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AGGIORNAMENTO AL 24.10.2017 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Motivazione
dell’ordinanza di demolizione adottata a
distanza di anni dall’abuso.
---------------
Edilizia – Abusi – Ordinanza di
demolizione – Adottata a distanza di anni
dall’abuso – Motivazione – Esclusione.
Il provvedimento con
cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in
cui l’ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento
non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino (1).
---------------
(1) La questione era stata rimessa dalla
Cons. St., sez. VI, ord., 24.03.2017, n.
1337.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sul
punto si sono formati due orientamenti.
In base a un primo orientamento (ad oggi
maggioritario) l’ordinanza di
demolizione di un manufatto abusivo non
richiede una particolare motivazione in
ordine alla sussistenza di uno specifico
interesse pubblico al ripristino della
legittimità violata, e ciò nonostante sia
decorso un considerevole lasso di tempo
dalla commissione dell’abuso. In base
all’orientamento in parola deve infatti
escludersi la configurabilità di un
legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al suo avente
causa nonostante il decorso del tempo dal
commesso abuso (Cons.
St., sez. VI, 05.05.2016, n. 1774;
id.
23.10.2015, n. 4880; id.
11.12.2013, n.
5943).
Aggiungasi che l’ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né –ancora– una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (Cons.
St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908).
In base ad un diverso (e minoritario)
orientamento, l’ingiunzione di
demolizione, in quanto atto dovuto in
presenza della constatata realizzazione
dell’opera edilizia senza titolo abilitativo
o in totale difformità da esso, è in linea
di principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva
l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell’abuso
e il protrarsi dell’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato: ipotesi -questa-
in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione la quale indichi,
avuto riguardo anche all’entità ed alla
tipologia dell’abuso, il pubblico interesse
-evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità- idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato (Cons.
St., sez. IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti
simile a quella appena richiamata si è
affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’,
l’ingiunzione di demolizione debba essere
assistita da un’adeguata motivazione circa
lo specifico interesse pubblico sotteso alla
riduzione in pristino dell’area. Ciò si
renderà necessario, in particolare: i)
quando il proprietario del bene sia
pacificamente persona diversa da quella che
ha commesso l’abuso; ii) quando
l’intervenuta alienazione della res
non palesi finalità elusive; iii) quando fra
il commesso abuso e l’ordine di demolizione
sia intercorso un rilevante lasso di tempo,
sì da ingenerare nel proprietario uno stato
di affidamento in ordine alla desistenza da
parte dell’amministrazione dall’adozione di
atti pregiudizievoli (Cons.
St., sez. IV, n. 1016 del 2014;
id.,
sez. V, n. 3847 del 2013).
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria la
fattispecie in esame non è riconducibile al
quadro generale dell’autotutela, non venendo
in rilievo l’ipotesi in cui
l’amministrazione abbia, a distanza di tempo
dal rilascio, disposto l’annullamento in
autotutela del titolo edilizio
illegittimamente adottato ovvero del
provvedimento di sanatoria rilasciato in
assenza dei necessari presupposti
legittimanti, ma la diversa ipotesi in cui
l’edificazione sia avvenuta nella totale
assenza di un titolo legittimante (laddove
–tuttavia– l’amministrazione abbia
provveduto solo a distanza di un
considerevole lasso di tempo all’adozione
dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta,
in definitiva, dei casi di doverosa –se pure
tardiva– attivazione dell’ordine di
demolizione di fabbricati privi ab
origine di un qualunque titolo
legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Ad avviso dell’Alto Consesso non si può
applicare a un fatto illecito (l’abuso
edilizio) il complesso di acquisizioni che,
in tema di valutazione dell’interesse
pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria. Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea
stessa di connettere al decorso del tempo e
all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 17.10.2017 n. 9 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa
Adunanza Plenaria il ricorso in appello
proposto dai signori Fi., An. e Fa.Ba.
avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio con cui è
stato respinto il ricorso da loro proposto
avverso l’ordinanza del Sindaco del Comune
di Fiumicino con la quale è stata loro
ingiunta la demolizione di un immobile
realizzato sine titulo oltre
trent’anni prima dalla loro comune dante
causa, la madre Co.Fi..
2. Come si è anticipato in narrativa,
viene chiesto a questa Adunanza
Plenaria di chiarire la questione dell’onere
motivazionale che grava in capo
all’amministrazione in sede di adozione di
un’ingiunzione di demolizione (nel caso in
esame, conseguente alla realizzazione di un
immobile in area vincolata nella radicale
assenza di un valido titolo edilizio) e se
in particolare, decorso un considerevole
lasso di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, gravi in capo
all’amministrazione un onere motivazionale
aggiuntivo, che non resti limitato al solo
richiamo alla normativa urbanistica violata
e alla conseguente necessità di ripristinare
l’ordine giuridico compromesso.
Viene altresì chiesto di
stabilire se uno specifico onere di
motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico e concreto alla
demolizione sia altresì ravvisabile
nell’ipotesi in cui l’attuale proprietario
del bene non sia responsabile dell’abuso e
il trasferimento del bene non denoti intenti
elusivi della normativa in tema di onere di
ripristino.
3. L’ordinanza di rimessione ha
correttamente –sia pur sinteticamente–
richiamato gli argomenti essenziali che
sostengono le due principali tesi
attualmente in campo.
3.1. In base a un primo orientamento (ad
oggi maggioritario)
l’ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo non richiede una particolare
motivazione in ordine alla sussistenza di
uno specifico interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata, e ciò
nonostante sia decorso un considerevole
lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
In base all’orientamento in parola deve
infatti escludersi la configurabilità di un
legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al suo avente
causa nonostante il decorso del tempo dal
commesso abuso
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 10.05.2016, n. 1774; id., VI,
23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n.
5943).
Si è osservato al riguardo che
l’ordine di demolizione, come tutti
i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né –ancora– una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017,
n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che,
laddove si annettesse rilievo in
siffatte ipotesi al decorso del tempo –sia
pure, al solo fine di incidere sul quantum
di motivazione richiesto
all’amministrazione-, si perverrebbe in via
pretoria a delineare una sorta di ‘sanatoria
extra ordinem’, la quale opererebbe
anche nelle ipotesi in cui il soggetto
interessato non abbia potuto –o voluto–
avvalersi delle disposizioni normative in
tema di sanatoria di abusi edilizi
(in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015,
n. 13).
3.2. In base a un diverso (e minoritario)
orientamento,
l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto
dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell’opera edilizia senza
titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera. Deve
tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in
cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell’abuso e il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una
posizione di affidamento nel privato:
ipotesi -questa- in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione la
quale indichi, avuto riguardo anche
all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il
pubblico interesse -evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità- idoneo
a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2016,
n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti
simile a quella appena richiamata
si è affermato che, quanto meno in
alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione
di demolizione debba essere assistita da
un’adeguata motivazione circa lo specifico
interesse pubblico sotteso alla riduzione in
pristino dell’area. Ciò si renderà
necessario, in particolare: i) quando il
proprietario del bene sia pacificamente
persona diversa da quella che ha commesso
l’abuso; ii) quando l’intervenuta
alienazione della res non palesi
finalità elusive; iii) quando fra il
commesso abuso e l’ordine di demolizione sia
intercorso un rilevante lasso di tempo, sì
da ingenerare nel proprietario uno stato di
affidamento in ordine alla desistenza da
parte dell’amministrazione dall’adozione di
atti pregiudizievoli
(in tal senso: Cons. Stato, IV, sent. 1016
del 2014; id., V, sent. 3847 del 2013).
A conclusioni non dissimili è pervenuta
quella parte della giurisprudenza secondo
cui il decorso del tempo
incide sulla certezza dei rapporti giuridici
e può incidere significativamente con le
possibilità di difesa dell’interessato sia
nei confronti dell’amministrazione che del
dante causa
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 04.03.2014,
n. 1016; id., V, 15.07.2013, n. 3847; id.,
V, 24.11.2013, n. 2013).
4. Ad avviso di questa Adunanza Plenaria il
dato di fondo da cui occorre prendere le
mosse è costituito dall’oggettiva non
riconducibilità della fattispecie in esame
al quadro generale dell’autotutela.
Ed infatti, non viene qui in rilievo
l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a
distanza di tempo dal rilascio, disposto
l’annullamento in autotutela del titolo
edilizio illegittimamente adottato ovvero
del provvedimento di sanatoria rilasciato in
assenza dei necessari presupposti
legittimanti.
Al contrario, il caso che qui rileva si
presenta in termini sensibilmente diversi e
concerne la diversa ipotesi in cui
l’edificazione sia avvenuta nella totale
assenza di un titolo legittimante (laddove
–tuttavia– l’amministrazione abbia
provveduto solo a distanza di un
considerevole lasso di tempo all’adozione
dell’ingiunzione di demolizione).
Si tratta, in definitiva, dei casi
(frequenti nella pratica) di doverosa –se
pure tardiva– attivazione dell’ordine di
demolizione di fabbricati privi ab
origine di un qualunque titolo
legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Al riguardo ci si limita a rilevare che:
- nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto
amministrativo illegittimo ma favorevole al
proprietario, si radica comunque un
affidamento in capo al privato beneficiato
dall’atto in questione e ciò giustifica una
scelta normativa (quale quella trasfusa
nell’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990) volta a rafforzare l’onere
motivazionale gravante in capo
all’amministrazione. Si tratta di stabilire
sino a che punto e in che termini
l’ordinamento si debba far carico di
tutelare un siffatto stato di legittimo
affidamento;
- al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un
potere/dovere finalizzato alla tutela di
rilevanti finalità di interesse pubblico non
è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo. Allo stesso modo,
tale inerzia non può certamente radicare un
affidamento di carattere “legittimo”
in capo al proprietario dell’abuso, giammai
destinatario di un atto amministrativo
favorevole idoneo a ingenerare
un’aspettativa giuridicamente qualificata.
In definitiva, non si può
applicare a un fatto illecito (l’abuso
edilizio) il complesso di acquisizioni che,
in tema di valutazione dell’interesse
pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
5. Va d’altra parte osservato che, anche
nelle sue declinazioni più estreme, la tesi
maggiormente orientata al riconoscimento
delle ragioni e delle prerogative
proprietarie non giunge a riconoscere
l’illegittimità dell’ordine di demolizione
quale diretta conseguenza della sua tardiva
emanazione, né postula una sorta di ‘sanatoria
extra ordinem’ quale effetto dell’omessa
o tardiva adozione del provvedimento
demolitorio.
Ed infatti, le decisioni riconducibili a
tale approccio pervengono soltanto –in
maniera più o meno incisiva– a delineare in
capo all’amministrazione che abbia omesso
per un considerevole lasso di tempo di
adottare l’ordine di demolizione un onere di
motivazione sia in ordine alle ragioni di
interesse pubblico –concreto e attuale–
sottese alla demolizione, sia in ordine alla
comparazione fra l’interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata e
l’interesse privato alla permanenza in loco
del manufatto.
La stessa sentenza della Quarta Sezione di
questo Consiglio di Stato n. 1016 del 2014
(invocata dagli appellanti a sostegno delle
proprie tesi) non ha affermato
l’illegittimità ex se dell’ordine di
demolizione tardivamente adottato, ma ha
soltanto individuato una serie di “casi-limite”
in cui graverebbe comunque
sull’amministrazione l’obbligo di motivare
puntualmente in ordine alle ragioni sottese
alla tardiva attivazione del potere
ripristinatorio (la sentenza in questione ha
individuato tali “casi-limite” nelle
ipotesi in cui: i) il proprietario attuale
non abbia commesso l’abuso; ii)
l’alienazione in suo favore non palesi
intenti elusivi; iii) fra il commesso abuso
e il provvedimento demolitorio sia
intercorso un notevole lasso di tempo).
5.1. Si osserva comunque al riguardo che non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea
stessa di connettere al decorso del tempo e
all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
5.2. Una chiara conferma di quanto appena
rappresentato si desume dal terzo periodo
del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R.
380 del 2001 (per come introdotto dal comma
1, lettera q-bis), dell’articolo 17 del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133), secondo
cui “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le
responsabilità penali, costituisce elemento
di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
La disposizione appena richiamata chiarisce
che il decorso del tempo dal momento del
commesso abuso non priva giammai
l’amministrazione del potere di adottare
l’ordine di demolizione, configurando
piuttosto specifiche –e diverse– conseguenze
in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario responsabili
dell’omissione o del ritardo nell’adozione
di un atto che è e resta doveroso nonostante
il decorso del tempo.
6. Se pertanto il decorso del tempo non può
incidere sull’ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa
sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l’ordinanza di demolizione di
immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
6.1. Deve quindi ribadirsi che, in questi
casi, nemmeno si pone un problema di
affidamento, che presuppone una posizione
favorevole all’intervento riconosciuta da un
atto in tesi illegittimo poi successivamente
oggetto di un provvedimento di autotutela.
Un condiviso orientamento ha sottolineato al
riguardo l’oggettiva differenza che sussiste
fra:
- (da un lato) l’adozione di determinazioni sfavorevoli di segno
opposto rispetto ad altre precedenti e di
segno favorevole per l’interessato (come
l’annullamento in autotutela del titolo
edilizio o del provvedimento di sanatoria) e
- (dall’altro) l’adozione dell’ordine di demolizione in caso di
interventi realizzati in radicale assenza
del permesso di costruire (articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001).
In tale secondo novero di ipotesi è del
tutto congruo che l’ordine di demolizione
sia adeguatamente motivato mercé il richiamo
al comprovato carattere abusivo
dell’intervento, senza che si impongano sul
punto ulteriori oneri motivazionali,
applicabili nel diverso ambito
dell’autotutela decisoria (in tal senso:
Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
7. A conclusioni del tutto analoghe (in
punto di insussistenza di un obbligo di
motivazione nelle ipotesi che qui rilevano)
è pervenuta la giurisprudenza di questo
Consiglio anche prendendo le mosse da angoli
visuali diversi da quello dell’applicabilità
o meno delle categorie dell’autotutela
decisoria.
7.1. E’ stato in primo luogo affermato che
il tempo trascorso (in ipotesi,
anche rilevante) fra il momento della
realizzazione dell’abuso e l’adozione
dell’ordine di demolizione non determina
l’insorgenza di uno stato di legittimo
affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di
motivazione. Ciò in quanto il decorso del
tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo
dell’intervento
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; id., VI,
06.03.2017, n. 1060).
7.2. E’ stato inoltre affermato che
il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica
dell’abusività dell’intervento) fa sì che
esso non necessiti di una particolare
motivazione circa l’interesse pubblico
sotteso a tale determinazione. Inoltre, il
provvedimento di demolizione non deve
motivare in ordine a un ipotetico interesse
del privato alla permanenza in loco dell’opus
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
7.3. E’ stato, ancora, affermato che
non occorre motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile
abusivo neppure quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua
realizzazione. Ed infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una
situazione antigiuridica soltanto laddove
esso presenti un carattere incolpevole,
mentre la realizzazione di un’opera abusiva
si concretizza in una volontaria attività
del costruttore realizzata contra legem
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; id., VI,
13.12.2016, n. 5256).
Si è altresì osservato –e in modo parimenti
condivisibile- che l’ordine
di demolizione presenta un carattere
rigidamente vincolato e non richiede né una
specifica motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, né una
comparazione fra l’interesse pubblico e
l’interesse privato al mantenimento in loco
dell’immobile. Ciò, in quanto non può
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo
non può in alcun modo legittimare
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV,
12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n.
3750).
Deve pertanto essere confermato, anche da
questi diversi angoli visuali, che,
nelle ipotesi che qui rilevano di
edificazioni radicalmente abusive e giammai
assistite da alcun titolo, il richiamo alla
figura, peraltro ambigua e controversa,
dell’interesse pubblico in re ipsa,
appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio
e doveroso del provvedimento esclude la
pertinenza del richiamo alla motivazione
dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi
risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’
dallo stesso legislatore (il quale ha
sancito in via indefettibile l’onere di
demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in
modo esplicito o implicito– una siffatta
ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti.
7.4. L’ordinanza di rimessione si è altresì
soffermata sulla possibile sussistenza di un
obbligo per l’amministrazione di motivare
l’ordine di demolizione in relazione alla
concretezza ed attualità dell’interesse
pubblico alla demolizione. Le considerazioni
sopra esposte -che evidenziano la non
riconducibilità della fattispecie
all’autotutela decisoria- escludono la
rilevanza delle questioni attinenti
all’onere motivazionale.
8. L’ordinanza di rimessione si sofferma
inoltre sul caso in cui l’attuale
proprietario dell’immobile non sia
responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti
elusivi.
8.1. Si osserva in primo luogo al riguardo
che il carattere reale della misura
ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di
valori di primario rilievo non si pongono in
modo peculiare nelle ipotesi in cui il
proprietario non sia responsabile
dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma
restando la doverosità della misura
ripristinatoria, la diversità soggettiva fra
il responsabile dell’abuso e l’attuale
proprietario imponga all’amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e
la stretta doverosità delle sue conseguenze
non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario–
rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi
del riparto delle responsabilità fra il
responsabile dell’abuso e il suo avente
causa).
Del resto, la principale (se non l’unica)
ragione che potrebbe indurre a valorizzare
la richiamata alterità soggettiva è quella
relativa allo stato soggettivo di buona fede
e di affidamento che caratterizza la
posizione dell’avente causa.
Tuttavia –e per le ragioni dinanzi esposte
retro, sub 7.1 e 7.3– tali stati soggettivi
non possono essere in alcun modo valorizzati
ai fini motivazionali
In definitiva l’Adunanza
plenaria ritiene di confermare
l’orientamento secondo cui gli ordini di
demolizione di costruzioni abusive, avendo
carattere reale, prescindono dalla
responsabilità del proprietario o
dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli
abusi assumendo comunque rilievo sotto altri
profili), applicandosi anche a carico di chi
non abbia commesso la violazione, ma si
trovi al momento dell’irrogazione in un
rapporto con la res tale da
assicurare la restaurazione dell’ordine
giuridico violato
(in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI,
26.07.2017, n. 3694).
9. A conclusioni del tutto analoghe a quelle
appena rassegnate deve giungersi anche in
relazione all’ipotesi in cui sia pacifico
che l’alienazione dell’immobile oggetto di
abuso sia stata realizzata in circostanze
che inducono ad escludere qualunque intento
elusivo.
Anche in questo caso ci si limita ad
osservare che tale circostanza –inerente in
ultima analisi allo stato soggettivo
dell’avente causa– non può in alcuno modo
rilevare sulla doverosità delle conseguenze
connesse alla commissione dell’abuso in
quanto tale.
10. In conclusione l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato enuncia il seguente
principio di diritto: “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un
immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto,
non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della
legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in
questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”. |
EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla motivazione del
provvedimento di annullamento della concessione
edilizia in sanatoria adottato a distanza di anni
dal rilascio del titolo.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria –
Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni
dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine
all’interesse pubblico comparato con quello del
privato – Necessità – Limiti
Nella vigenza dell’articolo
21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto
dalla l. 15 del 2005– l’annullamento d’ufficio di un
titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una
distanza temporale considerevole dal provvedimento
annullato, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche
tenuto conto degli interessi dei privati destinatari
del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e
che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la
sua adozione decorra soltanto dal momento della
scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e
delle circostanze posti a fondamento dell’atto di
ritiro;
ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al
punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso
potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle
disposizioni di tutela che risultano in concreto
violate, che normalmente possano integrare, ove
necessario, le ragioni di interesse pubblico che
depongano nel senso dell’esercizio del ius
poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente
di configurare in capo a lui una posizione di
affidamento legittimo, con la conseguenza per cui
l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione
potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato
richiamo alla non veritiera prospettazione di parte.
(1)
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(1) I.- Con
ordinanza 19.04.2017 n. 1830 (oggetto
della
News US in data 26.04.2017, cui si rinvia
per ogni approfondimento), la quarta sezione del
Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria,
ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la questione
concernente l’ambito della motivazione
dell’annullamento di ufficio di una concessione in
sanatoria intervenuto a considerevole distanza di
tempo dal rilascio del titolo, nella vigenza
dell’originaria versione della norma generale
sull’annullamento d’ufficio, come introdotta nel
corpo della legge 241 del 1990 con la riforma del
2005.
La rimessione è stata adottata nell’ambito di un
giudizio di appello proposto per la riforma di una
sentenza di primo grado che aveva respinto
l’originaria impugnativa dell’annullamento d’ufficio
di titoli edilizi rilasciati in sanatoria alcuni
anni prima.
La sentenza di primo grado aveva fondato il rigetto
del gravame sul principio tradizionale a mente del
quale l’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata negli abusi edilizi è in re ipsa
e non richiede una particolare motivazione, essendo
prevalente rispetto all’interesse dei ricorrenti al
mantenimento del manufatto abusivo.
In sede di appello, richiamando la questione
sollevata da
Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 24.03.2017 n. 1337
(concernente la consistenza della motivazione
dell’ordine di demolizione adottato a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso), la quarta
Sezione ha rilevato il sorgere di un contrasto fra
due orientamenti, uno più recente ed uno
tradizionale, fatto proprio dal giudice di prime
cure. Il primo, sulla base del testo dell’art.
21-nonies cit., e anche in considerazione delle
recenti modifiche dello stesso, ritiene necessaria
una valutazione dell’interesse pubblico in concreto
in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei
controinteressati) degli originari provvedimenti, in
un tempo ragionevole; con la conseguenza che il
lungo decorso del tempo agisce a favore
dell’affidamento ingenerato nel privato e incide
anche sulla valutazione del pubblico interesse in
concreto. Il secondo, sino ad ora maggioritario, pur
nella vigenza del citato articolo, esclude la
necessità della valutazione dell’interesse pubblico
in concreto, essendo esso insito nella restaurazione
della legalità violata, quantomeno, tutte le volte
che la illegittimità sia dipesa dalle prospettazioni
non veritiere del privato.
II.- L’Adunanza Plenaria, dopo aver richiamato in modo analitico le
argomentazioni dei due contrapposti indirizzi
giurisprudenziali, opera una complessiva ed
innovativa rilettura dello statuto del potere di
autotutela in materia edilizia alla luce delle norme
sancite dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2015,
affermando i seguenti principi:
a) poiché la vicenda contenziosa è governata dalle
disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di
cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990
nell’originario testo introdotto dall’articolo 14
della l. 15 del 2005, non rilevano, ai fini della
decisione, le modifiche apportate al medesimo art.
21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015,
disposizione quest’ultima dalla quale non possono
trarsi elementi o spunti interpretativi ai fini
della soluzione di questioni ricadenti sotto la
disciplina del previgente quadro normativo;
b) l’autotutela in materia edilizia, in mancanza di
una disciplina speciale (prevista ad esempio per
disciplinare le conseguenze dell’annullamento del
titolo edilizio dall’art. 38 del DPR 380/2001), è, a
tutti gli effetti, attività di amministrazione
attiva in senso proprio, implicante l’esercizio di
un potere di valutazione comparativa degli
interessi, con la conseguenza che di regola –e salva
l’ipotesi di mala fede del privato- grava
sull’amministrazione l’onere di motivare
puntualmente in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione
dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del
destinatario al mantenimento dei relativi effetti,
con ciò dovendosi escludere la possibilità di
postulare in via generale e indifferenziata un
interesse pubblico in re ipsa alla rimozione
di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente
rilasciati. Ciò anche in applicazione del generale
principio del clare loqui, dell’obbligo di
motivazione e della progressiva dequotazione dei
vizi meramente formali dei provvedimenti in favore
delle c.d. illegittimità praticabili desumibile da
precisi indici normativi (cfr. in tal senso la
modifica al comma 2 dell’articolo 21-nonies, cit.,
disposta dall’articolo 25, comma 2, lettera b-quater)
del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 nonché il comma
2 dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124 che
ha espressamente abrogato il comma 136 dell’articolo
1 della l. 30.12.2004, n. 311);
c) la teorica dell’interesse pubblico in re ipsa
implica la rimozione in via ermeneutica di due
elementi normativamente indefettibili quali la
ragionevolezza del termine e la motivata valutazione
dei diversi interessi in gioco (espressamente
contemplati dall’art. 21-octies della legge n. 241
del 1990), si fonda sul principio di inesauribilità
del potere che, tuttavia, nell’attuale fase storica,
deve conciliarsi con il valore della certezza delle
situazioni giuridiche soggettive e di prevedibilità
delle decisioni e si pone anche in contrasto con la
natura discrezionale del potere di autotutela
rendendo, di fatto, vincolata una decisione solo
eventuale;
d) la locuzione ‘termine ragionevole’ deve
essere interpretata nel senso che il termine in
questione decorre soltanto dal momento in cui
l’amministrazione è venuta concretamente a
conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto,
con la conseguenza che in caso di titoli abilitativi
rilasciati sulla base di dichiarazioni
oggettivamente non veritiere, laddove la fallace
prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai
fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo
che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal
momento in cui l’amministrazione ha appreso della
richiamata non veridicità;
e) l’onere motivazionale, comunque gravante
sull’amministrazione nel caso di annullamento in
autotutela del titolo edilizio in precedenza
adottato, deve ritenersi comunque attenuato in
ragione della rilevanza degli interessi pubblici
tutelati. Pertanto laddove venga in rilievo la
tutela di preminenti valori pubblici di carattere ‘autoevidente’,
l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione
potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle
disposizioni di tutela che risultano in concreto
violate le quali normalmente possano integrare le
ragioni di interesse pubblico che depongono nel
senso dell’esercizio del ius poenitendi;
f) nelle ipotesi in cui la non veritiera
prospettazione dei fatti rilevanti da parte del
soggetto interessato abbia sortito un rilievo
determinante per l’adozione dell’atto illegittimo,
l’amministrazione potrà legittimamente fondare
l’annullamento in autotutela sulla rilevata non
veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate
dall’istante, in capo al quale non sarà
configurabile una posizione di affidamento legittimo
da valutare in relazione al concomitante interesse
pubblico, neppure qualora intercorra un
considerevole lasso di tempo fra l’abuso e
l’intervento repressivo dell’amministrazione (cfr.
Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198;
id.,
V, 13.05.2014, n. 2451 citate in
motivazione);
g) poiché la errata prospettazione da parte del
privato delle circostanze in fatto e in diritto
sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento
favorevole escludono la possibilità di configurare
in capo al medesimo una posizione di affidamento
incolpevole, l’amministrazione può adeguatamente
motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul
mero dato dell’originaria, inveritiera
prospettazione.
III.- Per completezza si segnala quanto segue:
h) in tema di autotutela in materia di urbanistica
ed edilizia possono richiamarsi diversi orientamenti
giurisprudenziali su temi specifici, fra cui:
I) in relazione alla inesigibilità di particolari
garanzie partecipative in vista dell’autotutela in
presenza di un titolo edilizio rilasciato in base ad
una errata rappresentazione della realtà giuridica e
fattuale,
Cons. Stato, Sez. IV, 14.06.2017, n. 2885;
II) in relazione alla differenza fra annullamento
in autotutela del titolo edilizio da parte del
comune e annullamento regionale ex art. 39 t.u.
edilizia (pure presa in considerazione dalla
Adunanza plenaria onde evidenziarne la non
riconducibilità al medesimo genus e regime
giuridico),
Cons. Stato, Sez. IV, 16.08.2017, n. 4008
(che si segnala per la completezza della trattazione
dell’istituto; si è precisato, invero, che è ben
possibile che l’Amministrazione, in presenza di una
norma specifica come quella dell’art. 39 cit.
disponga l’annullamento del titolo edilizio anche
dopo un considerevole lasso di tempo dall’adozione
del titolo medesimo, fermo restando che in relazione
a tale norma, però, l’annullamento appare
espressione della titolarità e cogestione,
rispettivamente del potere e dell’interesse,
inerenti alla pianificazione urbanistica da parte
della regione);
III) in relazione all’estensione dell’obbligo di
motivazione,
Cons. Stato, Sez. VI, 28.06.2016, n. 2842,
secondo cui “l’amministrazione, soprattutto
quando interviene a distanza di anni dalla
formazione di un titolo abilitativo astrattamente
idoneo alla realizzazione di alcuni lavori, deve
illustrare in maniera diffusa le ragioni, anche di
interesse pubblico, che giustificano il ritiro
dell'abilitazione, ovvero le altre ragioni che
impongono il provvedimento sanzionatorio con
l'ordine di riduzione in pristino” (in Rivista
Giuridica dell'Edilizia, 2016, 4, I, 523; la
sentenza richiama, a sostegno delle tesi sostenute,
Corte cost., 09.03.2016 n. 49 – ibidem, 1-2, I, 8
con nota di STRAZZA, Giur. it., 2016, 2233, con nota
di VIPIANA PERPETUA- che ha dichiarato
incostituzionale una norma di una legge della
Regione Toscana che consentiva all'Amministrazione
di esercitare poteri sanzionatori per la repressione
degli abusi edilizi, anche oltre il termine di
trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., in
un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello
previsto dai commi 3 e 4, dell'art. 19, della l. n.
241 del 1990);
IV) in relazione all’annullamento di atto
pianificatorio,
Tar per il Lazio-Roma, Sez. II-ter, 19.07.2016, n.
8277: “Dal momento che l'approvazione
di uno strumento urbanistico dipende da un
procedimento complesso al quale concorrono il Comune
(cui è demandata la potestà di iniziativa) e la
Regione (cui compete la fase di controllo), laddove
l'Ente locale territoriale intenda perseguire
l'annullamento dell'atto di pianificazione
definitivo per ragioni di grave illegittimità deve
rispettare il medesimo procedimento previsto per la
formazione dello strumento urbanistico che si
intende annullare, secondo il principio del
“contrarius actus”, dal momento che l'autotutela non
può che essere esercitata congiuntamente ed in
concerto tra le Amministrazioni che sono competenti
all'esercizio del potere di primo grado, nei
rispettivi limiti e ruoli: a diversamente ritenere,
infatti, si perverrebbe alla conseguenza che, in
sede di autotutela, il Comune eserciterebbe un
potere di maggiore ampiezza rispetto a quello di cui
è titolare in fase di formazione dello strumento
urbanistico”;
V) in relazione alle distanze,
Tar per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma,
09.05.2016, n. 152: “L'annullamento in
autotutela di una concessione edilizia rilasciata in
violazione delle distanze minime tra fabbricati non
necessita di specifica motivazione né dell'espressa
comparazione tra l'interesse pubblico
all'annullamento e quello del privato alla
conservazione dell'atto illegittimo, essendo le
norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed
esse stesse tese al rispetto di principi
fondamentali in termini di salubrità, con la
conseguenza che l'attività posta in essere dal
Comune è vincolata”;
VI) in relazione alla s.c.i.a.,
Tar per la Liguria, Sez. I, 03.10.2016 n. 970:
“nell'atto di annullamento degli effetti della
s.c.i.a, l'Amministrazione deve dare conto delle
prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e
attuali, diverse da quelle al mero ripristino della
legalità violata, che depongono per la sua adozione,
tenendo in considerazione gli interessi dei
destinatari e degli eventuali controinteressati”;
i) in dottrina, per una accurata ricostruzione degli
istituti dell’annullamento dei titoli edilizi da
parte del comune e dell’annullamento regionale, v.
da ultimo, R. LEONARDI – M. OCCHIENA, in Testo unico
dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano,
2015, 896 ss.; P. PORTALURI, ibidem, 925 ss.
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 17.10.2017 n. 8 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Motivazione
dell'annullamento d'ufficio dell'ordinanza
edilizia in sanatoria disposto a distanza di
anni dal suo rilascio.
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Edilizia – Concessione edilizia in
sanatoria – Annullamento d’ufficio –
Disposto a distanza di anni dal rilascio
della sanatoria – Motivazione in ordine
all’interesse pubblico comparato con quello
del privato - Necessità - Limiti.
Nella vigenza
dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241
–introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15-
l’annullamento d’ufficio di un titolo
edilizio in sanatoria, intervenuto ad una
distanza temporale considerevole dal
provvedimento annullato, deve essere
motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale
all’adozione dell’atto di ritiro anche
tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell’annullamento
d’ufficio e che, in ogni caso, il termine
‘ragionevole’ per la sua adozione decorra
soltanto dal momento della scoperta, da
parte dell’amministrazione, dei fatti e
delle circostanze posti a fondamento
dell’atto di ritiro;
b) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione
risulterà attenuato in ragione della
rilevanza e autoevidenza degli interessi
pubblici tutelati (al punto che, nelle
ipotesi di maggior rilievo, esso potrà
essere soddisfatto attraverso il richiamo
alle pertinenti circostanze in fatto e il
rinvio alle disposizioni di tutela che
risultano in concreto violate, che
normalmente possano integrare, ove
necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell’esercizio del
ius poenitendi);
c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a
fondamento dell’atto illegittimo a lui
favorevole non consente di configurare in
capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui
l’onere motivazionale gravante
sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte (1).
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(1) La questione era stata sollevata dalla
sez. IV con ord. 19.04.2017, n. 1830.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sulla
questione si sono formati due
orientamenti.
In base a un primo, maggioritario,
orientamento (Cons.
St., sez. IV, 19.08.2016, n. 3660;
id.,
sez. V, 08.11.2012, n. 5691),
l’annullamento d’ufficio di un titolo
edilizio illegittimo (in specie se
rilasciato in sanatoria) risulta in re
ipsa correlato alla necessità di curare
l’interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata. Ciò, in
quanto il rilascio stesso di un titolo
illegittimo determina la sussistenza di una
permanente situazione contra ius, in
tal modo ingenerando in capo
all’amministrazione il potere-dovere di
annullare in ogni tempo il titolo edilizio
illegittimamente rilasciato.
I fautori di tale tesi ritengono in
particolare che non gravi in capo
all’amministrazione un particolare onere
motivazionale –ovvero l’obbligo di valutare
i diversi interessi in campo– laddove
l’illegittimità del titolo in sanatoria sia
stata determinata da una falsa
rappresentazione dei fatti e dello stato dei
luoghi imputabile al beneficiario del titolo
in sanatoria (Cons.
St., sez. IV, 27.08.2012, n. 4619).
In base a tale prospettazione, uno specifico
onere motivazionale a sostegno
dell’autotutela può essere imposto
all’amministrazione soltanto laddove
l’esercizio dell’autotutela discenda da
errori di valutazione imputabili alla stessa
amministrazione (Cons.
St., sez. V, 08.11.2012, n. 5691).
In base a un secondo orientamento
(più recente e allo stato minoritario),
anche nel caso di annullamento ex officio di
titoli edilizi in sanatoria dovrebbero
trovare integrale applicazione i generali
presupposti legali di cui all’art.
21-nonies, l. 241 del 1990, non potendo
l’amministrazione fondare l’adozione
dell’atto di ritiro sul mero intento di
ripristinare la legalità violata (Cons.
St., sez. VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016;
id.,
sez. IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio postula
l’apprezzamento di un presupposto –per così
dire– ‘rigido’ (l’illegittimità
dell’atto da annullare) e di due ulteriori
presupposti riferiti a concetti
indeterminati, da apprezzare
discrezionalmente dall’amministrazione (si
tratta della ragionevolezza del termine di
esercizio del potere di ritiro e
dell’interesse pubblico alla rimozione,
unitamente alla considerazione
dell’interesse dei destinatari:
Cons. St., sez. VI, 27.01.2017, n. 341).
In base a tale orientamento, il fondamento
di tali ulteriori presupposti va individuato
nella garanzia della tutela dell’affidamento
dei destinatari circa la certezza e la
stabilità degli effetti giuridici prodotti
dal provvedimento illegittimo, mediante una
valutazione discrezionale volta alla ricerca
del giusto equilibrio tra il ripristino
della legalità violata e la conservazione
dell’assetto regolativo impresso dal
provvedimento viziato.
L’amministrazione che intende procedere
all’annullamento ex officio di un
provvedimento di sanatoria di opere abusive
di operare un motivato bilanciamento fra (da
un lato) l’interesse pubblico al ripristino
della legalità violata e (dall’altro)
l’interesse dei destinatari al mantenimento
dello status quo ante (interesse viepiù
rafforzato dall’affidamento legittimo
determinato dall’adozione dell’atto e dal
decorso del tempo). La motivata ponderazione
fra i diversi interessi in gioco risulta
tanto più necessaria nel caso di atti di
ritiro di titoli edilizi, i quali sono
destinati ad esaurirsi con l’adozione
dell’atto ampliativo, palesando una scelta
legislativa volta a riconoscere maggiore
rilevanza all’interesse dei privati
destinatari dell’atto e minore rilevanza
all’interesse pubblico alla rimozione
dell’atto i cui effetti si sono ormai
prodotti in via definitiva.
L’Adunanza plenaria ha affermato che le
generali categorie in tema di annullamento
ex officio di atti amministrativi
illegittimi trovino applicazione (in assenza
di indici normativi in senso contrario)
anche nel caso di ritiro di titoli edilizi
in sanatoria illegittimamente rilasciati,
non potendosi postulare in via generale e
indifferenziata un interesse pubblico in
re ipsa alla rimozione di tali atti.
Conseguentemente, grava in via di principio
sull’amministrazione (e salvo quanto di
seguito si preciserà) l’onere di motivare
puntualmente in ordine alla sussistenza di
un interesse pubblico concreto e attuale
alla rimozione dell’atto, tenendo altresì
conto dell’interesse del destinatario al
mantenimento dei relativi effetti.
Ha aggiunto che la giurisprudenza del
Consiglio di Stato ha condivisibilmente
stabilito al riguardo che non sussiste
l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi
abbia ottenuto un titolo edilizio –anche in
sanatoria– rappresentando elementi non
veritieri, e ciò anche qualora intercorra un
considerevole lasso di tempo fra l’abuso e
l’intervento repressivo dell’amministrazione
(Cons.
St., sez. IV, 12.12.2016, n. 5198;
id.,
sez. V, 13.05.2014, n. 2451).
La stessa giurisprudenza ha inoltre
stabilito (in modo parimenti condivisibile)
che non può essere configurato alcun
affidamento legittimo, in specie ai fini
risarcitori, il quale risulti fondato su un
provvedimento illegittimo. Si è osservato al
riguardo che può essere non più opportuno
far luogo all’annullamento in autotutela, in
considerazione del tempo trascorso e degli
interessi dei destinatari e dei
controinteressati; ma quando tali condizioni
sono rispettate non vi è spazio per la
tutela patrimoniale (Cons.
St., sez. VI, 27.09.2016, n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola
risultano valide ai fini risarcitori e a
fronte di illegittimità imputabili
all’amministrazione, esse risulteranno tanto
più condivisibili nel caso in cui
l’illegittimità dell’atto sia stata
determinata dalla non veritiera
prospettazione dei fatti rinveniente dal
soggetto che si sarebbe in seguito
avvantaggiato dell’errore
dell’amministrazione. In tali ipotesi
l’amministrazione potrà adeguatamente
motivare l’adozione dell’atto di
annullamento sul mero dato dell’originaria,
non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a
prescindere dai profili di rilevanza
penale), l’oggettiva falsità della
prospettazione dei fatti rilevanti e la sua
incidenza ai fini dell’adozione dell’atto
illegittimo non consentiranno di configurare
una posizione di affidamento legittimo e
consentiranno all’amministrazione di
limitare l’onere motivazionale alla dedotta
falsità, non sussistendo un interesse
privato meritevole di tutela da porre in
comparazione con quello pubblico (comunque
sussistente) al ripristino della legalità
violata
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 17.10.2017 n. 8 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa
Adunanza Plenaria il ricorso in appello
proposto dai signori No. e De Ga. (i quali
hanno acquistato un compendio immobiliare
nel Comune di Giovinazzo (BA) comprendente,
fra l’altro un ex capannone industriale in
seguito adibito a cinema e un immobile
pertinenziale poi adibito a bar/rosticceria)
avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale della Puglia con
cui è stato respinto il ricorso avverso il
provvedimento con cui il Comune ha annullato
in autotutela il titolo in sanatoria
rilasciato circa nove anni prima per il
medesimo immobile, ordinandone altresì la
demolizione.
2. Come si è anticipato in narrativa,
l’ordinanza di rimessione n.
1830/2017,
dopo aver premesso che la vicenda di causa
risulta governata dalla previsione
dell’articolo 21-nonies della l. 07.08.1990,
n. 241 nel testo introdotto dall’articolo 14
della l. 11.02.2005, n. 15,
chiede in sostanza a questa Adunanza
plenaria di chiarire:
i) se l’annullamento ex officio di un
titolo edilizio in sanatoria intervenuto a
notevole distanza di tempo dal provvedimento
originario debba comunque essere motivato in
relazione a un interesse pubblico concreto e
attuale alla rimozione e ai contrapposti
interessi dei soggetti incisi;
ii) se, ai fini di tale comparazione, rilevi che il privato abbia
indotto in errore l’amministrazione
attraverso l’allegazione di circostanze non
veritiere idonee a determinare l’adozione
dell’originario provvedimento favorevole.
3. Il Collegio ritiene che evidenti ragioni
di ordine sistematico ed espositivo inducano
in primo luogo ad individuare in modo
puntuale il quadro normativo applicabile e a
delimitare altresì il thema decidendum,
anche al fine di evitare che la vastità
della materia trattata induca ad esulare dai
confini tracciati dall’ordinanza di
rimessione.
4. Va in primo luogo osservato che la
vicenda per cui è causa resta pacificamente
governata dalle disposizioni in tema di
annullamento d’ufficio di cui all’articolo
21-nonies della l. 241 del 1990
nell’originario testo introdotto
dall’articolo 14 della l. 15 del 2005.
Non rilevano, quindi, ai fini della presente
decisione, le modifiche apportate al
medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6
della l. n. 124 del 2015.
Tale disposizione non provvede che per il
futuro, sicché dalla stessa non possono
essere tratti elementi o spunti
interpretativi ai fini della soluzione di
questioni ricadenti sotto la disciplina del
previgente quadro normativo.
Giova, d’altra parte, rilevare che, la
novella del 2015 mira, attraverso la
fissazione di un termine di diciotto mesi,
alla predeterminazione legale della nozione
di ragionevolezza del termine per
l'annullamento in autotutela; nessuno
specifico e novativo riferimento la nuova
disciplina contiene, invece, in relazione
alla questione della motivazione del
provvedimento di autotutela, limitandosi la
novella a richiamare, come già la disciplina
previgente, la necessità di tener conto
degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati del provvedimento oggetto
del potere di autotutela.
5. Si osserva in secondo luogo (e al
fine di sgombrare preventivamente il campo
da possibili profili di confusione) che la
presente decisione –per come delimitata nel
suo ambito oggettivo dall’ordinanza di
rimessione– attiene in particolare alla
determinazione del quantum di onere
motivazionale che grava sull’amministrazione
al fine di rappresentare correttamente la
sussistenza dei presupposti e delle
condizioni per il legittimo esercizio del
potere di autotutela.
6. Si osserva in terzo luogo che non
viene qui in rilievo, l’ipotesi in cui
l’amministrazione abbia (doverosamente, sia
pure tardivamente) adottato un ordine di
demolizione di fabbricati privi ab
origine di un qualunque titolo
legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
E’ evidente infatti che in tale ipotesi non
vengano in rilievo neppure ai fini
motivazionali, le categorie tipiche
dell’autotutela decisoria, quanto
–piuttosto– il diverso tema del tardivo
esercizio di un’attività repressiva che è e
resta doverosa indipendentemente dal decorso
del tempo e dalla valutazione dei diversi
interessi in gioco.
Ciò che qui viene in rilievo è invece la
diversa ipotesi in cui l’amministrazione
dapprima rilasci un titolo in sanatoria a
fronte di un’edificazione abusiva e poi,
decorso un apprezzabile lasso di tempo, si
avveda dell’illegittimità del titolo in
sanatoria a suo tempo rilasciato e ravvisi i
presupposti per disporne l’annullamento
d’ufficio.
7. Tanto premesso in via generale, si
osserva che l’ordinanza di rimessione ha
richiamato in modo sintetico ma puntuale gli
argomenti essenziali che sostengono le
due principali tesi attualmente in campo.
7.1. In base a un primo orientamento,
allo stato maggioritario,
l’annullamento d’ufficio di un titolo
edilizio illegittimo (in specie se
rilasciato in sanatoria) risulta in re
ipsa correlato alla necessità di curare
l’interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata. Ciò, in
quanto il rilascio stesso di un titolo
illegittimo determina la sussistenza di una
permanente situazione contra ius, in
tal modo ingenerando in capo
all’amministrazione il potere-dovere di
annullare in ogni tempo il titolo edilizio
illegittimamente rilasciato
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V,
08.11.2012, n. 5691).
I fautori di tale tesi ritengono in
particolare che non gravi
in capo all’amministrazione un particolare
onere motivazionale –ovvero l’obbligo di
valutare i diversi interessi in campo–
laddove l’illegittimità del titolo in
sanatoria sia stata determinata da una falsa
rappresentazione dei fatti e dello stato dei
luoghi imputabile al beneficiario del titolo
in sanatoria
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, IV, 27.08.2012, n. 4619).
In tali ipotesi
risulterebbe anzi inconferente lo stesso
richiamo alla disciplina di cui agli
articoli 21-octies e 21-nonies della l. 241
del 1990 poiché è proprio la falsa
rappresentazione dei fatti rilevanti a
rendere vincolata l’adozione del
provvedimento di annullamento in autotutela,
il cui contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato
(ivi).
