata ad uno dei muri perimetrali del fabbricato principale ed aperta su tutti gli altri lati”, qualificata come “opera decisamente pertinenziale”;
   - “una tettoia con struttura portante ed orditura in legno, avente 7,50 mt. di lunghezza x 4,10 mt. di larghezza (corrispondente ad una superficie di 30,75 mq.), altezza al colmo di mt. 2,65 ed all'imposta di mt. 2,00, solo parzialmente coperta con lastre in legno e materiale plastico ed ancorata al suolo con tasselli”; in questo caso si è affermato “che una tettoia di dimensioni contenute (mt. 7,50x4,10), quale quella in esame, aperta su tre lati ed aderente sul quarto lato a parte dell'abitazione, non era e non è nemmeno oggi soggetta a preventivo titolo autorizzatorio edilizio, con conseguente illegittimità della impugnata sanzione demolitoria”.
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... per l'annullamento del provvedimento emanato dalla Città di Torino, Direzione territorio e ambiente, Servizio vigilanza edilizia e monitoraggio urbanizzazioni e trasformazioni urbanistiche, e per essa dal Dirigente del Servizio competente, prot. ed. n. 2015-4-20096 - Ord. n. 127/2016, in data 24.02.2016, successivamente notificato, che ha ingiunto al ricorrente di rimuovere dall'immobile ubicato in Torino, Via ... n. 21 quanto abusivamente eseguito e di ripristinare lo stato dei luoghi entro 90 giorni dalla data di notifica del provvedimento, nonché per l'annullamento degli atti tutti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi del procedimento, ivi compreso il verbale di accertamento in data 06.11.2015 e la comunicazione di avvio del procedimento in data 10.12.2015 e per ogni ulteriore consequenziale statuizione.
...
2) Si controverte di una tettoia, esattamente descritta nel provvedimento impugnato, che è stata realizzata in un cortile interno in aderenza al muro di un fabbricato di proprietà del ricorrente, edificato agli inizi del ‘900 in base a regolari titoli edilizi. Nessun titolo risulta invece rilasciato per la tettoia in questione.
La vicenda trae origine da un esposto inviato al Comune di Torino in relazione a un contenzioso pendente presso il Tribunale di Torino tra il sig. Lu.Fa., proprietario dell’edificio, e il promissario acquirente dello stesso. L’Amministrazione ha proceduto a un sopralluogo da cui è emerso (cfr. relazione del 06/11/2015 citata nel provvedimento impugnato) quanto segue: “L’intervento si configura come opera di completamento ai sensi dell’art. 4, lettera f), delle N.U.E.A. del PRG in contrasto con l’art. 17, comma 2, del R.E. in quanto determina superficie coperta e art. 3, lettera e), del DPR 380/01, opera in assenza di permesso di costruire art. 10 del D.P.R. 380/2001”.
Ne è conseguita l’adozione del provvedimento impugnato.
3) Queste, in sintesi, le censure formulate nel ricorso:
   - l’esistenza della tettoia era da tempo nota al Comune di Torino; la realizzazione del manufatto risale agli anni ‘50 del secolo scorso cioè prima della legge ponte del 1967; trattandosi di intervento su un edificio esterno al centro abitato, all’epoca non era necessaria la licenza edilizia; in tal senso si è espresso il CTU nella causa civile pendente davanti al Tribunale di Torino; in ogni caso la tettoia è priva di qualsiasi rilevanza edilizia e urbanistica, essendo di scarsissima consistenza, per cui la sua edificazione non necessitava di titoli; in relazione a quanto sopra il provvedimento impugnato risulta viziato da travisamento dei fatti, illogicità, difetto di istruttoria e di motivazione, ingiustizia grave e manifesta.
4) Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito illustrate.
4.1) Si deve escludere, in primo luogo, che il Comune avesse da tempo piena consapevolezza dell’esistenza del manufatto di cui si controverte. Le fotografie del 1957 allegate alla pratica edilizia relativa al terzo ampliamento del complesso immobiliare forniscono tutt’al più indizi, ma non certezze circa l’esistenza della tettoia già a quell’epoca; e le indicazioni cartografiche del PRG vigente, risalente al 1993, non sono di per sé sufficienti per determinare l’illegittimità del provvedimento impugnato.
4.2) L’epoca di edificazione della tettoia è obiettivamente incerta.
Nella causa civile avviata davanti al Tribunale di Torino il CTU incaricato si è espresso a favore della risalenza agli anni ‘50 facendo riferimento, in particolare, a una dichiarazione sostitutiva di atto notorio rilasciata dall’odierno ricorrente il 13/03/2014 e (come già rilevato) a una fotografia allegata alla pratica del 1957 di ampliamento del fabbricato; in questa si individuerebbe “la verosimile presenza di un tirante, da cui si può dedurre l’esistenza già all’epoca della tettoia sul lato cieco fronte cortile interno” (pag. 17 della relazione di consulenza).