In base a tale prospettazione,
uno specifico onere motivazionale a
sostegno dell’autotutela può essere imposto
all’amministrazione soltanto laddove
l’esercizio dell’autotutela discenda da
errori di valutazione imputabili alla stessa
amministrazione
(in tal senso: Cons. Stato, sent. 5691 del
2012, cit.).
7.2. In base a un secondo orientamento
(più recente e allo stato minoritario),
anche nel caso di annullamento ex
officio di titoli edilizi in sanatoria
dovrebbero trovare integrale applicazione i
generali presupposti legali di cui
all’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990, non potendo l’amministrazione fondare
l’adozione dell’atto di ritiro sul mero
intento di ripristinare la legalità violata
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id.,
IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che l’esercizio
del potere di annullamento d’ufficio postula
l’apprezzamento di un presupposto –per così
dire– ‘rigido’ (l’illegittimità
dell’atto da annullare) e di due ulteriori
presupposti riferiti a concetti
indeterminati, da apprezzare
discrezionalmente dall’amministrazione (si
tratta della ragionevolezza del termine di
esercizio del potere di ritiro e
dell’interesse pubblico alla rimozione,
unitamente alla considerazione
dell’interesse dei destinatari
–Cons. Stato, VI, 27.01.2017, n. 341-).
In base all’orientamento in parola,
il fondamento di tali ulteriori
presupposti va individuato nella garanzia
della tutela dell’affidamento dei
destinatari circa la certezza e la stabilità
degli effetti giuridici prodotti dal
provvedimento illegittimo, mediante una
valutazione discrezionale volta alla ricerca
del giusto equilibrio tra il ripristino
della legalità violata e la conservazione
dell’assetto regolativo impresso dal
provvedimento viziato.
La richiamata sentenza n. 341 del 2017
ha altresì affermato il generale
obbligo per l’amministrazione la quale
intenda procedere all’annullamento ex
officio di un provvedimento di sanatoria di
opere abusive di operare un motivato
bilanciamento fra (da un lato) l’interesse
pubblico al ripristino della legalità
violata e (dall’altro) l’interesse dei
destinatari al mantenimento dello status
quo ante (interesse viepiù rafforzato
dall’affidamento legittimo determinato
dall’adozione dell’atto e dal decorso del
tempo).
La decisione in parola ha inoltre stabilito
che la motivata
ponderazione fra i diversi interessi in
gioco risulti tanto più necessaria nel caso
di atti di ritiro di titoli edilizi, i quali
sono destinati ad esaurirsi con l’adozione
dell’atto ampliativo, palesando una scelta
legislativa volta a riconoscere maggiore
rilevanza all’interesse dei privati
destinatari dell’atto e minore rilevanza
all’interesse pubblico alla rimozione
dell’atto i cui effetti si sono ormai
prodotti in via definitiva.
8.
Tanto premesso dal punto di vista generale,
il Collegio ritiene di esaminare la
questione sottoposta secondo una precisa
sequenza logico-sistematica:
- in primo luogo occorrerà domandarsi se l’annullamento
ex officio di un titolo edilizio in
sanatoria presupponga –sulla base di
generali principi trasfusi nella previsione
dell’articolo 21-nonies, cit.– la motivata
valutazione dell’interesse pubblico al
ripristino della legalità violata, anche
alla luce degli interessi dei destinatari
alla permanenza di effetti di tale titolo,
ovvero se in tale particolare materia possa
affermarsi la non necessità di un siffatto
onere motivazionale, sussistendo un
interesse pubblico in re ipsa al
ripristino dell’ordine giuridico violato;
- in secondo luogo (e laddove si considerino applicabili al
caso che ne occupa le generali categorie di
cui all’articolo 21-nonies, cit.) ci si
domanderà se il decorso di un considerevole
lasso di tempo possa incidere in radice sul
potere di annullamento d’ufficio e quale sia
il corretto dies a quo per
l’individuazione del termine ‘ragionevole’
di esercizio di tale potere;
- in terzo luogo (e sempre laddove si considerino
applicabili al caso in esame le richiamate,
generali categorie) ci si domanderà se
l’onere motivazionale comunque gravante
sull’amministrazione possa restare in
qualche misura attenuato in ragione della
rilevanza degli interessi pubblici tutelati;
- in quarto luogo ci si domanderà se la non veritiera
prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto sottese
all’adozione dell’iniziale provvedimento
favorevole consenta comunque di configurare
in capo a lui una posizione di affidamento
incolpevole e se (in caso negativo)
l’amministrazione possa adeguatamente
motivare l’adozione dell’atto di
annullamento in base al mero dato
dell’originaria, inveritiera prospettazione.
9. Ebbene, prendendo le mosse dal primo dei
richiamati quesiti, questa
Adunanza plenaria ritiene che le generali
categorie in tema di annullamento ex
officio di atti amministrativi
illegittimi trovino applicazione (in assenza
di indici normativi in senso contrario)
anche nel caso di ritiro di titoli edilizi
in sanatoria illegittimamente rilasciati,
non potendosi postulare in via generale e
indifferenziata un interesse pubblico in
re ipsa alla rimozione di tali atti.
Conseguentemente, grava in
via di principio sull’amministrazione (e
salvo quanto di seguito si preciserà)
l’onere di motivare puntualmente in ordine
alla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla rimozione dell’atto,
tenendo altresì conto dell’interesse del
destinatario al mantenimento dei relativi
effetti.
9.1. Non si tratta qui di negare l’evidente
esigenza di un deciso contrasto al grave e
diffuso fenomeno dell’abusivismo edilizio,
che deve essere fronteggiato con strumenti
efficaci e tempestivi e con la piena
consapevolezza delle gravi implicazioni che
esso presenta in relazione a svariati
interessi di rilievo costituzionale (quali
la salvaguardia del territorio e del
paesaggio, nonché la tutela della pubblica
incolumità).
Occorre tuttavia responsabilizzare le
amministrazioni all’adozione di un contegno
chiaro e lineare, tendenzialmente fondato
sullo scrupoloso esame delle pratiche di
sanatoria o comunque di permesso di
costruire già rilasciato, e sul diniego
ex ante di istanze che si rivelino
infondate, nonché sull’obbligo di serbare
–in caso di provvedimenti di sanatoria già
rilasciati– un atteggiamento basato sul
generale principio di clare loqui.
Se infatti è certamente condivisibile
l’intento di agevolare le amministrazioni
nel contrastare anche ex post
l’abusivismo edilizio (consentendo loro di
motivare anche in modo sintetico in ordine
alla prevalenza delle ragioni di interesse
pubblico sottese all’annullamento dei
provvedimenti di sanatoria illegittimamente
concessi), non emergono invece argomenti che
legittimino la sostanziale
de-responsabilizzazione delle
amministrazioni stesse attraverso una
radicale e indistinta esenzione dal generale
obbligo di motivazione.
Si osserva al riguardo che l’incondizionata
adesione alla (pur suggestiva) formula
dell’interesse pubblico in re ipsa
può produrre effetti distorsivi, consentendo
in ipotesi-limite all’amministrazione -la
quale abbia comunque errato nel rilascio di
una sanatoria illegittima– dapprima di
restare inerte anche per un lungo lasso di
tempo e poi di adottare un provvedimento di
ritiro privo di alcuna motivazione, in tal
modo restando pienamente
de-responsabilizzata nonostante una triplice
violazione dei principi di corretta gestione
della cosa pubblica.
Si osserva inoltre che, nel corso del tempo,
la richiamata formula dell’interesse
pubblico in re ipsa ha assunto talora
una connotazione assiologica, inducendo ad
annettere un valore in sé all’annullamento
del titolo in sanatoria illegittimo, perfino
se fondato su profili di illegittimità di
carattere meramente formale o
procedimentale.
Ma il punto è che, in siffatte ipotesi, non
è predicabile un effettivo ed immanente
interesse pubblico alla rimozione di un atto
(la sanatoria illegittima) che non si pone
in contrasto in termini sostanziali con la
pertinente disciplina edilizia e urbanistica
(e quindi con il complesso di valori cui
tale disciplina presiede), ma risulta
viziato soltanto in relazione ad aspetti
formali o procedimentali, non giustificando
in definitiva –e pure in presenza di un atto
illegittimo– il riconoscimento di un
interesse pubblico in re ipsa
all’adozione dell’atto di ritiro.
Si tratta, del resto, di un aspetto che è
stato in tempi recenti puntualmente preso in
considerazione dal Legislatore il quale ha
escluso che l’annullamento ex officio di un
atto illegittimo possa essere disposto nel
caso delle illegittimità cc.dd. non
invalidanti di cui al comma 2 dell’articolo
21-octies della l. 241 del 1990 (in tal
senso la modifica al comma 2 dell’articolo
21-nonies, cit., disposta dall’articolo 25 ,
comma 2, lettera b-quater), del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133).
9.2. Sempre restando sugli argomenti
desumibili dal diritto positivo, è rilevante
osservare che il legislatore ha in tempi
recenti espunto dall’ordinamento la
disposizione che rappresentava il più
evidente richiamo alla nozione di interesse
pubblico in re ipsa.
In particolare, è noto che il comma 2
dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124
ha espressamente abrogato il comma 136
dell’articolo 1 della l. 30.12.2004, n. 311
(il quale consentiva in ogni tempo alle
amministrazioni pubbliche di disporre
l’annullamento d’ufficio di provvedimenti
amministrativi illegittimi, anche se
l'esecuzione degli stessi fosse ancora in
corso, a condizione che tale annullamento
mirasse “al fine di conseguire risparmi o
minori oneri finanziari”).
9.3. Si osserva poi che il riconoscimento di
un interesse pubblico al ripristino della
legalità violata (la cui sussistenza è di
intuitiva evidenza, anche a notevole
distanza di tempo dall’originaria adozione
dell’atto) non sta necessariamente a
significare che tale interesse sia l’unico
fattore idoneo a orientare le scelte
discrezionali dell’amministrazione in caso
di risalenti violazioni in materia
urbanistica, sì da esonerare in radice
l’amministrazione da qualunque motivata
valutazione in ordine ad ulteriori fattori e
circostanze rilevanti.
Si intende con ciò rappresentare che la
sussistenza di un interesse pubblico alla
rimozione di un atto amministrativo
illegittimo (anche a prescindere dal ricorso
alla formula dell’interesse in re ipsa)
è oggettivamente connaturata alla rilevata
sussistenza di una situazione antigiuridica.
Ma ciò non sta a significare che il
riconoscimento di un tale interesse
(peraltro, espressamente richiamato dal
comma 1 del più volte richiamato articolo
21-nonies) comporti di per sé la
pretermissione di ogni altra circostanza
rilevante (come gli interessi dei
destinatari dell’atto, di cui la
disposizione chiede espressamente di tener
conto) ed esoneri l’amministrazione da
qualunque –seppur succintamente motivata-
valutazione sul punto.
Una cosa è infatti la tendenziale prevalenza
dell’interesse pubblico al ripristino
dell’ordine giuridico rispetto agli altri
interessi rilevanti; ben altra cosa è la
radicale pretermissione, anche ai fini
motivazionali, di tali ulteriori circostanze
attraverso una loro innaturale espunzione
dalla fattispecie (e tanto, in distonia con
la generale previsione di cui all’articolo
21-nonies, cit. il quale –con previsione
applicabile anche al settore che ne occupa-
impone al contrario una considerazione degli
elementi sopra indicati).
9.4. Si osserva ancora che la tesi
dell’interesse pubblico in re ipsa
all’annullamento in autotutela del titolo
edilizio illegittimo presenta rilevanti
quanto evidenti aspetti di contiguità
sistematica con la teorica dell’inconsumabilità
del potere (o di quella che un risalente
orientamento ebbe a definire “la
perennità della potestà amministrativa di
annullare in via di autotutela gli atti
invalidi” –in tal senso: Cons. Stato, II,
07.06.1995, n. 2917/94-).
Ma è altresì evidente che quella teorica
(predicabile senza riserve in periodi
caratterizzati dalla prevalenza del momento
autoritativo nei rapporti fra
amministrazione e cittadino e dal
sostanziale privilegio riconosciuto
all’amministrazione in sede di esercizio
dell’autotutela) debba essere almeno in
parte rimeditata nell’attuale fase di
evoluzione di sistema, che postula una
sempre maggiore attenzione al valore della
certezza delle situazioni giuridiche e alla
tendenziale attenuazione dei privilegi
riconosciuti all’amministrazione, anche
quando agisce con poteri squisitamente
autoritativi e nel perseguimento di primarie
finalità di interesse pubblico.
Si osserva inoltre che, laddove si aderisse
senza riserve alla tesi dell’interesse
pubblico in re ipsa (e
conseguentemente alla teorica dell’inconsumabilità
del relativo potere), si finirebbe per
legittimare nel settore che qui rileva –e in
assenza di un solido fondamento normativo–
un assetto in tema di presupposti per
l’esercizio dell’autotutela decisoria tale
da espungere in via ermeneutica due elementi
normativamente indefettibili quali la
ragionevolezza del termine e la motivata
valutazione dei diversi interessi in gioco.
Si osserva infine che, a ben vedere, la
teorica dell’interesse in re ipsa
all’annullamento in autotutela del titolo
edilizio illegittimo, laddove condivisa,
finirebbe per rendere nei fatti vincolato
l’esercizio del potere di autotutela che un
consolidato orientamento giurisprudenziale
(prima) e un’espressa previsione di legge
(poi) hanno delineato come tipico potere
discrezionale dell’amministrazione.
Ed infatti, una volta affermata la
sussistenza di un interesse pubblico in
re ipsa al ripristino della legittimità
violata, non residuerebbero in alcun caso
effettivi spazi per l’amministrazione per
non esercitare il proprio ius poenitendi
attraverso l’annullamento d’ufficio.
L’amministrazione non potrebbe valutare a
tal fine né il decorso del tempo (inidoneo,
nell’ottica in esame, ad attenuare la
prevalenza dell’interesse pubblico al
ripristino), né la sussistenza di un
interesse pubblico in senso contrario (il
quale sarebbe per definizione insussistente,
a meno di voler determinare un vero e
proprio ossimoro), né –infine– l’interesse
del privato destinatario dell’atto, che non
potrebbe in alcun caso essere valorizzato
neppure nell’ottica del legittimo
affidamento.
9.5. E’ necessario riconoscere che il
Legislatore (pur consapevole della gravità e
diffusività del fenomeno dell’abusivismo
edilizio e della frequente inadeguatezza
delle risorse messe in campo dalle
amministrazioni locali per fronteggiarlo)
non ha tutt’oggi approntato una speciale
disciplina in tema di presupposti e
condizioni per l’adozione dell’annullamento
ex officio di titoli edilizi, in tal
modo giustificando un orientamento volto a
riconoscere anche in tali ipotesi la
generale valenza dell’articolo 21-nonies
della l. 241 del 1990.
Invero, il Legislatore ha talora
disciplinato in modo peculiare le ipotesi di
c.d. ‘illegittimità sopravvenuta’
dell’intervento edilizio (in particolare,
nel caso di annullamento ex officio o
in sede giurisdizionale di un titolo
edilizio ab origine sussistente),
fissando peraltro un apparato sanzionatorio
tendenzialmente meno afflittivo di quello
previsto per le ipotesi di interventi ab
origine abusivi (in tal senso l’articolo
38 del d.P.R. 06.062001, n. 380, il quale
corrisponde in larga parte alle pregresse
previsioni dell’articolo 15 della l.
28.01.1977, n. 10 e dell’articolo 11 della
l. 28.02.1985, n. 47).
Tuttavia, anche in tali ipotesi il
Legislatore si è limitato a disciplinare in
modo puntuale le sole conseguenze
dell’annullamento del titolo edilizio, ma
non anche i relativi presupposti, condizioni
e modalità, che restano quindi assoggettati
(per quanto riguarda l’annullamento
d’ufficio) alla disciplina generale di cui
all’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990, ivi compresi i profili motivazionali.
9.6. Concludendo sul punto, si osserva che,
per le vicende sorte nella vigenza
dell’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990 –per come introdotto dalla l. 15 del
2005-, l’annullamento d’ufficio di un titolo
edilizio anche in sanatoria, intervenuto ad
una distanza temporale considerevole dal
titolo medesimo, deve essere motivato in
relazione alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale all’adozione
dell’atto di ritiro, tenuto conto degli
interessi dei privati destinatari del
provvedimento sfavorevole, non potendosi
predicare in via generale la sussistenza di
un interesse pubblico in re ipsa alla
rimozione in autotutela di tale atto.
10. E’ ora possibile passare alla disamina
del secondo dei quesiti
sub 8 al fine di stabilire se, pur in
assenza di puntuali prescrizioni di legge
che dispongano in tal senso, il decorso di
un considerevole lasso di tempo possa
incidere significativamente sul potere di
annullamento d’ufficio e quale sia il
corretto dies a quo per
l’individuazione del termine ‘ragionevole’
di esercizio di tale potere.
10.1. Esaminando la questione nei suoi
aspetti generali e sistematici, è innegabile
che, anche nel diritto amministrativo, il
tempo venga in rilievo -tanto nelle sue
singole frazioni, tanto nel suo continuo
trascorrere– determinando la costituzione,
la modificazione e l’estinzione di
situazioni giuridiche.
Secondo un consolidato orientamento,
infatti, il tempo rientra nella categoria
dei fatti giuridici oggettivi ed è idoneo a
sortire i propri effetti sui rapporti
giuridici (anche di matrice pubblicistica)
indipendentemente dall’atteggiamento
psicologico dei soggetti interessati.
L’incidenza del decorso del tempo nei
rapporti di diritto pubblico opera tanto sul
versante dei poteri esercitabili
dall’amministrazione, quanto su quello delle
posizioni giuridiche riconosciute ai
privati.
Per quanto riguarda il primo aspetto ci si
limiterà qui a richiamare le previsioni
normative che connettono a carico
dell’amministrazione un effetto decadenziale
quale conseguenza del mancato esercizio del
potere entro un torno temporale
normativamente stabilito: si pensi ai
termini –perentori– per l’avvio e la
conclusione dei procedimenti sanzionatori
amministrativi.
Si pensi altresì al rilievo che il decorso
del tempo sortisce sul potere di provvedere
nelle ipotesi legali di silenzio
significativo e all’invalidità che colpisce
il provvedimento tardivamente adottato
rispetto ai termini in parola.
Per quanto riguarda poi l’incidenza del
decorso del tempo sulle posizioni giuridiche
dei privati nei rapporti di diritto pubblico
basterà qui richiamare la tradizionale
ipotesi della decadenza per decorso del
tempo quale conseguenza del mancato
esercizio delle facoltà inerenti ad un
rapporto derivante da un provvedimento
amministrativo (si pensi al caso della
decadenza del permesso di costruire per
mancato rispetto dei termini legali per
l’inizio dei lavori e per il completamento
dell’opera).
Si pensi inoltre alla previsione di cui
all’articolo 2934, primo comma del cod. civ.
(secondo cui “ogni diritto si estingue
per prescrizione, quando il titolare non lo
esercita per il tempo determinato dalla
legge”), la quale trova applicazione
anche nei rapporti con la pubblica
amministrazione.
D’altro canto, è innegabile che la
particolare configurazione dell’ordinamento
pubblicistico nazionale riconosca taluni
temperamenti al generale principio della
consumabilità delle posizioni giuridiche per
effetto del decorso del tempo.
Basti richiamare al riguardo la previsione,
in ambito pubblicistico, di numerosi diritti
indisponibili, ai quali è connesso il
carattere della imprescrittibilità ai sensi
dell’articolo 2934, cpv. cod. civ. (si pensi
al carattere di imprescrittibilità dei
diritti sui beni sottoposti al regime
demaniale).
10.2. Occorre a questo punto esaminare in
che modo il principio della modificabilità
delle posizioni giuridiche per effetto del
decorso del tempo (e i relativi temperamenti
in ambito amministrativo) siano stati
declinati nel settore –che qui viene in
rilievo– dell’esercizio dell’autotutela
decisoria da parte dell’amministrazione.
10.3. Si è già ricordato al riguardo che un
pregresso quanto risalente orientamento
predicava la sostanziale perennità della
potestà amministrativa di annullare in
autotutela gli atti invalidi.
La successiva evoluzione dell’ordinamento
pubblicistico si è mossa in chiave di
maggiore protezione per i soggetti incisi
dall’esplicazione del potere di autotutela
e, prima ancora che la l. 15 del 2005
legificasse le principali acquisizioni in
materia, la giurisprudenza amministrativa
aveva già temperato il richiamato principio
di perennità predicando invece la necessità
che l’annullamento e la revoca
intervenissero entro un termine ragionevole
(sul punto –ex multis-: Cons. Stato,
VI, 15.11.1999, n. 1812; id., V, 20.08.1996,
n. 939).
Il richiamo alla ragionevolezza del termine,
tuttavia, non stava a significare che il
decorso di un lasso temporale
particolarmente ampio consumasse in via
definitiva il potere di riesame da parte
dell’amministrazione, quanto –piuttosto– che
tale circostanza imponesse una valutazione
via via più accorta fra l’interesse pubblico
al ritiro dell’atto illegittimo e il
complesso delle altre circostanze e
interessi rilevanti (e, in primis,
quello del destinatario del provvedimento
illegittimo – in ipotesi a lui favorevole il
quale maturava, per effetto del decorso del
tempo, un affidamento legittimo alla
permanenza dell’assetto di interessi
delineato dal provvedimento medesimo).
In definitiva, l’evoluzione dell’ordinamento
pubblicistico ha comportato che il decorso
del tempo condizioni in modo rilevante le
modalità di esercizio del potere di
autotutela.
10.4. Ciò non esclude, proprio nella materia
che ne occupa, che esistano disposizioni che
testimoniano la possibilità per
l’amministrazione di disporre l’annullamento
del titolo edilizio anche dopo un
apprezzabile lasso di tempo dall’adozione
del titolo medesimo.
Ci si riferisce in particolare all’articolo
39 del d.P.R. 380 del 2001 che consente alla
Regione di annullare entro dieci anni “le
deliberazioni ed i provvedimenti comunali
che autorizzano interventi non conformi a
prescrizioni degli strumenti urbanistici o
dei regolamenti edilizi o comunque in
contrasto con la normativa
urbanistico-edilizia vigente al momento
della loro adozione” (è qui appena il
caso di osservare che il più risalente
antecedente storico di tale previsione
–l’articolo 27 della l. 17.08.1942, n. 1150–
riconosceva tale potere di annullamento “in
qualunque tempo”).
Un condiviso orientamento ha al riguardo
peraltro chiarito che il potere in questione
non è ascrivibile al novero delle attività
di controllo, rappresentando –piuttosto–
puntuale espressione del ruolo partecipativo
della Regione nella complessiva azione di
governo del territorio.
10.5. Deve quindi concludersi nel senso che,
in relazione alle vicende sorte nella
vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di
un considerevole lasso di tempo dal rilascio
del titolo edilizio non incide in radice sul
potere di annullare in autotutela il titolo
medesimo, ma onera l’amministrazione del
compito di valutare motivatamente se
l’annullamento risponda ancora a un
effettivo e prevalente interesse pubblico di
carattere concreto e attuale.
10.6. La locuzione ‘termine ragionevole’
richiama evidentemente un concetto non
parametrico ma relazionale, riferito al
complesso delle circostanze rilevanti nel
caso di specie.
Si intende con ciò rappresentare che la
nozione di ragionevolezza del termine è
strettamente connessa a quella di
esigibilità in capo all’amministrazione,
ragione per cui è del tutto congruo che il
termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’)
decorra soltanto dal momento in cui
l’amministrazione è venuta concretamente a
conoscenza dei profili di illegittimità
dell’atto.
In particolare, in caso di
titoli abilitativi rilasciati sulla base di
dichiarazioni oggettivamente non veritiere
(e a prescindere dagli eventuali risvolti di
ordine penale), laddove la fallace
prospettazione abbia sortito un effetto
rilevante ai fini del rilascio del titolo, è
parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’
decorra solo dal momento in cui
l’amministrazione ha appreso della
richiamata non veridicità.
Si tratta del resto (e ai limitati fini che
qui rilevano) di un’impostazione del tutto
coerente con il nuovo comma 2-bis
dell’articolo 21-nonies, cit. (per come
introdotto con la novella del 2015), secondo
cui “i provvedimenti amministrativi
conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione
e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato,
possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza
del termine di diciotto mesi di cui al comma
1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni
penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 28.12.2000,
n. 445” (si osserva anzi che la nuova
disposizione neppure richiama per tali
ipotesi la nozione di ragionevolezza del
termine, limitandosi a stabilire che in tali
casi l’annullamento possa essere disposto
dopo la scadenza del generale termine di
diciotto mesi).
11. E’ ora possibile passare all’esame del
terzo dei quesiti dinanzi
richiamati
sub 8 e domandarsi se l’onere motivazionale
comunque gravante sull’amministrazione nel
caso di annullamento in autotutela del
titolo edilizio in precedenza adottato possa
restare in qualche misura attenuato in
ragione della rilevanza degli interessi
pubblici tutelati.
Al quesito deve essere fornita risposta in
senso affermativo alla luce della pregnanza
degli interessi pubblici sottesi alla
disciplina in materia edilizia e alla
prevalenza che deve essere riconosciuta ai
valori che essa mira a tutelare.
Vero è infatti che –per le ragioni dinanzi
esposte– il decorso del tempo onera
l’amministrazione che intenda procedere
all’annullamento in autotutela di un titolo
edilizio illegittimo di motivare
puntualmente in ordine alle ragioni di
interesse pubblico sottese all’annullamento
e alla valutazione degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati. E’
parimenti vero, però, che tale onere
motivazionale non muta il rilievo relativo
da riconoscere all’interesse pubblico e la
preminenza che deve essere riconosciuta al
complesso di interessi e valori sottesi alla
disciplina edilizia e urbanistica.
Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo
edilizio illegittimamente rilasciato in area
interessata da un vincolo di inedificabilità
assoluta o caratterizzata da un grave
rischio sismico: in tali ipotesi la
motivazione dell’atto di ritiro potrà essere
legittimamente fondata sul richiamo
all’inderogabile disciplina vincolistica
oggetto di violazione, ben potendo tale
richiamo assumere un rilievo preminente in
ordine al complesso di interessi e di valori
sottesi alla fattispecie.
Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e
laddove venga in rilievo la tutela di
preminenti valori pubblici di carattere –per
così dire– ‘autoevidente’), l’onere
motivazionale gravante sull’amministrazione
potrà dirsi soddisfatto attraverso il
richiamo alle pertinenti circostanze in
fatto e il rinvio alle disposizioni di
tutela che risultano in concreto violate le
quali normalmente possano integrare le
ragioni di interesse pubblico che depongono
nel senso dell’esercizio del ius
poenitendi.
Non pare quindi condivisibile la tesi
(talora affermata dalla giurisprudenza anche
di questo Consiglio) secondo cui, anche in
sede di motivazione dell’annullamento in
autotutela di titoli edilizi illegittimi,
occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza
all’interesse dei privati destinatari
dell’atto ampliativo e minore rilevanza
all’interesse pubblico alla rimozione
dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai
prodotti in via definitiva.
11.1. Si osserva inoltre che
l’onere motivazionale richiesto
all’amministrazione in sede di adozione
dell’atto di ritiro risulterà altresì
agevolato nelle ipotesi in cui la non
veritiera prospettazione dei fatti rilevanti
da parte del soggetto interessato abbia
sortito un rilievo determinante per
l’adozione dell’atto illegittimo
Se infatti è vero in via generale che il
potere della P.A. di annullare in via di
autotutela un atto amministrativo
illegittimo incontra un limite generale nel
rispetto dei principi di buona fede,
correttezza e tutela dell’affidamento
comunque ingenerato dall’iniziale adozione
dell’atto (i quali plasmano il conseguente
obbligo motivazionale), è parimenti vero che
le medesime esigenze di tutela non possono
dirsi sussistenti qualora il contegno del
privato abbia consapevolmente determinato
una situazione di affidamento non legittimo.
In tali casi l’amministrazione potrà
legittimamente fondare l’annullamento in
autotutela sulla rilevata non veridicità
delle circostanze a suo tempo prospettate
dal soggetto interessato, in capo al quale
non sarà configurabile una posizione di
affidamento legittimo da valutare in
relazione al concomitante interesse
pubblico.
12. Le considerazioni appena svolte
consentono di passare all’esame della
quarta delle questioni dinanzi
richiamate
(se, cioè, la non veritiera prospettazione
da parte del privato delle circostanze in
fatto e in diritto sottese all’adozione
dell’iniziale provvedimento favorevole
consentano comunque di configurare in capo a
lui una posizione di affidamento incolpevole
e se -in caso negativo- l’amministrazione
possa adeguatamente motivare l’adozione
dell’atto di annullamento sul mero dato
dell’originaria, inveritiera prospettazione).
Al primo di tali quesiti deve essere fornita
risposta negativa, non potendosi affermare
(per le ragioni già esposte sub 11.1) la
sussistenza di un affidamento legittimo e
incolpevole al mantenimento dello status quo
ante in capo al soggetto il quale abbia
determinato, attraverso la non veritiera
prospettazione delle circostanze rilevanti,
l’adozione di un atto illegittimo a lui
favorevole.
Né può deporre in favore del maturare di uno
stato di affidamento incolpevole il contegno
negligente ed erroneo dell’amministrazione
la quale non abbia tempestivamente rilevato
l’oggettiva falsità delle circostanze
rappresentate.
12.1. La giurisprudenza di questo Consiglio
ha condivisibilmente stabilito al riguardo
che non sussiste l’esigenza di tutelare
l’affidamento di chi abbia ottenuto un
titolo edilizio –anche in sanatoria–
rappresentando elementi non veritieri, e ciò
anche qualora intercorra un considerevole
lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento
repressivo dell’amministrazione (in tal
senso: Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198;
id., V, 13.05.2014, n. 2451).
12.2. La giurisprudenza di questo Consiglio
ha inoltre stabilito (in modo parimenti
condivisibile) che non può essere
configurato alcun affidamento legittimo, in
specie ai fini risarcitori, il quale risulti
fondato su un provvedimento illegittimo. Si
è osservato al riguardo che può essere non
più opportuno far luogo all’annullamento in
autotutela, in considerazione del tempo
trascorso e degli interessi dei destinatari
e dei controinteressati; ma quando tali
condizioni sono rispettate non vi è spazio
per la tutela patrimoniale (in tal senso –ex
multis -: Cons. Stato, VI, 27.09.2016,
n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola
risultano valide ai fini risarcitori e a
fronte di illegittimità imputabili
all’amministrazione, esse risulteranno tanto
più condivisibili nel caso in cui
l’illegittimità dell’atto sia stata
determinata dalla non veritiera
prospettazione dei fatti rinveniente dal
soggetto che si sarebbe in seguito
avvantaggiato dell’errore
dell’amministrazione.
In tali ipotesi (e per le ragioni già
esposte retro, sub 11 e 11.1)
l’amministrazione potrà adeguatamente
motivare l’adozione dell’atto di
annullamento sul mero dato dell’originaria,
non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a
prescindere dai profili di rilevanza
penale), l’oggettiva
falsità della prospettazione dei fatti
rilevanti e la sua incidenza ai fini
dell’adozione dell’atto illegittimo non
consentiranno di configurare una posizione
di affidamento legittimo e consentiranno
all’amministrazione di limitare l’onere
motivazionale alla dedotta falsità, non
sussistendo un interesse privato meritevole
di tutela da porre in comparazione con
quello pubblico (comunque sussistente) al
ripristino della legalità violata.
13. In conclusione l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato enuncia il seguente
principio di diritto: “nella
vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241
del 1990 –per come introdotto dalla l. 15
del 2005- l’annullamento d’ufficio di un
titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad
una distanza temporale considerevole dal
provvedimento annullato, deve essere
motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale
all’adozione dell’atto di ritiro anche
tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell’annullamento
d’ufficio e che, in ogni caso, il termine
‘ragionevole’ per la sua adozione decorra
soltanto dal momento della scoperta, da
parte dell’amministrazione, dei fatti e
delle circostanze posti a fondamento
dell’atto di ritiro;
ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione
risulterà attenuato in ragione della
rilevanza e autoevidenza degli interessi
pubblici tutelati (al punto che, nelle
ipotesi di maggior rilievo, esso potrà
essere soddisfatto attraverso il richiamo
alle pertinenti circostanze in fatto e il
rinvio alle disposizioni di tutela che
risultano in concreto violate, che
normalmente possano integrare, ove
necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell’esercizio del
ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a
fondamento dell’atto illegittimo a lui
favorevole non consente di configurare in
capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui
l’onere motivazionale gravante
sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte”. |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
5 del D.lgs. 33/2013, modificato dal D.lgs.
97/2016, ha introdotto nel nostro
ordinamento l’istituto dell’accesso civico a
dati e documenti. Risulta utile riportare il
testo della disposizione, in particolare i
commi 1 e 2.
Le fattispecie di cui al comma 1 e al comma
2 dell’art. 5 sono diverse: mentre il
comma 1 riguarda documenti, informazioni
o dati per i quali è previsto l’obbligo
normativo della pubblicazione, il comma 2
invece riguarda dati e documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione
ai sensi del decreto. La distinzione
riguarda l’ambito oggettivo di applicazione
dell’istituto, ma non quello soggettivo,
potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso
civico, di cui al primo comma, sia quello
c.d. generalizzato, di cui al secondo
comma.
L’accesso generalizzato –introdotto dal
D.lgs. n. 97/2016– ha la sua ratio nella
dichiarata finalità di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico.
Posta questa finalità, l’istituto, che
costituisce uno strumento di tutela dei
diritti dei cittadini e di promozione della
partecipazione degli interessati
all’attività amministrativa (cfr. art. 1
D.lgs. 33/2013, come modificato dall’art. 2
D.lgs. 97/2016), non può essere utilizzato
in modo disfunzionale rispetto alla predetta
finalità ed essere trasformato in una causa
di intralcio al buon funzionamento
dell’amministrazione.
La valutazione dell’utilizzo secondo buona
fede va operata caso per caso, al fine di
garantire –in un delicato bilanciamento
che, da un lato, non venga obliterata
l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo
stesso non determini una sorta di effetto
“boomerang” sull’efficienza
dell’Amministrazione.
---------------
Nel caso di specie l’istanza di accesso di
cui è causa, volta ad ottenere “tutte le
determinazioni complete degli allegati
emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i
responsabili dei servizi nell’anno 2016”
costituisce una manifestazione
sovrabbondante, pervasiva e, in ultima
analisi, contraria a buona fede
dell’istituto dell’accesso generalizzato.
Non è passibile di censura, ad avviso del
Collegio, la motivazione del diniego
espressa dal Comune laddove ha ritenuto di
rinvenire nell’istanza del ricorrente
un’ipotesi di “richiesta massiva”, così come
definita dalle Linee Guida adottate
dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
con
determinazione 28.12.2016 n. 1309,
che impone un facere straordinario, capace
di aggravare l’ordinaria attività
dell’Amministrazione.
La richiesta di tutte le determinazioni di
tutti i responsabili dei servizi del Comune
assunte nel 2016 implica necessariamente
l’apertura di innumerevoli subprocedimenti
volti a coinvolgere i soggetti
controinteressati.
---------------
Sotto un profilo generale il Collegio
ritiene debba essere richiamato il principio
di buona fede e del correlato divieto di
abuso del diritto.
Il dovere di buona fede, previsto dall'art.
1175 del c.c., alla luce del parametro di
solidarietà, sancito dall'art. 2 della
Costituzione e dalla Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea, si pone,
secondo i più recenti approdi di dottrina e
giurisprudenza, non più solo come criterio
per valutare la condotta delle parti
nell'ambito dei rapporti obbligatori, ma
anche come canone per individuare un limite
alle richieste e ai poteri dei titolari di
diritti, anche sul piano della loro tutela
processuale.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto
modo di precisare che l’abuso del diritto si
configura in presenza dei seguenti elementi
costitutivi: “…1) la titolarità di un
diritto soggettivo in capo ad un soggetto;
2) la possibilità che il concreto esercizio
di quel diritto possa essere effettuato
secondo una pluralità di modalità non
rigidamente predeterminate; 3) la
circostanza che tale esercizio concreto,
anche se formalmente rispettoso della
cornice attributiva di quel diritto, sia
svolto secondo modalità censurabili rispetto
ad un criterio di valutazione, giuridico od
extragiuridico; 4) la circostanza che, a
causa di una tale modalità di esercizio, si
verifichi una sproporzione ingiustificata
tra il beneficio del titolare del diritto ed
il sacrifico cui è soggetta la controparte”.
Alla luce di tali principi, il Collegio è
dell’avviso che l’istanza del ricorrente
–anche tenuto conto delle precedenti istanze
e di quelle successive– costituisca un abuso
dell’istituto, in quanto irragionevole e
sovrabbondante. Va peraltro osservato che
ciò che le Linee Guida dell’ANAC (ndr:
determinazione 28.12.2016 n. 1309)
qualifica come “richieste massive”, e che
giustifica, con adeguata motivazione, il
rigetto dell’istanza, altro non è che la
declinazione del principio di divieto di
abuso del diritto e di violazione del
principio di buona fede.
---------------
I) Con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente espone di
aver presentato al Comune di Broni in data
01.03.2017 istanza di accesso civico tesa ad
ottenere copia su supporto informatico «di
tutte le determinazioni complete degli
allegati emanate nel corso dell’anno 2016 da
tutti i Responsabili dei servizi nell’anno
2016», in quanto non pubblicate
integralmente dal Comune di Broni.
Il Comune di Broni con la nota prot. n. 4184
del 06.03.2017, pervenuta al ricorrente in
data 10.03.2017, chiedeva di specificare se
l’istanza sostanziasse un accesso civico “semplice",
ai sensi del comma 1 dell’art. 5 del D.lgs.
33/2013, ovvero un accesso "generalizzato"
ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
Il ricorrente, con successiva nota e diffida
ad adempiere, ricevuta dal Comune di Broni
in data 13.03.2017, precisava che l’istanza
di accesso civico era formulata ai sensi del
comma 2 dell’art. 5 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33.
Il Comune di Broni con nota prot. n. 5013
del 20.03.2017 comunicava il preavviso di
diniego in quanto, essendo l’istanza
formulata ai sensi del comma 2 dell’art. 5,
la stessa era da considerarsi “massiva”
e manifestamente irragionevole secondo le
Linee Guida approvate dall’ANAC.
Il ricorrente, con la successiva nota di
osservazioni e diffida ad adempiere del
27.03.2017, formulava le proprie
controdeduzioni.
Indi il Comune di Broni con nota prot. n.
5853 del 03.04.2017 comunicava il diniego
definitivo.
Il ricorrente formulava richiesta di riesame
con nota del 10.04.2017.
Il responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza del Comune di
Broni, sentito il Garante per la protezione
dei dati personali (ndr:
provvedimento 27.04.2017 n. 206),
ai sensi dell’art. 5, comma 7, del D.lgs.
33/2013, respingeva la richiesta di riesame
confermando il diniego definitivo con atto
prot. n. 7396 del 02.05.2017.
Avverso i predetti atti l’interessato
proponeva, ai sensi dell’art. 116 c.p.a., il
ricorso indicato in epigrafe.
Si costituiva in giudizio il Comune di Broni
resistendo al ricorso e chiedendone il
rigetto.
Alla camera di consiglio del 12.09.2017 la
causa è stata chiamata e trattenuta in
decisione.
...
III) Nel merito il ricorso è infondato e va respinto.
Il ricorrente, dopo aver presentato al
Comune di Broni in data 01.03.2017 istanza
di accesso civico, volta ad ottenere “tutte
le determinazioni complete degli allegati
emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i
responsabili dei servizi nell’anno 2016, non
pubblicate in modo integrale” ha
precisato con la nota del 13.03.2017 che la
precedente istanza di accesso civico era
formulata ai sensi del comma 2 dell’art. 5
del D.lgs. n. 33/2013.
Va premesso che l’art. 5 del D.lgs. 33/2013,
modificato dal D.lgs. 97/2016, ha introdotto
nel nostro ordinamento l’istituto
dell’accesso civico a dati e documenti.
Risulta utile riportare il testo della
disposizione, in particolare i commi 1 e 2:
“1. L'obbligo previsto dalla normativa
vigente in capo alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati comporta il diritto di
chiunque di richiedere i medesimi, nei casi
in cui sia stata omessa la loro
pubblicazione.
2. Allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione
al dibattito pubblico, chiunque ha diritto
di accedere ai dati e ai documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione
ai sensi del presente decreto, nel rispetto
dei limiti relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis”.
Le fattispecie di cui al comma 1 e al comma
2 dell’art. 5 sono diverse: mentre il
comma 1 riguarda documenti, informazioni
o dati per i quali è previsto l’obbligo
normativo della pubblicazione, il comma 2
invece riguarda dati e documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione
ai sensi del decreto. La distinzione
riguarda l’ambito oggettivo di applicazione
dell’istituto, ma non quello soggettivo,
potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso
civico, di cui al primo comma, sia quello
c.d. generalizzato, di cui al secondo
comma.
L’accesso generalizzato –introdotto dal
D.lgs. n. 97/2016– ha la sua ratio
nella dichiarata finalità di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico.
Posta questa finalità, l’istituto, che
costituisce uno strumento di tutela dei
diritti dei cittadini e di promozione della
partecipazione degli interessati
all’attività amministrativa (cfr. art. 1
D.lgs. 33/2013, come modificato dall’art. 2
D.lgs. 97/2016), non può, ad avviso del
Collegio, essere utilizzato in modo
disfunzionale rispetto alla predetta
finalità ed essere trasformato in una causa
di intralcio al buon funzionamento
dell’amministrazione. La valutazione
dell’utilizzo secondo buona fede va operata
caso per caso, al fine di garantire –in un
delicato bilanciamento che, da un
lato, non venga obliterata l’applicazione
dell’istituto, dall’altro lo stesso non
determini una sorta di effetto “boomerang”
sull’efficienza dell’Amministrazione.
Ora, nel caso di specie l’istanza di accesso
di cui è causa, volta ad ottenere “tutte
le determinazioni complete degli allegati
emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i
responsabili dei servizi nell’anno 2016”
–cui peraltro hanno fatto seguito due
ulteriori istanze volte ad ottenere tutte le
determinazioni di tutti i Settori dell’Ente
emanate nei mesi di gennaio, febbraio e
marzo, queste ultime non oggetto del
presente giudizio– costituisce una
manifestazione sovrabbondante, pervasiva e,
in ultima analisi, contraria a buona fede
dell’istituto dell’accesso generalizzato.
Non è passibile di censura, ad avviso del
Collegio, la motivazione del diniego
espressa dal Comune di Broni (affidata a ben
quattro pagine di argomentazioni), laddove
ha ritenuto di rinvenire nell’istanza del
ricorrente un’ipotesi di “richiesta
massiva”, così come definita dalle Linee
Guida adottate dall’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC) con
determinazione 28.12.2016 n. 1309,
che impone un facere straordinario,
capace di aggravare l’ordinaria attività
dell’Amministrazione.
La richiesta di tutte le determinazioni di
tutti i responsabili dei servizi del Comune
assunte nel 2016 implica necessariamente
l’apertura di innumerevoli subprocedimenti
volti a coinvolgere i soggetti
controinteressati.
Non può essere poi trascurata una
circostanza di fatto riferita dalla difesa
dell’Amministrazione e non contestata dal
ricorrente: dal novembre 2015 all’agosto
2017 l’odierno ricorrente ha rivolto al
Comune 73 richieste di accesso.
Sotto un profilo generale il Collegio
ritiene debba essere richiamato il principio
di buona fede e del correlato divieto di
abuso del diritto. Il dovere di buona fede,
previsto dall'art. 1175 del c.c., alla luce
del parametro di solidarietà, sancito
dall'art. 2 della Costituzione e dalla Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione
Europea, si pone, secondo i più recenti
approdi di dottrina e giurisprudenza, non
più solo come criterio per valutare la
condotta delle parti nell'ambito dei
rapporti obbligatori, ma anche come canone
per individuare un limite alle richieste e
ai poteri dei titolari di diritti, anche sul
piano della loro tutela processuale.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto
modo di precisare che l’abuso del diritto si
configura in presenza dei seguenti elementi
costitutivi: “…1) la titolarità di un
diritto soggettivo in capo ad un soggetto;
2) la possibilità che il concreto esercizio
di quel diritto possa essere effettuato
secondo una pluralità di modalità non
rigidamente predeterminate; 3) la
circostanza che tale esercizio concreto,
anche se formalmente rispettoso della
cornice attributiva di quel diritto, sia
svolto secondo modalità censurabili rispetto
ad un criterio di valutazione, giuridico od
extragiuridico; 4) la circostanza che, a
causa di una tale modalità di esercizio, si
verifichi una sproporzione ingiustificata
tra il beneficio del titolare del diritto ed
il sacrifico cui è soggetta la controparte”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V 07.02.2012,
n. 656).
Alla luce di tali principi, il Collegio è
dell’avviso che l’istanza del ricorrente
–anche tenuto conto delle precedenti istanze
e di quelle successive– costituisca un abuso
dell’istituto, in quanto irragionevole e
sovrabbondante. Va peraltro osservato che
ciò che le Linee Guida dell’ANAC (ndr:
determinazione 28.12.2016 n. 1309)
qualifica come “richieste massive”, e
che giustifica, con adeguata motivazione, il
rigetto dell’istanza, altro non è che la
declinazione del principio di divieto di
abuso del diritto e di violazione del
principio di buona fede.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve
essere rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.10.2017 n. 1951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Limiti
all’accesso generalizzato.
---------------
Accesso ai documenti – Accesso
generalizzato – Finalità – Intralcio al buon
funzionamento dell’amministrazione –
Esclusione.
L’istituto
dell’accesso generalizzato, introdotto dal
d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che ha modificato
il comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14.03.2013,
n. 33, non può essere utilizzato in modo
disfunzionale rispetto alla finalità per la
quale è stato introdotto nell’ordinamento (id
est, favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico) ed essere trasformato in una causa
di intralcio al buon funzionamento
dell’Amministrazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che le fattispecie di cui al comma 1 e al
comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14.03.2013, n.
33 sono diverse: mentre il comma 1 riguarda
documenti, informazioni o dati per i quali è
previsto l’obbligo normativo della
pubblicazione, il comma 2 riguarda invece
dati e documenti detenuti dalle Pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione ai sensi del
decreto.
La distinzione riguarda l’ambito oggettivo
di applicazione dell’istituto, ma non quello
soggettivo, potendo “chiunque”
esercitare sia l’accesso civico, di cui al
comma 1, sia quello c.d. generalizzato, di
cui al comma 2.
L’accesso generalizzato –introdotto dal
d.lgs. 25.05.2016, n. 97– ha la sua ratio
nella dichiarata finalità di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico.
Ad avviso del Tar, posta questa finalità,
l’istituto, che costituisce uno strumento di
tutela dei diritti dei cittadini e di
promozione della partecipazione degli
interessati all’attività amministrativa
(cfr. art. 1, d.lgs. n. 33 del 2013, come
modificato dall’art. 2, d.lgs. n. 97 del
2016), non può essere utilizzato in modo
disfunzionale rispetto alla predetta
finalità ed essere trasformato in una causa
di intralcio al buon funzionamento
dell’amministrazione.
La valutazione dell’utilizzo secondo buona
fede va operata caso per caso, al fine di
garantire –in un delicato bilanciamento–
che, da un lato, non venga obliterata
l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo
stesso non determini una sorta di effetto “boomerang”
sull’efficienza dell’Amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.10.2017 n. 1951 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'accesso
costituisce oggetto di un diritto soggettivo
di cui il giudice amministrativo conosce in
sede di giurisdizione esclusiva.
Più puntualmente, tale giudizio "ha per
oggetto la verifica della spettanza o meno
del diritto di accesso, più che la verifica
della sussistenza o meno dei vizi di
legittimità dell'atto amministrativo.
Infatti, il giudice può ordinare
l'esibizione dei documenti richiesti, così
sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se
ne sussistono i presupposti (art. 116 comma
4, c.p.a.).
Questo implica che, al di là
degli specifici vizi e della specifica
motivazione del provvedimento amministrativo
di diniego dell'accesso, il giudice deve
verificare se sussistono o meno i
presupposti dell'accesso, potendo pertanto
negarlo anche per motivi diversi da quelli
indicati nel provvedimento amministrativo”.
---------------
Qualora l'istanza di accesso sia formulata
dal difensore, è necessario o che la stessa
sia sottoscritta anche dal diretto
interessato (e in tal caso allo stesso se ne
imputa la provenienza), ovvero che l'istanza
sia accompagnata dal mandato al difensore,
il quale acquisisce in tal modo il potere di
avanzare la stessa in luogo
dell'interessato.
In mancanza di sottoscrizione congiunta o di
atto procuratorio, invece, l'istanza deve
considerarsi inammissibile e con essa il
successivo ricorso giurisdizionale.
---------------
Così ricostruito il
contraddittorio processuale, è possibile
considerare nel merito come l'accesso
costituisca oggetto di un diritto soggettivo
di cui il giudice amministrativo conosce in
sede di giurisdizione esclusiva.
Più puntualmente, tale giudizio "ha per
oggetto la verifica della spettanza o meno
del diritto di accesso, più che la verifica
della sussistenza o meno dei vizi di
legittimità dell'atto amministrativo.
Infatti, il giudice può ordinare
l'esibizione dei documenti richiesti, così
sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se
ne sussistono i presupposti (art. 116, comma
4, c.p.a.). Questo implica che, al di là
degli specifici vizi e della specifica
motivazione del provvedimento amministrativo
di diniego dell'accesso, il giudice deve
verificare se sussistono o meno i
presupposti dell'accesso, potendo pertanto
negarlo anche per motivi diversi da quelli
indicati nel provvedimento amministrativo”
(cfr. C.d.S., VI, 12.01.2011, n. 117 e
26.07.2012, n. 4261).
Nella specie, ha osservato l’Ar. 118 nelle
proprie difese che l’istanza di accesso,
peraltro formulata ai sensi degli artt.
327-bis e 319-bis c.p.p. e non per un
accesso amministrativo, fosse stata
presentata in carenza di legittimazione del
legale che l’aveva sottoscritta in via
esclusiva per conto del ricorrente, non
essendo stato neppure documentalmente
identificato quest’ultimo e in assenza di
alcuna autenticità del documento o della
delega che, infatti, neppure risulta
allegata all’atto versato nell’odierno
giudizio.
Occorre considerare in proposito come,
qualora l'istanza di accesso sia formulata
dal difensore, è necessario o che la stessa
sia sottoscritta anche dal diretto
interessato (e in tal caso allo stesso se ne
imputa la provenienza), ovvero che l'istanza
sia accompagnata dal mandato al difensore,
il quale acquisisce in tal modo il potere di
avanzare la stessa in luogo
dell'interessato; in mancanza di
sottoscrizione congiunta o di atto
procuratorio, invece, l'istanza deve
considerarsi inammissibile e con essa il
successivo ricorso giurisdizionale (cfr. Tar
Campania, Napoli, VI, 18.02.2016, n.
907)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 12.10.2017 n. 10317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
funzionario che riceve la richiesta di
ostensione deve essere posto in condizioni
di poter accertare con sicurezza
l'imputazione della stessa al fine di poter
verificare la sussistenza dell’interesse
all’ostensione; pertanto l'istanza deve
provenire dal diretto interessato o da
soggetto che possa spenderne il nome.
In caso contrario, ossia di istanza di
accesso proveniente come nella specie da
difensore senza mandato, egli dovrebbe porre
in essere l’attività necessaria per
consentire l’accesso, attraverso il rilascio
dei documenti o tramite le pubblicazioni sul
sito dell’Amministrazione, anche nelle
ipotesi di assenza di ratifica dell’attività
posta in essere (richiesta di accesso) senza
mandato dal difensore ed anche nelle ipotesi
in cui l’interesse all’ostensione da parte
del rappresentato si rivelasse poi
inesistente.
Pertanto nel caso in cui l’istanza di
accesso sia formulata dal difensore è
necessario che la stessa o sia sottoscritta
anche dal diretto interessato, e in tal caso
allo stesso se ne imputa la provenienza,
ovvero che l'istanza sia accompagnata dal
mandato al difensore, che acquisisce in tal
modo il potere di avanzare la stessa in
luogo dell'interessato, mentre in mancanza
di sottoscrizione congiunta o di atto
procuratorio l'istanza deve considerarsi
inammissibile e con essa il ricorso avverso
il silenzio dell’Amministrazione.
---------------
Il sig. Ma.Ba. con il ricorso in esame
chiede al Tribunale di accertare e
dichiarare l’illegittimità dell’omessa
pubblicazione, all’interno del link ”amministrazione
trasparente” del sito web del Comune di
Sant’Antioco, delle informazioni e dei dati
meglio descritti in epigrafe, nonché
l’illegittimità del diniego implicito che si
sarebbe formato sull’istanza di accesso
civico indicata in epigrafe; chiede anche il
risarcimento dei danni che avrebbe subito
per effetto del ritardo nella pubblicazione
dei dati.
...
Va preliminarmente esaminata l’eccezione di
inammissibilità del ricorso sollevata dalla
difesa del Comune resistente sul rilievo che
la richiesta di pubblicazione sul sito non
sarebbe firmata dal ricorrente ma dall’avv.
Ma.Ca. in assenza di procura per la sua
presentazione.
L’eccezione è fondata.
L’istanza di accesso cui si fa riferimento
in ricorso risulta presentata (mediante
messaggio di posta elettronica certificata)
dall’avv. Ma.Ca., senza che il medesimo
avvocato abbia allegato alla stessa il
mandato o la procura dell’interessato, in
nome e per conto del quale dichiarava di
agire; neppure nel presente giudizio è stato
dimostrato che il conferimento dei poteri
rappresentativi da parte del sig. Ma.Ba.
all’avv. Ca. fosse avvenuto al tempo della
presentazione dell’istanza di accesso.
Il funzionario che riceve la richiesta di
ostensione deve essere posto in condizioni
di poter accertare con sicurezza
l'imputazione della stessa al fine di poter
verificare la sussistenza dell’interesse
all’ostensione; pertanto l'istanza deve
provenire dal diretto interessato o da
soggetto che possa spenderne il nome. In
caso contrario, ossia di istanza di accesso
proveniente come nella specie da difensore
senza mandato, egli dovrebbe porre in essere
l’attività necessaria per consentire
l’accesso, attraverso il rilascio dei
documenti o tramite le pubblicazioni sul
sito dell’Amministrazione, anche nelle
ipotesi di assenza di ratifica dell’attività
posta in essere (richiesta di accesso) senza
mandato dal difensore ed anche nelle ipotesi
in cui l’interesse all’ostensione da parte
del rappresentato si rivelasse poi
inesistente.
Pertanto nel caso in cui l’istanza di
accesso sia formulata dal difensore è
necessario che la stessa o sia sottoscritta
anche dal diretto interessato, e in tal caso
allo stesso se ne imputa la provenienza,
ovvero che l'istanza sia accompagnata dal
mandato al difensore, che acquisisce in tal
modo il potere di avanzare la stessa in
luogo dell'interessato, mentre in mancanza
di sottoscrizione congiunta o di atto
procuratorio l'istanza deve considerarsi
inammissibile e con essa il ricorso avverso
il silenzio dell’Amministrazione (C.d.S.,
sez. V, 30.09.2013, n. 4839; C.d.S., Sez. V,
05.09.2006, n. 5116; TAR Campania, Napoli,
sez. V, 09.03.2009, n. 1331; TAR Lazio, sez.
III, 02.07.2008, n. 6365; TAR Lazio-Latina,
Sez. I, 13.11.2007; TAR Napoli, Sez. V,
24.11.2008, n. 19980).
Nell’ambito del riferito orientamento
giurisprudenziale rientra anche la sentenza
della III sezione del Consiglio di Stato n.
4844 del 26.09.2014, con la quale è stata
ritenuta ammissibile l’istanza presentata
dal solo difensore che però in precedenza
aveva ottenuto una procura dall’interessato
con facoltà di rappresentare e difendere “in
ogni stato e grado del procedimento”
anche di mediazione, perché ciò “implica
la ratifica della diffida ad adempiere e
dell’istanza di accesso, atti negoziali
propedeutici alla difesa, compiuti in nome e
per conto della parte dal difensore, a nulla
rilevando che il procedimento di mediazione
non sia attivabile o attivato, ma essendo
quell’attività extragiudiziale compiuta nel
chiaro intento di tutelare gli interessi
dell’assistito”.
In sostanza nella fattispecie all’esame del
Consiglio di Stato la procura era stata in
precedenza rilasciata per gestire un affare
di interesse del ricorrente, nella gestione
del quale il giudice di Appello ha ritenuto
compresa la facoltà di presentare richiesta
di conclusione di un procedimento e quindi
anche la possibilità di presentare
un’istanza di accesso.
La preesistenza della procura, nel caso di
specie, come sopra evidenziato, non
sussisteva e, dunque, il funzionario del
Comune di Sant’Antioco non era tenuto, per
le ragioni suesposte, a provvedere
sull’istanza presentata dall’Avv. Ca..
In conclusione va dichiarata
l’inammissibilità del ricorso avverso il
silenzio sulla domanda di accesso e
conseguentemente va respinta la domanda di
risarcimento danni (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 12.06.2015 n. 860 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
debenza del contributo di costruzione parametrato
a quanto previsto per le attività
commerciali, e non alle attività produttive,
relativamente alla costruzione di magazzini
per deposito e commercio, ove non siano
collegati ad altro stabile adibito
all'attività produttiva.
L’art. 19 del DPR
06.06.2001, n. 380, per gli interventi
destinati ad attività industriali o
artigianali dirette alla trasformazione di
beni ed alla prestazione di servizi prevede
la corresponsione di un contributo pari
all’incidenza delle opere di urbanizzazione,
di quelle necessarie al trattamento e allo
smaltimento dei rifiuti e di quelle
necessarie alla sistemazione dei luoghi ove
ne siano alterate le caratteristiche.
Per gli interventi relativi ad attività
commerciali e allo svolgimento di servizi
prevede la corresponsione di un contributo
pari all'incidenza delle opere di
urbanizzazione e una quota non superiore al
10 per cento del costo documentato di
costruzione.
La Società ricorrente esercita l’attività di
commercio al dettaglio di prodotti
alimentari e non nei propri supermercati che
svolgono la propria attività in tutto il
territorio nazionale e l’intervento edilizio
ha ad oggetto un ampliamento per realizzare
un grande magazzino di stoccaggio di
prodotti finiti in entrata e uscita, e
marginalmente di prodotti che vengono
confezionati per la vendita, da distribuire
ai supermercati.
Ciò premesso il Collegio ritiene che
correttamente il Comune ha ritenuto di non
applicare il contributo di costruzione
previsto per le attività produttive, in
quanto l’attività che si svolge nel
complesso edilizio è riconducibile ad un
segmento di quella commerciale.
Infatti, come è stato osservato da questa
stessa Sezione in un caso analogo con
argomentazioni dalle quali non vi è motivo
di discostarsi, è necessario considerare in
primo luogo che l’attività di commercio
svolta dalla ricorrente si estende e
comprende necessariamente anche la fase ad
essa strumentale di deposito e stoccaggio di
tali prodotti all’interno del magazzino che
costituisce a tutti gli effetti una
componente dell’organizzazione dell’impresa
commerciale esercitata, ed in secondo luogo
che “la giurisprudenza, peraltro, rispetto
all'interpretazione dell'art. 10 L. n.
10/1977, ora art. 19 DPR 380/2001,
relativamente all'esonero dal contributo, è
stata sempre restrittiva, ritenendo che la
norma esoneri dalla corresponsione del
contributo solo i fabbricati strettamente
complementari ed asserviti alle esigenze
proprie di un impianto industriale e non già
quegli edifici che non sono di per sé
destinati alla produzione di beni
industriali ovvero opere edilizie comunque
suscettibili di essere utilizzate al
servizio di qualsiasi attività economica”.
Ne consegue che “è pertanto da escludere
l'applicabilità del trattamento contributivo
di favore a magazzini per deposito e
commercio, ove non siano collegati ad altro
stabile adibito all'attività produttiva”.
---------------
... per l’accertamento della non debenza, in
tutto o in parte, delle somme pretese dal
Comune a titolo di contributo commisurato al
costo di costruzione e a titolo di
contributo per oneri di urbanizzazione
primaria quantificate con determinazione
prot. n. 5788 del 18.09.2014, con ogni
conseguente statuizione ivi compresa la
condanna del Comune ex art. 2033 c.c. e alla
restituzione delle somme già versate;
...
La Società ricorrente espone di svolgere
l’attività di distribuzione di generi
alimentari preconfezionati e non
preconfezionati, di prodotti per l’igiene e
la cura della casa e della persona in
numerose strutture di vendita dislocate su
tutto il territorio nazionale.
Nel Comune di Belfiore vicino alla propria
sede amministrativa in zona territoriale
omogenea di tipo D-produttiva, ha
realizzato il proprio Centro di
distribuzione in un’area in cui lo strumento
urbanistico assoggetta l’edificazione alla
previa redazione di un piano attuativo,
nell’ambito del quale devono essere
realizzate le opere di urbanizzazione, il
cui valore per la convenzione deve essere
scomputato dagli oneri di urbanizzazione.
Il Comune con determinazione prot. n. 5788
del 18.09.2014, ha quantificato in
complessivi euro 3.614.440,00 il contributo
concessorio dovuto.
Il primo motivo con il quale la
Società ricorrente sostiene di non dover
pagare il contributo di costruzione
parametrato a quanto previsto per le
attività commerciali, ma alle attività
produttive, è infondato e deve essere
respinto.
L’art. 19 del DPR 06.06.2001, n. 380, per
gli interventi destinati ad attività
industriali o artigianali dirette alla
trasformazione di beni ed alla prestazione
di servizi prevede la corresponsione di un
contributo pari all’incidenza delle opere di
urbanizzazione, di quelle necessarie al
trattamento e allo smaltimento dei rifiuti e
di quelle necessarie alla sistemazione dei
luoghi ove ne siano alterate le
caratteristiche.
Per gli interventi relativi ad attività
commerciali e allo svolgimento di servizi
prevede la corresponsione di un contributo
pari all'incidenza delle opere di
urbanizzazione e una quota non superiore al
10 per cento del costo documentato di
costruzione.
La Società ricorrente esercita l’attività di
commercio al dettaglio di prodotti
alimentari e non nei propri supermercati che
svolgono la propria attività in tutto il
territorio nazionale attraverso le insegne “Famila”,
“Famila Superstore”, D-Più”, “A&O”, CC
Maxigross” e “Cash and Carry” e l’intervento
edilizio ha ad oggetto un ampliamento per
realizzare un grande magazzino di stoccaggio
di prodotti finiti in entrata e uscita, e
marginalmente di prodotti che vengono
confezionati per la vendita, da distribuire
ai supermercati.
Ciò premesso il Collegio ritiene che
correttamente il Comune ha ritenuto di non
applicare il contributo di costruzione
previsto per le attività produttive, in
quanto l’attività che si svolge nel
complesso edilizio è riconducibile ad un
segmento di quella commerciale.
Infatti, come è stato osservato da questa
stessa Sezione in un caso analogo con
argomentazioni dalle quali non vi è motivo
di discostarsi (cfr. Tar Veneto, Sez. II,
18.12.2014, n. 1537), è necessario
considerare in primo luogo che l’attività di
commercio svolta dalla ricorrente si estende
e comprende necessariamente anche la fase ad
essa strumentale di deposito e stoccaggio di
tali prodotti all’interno del magazzino che
costituisce a tutti gli effetti una
componente dell’organizzazione dell’impresa
commerciale esercitata, ed in secondo luogo
che “la giurisprudenza, peraltro,
rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L.
n. 10/1977, ora art. 19 DPR 380/2001,
relativamente all'esonero dal contributo, è
stata sempre restrittiva, ritenendo che la
norma esoneri dalla corresponsione del
contributo solo i fabbricati strettamente
complementari ed asserviti alle esigenze
proprie di un impianto industriale e non già
quegli edifici che non sono di per sé
destinati alla produzione di beni
industriali ovvero opere edilizie comunque
suscettibili di essere utilizzate al
servizio di qualsiasi attività economica
(Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n.
1512; cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
11.02.2002, n. 495)”.
Ne consegue che “è pertanto da escludere
l'applicabilità del trattamento contributivo
di favore a magazzini per deposito e
commercio, ove non siano collegati ad altro
stabile adibito all'attività produttiva”
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V,
23.04.2014, n. 2044).
Il primo motivo deve pertanto essere
respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.09.2017 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’articolo 23-ter, comma 2, del dpr
n. 380 del 2001, la destinazione d’uso di
un’unità immobiliare è quella prevalente in
termini di superficie utile (nel caso di
specie, non appare contestato che la
superficie prevalente di tale unità
immobiliare abbia destinazione artigianale).
Invero, la giurisprudenza ha già
chiarito che gli uffici, ove “previsti
come accessori all'insediamento industriale
localizzato nello stesso immobile, devono
qualificarsi come costruzioni destinate esse
stesse ad attività industriale, giacché la
diversificazione del regime dei contributi
edilizi riguarda la complessiva ed unitaria
attività imprenditoriale che si svolge in un
medesimo immobile o complesso immobiliare e
non le singole parti dell'immobile in cui si
svolgono le diverse fasi o funzioni nelle
quali si articola una medesima attività”.
---------------
-
Considerato che la ricorrente impugna il
provvedimento comunale di determinazione del
costo di costruzione e degli oneri di
urbanizzazione, relativi al permesso di
costruire per la realizzazione di un
capannone artigianale e annessa area di
deposito, e chiede la condanna del Comune
resistente alla restituzione di quanto già
indebitamente corrisposto a tale titolo.
-
Che nella determinazione della tariffa al mq
applicabile, il Comune ha considerato lo
spazio aperto di detto capannone e il piano
primo della costruzione al suo interno come
area produttiva, mentre ha considerato il
secondo piano della medesima costruzione
come avente destinazione direzionale.
-
Che, con il ricorso introduttivo, la
ricorrente ha dedotto che il costo di
costruzione non sarebbe dovuto ai sensi
dell’articolo 8 della legge regionale n. 89
del 1998, avendo la struttura destinazione
artigianale.
-
Che, sempre nel ricorso introduttivo, la
ricorrente ha evidenziato che, ai sensi
dell’articolo 7, comma 2, della legge
regionale n. 89 del 1998, “Quando in una
medesima costruzione coesistono unità
immobiliare delle quali alcune hanno
destinazione residenziale ed altre
destinazione turistica, commerciale,
direzionale o artigianale, per ciascuna
unità si applica il contributo
corrispondente alla sua specifica
destinazione d'uso”.
-
Che pertanto, a suo avviso, nel caso di
specie, non essendovi unità immobiliari
autonome ma solo parti di un’unica
struttura, non si potrebbero
artificiosamente attribuire a esse
destinazioni distinte, ricadendo tutte sotto
la destinazione prevalente, vale a dire
quella artigianale e non quella direzionale.
-
Che, inoltre, argomentando dagli articoli 40
del dpr 1142 del 1949 e 36, comma 2, del dpr
917 del 1986, un’unità immobiliare autonoma
sarebbe ciascun cespite indipendente, da
intendersi come intere costruzioni o parti
di esse suscettibili di produrre un reddito
autonomo.
-
Che, all’udienza del 21.04.2017, la causa è
passata in decisione.
-
Rilevato che, non appare contestato che il
primo piano della costruzione in questione
non abbia autonomia funzionale e quindi non
possa essere considerato un cespite
autonomo, essendo destinato a uffici e zone
a servizio delle superfici artigianali, e
non suscettibili di utilizzazione autonoma.
-
Che, ai sensi dell’articolo 23-ter, comma 2,
del dpr n. 380 del 2001, la destinazione
d’uso di un’unità immobiliare è quella
prevalente in termini di superficie utile e
che, nel caso di specie, non appare
contestato che la superficie prevalente di
tale unità immobiliare abbia destinazione
artigianale.
-
Che, difatti, la giurisprudenza ha già
chiarito che gli uffici, ove “previsti
come accessori all'insediamento industriale
localizzato nello stesso immobile, devono
qualificarsi come costruzioni destinate esse
stesse ad attività industriale, giacché la
diversificazione del regime dei contributi
edilizi riguarda la complessiva ed unitaria
attività imprenditoriale che si svolge in un
medesimo immobile o complesso immobiliare e
non le singole parti dell'immobile in cui si
svolgono le diverse fasi o funzioni nelle
quali si articola una medesima attività”
(cfr. Tar Milano, sez. II, 11/03/2002, n.
1036).
-
Che, pertanto, l’intero immobile nel caso di
specie deve essere considerato come
destinato ad attività artigianale.
-
Rilevato, altresì, che, nelle more del
giudizio, l’Amministrazione ha annullato la
richiesta di pagamento del costo di
costruzione, adottando invece per il
contributo di urbanizzazione un
provvedimento meramente confermativo, sicché
il ricorso può essere dichiarato in parte
qua improcedibile per cessazione della
materia del contendere.
-
Ritenuto pertanto che il ricorso debba
essere dichiarato in parte improcedibile per
sopravvenuta cessazione della materia del
contendere, e in parte fondato, per le
ragioni indicate (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 06.06.2017 n. 186 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, 22.09.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO
(Agenzia delle Entrate, 12.09.2017). |
SICUREZZA LAVORO:
IMPIANTI DI CLIMATIZZAZIONE: SALUTE E SICUREZZA NELLE
ATTIVITÀ DI ISPEZIONE E BONIFICA (INAIL,
settembre 2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
IMPRESE DI INSTALLAZIONE DEGLI
IMPIANTI ALL’INTERNO DEGLI EDIFICI - DM 37/2008 - Raccolta
di pareri, circolari e lettere circolari (Ministero
dello Sviluppo Economico,
21.06.2017). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 20.10.2017 "Criteri
e modalità per l’assegnazione di contributi per l’esercizio
delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in
materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in
zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1)" (deliberazione
G.R. 17.10.2017 n. 7241). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 19.10.2017, "Settimo
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 12.10.2017 n. 12532). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
18.10.2017 n. 244, suppl. ord. n. 333, "Criteri
Ambientali Minimi per l’acquisizione di sorgenti luminose
per illuminazione pubblica, l’acquisizione di apparecchi per
illuminazione pubblica, l’affidamento del servizio di
progettazione di impianti per illuminazione pubblica" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territori e del Mare,
decreto 27.09.2017). |
VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Aggiornamento
dell’Elenco regionale dei rifugi ai sensi dell’art. 35,
legge regionale 01.10.2015 n. 27 «Politiche regionali in
materia di turismo e attrattività del territorio lombardo»"
(decreto
D.U.O. 10.10.2017 n. 12302). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Fondo
per interventi straordinari della presidenza del Consiglio
dei Ministri – Linee guida per l’individuazione degli
interventi di adeguamento strutturale e antisismico degli
edifici scolastici, nonché di costruzione di nuovi immobili
sostitutivi di edifici esistenti a rischio sismico" (deliberazione
G.R. 09.10.2017 n. 7195). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.09.2017, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 09.10.2017 n. 158). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Pubblicazione
dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei
membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame
dei corsi in acustica di cui al d.lgls. 17.02.2017, n. 42,
Allegato 2, parte B, punto 2 - Aggiornamento al 30.09.2017"
(comunicato
regionale 09.10.2017 n. 157). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Modifica
della d.g.r. 3965/2015 in relazione agli obblighi di
formazione abilitante e di aggiornamento per l’installazione
e la manutenzione straordinaria degli impianti di produzione
energetica alimentati da fonti rinnovabili" (deliberazione
G.R. 02.10.2017 n. 7143). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.10.2017 "Decadenza
del presidente e scioglimento del consiglio di gestione
dell’Ente Parco Adda Nord e contestuale nomina del Sig.
Giovanni Bolis a commissario regionale, ai sensi dell’art.
33, comma 1-bis, della l.r. 86/1983" (deliberazione
G.R. 09.10.2017 n. 7188). |
VARI: G.U.
07.10.2017 n. 235 "Disciplina dell’indicazione
obbligatoria nell’etichetta della sede e dell’indirizzo
dello stabilimento di produzione o, se diverso, di
confezionamento, ai sensi dell’articolo 5 della legge
12.08.2016, n. 170 - Legge di delegazione europea 2015"
(D.Lgs. 15.09.2017 n. 145). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 04.10.2017, "Programma
di sviluppo rurale 2014-2020 della Lombardia. Riduzioni ed
esclusioni dai contributi per mancato rispetto delle norme
in materia di appalti pubblici" (decreto
D.S. 29.09.2017 n. 11824). |
LAVORI PUBBLICI -
VARI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 del 03.10.2017, "Regolamento
di attuazione della legge regionale 01.10.2014 n. 26 «Norme
per la promozione e lo sviluppo delle attività motorie e
sportive, dell’impiantistica sportiva e per l’esercizio
delle professioni sportive inerenti alla montagna»" (regolamento
regionale 29.09.2017 n. 5). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 02.10.2017, "Disposizioni
regionali inerenti le caratteristiche e le condizioni per
l’installazione delle serre mobili stagionali e temporanee
(art. 62 c. 1-ter, della l.r. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 25.09.2017 n. 7117). |
ENTI LOCALI:
G.U. 29.09.2017 n. 228 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3
della legge 31.12.2009, n. 196 e successive modificazioni
(Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Patroni Griffi,
Valore del precedente e nomofilachia
(13.10.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
C. Deodato,
Il Subappalto: un problema o un’opportunità?
(13.10.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. I
differenti obiettivi della regolazione
europea e italiana del subappalto - 3.
L’analisi del Consiglio di Stato - 4. Genesi
ed evoluzione del subappalto - 5. La
limitazione quantitativa: un caso di gold
plating? - 6. La giustificazione relativa
alla tutela delle piccole e medie imprese -
7. I possibili correttivi. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Moliterni,
La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra
tutela dell’ambiente e libertà di iniziativa economica
privata: la difficile semplificazione amministrativa
(27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La ratio del sistema regolatorio in
materia di fonti energetiche rinnovabili in un recente
intervento della Consulta – 2. La riduzione degli oneri
amministrativi quale “incentivo istituzionale” alla
diffusione delle energie rinnovabili – 3. La strutturale
complessità della regolazione amministrativa delle fonti
energetiche rinnovabili: la prevalenza del potere
legislativo statale a tutela dell’ambiente – 4. La difficile
semplificazione della procedura autorizzatoria: problemi e
prospettive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
S. Foà,
Risarcimento degli interessi legittimi e termine
decadenziale. La lettura italiana del principio di
effettività della tutela
(27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La questione di legittimità
costituzionale: irragionevolezza del termine decadenziale
per l’azione risarcitoria. – 2. Il sindacato debole della
Corte costituzionale in materia processuale: prevale la
stabilità dei rapporti giuridici amministrativi e dei
bilanci pubblici. – 3. La disomogeneità delle situazioni
giuridiche soggettive in comparazione: asserita adeguatezza
del termine decadenziale per l’interesse legittimo. – 4.
Conformità al diritto UE e alla CEDU: proporzionalità
nell’esercizio dell’autonomia processuale. – 5. Osservazioni
critiche. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Venneri,
La legislazione regionale e l’intervento degli enti locali
in materia religiosa: una ricognizione interformanti a
quadro istituzionale immutato
(27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: L’articolo si propone di effettuare una
ricognizione dell’intervento legislativo delle Regioni e
degli enti locali in materia religiosa e del contributo dato
dalla dottrina sull’argomento, anche alla luce delle
principali pronunce giurisprudenziali a esso relative, in un
quadro istituzionale e costituzionale rimasto inalterato
dopo il recente referendum dell’autunno 2016.
L’utilizzazione di un accostamento interformanti (normazione,
giurisprudenza, dottrina), condotto su un tema di attualità
quale è l’edilizia di culto, è preordinato a un’analisi
della qualità e quantità dell’intervento di Regioni ed enti
locali sulla fenomenologia religiosa, soprattutto in
relazione alla situazione e alla dinamica dei rapporti
istituzionali e di fatto tra Stato ed enti territoriali e
dell’incidenza dell’intervento di questi ultimi sulle
libertà individuali e collettive.
---------------
Sommario: 1. Introduzione. 1.1 Premessa e note
metodologiche. 1.2 Evoluzione del diritto ecclesiastico
regionale. 2. Legislazione e giurisprudenza nella lettura
della dottrina. 2.1 Il percorso legislativo. La riforma
Bassanini: il D.Lgs. n. 112/1998 e le implicazioni in
materia religiosa. 2.2 Brevi cenni di giurisprudenza
costituzionale prima e dopo l’introduzione della riforma
Bassanini. 2.3 Caratteristiche della legislazione regionale
dagli anni ’90 alla riforma del 2001: spunti della dottrina.
3. Revisione costituzionale. 3.1 La L.cost. n. 3 del 2001.
3.2 Libertà religiosa e novellato art. 117 Cost. 3.3 Libertà
religiosa e garanzia dei livelli essenziali delle
prestazioni. 3.4 Libertà religiosa e art. 118 Cost.: nuovo
criterio di ripartizione delle funzioni amministrative. 4.
La legislazione di interesse ecclesiastico tra Stato e
Regioni: ricostruzione del contenuto. 4.1 Espansione
dell’intervento regionale nella fenomenologia religiosa. 5.
I singoli settori di intervento: introduzione. 5.1 Gli
statuti delle regioni. 5.2 I beni culturali di interesse
religioso. 5.3 L’assistenza religiosa negli istituti di
ricovero. 5.4 Assistenza sociale e sussidiarietà
orizzontale. Il ruolo degli enti ecclesiastici. 5.5 Il
turismo religioso. 5.6 La disciplina urbanistica dei servizi
religiosi. 5.7 In particolare: l’edilizia di culto tra
tutela della libertà religiosa e politica urbanistica. 6. Un
leading case: la vicenda e l’impatto delle leggi regionali
della Lombardia sull’edilizia di culto e la giurisprudenza
costituzionale. 6.1 Il quadro normativo. La l.r. n. 12 del
2005 «Legge per il governo del territorio». 6.2 La l.r.
Lombardia n. 12 del 2005 e il cambio di destinazione d’uso.
6.3 Ancora sul cambio di destinazione d’uso: interventi di
TAR e Consiglio di Stato. 6.4 La previa stipulazione della
convenzione con il comune al vaglio della giurisprudenza.
6.5 La l.r. Lombardia n. 2 del 2015 di modifiche alla l.r.
12 del 2005. 6.6 La normativa e i suoi profili di criticità:
la posizione della dottrina. 6.7 Ulteriori considerazioni
sulla legge. 6.8 Ancora sul mutamento di destinazione d’uso:
l’impatto del d.l. “Sblocca Italia” n. 133 del 2014 sulle
normative regionali. 6.9 La sentenza n. 63 del 2016 della
Corte costituzionale sulla cd. legge “anti-moschee”. 7.
Considerazioni conclusive: prospettive e tendenze. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Patroni Griffi,
La funzione nomofilattica: profili interni e sovranazionali
(11.10.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1 - Le ragioni della nomofilachia. 2 -
Soggetti e strumenti di nomofilachia. 3 – Corte di giustizia
dell’Unione europea e funzione nomofilattica. 4 -
Conclusioni. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Linee guida dell'Anac per
forniture infungibili. Procedure negoziate:
cosa devono fare le stazioni appaltanti.
Adeguata programmazione dei fabbisogni,
accurate ricerche di mercato per individuare
operatori economici alternativi, multi
outsourcing come rimedio al fenomeno del
lock-in.
Sono queste alcune delle best practices che
l'Autorità nazionale anti corruzione (Anac)
ha chiesto alle stazioni appaltanti di
applicare con le linee guida sulle procedure
negoziate senza previa pubblicazione di
bando in caso di forniture e servizi
ritenuti infungibili, che sono state
approvate in via definitiva il 17 ottobre (determinazione
13.09.2017 n. 950 - Linee
guida n. 8 - Ricorso a procedure negoziate
senza previa pubblicazione di un bando nel
caso di forniture e servizi ritenuti
infungibili) e
che saranno a breve pubblicate sulla
Gazzetta Ufficiale.
Il documento nasce dall'esigenza avvertita
dall'Anac di intervenire avendo osservato un
esteso ricorso alla procedura negoziata
(oltre 15 miliardi nell'ultimo anno)
rispetto alle ordinarie procedure previste
dal Codice dei contratti. Il fenomeno è
stato rilevato come caratterizzante settori
quali quello sanitario, quello informatico e
quello della manutenzione e dell'acquisto di
materiali di consumo per determinate
forniture. In queste ipotesi l'affidamento
diretto di forniture e servizi ritenuti
infungibili, quando non è giustificato da
oggettive condizioni del mercato, può avere
l'effetto di sottrarre alla concorrenza
importanti aree di mercato della
contrattualistica pubblica, con danni per
gli operatori economici e le stesse
amministrazioni.
Da qui le indicazioni
puntuali sulle modalità da seguire per
accertare l'effettiva infungibilità di un
bene o di un servizio, gli accorgimenti che
le stazioni appaltanti devono adottare per
evitare di trovarsi in situazioni in cui le
decisioni di acquisto in un certo momento
vincolino le decisioni future (fenomeno
cosiddetto del lock-in), le condizioni che
devono verificarsi affinché si possa
legittimamente ricorrere alla procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un
bando di gara in caso di infungibilità di
beni e servizi.
La chiave di tutto sarà partire da analisi
di mercato e da programmazioni e
progettazioni accurate, arrivando alla
scelta dell'affidatario con una adeguata
motivazione.
Per quel che riguarda la programmazione
l'Autorità ritiene che sia essenziale per
«definire ex ante le proprie esigenze, le
conseguenti migliori soluzioni idonee a
soddisfarle, evidenziando anche quali».
Nella fase di progettazione e nella
predisposizione dei documenti di gara, le
amministrazioni dovranno quindi considerare,
oltre ai costi immediati che devono
sostenere, anche quelli futuri attualmente
prevedibili legati a elementi quali gli
acquisti di materiali di consumo e di parti
di ricambio nonché i costi per il cambio di
fornitore. Le stazioni appaltanti dovranno
anche procedere agli affidamenti
considerando il costo del ciclo di vita del
prodotto. Poi, come accennato, dovranno
essere le ricerche di mercato ad assicurare
l'impossibilità di trovare fornitori o
appaltatori alternativi.
Le linee guida evidenziano anche alcuni
strumenti utilizzabili: affidamento di un
unico appalto a due o anche più imprese
(multi outsourcing), oppure la suddivisione
in lotti degli appalti. L'Anac ha suggerito
anche di optare per un'altra soluzione
proposta dalla Commissione europea per il
settore dell'Ict: agire sulle specifiche
tecniche, mediante gare su standard e non su
sistemi prioritari
(articolo ItaliaOggi del
20.10.2017). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi
senza motivazione. Il consigliere non deve
spiegare le ragioni. E non spetta al sindaco
valutare la pertinenza delle richieste.
In materia di diritto di accesso dei
consiglieri comunali, possono considerarsi
legittime, ai sensi dell'art. 43 del dlgs n.
267/2000, le norme regolamentari che
impongono al consigliere comunale di
motivare la propria richiesta di accesso
agli atti; ovvero che limitano il diritto di
visione degli atti quando ciò si traduca in
«un potere di inchiesta, di ispezione o di
verifica»; oppure che affidano al sindaco il
potere di verificare che l'informazione
richiesta attenga al mandato del
consigliere?
Il diritto di accesso e il diritto di
informazione dei consiglieri comunali, in
relazione agli atti in possesso
dell'amministrazione comunale utili
all'espletamento del proprio mandato, sono
disciplinati dall'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000. Tale disciplina
specifica si differenzia dal pur ampio
diritto di accesso riconosciuto al cittadino
dall'articolo 10 del medesimo decreto
legislativo; infatti il termine «utili»,
contenuto nella citata disposizione del Tuel,
garantisce l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (cfr. Cds n.
6963/2010) senza che alcuna limitazione
possa derivare dall'eventuale natura
riservata delle informazioni richieste (v.
anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525
del 05.09.2014, che ha richiamato Cds,
sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi, con parere reso in
data 09.04.2014, ha specificato che
l'accesso del consigliere non può essere
soggetto ad alcun onere motivazionale,
giacché altrimenti sarebbe introdotta una
sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale.
La commissione,
infatti, considerato che il consigliere è
comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha
ritenuto che gli unici limiti all'esercizio
del diritto di accesso dei consiglieri
comunali si rinvengano, per un verso, nel
fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di
attento e approfondito vaglio, al fine di
non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto
che esso debba avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per
gli uffici comunali (vedi, oltre al citato
parere del 09.04.2014, anche il
precedente plenum in data 06.04.2011,
conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez.
I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco
non hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l'oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato. Ciò, anche nel
rispetto del principio di separazione dei
poteri (art. 4 e art. 14 del decreto
legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti
locali, dall'art. 107 del decreto
legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri
di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi
di governo, essendo riservata ai dirigenti
la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1,
del Tuel il consiglio è l'organo di
indirizzo e «di controllo
politico-amministrativo»; sicché, il
controllo del sindaco sull'operato anche dei
singoli consiglieri si porrebbe in contrasto
con tale normativa.
Nel caso di specie, quindi, è opportuna la
revisione delle disposizioni che impongono
l'obbligo motivazionale a carico dei
consiglieri richiedenti l'accesso e che
affidano al sindaco il potere di verifica.
Del resto l'ente, attraverso l'esercizio
della propria potestà regolamentare, può
optare, tra le varie alternative possibili,
per la disciplina che, in concreto, meglio
contemperi esigenze concorrenti.
In
particolare, quelle di garanzia delle
condizioni più adeguate all'espletamento del
mandato da parte dei consiglieri comunali e
quelle di salvaguardia della funzionalità
degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente,
nonché quella di tutela della sicurezza
degli uffici, del personale e del patrimonio
(articolo ItaliaOggi del
20.10.2017). |
ENTI LOCALI:
Azienda pubblica di servizi alla persona. Incarico di
funzioni di Direttore Generale a Segretario comunale.
Si ritiene che, in una situazione di
emergenza in cui non sussistano condizioni alternative, sia
possibile affidare temporaneamente l'incarico di Direttore
Generale di Azienda pubblica di servizi alla persona ad un
Segretario comunale. Si tratta infatti di una figura
professionale necessariamente dotata dei titoli di studio
richiesti per l'accesso alla categoria dirigenziale, che ha
maturato notevole esperienza in enti locali, quali i Comuni,
che esercitano attività anche nel settore sociale, al pari
delle aziende predette, e che presentano complessità
operative ben rilevanti.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che
le funzioni di Direttore Generale dell'Azienda siano svolte
da un Segretario Generale comunale, per un periodo limitato
e per il tempo strettamente necessario ad apportare
determinate modifiche statutarie (che riguardano, nello
specifico, i requisiti prescritti per la nomina del
Direttore Generale) e ad assicurare nel contempo la gestione
dell'Azienda medesima, nel rispetto dei principi di buona
amministrazione.
L'Azienda rappresenta a tal proposito che l'Ente, privo
della figura dirigenziale apicale dal 01.10.2017, versa in
una situazione contingente di estrema difficoltà, in quanto
la ricerca di una figura sostitutiva è apparsa estremamente
difficoltosa, proprio in relazione ai requisiti previsti
attualmente dallo Statuto, dalla disponibilità delle risorse
a bilancio e infine dalla scarsa disponibilità, manifestata
da altre analoghe aziende, al convenzionamento.
Inoltre l'Azienda ha riscontrato l'assenza di
professionalità interne all'amministrazione, dotate della
necessaria esperienza professionale e tecnica, che possano
garantire lo svolgimento di dette funzioni.
In relazione poi alle disponibilità di bilancio, l'Azienda
evidenzia che l'incarico di Direttore può essere conferito
solo a tempo parziale, salvo incidere sulla definizione
delle rette.
Pertanto, stante la predetta difficoltà nell'individuazione
di una soluzione immediata, l'Amministrazione istante si è
rivolta al Sindaco di un Comune, al fine di ottenere
l'autorizzazione, per il Segretario comunale, a svolgere
temporaneamente le funzioni di Direttore dell'Azienda di
servizi alla persona, per un massimo di 10 ore settimanali e
fuori orario di servizio, per il tempo strettamente
necessario a superare l'emergenza attuale.
Nel ritenere che l'iniziativa assunta sia idonea a dare
soluzione temporanea alla criticità illustrata, si ritiene
opportuno esprimere alcune considerazioni di seguito
riportate.
Pare evidente che in questo momento l'Azienda non si trova
nella situazione di ricercare un direttore generale con la
prospettiva della normale continuità gestionale in relazione
alla quale sono preordinati dalle norme vigenti i requisiti
e le condizioni dell'incarico.
In ogni caso i requisiti previsti dal vigente articolo 15,
comma 3, dello Statuto dell'Azienda appaiono compatibili con
l'incarico temporaneo al Segretario generale del Comune di
Latisana.
Si tratta infatti di una figura professionale
necessariamente dotata dei titoli di studio richiesti,
nonché dell'esperienza in enti locali, quali i Comuni, che
esercitano attività anche nel settore sociale al pari delle
aziende pubbliche di servizi alla persona, e che ha svolto
incarichi di natura dirigenziale di rilievo in enti locali
che presentano complessità operative ben maggiori
dell'Azienda in questione, anche con riferimento specifico
al settore sociale.
Infatti, nell'esercizio delle proprie funzioni, la figura
del segretario generale di un Comune è contrassegnata da una
profonda conoscenza della normativa di dettaglio nei vari
ambiti di attività, sia per dovere di ufficio, sia per
l'esperienza e la preparazione professionale desumibili
dalla categoria di appartenenza [1].
Ed è inoltre da rammentare che le conoscenze ed esperienze
di lavoro acquisite dal segretario comunale all'interno
della pubblica amministrazione, unitamente al possesso di
una solida preparazione giuridica, gli consentono di
comprendere e di governare in generale azioni, procedimenti
e comportamenti del settore pubblico.
Né si può negare che detta esperienza sia stata maturata ed
acquisita in modo specifico anche nell'ambito del settore
socio-assistenziale, in quanto tra le funzioni fondamentali
del comune figura anche la progettazione e gestione dei
servizi sociali, attività attinente a quella gestita
dall'Azienda istante.
L'ampiezza dell'esperienza professionale, che caratterizza
in genere i segretari degli enti locali, assicura quindi in
modo più che adeguato sia il presidio delle funzioni di
assistenza giuridico amministrativa nel momento in cui il
consiglio di amministrazione ha in animo di por mano a delle
modifiche statutarie sia l'esercizio delle funzioni
gestionali in relazione alla esigenza di garantire
immediatamente la continuità amministrativa necessaria.
----------------
[1] L'art. 108 del d.lgs. 267/2000 stabilisce una
sostanziale equiordinazione tra la figura del segretario
comunale e quella del direttore generale, entrambe figure
apicali e di natura dirigenziale (18.10.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Il codice unico di progetto.