Ad avviso del Collegio si tratta di elementi che non forniscono certezze, ma costituiscono al massimo indizi; si deve però rilevare che l’Amministrazione non ha opposto nulla in senso contrario a quanto affermato dall’interessato in ordine a una circostanza risalente a oltre 60 anni fa, che appare decisamente difficile da provare in termini inequivoci.
4.3) In ogni caso si tratta di circostanza non decisiva ai fini del giudizio. Occorre infatti considerare quanto segue:
   - fino alle modifiche introdotte dalla legge n. 765/1967 (cd. legge ponte) l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 imponeva di chiedere la licenza edilizia ove si intendesse “eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati e dove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7…”;
   - la difesa del Comune di Torino ha evidenziato, con la memoria depositata il 29/12/2016 e la relativa documentazione, che il centro abitato, delimitato dalla cinta daziaria, ricomprendeva già dagli anni ‘20 del secolo scorso l’area occupata dall’edificio di cui si controverte, situato in via ...; la ristretta cinta daziaria risalente al 1853 è stata infatti modificata nel 1912 e recepita nel PRGC approvato nel 1920;
   - nella replica depositata il 10/01/2017 il ricorrente sostiene che la cinta daziaria era stata allargata nel 1912 al solo scopo di estendere l’applicazione del dazio e non di ricomprendere l’area effettivamente edificata; tale tesi non risulta però convincente, sia perché non è supportata da adeguati elementi probatori, sia perché si dovrebbe ammettere che dal 1920 in poi sussistevano due distinte linee di cinta daziaria, una sola delle quali (la più remota) avente rilievo urbanistico, pur risalendo a settant’anni prima; non risulta decisiva, in senso contrario, la circostanza che a diversi esiti sia giunta la relazione di CTU depositata nel più volte citato giudizio civile, in cui però non era parte il Comune di Torino;
   - dunque, anche a ritenere che (come è presumibile) la tettoia sia stata realizzata negli anni ‘50, non sussisteva alcuna esenzione dall’obbligo di munirsi di licenza edilizia ai sensi dell’art. 31 della legge urbanistica del 1942; e ciò, tra l’altro, rende ininfluente ogni questione relativa all’applicabilità o meno dell’art. 22 del Regolamento edilizio approvato nel 1922.
4.4) Il nocciolo della controversia si riduce allora alla seguente domanda: è legittimo l’ordine di demolizione di un manufatto presumibilmente risalente a circa 60 anni fa, che presenta dimensioni assai limitate, affaccia su un cortile interno ed è collocato in aderenza ad un muro, dunque senza supporti sul terreno?
Per rispondere al quesito occorre innanzitutto richiamare quanto si legge nella recente sentenza di questa Sezione n. 435 dell’08.04.2016: “La giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico (TAR Salerno, sez. II, 07.01.2015, n. 9; in senso analogo, TAR Lazio-Roma, sez. I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Napoli, sez. II, 22.10.2015, n. 4959; TAR Perugia, sez. I, 11.09.2015, n. 377; TAR Pescara, sez. I, 01.07.2015, n. 276; TAR Ancona, sez. I, 05.06.2015 n. 469; TAR Genova, sez. I, 11.07.2007, n. 1367).
Questa stessa Sezione ha avuto modo di chiarire che “La realizzazione di una tettoia di non irrilevante consistenza dimensionale e ancorata al suolo costituisce opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi e a trasformare il territorio permanentemente ed è tale da richiedere il previo rilascio del permesso di costruire” (TAR Piemonte, sez. II, 11.04.2012, n. 438).
In senso analogo anche la Prima Sezione di questo Tribunale (sentenza 09.10.2013, n. 1050)
”.
La particolarità della vicenda in esame consiste nel fatto che la tettoia in questione non è ancorata al suolo (bensì al muro) e serve a coprire (nel senso di proteggere) una superficie inferiore a 12 mq. Tali elementi inducono ad escludere che ciò comporti impatto volumetrico e aumento del carico urbanistico.
In sostanza trova conferma nella realtà dei fatti l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui sotto il profilo edilizio il manufatto in questione è sostanzialmente irrilevante e dunque non è qualificabile come nuova costruzione, suscettibile di edificazione solo in base a permesso di costruire. Se così è, l’ordine di demolizione è illegittimo; e tale conclusione non contrasta con l’orientamento giurisprudenziale della Sezione (precedentemente richiamato) proprio tenuto conto dei peculiari caratteri della tettoia di cui si discute.