DOMANDA:
IL CUP, codice unico di progetto per gli investimenti, deve
essere richiesto solo nel caso di lavori pubblici o anche
per l'acquisto di beni mobili, arredi .... spesa in conto
capitale?
RISPOSTA:
L’articolo 11 della legge 3/2003 stabilisce che il CUP deve
essere richiesto per ogni progetto d’investimento pubblico e
non indica un tetto minimo di spesa. Tra gli interventi
rientranti nei “progetti di investimento pubblico” ci
sono anche i progetti di ammodernamento della strumentazione
della Pubblica Amministrazione (realizzabili, come natura,
sia come acquisto di beni, sia come acquisto di servizi da
imprese private, sia come produzione di servizi, nel caso il
soggetto responsabile provveda direttamente).
Ai fini dell’obbligo di collegamento a un CUP è determinante
non la tipologia contabile delle spese (correnti o in conto
capitale) ma la loro riconducibilità ad un progetto
d’investimento pubblico. Un “progetto di investimento
pubblico” (o intervento di sviluppo) può comprendere
anche “spese di gestione” o “spese di parte
corrente” (es. compensi a personale, spese di
progettazione). Così come un intervento di funzionamento può
comprendere anche “spese in conto capitale” (es.
sostituzione di un computer obsoleto. Se invece la
sostituzione è con macchinari più moderni o diversamente
performanti, si ha una spesa in conto capitale di sviluppo).
Quindi occorre sempre verificare non tanto la spesa ma il
suo obiettivo, il contesto in cui si inquadra, e desumere se
detta spesa costituisce, o fa parte, di un progetto di
investimento pubblico.
Tale verifica va fatta considerando che le spese che
rientrano nell’intervento di sviluppo (investimento
pubblico), sono quelle che:
- apportano miglioramenti funzionali o strutturali all’Ente che ha
deciso di realizzarli, e alla sua capacità di produrre
servizi;
- aumentano il patrimonio dell’Ente;
- sono finanziate con risorse comunitarie o con fondi FAS;
- sono realizzate con risorse finanziarie derivanti da concessioni
(esempio: lavori pubblici realizzati con operazioni di
finanza di progetto “pura”).
Se nel caso concreto si tratta di acquisto di arredi volti a
sostituirne altri obsoleti, si ritiene che -pur trattandosi
di spesa in conto capitale- l’intervento sia di
gestione/funzionamento e non di investimento e quindi non
serva il CUP (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Verbale delle sedute del consiglio comunale. Frasi
ingiuriose.
Secondo la dottrina prevalente le frasi
ingiuriose espresse dai consiglieri nel corso di una seduta
consiliare non devono essere inserite dal segretario
comunale nel verbale del consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in materia di redazione del
verbale del consiglio comunale. In particolare, desidera
sapere se il segretario comunale abbia o meno l'obbligo di
verbalizzare eventuali frasi ingiuriose espresse dai
consiglieri nel corso della seduta consiliare.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un atto
giuridico ed, in quanto proveniente da una pubblica
amministrazione, è un atto pubblico. Più in dettaglio, il
verbale è un documento dotato di pubblica fede descrittivo
di atti o fatti compiuti alla presenza di un soggetto
verbalizzante appositamente incaricato. [1]
Come affermato da certa dottrina [2]
il verbale della seduta di un organo collegiale 'rappresenta
la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti
salienti della seduta, affinché i fatti in essa avvenuti
possano essere successivamente documentati'.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull'argomento, ha
affermato che: 'Il verbale ha l'onere di attestare il
compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il
corretto iter di formazione della volontà collegiale e di
permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al
riguardo alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una
minuziosa descrizione delle singole attività compiute o
delle singole opinioni espresse.' [3]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere
necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che,
secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono
rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l'attività
di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all'obbligo o meno del segretario
di verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la
dottrina prevalente [4]
afferma che esse debbano essere omesse dal verbale. In tal
senso, in un parere dell'ANCI si legge che: 'Eventuali
ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o diffamatorie
non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario
comunale provvede ad escluderle'. [5]
Per completezza espositiva, si segnala l'orientamento di
certa dottrina la quale afferma la sussistenza non già di un
obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di
omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale senso
è stato affermato che 'avendo il segretario l'obbligo di
inserire a verbale solo i punti essenziali della
discussione, si può ritenere che il segretario stesso abbia
la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che non gliene
sia fatto esplicito obbligo'. [6]
----------------
[1] Così, R. Nobile, 'Verbalizzazione e verbali delle
sedute degli organi e degli organismi collegiali negli enti
locali', in La Gazzetta degli enti locali, 2015.
[2] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag.
380.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n.
4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio-Roma, sez. I,
sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso si veda,
anche il parere del Ministero dell'Interno del 20.01.2015.
[4] Si veda, c. Polidori, 'Verbali e organi collegiali nelle
pubbliche amministrazioni', Trieste, 2012, pag. 195.
[5] ANCI, parere del 18.12.2007.
[6] A.R., 'Consiglio comunale - verbale delle adunanze -
contenuto - redazione dei processi verbali', in
L'Amministrazione italiana, n. 11/1999 (13.10.2017
- link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglio, presidente doc. Vicesindaco-assessore esterno: strada
chiusa. Nullaosta sulla
commissione elettorale (in sostituzione del
sindaco).
In un Comune con popolazione inferiore a
15.000 abitanti, è possibile affidare la
carica di vice presidente del consiglio
comunale al vicesindaco-assessore esterno?
Il vicesindaco facente funzioni può assumere
le funzioni di presidente della commissione
elettorale comunale e partecipare alle
relative operazioni?
In merito al primo quesito, ai sensi
dell'art. 64, comma 3, del Tuoel n.
267/2000, nei comuni con popolazione
inferiore ai 15.000 abitanti, non vi è
incompatibilità tra la carica di consigliere
comunale ed assessore nella rispettiva
giunta, mentre la nomina di assessori
esterni al consiglio fa parte del contenuto
facoltativo dello statuto ai sensi dell'art.
47, comma 4, del medesimo decreto
legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di
presidente del consiglio comunale, l'art.
39, comma 3, del citato decreto legislativo
n. 267/2000 prevede che nei comuni sino a
15.000 abitanti le stesse siano svolte dal
sindaco, «salvo differente previsione
statutaria», mentre il comma 1, stabilisce
che le funzioni vicarie del presidente del
consiglio, quando lo statuto non dispone
diversamente, siano esercitate dal
consigliere anziano.
La normativa statale, pertanto, anche in
carenza di specifiche disposizioni
dell'Ente, individua il vicario del
presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del Comune
conferma al sindaco il potere di presiedere
il consiglio comunale e stabilisce che,
«qualora il consigliere anziano sia assente
o rinunci a presiedere l'assemblea, la
Presidenza è assunta dal consigliere che,
nella graduatoria di anzianità occupa il
posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale conferma la titolarità
della presidenza in capo al sindaco; la
stessa disposizione, tuttavia, stabilisce
che in caso di assenza o di impedimento del
sindaco, la presidenza è assunta dal vice
sindaco e, ove questi sia assente o
impedito, dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone,
dunque, in contrasto con la norma
statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del
citato decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza
Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011)
la disposizione statutaria dovrebbe essere
prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni
fino a 15.000 abitanti, di far presiedere il
consiglio comunale, in assenza del sindaco,
al vicesindaco non consigliere comunale, il
Consiglio di stato, con il parere n. 94/96
del 21/02/1996 (richiamato dal successivo
parere n. 501 del 14/06/2001) -con
riferimento all'estensione dei poteri del
vice sindaco- ha affermato che il vice
sindaco può sostituire il sindaco nelle
funzioni di presidente del consiglio
comunale soltanto nel caso in cui il vicario
rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come
nel caso di specie, sia un assessore
esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da
presidente di un collegio un soggetto che
non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova
adeguata soluzione nell'orientamento del
Consiglio di Stato, espresso con pareri n.
94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del
04.06.2001, che, nella sostanza, hanno
avallato la linea interpretativa già
seguita, in materia, dal Ministero
dell'Interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando
che le funzioni del sindaco sospeso vengono
svolte dal vicesindaco in virtù dell'art.
53, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà, nessuna norma positiva identifica
atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale
risulta confortata da riflessioni di
carattere sistematico, poiché la
preposizione di un sostituto all'ufficio o
carica in cui si è realizzata la vacanza
implica, di regola, l'attribuzione di tutti
i poteri spettanti al titolare, con la sola
limitazione temporale connessa alla vacanza
medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di
continuità dell'azione amministrativa
dell'ente locale postula che in ogni momento
vi sia un soggetto giuridicamente
legittimato ad adottare tutti i
provvedimenti oggettivamente necessari
nell'interesse pubblico (riguardo la
questione precedente, infatti, l'assenza del
sindaco presidente del consiglio è supplita
dal consigliere anziano) è necessario
riconoscere al vicesindaco reggente pienezza
di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica
fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223
all'articolo 14, stabilisce che la
Commissione elettorale comunale è presieduta
dal sindaco e in caso di assenza,
impedimento o cessazione dalla carica,
dall'assessore delegato o dall'assessore
anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso
dalle funzioni di ufficiale del governo, la
commissione è presieduta dal commissario
prefettizio incaricato di esercitare tali
funzioni.
Nella fattispecie in esame, alla luce delle
disposizioni di cui al Tuoel, dunque, il
vice sindaco assumerà anche le funzioni di
presidente della commissione elettorale in
sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del
13.10.2017). |
ENTI LOCALI:
Amministratori. Consiglio di amministrazione di Azienda
pubblica di servizi alla persona. Assunzione carica da parte
di pensionato.
A seguito della novella operata dalla l.
124/2015, ad un soggetto in quiescenza può essere conferita
la carica di componente del consiglio di amministrazione di
un'Azienda pubblica di servizi alla persona anche per una
durata superiore a un anno, ferma restandone la gratuità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
conferire a un pensionato, ex medico di base convenzionato
con il SSN, la rappresentanza dell'Ente stesso nel Consiglio
di amministrazione di un'Azienda pubblica di servizi alla
persona, alla luce della vigente normativa che pone precisi
vincoli all'affidamento di incarichi/cariche a soggetti
collocati in quiescenza
Com'è noto, l'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come
modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014 e dall'art. 17,
comma 3, della l. 124/2015, sancisce il divieto, per le
pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del
d.lgs. 165/2001 di attribuire, a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi di
studio e di consulenza.
Alle richiamate amministrazioni è, altresì, fatto divieto di
conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o
direttivi o cariche in organi di governo delle
amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da
esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte
degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli
organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma
2-bis [1],
del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l.
125/2013. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni
sopra indicate sono comunque consentiti a titolo gratuito.
Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma
restando la gratuità, la durata non può essere superiore a
un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna
amministrazione.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione [2],
l'art. 6 del d.l. 90/2014 ha introdotto nuove disposizioni
in materia di incarichi a soggetti in quiescenza, volte ad
evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia
utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per attribuire a
soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle
amministrazioni stesse.
Premesso un tanto, si osserva che le Aziende pubbliche di
servizi alla persona rientrano nel novero delle
amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del
d.lgs. 165/2001, configurandosi quali enti pubblici non
economici.
In linea generale, in ordine alla possibilità di conferire
cariche in organi di governo (nella fattispecie,
l'assunzione della carica di amministratore di Azienda
pubblica di servizi alla persona) a lavoratori collocati in
quiescenza, si osserva che il legislatore ha assunto una
posizione negativa e restrittiva, in virtù del divieto
esplicitamente sancito dal richiamato articolo 6, comma 1,
del d.l. 90/2014.
Una espressa deroga al suddetto divieto è contemplata nel
medesimo articolo, laddove è ammesso il conferimento di
cariche in organi di governo per i 'componenti delle
giunte degli enti territoriali'. Si rappresenta, a tal
proposito, che in tale locuzione non possono ricomprendersi
le aziende pubbliche di servizi alla persona.
Si rileva infatti che si considerano enti territoriali solo
quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento
costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito
spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Come anticipato, la norma di cui si discute prevede
un'eccezione e cioè che gli incarichi, le cariche e le
collaborazioni oggetto del divieto possano essere attribuiti
a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e
direttivi, la durata non può comunque essere superiore a un
anno, ferma la gratuità.
In conclusione, con riferimento al caso di specie, si
osserva che, a seguito della novella operata dalla l.
124/2015, i soggetti in quiescenza possono essere nominati
alla suddetta carica di componente del Consiglio di
amministrazione di un'ASP anche per una durata superiore a
un anno, ferma restandone la gratuità [3].
---------------
[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi
organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Come chiarito con circolare n. 4/2015 del Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione (29.09.2017
- link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Decadenza dalla carica di un consigliere
comunale.
Qualora lo statuto
comunale non sia ancora stato adeguato in
applicazione di quanto disposto dall'art.
43, comma 4, del D.Lgs. 267/2000, l'istituto
della decadenza dell'amministratore locale
per ripetute assenze continua ad essere
disciplinato in via transitoria dall'art.
289 del R.D. 148/1915.
Segue che il consiglio comunale può
dichiarare la decadenza del consigliere per
mancata partecipazione alle sedute solo
qualora si verifichi la condizione
consistente nel mancato intervento dello
stesso ad una intera sessione ordinaria.
L'amministratore locale chiede un parere in
materia di decadenza dei consiglieri
comunali dalla carica per ripetute assenze,
in particolare con riferimento ai casi e
alle modalità procedimentali per formulare
la relativa richiesta.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie
locali ed elettorale, si formulano le
seguenti considerazioni.
L'articolo 18 dello statuto comunale
rubricato 'Decadenza' prevede che: 'Si
ha decadenza dalla carica di consigliere
comunale: a) omissis; b) Per mancato
intervento, senza giustificati motivi, ad
una intera sessione ordinaria'. Il comma
2 del medesimo articolo, specifica, poi,
che: 'La decadenza è pronunciata dal
consiglio comunale, d'ufficio, promossa dal
Prefetto o su istanza di qualunque elettore
del comune, decorso il termine di 10 giorni
dalla notificazione all'interessato della
relativa proposta'.
L'articolo 43, comma 4, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL),
recita: 'Lo statuto stabilisce i casi di
decadenza per la mancata partecipazione alle
sedute e le relative procedure, garantendo
il diritto del consigliere a far valere le
cause giustificative'.
Atteso che lo statuto dell'Ente è di data
antecedente all'entrata in vigore del TUEL
rileva il disposto di cui all'articolo 273
dello stesso nella parte in cui prevede che:
'Le disposizioni degli articoli [...] 289
del testo unico della legge comunale e
provinciale, approvato con regio decreto
04.02.1915, n. 148, si applicano fino
all'adozione delle modifiche statutarie e
regolamentari previste dal presente testo
unico'.
In particolare, l'articolo 289 del R.D.
148/1915, al primo comma, stabilisce che: 'I
consiglieri, che non intervengono ad una
intera sessione ordinaria, senza
giustificati motivi, sono dichiarati
decaduti.'. [1]
Il successivo terzo comma dispone, poi, che:
'La decadenza è pronunciata dai
rispettivi Consigli.'.
Trovando, pertanto, ancora applicazione in
via transitoria l'articolo 289 del R.D.
148/1915 il consiglio comunale può
dichiarare la decadenza del consigliere per
mancata partecipazione alle sedute solo
qualora si verifichi la condizione
consistente nel mancato intervento del
consigliere comunale ad una intera sessione
ordinaria.
Circa il significato da attribuire alla
nozione 'sessione ordinaria', atteso
il silenzio sul punto dello statuto,
[2]
si fa presente che l'articolo 124 del R.D.
148/1915 stabiliva che: 'Il Consiglio
comunale deve riunirsi due volte l'anno in
sessione ordinaria.
L'una nei mesi di marzo, aprile o maggio.
L'altra nei mesi di settembre, ottobre o
novembre'.
In altri termini, parrebbe che per sessioni
ordinarie debbano intendersi quelle relative
all'approvazione del bilancio di previsione
annuale e pluriennale e del rendiconto di
gestione.
Sull'istituto della decadenza dalla carica
del consigliere per ripetute assenze i
giudici amministrativi hanno estrapolato una
serie di principi volti a garantire il
giusto contemperamento degli interessi
coinvolti nel procedimento in riferimento
ovverosia 'da una parte l'esigenza di
rispettare il mandato elettorale e di non
rendere eccessivamente difficile
l'adempimento dello stesso da parte del
soggetto eletto, dall'altra l'esigenza di
garantire una ordinata e proficua attività
dell'organo collegiale che non può essere
paralizzata da un'ingiustificata assenza dei
suoi componenti.'. [3]
Di particolare interesse, al riguardo, è la
pronuncia del Consiglio di Stato del
20.02.2017 [4]
che riepiloga quanto affermato in diverse
occasioni dai giudici amministrativi
sull'istituto in argomento. Recita
l'indicata sentenza: «La fondatezza del
ricorso in esame va valutata alla luce dei
principi che questa stessa Sezione ha già da
tempo avuto modo di ben chiarire, dai quali
non v'è motivo di discostarsi e che qui si
richiamano testualmente:
- le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute
del consiglio comunale non (devono) essere
giustificate preventivamente di volta in
volta;
- le giustificazioni possono essere fornite successivamente, anche
dopo la notificazione all'interessato della
proposta di decadenza, ferma restando
l'ampia facoltà di apprezzamento del
consiglio comunale in ordine alla fondatezza
e serietà ed alla rilevanza delle
circostanze addotte a giustificazione delle
assenze;
- le circostanze da cui consegue la decadenza vanno interpretate
restrittivamente e con estremo rigore, data
la limitazione che essa comporta
all'esercizio di un munus publicum;
- gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati
con la massima attenzione anche per evitare
un uso distorto dell'istituto come strumento
di discriminazione nei confronti delle
minoranze;
- le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole
deduzione un atteggiamento di disinteresse
per motivi futili o inadeguati rispetto agli
impegni con l'incarico pubblico elettivo;
[5]
- la mancanza o l'inconferenza delle giustificazioni devono essere
obiettivamente gravi per assenza o estrema
genericità e tali da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e
rilevanza dei motivi (V Sezione,
sentenza 09.10.2007, n. 5277).
"La protesta politica, dichiarata a
posteriori, non è idonea a costituire valida
giustificazione delle assenze dalle sedute
consiliari, in quanto, affinché l'assenza
dalle sedute possa assumere la connotazione
di protesta politica occorre che il
comportamento ed il significato di protesta
che il consigliere comunale intende
annettervi siano in qualche modo esternati
al Consiglio o resi pubblici in concomitanza
alla estrema manifestazione di dissenso, di
cui la diserzione delle sedute costituisce
espressione"; "spetta al Consigliere
nei confronti del quale è instaurato il
procedimento di decadenza di fornire
ragionevoli giustificazioni dell'assenza";
"è legittima la decadenza dalla carica di
consigliere comunale per assenza
ingiustificata, qualora la giustificazione
addotta dall'interessato è talmente relegata
alla sfera mentale soggettiva di colui che
la adduce (come nel caso della protesta
politica non altrimenti e non prima
esternata), da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e
rilevanza del motivo" (V Sezione - sentenza
29.11.2004, n. 7761).».
Premesso un tanto, con riferimento alle
modalità e procedure da porre in essere al
fine della dichiarazione di decadenza, si
rileva la necessità che venga avviato un
procedimento amministrativo di
contestazione.
Al riguardo la giurisprudenza
[6]
ha affermato l'applicabilità al procedimento
di decadenza in riferimento della legge
07.08.1990, n. 241 e, nello specifico,
dell'articolo 7 relativo all'obbligo
dell'Amministrazione di comunicare
all'interessato l'avvio del procedimento.
Tale comunicazione deve, tra l'altro,
indicare il termine entro cui
l'amministratore locale coinvolto deve
ottemperare alla presentazione delle
giustificazioni, laddove queste non siano
state già comunicate congiuntamente alle
dichiarazioni di assenza.
Legittimati all'instaurazione del relativo
procedimento sono i consiglieri comunali, in
forza del disposto di cui all'articolo 43,
comma 1, TUEL nella parte in cui recita che:
'I consiglieri comunali [...] hanno
diritto di iniziativa su ogni questione
sottoposta alla deliberazione del consiglio.'.
Quanto alla dichiarazione di decadenza si
ribadisce che la stessa compete al consiglio
comunale il quale dovrà procedere nel
rispetto delle condizioni tutte sopra
indicate. Pertanto, spetta al consiglio la
valutazione -discrezionale ma congruamente
motivata- in ordine alla valenza
giustificativa delle motivazioni delle
assenze, presentate anche successivamente
dal consigliere.
---------------
[1] Il secondo comma dell'articolo 289
del RD 148/1915 disciplinava, invece, la
diversa ipotesi della decadenza
dell'assessore comunale e disponeva che: 'Il
deputato provinciale, o l'assessore
municipale, che non interviene a tre sedute
consecutive del rispettivo consesso, senza
giustificato motivo, decade dalla carica.'.
[2] E sul presupposto che neppure il
regolamento sul funzionamento del consiglio
dica alcunché al riguardo.
[3] Cfr. TAR Basilicata, sentenza del
27.03.2000, n. 184.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
20.02.2017, n. 743.
[5] Si veda, anche TAR Lazio, Roma, sez. II-bis,
sentenza del 22.03.2017, n. 3786.
[6] TAR Abruzzo, Pescara, sentenza del
07.11.2006, n. 689. Nello stesso senso, TAR
Campania, Napoli, sentenza del 04.12.1992,
n. 436
(14.09.2017
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Controlli senza segreti. Diritto
di accesso per i consiglieri comunali. Va
garantita la conoscenza delle risposte date
dal comune alla Corte conti.
In materia di diritto di accesso da parte
dei consiglieri comunali, ex art. 43 del
decreto legislativo n. 267/00, è legittimo
il diniego espresso da un comune nei
confronti di un consigliere che ha chiesto
all'ente di potere acquisire «il riscontro
fornito dal comune ad una nota della Corte
dei conti»?
Nella fattispecie, il comune, che avrebbe
parzialmente riscontrato la richiesta della
Corte dei conti, ha precisato che trattasi
di «chiarimenti e valutazioni sulle
criticità emerse dall'esame delle relazioni
ai rendiconti relativi ad annualità
pregresse, redatte dall'Organo di revisione
contabile». A seguito del diniego
all'accesso, l'interessato ha diffidato la
responsabile del settore ai sensi dell'art.
328, comma II, del codice penale.
In merito, il plenum della Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha affermato che il «diritto
di accesso» e il «diritto di
informazione» dei consiglieri comunali
nei confronti della p.a. trovano la loro
disciplina nell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000 che riconosce a
questi il diritto di ottenere dagli uffici
comunali, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Ferma
restando l'opportunità, per l'ente, di
dotarsi di apposito regolamento per la
disciplina di dettaglio dell'esercizio di
tale diritto, la maggiore ampiezza di
legittimazione all'accesso rispetto al
cittadino (art. 10 del decreto legislativo
n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal
consigliere comunale.
Infatti, il consigliere deve essere posto
nelle condizioni di valutare, con piena
cognizione di causa, la correttezza e
l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, onde potere esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della p.a., opportunamente
considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata. A tal fine, il
consigliere comunale non deve motivare la
propria richiesta di informazioni, poiché,
diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe
ad arbitro delle forme di esercizio delle
potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione e al perseguimento dei
fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l'oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato. Nel caso di
specie, i funzionari comunali che hanno
negato l'accesso hanno rilevato che le
richieste della Corte dei conti sono state
effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e
seguenti della legge 23.12.2005, n. 266 e
dell'art. 148-bis del dlgs 18.08.2000, n.
267 e che dunque, «il rilascio della nota
di riscontro richiesta potrebbe essere di
pregiudizio per l'ente e per l'attività
della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non
disciplinano i procedimenti di natura
giudiziale (rispetto ai quali la Commissione
per l'accesso ai documenti amministrativi,
con talune pronunce (plenum del 25.01.2005)
ha optato per il rinvio dell'accesso alla
conclusione delle controversie), ma
affidano, invece, alla Corte dei conti il
controllo sui bilanci e sui rendiconti degli
enti locali, al fine della verifica del
rispetto del patto di stabilità interno,
dell'osservanza dei vincoli in materia di
indebitamento e di ogni grave irregolarità
contabile e finanziaria. La conoscenza degli
atti in parola, non violerebbe, dunque alcun
segreto istruttorio, fermo restando, in tale
ipotetico caso, l'assoggettamento del
consigliere al vincolo della riservatezza.
Peraltro, in fattispecie analoga alla
presente, il Consiglio di stato, sez. IV con
decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha
confermato l'accessibilità, da parte del
consigliere, al documento richiesto «sul
fondamento della precisa quanto generale
previsione di rango legislativo recata
dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del
2000». Il Consiglio di stato ha,
altresì, specificato che «in assenza di
precisi dati in senso contrario non può che
prevalere, pertanto, il principio della
libera accessibilità da parte del
consigliere comunale, regola generale alla
quale non risultano essere state apportate
deroghe neppure in subiecta materia».
Talché, come affermato sempre dalla
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai
sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n.
33 del 14.03.2013, chiunque, e dunque anche
i consiglieri comunali, ha diritto di
ottenere l'accesso ai dati relativi ai
controlli sull'organizzazione e
sull'attività dell'amministrazione che la
p.a. ha l'obbligo di pubblicare».
Pertanto, alla luce del quadro sopra
delineato, non appare che possa negarsi
l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
Collegio ritiene importante ribadire come il quadro
normativo, ermeneutico ed applicativo di riferimento sia
sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei suoi contenuti.
Opportuna appare comunque una ricognizione della normativa
in tema di cumulo di impieghi e di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni, al fine dell’individuazione dei
principi fondamentali, rilevanti ed applicabili alle
condotte contestate.
Sulla incompatibilità e sul cumulo di impieghi, il
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 "Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche", all'art. 53
(Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, già art.
58 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato prima
dall'art. 2 del decreto legge n. 358 del 1993, convertito
dalla legge n. 448 del 1993, poi dall'art. 1 del d.l. n. 361 del 1995, convertito con modificazioni dalla
legge n. 437 del 1995 e, infine, dall'art. 26 del d.lgs. n.
80 del 1998 nonché dall'art. 16 del d.lgs. n. 387 del 1998)
prevede che:
● “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la
disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e
seguenti del testo unico approvato con dPR 10.01.1957, n. 3, nonché, per i
rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma
2, del d.p.c.m.
17.03.1989, n. 117 e dall'articolo 1, commi 57 e seguenti
della legge 23.12.1996, n. 662. Restano ferme altresì le
disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274,
508 nonché 676 del dlgs 16.04.1994, n. 297,
all'articolo 9, commi 1 e 2, della legge 23.12.1992, n. 498,
all'articolo 4, comma 7, della legge 30.12.1991, n. 412, ed
ogni altra successiva modificazione ed integrazione della
relativa disciplina”.
● “Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai
dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di
ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati
da legge o altre fonti normative, o che non siano
espressamente autorizzati”.
● “Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti,
da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge
23.08.1988, n. 400, sono individuati gli incarichi
consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari,
amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e
procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse
magistrature, i rispettivi istituti”.
● “Nel caso in cui i regolamenti di cui al comma 3 non
siano emanati, l'attribuzione degli incarichi è consentita
nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre
fonti normative”.
● “In ogni caso, il conferimento operato direttamente
dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio
di incarichi che provengano da amministrazione pubblica
diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o
persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o
commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti
secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano
conto della specifica professionalità, tali da escludere
casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell'interesse del buon andamento della pubblica
amministrazione”.
● “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all'articolo
3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a
tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al
cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti
universitari a tempo definito e delle altre categorie di
dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni
speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.
Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono
tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei
compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto
qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi
derivanti:
a) dalla collaborazione a giornali, riviste,
enciclopedie e simili;
b) dalla utilizzazione economica da
parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di
invenzioni industriali;
c) dalla partecipazione a convegni e
seminari;
d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il
rimborso delle spese documentate;
e) da incarichi per lo
svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di
aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
f) da incarichi
conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso
le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita”.
● “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi
retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con
riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli
statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri
e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi
previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del
divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la
responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.”.
---------------
1. Con atto di citazione regolarmene notificato, la Procura
Regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei
Conti per l’Emilia Romagna, citava in giudizio il Prof.
BI.AU., ricercatore di ruolo a tempo pieno dell’Università
degli Studi di Bologna, contestandogli di aver svolto
attività economiche e prestazioni professionali in
situazione di incompatibilità assoluta e senza che ne fosse
stata data alcuna comunicazione all’amministrazione di
appartenenza, l’Università di Bologna.
2. In particolare il convenuto:
a) è entrato in ruolo il 01/03/2011 come Ricercatore, confermato
dal 08/03/2014. Il regime di impegno orario è sempre stato
quello di tempo pieno dalla data della nomina in ruolo;
(b) nel 2011 ha ricevuto, per l'attività d'insegnamento presso
l'Università, la retribuzione lorda di euro 20.112,63;
(c) è stato amministratore unico della PL.EN. S.r.l. dal 17/02/2005
al 30/04/2011. Ha pertanto ricoperto una carica di natura
operativa all'interno di società avente scopo di lucro,
senza ricevere/dichiarare compensi;
(d) è stato amministratore unico della RA.TE. S.r.l. dal 03/05/2010
al 14/10/2011. Ha pertanto ricoperto una carica di natura
operativa all'interno di società avente scopo di lucro,
senza ricevere/dichiarare compensi. Dal 14.10.2011 al
10.08.2012 è stato consigliere di amministrazione della
società senza deleghe (quest’ultimo incarico è stato
autorizzato dall’Università di Bologna);
(e) partecipa al capitale sociale della società PL.EN. S.r.l. per
una quota pari al 12% e, fino al 23/10/2012, ha partecipato
al capitale sociale della società RA.TE. S.r.l. per una
quota pari al 8,5%. Quest'ultima società è stata costituita
da BI. e dalla PL.EN.;
(f) non ha fatto mai alcuna comunicazione all’Università della
assunzione delle cariche di amministratore unico nelle due
società sopra indicate (complessivamente svolte nel periodo
dall’ingresso in ruolo in data 1.03.2011 al 14.10.2011);
3. Alla luce di tali considerazioni, la Procura Regionale ha
ipotizzato un danno erariale nella misura di euro 13.834,29
(pari agli emolumenti lordi liquidati dall’Università di
Bologna in favore del dott. Bi. nel periodo
01.03.2011–14.10.2011, oggetto di contestazione), oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali.
4. Con comparsa di risposta, il convenuto ribadisce:
- di essere stato assunto dall’amministrazione universitaria in
data 01/03/2011 poiché vincitore di concorso bandito nel
dicembre 2009 (procedura comparativa n. 1 posto di
ricercatore universitario settore scientifico disciplinare ING-IND/17 IM.IN.ME.) bandita con DR n. 1432 del 17/12/2009
presso la seconda Facoltà di Ingegneria di Cesena
dell’università di Bologna le cui relative prove sono state
sostenute soltanto in data 23/02/2011 (quindi pochi giorni
prima dell’assunzione).
- che la comunicazione del risultato della selezione a cui il Dott.
Bi. ha partecipato è avvenuta soltanto in data 28/02/2011 da
parte dell’Università (dunque soltanto il giorno prima
dell’assunzione e della sottoscrizione del contratto). Nella
medesima data, appena ricevuta la notizia dell’assunzione
prevista per il giorno seguente, il dott. Bi. ha prontamente
comunicato alle società in cui era all’epoca nominato
Amministratore unico (Pl.En. e Ra.Te.) di individuare in
maniera tempestiva un sostituto che potesse rivestire la sua
posizione societaria. L’Assemblea della Pl.En. ha nominato
il nuovo Amministratore in data 30/04/2011;
- che, per quanto riguarda la Ra.Te., il dott. Bi. si è dimesso
dalla carica ricoperta in data 31/08/2011 e l’Assemblea
della suddetta società, in data 14/10/2011, provvedeva a
nominare il nuovo Amministratore;
- che nelle more del procedimento di nomina del nuovo
amministratore delegato della Ra.Te., il Dott. Bi. ha svolto
compiti meramente esecutivi e non gestionali e/o operativi.
Il convenuto evidenzia inoltre che, nonostante la normativa
richiamata (in particolare, artt. 60 e 63 D.P.R. n. 3/1957)
vieti l’esercizio di attività incompatibile con il ruolo di
professore universitario, “non esiste alcuna disposizione
che stabilisce che dalla trasgressione del divieto di
svolgere determinate attività ne discenda l’integrazione di
un danno erariale pari ai compensi stipendiali percepiti, né
è prevista altra penalizzazione di tipo pecuniario”
(Corte dei conti, Sez. giur. Liguria sent. 25/2015).
La richiesta della Procura sarebbe pertanto basata
sull’errata presunzione che il mero svolgimento di attività
incompatibili influisca negativamente sui compiti
universitari, prescindendo dall’accertamento di un reale
pregiudizio all’attività di docenza. Il Dott. Bi. ha
omesso di dichiarare formalmente tale incompatibilità
(peraltro comunque comunicata per le vie brevi), poiché la
prestazione ulteriore è stata resa a titolo gratuito a
partire dal 01/03/2011 (giorno di assunzione da parte
dell’Università).
Sottolinea l’inesistenza di un danno alla finanza pubblica,
in quanto il dott. Bi., nel periodo fra l’01/03/2011 e
il 14/10/2011, ha regolarmente svolto la prestazione
lavorativa nei confronti dell’amministrazione di
appartenenza, né d’altronde la Procura ha fornito la prova
del presunto danno arrecato dal Dott. Bi. alle casse
dell’amministrazione universitaria.
5. L’azione erariale, avente ad oggetto l’esercizio di
attività libero-professionali da parte di un professore
universitario in regime di incompatibilità con il suo status
giuridico, si palesa infondata e, come tale, va rigettata
nei termini che seguono.
Con atto di citazione la Procura, all’esito dell’attività
istruttoria espletata, ha ipotizzato la sussistenza di
elementi di responsabilità amministrativa a carico del Dott.
Bi. individuando la lesione del bilancio
dell’amministrazione universitaria nello svolgimento di
prestazioni professionali non autorizzate e determinando il
danno erariale in euro 13.834,29 euro (emolumenti lordi
corrisposti a Bianchini dal datore di lavoro pubblico nel
periodo 01/03/2011 e il 14/10/2011), oltre rivalutazione e
interessi.
6. Innanzitutto il Collegio ritiene importante ribadire come
il quadro normativo, ermeneutico ed applicativo di
riferimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei
suoi contenuti. Opportuna appare comunque una ricognizione
della normativa in tema di cumulo di impieghi e di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni, al fine
dell’individuazione dei principi fondamentali, rilevanti ed
applicabili alle condotte contestate.
6.1. Sulla incompatibilità e sul cumulo di impieghi, il
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 "Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche", all'art. 53
(Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, già art.
58 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato prima
dall'art. 2 del decreto legge n.358 del 1993, convertito
dalla legge n. 448 del 1993, poi dall'art. 1 del decreto
legge n. 361 del 1995, convertito con modificazioni dalla
legge n. 437 del 1995 e, infine, dall'art. 26 del d.lgs. n.
80 del 1998 nonché dall'art. 16 del d.lgs. n. 387 del 1998)
prevede che:
6.1.1. “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la
disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e
seguenti del testo unico approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, nonché, per i
rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma
2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
17.03.1989, n. 117 e dall'articolo 1, commi 57 e seguenti
della legge 23.12.1996, n. 662. Restano ferme altresì le
disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274,
508 nonché 676 del decreto legislativo 16.04.1994, n. 297,
all'articolo 9, commi 1 e 2, della legge 23.12.1992, n. 498,
all'articolo 4, comma 7, della legge 30.12.1991, n. 412, ed
ogni altra successiva modificazione ed integrazione della
relativa disciplina”.
6.1.2. “Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai
dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di
ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati
da legge o altre fonti normative, o che non siano
espressamente autorizzati”.
6.1.3. “Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti,
da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge
23.08.1988, n. 400, sono individuati gli incarichi
consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari,
amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e
procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse
magistrature, i rispettivi istituti”.
6.1.4. “Nel caso in cui i regolamenti di cui al comma 3 non
siano emanati, l'attribuzione degli incarichi è consentita
nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre
fonti normative”.
6.1.5. “In ogni caso, il conferimento operato direttamente
dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio
di incarichi che provengano da amministrazione pubblica
diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o
persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o
commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti
secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano
conto della specifica professionalità, tali da escludere
casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell'interesse del buon andamento della pubblica
amministrazione”.
6.1.6. “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all'articolo
3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a
tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al
cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti
universitari a tempo definito e delle altre categorie di
dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni
speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.
Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono
tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei
compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto
qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi
derivanti: a) dalla collaborazione a giornali, riviste,
enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da
parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di
invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e
seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il
rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo
svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di
aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi
conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso
le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita”.
6.1.7. “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi
retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con
riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli
statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri
e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi
previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del
divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la
responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.”
7. Dalla ricostruzione del quadro legislativo, si desume
quindi che lo status giuridico ed economico dei dipendenti
pubblici è contraddistinto da uno specifico divieto, poiché
i medesimi non possono svolgere incarichi retribuiti che non
siano stati conferiti o previamente autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza, e che dalla
inosservanza di tale divieto discende -salve le più gravi
sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare-
l'obbligo, con adempimento a cura dell'erogante od in
difetto del percettore, di versare il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte nel conto dell'entrata del
bilancio dell'amministrazione di appartenenza del
dipendente, per essere destinato ad incremento del fondo di
produttività o di fondi equivalenti.
7.1. I medesimi principi e la stessa ratio, sono
ravvisabili nello status giuridico ed economico del
professore universitario, il quale è assoggettato alla
medesima disciplina giuridica in materia di incompatibilità
e di cumulo di incarichi a garanzia del buon andamento
amministrativo dell'attività didattica, di ricerca e di
studio. A tal proposito si veda l’art. 53, co. 7, d.lgs.
30.03.2001 n. 165 il quale espressamente prevede che ”Con
riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli
statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri
e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi
previsti dal presente decreto"; nonché il DPR 11.07.1980
n. 382, in materia di riordinamento della docenza
universitaria.
7.2. Il quadro normativo dei principi e delle disposizioni
vigenti in materia di cumulo di incarichi, di
incompatibilità e di conflitto d'interessi tra funzioni ed
incarichi, risulta essere stato rafforzato e consolidato nei
più recenti interventi del legislatore in materia.
In particolare, la legge 30.12.2010 n. 240, recante "Norme
in materia di organizzazione delle università, di personale
accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per
incentivare la qualità e l'efficienza del sistema
universitario" all'art. 6, comma 12, ha richiamato il
principio del divieto di conflitto d'interesse tra funzioni
didattiche ed incarichi professionali, e tra questi ultimi e
le cariche accademiche (i professori e i ricercatori a tempo
definito possono svolgere attività libero professionale di
lavoro autonomo anche continuative, purché non determinino
situazioni di conflitto di interesse rispetto all'ateneo di
appartenenza. La condizione di professore a tempo definito è
incompatibile con l'esercizio di cariche accademiche. Gli
statuti di ateneo disciplinano il regime della predetta
incompatibilità).
7.3. Infine la legge 06.11.2012 n. 190 recante "Disposizioni
per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione",
all'art. 1, comma 42, nell’introduzione di alcune modifiche
apportate all'art. 53 decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
ha confermato la giurisdizione della Corte dei conti sulla
responsabilità patrimoniale del dipendente pubblico gravato
dall'obbligazione restitutoria dei compensi illegittimamente
percepiti (dopo il comma 7 è inserito il seguente: «7-bis.
L'omissione del versamento del compenso da parte del
dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi
di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della
Corte dei conti»).
Tale ultimo intervento normativo appare confermativo della
sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in
conformità agli orientamenti già enunziati in materia dalla
Corte di Cassazione.
8. Dalla documentazione acquista agli atti,
risulta provato e non contestato dalle parti il
fatto che, a fronte dell’espletamento di incarichi svolti
all'interno di società avente scopo di lucro, e quindi in
violazione delle norme sull’incompatibilità, non siano stati
percepiti nessun tipo di compensi.
Ritiene il Collegio, pertanto, che non possa configurarsi
alcuna ipotesi di responsabilità amministrativa del
convenuto per l’omesso versamento dei compensi, stante la
loro mancata percezione.
9. La domanda va in conclusione rigettata
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna,
sentenza 20.10.2017 n. 206). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'affidamento all'esterno dell'ente di incarichi illegittimi
comporta sempre danno erariale.
I profili di illegittimità degli atti
costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle
condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso;
in altri termini, la non conformità dell’azione
amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo
svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé,
una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può
assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una
condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento
economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come
enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione
di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei
peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in
volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura
del principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e
qualitativamente significative devianze dalle vincolanti
prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate,
integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione, induce la considerazione secondo la
quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni
dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del
preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione
delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza
pubblica.
La preservazione di tali valori ha luogo, oltre che
attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa,
anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale
che definiscono condizioni e procedure che legittimano
l’esborso; in tale peculiare contesto, per quanto di rilievo
nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di
carattere modale è presupposto di legittimità della spesa
sostenuta.
---------------
Questa Sezione d’Appello, dopo aver evidenziato che le
speciali condizioni:
- rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi
dell'ente;
- assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A. ovvero
carenza organica che impedisca o renda oggettivamente
difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione
pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
- complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze
ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale
della P.A. o dell'ente pubblico;
- indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell'incarico esternalizzato;
- indicazione della durata dell'incarico, svolgimento da parte del
privato di un'attività non continuativa;
- proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e
l'utilità conseguita dall'amministrazione,
che legittimano il conferimento di funzioni dell’Ente a
soggetti esterni alla P.A., ha affermato che tali requisiti
«….devono coesistere e, soprattutto, devono essere
oggettivamente sussistenti….».
Inoltre, ha precisato anche che, «….nei
rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti
posti dal legislatore all'azione degli amministratori,
soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a
tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si
ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza
pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria
del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il
legislatore pone agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte
quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è
sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si
realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni costituisce, quindi,
il presupposto antigiuridico che cagiona un danno erariale
per l’Ente (pari alle somme che sono state pagate a soggetti
esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono
escludono, quindi, che una qualche utilità possa attribuirsi
a una prestazione conseguente ad un incarico conferito
contra legem con conseguente impossibilità di considerare,
ai fini della quantificazione del danno risarcibile,
l’eventuale vantaggio conseguente all’attività del soggetto
esterno all’Ente, illegittimamente incaricato.
---------------
Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal
Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le
motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a
soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette
condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei
provvenimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a
firma della dr.ssa Fa., emerge chiaramente che:
· la genericità con la quale è stato definito l’oggetto degli
incarichi e la carenza di motivazione dei provvedimenti di
proroga, non soltanto non consente di valutare la
riconducibilità degli incarichi stesso alle funzioni
sindacali, ma preclude anche l’individuazione dell’utilità
attesa;
· il limite massimo di incarichi conferibili, ai sensi dell’art. 14
della L.r. n. 7/1992, che per il Comune di Salemi era pari a
2 (tenuto conto che la popolazione ivi residente non
superava le 30.000 unità), mentre, nella fattispecie, tale
limite è stato evidentemente ampiamente violato;
· non è stato rispettato il limite massimo del compenso mensile
indicato dall’art. 14 della L.r. n. 7/92, ove è previsto che
“....Agli esperti è corrisposto un compenso pari a quello
globale, previsto per i dipendenti in possesso della seconda
qualifica dirigenziale...” che era pari ad € 1.566,26
(come risulta chiaramente dalla attestazione del 14.10.2014,
a firma del Responsabile dell’Ufficio del Personale del
Comune di Salemi, allegata alla relazione del Capo Settore
Amministrazione delle Risorse dello stesso Comune n. prot.
23707 del 15.10.2014) poiché i compensi riconosciuti ai
consulenti avevano oscillato tra i 1.800,00 e i 2.448,00
euro mensili;
· non risulta presentata, da parte del Sindaco, e nemmeno dal Vice
Sindaco in funzione di supplenza, la relazione sull’attività
svolta al consiglio comunale, né è stata trovata altra
documentazione idonea a compendiare i risultati
dell’attività svolta dai consulenti; sul punto si osserva
che, per gli incarichi conferiti dalla odierna appellante,
appare logico che detta relazione avrebbe dovuto essere
presentata da quest’ultima;
· manca una effettiva e concreta ricognizione delle risorse interne
al fine di verificare che le medesime attività non potessero
essere svolte utilizzando i dipendenti del Comune;
· in violazione di quanto previsto dall’art. 3 della legge
finanziaria per il 2008 (legge n. 244/2007), gli incarichi
conferiti non erano stati inseriti nella programmazione
annuale del Consiglio comunale, e non era stato rispettato
il tetto di spesa, fissato dallo stesso organo, in
complessivi euro 8.800,00, con delibera n. 38 del
01.08.2008.
Tutto ciò premesso, non appare superfluo evidenziare che,
secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché
pacifico (cfr.,
ex multis, Corte conti, Sez. Lombardia, 05.03.2007, n.
141; id., Sez. App. III, 10.03.2003, n. 100/A; id., Sez.
Molise, 04.04.2002, n. 65/E), i profili di
illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della
dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di
quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non
conformità dell’azione amministrativa alle puntuali
prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo
idonea a generare, di per sé, una responsabilità
amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza
allorché quegli atti integrino una condotta almeno
gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per
l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come
enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione
di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei
peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in
volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del
principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e
qualitativamente significative devianze dalle vincolanti
prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate,
integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione, induce la considerazione secondo la
quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni
dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del
preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione
delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza
pubblica.
La preservazione di tali valori ha luogo, oltre che
attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa,
anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale
che definiscono condizioni e procedure che legittimano
l’esborso; in tale peculiare contesto, per quanto di rilievo
nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di
carattere modale è presupposto di legittimità della spesa
sostenuta.
Le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della
motivazione dei provvedimenti oggetto del presente giudizio,
quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione
amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di
legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano
anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo,
automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa;
tale ricostruzione è in linea con un orientamento
giurisprudenziale consolidato sia in primo grado
(tra le tante, più di recente, Sez. Giur. Lazio Sent
06.05.2008, n. 736; Sez. Giur. Sicilia Sent. 07.01.2008, n.
185; Sez. Giur. Molise Sent. 28.02.2007, n. 50; Sez. Giur.
Sicilia Sent. 21.09.2007, n. 2492; Sez. Giur. Veneto Sent.
03.04.2007, n. 303; Sez. Giur. Calabria Sent. 30.08.2006, n.
672), che in grado di appello
(ex pluribus: Sez. I App Sent. 28.05.2008, n. 237;
Sez. App. III Sent. 05.04.2006, n. 173; Sez. App. II Sent.
20.03.2006, n. 122; Sez. App. II Sent. 16.02.2006, n. 107;
Sez. App. III Sent. 06.02.2006, n. 74; Sez. App. I Sent.
04.10.2005, n. 304; Sez. App. I Sent. 08.08.2005, n. 259;
Sez. App. I Sent. 31.05.2005, n. 187; Sez. App. III Sent.
13.04.2005, n. 183; Sez. App. II Sent. 28.11.2005, n. 389).
In particolare, poi, tale indirizzo ha
ricevuto anche l’avallo di questa Sezione d’Appello
(cfr. Sent. 101/A/2010; 196/A/2009; 284/A/2008; 206/A/2008;
122/A/2008; 48/A/2007), la quale, dopo aver
evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza
dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente;
assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A.
ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente
difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione
pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
complessità dei problemi da risolvere che richiedono
conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del
personale della P.A. o dell'ente pubblico; indicazione
specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento
dell'incarico esternalizzato; indicazione della durata
dell'incarico, svolgimento da parte del privato di
un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso
corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita
dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha
affermato che tali requisiti «….devono coesistere e,
soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….».
Inoltre, ha precisato anche che, «….nei
rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti
posti dal legislatore all'azione degli amministratori,
soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a
tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si
ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza
pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria
del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il
legislatore pone agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte
quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è
sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si
realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di
funzioni dell’Ente a soggetti esterni costituisce, quindi,
nella fattispecie, il presupposto antigiuridico che ha
cagionato un danno erariale per l’Ente (pari alle somme che
sono state pagate a soggetti esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono escludono,
quindi, che una qualche utilità possa attribuirsi a una
prestazione conseguente ad un incarico conferito contra
legem con conseguente impossibilità di considerare, ai
fini della quantificazione del danno risarcibile,
l’eventuale vantaggio conseguente all’attività del soggetto
esterno all’Ente, illegittimamente incaricato.
Quanto detto, vale evidentemente anche per la posta di danno
corrispondente alle spese sostenute dal Comune di Salemi per
il rimborso delle missioni effettuate dal sig. Ip. in
quanto, dalla lettura dei provvedimenti autorizzativi nelle
missioni svolte, si evince che:
· l’Ip. veniva qualificato come addetto stampa e non come portavoce
e, quindi, i compiti affidati all’addetto stampa, diretti a
curare i rapporti tra l’Amministrazione e gli organi di
informazione, non giustificavano, in alcun modo, l’attività
diretta a coadiuvare l’organo di vertice fuori sede, da
ritenersi propria, invece, del portavoce;
· non appare giustificata l’utilità attesa per il Comune dalla
presenza del consulente nelle svariate località indicate
nella parte in fatto.
Ciò premesso, ritiene, tuttavia, il Collegio che debba
ritenersi legittima la nomina dell'avv. Ma., esperto in
materia di diritto degli enti locali, in quanto al punto n.
11 della nota prot. n. 21812 del 22.09.2014, a firma del
Segretario Generale del Comune di Salemi, viene precisato
che “....il Comune di Salemi non disponeva e non dispone
di Ufficio Legale e la pianta organica del Comune non ha mai
previsto personale con la qualifica di avvocato...” e,
pertanto, il compenso a quest’ultimo corrisposto, che ha
prestato all’Amministrazione la propria consulenza
giuridica, quantificato in euro 11.999,52 e imputato al
vice-sindaco Fa. (che ha adottato la determinazione
sindacale n. 61/2011, sulla cui base era stato pagato
l’importo contestato, mediante tranches erogate nella date
14.06.2011, 23.06.2011, 02.08.2011, 30.03.2012 e 12.04.2012)
non può essere ritenuto danno erariale.
Il danno erariale da addebitare all’appellante va, pertanto,
quantificato in euro 73.547,48.
Su detta somma il Collegio, tenuto conto della natura degli
addebiti e delle reiterate violazioni normative, ritiene non
applicabile il richiesto poter riduttivo di cui all'art. 52,
comma 2, del regio decreto 12.07.1934, n. 1214.
Per tali ragioni, in parziale accoglimento dell’appello e in
riforma della sentenza impugnata, la dr.ssa Fa.An. va
condannata a pagare al Comune di Salemi, la somma di euro
73.547,48, oltre rivalutazione monetaria che, con criterio
semplificativo favorevole all’appellante, va fatta decorrere
dall’ultimo dei pagamenti effettuati, e agli interessi
legali, su detta somma così rivalutata, dalla data di
pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo; le
spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione
Giurisdizionale d’Appello per la Regione siciliana,
definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente
l’appello, e, a parziale modifica della sentenza n.
518/2016, emessa dalla Sezione Giurisdizionale della Corte
dei Conti per la Regione siciliana,
condanna Fa.An.a a pagare, al Comune di Salemi, la somma di
euro 73.547,48, oltre rivalutazione monetaria, a decorrere
dall’ultimo dei pagamenti effettuati, e agli interessi
legali, su detta somma così rivalutata, dalla data di
pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'appello Sicilia,
sentenza 19.09.2017 n. 112). |
INCENTIVO FUNZIONE TECNICHE:
Gli incentivi tecnici sono spesa.
Vanno ricompresi nei tetti e nel trattamento
accessorio. La sezione autonomie ha smorzato
le speranze suscitate dalla Corte conti
Liguria.
La Corte dei conti, sezione autonomie, con
deliberazione
10.10.2017 n. 24, ha ribadito che gli incentivi per le
funzioni tecniche (art. 113 del dlgs n.
50/2016) non possono essere assimilati ai
vecchi compensi per la progettazione e vanno
ricompresi nel tetto della spesa del
personale e in quello del trattamento
accessorio annuale.
La pronuncia spegne le speranze suscitate
negli ingegneri comunali dalla deliberazione
n. 58/2017 della Corte dei conti della
Liguria che, rilevando le nuove finalità
poste a base delle previsioni dell'articolo
113 del codice degli appalti, cioè stimolare
il personale a dare corso alla migliore
esecuzione dei contratti pubblici,
concludeva nel senso dell'esclusione sia dal
tetto di spesa del personale sia da quello
del fondo per la contrattazione decentrata.
La sezione autonomie ha dichiarato
inammissibile la questione di massima posta
dalla sezione regionale di controllo per la
Liguria, che dovrà attenersi al principio di
diritto già enunciato con la precedente
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
L'articolo 1, comma 236, della legge n.
208/2015 ha previsto, nelle more
dell'adozione dei decreti legislativi
attuativi degli articoli 11 e 17 della legge
n. 124/2015, che l'ammontare complessivo del
trattamento accessorio annuale del
personale, anche di livello dirigenziale,
non potesse superare il corrispondente
importo determinato per l'anno 2015.
L'art. 1, comma 236, della legge di
Stabilità 2016, ha confermato tale limite di
spesa «nelle more dell'adozione dei decreti
legislativi attuativi degli articoli 11 e 17
della legge 7/08/2015 n. 124».
Nonostante la tardiva approvazione dei
decreti attuativi della riforma Madia, nel
2017 ha continuato a trovare applicazione il
blocco al salario accessorio. Il Consiglio
di stato (parere 09.01.2017) ha rilevato
che i decreti legislativi, emanati in
attuazione della legge n. 124/2015, «restano
validi ed efficaci fino ad una eventuale
pronuncia della Corte che li riguardi
direttamente, e salvi i possibili interventi
correttivi che nelle more dovessero essere
effettuati». Lo stesso orientamento era
stato espresso dalla Corte dei conti della
Puglia, con la deliberazione n. 6 del 24.01.2017.
I magistrati pugliesi si erano espressi nel
senso di ritenere valida tale barriera anche
dopo la pronuncia della Corte costituzionale
n. 251/2016. Secondo la Corte dei conti
della Puglia, le pronunce d'illegittimità
costituzionale, contenute nella decisione
«sono circoscritte alle disposizioni di
delegazione della legge n. 124/2015, oggetto
del ricorso, e non si estendono alle
relative disposizioni attuative».
Appurata la vigenza del limite al salario
accessorio, occorre verificare il
trattamento riservato agli incentivi di cui
all'art. 113 del dlgs n. 50/2016. Il
compenso incentivante (2% dell'importo dei
lavori, servizi e forniture, posti a base di
gara) riguarda l'espletamento di specifiche
attività di natura tecnica non più legate
alla progettazione, quanto piuttosto a
quelle della programmazione, predisposizione
e controllo delle procedure di gara e
dell'esecuzione del contratto.
Le sezioni riunite avevano affermato che il
tetto al salario accessorio potesse essere
superato da alcune voci, individuando quale
criterio discretivo la circostanza che
determinati compensi fossero remunerativi di
«prestazioni tipiche di soggetti individuati
e individuabili», acquisibili anche
attraverso il ricorso a personale estraneo
all'amministrazione pubblica con possibili
costi aggiuntivi.
Sussistendo le condizioni previste, anche
gli incentivi per la progettazione di cui
all'art. 93 del dlgs n. 163/2006, erano
stati esclusi dall'applicazione dell'art. 9,
comma 2-bis, compensando prestazioni
professionali per investimenti.
Il compenso incentivante del nuovo codice
degli appalti non è, però, del tutto analogo
a quello previsto dall'art. 93 del vecchio
codice, oggi abrogato. La sezione autonomie
ritiene che non ricorrano più gli elementi
che consentano di qualificare la relativa
spesa come finalizzata a investimenti. Il
fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli
appalti di servizi e forniture, comporta che
gli stessi si configurino come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti
(e di personale). Gli incentivi per funzioni
tecniche di cui all'articolo 113, comma 2,
del dlgs n. 50/2016, pertanto, sono da
includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all'articolo 1, comma 236,
legge n. 208/2015 (legge di Stabilità 2016).
Tale inclusione comporterà una forte
conflittualità tra il personale dei comuni.
Bisognerà scegliere se privilegiare i
soggetti che partecipano alle attività
tecniche, di cui all'art. 113, oppure altre
forme di incentivazione per il restante
personale, a partire della cosiddetta
«produttività».
Sussiste, poi, un problema di
omogeneizzazione dei dati per il calcolo del
salario accessorio.
Appare, infatti, iniquo confrontare un
valore in cui gli incentivi alla
progettazione erano esclusi con un valore in
cui gli incentivi per funzioni tecniche sono
inclusi nel calcolo per determinare il tetto
non superabile
(articolo ItaliaOggi del
20.10.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici nei tetti del salario accessorio -
La Sezione Autonomie conferma la linea
«dura».
Niente da fare.
Gli incentivi per le funzioni tecniche di
cui al Dlgs 50/2016 continuano a rimanere
nel limite del trattamento accessorio.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti
ha ricevuto la richiesta di riesame della
questione da parte della Sezione Regionale
della Liguria (si veda il Quotidiano degli
enti locali e della Pa del 19 luglio), ma i
magistrati hanno ritenuto inammissibile
procedere in quanto non vi sono sostanziali
novità né normative né interpretative.
Tutto questo è quanto contenuto nella
deliberazione
10.10.2017 n. 24.
Problemi operativi.
Gli operatori degli enti locali attendevano
con grande attenzione questa risposta che
però, ora, rischia di lasciare un amaro
sapore in bocca. Se, infatti, il principio
giuridico espresso nella precedente
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della Sezione Autonomie (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del
13 aprile) e oggi confermato, ha un suo
fondamento, la problematica si sposta
immediatamente sulle concrete modalità di
calcolo dei nuovi limiti al salario
accessorio, visto che tali incentivi fanno «numero»
solo dal 2016 e, peraltro, neppure per
l'intero anno.
Come poter gestire nei limiti una voce di
salario accessorio così variabile da un anno
all'altro? Come faranno le amministrazioni a
gestire un giusto equilibrio del fondo tra
dipendenti che partecipano alle attività di
incentivazione e quelli invece degli altri
uffici?
L’indicazione della
Cassazione.
Con questa interpretazione si apre quindi
una guerra fratricida che non riuscirà a
trovare risposta nel breve periodo.
Difficile trovare elementi certi e al tavolo
delle relazioni sindacali la partita andrà
giocata attentamente.
Va, infatti, ricordato che la
sentenza 05.06.2017 n. 13937
della Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha
affermato che senza la contrattazione
integrativa (e il successivo regolamento) è
inibito il riconoscimento dell'incentivo. Si
prospettano tempi duri, tenuto conto che
entro fine anno, il fondo del salario
accessorio dovrà essere, comunque,
definitivamente costituito (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Oneri derivanti dall'erogazione degli
incentivi per funzioni tecniche e computo
della spesa per il personale ai fini della
verifica del rispetto del tetto di
contenimento della stessa e dei limiti del
trattamento accessorio.
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La
questione di massima sollevata dalla Sezione
regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58
ripropone la medesima problematica già
valutata e risolta da questo Organo di
nomofilachia e per essa si riscontra sia
l’assenza di decisioni contrastanti assunte
dalle Sezioni regionali, sia la mancanza di
elementi che impongano una nuova valutazione
a fini di prevenire l’insorgere di
potenziali contrasti interpretativi, sia
l’assenza di argomentazioni giuridiche e/o
fattuali nuove e diverse da quelle già
esaminate con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e, di conseguenza, la rimessione si
configura, nella sostanza, come una mera
richiesta di riesame della decisione già
assunta, sulla base dei medesimi elementi di
fatto e di diritto già considerati, deve
concludersi per l’inammissibilità della
stessa.
PQM
La Sezione delle autonomie della Corte dei
conti, dichiara inammissibile la questione
di massima posta dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58.
La Sezione regionale di controllo per la
Liguria dovrà attenersi al principio di
diritto già enunciato con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
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PREMESSO
I. La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58,
a seguito di valutazione della richiesta di
parere presentata dal Comune di Ceriale (SV)
per il tramite del Consiglio delle autonomie
Locali, ha ravvisato la necessità di
un’interpretazione uniforme della normativa
disciplinante gli incentivi tecnici di cui
al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50
del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di
spesa del personale, e pertanto ha rimesso
al Presidente della Corte dei conti la
valutazione dell’opportunità di deferire
alla Sezione delle autonomie, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012 n.
174, o alle Sezioni riunite, ai sensi
dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009,
la seguente questione di massima di
interesse generale: «se gli incentivi
tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere
ricompresi nel computo della spesa rilevante
ai fini del rispetto del tetto di spesa
previsto dall’art. 1, comma 557, della legge
n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto
del tetto di spesa previsto dall’art. 1,
comma 236, della legge n. 208 del 2015».
La Sezione remittente prende atto che la
Sezione delle autonomie, con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7
assunta nell’adunanza del 30.03.2017,
pronunciandosi su identica questione di
massima posta dalla Sezione regionale di
controllo per l’Emilia-Romagna, ha enunciato
il seguente principio di diritto: «Gli
incentivi per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016
sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’articolo 1, comma 236,
l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)»
tuttavia, diversamente da quanto stabilito
dall’art. 6 comma 4, del d.l. n. 174/2012,
ha ritenuto di non conformarsi a detto
enunciato poiché non ne condivide l’iter
motivazionale, in relazione al quale espone
il proprio convincimento basato
sull’asserita diversa (propria)
interpretazione delle norme di riferimento.
Ritenendo che il vigente impianto normativo
non contempli una nuova norma in materia di
incentivi, bensì esponga una diversa
formulazione volta a regolare in modo
differente e, a tratti, più ampi, la materia
degli incentivi previsti nell’ambito dei
contratti pubblici e sulla base dei
pregressi orientamenti della giurisprudenza
contabile (Sezione delle autonomie,
deliberazione 13.11.2009 n. 16;
Sezioni Riunite in sede di controllo,
deliberazione 04.10.2011 n. 51
che, nella vigenza del vecchio codice degli
appalti, aveva escluso gli incentivi alla
progettazione ivi contemplati dal computo
rilevante ai fini del rispetto del tetto di
spesa in materia di contenimento della spesa
per il personale e dei limiti stabiliti per
le risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio di quest’ultimo, la
Sezione ligure afferma che, a proprio
parere, «vi sono plurimi elementi
interpretativi che fanno propendere per una
conferma dell’orientamento giurisprudenziale
formatosi sotto la vigenza del precedente
quadro normativo, escludendo gli incentivi
tecnici dal rispetto dei limiti di spesa
sopra richiamati e disciplinati dall’art. 1,
comma 557, della legge n. 296 del 2006 (come
riformulato), nonché dall’art. 1, comma 236,
della legge n. 208/2015, che riproduce,
sostanzialmente, il limite disposto
dall’art. 9, comma 2-bis, fissando il tetto
di spesa nell’ammontare del fondo per il
trattamento accessorio determinato
nell’esercizio finanziario 2015».
Pur nella consapevolezza che l’istituto di
cui si discute ha un respiro differente
rispetto a quello del vecchio testo
dell’art. 93 del d.lgs. 163 del 2006, la
Sezione sostiene che la nuova norma rispetta
comunque le finalità di quella precedente
all’uopo evidenziando che la volontà del
legislatore è volta ad ottenere la massima
soddisfazione dall’esecuzione del contratto
pubblico (sia di lavori, forniture o
servizi), con il miglior coinvolgimento
delle risorse interne e che, pertanto,
l’incentivo in esame mira a realizzare un
siffatto scopo, al di là del fatto che la
prestazione sia annoverabile tra le spese
correnti o di investimento, o sia fungibile
rispetto al ricorso a personale esterno.
Evidenzia, quindi, che la disciplina in
esame fissa criteri e limiti che
autolimitano la spesa per incentivi con ciò
evitando che la spesa del personale possa
assumere un carattere incontrollato.
In conseguenza la ritenuta specialità della
norma ed i puntuali limiti di spesa
intrinseci al quadro normativo di
riferimento hanno indotto la Sezione
remittente alla conclusione che «gli
incentivi tecnici previsti dal nuovo codice
degli appalti debbano essere esclusi dal
computo della spesa rilevante ai fini del
rispetto del tetto di spesa complessivo per
il personale (art. 1, comma 557, della legge
n. 296 del 2006), nonché dei limiti
stabiliti per le risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del
personale (art. 1, comma 236, della legge n.
208 del 2015)».
In aggiunta a quanto sopra, la Sezione di
controllo ligure ha evidenziato che,
diversamente argomentando, si potrebbero
verificare taluni effetti non in linea con
la finalità perseguita dalla interpretazione
resa in sede di nomofilachia dalla Sezione
delle autonomie, posto che gli incentivi
alla progettazione, negli esercizi
2011/2013, non erano ricompresi nella base
di calcolo per il tetto di spesa di cui al
comma 557 citato, così come non erano
ricompresi nella base di calcolo del limite
del 2015 riferito alle risorse per il
trattamento accessorio.
In conseguenza, la Sezione remittente
sostiene che «Includere oggi gli
incentivi tecnici nella base di calcolo
della spesa rilevante ai fini del computo
della spesa complessiva vorrebbe dire
superare, con assoluta certezza, il tetto di
spesa di cui al comma 557 citato, senza che
l’ente abbia la possibilità di ridurre altre
voci, in considerazione della rigidità della
spesa di personale stretta, nell’ultimo
decennio, tra numerosi vincoli. Allo stesso
modo, qualora tali incentivi rilevassero ai
fini del tetto di spesa per il trattamento
accessorio, si verificherebbe
l’impossibilità di erogare gli stessi se non
a scapito del trattamento accessorio di
altri dipendenti, mediante riduzione di
altre risorse, al fine di compensare
l’erogazione degli incentivi tecnici in
discorso. Con riferimento, inoltre, al
limite di spesa di cui al comma 557,
un’interpretazione “restrittiva”
determinerebbe la violazione del principio,
affermato dalla giurisprudenza contabile, di
omogeneità tra i dati (e i tetti di spesa)
oggetto di comparazione. Non sarebbe logico,
né legittimo, contrapporre due limiti di
spesa il cui ammontare sia composto da voci
differenti. Se si ritenesse di adottare tale
principio, legittimo e coerente con il
sistema dei tetti di spesa, si potrebbero,
tuttavia, verificare conseguenze non
coerenti con le esigenze di contenimento
della spesa di personale, con possibili
effetti espansivi della stessa, oltre che un
fenomeno di casualità che potrebbe condurre
alcuni enti a realizzare una spesa
rilevante, ed altri a non poter erogare
alcunché».
In ultimo, la Sezione prospetta possibili
soluzioni atte a rendere omogeneo il dato
evidenziando, tuttavia, le problematicità
insite in ciascuna di esse paventando, in
taluni casi, la possibile situazione di
inapplicabilità della disposizione normativa
in esame.
La Sezione remittente ritiene, inoltre, che
le osservazioni svolte, e l’interpretazione
del quadro normativo offerta, rimangono
valide anche alla luce dell’art. 23 del
d.lgs. 75 del 2017 che ha introdotto un
nuovo limite alle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del
personale a decorrere dal 01.01.2017 e, nel
contempo, ha abrogato, a decorrere dalla
stessa data, l'articolo 1, comma 236, della
legge 28.12.2015, n. 208.
Conclusivamente la Sezione di controllo
ligure afferma che, diversamente da quanto
affermato nel principio di diritto enunciato
dalla Sezione delle autonomie con
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
gli incentivi tecnici previsti dal nuovo
codice degli appalti debbano essere esclusi
dal computo della spesa rilevante ai fini
del rispetto del tetto di spesa complessivo
per il personale (art. 1, comma 557, della
legge n. 296 del 2006), nonché dei limiti
stabiliti per le risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del
personale (art. 1, comma 236, della legge n.
208 del 2015).
In conseguenza di ciò la Sezione regionale «considerata
l’esigenza di un’interpretazione uniforme
della normativa disciplinante gli incentivi
tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto
dei limiti di spesa del personale, sospende
la decisione sul parere richiesto dal Comune
di Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente
della Corte dei conti, ai sensi dell’art.
17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del
2009, convertito dalla legge n. 102 del
2009, e dell’art. 6, comma 4, del
decreto-legge n. 174 del 2012, convertito
dalla legge n. 213 del 2012, sotto
l’illustrata diversa prospettazione
interpretativa» la suesposta questione
di massima.
Il Presidente della Corte, con propria
ordinanza n. 15 del 28.07.2017 ha deferito
l’esame e la pronuncia della prospettata
questione alla Sezione delle autonomie.
CONSIDERATO
I. La questione di massima sollevata dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria con
deliberazione 29.06.2017 n. 58,
involge la problematica concernente
l’inclusione, o meno, degli oneri derivanti
dall'erogazione degli incentivi per le
funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma
2, del d.lgs. n. 50 del 2016 nel computo
della spesa per il personale rilevante ai
fini della verifica del rispetto del tetto
di contenimento della stessa (art. 1, comma
557, legge 27.12.2006, n. 296) e dei limiti
del trattamento accessorio disciplinato
dall'art. 1, comma 236, della legge n. 208
del 2015 (norma vigente fino al 31.12.2016,
ora art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017),
tematiche già trattate dalla Sezione delle
autonomie nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
nell’esercizio della funzione ad essa
attribuita dall’art. 6, comma 4, del d.l.
10.10.2012, n. 174, convertito dalla l.
07.12.2012, n. 213, come modificato
dall’art. 33, comma 2, lett. b), del d.l.
24.06.2014, n. 91, convertito dalla l.
11.08.2014, n. 116.
II. In via preliminare si appalesa necessario ricordare che la
Sezione delle autonomie, unitamente alle
Sezioni Riunite in sede di controllo
-competenti nei casi riconosciuti dal
Presidente della Corte dei conti di
eccezionale rilevanza ai fini del
coordinamento della finanza pubblica ovvero
qualora si tratti di applicazione di norme
che coinvolgono l'attività delle Sezioni
centrali di controllo (art. 17, comma 31,
d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito dalla l.
03.08.2009, n. 102)- ha assunto un ruolo di
primo piano nella funzione di “nomofilachia
del controllo”.
Infatti, mentre antecedentemente all’entrata
in vigore della riforma operata con il d.l.
10.10.2012, n. 174, la Sezione delle
autonomie emanava pronunce interpretative "non
vincolanti" le quali si fondavano “su
valutazioni cui concorrevano i componenti,
tra i quali i Presidenti delle Sezioni
regionali di controllo, aventi il pregio di
effettuare approfondimenti sulle questioni
deferite, individuando soluzioni che
potevano essere consapevolmente condivise
dalle varie Sezioni regionali” (in
termini: Sezione delle autonomie,
deliberazione n. 3/INPR/2011), nel vigente,
ricordato assetto normativo (art. 6, comma
4, del d.l. n. 174/2012, come novellato
dall’art. 33, comma 2, del d.l. n. 91/2014),
la Sezione delle autonomie è chiamata a
prevenire e/o dirimere i contrasti
interpretativi che potrebbero palesarsi o
che sono già sorti, rilevanti per l'attività
di controllo e consultiva o a risolvere
questioni di massima di particolare
rilevanza, attraverso l’emanazione di
delibere di orientamento cui la legge
espressamente collega l’obbligo per le
Sezioni regionali di controllo di
conformarsi al principio di diritto ivi
enunciato.
Come precisato da questa Sezione
(deliberazione n. 2/SEZAUT/2013/QMIG) la
novella introdotta dall’art. 6, comma 4, del
d.l. n. 174/2012, al fine di garantire la
coerenza dell’unitaria attività svolta dalla
Corte dei conti per le funzioni ad essa
spettanti in materia di coordinamento della
finanza pubblica, «ha assegnato alla
Sezione delle autonomie nuovi compiti di
coordinamento e di indirizzo interpretativo
nei confronti delle Sezioni regionali di
controllo competenti a pronunciarsi sulle
richieste di parere in materia di
contabilità pubblica ai sensi dell’art. 7,
comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131. Le
attribuzioni in questione, da esercitare
attraverso pronunce di orientamento generale
in ordine sia a questioni interpretative
risolte in maniera difforme dalle Sezioni
regionali di controllo sia a casi che
richiedono la risoluzione di una questione
di massima di particolare rilevanza, si
inquadrano nell’ambito della funzione
nomofilattica già assegnata alle Sezioni
riunite ai sensi dell’art. 17, comma 31,
del decreto-legge 01.07.2009, n. 78,
convertito, con modificazioni, in legge
03.08.2009, n. 102, ora circoscritta ai casi
di eccezionale rilevanza ai fini del
coordinamento della finanza pubblica ovvero
agli ambiti di applicazione di norme che
coinvolgono l’attività delle Sezioni
centrali di controllo».
Nell’esercizio di detta funzione,
circoscritta a temi di particolare peso e
spessore, alla Sezione delle autonomie
compete enucleare il principio di diritto,
mentre alle Sezioni regionali spetta la
definizione nel merito delle specifiche
questioni ad esso collegate.
In tale contesto, la presenza di una
delibera di orientamento “alla quale le
Sezioni regionali si conformano” rende
incontestabile il punto deciso dalla Sezione
delle autonomie, realizzando le esigenze di
certezza del diritto cui è preordinata la
funzione nomofilattica.
Si osserva, in proposito, che l’unitarietà
interpretativa, oltre a garantire l’esatta
attuazione della legge rispetto alle singole
questioni, costituisce il presupposto perché
la funzione consultiva possa giovare alle
stesse amministrazioni.
Il legislatore, infatti, con la evidente
finalità di promuovere il maggior grado
possibile di coerenza ed uniformità delle
deliberazioni territoriali, garantendo una
voce univoca ed eliminando, al contempo, i
contrasti interpretativi sorti nel corso
dell’esperienza della funzione consultiva
svolta dalle Sezioni regionali di controllo,
ha individuato una sede unica ove comporre
eventuali antinomie interpretative,
assegnando un pregnante rilievo
nomofilattico alle deliberazioni ivi
assunte.
Si precisa, peraltro, che la proposizione di
questioni di massima già precedentemente
esaminate e risolte non è, in linea di
principio, preclusa, ma soggiace a precise
condizioni di ammissibilità, le quali –come
anche costantemente affermato dalla
giurisprudenza contabile (ex multis:
SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n.
23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– sono
riconducibili alla prospettazione, da parte
del remittente, di elementi nuovi non
precedentemente considerati, rappresentati o
da sopravvenuti mutamenti legislativi o
giurisprudenziali, ovvero da nuove e diverse
situazioni di fatto sulle quali l’organo
nomofilattico non abbia avuto occasione di
soffermarsi.
In conseguenza la riproposizione della
medesima questione, in carenza di tali
presupposti, non è da ritenere ammissibile.
III. Si premette anche che la magistratura contabile è stata già
più volte chiamata a pronunciarsi, non solo
in sede territoriale ma anche in sede di
nomofilachia, sulle problematiche inerenti
gli incentivi di cui al codice degli
appalti, attese le plurime modifiche
normative che ne hanno modificato
sensibilmente la natura e l’ambito di
applicazione.
In particolare, quanto alla computabilità, o
meno, degli incentivi di che trattasi nella
spesa del personale rilevante ai fini della
verifica del rispetto della normativa
vincolistica di contenimento della stessa
devono richiamarsi i pronunciamenti di
questa Sezione delle autonomie -deliberazione
13.11.2009 n. 16,
deliberazione 07.12.2016 n. 34,
nonché la
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite in sede di controllo-
in relazione agli incentivi per la
progettazione di cui al previgente codice
degli appalti, e la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7
emessa da questa Sezione nell’adunanza del
30.03.2017 in relazione agli incentive
tecnici di cui alla novella legislativa
introdotta dal d.lgs. n. 50/2016.
III.1. Con riferimento agli incentivi di cui al
previgente codice degli appalti (d.lgs.
12.04.2006, n. 163) gli Organi della
nomofilachia, in sede di controllo, hanno:
a) escluso dal computo delle voci di spesa da ridurre a norma
dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006,
n. 296 gli incentivi per la progettazione
interna di cui all’art. 92 del codice in
ragione della loro riconosciuta natura “di
spese di investimento, attinenti alla
gestione in conto capitale” (Sezione
delle autonomie,
deliberazione 13.11.2009 n. 16);
b) escluso le risorse finalizzate a incentivare prestazioni poste
in essere per la progettazione di opere
pubbliche dal tetto del salario accessorio
previsto dall’articolo 9, comma 2-bis, d.l.
n. 78/2010 in quanto risorse correlate “allo
svolgimento di prestazioni professionali
specialistiche offerte da personale
qualificato in servizio presso
l’amministrazione pubblica” in relazione
ad “attività sostanzialmente finalizzata
ad investimenti” per le quali le
predette amministrazioni, in caso di carenza
di personale interno qualificato, avrebbero
dovuto “ricorrere al mercato attraverso
il ricorso a professionisti esterni con
possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato” (SS.RR.
deliberazione 04.10.2011 n. 51);
c) osservato come la struttura del vincolo di spesa per il
trattamento economico accessorio del
personale degli Enti locali imposti
dall’art. 1, comma 236, della legge
28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per
il 2016), ai fini del concorso delle
autonomie territoriali al raggiungimento del
riequilibrio complessivo e della stabilità
della finanza pubblica, ricalcasse
fedelmente, fatto salvo il diverso
riferimento temporale, la lettera dell’art.
9, comma 2-bis, del decreto-legge n. 78/2010
riproducendone, per molti aspetti, analoghe
problematiche interpretative già valutate
dalla medesima Sezione in sede di
nomofilachia (Sezione delle autonomie,
deliberazione 07.12.2016 n. 34).
III.2. A diversa conclusione si è invece
pervenuti in relazione ai nuovi incentivi
per “funzioni tecniche” di cui al
d.lgs. n. 50/2016, entrato in vigore dal
19.04.2016, che ha abolito gli incentivi
alla progettazione previsti dal previgente
codice ed ha introdotto, all’art. 113, nuove
forme di “incentivazione per funzioni
tecniche” effettuate dai dipendenti
delle amministrazioni aggiudicatrici «esclusivamente
per le attività di programmazione della
spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione
e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, di RUP,
di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del
contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti».
Ritenuto, infatti, che i nuovi incentivi per
le "funzioni tecniche" di cui
all'art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016
si presentano, all’evidenza, con
caratteristiche diverse rispetto a quelli
disciplinati dal previgente codice degli
appalti, questa Sezione delle autonomie,
sulla base di un’ermeneusi del dato
normativo che ha evidenziato la peculiarità
di tali incentivi nonché la non
sovrapponibilità del compenso incentivante
previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo
codice degli appalti all’incentivo per la
progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, ha
affermato che i predetti incentivi sono da
includere nel tetto di spesa per il salario
accessorio dei dipendenti pubblici –già
previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l.
n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma
236, della legge n. 208/2015– posto che gli
stessi si configurino, in maniera
inequivocabile, come spese di funzionamento
e, dunque, come spese correnti e, quindi, di
personale (Sezione delle autonomie,
deliberazione 06.04.2017 n. 7).
III.3. Successivamente al deliberato di questa
Sezione delle autonomie, l’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016 è stato modificato ad
opera del d.lgs. 19.04.2017, n. 56
(Disposizioni correttive e integrative al
d.lgs. 18.04.2016, n. 50), che con l’art. 76
ha sostituito al comma 1 dell’art. 113 le
parole: “per la realizzazione dei singoli
lavori” con “per i singoli appalti di
lavori, servizi e forniture” (art. 76,
comma 1, lett. a) e nel contempo ha
interamente sostituito il previgente comma 2
(art. 76, comma 1, lett. b), con il
seguente: «2. A valere sugli stanziamenti
di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non
superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti
delle stesse esclusivamente per le attività
di programmazione della spesa per
investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di
verifica di conformità, di collaudatore
statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è
previsto da parte di quelle amministrazioni
aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono
modalità diverse per la retribuzione delle
funzioni tecniche svolte dai propri
dipendenti. Gli enti che costituiscono o si
avvalgono di una centrale di committenza
possono destinare il fondo o parte di esso
ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o
forniture nel caso in cui è nominato il
direttore dell'esecuzione».
Inoltre il comma 236 dell’art. 1 della legge
n. 208 del 2015 (legge di stabilità 2016)
che disponeva in materia di limitazione alla
crescita delle risorse destinate al
trattamento accessorio del personale in modo
sostanzialmente sovrapponibile a quelle
adottate con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l.
n. 78/2010, è stato abrogato dal d.lgs.
25.05.2017 n. 75 (Modifiche e integrazioni
al d.lgs. n. 165/2001) che ha riformulato
anche il tetto di spesa per la retribuzione
accessoria.
La novella legislativa dispone, infatti,
quanto segue (art. 23, comma 2): «Nelle
more di quanto previsto dal comma 1, al fine
di assicurare la semplificazione
amministrativa, la valorizzazione del
merito, la qualità dei servizi e garantire
adeguati livelli di efficienza ed
economicità dell'azione amministrativa,
assicurando al contempo l'invarianza della
spesa, a decorrere dal 01.01.2017,
l'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non può
superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2016. A decorrere
dalla predetta data l'articolo 1, comma 236,
della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato.
Per gli enti locali che non hanno potuto
destinare nell’anno 2016 risorse aggiuntive
alla contrattazione integrativa a causa del
mancato rispetto del patto di stabilità
interno del 2015, l'ammontare complessivo
delle risorse di cui al primo periodo del
presente comma non può superare il
corrispondente importo determinato per
l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio
nell'anno 2016».
Le intervenute modifiche, comunque, non
hanno inciso sulla risoluzione adottata da
questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato
l’iter argomentativo in relazione alla
rilevata difformità della fattispecie
introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n.
50/2016, rispetto all’abrogato istituto
degli incentivi alla progettazione.
IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva che la questione di
massima deferita dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria è sostanzialmente
identica a quella già valutata e risolta da
questa Sezione delle autonomie con la
recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7
assunta nell’adunanza del 30.03.2017 con la
quale, sia pure in via incidentale, in
conformità alla questione di massima ad essa
in tale sede deferita, la Sezione si è
pronunciata anche sul rapporto tra nuovi
incentivi e norme vincolistiche sul
contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione,
nel delineato nuovo scenario normativo gli
incentivi per le funzioni tecniche non
possono essere assimilati ai compensi per la
progettazione e, pertanto, non possono
essere esclusi dal perimetro di applicazione
delle norme vincolistiche in tema di
contenimento della spesa del personale,
nell’alveo delle quali si collocano anche le
norme limitative delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio, posto
che per detti nuovi incentivi non ricorrono
–come anche costantemente affermato dalla
giurisprudenza contabile (ex multis:
SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n.
23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per
le argomentazioni tutte esposte nella
richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7
–come anche costantemente affermato dalla
giurisprudenza contabile (ex multis:
SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n.
23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i
presupposti legittimanti la loro esclusione
dal computo di detta voce di spesa, quali
delineati dalle Sezioni riunite con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51
(in relazione ai trattamenti accessori del
personale) e dalla Sezione delle autonomie
con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16
(in relazione al limite previsto per la
spesa di personale ex art. 1, commi 557 e
562, della l. 296/2006).
IV.1. Sulla problematica si sono successivamente
pronunciate, in sede consultiva, le Sezioni
regionali di controllo per il Piemonte e
Lombardia (rispettivamente con il
parere 09.06.2017 n. 113
e
parere 09.06.2017 n. 185)
in conformità al principio di diritto
espresso dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto, allo stato non si registrano
ulteriori contrasti interpretativi in
relazione alla novella legislativa oggetto
della questione di massima nuovamente
riproposta dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria, ed oggi all’esame.
Quest’ultima, come già evidenziato, involge
un quesito perfettamente sovrapponibile,
nella sostanza, a quello già deciso dalla
Sezione delle autonomie con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
assunta nell’esercizio della funzione di
nomofilachia, alla stessa attribuita ex
lege, in relazione al quale la Sezione
remittente, ha prospettato un proprio,
diverso, orientamento rispetto alle
argomentazioni addotte dall’organo
nomofilattico a motivazione del proprio
enunciato, invocandone il revirement,
senza tuttavia indicare alcun elemento nuovo
di valutazione, ma riproponendo quelli in
tale sede già esaminati.
La Sezione remittente, quindi, in relazione
alla corretta interpretazione ed
applicazione della normativa sottesa alla
problematica sollevata, non ha formulato
altri ed ulteriori dubbi esegetici, non
espressamente affrontati in sede di
nomofilachia, né evidenziato particolari,
singolari, ovvero nuove situazioni, per
dirimere i quali possa ravvisarsi
l’esigenza, anche in via preventiva, di una
nuova decisione nomofilattica.
IV.2. Pertanto, posto che la
questione di massima sollevata dalla Sezione
regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58
ripropone la medesima problematica già
valutata e risolta da questo Organo di
nomofilachia e che per essa si riscontra sia
l’assenza di decisioni contrastanti assunte
dalle Sezioni regionali, sia la mancanza di
elementi che impongano una nuova valutazione
a fini di prevenire l’insorgere di
potenziali contrasti interpretativi, sia
l’assenza di argomentazioni giuridiche e/o
fattuali nuove e diverse da quelle già
esaminate con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e che, di conseguenza, la rimessione si
configura, nella sostanza, come una mera
richiesta di riesame della decisione già
assunta, sulla base dei medesimi elementi di
fatto e di diritto già considerati, deve
concludersi per l’inammissibilità della
stessa.
PQM
La Sezione delle autonomie della Corte dei
conti, dichiara inammissibile la questione
di massima posta dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58.
La Sezione regionale di controllo per la
Liguria dovrà attenersi al principio di
diritto già enunciato con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l.
10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge
07.12.2012, n. 213
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione
10.10.2017 n. 24). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: I
bandi di gara (ed il relativi atti connessi,
disciplinari, capitolati speciali) devono
essere chiari in modo da non poter indurre
in errore i partecipanti in merito ai
requisiti richiesti; non è ammissibile
un’interpretazione diretta a ricavare dalle
norme relative all’esecuzione della
prestazione ulteriori requisiti di
ammissione “nascosti” o “impliciti”, facendo
leva sul concetto di “essenzialità”.
Spetta, infatti, alla sola stazione
appaltante, nell’esercizio del proprio
potere tecnico discrezionale, delineare in
modo palese (facendolo seguire
dall’indicazione specifica “a pena di
inammissibilità dell’offerta”) ciò che
riveste natura “essenziale” per lo
svolgimento del servizio, tenuto conto delle
sue specifiche esigenze: non possono
ricavarsi ex post, attraverso la lettura
congiunta delle clausole del capitolato
speciale, presunti requisiti ritenuti
“essenziali” per lo svolgimento del servizio
(ma non qualificati come tali dalla stazione
appaltante), facendo leva -per di più- sulle
particolari modalità di esecuzione della
prestazione indicate dal concorrente nella
sua offerta tecnica.
In questo modo, infatti, si confondono i due
piani nettamente separati, costituiti
dall’individuazione dei requisiti di
ammissione (potere che spetta alla sola
stazione appaltante) e che riguarda elementi
oggettivi valevoli per tutti i concorrenti,
nel rispetto del principio della par
condicio, e requisiti specifici attinenti
alle particolari modalità di esecuzione
della prestazione oggetto del successivo
contratto, prescelti del singolo concorrente
in sede di offerta tecnica, che come tali
sono stati individuati dall’impresa
partecipante alla gara e che valgono
–ovviamente– solo per essa.
Non può infatti ritenersi che l’offerta di
tali particolari modalità e caratteristiche
specifiche possa costituire motivo di
esclusione, ove non vi sia prova del loro
possesso al momento della presentazione
dell’offerta: ciò non rileva né sotto il
profilo della asserita “falsità” della
dichiarazione, né sotto quello
dell’inammissibilità dell’offerta, come
invece sostenuto nell’atto di appello.
Tutto ciò che attiene all’esecuzione della
prestazione riguarda lo specifico rapporto
esistente tra la stazione appaltante e
l’impresa aggiudicataria: quest’ultima si
può dotare anche successivamente di tutti
quegli elementi (ad esempio mezzi, personale
aggiuntivo, strutture indicate nell’offerta)
che costituiscono l’oggetto della
prestazione dedotta nel contratto stipulato
con la stazione appaltante, purché tali
mezzi siano assicurati in sede di
esecuzione.
E’ notorio che le imprese si dotano dei
mezzi per eseguire una commessa quando
l’hanno acquisita, non quando sperano di
acquisirla, se tali mezzi non sono richiesti
dal bando ai fini dell’ammissione.
L’omessa disponibilità dei “mezzi” indicati
nell’offerta al momento della sua
presentazione e relativi all’esecuzione
della prestazione, non costituisce, quindi,
falsità della dichiarazione o
inammissibilità dell’offerta alla gara.
L’eventuale mancato rispetto da parte
dell’aggiudicataria degli “impegni assunti”
con la presentazione dell’offerta in sede di
gara (che integrano l’oggetto del contratto
stipulato con la stazione appaltante),
costituisce inadempimento contrattuale,
sanzionabile con i rimedi apprestati
dall’ordinamento, ma non costituisce motivo
di esclusione per mancanza dei requisiti, né
per falsità della dichiarazione.
---------------
8.2 - Ritiene il Collegio di dover
confermare il proprio orientamento espresso
in sede cautelare, confermando sul punto il
capo di sentenza di primo grado.
Il TAR ha respinto la doglianza rilevando
che: “il servizio oggetto del contratto
d’appalto per cui è causa è destinato a
svolgersi in parte in locali ubicati
all’interno della struttura ospedaliera, in
parte in locali esterni, cioè nella c.d.
Centrale di Sterilizzazione Esterna, verso
la quale lo strumentario da sterilizzare
viene indirizzato dopo essere stato
sottoposto al primo trattamento, di
decontaminazione. Emerge altresì con
evidenza, da una parte che la disponibilità
di una Centrale di Sterilizzazione Esterna
non è indicata tra i requisiti di
partecipazione alla gara, posto che il
Disciplinare di gara individua a tale scopo
solo lo svolgimento di servizi analoghi nel
triennio 2012-2014; d’altra parte che
nessuna previsione contenuta nel
Disciplinare di gara o nel Capitolato
Speciale imponeva in modo chiaro e specifico
che i partecipanti alla gara dovessero
produrre, unitamente alla domanda di
partecipazione, la documentazione che
dimostrava la disponibilità di una centrale
di sterilizzazione esterna, né la
documentazione che tale disponibilità
comprovava per un periodo minimo di 5 anni.