D’altra parte questo Tribunale si è già espresso in termini analoghi:
   - nella sentenza (sez. II) n. 238 del 26.02.2016 in relazione a “una tettoia ad una falda inclinata, delle dimensioni di mt. 2,50x3,40, sorretta da struttura in profilati metallici di cm. 5x5, addossata ad uno dei muri perimetrali del fabbricato principale ed aperta su tutti gli altri lati”, qualificata come “opera decisamente pertinenziale”;
   - nella sentenza (sez. I) n. 1563 del 22.10.2014 in relazione a “una tettoia con struttura portante ed orditura in legno, avente 7,50 mt. di lunghezza x 4,10 mt. di larghezza (corrispondente ad una superficie di 30,75 mq.), altezza al colmo di mt. 2,65 ed all'imposta di mt. 2,00, solo parzialmente coperta con lastre in legno e materiale plastico ed ancorata al suolo con tasselli”; in questo caso si è affermato “che una tettoia di dimensioni contenute (mt. 7,50x4,10), quale quella in esame, aperta su tre lati ed aderente sul quarto lato a parte dell'abitazione, non era e non è nemmeno oggi soggetta a preventivo titolo autorizzatorio edilizio, con conseguente illegittimità della impugnata sanzione demolitoria”.
5) Le precedenti considerazioni portano all’accoglimento del ricorso, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.02.2017 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di responsabilità della Pubblica Amministrazione da provvedimento illegittimo nell’ambito del modello aquiliano, il privato può provare la colpa dell’Amministrazione anche semplicemente dimostrando l’illegittimità del provvedimento lesivo, illegittimità la quale, pur non identificandosi nella colpa, costituisce, tuttavia, un indizio idoneo a fondare una presunzione (semplice) di colpa, che l’Amministrazione può vincere dimostrando elementi concreti da cui possa evincersi la scusabilità dell’errore compiuto.
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10. La sentenza appellata non merita condivisione neanche nella parte in cui esclude la colpa delle Amministrazioni resistenti.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha in più occasioni evidenziato (cfr. da ultimo, ex multis, Cons. Stato, sez. VI 04.09.2015, n. 4915; Cons. Stato, sez. VI, 06.04.2015, n. 1944), anche inquadrando la responsabilità della Pubblica Amministrazione da provvedimento illegittimo nell'ambito del modello aquiliano, che il privato può provare la colpa dell’Amministrazione anche semplicemente dimostrando l’illegittimità del provvedimento lesivo, illegittimità la quale, pur non identificandosi nella colpa, costituisce, tuttavia, un indizio (intrinsecamente grave, adeguatamente preciso e concordante con l’ordinaria consapevolezza delle proprie azioni, e relative conseguenze, da parte delle pubbliche amministrazioni; nonché con gli altri di cui infra) idoneo a fondare una presunzione (semplice) di colpa, che l’Amministrazione può vincere dimostrando elementi concreti da cui possa evincersi la scusabilità dell'errore compiuto.
Nel caso di specie, tali elementi contrari non risultano forniti.
Non vale, a tal fine, richiamare la “rilevante complessità del quadro fattuale”, trattandosi di una affermazione generica che non coglie gli aspetti di specificità della vicenda sottesa al presente contenzioso; del resto, tale caratterizzazione sarebbe astrattamente predicabile per quasi qualunque vicenda amministrativa, sicché finirebbe con il risolversi in una clausola generale di esonero discrezionale (ad opera del giudice) della responsabilità aquiliana delle pubbliche amministrazioni, in evidente spregio del diritto comune.
Non vale nemmeno richiamare, ad escludere la colpa, la presunta “copertura” offerta alla condotta dell’Amministrazione dalla sentenza del TRGA n. 213/1995 (che aveva inizialmente respinto il ricorso dei privati contro il diniego di concessione), atteso che tale sentenza è stata poi riformata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1108 del 2006.
La colpa, nel caso di specie, risulta, al contrario provata alla luce della gravità del vizio che ha determinato l’annullamento del diniego di concessione. La sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1108 del 2006 ha, infatti, annullato il provvedimento di diniego accertando che sia il Comune sia la Provincia autonoma di Bolzano, pur disponendo di tutti i documenti e di tutti i dati utili per verificare l’esatta entità dei volumi demoliti dell’ex cinema Corso, avevano, nella sostanza, totalmente omesso di vagliare l’istanza, adducendo come motivazione del rigetto un falso elemento di fatto (che il calcolo della cubatura preesistente sarebbe stato impossibile, a causa dell’avvenuta demolizione dell’immobile). Tale modus procedendi denota una forma di grave negligenza, integrando uno dei vizi più gravi che può inficiare l’esercizio del potere: il sostanziale rifiuto di esercitarlo, allegando la carenza di dati o documenti come pretesto per non vagliare nel merito la fondatezza l’istanza dei privati.