15.1. L’art. 17 del Disciplinare imponeva, è
vero, ai partecipanti di inserire, nella
Busta Tecnica, anche una dichiarazione
attestante che la centrale di
sterilizzazione esterna “indicata” era
conforme al D.P.R. 37/1997, ma tale
previsione non imponeva e non aveva ad
oggetto, in modo esplicito e diretto, la
dimostrazione della disponibilità della
centrale in capo al partecipante e/o la
dimostrazione di tale disponibilità per un
periodo minimo di cinque anni: si vuol cioè
dire che la previsione di che trattasi,
contenuta nell’art. 17 del Disciplinare di
gara, poteva -e potrebbe- essere letta anche
nel senso che imponeva semplicemente in capo
ai partecipanti l’obbligo di attestare
l’impegno ad utilizzare un centrale di
sterilizzazione esterna a norma di legge, e
nulla più. D’altro canto è fuor di dubbio
che la disponibilità di una centrale esterna
di sterilizzazione risultava necessaria ai
fini della esecuzione dell’appalto,
emergendo evidente, dall’art. 1 nonché dalle
altre norme sopra riportate del Capitolato
Speciale, che nella centrale esterna debbono
svolgersi alcune fasi del servizio oggetto
di appalto”.
Ha poi aggiunto il TAR che: "la
disponibilità di una centrale esterna per il
quinquennio non è stata indicata tra i
requisiti oggettivi di capacità tecnica e
che, pertanto, la citata utilità non può e
non deve essere individuata nella mera
esigenza di tutelare la Stazione Appaltante
in ordine alla affidabilità del contraente
ed alla sua capacità di avere, per tutta la
durata del contratto, la disponibilità di
una centrale di sterilizzazione esterna. Da
questo punto di vista occorre qui rammentare
che rientra nella discrezionalità della
Stazione Appaltante la individuazione dei
requisiti oggettivi di capacità tecnica e
che il Giudice Amministrativo non può
sostituirsi ad essa in tale valutazione,
segnatamente interpretando la lex specialis
in guisa da far assumere il ruolo di
requisito di capacità tecnica ad un elemento
che invece non lo è in base alla medesima
lex specialis”.
8.3 - Tali conclusioni sono state rese dal
primo giudice dopo un’approfondita disamina
della lex specialis di gara,
rilevando –condivisibilmente- che non vi era
nella lex specialis alcuna
disposizione che imponeva come requisito di
ammissione alla procedura di gara la
disponibilità quinquennale della centrale di
sterilizzazione, sicché l’eventuale
esclusione dalla gara per tale motivo,
avrebbe comportato la sua illegittimità per
violazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione.
8.4 - Peraltro, la tesi interpretativa
dell’appellante, diretta a trasformare un
requisito di esecuzione –quale è quello
previsto dall’art. 17 del disciplinare– in
un requisito di partecipazione, confondendo
la natura e la finalità (ben distinti tra
loro) dei requisiti, comporterebbe anche la
violazione dei criteri ermeneutici relativi
all’interpretazione del contratto,
applicabili alla materia degli appalti (art.
1362 e seguenti, ed in particolare la
violazione del principio di cui all’art.
1366 c.c.), incidendo in questo modo sul
legittimo affidamento dei concorrenti:
l’introduzione surrettizia di un requisito
di ammissione non chiaramente espresso dalla
stazione appaltante, lede –infatti– la buona
fede dei concorrenti che, facendo
affidamento sull’interpretazione letterale
delle clausole di gara, non hanno
riscontrato l’esistenza di un requisito di
ammissione “implicito” e dunque “nascosto”
e, conseguentemente, non si sono avvalsi
degli strumenti apprestati dall’ordinamento
(ad es. avvalimento, ricorso al R.T.I.), per
procurarselo.
I bandi di gara (ed il relativi atti
connessi, disciplinari, capitolati speciali)
devono essere chiari in modo da non poter
indurre in errore i partecipanti in merito
ai requisiti richiesti; non è ammissibile
un’interpretazione diretta a ricavare dalle
norme relative all’esecuzione della
prestazione ulteriori requisiti di
ammissione “nascosti” o “impliciti”,
facendo leva sul concetto di “essenzialità”.
Spetta, infatti, alla sola stazione
appaltante, nell’esercizio del proprio
potere tecnico discrezionale, delineare in
modo palese (facendolo seguire
dall’indicazione specifica “a pena di
inammissibilità dell’offerta”) ciò che
riveste natura “essenziale” per lo
svolgimento del servizio, tenuto conto delle
sue specifiche esigenze: non possono
ricavarsi ex post, attraverso la
lettura congiunta delle clausole del
capitolato speciale, presunti requisiti
ritenuti “essenziali” per lo svolgimento del
servizio (ma non qualificati come tali dalla
stazione appaltante), facendo leva -per di
più- sulle particolari modalità di
esecuzione della prestazione indicate dal
concorrente nella sua offerta tecnica.
In questo modo, infatti, si confondono i due
piani nettamente separati, costituiti
dall’individuazione dei requisiti di
ammissione (potere che spetta alla sola
stazione appaltante) e che riguarda elementi
oggettivi valevoli per tutti i concorrenti,
nel rispetto del principio della par
condicio, e requisiti specifici attinenti
alle particolari modalità di esecuzione
della prestazione oggetto del successivo
contratto, prescelti del singolo concorrente
in sede di offerta tecnica, che come tali
sono stati individuati dall’impresa
partecipante alla gara e che valgono
–ovviamente– solo per essa.
Non può infatti ritenersi che l’offerta di
tali particolari modalità e caratteristiche
specifiche possa costituire motivo di
esclusione, ove non vi sia prova del loro
possesso al momento della presentazione
dell’offerta: ciò non rileva né sotto il
profilo della asserita “falsità”
della dichiarazione, né sotto quello
dell’inammissibilità dell’offerta, come
invece sostenuto nell’atto di appello.
Tutto ciò che attiene all’esecuzione della
prestazione riguarda lo specifico rapporto
esistente tra la stazione appaltante e
l’impresa aggiudicataria: quest’ultima si
può dotare anche successivamente di tutti
quegli elementi (ad esempio mezzi, personale
aggiuntivo, strutture indicate nell’offerta)
che costituiscono l’oggetto della
prestazione dedotta nel contratto stipulato
con la stazione appaltante, purché tali
mezzi siano assicurati in sede di
esecuzione.
E’ notorio che le imprese si dotano dei
mezzi per eseguire una commessa quando
l’hanno acquisita, non quando sperano di
acquisirla, se tali mezzi non sono richiesti
dal bando ai fini dell’ammissione.
L’omessa disponibilità dei “mezzi”
indicati nell’offerta al momento della sua
presentazione e relativi all’esecuzione
della prestazione, non costituisce, quindi,
falsità della dichiarazione o
inammissibilità dell’offerta alla gara.
L’eventuale mancato rispetto da parte
dell’aggiudicataria degli “impegni
assunti” con la presentazione
dell’offerta in sede di gara (che integrano
l’oggetto del contratto stipulato con la
stazione appaltante), costituisce
inadempimento contrattuale, sanzionabile con
i rimedi apprestati dall’ordinamento, ma non
costituisce motivo di esclusione per
mancanza dei requisiti, né per falsità della
dichiarazione (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.10.2017 n. 4859 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Impugnazione
immediata degli atti di gara - Offerte
anomale e soccorso istruttorio.
---------------
● Processo amministrativo – Rito appalti
– Mancata esclusione altro concorrente –
Conseguenza.
● Processo amministrativo – Rito appalti –
Bando di gara – Immediata impugnazione –
Condizione.
● Contratti della pubblica amministrazione –
Offerta anomala – Verifica – Scelta del
contraente con il sistema dell’offerta
economicamente più vantaggiosa – Rup –
Competenze – Individuazione.
● Contratti della pubblica amministrazione –
Offerta anomala – Verifica – Contraddittorio
con il concorrente – Art. 97, comma 5,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Modalità –
Individuazione.
● Contratti della pubblica amministrazione –
Offerta anomala – Verifica – Sindacato
giurisdizionale – Limiti.
● Contatti della Pubblica amministrazione –
Soccorso istruttorio - Omessa allegazione di
una referenza bancaria – Applicabilità del
soccorso istruttorio.
● L’onere di tempestiva impugnativa del
provvedimento di mancata esclusione di altro
concorrente da una gara pubblica, ex art.
120, comma 2-bis, c.p.a., non può essere
ovviato tramite l’impugnazione incidentale
di un successivo e autonomo provvedimento,
quale quello inerente all’esclusione per
anomalia della controparte e di accertamento
dell’intervenuta efficacia
dell’aggiudicazione. Né la decadenza
processuale può essere superata ventilando
il profilo della mancata verifica da parte
della stazione appaltante dell’insussistenza
dei requisiti morali, in sede di
dichiarazione di efficacia dell’intervenuta
aggiudicazione (1).
● In materia di gare pubbliche sussiste un onere di immediata
impugnazione del bando di gara nel caso di
clausole escludenti, riguardanti requisiti
di partecipazione che siano ex se ostativi
all'ammissione dell'interessato o, al più,
impositive, ai fini della partecipazione, di
oneri manifestamente incomprensibili o del
tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale; la
mancata tempestiva impugnazione della lex
specialis di gara rende irricevibile
l’impugnativa della stessa successivamente
formulata con ricorso incidentale (2).
● Ai sensi delle linee guida ANAC n. 3 del 2016 relative al Rup,
nel caso di aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
il Rup è competente a verificare la
congruità delle offerte con il supporto
della commissione giudicatrice; il
riferimento al supporto da parte della
commissione esaminatrice nella valutazione
di anomalia contenuto nelle linee Guida ANAC
comporta che il RUP, prima di assumere le
valutazioni definitive in ordine al giudizio
di anomalia, debba richiedere il parere non
vincolante della Commissione esaminatrice
(3).
● L’art. 97, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non articola più il
contraddittorio inerente alla valutazione di
anomalia o di congruità secondo rigide e
vincolanti scansioni procedimentali,
stabilendo esclusivamente che “la stazione
appaltante richiede per iscritto, assegnando
al concorrente un termine non inferiore a
quindici giorni, la presentazione, per
iscritto, delle spiegazioni”; da ciò,
tuttavia, non deriva che il cit. art. 97,
escluda l’esperibilità di ulteriori fasi di
contraddittorio procedimentale prima di
addivenire all’esclusione, come la richiesta
di precisazioni scritte o l’audizione
diretta dell’offerente, nel caso in cui le
giustificazioni non siano state ritenute
sufficienti in quanto affette da
incompletezza o, comunque, rimangano dei
chiari dubbi e perplessità che il confronto
possa dipanare (4).
● Il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute
dalla stazione appaltante in ordine
all’anomalia dell’offerta sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della
congruità dell’istruttoria, ma non può
operare autonomamente la verifica della
congruità dell’offerta presentata e delle
sue singole voci, poiché, così facendo,
invaderebbe una sfera propria della pubblica
amministrazione, in esercizio di
discrezionalità tecnica (5).
● L’ipotesi di omessa allegazione di una referenza bancaria
richiesta nella lex specialis rientra
nell’ambito di applicazione della disciplina
del soccorso istruttorio, attualmente
disciplinata dall’art. 83, comma 9, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (6).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che nel caso di specie non occorre prendere
posizione sulla questione se, come sostenuto
da un orientamento giurisprudenziale più
recente, il termine per l’impugnativa
decorra esclusivamente dalla pubblicazione
del provvedimento di ammissione o esclusione
sul profilo del committente ai sensi
dell'art. 29, comma 1, d.lgs. 18.04.2016 n.
50 (Tar
Napoli, sez. V, 06.10.2017, n. 4689;
Tar Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017, n.
9379; id.,
sez. II-quater, 19.07.2017, n. 8704),
oppure se il medesimo termine decorra
dall'avvenuta conoscenza dell'atto di
ammissione, anche a prescindere
dall’indicata pubblicazione (Tar
Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582;
Tar Bari, sez. III, 08.11.2016, n. 1262).
Ad avviso del Tar si può, infatti, ritenere
pacifico che, pur ammettendo la tesi più
restrittiva, ove l'atto di ammissione
dell'impresa alla gara pubblica non sia
stato pubblicato sul profilo del
committente, il termine decadenziale di 30
giorni inizierebbe comunque a decorrere
dall’aggiudicazione, o meglio, dalla
ricezione, mediante posta elettronica, del
provvedimento di aggiudicazione definitiva (Tar
Basilicata 13.01.2017, n. 24) e,
comunque, dall’avvenuta conoscenza di
quest’ultimo.
(2)
Cons. St., sez. III, 18.07.2017, n. 3541;
Tar Valle d'Aosta 26.07.2017, n. 46;
Tar Milano Sez. III, 20.02.2017, n. 423.
Ha ricordato il Tar che la mancata
tempestiva impugnazione della lex
specialis di gara rende irricevibile
l’impugnativa della stessa successivamente
formulata con ricorso incidentale. Né in
senso opposto induce la previsione di cui
all’art. 42, comma 1, c.p.a., giacché nel
processo amministrativo è inammissibile
l'introduzione in via incidentale (o meglio,
entro i termini del ricorso incidentale) di
una domanda diretta ad ampliare la materia
del contendere, domanda che l'interessato
aveva l'onere di proporre mediante un
tempestivo e rituale ricorso avverso il
provvedimento dal quale era sorta in lui
un'autonoma ed immediata lesione e un
conseguente e diretto interesse ad
agendum (Tar
Lazio, sez. II-ter, 02.01.2012, n. 4).
(3) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza formatasi nel regime
antecedente al nuovo codice dei contratti
pubblici, sia in vigenza dell’art. 88,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che in precedenza,
riconosceva che spettasse al Rup il compito
di verifica delle offerte anomale.
Si riteneva che, allorché si fosse aperta la
fase di verifica delle offerte anormalmente
basse, la commissione aggiudicatrice avesse
ormai esaurito il proprio compito, essendosi
in tale momento già proceduto alla
valutazione delle offerte tecniche ed
economiche, all’assegnazione dei relativi
punteggi ed alla formazione della
graduatoria provvisoria tra le offerte; una
possibile riconvocazione della commissione,
di regola, sarebbe stata ipotizzabile solo
laddove in sede di controllo sulle attività
compiute fossero emersi errori o lacune tali
da imporre una rinnovazione delle
valutazioni (oltre che nell’ipotesi di
regressione della procedura a seguito di
annullamento giurisdizionale, come previsto
dal comma 12 dell’art. 84, d.lgs. n. 163 del
2006).
Si riteneva, pertanto, del tutto fisiologico
che fosse il Rup, che in tale fase
interviene ad esercitare la propria funzione
di verifica e supervisione sull’operato
della commissione, il titolare delle scelte,
e se del caso delle valutazioni, in ordine
alle offerte sospette di anomalia (Cons.
St., sez. V, 24.07.2017, n. 3646;
id.,
sez. V, 10.02.2015, n. 689; id.,
A.P., 29.11.2012, n. 36).
Il testo dell’art. 97 del nuovo Codice dei
contratti pubblici non contiene elementi che
depongono per il passaggio delle competenze
inerenti alla verifica dell’offerta anomala
in capo alla Commissione giudicatrice, di
cui all’art. 77 del medesimo Codice, e in
grado di supportare un mutamento rispetto
all’orientamento formatosi in vigenza del “vecchio”
codice degli appalti.
La norma attuale dell’art. 97, come quella
precedente dell’art. 84 del previgente
Codice, rileva come tale verificazione
spetti alla “Stazione appaltante”,
senza ulteriori specificazioni. L’art. 31
del vigente Codice dei contratti pubblici,
oltre a indicare alcuni specifici compiti
del Rup, delinea la sua competenza in
termini residuali precisando che “quest’ultimo,
svolge tutti i compiti relativi alle
procedure di programmazione, progettazione,
affidamento ed esecuzione previste dal
presente codice, che non siano
specificatamente attribuiti ad altri organi
o soggetti”.
Tra i compiti espressamente attribuiti alla
Commissione giudicatrice di cui all’art. 77
del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016, non
figura la verifica dell’anomalia
dell’offerta. Le linee guida ANAC n. 3 del
2016 relative al Rup, specificamente
previste dal comma 5 dell’art. 31 del nuovo
Codice, contemplano che nel caso di
aggiudicazione con il criterio del minor
prezzo, il Rup si occupa della verifica
della congruità delle offerte. La stazione
appaltante può prevedere che il Rup possa o
debba avvalersi della struttura di supporto
o di una commissione nominata ad hoc.
Nel caso di aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo, viene invece previsto che il
Rup verifichi la congruità delle offerte con
il supporto della commissione giudicatrice.
Quest’ultima indicazione, quindi, seppure
conferma la competenza in capo al RUP delle
valutazioni di anomalia di offerta, prevede
che, per gli appalti aggiudicati con il
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, tale valutazione venga fatta
con l’ausilio della commissione
giudicatrice.
In sostanza, per gli appalti in cui, per il
criterio di selezione, la valutazione
dell’offerta dal punto di vista tecnico si
presenta più complessa, viene indicata la
necessità di un “intervento” da parte
della Commissione esaminatrice che ha già
esaminato l’offerta anche nelle sue
componenti tecniche. Il riferimento al “supporto”
da parte della commissione esaminatrice
nella valutazione di anomalia contenuto
nelle linee Guida ANAC palesa, quindi,
l’esigenza che il Rup, prima di assumere le
valutazioni definitive in ordine al giudizio
di anomalia, chieda il parere non vincolante
della Commissione esaminatrice.
(4) Ha chiarito il Tar che la circostanza che l’ulteriore fare di
confronto procedimentale dopo la
presentazione delle giustificazioni non sia
più prevista come obbligatoria in ogni caso
dalla norma di legge, non esclude che la
stazione appaltante non sia tenuta alla
richiesta di ulteriori chiarimenti o a una
audizione quando le circostanze concrete lo
richiedano per l’incompletezza delle
giustificazioni.
Ha aggiunto che la normativa del nuovo
Codice dei contratti pubblici, stante la sua
diretta derivazione dalle norme comunitarie,
deve essere interpretata in coerenza con i
superiori principi di riferimento e, in
particolare per quanto qui interessa, con
l’art. 69 della Direttiva n. 2014/24 secondo
cui “l'amministrazione aggiudicatrice
valuta le informazioni fornite consultando
l'offerente”, quindi garantendo il pieno
contraddittorio anche, all’occorrenza (se
necessario), mediante più passaggi
procedimentali, nella forma ritenuta più
opportuna, volti a chiarire i profili ancora
dubbi o in contestazione dopo la
presentazione delle iniziali giustificazioni
scritte; tutto questo anche per le procedure
sotto soglia qualora non sussista una
disciplina specifica (come, ad es., quella
di cui al comma 8 dello stesso art. 97) o
emerga l’inequivocabile contrasto con i
principi di cui all’art. 30, comma 1,
richiamati dall’art. 36, comma 1, del Codice
(Tar
Marche 23.01.2017, n. 66).
(5)
Cons. St., sez. III, 13.09.2017, n. 4336.
(6) Ha chiarito il Tar che già in vigenza del “vecchio”
Codice dei contratti pubblici, in seguito
all’introduzione del comma 1-ter all'art.
46, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 –ad opera
dell'art. 39, comma 2, d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito, con modificazioni, dalla l.
11.08.2014, n. 114- si poteva ritenere che
l’istituto fosse applicabile all'ipotesi di
omessa produzione delle referenze bancarie
previste, a pena di esclusione, dalla lex
specialis (Tar
Lecce., sez. III, 18.05.2016, n. 829).
Il soccorso istruttorio riguardava, infatti,
tutte le ipotesi in cui vi fosse una
omissione, incompletezza o irregolarità di
una dichiarazione o di un elemento con il
carattere dell'essenzialità (ex art. 46,
comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006), al
ricorrere delle quali la stazione appaltante
non poteva più comminare direttamente
l'esclusione del concorrente, ma il
procedimento contemplato nell'art. 38, comma
2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006.
Il legislatore, infatti, perseguendo
l'obiettivo di una disciplina
sostanzialistica e semplificatrice in tema
di documentazione e accertamento dei
requisiti soggettivi, aveva esteso e
procedimentalizzato il potere di soccorso
istruttorio ed aveva relegato l'esclusione
dalla gara come conseguenza dell'omessa
produzione, integrazione o regolarizzazione
delle dichiarazioni carenti entro il termine
(appositamente) assegnato dalla stazione
appaltante, e non più quale effetto di
carenze originarie. Ciò con la ratio
di evitare, nella prima fase dell'ammissione
delle offerte, esclusioni immediate dalla
procedura selettiva per carenze documentali,
compresa la mancanza assoluta delle
dichiarazioni.
Tale orientamento favorevole
all’applicazione del soccorso istruttorio
per tali ipotesi può considerarsi ribadito
dall’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, ai sensi del quale "le carenze di
qualsiasi elemento formale della domanda
possono essere sanate attraverso la
procedura di soccorso istruttorio di cui al
presente comma. In particolare, in caso di
mancanza, incompletezza e di ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo di cui
all'art. 85, con esclusione di quelle
afferenti all'offerta economica e
all'offerta tecnica, la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine, non
superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni
necessarie, indicandone il contenuto e i
soggetti che le devono rendere. In caso di
inutile decorso del termine di
regolarizzazione, il concorrente è escluso
dalla gara. Costituiscono irregolarità
essenziali non sanabili le carenze della
documentazione che non consentono
l'individuazione del contenuto o del
soggetto responsabile della stessa”.
Ha infine aggiunto il Tar che il comma 9 del
cit. art. 84 ritiene il soccorso istruttorio
ammissibile per la “mancanza” di “elementi”
e ammette anche che le dichiarazioni
mancanti siano “rese” (e non solo
integrate o regolarizzate) successivamente,
consentendo, quindi, anche di allegare
documenti formati dopo la richiesta da parte
dell’amministrazione. Quelli che non possono
sopravvenire alla data di presentazione
dell’offerta sono, infatti, i requisiti
sostanziali richiesti dalla legge o dal
bando, non i documenti che comprovano
l’esistenza di tali requisiti, come, nel
caso di specie, quelli attestati dalla
referenza bancaria, ovverosia l’esistenza di
rapporti di affidamento bancari con
l’impresa e la sua relativa solidità
finanziaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.10.2017 n. 4884 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Commissari, ok alle linee dell'Anac.
Dal Cds.
Via libera del Consiglio di stato alle linee
guida Anac sui commissari di gara, ma
occorre fare presto nell'adozione del
decreto ministeriale sui compensi per non
bloccare il varo del sistema di nomina dei
commissari.
Lo dice il Consiglio di Stato con il
parere 19.10.2017 n.
2163 sulle linee
guida Anac relative a criteri di scelta dei
commissari di gara e di iscrizione degli
esperti nell'Albo nazionale obbligatorio dei
componenti delle commissioni aggiudicatrici
di contratti pubblici.
Nel parere si sottolinea la necessità che il
decreto ministeriale sui compensi dei
commissari di gara venga adottato in tempi
brevi «in quanto la determinazione del
compenso costituisce un elemento essenziale
del conferimento dell'incarico, con la
conseguenza che un ritardo nella
predisposizione delle tabelle potrebbe
impedire l'entrata in vigore dell'intera
disciplina in esame». Ed è infatti quello
che sta accadendo.
Il parere segue l'invio
da parte dell'Autorità di una nuova bozza
messa a punto a valle del decreto correttivo
del codice appalti che, fra le altre cose,
ha previsto che la stazione appaltante possa
nominare alcuni componenti interni alla
stazione appaltante, nel rispetto del
principio di rotazione, escluso il
Presidente, anche in caso di lavori di
importo inferiore a un milione di euro e in
presenza di servizi e forniture di elevato
contenuto tecnologico e innovativo.
Il
parere chiede di articolare la composizione
dell'Albo in modo da separare gli esperti
«esterni» da quelli «interni» alle stazioni
appaltanti, nonché di creare un'area
dedicata agli esperti che operano in settori
delicati e specifici
(articolo ItaliaOggi del
20.10.2017). |
APPALTI: Mancata
aggiudicazione, il danno va provato.
Risarcimento del 10% non è automatico.
Il 10% di risarcimento per mancata
aggiudicazione di un appalto non è
automatico perché il pregiudizio subito va
provato sia come danno curricolare, sia come
mancato utile.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato,
con la
sentenza
17.10.2017 n. 4803 della VI Sez..
La pronuncia affronta a tutto tondo il tema
di risarcimento del danno da mancata
aggiudicazione, ripercorrendo l'iter che
deve essere compiuto per arrivare alla
eventuale riconoscimento del risarcimento.
In particolare, la sentenza ha specificato
che, nel caso di mancata aggiudicazione, il
risarcimento del danno conseguente al lucro
cessante si identifica con l'interesse
cosiddetto positivo, che ricomprende sia il
mancato profitto (che l'impresa avrebbe
ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia
il danno cosiddetto curricolare (ovvero il
pregiudizio subìto dall'impresa a causa del
mancato arricchimento del curriculum e
dell'immagine professionale per non poter
indicare in esso l'avvenuta esecuzione
dell'appalto).
A tale riguardo sarà poi a
carico dell'impresa che si ritiene
danneggiata provare l'utile che in concreto
avrebbe conseguito qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto. La possibilità
di operare una valutazione equitativa, ai
sensi dell'art. 1226 del codice civile è
ammessa soltanto in presenza di situazione
di impossibilità, o di estrema difficoltà,
di una precisa prova sull'ammontare del
danno.
Viene invece escluso che si possa pretendere
di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché
questo criterio esula storicamente dalla
materia risarcitoria, sia perché non può
essere oggetto di applicazione automatica e
indifferenziata; anche per il cosiddetto
danno curricolare il creditore deve offrire
una prova puntuale del nocumento che
asserisce di aver subito (il mancato
arricchimento del proprio curriculum
professionale), quantificandolo in una
misura percentuale specifica applicata sulla
somme liquidata a titolo di lucro cessante;
invece, il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell'aggiudicazione impugnata e di certezza
dell'aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa
(articolo ItaliaOggi del
20.10.2017).
---------------
MASSIMA
1.– La statuizione del giudice di prime
cure è erronea e l’appello deve essere
accolto.
2.– Ai sensi dell’art. 97, comma 2, lettera
e), del decreto-legislativo 18.04.2016,
n. 50 (Codice dei contratti pubblici):
«Quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso la congruità
delle offerte è valutata sulle offerte che
presentano un ribasso pari o superiore ad
una soglia di anomalia determinata; al fine
di non rendere predeterminabili dai
candidati i parametri di riferimento per il
calcolo della soglia, il RUP o la
commissione giudicatrice procedono al
sorteggio, in sede di gara, di uno dei
seguenti metodi: […] lettera e) media
aritmetica dei ribassi percentuali di tutte
le offerte ammesse, con esclusione del dieci
per cento, arrotondato all’unità superiore,
rispettivamente delle offerte di maggior
ribasso e di quelle di minor ribasso,
incrementata dello scarto medio aritmetico
dei ribassi percentuali che superano la
predetta media, moltiplicato per un
coefficiente sorteggiato dalla commissione
giudicatrice o, in mancanza della
commissione, dal RUP, all’atto del suo
insediamento tra i seguenti valori: 0,6;
0,7; 0,8; 0,9».
La disposizione riproduce il
calcolo di cui alla lettera a), a cui
aggiunge un ulteriore passaggio, vale a dire
la c.d. manipolazione della media degli
scarti: una volta accantonate le ali,
individuata la media e lo scarto medio degli
scarti delle offerte che superano la
predetta media deve essere sorteggiato un
coefficiente casuale da 0,6 a 1,4 da
moltiplicare alla media degli scarti (il
metodo e) coincide con quello a) quando il
coefficiente estratto è pari a 1).
2.1.‒ L’appellante contesta alla stazione
appaltante di avere “reinserito” nel calcolo
dello scarto medio aritmetico le due offerte
previamente eliminate nella prima fase del
taglio delle ali, in violazione dell’art.
97, comma 2, lettera e), del codice dei
contratti. Le modifiche introdotte nella
lettera dall’art. 62, comma 1, lettera a),
punto 6), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 ‒che pure non sarebbero applicabili in quanto
la causa in oggetto attiene a fatti esauriti
nel 2016‒ non rilevano quindi nel caso in
esame.
3.– Occorre premettere che i precedenti
evocati dal Tribunale amministrativo
regionale non sono pertinenti, in quanto
fanno riferimento alla diversa fattispecie
dei ribassi identici.
Il tema oggi in contestazione –se le
offerte rientranti nel 10% di maggiore o
minore ribasso (c.d. “ali”) debbano essere fittiziamente escluse solo nella fase
d’accertamento della soglia d’anomalia (per
poi essere riammesse per la determinazione
della media percentuale dei ribassi e per il
calcolo dello scarto medio aritmetico)
oppure se il loro “taglio” debba
rappresentare una definitiva fuoriuscita dal
novero delle offerte valide per la gara– è
diverso dalla quaestio iuris consistente
nello stabilire se, nell’effettuare il
“taglio delle ali” l’amministrazione debba
considerare come offerta unica soltanto le
offerte con eguale ribasso che si trovino “a
cavallo” delle ali da tagliare, ovvero anche
le offerte con eguale ribasso che si
collochino all’interno delle ali.
Quest’ultimo aspetto ‒avuto tuttavia
riguardo alla disciplina previgente dettata
dal d.lgs. n. 163 del 2006‒ è stato
recentemente risolto dall’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato (sentenza 19.09.2017, n. 5), enunciando i seguenti
principi di diritto: «1) il comma 1
dell’articolo 86 del decreto legislativo n.
163 del 2006 deve essere interpretato nel
senso che, nel determinare il dieci per
cento delle offerte con maggiore e con
minore ribasso (da escludere ai fini
dell’individuazione di quelle utilizzate per
il computo delle medie di gara), la stazione
appaltante deve considerare come ‘unica
offerta’ tutte le offerte caratterizzate dal
medesimo valore, e ciò sia se le offerte
uguali si collochino ‘al margine delle ali’,
sia se si collochino ‘all’interno’ di esse;
2) il secondo periodo del comma 1 del d.P.R.
207 del 2010 (secondo cui “qualora
nell'effettuare il calcolo del dieci per
cento di cui all'articolo 86, comma 1, del
codice siano presenti una o più offerte di
eguale valore rispetto alle offerte da
accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo
della soglia di anomalia”) deve a propria
volta essere interpretato nel senso che
l’operazione di accantonamento deve essere
effettuata considerando le offerte di eguale
valore come ‘unica offerta’ sia nel caso in
cui esse si collochino ‘al margine delle
ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di
esse».
4.– L’istituto dell’anomalia dell’offerta è
risalente ed è stata nel tempo oggetto di
ripetuti interventi correttivi. Tuttavia,
rispetto alla specifica regola operativa che
si chiede oggi di interpretare è ravvisabile
una “continuità normativa”, pur nella
successione di diverse fonti, a partire
dalla legge n. 415 del 1998 e sino all’entrata
in vigore dell’odierno decreto-legislativo
n. 50 del 2016).
4.1.‒ La formulazione del testo legislativo,
di per sé, non chiarisce se la fittizia
eliminazione del 10% delle offerte di
maggior ribasso valga solo ai fini del
calcolo della prima media (la media dei
ribassi) e non anche della seconda media (la
media degli scostamenti), oppure se tale
depurazione interessi tutte e due le fasi
del calcolo. L’inciso della norma
(«incrementata dello scarto medio aritmetico
dei ribassi percentuali che superano la
predetta media») può essere interpretato,
sia nel senso di incrementare a media
aritmetica con lo scarto ottenuto tenendo
conto di tutti i ribassi percentuali
eccedenti la media, e quindi anche del 10%
delle offerte escluse dal calcolo della
prima media aritmetica; sia nel senso di non
considerare più le stesse (una volta fittiziamente eliminate) a fini del
complessivo calcolo del valore di anomalia.
Sennonché, elementi di carattere teleologico
e sistematico militano a ritenere come
corretta l’interpretazione secondo cui la
previa esclusione (c. d. taglio delle ali)
va inclusa anche nel calcolo dello scarto
medio aritmetico dei ribassi percentuali
superiori alla media. Si tratta ‒è bene
precisare sin d’ora‒ di una soluzione
ermeneutica che, a partire dal parere del
Consiglio di Stato, sez. II, 03.03.1999,
n. 285, non è mai stata posta in discussione
dalla giurisprudenza, e rispetto alla quale
il Collegio non ha motivo di discostarsi.
4.2.‒ Il metodo di calcolo della c.d.
soglia di anomalia è composto da una serie
di operazioni successive: anzitutto la
determinazione della media aritmetica dei
ribassi percentuali di tutte le offerte
ammesse, poi la determinazione dello scarto
medio aritmetico dei ribassi percentuali che
superino la predetta media, quindi la somma
del secondo risultato al primo.
Ai fini del
calcolo, la disposizione prevede
l’accantonamento dal calcolo di quelle
offerte che si collocano sui margini estremi
del gruppo, così percentualmente definiti.
Si presume infatti che le offerte che si
collocano in queste fasce estreme possano
corrispondere non tanto ad una reale
intenzione di contrarre, quanto
all'obiettivo di condizionare la
determinazione della media stessa e dunque
della soglia di anomalia (c.d. offerte di
appoggio): per questa ragione di prevenzione
di un'ipotetica turbativa esse sono
prudenzialmente accantonate dal calcolo e
dunque temporaneamente private di effetto,
salva restando la loro successiva verifica,
ai fini della effettiva esclusione dalla
gara, rispetto al risultato del calcolo
stesso
4.3.‒ La logica del taglio delle ali è tale
per cui la presunzione su cui si basa è di
ordine generale, tale cioè da non soffrire
eccezioni o intermittenze nello sviluppo
logico e aritmetico della determinazione
della soglia di anomalia, sicché un metodo
di calcolo che la prendesse in
considerazione ai fini della prima
operazione, ma la escludesse dalla seconda,
sarebbe intrinsecamente contraddittorio: da
un lato infatti, ai fini della prima e
principale operazione (la determinazione
della media aritmetica dei ribassi
percentuali di tutte le offerte ammesse)
essa escluderebbe tali offerte a causa di
questa presunzione; ma poi, ai fini della
operazione di correttivo (la determinazione
dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali che superino la predetta media)
le recupererebbe facendole partecipare a
pieno titolo al calcolo stesso del
correttivo.
Questo effetto sarebbe
irragionevolmente contraddittorio, perché
farebbe perno su due giudizi di valore
giuridico tra loro antitetici e
incompatibili e dunque comprometterebbe la
stessa ragion d'essere del primo
accantonamento, peraltro indubitabilmente
voluta dalla legge.
La stessa formula di
calcolo diverrebbe disomogenea e
irrazionale, perché, per definire la media
degli scarti (vale a dire un elemento
semplicemente correttivo della media delle
offerte) includerebbe nel calcolo fattori
già esclusi (le offerte di margine)
dall’elemento corretto, che questo non hanno
concorso a determinare: sicché, trattandosi
di una “correzione” che ha i caratteri e lo
scopo di un affinamento ulteriore della
media delle offerte da prendere in
considerazione ai fini del calcolo, non si
vede perché tali fattori prima esclusi
dovrebbero ora concorrere a definire questo
ulteriore affinamento.
Inoltre, dal punto di
vista pratico, l’attenuazione dell’effetto
dell’accantonamento già operato
provocherebbe la determinazione di una
soglia di anomalia deviata dai ribassi più
accentuati: vale a dire una contraddizione
intrinseca non solo al calcolo, ma anche
alla ratio della legge stessa, che è tesa ad
evitare che le offerte disancorate dal
mercato possano incidere negativamente sul
conteggio.
Il che evidenzia che l’opinione
della limitazione del taglio delle ali alla
sola prima operazione finirebbe per confliggere con le finalità della legge e
del sistema in tema di esclusione delle
offerte anomale e che, all'opposto, la sua
estensione anche alla seconda operazione
costituisce un elemento essenziale per
mantenere coerenza al metodo di calcolo e al
sistema. Occorre invero che il metodo sia
tale da evitare ogni suo sostanziale
squilibrio, strumentale all'ottenimento di
una soglia-risultato eterodossa rispetto
alla funzione della norma.
4.4.‒ Su queste basi, non vale obiettare
che, in tal modo, la determinazione
quantitativa della soglia di anomalia si
colloca su valori costantemente più elevati
rispetto al primo, con la conseguenza che
anche l’aggiudicazione dell’appalto avviene
a prezzi mediamente più alti.
La finalità della verifica dell’anomalia
dell’offerta è quella di evitare che offerte
troppo basse espongano l’amministrazione al
rischio di esecuzione della prestazione in
modo irregolare e qualitativamente inferiore
a quella richiesta e con modalità esecutive
in violazione di norme con la conseguenza di
far sorgere contestazioni e ricorsi.
L’amministrazione deve infatti aggiudicare
l’appalto a soggetti che abbiano presentato
offerte che, avuto riguardo alle
caratteristiche specifiche della prestazione
richiesta, risultino complessivamente
proporzionate sotto il profilo economico
all’insieme dei costi, rischi ed oneri che
l’esecuzione della prestazione comporta a
carico dell’appaltatore con l’aggiunta del
normale utile d’impresa affinché la stessa
possa rimanere sul mercato. Occorre quindi
contemperare l’interesse del concorrente a
conseguire l’aggiudicazione formulando
un’offerta competitiva con quello della
stazione appaltante ad aggiudicare al minor
costo senza rinunciare a standard adeguati
ed al rispetto dei tempi e dei costi
contrattuali.
Lo spirito del meccanismo del taglio delle
ali risponde all’esigenza di porre rimedio
al fenomeno delle offerte largamente e
palesemente disancorate dai valori medi,
presentate al solo scopo di condizionare
pesantemente le medie. Se la ratio sottesa
alle norme in esame è quella di
“sterilizzare” (attraverso il noto
meccanismo dell’accantonamento) la valenza
di offerte dal contenuto estremo (e in
quanto tali tendenzialmente inaffidabili), è
del tutto coerente con tale approccio che la
predetta funzione correttiva operi sia sul
versante del computo della media, sia del
calcolo dello scarto aritmetico medio dei
ribassi percentuali. Il reinserimento delle
offerte “tagliate” nelle successive
operazioni di calcolo si appalesa invece
come contraria dello stesso fondamento di
contrastare la turbativa degli incanti.
L’interpretazione accolta, tra l’altro, è
quella più garantista dell’interesse
pubblico, in quanto maggiormente idonea a
prevenire manipolazioni della gara e del suo
esito ostacolando condotte collusive in sede
di formulazione delle percentuali di
ribasso.
4.5.– In definitiva, va ribadito che la
“soglia di anomalia” va determinata nel
seguente modo:
a) si forma l’elenco delle offerte ammesse
disponendole in ordine crescente dei
ribassi;
b) si calcola il dieci per cento del numero
delle offerte ammesse e lo si arrotonda
all’unità superiore;
c) si accantona in via provvisoria un numero
di offerte, pari al numero di cui alla
lettera b), di minor ribasso nonché un pari
numero di offerte di maggior ribasso (taglio
delle ali);
d) si calcola la media aritmetica dei
ribassi delle offerte che restano dopo
l’operazione di accantonamento di cui alla
lettera c);
e) si calcola ‒sempre con riguardo alle
offerte che restano dopo l’operazione di
accantonamento di cui alla lettera c)‒ lo
scarto dei ribassi superiori alla media di
cui alla lettera d) e, cioè, la differenza
fra tali ribassi e la suddetta media;
f) si calcola la media aritmetica degli
scarti e cioè la media delle differenze;
g) si somma la media di cui alla lettera d)
con la media di cui alla lettera f); tale
somma costituisce la “soglia di anomalia”.
4.6.– Tali modalità corrispondono peraltro
alle esemplificazioni costantemente operate
dalla apposita Autorità di vigilanza, ora
ANAC (cfr. le determinazioni n. 4/1999 e n.
6/2009, non contraddette dal recente
comunicato 05.10.2016).
4.7.– L’argomento di interpretazione
letterale utilizzato dal giudice di primo
grado avrebbe dovuto svilupparsi lungo una
direzione esattamente opposta: se il
legislatore avesse volutamente disporre il
reinserimento delle “ali tagliate” nel
secondo conteggio ‒contraddicendo un
assetto ermeneutico oramai consolidato‒
avrebbe dovuto esplicitarlo chiaramente.
4.8.‒ Peraltro, nel caso in esame, il
giudice di prime cure ha omesso di
stigmatizzare anche una ulteriore
illegittimità. Dopo l’iniziale esclusione
delle ali “estreme”, la stazione appaltante
ha reinserito, nei successivi conteggi,
soltanto le “ali maggiori”. Ebbene, pur
ponendosi nella prospettiva interpretativa
(sopra respinta) secondo cui lo scarto medio
aritmetico andava calcolato mediante il
reinserimento delle ali inizialmente
tagliate, appare del tutto ingiustificato ‒logicamente prima ancora che normativamente‒ l’inserimento della sola “ala maggiore” e
non delle offerte contenenti un ribasso più
contenuto.
5.– In definitiva, la procedura di
affidamento dell’appalto risulta viziata.
Sul versante conformativo, il Collegio deve
tener conto del fatto che l’amministrazione
appellata ha contestato in punto di fatto
quanto affermato dall’appellante ‒ovvero
che il reinserimento delle due ali maggiori
(inizialmente “tagliate”) avrebbe
determinato un valore del 3,36% quale scarto
medio percentuale‒ affermando invece che,
anche utilizzando gli scarti di detta ala,
la media degli scarti ottenuta sarebbe stata
proprio del 5,84%, in esecuzione della
presente sentenza.
Pertanto, in esecuzione della presente
sentenza, la stazione appaltante dovrà
dunque operare, nel contraddittorio delle
parti, una ripetizione della gara
“virtuale”, nel rispetto dei canoni di
determinazione della soglia di anomalia
sopra indicati.
6.‒ Per economia di giudizi, il Collegio
statuisce sin d’ora che, ove risulti
all’esito della ripetizione virtuale della
gara che la EL. SRL (avendo offerto un
ribasso percentuale del 29,92%) avrebbe
dovuta esclusa, ai sensi dell’art. 97, comma
8, del codice dei contratti pubblici, la
stazione appaltante dovrà liquidare in
favore della società appellante il
risarcimento del danno (il quale, come è
noto, prescinde da un accertamento in ordine
alla imputabilità soggettiva della lamentata
violazione), calcolato secondo i criteri di
seguito indicati ai sensi dell’art. 34,
comma 4, c.p.a.
6.1.‒ A tale proposito, è utile richiamare i
principi elaborati dalla sentenza
dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2017, alla
stregua dei quali:
- ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma
1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la
prova dell’an e del quantum del danno che
assume di aver sofferto;
- nel caso di mancata aggiudicazione il
risarcimento del danno conseguente al lucro
cessante si identifica con l’interesse c.d.
positivo, che ricomprende sia il mancato
profitto (che l'impresa avrebbe ricavato
dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno
c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio
subìto dall'impresa a causa del mancato
arricchimento del curriculum e dell'immagine
professionale per non poter indicare in esso
l'avvenuta esecuzione dell’appalto);
- spetta all’impresa danneggiata offrire la
prova dell’utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell’appalto, poiché
nell’azione di responsabilità per danni il
principio dispositivo opera con pienezza e
non è temperato dal metodo acquisitivo
proprio dell'azione di annullamento (ex art.
64, commi 1 e 3, c.p.a.);
- la valutazione equitativa, ai sensi
dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in
presenza di situazione di impossibilità -o
di estrema difficoltà- di una precisa prova
sull’ammontare del danno;
- le parti non possono sottrarsi all’onere
probatorio e rimettere l’accertamento dei
propri diritti all'attività del consulente
tecnico d’ufficio neppure nel caso di
consulenza cosiddetta “percipiente”, che può
costituire essa stessa fonte oggettiva di
prova, demandandosi al consulente
l'accertamento di determinate situazioni di
fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è
necessario che le parti stesse deducano
quantomeno i fatti e gli elementi specifici
posti a fondamento di tali diritti;
- la prova in ordine alla quantificazione
del danno può essere raggiunta anche
mediante presunzioni (sulla base della
regola della inferenza “probabilistica” e
non “necessaria”);
- va esclusa la pretesa di ottenere
l'equivalente del 10% dell'importo a base
d’asta, sia perché detto criterio esula
storicamente dalla materia risarcitoria, sia
perché non può essere oggetto di
applicazione automatica ed indifferenziata;
- anche per il c.d. danno curricolare il
creditore deve offrire una prova puntuale
del nocumento che asserisce di aver subito
(il mancato arricchimento del proprio
curriculum professionale), quantificandolo
in una misura percentuale specifica
applicata sulla somme liquidata a titolo di
lucro cessante;
- il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell'aggiudicazione impugnata e di certezza
dell'aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa.