La colpa riguarda sia la condotta della Provincia (adita in via sostitutiva), sia quella del Comune (che, rimando inerte, aveva anche formalmente omesso di rendere una qualsiasi decisione sulla domanda di variante edilizia).
Le Amministrazioni intimate, in altri termini, hanno omesso di valutare la documentazione allegata alla domanda edilizia, rigettando l’istanza (o, nel caso del Comune, neppure esaminandola) sulla base di una motivazione falsa, rappresentata dalla mancanza dei dati (che invece c’erano, secondo la sentenza passata in giudicato del Consiglio di Stato n. 1108 del 2006).
Non può, quindi, invocarsi quale elemento scusante la complessità del quadro fattuale, perché nel caso di specie la situazione fattuale (quale risultante dai documenti allegati alla pratica edilizia) non è stata neanche esaminata.
Va aggiunto che la responsabilità riguarda, come si è già accennato, sia la condotta della Provincia di Bolzano (che, adita in via sostitutiva a fronte dell’inerzia del Comune, ha adottato il provvedimento fonte del danno), sia il Comune, cui è imputabile il silenzio-inadempimento serbato sull’istanza dei privati, che poi ha legittimato l’intervento sostitutivo della Provincia (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2017 n. 442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario del terreno risponde in solido del mezzo pubblicitario pericoloso per la viabilità.
Il proprietario della cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione o, in sua vece, l'usufruttuario o, se trattasi di bene immobile, il titolare di un diritto personale di godimento, è obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta se non prova che la cosa è stata utilizzata contro la sua volontà.
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Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380-bis c.p.c. che di seguito si riporta: "Con i motivi sopra esposti il ricorrente lamenta che il giudice a quo abbia posto ingiustamente a suo carico la violazione dell'art. 23, comma 7, punita ai sensi del comma 13-bis c.d.s., che concerne [abusiva collocazione di insegne pubblicitarie, essendo egli estraneo ai fatti quale mero proprietario del suolo concesso in affitto alla Tr. s.r.l.
Ad avviso del ricorrente la sanzione andava posta a carico solo dall'autore della violazione medesima che nella specie è la Tr. s.r.l., mentre il giudice a quo ha erroneamente ritenuto il RA. responsabile in solido ex art. 6 L. 689/1981 con l'autore della contestata violazione.
Il motivo è infondato.
Occorre preliminarmente osservare che, secondo il costante orientamento di questa Corte,
la collocazione di un cartello pubblicitario, su suolo privato, in prossimità di svincolo autostradale è soggetta, ex art. 23, quarto comma, del d.lgs. 30.04.1992, n. 285, a specifica autorizzazione da parte dell'ente proprietario della strada, finalizzata a verificare che i mezzi pubblicitari non costituiscano un pericolo per la circolazione in relazione alla distrazione che possono determinare negli utenti della strada, insufficiente rivelandosi, pertanto, la sola concessione edilizia, rilasciata dal comune, avente la diversa finalità di accertamento della compatibilità con le norme urbanistiche dell'intervento edilizio per la suddetta collocazione (V Cass. n. 24130 del 2012, Cass. n. 22339 del 2004).
Nella fattispecie in questione il cartello pubblicitario è stato posto in prossimità di uno svincolo autostradale, senza la specifica autorizzazione dell'ente proprietario della strada ma solo con l'autorizzazione rilasciata dal Comune per le note. Da ciò, deriva la legittima applicazione dell'art. 23, comma 7, e la conseguente applicazione del comma 13-bis del c.d.s., quanto alla sanzione, il quale dispone che: "
In caso di collocazione di cartelli, insegne di esercizio o altri mezzi pubblicitari privi di autorizzazione o comunque in contrasto con quanto disposto dal comma 1, l'ente proprietario della strada diffida l'autore della violazione e il proprietario o il possessore del suolo privato, nei modi di legge, a rimuovere il mezzo pubblicitario.....l'ente proprietario provvede ad effettuare la rimozione del mezzo pubblicitario e alla sua custodia ponendo i relativi oneri a carico dell'autore della violazione e, in via tra loro solidale, del proprietario o possessore del suolo.. ...".
Tale comma menziona espressamente la responsabilità del proprietario o possessore del suolo anche in via solidale, dove per "in via solidale" viene inteso per implicito il concetto espresso nell'art. 6 della legge 689/1981, sulle sanzioni amministrative, secondo il quale: '
Il proprietario della cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione o, in sua vece, l'usufruttuario o, se trattasi di bene immobile, il titolare di un diritto personale di godimento, è obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta se non prova che la cosa è stata utilizzata contro la sua volontà....".
Come pronunciato in passato da questa Corte
il fondamento giuridico di tale solidarietà va individuato nella proprietà del mezzo usato per la commissione dell'infrazione e nel rapporto soggettivo e funzionale della condotta tenuta con l'interesse ovvero gli scopi di una persona giuridica o di un ente di fatto, con l'autore della violazione, indipendentemente dalla identificazione della persona fisica che ha commesso materialmente la violazione. Quindi la responsabilità solidale del proprietario dei mezzi che servirono a perpetrare l'infrazione rispondono in solido della violazione per scelta del legislatore (v. Cass. sentenza n. 1040 del 2012) e in termini (v. Cass. Sentenza n. 19787 del 2006).
Pertanto,
la circostanza che ci sia stato un contratto, tra il ricorrente e la Tr. ossia la società che ha materialmente collocato i mezzi pubblicitari in questione, non può comportare la deroga alla responsabilità solidale normativamente prevista
.".
Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra sono condivisi dal Collegio e le critiche formulate dal ricorrente nella memoria illustrativa non hanno alcuna incidenza su dette conclusioni, giacché -oltre a prospettare una questione nuova, quale quella della mancata notifica di una qualunque intimazione per la rimozione del cartello abusivo- si commentano da sé per avere parte ricorrente comunque proposto opposizione, per cui nessun diritto di difesa appare violato, e conseguentemente il ricorso va respinto (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 01.02.2017 n. 2689).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALe opere in argomento consistono nella realizzazione di un varco di accesso con cancello scorrevole nel muro perimetrale comune. Esse rientrano, all’evidenza, tra quelle di edilizia libera di cui all’art. 6 in argomento, nella formulazione applicabile ratione temporis, essendo escluse dalle opere libere solo quelle che comportano la realizzazione di rampe, di ascensori esterni, di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
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Secondo la giurisprudenza consolidata, la sagoma è la conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.
Conseguente è l’esclusione dell’alterazione della sagoma in caso di aperture che, come nel caso di specie, non prevedano superfici sporgenti.
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2. Con la sentenza impugnata, che ha accolto il ricorso del condominio, il Tar ha così essenzialmente argomentato:
   - a) la legittimità della nota impugnata è radicalmente inficiata dalla mancanza di verifica della disponibilità dell’immobile in capo al richiedente della DIA (art. 2 del DPGRC n. 381 del 2003, regolamento attuativo della legge urbanistica della regione Campania n. 19 del 2001); verifica che era stata conclusa negativamente nella precedente sentenza Tar del 2010 che concerneva la pregressa DIA del 2008;
   - b) la nota impugnata fa rientrare l’intervento nell’attività edilizia libera ex art. 6, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ritenendo la sostanziale riconducibilità dello stesso alla tipologia di un intervento per l’abbattimento di barriere architettoniche della l. n. 13 del 1989, senza che questa riconduzione sia sorretta da alcuna evidenza documentale, né emerga dalla fase istruttoria, né sia ricavabile dalla sentenza Tar del 2013, in adempimento del quale la nota è stata emanata;
   - c) comunque, anche a voler ritenere applicabile tale normativa, l’apertura del varco carrabile non rientra tra gli interventi liberi realizzabili: - perché, ex art 2 l. n. 13 del 1989, le innovazioni devono essere approvate con le maggioranze previste dall’art. 1120, secondo comma c.c. e, quindi, quelle previste dall’art. 1136, commi secondo e terzo; perché, comunque, l’art. 1120, comma quarto c.c., vieta innovazioni che rendono non utilizzabili parti comuni anche ad un solo condòmino, mentre nella specie –dalla stessa relazione del richiedente DIA– emerge l’oggettiva inutilizzabilità per gli altri condomini del cancello aperto, della parte del muro condominiale sul quale il cancello insiste, dell’area condominiale retrostante il muro.
2.1. Tali argomentazioni sono impugnate dal-OMISSIS- con il quinto e sesto motivo, invocando la violazione dell’art. 97 Cost., in relazione all’eccesso di potere per contraddittorietà e, soprattutto, la violazione della legge n. 13 del 1989.
L’appellante sostiene che resta incomprensibile l’argomentazione del giudice che trova illegittimo il riferimento nella nota impugnata all’abbattimento delle barriere architettoniche in mancanza di riscontro a tale problematica in atti, atteso che nella stessa sentenza del 2013, della cui attuazione si tratta con l’atto impugnato, il Tar aveva imposto all’amministrazione di concludere il procedimento aperto con la DIA, considerando proprio il profilo dell’abbattimento degli ostacoli architettonici.