6.2.‒ L’applicazione di tali principi al
caso di specie conduce alle seguenti
conclusioni:
a) va esclusa la possibilità di riconoscere,
automaticamente e forfettariamente, a titolo
di lucro cessante una somma corrispondente
al 10% dell’importo dei lavori;
b) non è stata fornita la prova del c.d.
danno curriculare;
c) sussistono i presupposti per applicare la
detrazione relativa al c.d. aliunde
perceptum. Rileva, a tal fine, la
considerazione: «secondo cui l’imprenditore
(specie se in forma societaria), in quanto
soggetto che esercita professionalmente
un’attività economica organizzata
finalizzata alla produzione di utili,
normalmente non rimane inerte in caso di
mancata aggiudicazione di un appalto, ma si
procura prestazioni contrattuali alternative
dalla cui esecuzione trae utili. Pertanto,
in mancanza di prova contraria, che
l'impresa che neghi l'aliunde perceptum può
fornire anche sulla base dei libri
contabili, deve ritenersi che essa abbia
comunque impiegato proprie risorse e mezzi
in altre attività, dovendosi quindi
sottrarre al danno subito per la mancata
aggiudicazione l'aliunde perceptum,
calcolato in genere in via equitativa e
forfettaria. Del resto -e si è al secondo
ordine di considerazioni- nell'ambito delle
gare d'appalto, tale conclusione risulta
avvalorata dalla distinta, concorrente
circostanza che, da un lato, non risulta
ragionevolmente predicabile la condotta
dell'impresa che immobilizza le proprie
risorse in attesa dell'aggiudicazione di una
commessa, o nell'attesa dell'esito del
ricorso giurisdizionale volto ad ottenere
l'aggiudicazione, atteso che possono essere
molteplici le evenienze per cui potrebbe
risultare non aggiudicataria della commessa
stessa (il che corrobora la presunzione);
dall'altro che, ai sensi dell'art. 1227,
secondo comma, c.c., il danneggiato ha un
puntuale dovere di non concorrere ad
aggravare il danno, sicché il comportamento
inerte dell'impresa ben può assumere rilievo
in ordine all'aliunde percipiendum» (cfr.
Adunanza Plenaria n. 2 del 2017).
6.3.‒ In definitiva, esclusa la possibilità
di applicare la percentuale del 10%, e
riconosciuta la particolare difficoltà di
fornire una prova puntuale del relativo
importo, tale utile non può che essere
determinato in via equitativa (art. 2056
c.c.) nella misura del cinque per cento del
valore dell’appalto (determinato in ragione
del ribasso offerto in gara dall’avente
diritto), da cui va però detratto un
ulteriore 2% per cento, in quanto deve
presumersi che l’impresa abbia riutilizzato
mezzi e manodopera per altri lavori ovvero
che avrebbe potuto riutilizzare, usando
l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non
concorrere all’aggravamento del danno.
6.4.‒ Ai fini dell’integrale risarcimento
del danno, che costituisce debito di valore,
occorre riconoscere, inoltre, al danneggiato
sia la rivalutazione monetaria (secondo
l’indice medio dei prezzi al consumo
elaborato dall'Istat), che attualizza al
momento della liquidazione il danno subito,
sia gli interessi compensativi (determinati
in via equitativa assumendo come parametro
il tasso di interesse legale) calcolati
sulla somma periodicamente rivalutata, volti
a compensare la mancata disponibilità di
tale somma fino al giorno della liquidazione
del danno, sia, infine, gli interessi legali
sulla somma complessiva dal giorno della
pubblicazione della sentenza (che con la
liquidazione del credito ne segna la
trasformazione in credito di valuta) sino al
soddisfo. |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: L’accesso
agli atti di una procedura di affidamento di
contratti pubblici è oggi, nel settore degli
appalti pubblici, disciplinato dall’art. 53
d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
La giurisprudenza sull’immediato antecedente
normativo, l’art. 13 d.lgs. 12.04.2006, n.
163, di identico tenore, ha affermato
trattarsi di norma eccezionale la cui
portata va limitata sia soggettivamente ad
altro concorrente che proponga istanza di
accesso alla stazione appaltante, che
oggettivamente alla sola tutela in giudizio
dei propri interessi.
Nondimeno, al di là della platea dei
concorrenti che competono per il bene della
vita dell’aggiudicazione e di quanto
l’accesso è strumentale, e in ragione del
rinvio contenuto nel primo comma dell’art.
53 alla l. 07.08.1990 n. 241, le
fattispecie, diverse da quelle ricordate
dalla giurisprudenza circa i concorrenti,
restano per i terzi disciplinate dalle
disposizioni generali degli articoli 22 e
ss. l. 07.08.1990, n. 241.
Tra queste rientra quella del presente
giudizio in cui a richiedere l’accesso agli
atti è un soggetto estraneo alla procedura
di gara, che intende salvaguardare la
consistenza e il valore del diritto di
proprietà dei condomini sul quale l’appalto
stesso va evidentemente ad incidere: perciò
titolare di un interesse differenziato e
qualificato, inerente al godimento della
proprietà immobiliare. Egli, in ragione tale
distinzione dell’interesse di cui è
portatore, ben può accedere agli atti della
procedura nei presupposti, che ricorrono, e
nelle condizioni dell’art. 22 l. n. 241 del
1990.
---------------
Il vaglio dell’Amministrazione sull’istanza
di accesso è per costante giurisprudenza
limitato in un perimetro ristretto dalla
legge e non contempla alcuna valutazione
dell’utilizzo che il privato intenda fare
del documento.
---------------
9. L’appello del Ministero dell’interno è
infondato e va respinto.
10. Vale rammentare che l’accesso agli atti
di una procedura di affidamento di contratti
pubblici è oggi, nel settore degli appalti
pubblici, disciplinato dall’art. 53 d.lgs.
18.04.2016, n. 50. La giurisprudenza
sull’immediato antecedente normativo, l’art.
13 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di identico
tenore, ha affermato trattarsi di norma
eccezionale la cui portata va limitata sia
soggettivamente ad altro concorrente che
proponga istanza di accesso alla stazione
appaltante, che oggettivamente alla sola
tutela in giudizio dei propri interessi
(cfr. Cons. giust. amm. Sic., 23.09.2016, n.
324 e Cons. Stato, V, 16.03.2016, n. 1056).
11. Nondimeno, al di là della platea dei
concorrenti che competono per il bene della
vita dell’aggiudicazione e di quanto
l’accesso è strumentale, e in ragione del
rinvio contenuto nel primo comma dell’art.
53 alla l. 07.08.1990 n. 241, le
fattispecie, diverse da quelle ricordate
dalla giurisprudenza circa i concorrenti,
restano per i terzi disciplinate dalle
disposizioni generali degli articoli 22 e
ss. l. 07.08.1990, n. 241.
Tra queste rientra quella del presente
giudizio in cui a richiedere l’accesso agli
atti è un soggetto estraneo alla procedura
di gara, che intende salvaguardare la
consistenza e il valore del diritto di
proprietà dei condomini sul quale l’appalto
stesso va evidentemente ad incidere: perciò
titolare di un interesse differenziato e
qualificato, inerente al godimento della
proprietà immobiliare. Egli, in ragione tale
distinzione dell’interesse di cui è
portatore, ben può accedere agli atti della
procedura nei presupposti, che ricorrono, e
nelle condizioni dell’art. 22 l. n. 241 del
1990.
12. Il Ministero, nell’appello, non nega
sussistere una situazione soggettiva in capo
all’appellata, tanto è che richiama le “prerogative
condominiali” (i poteri e le facoltà
riconosciuti dal codice civile a chi riveste
lo status di condomino), ma assume che
l’interessata non potrebbe ricevere utilità
diretta dalla conoscenza degli atti della
procedura di gara.
Così agendo e così argomentando, tuttavia,
il Ministero si sostituisce indebitamente al
privato interessato nella valutazione delle
modalità, naturalmente libere, di
salvaguardia dei propri interessi: e, senza
averne legittimazione in ragione dei
principi dello Stato di diritto, esercita un
non previsto sindacato di tutela
sull’istanza di accesso: che è naturalmente
precluso all’Amministrazione che detiene i
documenti.
13. Nemmeno pare ricorrere una delle cause
di esclusione dell’art. 24, commi 1 e 6, l.
07.08.1990, n. 241.
14. Vale aggiungere che il vaglio
dell’Amministrazione sull’istanza di accesso
è per costante giurisprudenza limitato in un
perimetro ristretto dalla legge e non
contempla alcuna valutazione dell’utilizzo
che il privato intenda fare del documento
(Cons. Stato, V, 23.03.2015 n. 1545; IV,
29.01.2014 n. 461; IV, 19.03.2014, n. 1339,
ma già Cons. Stato, V, 10.01.2007, n. 55).
15. Il collegamento dell’interesse
differenziato dell’istante condominio con i
documenti di cui chiede l’accesso era dunque
palese, essendo ente gestore dello stabile
dove si trovano gli immobili adibiti ad
abitazione e accoglienza. Sicché è del tutto
naturale che, a meglio tutelare il proprio
definito interesse, stimasse funzionale
l’acquisizione della conoscenza degli atti
in questione, tra cui ad esempio le
certificazioni urbanistiche e sanitarie,
sulla cui base l’Associazione culturale Ac.
ha partecipato alla procedura e la
Prefettura ne ha disposto l’affidamento,
così destinando gli appartamenti
condominiali a fini che l’interessata assume
diversi da quelli consentiti dal regolamento
condominiale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.10.2017 n. 4784 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
esclusa la natura meramente accessoria e
pertinenziale dell’impianto di autolavaggio
rispetto al distributore di carburante,
poiché il primo è comunque suscettibile di
autonomo utilizzo economico quale fonte
reddituale, dovendosi altresì escludere la
natura precaria dello stesso essendo
preordinato a soddisfare utilità a tempo
indeterminato.
Per tali ragioni devono pertanto
considerarsi nuove costruzioni (ex art. 3,
comma 1, lett. e.5, del DPR n. 380/2001)
soggette a permesso di costruire, anche i
manufatti mobili e leggeri che costituiscono
l’impianto allorché siano funzionali in
maniera permanente allo svolgimento di
un'attività e comunque non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee.
Per le stesse ragioni gli impianti di
autolavaggio non possono essere ricondotti
alla nozione di variante non essenziale
rispetto ad un permesso di costruire
rilasciato per il solo distributore di
carburante.
---------------
1. La ricorrente, in qualità di gestore di
un distributore di carburanti nel comune di
Mogliano, presentava, al SUAP comunale, una
SCIA per la realizzazione di un autolavaggio
entro l’area del predetto distributore dopo
aver acquisito l’Autorizzazione Unica
Ambientale dalla provincia di Macerata (per
gli scarichi di acque reflue e i profili
acustici).
Il responsabile del SUAP, tuttavia, adottava
l’ordinanza oggetto di gravame recante
ordine di non esecuzione dei lavori,
ritenendo che gli stessi rappresentassero
una nuova costruzione da realizzare previo
rilascio di un permesso di costruire
convenzionato come previsto dall’art. 7
delle NTA del PRG.
...
3. Nel merito il ricorso è infondato per le
ragioni di seguito indicate, che trattano
congiuntamente tutti i profili di doglianza.
Va innanzitutto esclusa la natura meramente
accessoria e pertinenziale dell’impianto di
autolavaggio rispetto al distributore di
carburante, poiché il primo è comunque
suscettibile di autonomo utilizzo economico
quale fonte reddituale, dovendosi altresì
escludere la natura precaria dello stesso
essendo preordinato a soddisfare utilità a
tempo indeterminato (cfr. TAR Abbruzzo,
L’Aquila, 14.11.2016 n. 712).
Per tali ragioni devono pertanto
considerarsi nuove costruzioni (ex art. 3,
comma 1, lett. e.5, del DPR n. 380/2001)
soggette a permesso di costruire, anche i
manufatti mobili e leggeri che costituiscono
l’impianto allorché siano funzionali in
maniera permanente allo svolgimento di
un'attività e comunque non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee
(cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis
26.03.2014 n. 3328 e giurisprudenza ivi
richiamata).
Per le stesse ragioni gli impianti di
autolavaggio non possono essere ricondotti
alla nozione di variante non essenziale
rispetto ad un permesso di costruire
rilasciato per il solo distributore di
carburante.
Risulta inoltre irrilevante la SCIA
presentata in data 04.08.2016 (non
contestata dal comune) per la realizzazione
di un muro di sostegno lungo le scarpate
esistenti nel perimetro occidentale e
meridionale del distributore, trattandosi di
opera di altra natura, peraltro non
suscettibile di autonomo utilizzo economico.
Da ultimo va osservato che le previsioni di
cui al punto 87 della Sezione I
dell’allegato A al D.Lgs. n. 222/2016 (che
sottopongono la realizzazione dei
distributori di carburante al regime
amministrativo dell’autorizzazione e del
silenzio-assenso in caso di inerzia oltre ad
autorizzazione -non soggetta a
silenzio-assenso- per lo scarico in caso di
lavaggio auto), non contrastano con il
regime edificatorio subordinato al permesso
di costruire, atteso che anche quest’ultimo
è sottoposto al regime del silenzio-assenso
ex art. 20, comma 8, del DPR n. 380/2001
(TAR Marche,
sentenza 16.10.2017 n. 778 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Vale
pur sempre, in materia di distanze tra
edifici, il principio di prevenzione in caso
di sopraelevazione, il quale implica che il
preveniente, da un lato, deve conformarsi
alla scelta originariamente effettuata e
proseguire in altezza, onde il prevenuto,
dall'altro lato, ha diritto di soprelevare o
sul confine (come poi ha da ultimo fatto
pure l’appellante), o ad una distanza da
questo pari a quella minima prevista dalla
legge o dagli strumenti urbanistici.
---------------
... per la riforma della
sentenza
15.04.2013 n.
3804 del TAR Lazio–Roma, sez. II-bis,
resa tra le parti e concernente una
concessione edilizia in sanatoria;
...
Considerato per contro che:
– per la restante parte, l’appello invece non ha pregio e va
respinto, anzitutto con riguardo al torrino
copriscale, alla prosecuzione del muro
perimetrale ed alla copertura dei
posti-auto, opere, queste, per le quali il
CTU nominato dal Tribunale di Civitavecchia
ha escluso ogni sconfinamento nella
proprietà attorea;
– né vale obiettare che la consulenza tecnica de qua afferisca ad
altro giudizio, poiché, per un verso, nel
processo amministrativo essa (comunque sia
introdotta innanzi a questo Giudice)
costituisce non un mezzo di prova ma, al
più, di ricerca della prova (c.d. consulenza
tecnica percipiente) nel pieno
contraddittorio tra le parti, al fine di
fornire al Giudice medesimo i necessari
elementi di valutazione quando la
complessità sul piano tecnico dei fatti di
causa ne impedisca l’esatta comprensione
(arg., da ultimo, ex Cons. St., V, 11.05.2017 n. 2181) e, per altro e correlato
verso, l’acquisizione di una CTU, resa in
altro giudizio ma tra le stesse parti e per
la medesima questione controversa, non è che
l’assunzione d’una documentazione già
formata (e, comunque, soggetta a tal
contraddittorio) ed apprezzabile da questo
Giudice secondo gli ordinari criteri di
giudizio sui mezzi di prova;
– quand’anche fosse vero lo sconfinamento, varrebbe pur sempre, in
materia di distanze tra edifici, il
principio di prevenzione in caso di
sopraelevazione, il quale implica che il
preveniente, da un lato, deve conformarsi
alla scelta originariamente effettuata e
proseguire in altezza, onde il prevenuto,
dall'altro lato, ha diritto di soprelevare o
sul confine (come poi ha da ultimo fatto
pure l’appellante), o ad una distanza da
questo pari a quella minima prevista dalla
legge o dagli strumenti urbanistici (cfr.
Cons. St., V, 10.01.2012 n. 53)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.10.2017 n. 4760 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
un avviso costante di questa Sezione, la
destinazione a parcheggio pubblico impressa
in base a previsioni di tipo urbanistico,
non comportando automaticamente l’ablazione
dei suoli ed, anzi, ammettendo la
realizzazione anche da parte dei privati, in
regime di economia di mercato, delle
relative attrezzature destinate all’uso
pubblico costituisce vincolo conformativo e
non anche espropriativo della proprietà
privata per cui la relativa imposizione non
necessita della contestuale previsione
dell’indennizzo, né delle puntuali
motivazioni sulle ragioni poste a base della
eventuale reiterazione della previsione
stessa.
Più in generale, va attribuita natura
non espropriativa, ma conformativa del
diritto di proprietà sui suoli a tutti quei
vincoli che non solo non siano
esplicitamente preordinati all’esproprio in
vista della realizzazione di un’opera
pubblica, ma nemmeno si risolvano in una
sostanziale ablazione dei suoli medesimi,
consentendo al contrario la realizzazione di
interventi da parte dei privati e ciò in
linea con quanto statuito dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 179 del
20.05.1999 che ha sancito appunto il
principio per cui non sono annoverabili tra
i vincoli espropriativi quelli derivanti da
scelte urbanistiche realizzabili anche
attraverso l’iniziativa privata.
In sostanza, sono conformativi e al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo (non
comportano indennizzo, non decadono al
quinquennio e quindi non sussiste un dovere
di ritipizzazione) i vincoli che importano
una destinazione, anche di contenuto
specifico, realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, che
non comportino necessariamente
espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e, quindi, siano
attuabili anche dal soggetto privato e senza
necessità di ablazione del bene.
---------------
14. Non è poi fondata la censura relativa
alla illegittima reiterazione di un vincolo
espropriativo. La destinazione dell’area di
proprietà degli appellanti ad “attrezzature
e servizi di quartiere”, specificata nel
Paino particolareggiato a “parcheggio
pubblico”, non ha infatti natura di
vincolo espropriativo, tenuto conto che ai
sensi dell’art. 23 della NTA al PRG non
riservava la realizzazione delle
attrezzature e dei servizi di quartiere alla
sfera pubblica. Da ciò ne discende la natura
conformativa e non espropriativa di tale
destinazione.
15. Infatti, secondo un avviso costante di
questa Sezione (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 17.03.2017, n. 1196), la
destinazione a parcheggio pubblico impressa
in base a previsioni di tipo urbanistico,
non comportando automaticamente l’ablazione
dei suoli ed, anzi, ammettendo la
realizzazione anche da parte dei privati, in
regime di economia di mercato, delle
relative attrezzature destinate all’uso
pubblico costituisce vincolo conformativo e
non anche espropriativo della proprietà
privata per cui la relativa imposizione non
necessita della contestuale previsione
dell’indennizzo, né delle puntuali
motivazioni sulle ragioni poste a base della
eventuale reiterazione della previsione
stessa.
16. Più in generale, va attribuita natura
non espropriativa, ma conformativa del
diritto di proprietà sui suoli a tutti quei
vincoli che non solo non siano
esplicitamente preordinati all’esproprio in
vista della realizzazione di un’opera
pubblica, ma nemmeno si risolvano in una
sostanziale ablazione dei suoli medesimi,
consentendo al contrario la realizzazione di
interventi da parte dei privati (cfr. Cons.
Stato sez. IV 07.04.2010 n. 1982) e ciò in
linea con quanto statuito dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 179 del
20.05.1999 che ha sancito appunto il
principio per cui non sono annoverabili tra
i vincoli espropriativi quelli derivanti da
scelte urbanistiche realizzabili anche
attraverso l’iniziativa privata.
In sostanza, sono conformativi e al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo (non
comportano indennizzo, non decadono al
quinquennio e quindi non sussiste un dovere
di ritipizzazione) i vincoli che importano
una destinazione, anche di contenuto
specifico, realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, che
non comportino necessariamente
espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e, quindi, siano
attuabili anche dal soggetto privato e senza
necessità di ablazione del bene (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12.04.2017, n. 1700)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.10.2017 n. 4748 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Circa la necessità di una
puntuale motivazione delle scelte
urbanistiche operate dal Comune, in ogni
caso, non può ammettersi l’obbligo di una
specifica motivazione per tutte le scelte
operate.
Nel caso di specie si tratta di una variante
generale che non necessita una motivazione
articolata in modo diverso rispetto a quella
propria di un Piano regolatore, cioè non una
motivazione specifica circa la destinazione
di zona delle singole aree, essendo
sufficiente una motivazione sulle esigenze
urbanistiche che sono a fondamento della
variante medesima.
---------------
17. Quanto poi alla necessità di una
puntuale motivazione delle scelte
urbanistiche operate dal Comune, nella
sostanza, come detto, essa è riferita al
vigente Piano particolareggiato. In ogni
caso, non può ammettersi l’obbligo di una
specifica motivazione per tutte le scelte
operate.
Nel caso di specie si tratta di una variante
generale che non necessita una motivazione
articolata in modo diverso rispetto a quella
propria di un Piano regolatore, cioè non una
motivazione specifica circa la destinazione
di zona delle singole aree, essendo
sufficiente una motivazione sulle esigenze
urbanistiche che sono a fondamento della
variante medesima (cfr. Cons. Stato. A.P. n.
24 del 1999 e sez. IV, 28.09.2016, n. 4022)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.10.2017 n. 4748 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione a seguito di crollo non è
dissimile dalla demolizione e
ricostruzione ammesse nell’ambito della
ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3,
comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001,
sempreché vi siano elementi sufficienti per
provare le dimensioni e le caratteristiche
dell’edificio “da ristrutturare”.
Anche se l’edificio non è in tutto o in
parte fisicamente esistente al momento
dell’intervento richiesto (per effetto del
crollo), non v’è ragione di classificarlo
come nuova costruzione.
Un edificio può,
infatti, dirsi esistente non solo quando
“esista un organismo edilizio, seppur non
necessariamente abitato od abitabile,
connotato nei suoi caratteri essenziali,
dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua
(fedele) ricostruzione”, ma anche
quando la sua più recente consistenza,
precedente l’evento sismico o assimilato,
sia apprezzabile compiutamente sulla base di
aerofotogrammetrie e/o immagini satellitari
di sicura veridicità.
---------------
... per la riforma della
sentenza
12.01.2012 n.
62 del TAR per il Piemonte, sez. II,
resa tra le parti, concernente diniego di
permesso di costruire in sanatoria.
...
L’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina all’art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale
dispone che il permesso in sanatoria può
essere ottenuto “se l’intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda”.
La fattispecie fattuale oggetto di gravame
va, dunque, analizzata alla stregua dei
presupposti previsti da tale norma, atteso
che, nel caso di specie, è stata proprio
tale “conformità” all’astratta fattispecie
normativa ad essere stata, essenzialmente,
messa in discussione dall’Amministrazione.
La decisione di denegare la sanatoria
invocata dai ricorrenti muove, infatti,
dall’indimostrato assunto che le difformità
edilizie riscontrate si pongano in contrasto
con la disciplina urbanistico/edilizia
vigente e, nello specifico, con le norme
tecniche di attuazione di natura
idrogeologica (art. 22) del vigente PRGC
(d’ora in poi semplicemente NTA) e con
l’art. 69 del Regolamento edilizio comunale.
L’analisi non può, quindi, che partire dalla
lettura delle citate disposizioni e dalla
valutazione della reale situazione fattuale
dell’immobile.
Al riguardo, va innanzitutto evidenziato che
il PRGC, sia vigente che adottato, di
Gassino individua il sedime su cui insiste
l’immobile oggetto d’istanza di sanatoria
come ricadente in area ascritta alla classe
IIIb2, rispetto alla quale le NTA, all’art.
22 (e, nel testo adottato, all’art. 1.3.4),
dispongono, per quanto qui rileva, che non
sono consentiti cambi di destinazione d’uso
che implichino un aumento del carico
antropico.
Tale previsione va, peraltro, letta anche
alla luce della descrizione della classe
IIIb riportata nella circolare del
Presidente della Giunta della Regione
Piemonte 08.05.1996, n. 7/LAP e con la
relativa nota tecnica esplicativa pubblicata
dalla Regione Piemonte (pt. 7.2 secondo cui,
nella classe IIIb, in assenza di interventi
di riassetto saranno consentite solo
trasformazioni che non aumentino il carico
antropico, fatte salve le situazioni di
grave pericolo, individuate in ambito di
P.R.G.C. dalle cartografie tematiche o
esplicitate nella cartografia di sintesi
quali sottoclassi specifiche, si ritiene
corretto, a seguito di opportune indagini di
dettaglio, considerare accettabili o di
adeguamenti che consentano una più razionale
fruizione degli edifici esistenti oltreché
gli adeguamenti igienico-funzionali (p.es:
si intende quindi possibile la realizzazione
di ulteriori locali, il recupero di
preesistenti locali inutilizzati, pertinenze
quali box, ricovero attrezzi ecc...,
escludendo viceversa la realizzazione di
nuove unità abitative).
Nel caso di specie si tratta della
trasformazione senza aumento di cubatura di
un ex dimora rurale in una casa trifamiliare
(previa ricostruzione di parti crollate e
aumento di volumetria, principalmente sulle
estremità nord-ovest e sud-est
dell’edificio), pur con lieve aumento del
carico antropico, ma con preminenti finalità
migliorative dell’edificio, in seguito
all’intervento di messa in sicurezza
eseguito dai ricorrenti sull’immobile di
proprietà per consentirne la sicurezza e la
stabilità.
Tale circostanza, di per sé idonea, dal
punto di vista motivazionale, induce a
ritenere insufficiente la motivazione del
diniego gravato, pur relativo ad abusi dei
quali è stata legittimamente invocata la
sanatoria, essendo plausibile quanto dedotto
in ordine alla conformità del preesistente
al ricostruito.
E qualora gli interventi eseguiti possano
ricondursi ad opere di ristrutturazione c.d.
“leggera”, ne dovrebbe riconoscersi la
conformità alle NTA del Comune di Gassino o,
quantomeno, all’art. 10, comma 1, lett. c),
del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui
l’aumento di carico antropico e la cui
realizzazione, in base alle norme
urbanistico-edilizie vigenti nel Comune di
Gassino, è subordinata alla previa
attuazione degli interventi di riassetto
territoriale di cui innanzi s’è detto.
Quanto all’asserita perdurante vigenza
dell’art. 69 del Regolamento edilizio
comunale, il quale vieta la ricostruzione,
in tutto o in parte, di edifici
accidentalmente crollati, qualora ubicati in
classe IIIb2, va rilevato che tale norma
appare superata per incompatibilità con
quelle sopra richiamate.
La ricostruzione a seguito di crollo non è
dissimile, infatti, dalla demolizione e
ricostruzione ammesse nell’ambito della
ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3,
comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001,
sempreché vi siano elementi sufficienti per
provare le dimensioni e le caratteristiche
dell’edificio “da ristrutturare”.
Anche se l’edificio non è in tutto o in
parte fisicamente esistente al momento
dell’intervento richiesto (per effetto del
crollo), non v’è ragione di classificarlo
come nuova costruzione. Un edificio può,
infatti, dirsi esistente non solo quando
“esista un organismo edilizio, seppur non
necessariamente abitato od abitabile,
connotato nei suoi caratteri essenziali,
dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua
(fedele) ricostruzione” (ex multis C.d.S.,
V, 10.02.2004, n. 475), ma anche
quando la sua più recente consistenza,
precedente l’evento sismico o assimilato,
sia apprezzabile compiutamente sulla base di
aerofotogrammetrie e/o immagini satellitari
di sicura veridicità.
Ne deriva che, nel caso di specie, le parti
crollate potevano comunque essere
ricostruite, previa compiuta ed analitica
verifica degli elementi e requisiti ora
ricordati.
Sulla scorta delle considerazioni innanzi
riportate, la Sezione ritiene di poter
concludere per l’accoglimento dell’appello
ed, in riforma della sentenza appellata, per
l’annullamento degli atti impugnati in primo
grado, fatti salvi gli ulteriori
provvedimenti dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.10.2017 n. 4759 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica
Pec ad una Pubblica amministrazione
effettuata ad indirizzo di posta elettronica
non inserito nel registro del Ministero
della giustizia.
---------------
Processo amministrativo – Notifica del
ricorso – A mezzo posta elettronica
certificata – A Pubblica amministrazione –
Ad indirizzo di posta elettronica non
inserito nel registro del Ministero della
giustizia – Esclusione.
Ai fini della
notifica telematica di un atto processuale
ad una Amministrazione pubblica non può
utilizzarsi qualunque indirizzo Pec, ma solo
quello inserito nell'apposito registro
tenuto dal Ministero della giustizia, al
quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli
entro il 30.11.2014 (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar, richiamando
Tar Palermo, sez. III, 13.07.2017, n. 1842,
che il d.m. 16.02.2016, n. 40, recante le
regole operative per l'attuazione del
processo amministrativo telematico, all'art.
14 stabilisce che le notificazioni alle
amministrazioni non costituite in giudizio
sono eseguite agli indirizzi Pec di cui
all'art. 16, comma 12, d.l. 18.10.2012, n.
179.
Il predetto comma 12 (come modificato
da ultimo ad opera del d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito in l. 11.08.2014, n. 114,
onerava le amministrazioni pubbliche di
comunicare entro il 30.11.2014 l'indirizzo
di posta elettronica certificata ai fini
della formazione dell'elenco presso il
Ministero della giustizia.
Il comma 1-bis, aggiunto all'art. 16-ter,
d.l. n. 90 del 2014, estende alla giustizia
amministrativa l'applicabilità del comma 1
dello stesso art. 16-ter, a tenore del quale
ai fini della notificazione si intendono per
pubblici elenchi "quelli previsti dagli
artt. 4 e 16, comma 12, del presente
decreto; dall'art. 16, comma 6, d.l.
29.11.2008, n. 185, convertito, con
modificazioni, dalla l. 28.01.2009, n. 2,
dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n. 82,
nonché il registro generale degli indirizzi
elettronici, gestito dal Ministero della
giustizia".
Non è più espressamente annoverato tra i
pubblici elenchi dai quali estrarre gli
indirizzi Pec da utilizzare per le
notificazioni e comunicazioni degli atti il
registro IPA, disciplinato dall'art. 16,
comma 8, d.l. 29.11.2008, n. 185, secondo
cui tutte le amministrazioni pubbliche
devono istituire una casella di posta
elettronica certificata e darne
comunicazione al Centro Nazionale per
l'informatica nella Pubblica
amministrazione, che così provvedeva alla
pubblicazione di tali caselle in un elenco
consultabile per via telematica.
Tale elenco IPA era stato dapprima
equiparato agli elenchi pubblici dai quali
poter acquisire gli indirizzi Pec validi per
le notifiche telematiche dall'art. 16-ter,
d.l. n. 179 del 2012. Ma quest'ultima
disposizione è stata modificata dall'art.
45-bis, comma 2, lett. a), n. 1), d.l. n. 90
del 2014 nel senso sopra trascritto ed il
registro IPA, che prima era espressamente
contemplato, non è stato più richiamato
dalla norma come novellata, che continua a
richiamare l'art. 16, d.l. n. 185 del 2008,
ma limitatamente al comma 6, che riguarda il
registro delle imprese.
Ha aggiunto il Tar, richiamando
Tar Basilicata 21.09.2017, n. 607,
che è irrilevante che il sito
dell’Amministrazione intimata rechi
l’indicazione del recapito Pec, trattandosi
di circostanza inidonea ad integrare
l’errore scusabile, in quanto le
Amministrazioni pubbliche, in adempimento
alle norme del codice dell’amministrazione
digitale, di cui al d.lgs. 07.03.2005, n.
82, sono tenute a pubblicare nella pagina
iniziale del loro sito un indirizzo di posta
elettronica certificata a cui il cittadino
possa rivolgersi per qualsiasi richiesta, ma
la normativa in proposito nulla prevede in
relazione alla notificazione dei ricorsi
giurisdizionali.
Non è dunque configurabile un'ipotesi di
riconoscimento dell'errore scusabile, atteso
che l’art. 37 c.p.a. riconnette l’errore
scusabile alla "presenza di oggettive
ragioni di incertezza su questioni di
diritto o di gravi impedimenti di fatto,
nella specie non ravvisabili. Del resto, si
tratta di istituto di carattere eccezionale,
che introduce una deroga al principio
cardine della perentorietà dei termini di
impugnativa, sicché la disposizione è di
stretta interpretazione"
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 13.10.2017 n. 2401 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
linea di principio, la concretezza
dell'interesse personale all'acceso ai
documenti amministrativi significa che la
posizione legittimante all'accesso non è
confondibile con quello di altri soggetti o
con l'interesse pubblico né può essere
caratterizzato da un eccessivo grado
d'astrazione, ma deve collegarsi a
situazioni giuridicamente rilevanti, secondo
cui il titolare deve esternare le ragioni
per cui intende accedere e, soprattutto, la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla
cui realizzazione di diritto d'accesso è
preordinato.
---------------
L'onere di specificazione dei documenti per
i quali si esercita il diritto di accesso
non comporta la formale indicazione di tutti
gli estremi identificativi, ma può ritenersi
assolto con l'indicazione dell'oggetto e
dello scopo cui l'atto è indirizzato, così
da mettere l'amministrazione in condizione
di comprendere la portata e il contenuto
della domanda.
---------------
In linea di principio, la concretezza
dell'interesse personale all'acceso ai
documenti amministrativi significa che la
posizione legittimante all'accesso non è
confondibile con quello di altri soggetti o
con l'interesse pubblico né può essere
caratterizzato da un eccessivo grado
d'astrazione, ma deve collegarsi a
situazioni giuridicamente rilevanti, secondo
cui il titolare deve esternare le ragioni
per cui intende accedere e, soprattutto, la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla
cui realizzazione di diritto d'accesso è
preordinato (C.d.S., V, 13.12.1999, n.
2109).
Facendo applicazione di questi principi
occorre considerare come, con la domanda di
accesso in esame, gli interessati abbiano
sufficientemente delineato la propria
posizione differenziata e lo scopo rilevante
dell’accesso, segnatamente indicando la
propria qualità di genitori di minore nato
nella struttura ospedaliera, la ragioni di
tutela giuridica, ancorché in via
transattiva (sulla «strumentalità»
intesa in senso ampio in termini di utilità
per la difesa di un interesse giuridicamente
rilevante anche diverso da quello legato
all’utilizzo giudiziale dei documenti v.
C.d.S., VI, 15.05.2017, n. 2269), dei propri
interessi in relazione a un’ipotesi di
responsabilità medica (evidentemente
collegata all’evento della nascita), con un
legame logico-consequenziale sicuramente
riconoscibile dalla Struttura sanitaria, la
quale ha pure ammesso di aver già consegnato
le cartelle cliniche relative al parto del
bambino.
Quanto, poi, al possibile vulnus alla
privacy di eventuali controinteressati,
occorre considerare come la richiesta di
accesso (per come è stato ribadito in
ricorso) non riguarda affatto i nominativi
dei nati, quanto piuttosto documenti
contenenti dati puramente quantitativi,
racchiusi entro un preciso spettro temporale
e distinti soprattutto per tecnica del
parto.
A tal fine risulta senz’altro accoglibile,
perché strettamente connesso all’interesse
di tutela rappresentato, l’accesso a tali
informazioni documentali in forma anonima
(con apposizione cioè di eventuali omissis),
dovendo essere escluse per la mancanza di un
evidenza in tal senso soltanto la
distinzione di razza e sesso dei minori («quanti
neonati maschi e femmine di colore») e
il dato relativo al giorno 30.12.2007,
successivo alla nascita del minore
interessato.
Allo stesso modo non sussiste la necessità
di un bilanciamento con un controinteresse
relativamente al nominativo dei sanitari
presenti in sala parto, posto che, ai sensi
del combinato dell’art. 22, comma 1, lettera
c), l. n. 241/1990 e dell’art. 60 d.lgs. n.
196/2003 e contrariamente a quanto
considerato dalla resistente, non viene in
rilievo un diritto di costoro alla
riservatezza, non trattandosi di dati idonei
a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale degli interessati.
Quanto, poi, all’eccezione articolata dalla
resistente in ordine al carattere “esplorativo”
dell’istanza di accesso, implicando questa
un’attività di elaborazione
dell’amministrazione in quanto non
esisterebbero documenti contenenti le
informazioni richieste, occorre in primo
luogo chiarire come la giurisprudenza
costantemente affermi che dell'inesistenza
del documento di cui è chiesta l'ostensione
occorre dare conto a mezzo di certificazione
della parte sostanziale (e non del difensore
nelle memorie), evidenziando le ragioni per
cui non è possibile consegnare la copia
conforme all'originale delle cartelle
richieste (ex multis Tar Campania,
Napoli, VI, 24.05.2017, n. 2734, Tar
Sicilia, Catania, I, 28.04.2016, n. 1179),
incombente che, nella specie, non risulta
assolto.
In secondo luogo, è anche opportuno
puntualizzare come «l'onere di
specificazione dei documenti per i quali si
esercita il diritto di accesso non comporta
la formale indicazione di tutti gli estremi
identificativi, ma può ritenersi assolto con
l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui
l'atto è indirizzato, così da mettere
l'amministrazione in condizione di
comprendere la portata e il contenuto della
domanda» (Cd.S., VI, 25.08.2017, n.
4074) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 12.10.2017 n. 10313 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Avendo
l’apposizione del prescritto cartello di
cantiere la funzione di esporre al pubblico
i titoli edilizi rilasciati e i nominativi
dei responsabili dall’attività edilizia in
corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in
sede amministrativa e/o giurisdizionale le
proprie posizioni giuridiche soggettive
eventualmente lese dall’attività edilizia (e
rendere agevolmente individuabili i soggetti
responsabili qualora durante lo svolgimento
delle attività di cantiere derivino danni
nel confronti di terzi), è onere
del vicino eventuale ricorrente di attivarsi
immediatamente e senza indugio presso i
competenti uffici comunali per prendere
visione del progetto.
---------------
A prescindere dal rilievo che la stabile
residenza in un edificio sito a una distanza
di quasi 300 m dal sito della nuova
costruzione –la quale ultima peraltro,
secondo la documentazione fotografica
prodotta dalla stessa ricorrente, è
avvistabile, dall’edificio in cui essa
risiede, limitatamente alla parte di una
falda del tetto– appare di per sé inidonea a
integrare l’elemento materiale della
vicinitas, ritiene il Collegio che la tesi
invocata dagli odierni appellanti muova da
un ormai datato concetto di vicinitas,
basato sul semplice collegamento del
soggetto ricorrente con la zona oggetto di
edificazione, e che, per contro, il mero
criterio della vicinitas non possa ex se
radicare la legittimazione (e l’interesse)
al ricorso, dovendo la parte ricorrente pur
sempre fornire la prova concreta del
pregiudizio specifico inferto dagli atti
impugnati a una propria situazione giuridica
soggettiva (ad. es., sub specie di
deprezzamento del valore di un bene in
proprietà, o di concreta compromissione del
diritto alla salute), non essendo
sufficiente a integrare una situazione
qualificata di legittimazione (e di
interesse) a ricorrere la generica deduzione
di una semplice riduzione del panorama
dovuta all’intervento edilizio (nella
specie, peraltro, comunque da escludere
sulla base delle risultanze della
documentazione fotografica in atti),
radicante un interesse di mero fatto non
azionabile in giudizio.
---------------
3. RITENUTO, in reiezione del motivo
d’appello dedotto avverso la declaratoria di irricevibilità del ricorso n. 65 del 2017,
che:
- alla luce delle acquisite risultanze
istruttorie è rimasto comprovato che il
cantiere, allestito nel mese di maggio 2016,
sin dall’inizio era munito di un cartello di
cantiere, sul quale risultava espressamente
indicato, quale oggetto della costruzione,
la «realizzazione di nuova sede di maso
chiuso», e il quale riportava gli estremi
della concessione edilizia n. 42/2016 del 10.05.2016 (v. doc. 25 del fascicolo di
primo grado dell’originaria ricorrente) che
a sua volta contemplava, quale oggetto del
titolo edilizio, «l’esecuzione dei lavori di
realizzazione di una nuova sede di maso
chiuso (stalla/fienile e casa d’abitazione)
sulle pp.ff. 4516/1 e 4517 C.C. Badia a San
Cassiano»;
- avendo l’apposizione del prescritto
cartello di cantiere la funzione di esporre
al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i
nominativi dei responsabili dall’attività
edilizia in corso, onde consentire a
eventuali controinteressati di far valere in
sede amministrativa e/o giurisdizionale le
proprie posizioni giuridiche soggettive
eventualmente lese dall’attività edilizia (e
rendere agevolmente individuabili i soggetti
responsabili qualora durante lo svolgimento
delle attività di cantiere derivino danni
nel confronti di terzi), era onere
dell’originaria ricorrente di attivarsi
immediatamente e senza indugio presso i
competenti uffici comunali per prendere
visione del progetto, dal quale risultava in
modo chiaro e univoco che sarebbero stati
realizzati sia una nuova casa di abitazione
sia un fabbricato rurale (con la
precisazione, in linea di diritto, che la
richiesta di accesso non è idonea ex se a
differire sensibilmente i termini di
proposizione del ricorso, qualora il vicino, asseritamente pregiudicato dalla
costruzione, attraverso il cartello di
cantiere sia stato reso edotto degli estremi
del titolo edilizio: infatti, se per un
verso deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri
interessi nei confronti di un intervento
edilizio ritenuto illegittimo, per altro
verso deve parimenti essere salvaguardato
l’interesse del titolare del permesso di
costruire a che l’esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non
irragionevolmente o colposamente differito
nel tempo, al fine di evitare la creazione
di una situazione di incertezza delle
situazioni giuridiche in contrasto con il
principio dell’affidamento; v. in tale
senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3191);
- peraltro, la specificazione sul cartello,
quale oggetto della costruzione, della
realizzazione di una «nuova sede del maso»,
rendeva evidente che sarebbero stati
realizzati sia una casa di abitazione sia un
fabbricato rurale (fienile-stalla),
intendendosi, sia nel linguaggio comune sia
nel linguaggio giuridico, per sede del maso
chiuso una casa di abitazione con relativi
annessi rustici (v. art. 2 l. prov. n.
17/2001; art. 20 d.P.G.P. n. 5/1998; nel
regime previgente, art. 2 d.P.G.P. n.
8/1962, di approvazione del testo unico
delle leggi provinciali sull’ordinamento dei
masi chiusi nella Provincia di Bolzano);
- a ciò si aggiunge che, come correttamente
rilevato nell’impugnata sentenza n.
265/2017, la natura dei lavori eseguiti sin
dal mese di maggio 2016 era tale che
chiunque vi poteva inferire, in modo univoco
e secondo massime di comune esperienza, che
i lavori erano vòlti alla costruzione anche
di una casa di abitazione e non solo di un
fabbricato rustico (infatti, l’esecuzione di
uno scavo profondo finalizzato alla
costruzione di garages o altri locali
interrati era di per sé indicativa della
costruzione di una casa di abitazione,
essendo un fabbricato rurale costituito da
stalla e fienile notoriamente privo di vani
interrati);
- come, poi, altrettanto puntualmente
rilevato nell’impugnata sentenza, la notizia
della costruzione di una nuova sede masale
da parte degli originari controinteressati
era stata riportata su tutti i locali mass
media, sia in occasione della presentazione,
in data 28.06.2016, di un ricorso in via
amministrativa ex art. 105 l. urb. prov. da
parte di altri vicini, sia in occasione
della proposizione, a fine novembre 2016,
del ricorso giudiziario n. 307 del 2016 da
parte di Cr.Yl.;
- alla luce degli evidenziati elementi
probatori precisi, plurimi e concordanti,
nonché tenuto conto della natura delle
censure dedotte dall’originaria ricorrente –incentrate sull’asserita inammissibilità
ab
imis del rilascio di una concessione
edilizia per la realizzazione di una casa di
abitazione sul fondo in questione e dunque
vòlte a contestare l’an e non solo il
quomodo di siffatta costruzione–, deve
ritenersi incontrovertibilmente comprovato
che l’originaria ricorrente sin dal mese di
maggio 2016 fosse stata a piena conoscenza
dell’intervento progettato e in grado di
valutarne l’eventuale incidenza lesiva sulla
propria sfera giuridica, mentre il ricorso
introduttivo di primo grado è stato
notificato il 03.04.2017, e dunque
ampiamente oltre il termine di decadenza di
cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm.,
maturato a fine luglio 2016;
4. RITENUTA, altresì, l’infondatezza del
motivo d’appello proposto avverso la
statuizione di inammissibilità del ricorso
n. 307 del 2016 per carenza di
legittimazione e d’interesse in capo
all’originaria ricorrente Cr.Yl.,
in quanto:
- la stessa adduce a situazione legittimante
la circostanza di risiedere stabilmente in
un edificio (sito a San Cassiano nel Comune
di Badia, via ... n. 17, come da
certificato di residenza storico e
auto-dichiarazione asseverata, in atti), a
distanza di quasi 300 m dalla nuova
costruzione (precisamente, di 283 m, giusta
planimetria prodotta sub doc. 24 del
fascicolo di primo grado), in posizione
dominante –su un pendio sovrastante–
rispetto al luogo di ubicazione della nuova
costruzione (v. documentazione fotografica
in atti), asseritamente integrante il
requisito della vicinitas che radicherebbe
la propria legittimazione e il proprio
interesse a ricorrere;
- a prescindere dal rilievo che la stabile
residenza in un edificio sito a una distanza
di quasi 300 m dal sito della nuova
costruzione –la quale ultima peraltro,
secondo la documentazione fotografica
prodotta dalla stessa ricorrente, è
avvistabile, dall’edificio in cui essa
risiede, limitatamente alla parte di una
falda del tetto– appare di per sé inidonea
a integrare l’elemento materiale della vicinitas, ritiene il Collegio che la tesi
invocata dagli odierni appellanti muova da
un ormai datato concetto di vicinitas,
basato sul semplice collegamento del
soggetto ricorrente con la zona oggetto di
edificazione, e che, per contro, il mero
criterio della vicinitas non possa ex se
radicare la legittimazione (e l’interesse)
al ricorso, dovendo la parte ricorrente pur
sempre fornire la prova concreta del
pregiudizio specifico inferto dagli atti
impugnati a una propria situazione giuridica
soggettiva (ad. es., sub specie di
deprezzamento del valore di un bene in
proprietà, o di concreta compromissione del
diritto alla salute), non essendo
sufficiente a integrare una situazione
qualificata di legittimazione (e di
interesse) a ricorrere la generica deduzione
di una semplice riduzione del panorama
dovuta all’intervento edilizio (nella
specie, peraltro, comunque da escludere
sulla base delle risultanze della
documentazione fotografica in atti),
radicante un interesse di mero fatto non
azionabile in giudizio (v. in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV,
02.02.2016, n. 383, con ulteriori richiami);
- il ricorso di primo grado appare dunque
riconducibile più che all’esercizio di
un’azione a tutela di una posizione
giuridica soggettiva differenziata facente
capo all’originaria ricorrente e sorretta da
un interesse concreto, attuale e personale,
a un’azione di tipo popolare a tutela del
paesaggio e dell’assetto
urbanistico-edilizio della frazione comunale
(San Cassiano nel Comune di Badia) di
residenza della ricorrente, come tale
inammissibile, con conseguente corretta
pronuncia di inammissibilità non scalfita,
per le esposte ragioni, in modo dirimente
dal motivo d’appello in esame (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.10.2017 n. 4830 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
destinazione di un fondo a zona "E agricola"
è di ostacolo a qualsivoglia tipologia di
costruzioni, atteso che la finalità e la
ratio della previsione di una zona agricola
riposa nella salvaguardia del consumo del
territorio e della destinazione di un sito
agli scopi tipici dell’agricoltura ed
interdice, quindi, anche la realizzazione di
una costruzione adibita ad edilizia
commerciale o industriale.