2.2. La censura è fondata e va accolta, con conseguente riforma della sentenza impugnata e rigetto del ricorso proposto dal Condominio dinanzi al Tar.
Il giudice è incorso in due errori decisivi.
Il primo è che ha ritenuto non legittima, da parte del provvedimento impugnato, la riconduzione della specie di intervento edilizio al suo esame alle norme previste in tema di abbattimento di barriere architettoniche, rilevando il mancato esplicito riferimento alla legge n. 13 del 1989 negli atti di richiesta del privato e nella sentenza del 2013, della cui attuazione si trattava.
Il secondo è che, nell’ipotizzare l’applicabilità della suddetta disciplina, si è spinto oltre l’ambito proprio della sua giurisdizione, relativa al rapporto privato/amministrazione, sconfinando nell’ambito proprio della giurisdizione ordinaria concernente il rapporto tra privati.
2.2.1. Quanto al primo profilo, se è vero che nella DIA manca ogni esplicito richiamo alla legge n. 13 del 1989, è innegabile che altrettanto esplicitamente la richiesta è effettuata da un condòmino invalido al 100% per risolvere il problema dell’accesso con l’auto alla sua abitazione. Inoltre, è innegabile che la sentenza del 2013, che aveva condannato l’amministrazione a concludere la verifica dell’istanza presentata dal privato, aveva espressamente chiesto di fare la verifica alla luce della disciplina “di portata derogatoria ed ispirata ad inequivoco favor nei confronti dei soggetti portatori di handicap”, di cui alla legge in argomento.
Dalla erronea mancata riconduzione dell’intervento alla legge di favore è derivata, poi, l’illegittimità erroneamente ravvisata per non avere il provvedimento verificato la disponibilità dell’immobile in capo al richiedente mediante l’esibizione dei nulla osta rilasciati dai due condomìni. Infatti, se –all’esito della valutazione della documentazione presentata dal privato da parte della Amministrazione–l’intervento rientrava nell’ambito delle opere che non sono sottoposte a titolo abilitativo (art. 6, comma 1, lett. b, TUE, nella versione applicabile ratione temporis), ogni verifica della disponibilità dell’immobile in capo all’istante sotto il profilo del nulla osta dei condomìni A e B al fine di avanzare istanza per il rilascio del titolo abilitativo è superflua e, correttamente, pertanto, l’Amministrazione non l’ha compiuta.
Comunque, in presenza di un’istanza all’Amministrazione era sufficiente verificare –come è stato fatto richiamando la qualità di condòmino con disabilità al 100%- l’esistenza di una posizione qualificata con la cosa, idonea -fermi restando i diritti dei terzi- a legittimare il portatore di handicap, proprietario dell’appartamento di cui fa parte il condominio, ad avanzare una richiesta per lavori volti ad eliminare barriere architettoniche. Posizione qualificata sicuramente esistente per una richiesta di titolo abilitativo non necessario (art. 6 cit.), se si considera che, ai sensi di legge (art. 78, comma 2, TUE, riproduttivo dell’art. 2 della l. n. 13 del 1989), il portatore di handicap può financo realizzare a proprie spese alcune opere per le quali il titolo abilitativo sia richiesto (es. allargamento porta di accesso all’immobile) se non ottiene il nulla osta del condominio.
Resta da precisare che le opere in argomento, per l’identificazione delle quali non vi è discussione tra le parti, consistono nella realizzazione di un varco di accesso con cancello scorrevole nel muro perimetrale comune. Esse rientrano, all’evidenza, tra quelle di edilizia libera di cui all’art. 6 in argomento, nella formulazione applicabile ratione temporis, essendo escluse dalle opere libere solo quelle che comportano la realizzazione di rampe, di ascensori esterni, di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
Né vi è nella specie alterazione della sagoma dell’edificio. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata, la sagoma è la conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (ex plurimis, C.d.S, VI, n. 1564 del 2013); conseguente è l’esclusione dell’alterazione della sagoma in caso di aperture che, come nel caso di specie, non prevedano superfici sporgenti (Cass. pen., n. 19034 del 2004).
2.2.2. Quanto al secondo profilo, il giudice ha omesso di fermarsi al confine della valutazione del rapporto privato/amministrazione, l’unico rilevante nell’ottica del giudizio di annullamento di un atto emanato all’esito della conclusione del procedimento di verifica delle condizioni della DIA. Invece, ha invaso il campo, riservato al giudice civile, dei rapporti tra privati, soffermandosi sull’art. 1120, ultimo comma c.c., in riferimento al divieto, anche per il portatore di handicap, di opere su bene comune che limitino l’uso comune degli altri condomini.
Quindi, quanto il giudice dice circa l’oggettiva impossibilità di utilizzo a favore di tutti i condomini (sia del varco, sia della parte retrostante al varco), con conseguente divieto dell’opera ex art. 1120 c.c., non poteva essere oggetto di esame, essendo il giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’atto che qualifica di edilizia libera le opere per le quali era stato richiesto un inutile titolo abilitativo. Se il condominio ritiene che le opere realizzate ledano l’uso comune di parti comuni agli altri condòmini, potrà, eventualmente, rivolgersi al giudice civile.
3. In conclusione, l’appello è accolto e, in riforma della sentenza appellata, è rigettato il ricorso proposto dinanzi al Tar (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.01.2017 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn proporzione alla superficie occupata dall’edificio, in tutta evidenza un’addizione di 40 mq di superficie coperta non può ritenersi irrilevante.
È stato, infatti, precisato in giurisprudenza che gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione, e non nel caso in cui le loro dimensioni siano di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.
Né, alla luce di quanto sopra, è rilevante il carattere pertinenziale, che va ovviamente valutato in relazione alle dimensioni dell’edificio principale.

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... per l'annullamento:
   - del provvedimento Prot. 10440 (pratica edilizia n. 99) del 26/27.04.2013 comunicato il 07.05.2013, con cui il Responsabile Area 4 (Arch. Mo.Il.) ha respinto: “la domanda di permesso di costruire in variante a sanatoria del perm. 45/11 - costruzione chiosco per la somministrazione di alimenti e bevande" presentata dalla ditta "Ba.Pr.….";
   - dell'articolo 3 della «convenzione per la concessione in gestione dell'area attrezzata a verde pubblico, compresa tra Via L. Da Vinci, il Ristorante "il Me." e Via Brancadoro per esercitare l'attività di somministrazione di alimenti e bevande» sottoscritta dalle parti il 19.03.2010 e del bando relativo, nella parte in cui prevede che la "struttura amovibile" ivi prevista debba avere "le seguenti caratteristiche massime superficie massima al chiuso mq 70; - eventuale porticato o veranda per un massimo dí mq 30";
...
Il ricorrente è titolare di una concessione in gestione di un’area attrezzata a verde pubblico nel Comune di Sant’Elpidio a Mare per l’esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande. La relativa convenzione è stata firmata in data 19.03.2010.
La concessione prevede la costruzione di una struttura amovibile (tipo chiosco) chiudibile, da destinare all’attività di somministrazione ai sensi della L.R. n. 30 del 2005, con contestuale rilascio dell’autorizzazione.
In data 12.06.2012, il ricorrente ha presentato allo sportello unico per l’edilizia del Comune una richiesta di permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione di una loggia aperta su tre lati e la realizzazione di un sottotetto, relativamente alla concessione.
Dopo il preavviso di diniego, l’istanza è stata respinta con provvedimento Prot. 10440 del 26/27.04.2013, comunicato il 07.05.2013.
A detta dell’Amministrazione l’intervento supererebbe le dimensioni massime di superficie coperta consentite dalla convenzione e prevedrebbe la creazione di un solaio abitabile, che determinerebbe aumento di superficie.
...
1. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
1.1 Come già ritenuto in sede cautelare, sono irrilevanti le censure relative alla dedotta violazione del regolamento edilizio del Comune di Sant’Elpidio a Mare. L’articolo 3 del bando di assegnazione e della relativa convenzione firmata dal ricorrente fanno un chiaro riferimento all’installazione di una struttura amovibile, e nell’articolo 2, punto e), del bando sono specificate le dimensioni della superficie coperta, che deve avere la superficie massima al chiuso di mq 70 ed eventuale porticato o veranda per un massimo di mq 30.
1.2 In tutta evidenza, come sostenuto dall’Amministrazione, non si tratta di costruzioni su un suolo di proprietà privata, ma su un terreno oggetto di concessione, che non può che essere governato dalla relativa convenzione la quale limita la superficie coperta, oltre all’edificio, ad una veranda di 30 mq.
1.3 Considerata l’esistenza di una concessione e della relativa convenzione, sono del tutto irrilevanti le considerazioni di parte ricorrente relative alla superiorità, nella gerarchia delle norme, del Regolamento edilizio rispetto al bando e alla convenzione. La superficie prevista nell’accordo non può quindi essere ampliata, non rilevando le differenze dedotte nel ricorso tra porticato e loggia.
1.4 In ogni caso, in proporzione alla superficie occupata dall’edificio, in tutta evidenza un’addizione di 40 mq di superficie coperta non può ritenersi irrilevante, tenendo conto delle superfici assentite dal progetto.
È stato, infatti, precisato in giurisprudenza che gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione, e non nel caso in cui le loro dimensioni siano di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (tra le tante decisioni, Tar Friuli 22.04.2015 n. 189).
Né, alla luce di quanto sopra, è rilevante il carattere pertinenziale, che va ovviamente valutato in relazione alle dimensioni dell’edificio principale.
1.5 Per le considerazioni cui sopra sono infondate le censure, dedotte nei primi tre motivi di ricorso, relative alla violazione del DPR n. 380 del 2001 e della convenzione stipulata il 19.03.2010 nonché ai vari profili di eccesso di potere (TAR Marche, sentenza 05.01.2017 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La parziale inosservanza dell’art. 10-bis delle legge 241 del 1990 (riguardo alla violazione relativa alla realizzazione del solaio) non potrebbe comunque determinare l'annullamento del provvedimento impugnato, dovendosi fare applicazione all'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge medesima.
Detta norma esclude l'annullabilità dell'atto impugnato qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento medesimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Nel caso in esame il solaio, con altezza interna superiore a 1.mt e 50, non può certo essere considerato come volume tecnico, dato che, come condivisibilmente affermato in giurisprudenza, un volume realizzato a copertura d'un fabbricato o ha la natura e le caratteristiche d'un sottotetto di per sé non abitabile e destinato a servire come minimo volume tecnico per copertura ed isolamento dell'edificio, oppure non è che una mansarda, anche potenziale, in quanto dotato di significativa altezza media rispetto al piano di gronda; nell'un caso, s'avrà un mero vano strumentale alla buona funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente una materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi.
La non accessibilità diretta del sottotetto non modifica il giudizio, in quanto si tratta di accorgimento facilmente rimuovibile.

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... per l'annullamento:
   - del provvedimento Prot. 10440 (pratica edilizia n. 99) del 26/27.04.2013 comunicato il 07.05.2013, con cui il Responsabile Area 4 (Arch. Mo.Il.) ha respinto: “la domanda di permesso di costruire in variante a sanatoria del perm. 45/11 - costruzione chiosco per la somministrazione di alimenti e bevande" presentata dalla ditta "Ba.Pr.….";
   - dell'articolo 3 della «convenzione per la concessione in gestione dell'area attrezzata a verde pubblico, compresa tra Via L. Da Vinci, il Ristorante "il Me." e Via Brancadoro per esercitare l'attività di somministrazione di alimenti e bevande» sottoscritta dalle parti il 19.03.2010 e del bando relativo, nella parte in cui prevede che la "struttura amovibile" ivi prevista debba avere "le seguenti caratteristiche massime superficie massima al chiuso mq 70; - eventuale porticato o veranda per un massimo dí mq 30";
...
1.5 Con riguardo al quarto motivo, si deve convenire con l’amministrazione come la parziale inosservanza dell’art. 10-bis delle legge 241 del 1990 (riguardo alla violazione relativa alla realizzazione del solaio) non potrebbe comunque determinare l'annullamento del provvedimento impugnato, dovendosi fare applicazione all'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge medesima. Detta norma esclude l'annullabilità dell'atto impugnato qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento medesimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Nel caso in esame il solaio, con altezza interna superiore a 1.mt e 50, non può certo essere considerato come volume tecnico, dato che, come condivisibilmente affermato in giurisprudenza, un volume realizzato a copertura d'un fabbricato o ha la natura e le caratteristiche d'un sottotetto di per sé non abitabile e destinato a servire come minimo volume tecnico per copertura ed isolamento dell'edificio, oppure non è che una mansarda, anche potenziale, in quanto dotato di significativa altezza media rispetto al piano di gronda; nell'un caso, s'avrà un mero vano strumentale alla buona funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente una materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi (Cons. Stato IV, 29.02.2016 n. 839).
La non accessibilità diretta del sottotetto non modifica il giudizio, in quanto si tratta di accorgimento facilmente rimuovibile.
1.6 Nella fattispecie, posto il carattere vincolato del diniego rispetto alla mancanza dei presupposti richiesti dalla normativa, risulta manifesto che il provvedimento oggetto del ricorso di primo grado non avrebbe potuto assumere se non un contenuto sfavorevole al ricorrente.
1.7 Per quanto riguarda la presunta contraddittorietà del provvedimento impugnato con la delibera di consiglio comunale 230/2010, in tutta evidenza l’esclusione dei volumi tecnici e dei servizi obbligatori dalla superficie massima realizzabile, prevista dalla delibera citata, riguarda il caso in cui le opere abbiano effettivamente le caratteristiche del “volume tecnico”, circostanza che non si verifica nel caso in esame.
2 Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, il ricorso in epigrafe deve essere respinto, unitamente all’istanza risarcitoria (TAR Marche, sentenza 05.01.2017 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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