Giova al riguardo segnalare che recente
giurisprudenza d’appello ha sancito che “Le
normative comunali, che ammettono una
limitata possibilità di realizzare in zona
agricola interventi edilizi, devono essere
interpretate nel senso che si deve comunque
assicurare tutela al territorio agricolo e
alla sua concreta utilizzazione a fini
alimentari, dovendo al contrario ritenersi
del tutto inconciliabili con le finalità di
una zona agricola la realizzazione di
strutture che ne pregiudichino
definitivamente la destinazione naturale del
territorio e comportano la sua
deruralizzazione”.
Su tali condivisibili premesse il Consiglio
ha enunciato il principio, calzante nel caso
all’esame, secondo cui “La realizzazione del
piazzale–deposito altera lo stato dei luoghi
e costituisce intervento di permanente
trasformazione edilizia ed urbanistica del
territorio disciplinato dall’art. 3 d.P.R.
n. 380 del 2001 che, subordinato al permesso
di costruire, deve necessariamente
rispettare le tipologie e le destinazioni
d’uso funzionali consentite per la zona
agricola”.
Anche l’orientamento del Tribunale muove
negli stessi sensi, avendo addirittura
escluso la compatibilità con una zona
agricola di un parcheggio scoperto,
statuendo che “La realizzazione del
piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi
e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al
permesso di costruire, deve necessariamente
rispettare le tipologie e le destinazioni
d'uso funzionali consentite per la zona
agricola”.
Il giudice amministrativo relativamente al
semplice deposito di materiale ferroso in
area a destinazione agricola aveva già
affermato che “È legittimo il diniego del
permesso di costruire relativo ad un
deposito a cielo aperto di materiale ferroso
e non ferroso in zona agricola, nell’ipotesi
in cui tale tipologia di costruzione non
rientri tra quelle nominativamente previste
dalle norme tecniche di attuazione del piano
di fabbricazione".
-----------------
Di recente la Sezione ha sottoposto a
meditata revisione l’’orientamento
giurisprudenziale secondo cui la
destinazione di un’area a zona agricola non
preclude usi della stessa per finalità
diverse dall’edilizia residenziale,
osservando che “4.3. Il sempre più crescente
fenomeno di incremento delle attività
industriali, commerciali e, in genere, del
settore terziario con la consequenziale
relativa attività edificatoria, produce e
concorre a causare sempre più, consumo del
suolo, erosione del tessuto e del patrimonio
naturale, della terra intesa come primigenia
risorsa dell’uomo, complesso di valori e
beni immateriali che possono essere
riassunti nella vivibilità ed amenità del
territorio e che vanno preservati dalla
cementificazione sempre più diffusa che non
a caso le norme sul recupero e
l’incentivazione del patrimonio edilizio
esistente mirano ad arginare. Ma la
delineata salvaguardia dei cennati valori e
beni immateriali non deve porre in ombra
anche la considerazione, di rilievo
materiale, del territorio a destinazione
agricola come sede di esercizio
dell’attività agricola e sorgente delle
risorse alimentari che ne sono il portato, e
l’esigenza di salvaguardarlo.”
Si è quindi concluso che “4.4. Orbene, la
consumazione in generale del territorio che
l’edificazione, ancorché a scopo non
residenziale, concorre a determinare, si
pone, a parere del Collegio in palese
contrasto con la ratio insita nella
destinazione di una parte del territorio a
zona agricola e relativa classificazione
negli strumenti urbanistici, risolvendosi in
ultima analisi in una frustrazione di tale
ratio, che va individuata nella salvaguardia
delle potenzialità immateriali e materiali
intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è
fatto cenno poc’anzi. E’ di immediata
evidenza, invero, come la stessa definizione
insita nella destinazione di un’area a “zona
agricola”, non può non indurre a ritenere
incompatibili con tale destinazione, usi
della zona stessa radicalmente antitetici,
quali quello edificatorio ancorché per
finalità non residenziali”.
---------------
3. Con il secondo mezzo il ricorrente
contesta l’assunto motivo espresso nel
provvedimento gravato, secondo il quale la
classificazione della zona ove ricade
l’intervento come “E agricola” è
ostativa alla realizzazione di nuovi volumi
edilizi in ampliamento ai preesistenti.
Per il deducente la classificazione di
un’area come agricola osta unicamente alla
costruzione di nuove costruzioni adibite ad
edilizia residenziale ma non inibisce la
realizzazione di immobili adibiti ad usi
diversi dall’abitazione invocandosi in
particolare Cons. Stato, Sez. VI, n.
5886/2014.
3.1. Deve il Collegio dissentire da tale
prospettazione poiché la destinazione di un
fondo a zona "E agricola" è di
ostacolo a qualsivoglia tipologia di
costruzioni, atteso che la finalità e la
ratio della previsione di una zona
agricola riposa nella salvaguardia del
consumo del territorio e della destinazione
di un sito agli scopi tipici
dell’agricoltura ed interdice, quindi, anche
la realizzazione di una costruzione adibita
ad edilizia commerciale o industriale.
Giova al riguardo segnalare che recente
giurisprudenza d’appello ha sancito che “Le
normative comunali, che ammettono una
limitata possibilità di realizzare in zona
agricola interventi edilizi, devono essere
interpretate nel senso che si deve comunque
assicurare tutela al territorio agricolo e
alla sua concreta utilizzazione a fini
alimentari, dovendo al contrario ritenersi
del tutto inconciliabili con le finalità di
una zona agricola la realizzazione di
strutture che ne pregiudichino
definitivamente la destinazione naturale del
territorio e comportano la sua
deruralizzazione” (Consiglio di Stato,
Sez. IV, 10.03.2014, n. 1099).
Su tali condivisibili premesse il Consiglio
ha enunciato il principio, calzante nel caso
all’esame, secondo cui “La realizzazione
del piazzale–deposito altera lo stato dei
luoghi e costituisce intervento di
permanente trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio disciplinato
dall’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che,
subordinato al permesso di costruire, deve
necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d’uso funzionali consentite per
la zona agricola”.
Anche l’orientamento del Tribunale muove
negli stessi sensi, avendo addirittura
escluso la compatibilità con una zona
agricola di un parcheggio scoperto,
statuendo che “La realizzazione del
piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi
e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al
permesso di costruire, deve necessariamente
rispettare le tipologie e le destinazioni
d'uso funzionali consentite per la zona
agricola” (TAR Campania–Napoli, Sez.
VIII, 10/03/2016, n. 1397).
Il giudice amministrativo relativamente al
semplice deposito di materiale ferroso in
area a destinazione agricola aveva già
affermato che “È legittimo il diniego del
permesso di costruire relativo ad un
deposito a cielo aperto di materiale ferroso
e non ferroso in zona agricola, nell’ipotesi
in cui tale tipologia di costruzione non
rientri tra quelle nominativamente previste
dalle norme tecniche di attuazione del piano
di fabbricazione" (TAR Puglia-Bari, Sez.
III, 20.05.2008 n. 1197).
Segnala il Collegio che di recente la
Sezione ha sottoposto a meditata revisione
l’’orientamento giurisprudenziale secondo
cui la destinazione di un’area a zona
agricola non preclude usi della stessa per
finalità diverse dall’edilizia residenziale,
osservando che “4.3. Il sempre più
crescente fenomeno di incremento delle
attività industriali, commerciali e, in
genere, del settore terziario con la
consequenziale relativa attività
edificatoria, produce e concorre a causare
sempre più, consumo del suolo, erosione del
tessuto e del patrimonio naturale, della
terra intesa come primigenia risorsa
dell’uomo, complesso di valori e beni
immateriali che possono essere riassunti
nella vivibilità ed amenità del territorio e
che vanno preservati dalla cementificazione
sempre più diffusa che non a caso le norme
sul recupero e l’incentivazione del
patrimonio edilizio esistente mirano ad
arginare. Ma la delineata salvaguardia dei
cennati valori e beni immateriali non deve
porre in ombra anche la considerazione, di
rilievo materiale, del territorio a
destinazione agricola come sede di esercizio
dell’attività agricola e sorgente delle
risorse alimentari che ne sono il portato, e
l’esigenza di salvaguardarlo.”
Si è quindi concluso che “4.4. Orbene, la
consumazione in generale del territorio che
l’edificazione, ancorché a scopo non
residenziale, concorre a determinare, si
pone, a parere del Collegio in palese
contrasto con la ratio insita nella
destinazione di una parte del territorio a
zona agricola e relativa classificazione
negli strumenti urbanistici, risolvendosi in
ultima analisi in una frustrazione di tale
ratio, che va individuata nella salvaguardia
delle potenzialità immateriali e materiali
intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è
fatto cenno poc’anzi. E’ di immediata
evidenza, invero, come la stessa definizione
insita nella destinazione di un’area a “zona
agricola”, non può non indurre a ritenere
incompatibili con tale destinazione, usi
della zona stessa radicalmente antitetici,
quali quello edificatorio ancorché per
finalità non residenziali” (TAR
Campania-Napoli, Sez. III, 24.10.2016, n.
4869).
La Sezione ha più di recente confermato il
riferito indirizzo: TAR Campania–Napoli,
Sez. III, 01.12.2016 n. 5555
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.10.2017 n. 4770 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
La
giurisprudenza, in ipotesi di provvedimenti
vincolati, nega che l'omissione del
preavviso di diniego abbia attitudine
invalidante il provvedimento finale, in
forza della previsione di cui all’art.
21-octies della L. n. 241 del 1990.
Si è invero puntualizzato che “la prevalente
giurisprudenza infatti, nell'ottica di
un'interpretazione non inutilmente
formalistica delle garanzie partecipative,
bene ha chiarito che “la violazione dell'
art. 10-bis della L. n. 241 del 1990, non
produce ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendo la
disposizione sul preavviso di rigetto essere
interpretata comunque -secondo l'indirizzo
giurisprudenziale maggioritario- alla luce
del successivo art. 21-octies, comma 2, il
quale impone al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di
non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo”.
---------------
6. Con il
quinto ed ultimo mezzo il deducente
lamenta che l’amministrazione non abbia
tenuto conto delle osservazioni da lui
prodotte in sede procedimentale ai sensi
dell’art. 10–bis della L. n. 241 del 1990
non essendo stata presa alcuna posizione in
controdeduzione alle stesse.
6.1. Anche tale ultima doglianza ad avviso
del Collegio è infondata, stante la natura
vincolata del provvedimento di diniego
impugnato, che rende inutile la
partecipazione procedimentale e induce a
ritenere che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato malgrado le prodotte
osservazioni.
La giurisprudenza, invero, in ipotesi di
provvedimenti vincolati, nega che la stessa
radicale omissione del preavviso di diniego
di cui all’invocata norma abbia attitudine
invalidante il provvedimento finale, in
forza della previsione di cui all’art.
21-octies della L. n. 241 del 1990.
Si è invero puntualizzato che “la
prevalente giurisprudenza infatti,
nell'ottica di un'interpretazione non
inutilmente formalistica delle garanzie
partecipative, bene ha chiarito che “la
violazione dell' art. 10-bis della L. n. 241
del 1990, non produce ex se l'illegittimità
del provvedimento finale, dovendo la
disposizione sul preavviso di rigetto essere
interpretata comunque -secondo l'indirizzo
giurisprudenziale maggioritario- alla luce
del successivo art. 21-octies, comma 2, il
quale impone al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di
non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo” (C.G.A.R.S.
16.04.2013, n. 409; cfr. anche Cons. Stato,
VI, 02.02.2012, n. 585)” (Consiglio di
Stato – Sez. VI, 07.05.2015, n. 2298)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.10.2017 n. 4770 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento con cui l'Amministrazione
accerta che l’intervento non poteva essere
realizzato mediante SCIA/DIA, occorrendo il
permesso di costruire -preceduto
dall’autorizzazione paesaggistica- non è
espressione di autotutela, ma ha valore
meramente accertativo di un abuso
doverosamente rilevabile e reprimibile
senza, peraltro, il limite di dover agire
entro un termine ragionevole, chiaramente
inapplicabile all'attività di vigilanza
edilizia, tanto più che il dichiarante non
può, per le ragioni anzidette, vantare un
affidamento.
In proposito l’art. 19, co. 6-bis, della
legge n. 241 del 1990 dispone espressamente
che “restano altresì ferme le disposizioni
relative alla vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e
alle sanzioni previste dal decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380".
---------------
E' stato chiarito che il mutamento di
destinazione d'uso, anche senza opere
edilizie, non costituisce un intervento
neutro sul piano edilizio e urbanistico, in
quanto incide in maniera determinante sul
carico urbanistico della zona.
Pertanto il cambio di destinazione
comportante un passaggio di categoria
urbanistica richiede il rilascio di un
permesso di costruire.
Infatti l’art. 2 della legge regionale n. 19
del 2001 prevede che “il mutamento di
destinazione d'uso, … con passaggio di
categoria edilizia, purché tale passaggio
sia consentito dalla norma regionale, è
soggetto a permesso di costruire”.
---------------
Secondo condivisibile giurisprudenza di
questo stesso TAR, "all'esito delle
modifiche alla l. n. 241 del 1990 apportate
dalla l. n. 124 del 2015 (c.d. riforma
Madia), l'art. 19, comma 3, conferma il
potere dell'Amministrazione di inibire
motivatamente l'attività intrapresa con SCIA
e rimuoverne gli effetti dannosi in caso di
accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 1 del medesimo
articolo, entro il termine di sessanta
giorni (o trenta in materia edilizia) dalla
presentazione”, ritenendo inoltre che,
“nella nuova disciplina scompare il
riferimento alla “autotutela”, e i poteri di
intervento dell'Amministrazione, decorsi i
trenta o sessanta giorni previsti dalla
legge per l'inibitoria “ordinaria”,
transitano nel comma 4, subendo un
ampliamento del raggio di azione, che non è
più limitato al pericolo di un danno per i
cd. interessi sensibili, ma potendo essere
esercitati solo “in presenza delle
condizioni previste dall'articolo
21-nonies”.
L'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990
-riscritto dalla l. n. 124 del 2015, e
applicabile alla SCIA in forza del succitato
richiamo di cui all'art. 19, comma 4-
dispone per i provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici che entro un termine “non
superiore a diciotto mesi” non è più
consentito l'annullamento d'ufficio; detto
termine, in forza del neo introdotto comma
2-bis del medesimo articolo, può essere
derogato solo per “i provvedimenti
amministrativi conseguiti sulla base di
false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione
e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in
giudicato”.
---------------
2.3.- Infondato è anche il terzo motivo
di ricorso.
2.3.1.- L'errore sui requisiti soggettivi o
oggettivi della SCIA/DIA, poiché frutto di
una dichiarazione unilaterale, non può
comportare in favore del soggetto che la
rende un affidamento vincolante per la parte
pubblica che si limita a riceverla, per il
solo fatto che quest'ultima non avrebbe
esercitato i conseguenti poteri correttivi o
inibitori, potendo tale omissione comportare
un'eventuale responsabilità amministrativa,
non già la sanatoria della SCIA/DIA mancante
di un requisito essenziale.
2.3.2.- Orbene, nel caso di specie, il
provvedimento con cui l'Amministrazione
accerta che l’intervento non poteva essere
realizzato mediante SCIA/DIA, occorrendo il
permesso di costruire -preceduto
dall’autorizzazione paesaggistica (nella
specie necessaria perché il comune ha
rilevato un aumento volumetrico posto che,
come sopra accennato, una porzione
dell’immobile risulta avere sconfinato sulla
particella 1117 senza che vi fosse alcun
idoneo titolo edilizio che lo consentisse)-
non è espressione di autotutela, ma ha
valore meramente accertativo di un abuso
doverosamente rilevabile e reprimibile
senza, peraltro, il limite di dover agire
entro un termine ragionevole, chiaramente
inapplicabile all'attività di vigilanza
edilizia, tanto più che il dichiarante non
può, per le ragioni anzidette, vantare un
affidamento (TAR Puglia, Bari, sez. II,
20.02.2017, n. 147).
In proposito l’art. 19, co. 6-bis, della
legge n. 241 del 1990 dispone espressamente
che “restano altresì ferme le
disposizioni relative alla vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia, alle
responsabilità e alle sanzioni previste dal
decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380".
Orbene, è stato chiarito che il mutamento di
destinazione d'uso, anche senza opere
edilizie, non costituisce un intervento
neutro sul piano edilizio e urbanistico, in
quanto incide in maniera determinante sul
carico urbanistico della zona (cfr. TAR
Campania, sez. VIII, 19/01/2016, n. 246).
Pertanto il cambio di destinazione
comportante un passaggio di categoria
urbanistica richiede il rilascio di un
permesso di costruire (cfr. TAR Campania,
sez. III, 22/06/2016, n. 3206; da ultimo
Cons. St., sez. VI, 06/04/2017, n. 2295).
Infatti l’art. 2 della legge regionale n. 19
del 2001 prevede che “il mutamento di
destinazione d'uso, … con passaggio di
categoria edilizia, purché tale passaggio
sia consentito dalla norma regionale, è
soggetto a permesso di costruire”.
2.3.3.- Secondo condivisibile giurisprudenza
di questo stesso TAR, (Sez. IV, 05.04.2016
n. 1658) “all'esito delle modifiche alla
l. n. 241 del 1990 apportate dalla l. n. 124
del 2015 (c.d. riforma Madia), l'art. 19,
comma 3, conferma il potere
dell'Amministrazione di inibire
motivatamente l'attività intrapresa con SCIA
e rimuoverne gli effetti dannosi in caso di
accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 1 del medesimo
articolo, entro il termine di sessanta
giorni (o trenta in materia edilizia) dalla
presentazione”, ritenendo inoltre che, “nella
nuova disciplina scompare il riferimento
alla “autotutela”, e i poteri di
intervento dell'Amministrazione, decorsi i
trenta o sessanta giorni previsti dalla
legge per l'inibitoria “ordinaria”,
transitano nel comma 4, subendo un
ampliamento del raggio di azione, che non è
più limitato al pericolo di un danno per i
cd. interessi sensibili, ma potendo essere
esercitati solo “in presenza delle
condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
2.3.4.- L'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990
-riscritto dalla l. n. 124 del 2015, e
applicabile alla SCIA in forza del succitato
richiamo di cui all'art. 19, comma 4-
dispone per i provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici che entro un termine “non
superiore a diciotto mesi” non è più
consentito l'annullamento d'ufficio; detto
termine, in forza del neo introdotto comma
2-bis del medesimo articolo, può essere
derogato solo per “i provvedimenti
amministrativi conseguiti sulla base di
false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione
e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato”
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.10.2017 n. 4769 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso non costituisce una
pretesa meramente strumentale alla difesa in
giudizio della situazione sottostante,
essendo in realtà diretto al conseguimento
di un autonomo bene della vita così che la
domanda tesa ad ottenere l’accesso ai
documenti è indipendente non solo dalla
sorte del processo principale nel quale
venga fatta valere l’anzidetta situazione ma
anche dall’eventuale infondatezza o
inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente potrebbe proporre una volta
conosciuti gli atti.
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2,
della legge n. 241 del 1990 [come novellato
dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10
della legge 18.06.2009, n. 69] conferisce al
“diritto” di accesso, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse,
valore di “principio generale dell’attività
amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne
l’imparzialità e la trasparenza”.
In altre parole, è da ritenere oramai
indiscusso che, ai fini dell’accesso agli
atti, il soggetto richiedente deve poter
vantare un interesse che, oltre ad essere
serio e non emulativo, rivesta carattere
“personale e concreto”, ossia “ricollegabile
alla persona dell’istante da uno specifico
rapporto. In sostanza, occorre che il
richiedente intenda poter supportare una
situazione di cui è titolare, che
l’ordinamento stima di sua meritevole
tutela”, con la conseguenza che “non è
sufficiente addurre il generico e indistinto
interesse di qualsiasi cittadino alla
legalità o al buon andamento dell’attività
amministrativa”, bensì è necessario che il
richiedente dimostri che, in virtù del
proficuo esercizio del diritto di accesso
agli atti e/o documenti amministrativi,
verrà inequivocabilmente a trovarsi
“titolare” di “poteri di natura
procedimentale, volti in senso strumentale
alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a
collidere o comunque a intersecarsi con
l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalichino la dimensione processuale di
diritti soggettivi o interessi legittimi, la
cui azionabilità diretta prescinde dal
preventivo esercizio del diritto di accesso,
così come l’esercizio del secondo prescinde
dalla prima”.
---------------
Il ricorso è fondato
e va, pertanto, accolto in parte con le
precisazioni di seguito meglio esplicitate.
Giova, infatti, ricordare che con riguardo
al diritto a conoscere i documenti
individuati con l’istanza prodotta, l’art.
22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del
1990 richiede la titolarità di “un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”; il successivo comma terzo
stabilisce che “tutti i documenti
amministrativi sono accessibili ad eccezione
di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5
e 6”; il successivo art. 24, al comma 7,
precisa che “deve comunque essere garantito
ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è
stato osservato che “il diritto di accesso
non costituisce una pretesa meramente
strumentale alla difesa in giudizio della
situazione sottostante, essendo in realtà
diretto al conseguimento di un autonomo bene
della vita così che la domanda tesa ad
ottenere l’accesso ai documenti è
indipendente non solo dalla sorte del
processo principale nel quale venga fatta
valere l’anzidetta situazione (Cons. Stato,
sez. VI, 12.04.2005 n. 1680) ma anche
dall’eventuale infondatezza o
inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente potrebbe proporre una volta
conosciuti gli atti” (Cons. Stato, sez. VI,
21.09.2006 n. 5569, sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2,
della legge n. 241 del 1990 [come novellato
dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10
della legge 18.06.2009, n. 69]
conferisce al “diritto” di accesso, attese
le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, valore di “principio generale
dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne
l’imparzialità e la trasparenza”.
In altre parole, è da ritenere oramai
indiscusso che, ai fini dell’accesso agli
atti, il soggetto richiedente deve poter
vantare un interesse che, oltre ad essere
serio e non emulativo, rivesta carattere
“personale e concreto”, ossia “ricollegabile
alla persona dell’istante da uno specifico
rapporto. In sostanza, occorre che il
richiedente intenda poter supportare una
situazione di cui è titolare, che
l’ordinamento stima di sua meritevole
tutela”, con la conseguenza che “non è
sufficiente addurre il generico e indistinto
interesse di qualsiasi cittadino alla
legalità o al buon andamento dell’attività
amministrativa” (cfr. Cons. Stato, n. 5111
del 2015, già cit.), bensì è necessario che
il richiedente dimostri che, in virtù del
proficuo esercizio del diritto di accesso
agli atti e/o documenti amministrativi,
verrà inequivocabilmente a trovarsi
“titolare” di “poteri di natura
procedimentale, volti in senso strumentale
alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a
collidere o comunque a intersecarsi con
l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalichino la dimensione processuale di
diritti soggettivi o interessi legittimi, la
cui azionabilità diretta prescinde dal
preventivo esercizio del diritto di accesso,
così come l’esercizio del secondo prescinde
dalla prima” (cfr., ex multis, TAR Lazio,
Sez. II-bis, n. 3941/2016; in conformità,
TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 28.01.2016, n. 521; TAR Lazio, Sez. II, 11.01.2016, n. 232; TAR Lazio, Sez. II-bis, n.
4909/2015)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.10.2017 n. 4767 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce acquisizione pacifica
che, in materia di pubblici concorsi, le
domande ed i documenti prodotti dai
candidati, i verbali, le schede di
valutazione e gli stessi elaborati di un
concorso pubblico costituiscono documenti
rispetto ai quali deve essere esclusa in
radice l’esigenza di riservatezza a tutela
dei terzi, posto che i concorrenti,
prendendo parte alla selezione, hanno
evidentemente acconsentito a misurarsi in
una competizione di cui la comparazione dei
valori di ciascuno costituisce l’essenza
della valutazione.
Tali atti, quindi, una
volta acquisiti alla procedura, escono dalla
sfera personale dei partecipanti che,
peraltro, non assumono neppure la veste di controinteressati in senso tecnico nel
giudizio proposto ex art. 25 della legge n.
241 del 1990.
Di talché l’omessa
integrale intimazione in giudizio dei
concorrenti cui si riferiscono gli atti
fatti oggetto della richiesta ostensiva non
arreca loro alcun significativo pregiudizio
non potendo gli stessi, in ragione di quanto
detto, opporsi all’ostensione dei documenti
richiesti.
---------------
Nel caso
in esame l’istanza di accesso è supportata
da un interesse differenziato, qualificato
ed attuale.
L’istante quale partecipante alla
procedura comparativa in esame ha titolo ad
accedere ai documenti della procedura
medesima, senza bisogno, cioè, che la
lesione si faccia concreta e con essa
l'interesse all'impugnazione diventi
attuale, in quanto egli è comunque titolare
di un interesse autonomo alla conoscenza dei
predetti atti. Il diritto di accesso non è
meramente strumentale alla proposizione di
un'azione giudiziale, ma assume un carattere
autonomo rispetto ad essa.
Ciò significa che il rimedio speciale
previsto a tutela del diritto di accesso
deve ritenersi consentito anche se
l'interessato non può più agire, o non possa
ancora agire, in sede giurisdizionale, in
quanto l'autonomia della domanda di accesso
comporta che il giudice, chiamato a decidere
su tale domanda, deve verificare solo i
presupposti legittimanti la richiesta di
accesso e non anche la possibilità di
utilizzare gli atti richiesti in un
giudizio.
L’istanza di accesso in esame risulta
motivata da parte ricorrente con l’intento
di verificare la corretta attribuzione dei
punteggi ai candidati inserti in
graduatoria.
---------------
Il ricorso resta inammissibile nella parte
in cui la domanda di accesso riguardi ogni
documento idoneo a rivelare dati super
sensibili non ostensibili in assenza di
contraddittorio con i potenziali
controinteressati.
Ed invero, ai sensi dell’articolo 24, comma
7, i dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale possono essere
divulgati “nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall'articolo 60 del decreto
legislativo 30.06.2003, n. 196”, vale a dire
mediante un vaglio dell’autorità
amministrativa chiamata a valutare “se la
situazione giuridicamente rilevante che si
intende tutelare con la richiesta di accesso
ai documenti amministrativi è di rango
almeno pari ai diritti dell'interessato,
ovvero consiste in un diritto della
personalità o in un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile”.
In buona sostanza, per tali dati –al
contrario di quelli ordinari e/o
“semplicemente” sensibili- deve
riconoscersi, in capo ai soggetti che ne
sono titolari, un controinteresse
procedimentale e processuale alla loro
divulgazione, anche in ambito concorsuale,
fermo restando che occorre in questo caso
una specifica richiesta alla PA di
pronunciarsi discrezionalmente sulla
delineata ponderazione delle posizioni in
gioco.
Pertanto, la mancata notifica a tali
controinteressati impedisce comunque al
collegio di estendere il richiesto accesso
ai dati cd. supersensibili, determinando sul
punto una parziale inammissibilità del
gravame.
---------------
Tanto premesso, va riconosciuta
in capo al ricorrente, quale docente che
aveva presentato domanda di partecipazione
al concorso di che trattasi, la sussistenza
di una posizione di interesse legittimante
la richiesta ostensione documentale, in
ragione della dichiarata necessità di poter
conoscere la propria posizione nella
graduatoria stilata dall’amministrazione e
verificare la corretta formazione della
graduatoria medesima.
La mancata notifica ai soggetti partecipanti
alla procedura concorsuale coinvolti nella
richiesta di accesso non formalizza –ad
avviso del Collegio- alcun deficit di
contraddittorio per l’acquisizione di
notizie diverse rispetto a dati cd.
supersensibili inerenti (per quel che qui
interessa) alla salute.
Costituisce, infatti, acquisizione pacifica
che, in materia di pubblici concorsi, le
domande ed i documenti prodotti dai
candidati, i verbali, le schede di
valutazione e gli stessi elaborati di un
concorso pubblico costituiscono documenti
rispetto ai quali deve essere esclusa in
radice l’esigenza di riservatezza a tutela
dei terzi, posto che i concorrenti,
prendendo parte alla selezione, hanno
evidentemente acconsentito a misurarsi in
una competizione di cui la comparazione dei
valori di ciascuno costituisce l’essenza
della valutazione. Tali atti, quindi, una
volta acquisiti alla procedura, escono dalla
sfera personale dei partecipanti che,
peraltro, non assumono neppure la veste di
controinteressati in senso tecnico nel
giudizio proposto ex art. 25 della legge n.
241 del 1990 (cfr. Tar Lazio, Sez. III,
08.07.2008 n. 6450); di talché l’omessa
integrale intimazione in giudizio dei
concorrenti cui si riferiscono gli atti
fatti oggetto della richiesta ostensiva non
arreca loro alcun significativo pregiudizio
non potendo gli stessi, in ragione di quanto
detto, opporsi all’ostensione dei documenti
richiesti.
Tanto premesso è da rilevare che nel caso in
esame l’istanza di accesso è supportata da
un interesse differenziato, qualificato ed
attuale.
L’istante quale partecipante alla
procedura comparativa in esame ha titolo ad
accedere ai documenti della procedura
medesima, senza bisogno, cioè, che la
lesione si faccia concreta e con essa
l'interesse all'impugnazione diventi
attuale, in quanto egli è comunque titolare
di un interesse autonomo alla conoscenza dei
predetti atti. Il diritto di accesso non è
meramente strumentale alla proposizione di
un'azione giudiziale, ma assume un carattere
autonomo rispetto ad essa.
Ciò significa che
il rimedio speciale previsto a tutela del
diritto di accesso deve ritenersi consentito
anche se l'interessato non può più agire, o
non possa ancora agire, in sede
giurisdizionale, in quanto l'autonomia della
domanda di accesso comporta che il giudice,
chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti
la richiesta di accesso e non anche la
possibilità di utilizzare gli atti richiesti
in un giudizio (C.d.S., sez. VI, 21.05.2009, n. 3147).
L’istanza di accesso in esame risulta
motivata da parte ricorrente con l’intento
di verificare la corretta attribuzione dei
punteggi ai candidati inserti in
graduatoria.
Peraltro si è già in precedenza anticipato
che, seppur rispetto a tali atti non sono
ravvisabili posizioni di controinteresse in
senso sostanziale nei termini sopra
chiariti, il ricorso resta inammissibile
nella parte in cui la domanda di accesso
riguardi ogni documento idoneo a rivelare
dati super sensibili non ostensibili in
assenza di contraddittorio con i potenziali
controinteressati.
Ed invero, ai sensi
dell’articolo 24, comma 7, i dati idonei a
rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale possono essere divulgati “nei
limiti in cui sia strettamente
indispensabile e nei termini previsti
dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, vale a dire mediante
un vaglio dell’autorità amministrativa
chiamata a valutare “se la situazione
giuridicamente rilevante che si intende
tutelare con la richiesta di accesso ai
documenti amministrativi è di rango almeno
pari ai diritti dell'interessato, ovvero
consiste in un diritto della personalità o
in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile”.
In buona sostanza, per tali dati –al
contrario di quelli ordinari e/o
“semplicemente” sensibili- deve
riconoscersi, in capo ai soggetti che ne
sono titolari, un controinteresse
procedimentale e processuale alla loro
divulgazione, anche in ambito concorsuale,
fermo restando che occorre in questo caso
una specifica richiesta alla PA di
pronunciarsi discrezionalmente sulla
delineata ponderazione delle posizioni in
gioco.
Pertanto, la mancata notifica a tali
controinteressati impedisce comunque al
collegio di estendere il richiesto accesso
ai dati cd. supersensibili, determinando sul
punto una parziale inammissibilità del
gravame.
In conclusione il ricorso deve essere
accolto nei limiti sopra esposti, ricorrendo
giusti motivi per compensare tra le parti le
spese di giudizio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.10.2017 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Autovelox dinamici segnalati. Una
sentenza del tribunale di Belluno.
L'autovelox deve essere segnalato bene anche
se i controlli vengono effettuati dalla
polizia municipale in modalità dinamica
utilizzando un veicolo di servizio.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Belluno con
la
sentenza 12.10.2017 n. 535.
Un automobilista pizzicato per eccesso di
velocità da una pattuglia della municipale
munita di un dispositivo autovelox omologato
per un uso dinamico del misuratore ha
proposto con successo ricorso al giudice di
pace evidenziando di essere incorso
nell'infrazione, suo malgrado, senza
avvertimenti.
Contro questa decisione il comune ha
sollevato censure in sede di appello
specificando che il dm 13.06.2017 esonera
specificamente dalla preventiva segnalazione
il controllo elettronico effettuato con
strumenti omologati per funzionare a bordo
dei veicoli, in modalità dinamica. Il
tribunale ha rigettato queste doglianza
confermando l'annullamento della multa.
L'articolo 142 del codice stradale non fa
eccezioni, specifica la sentenza. Se deve
essere data una corretta informativa
all'utenza circa il controllo elettronico
della velocità a parere del giudice non ci
sono scuse. E un dm non può superare la
legge
(articolo ItaliaOggi del
21.10.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche
nello svolgimento della prova preselettiva
deve trovare applicazione l’art. 13, comma
2, D.P.R. 09.05.1994, n. 487, che richiede
che gli elaborati vengano scritti
esclusivamente, a pena di nullità, su carta
portante il timbro d'ufficio e la firma di
un componente della commissione
esaminatrice.
---------------
Ritenuto che il ricorso presenti profili di
fondatezza, laddove censura la modalità con
cui è stata svolta la prova preselettiva,
atteso che, anche per la predetta fase deve
trovare applicazione l’art. 13, comma 2,
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, che richiede che
gli elaborati vengano scritti
esclusivamente, a pena di nullità, su carta
portante il timbro d'ufficio e la firma di
un componente della commissione esaminatrice
(TAR Piemonte, Sez. I,
ordinanza 12.10.2017 n. 441 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Principi
in materia di pianificazione urbanistica:
- sul piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, si è
ribadito come le scelte di pianificazione
urbanistica costituiscano esercizio di ampia
discrezionalità da parte
dell’amministrazione e che le stesse,
nell’ambito del sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, sono censurabili,
oltre che per violazione di legge, solo per
manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde
evitare un indebito “sconfinamento” nel cd.
“merito amministrativo”;
- sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del
territorio non è funzionale solo
all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione
delle diverse tipologie di edificazione
distinte per finalità (civile abitazione,
uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente
rivolto alla realizzazione contemperata di
una pluralità di interessi pubblici, che
trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti”;
- quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte
urbanistiche, si è precisato che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in
sede di adozione di uno strumento
urbanistico, salvo i casi in cui esse
incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le
scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e “mirata”;
- in particolare, si è affermato che “le scelte urbanistiche
richiedono una motivazione più o meno
puntuale a seconda che si tratti di
previsioni interessanti la pianificazione in
generale ovvero un’area determinata, ovvero
qualora incidano su aree specifiche, ledendo
legittime aspettative; così come mentre
richiede una motivazione specifica una
variante che interessi aree determinate del
PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in
presenza di legittime aspettative dei
privati), non altrettanto può dirsi allorché
la destinazione di un’area muta per effetto
della adozione di un nuovo strumento
urbanistico generale, che provveda ad una
nuova e complessiva definizione del
territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in
discussione la destinazione di una singola
area, ma il complessivo disegno di governo
del territorio da parte dell’ente locale, di
modo che la motivazione non può riguardare
ogni singola previsione (o zonizzazione), ma
deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo
strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina
l’acquisizione, una volta e per sempre, di
una aspettativa di edificazione non più
mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo PRG, conseguenza di una nuova e
complessiva valutazione del territorio, alla
luce dei mutati contesti e delle esigenze
medio tempore sopravvenute”;
- infine, la motivazione delle scelte urbanistiche,
sufficientemente espressa in via generale, è
desumibile sia dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica, sia dalla coerenza complessiva
delle scelte effettuate dall’amministrazione
comunale.
---------------
2. L’appello è infondato e deve essere,
pertanto, respinto, con conseguente conferma
della sentenza impugnata.
3. Questa Sezione ha già avuto modo di
enunciare principi in materia di
pianificazione urbanistica che ben possono
essere applicati (e trovare conferma) in
sede di decisione della presente
controversia:
- sul piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, si è
ribadito come le scelte di pianificazione
urbanistica costituiscano esercizio di ampia
discrezionalità da parte
dell’amministrazione e che le stesse,
nell’ambito del sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, sono censurabili,
oltre che per violazione di legge, solo per
manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde
evitare un indebito “sconfinamento”
nel cd. “merito amministrativo”;
- sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del
territorio non è funzionale solo
all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione
delle diverse tipologie di edificazione
distinte per finalità (civile abitazione,
uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente
rivolto alla realizzazione contemperata di
una pluralità di interessi pubblici, che
trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti” (Cons.
Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n. 2710);
- quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte
urbanistiche, si è precisato che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in
sede di adozione di uno strumento
urbanistico, salvo i casi in cui esse
incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le
scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e “mirata”
(Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478);
- in particolare, si è affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016
n. 2221; Id, 08.06.2011 n. 3497), che “le
scelte urbanistiche richiedono una
motivazione più o meno puntuale a seconda
che si tratti di previsioni interessanti la
pianificazione in generale ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree
specifiche, ledendo legittime aspettative;
così come mentre richiede una motivazione
specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG., per le quali
quest’ultimo prevedeva diversa destinazione
(a maggior ragione in presenza di legittime
aspettative dei privati), non altrettanto
può dirsi allorché la destinazione di
un’area muta per effetto della adozione di
un nuovo strumento urbanistico generale, che
provveda ad una nuova e complessiva
definizione del territorio comunale. In
questa ipotesi, infatti, non è in
discussione la destinazione di una singola
area, ma il complessivo disegno di governo
del territorio da parte dell’ente locale, di
modo che la motivazione non può riguardare
ogni singola previsione (o zonizzazione), ma
deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo
strumento urbanistico. Né, d’altra parte,
una destinazione di zona precedentemente
impressa determina l’acquisizione, una volta
e per sempre, di una aspettativa di
edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in
variante) con un nuovo PRG, conseguenza di
una nuova e complessiva valutazione del
territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute”;
- infine, la motivazione delle scelte urbanistiche,
sufficientemente espressa in via generale, è
desumibile sia dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica, sia dalla coerenza complessiva
delle scelte effettuate dall’amministrazione
comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2014
n. 1459) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.10.2017 n. 4707 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune ha il potere di annullare in
autotutela i titoli edilizi in precedenza
rilasciati anche in sanatoria soprattutto se
tale annullamento interviene, come nel caso
di specie, dopo un breve lasso di tempo
dall'emanazione del titolo edilizio e
all’esito di una riscontrata mancanza dei
presupposti, invece dichiarati, per il
rilascio dello stesso.
In tal caso, le caratteristiche dell'istanza
di condono edilizio e l'immediato avvio
della procedura di riesame del titolo
rilasciato costituiscono, per un verso,
elementi significativi per escludere
qualunque serio affidamento incolpevole in
capo al concessionario e, per altro verso,
presupposto che legittimamente esclude la
necessità d'una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico all'autotutela.
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Stante, infatti, la straordinarietà del
beneficio del condono edilizio, è onere del
richiedente provare, in modo rigoroso
l’epoca di realizzazione delle opere.
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14. Quanto poi alle conclusioni del Tar sui
motivi aggiunti proposti contro il nuovo
provvedimento di annullamento del condono,
le stesse appaiono immuni da vizi.
15. Innanzitutto, il Comune ha il potere di
annullare in autotutela i titoli edilizi in
precedenza rilasciati anche in sanatoria
soprattutto se tale annullamento interviene,
come nel caso di specie, dopo un breve lasso
di tempo dall'emanazione del titolo edilizio
e all’esito di una riscontrata mancanza dei
presupposti, invece dichiarati, per il
rilascio dello stesso. In tal caso, le
caratteristiche dell'istanza di condono
edilizio e l'immediato avvio della procedura
di riesame del titolo rilasciato
costituiscono, per un verso, elementi
significativi per escludere qualunque serio
affidamento incolpevole in capo al
concessionario e, per altro verso,
presupposto che legittimamente esclude la
necessità d'una puntuale motivazione
sull'interesse pubblico all'autotutela (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 29.04.2000, n.
2544 e sez. V, 13.05.2014, n. 2541).
16. Stante, infatti, la straordinarietà del
beneficio del condono edilizio, è onere del
richiedente provare, in modo rigoroso
l’epoca di realizzazione delle opere.
Tuttavia, come rileva il Tar, la circostanza
della non ultimazione dei lavori alla data
del 23.12..2003 è stato oggetto dalla
sentenza del Tribunale di Fermo n. 372/2006
confermata dalla sentenza 1409/2007 della
Corte d’Appello d’Ancona e infine passata in
giudicato a seguito dell’ordinanza della
Corte di Cassazione 25135/2008, definitiva
il 20.02.2009, che ha dichiarato
inammissibile il ricorso per Cassazione.
Tali sentenze penali sono basate sul
sopralluogo dell’agente della Polizia
municipale Co.Ge. del 23.12.2003, non
immediatamente verbalizzato e riportato nel
successivo verbale di sopralluogo del
29.12.2003 (in particolare, la sentenza
della Corte di Appello di Ancona, nel
confermare la sentenza di primo grado, fa
riferimento alla sua testimonianza che, in
sede sopralluogo, riscontrava l’inesistenza
della copertura dell’edificio abusivo)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.10.2017 n. 4705 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: REATI
EDILIZI/ La Super Scia successiva non sana i
vecchi abusi. Una sentenza della Corte di Cassazione.
Inutile invocare il decreto Scia 2 per far
dissequestrare l'immobile a rischio abuso
edilizio. E ciò perché c'è continuità
normativa fra la vecchia Super Dia e le
nuova Super Scia. Se dunque i locali sono
stati ristrutturati con la sola segnalazione
di inizio attività, è inutile presentare la
domanda in base all'articolo 23 del testo
unico dell'edilizia così come novellato dal
decreto legislativo 222/2016 per tentare di
sanare l'abuso: per gli interventi edilizi
per i quali la Scia si pone come titolo
abilitativo alternativo al permesso di
costruire la sanatoria può avvenire soltanto
con la procedura di accertamento di
conformità ex articolo 36 del dpr 380/2001.
È
quanto emerge dalla
sentenza
10.10.2017 n. 46480,
pubblicata dalla III Sez. penale della
Corte di Cassazione.
Contributo di costruzione.
Accolto il ricorso del pubblico ministero
dopo il no al sequestro preventivo
dell'immobile sul quale si procede per il
reato ex articolo 44, comma primo, lettera
b), del dpr 380/2001. C'è infatti piena
continuità normativa fra Super Dia e Super
Scia sia per la natura degli interventi sia
sulle modalità procedurali.
E la questione
della dell'entrata in vigore della riforma
«è più complessa dell'applicazione che ne ha
fatto il tribunale cautelare», spiegano i
giudici di legittimità. Ha ragione l'accusa:
la Scia prevista prima del dlgs 222/2016 e la
Super Scia ex articolo 23 Tue post-riforma
non sono sovrapponibili ma nettamente
distinte. E ciò per una scelta precisa del
legislatore che scaturisce
dall'interpretazione degli articolo 3, 10,
22, 23. La Super Scia è alternativa al
permesso di costruire e i lavori possono
cominciare soltanto a trenta giorni dalla
presentazione allo sportello unico. E la
continuità con la Super Dia si rileva perché
anche ora è richiesto un contributo di
costruzione.
Insomma: la sanatoria ex articolo 37 del Tue
è applicabile soltanto agli interventi
edilizi realizzati in assenza o in
difformità della Scia semplice. Mentre per
la ristrutturazione pesante avvenuta con la
mera Scia serve l'accertamento in conformità
a regime per i fatti commessi prima del
decreto legislativo 222/2016. La parola
torna al tribunale del riesame
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Non è controverso che l'intervento
edilizio, come si evince anche dal testo del
provvedimento impugnato, abbia riguardato "al
piano terreno: modifiche della tramezzatura,
rifacimento della pavimentazione interna,
totale rifacimento del bagno, costruzione di
nuova scala interna, apertura di porta
interna di comunicazione con autorimessa,
sostituzione di tutti gli infissi,
rifacimento impianti elettrico e
termo-idraulico; al piano primo: modifica
della tramezzatura per formazione di unico
locale soggiorno, di un
ripostiglio/dispensa, di una cabina armadio
e di un bagno; trasformazione del bagno
esistente in antibagno e nuova formazione di
locale bagno-lavanderia con tetto in legno a
vista previa costruzione di orizzontamento
di calpestio in latero-cemento; formazione
di nuovo locale studio con tetto in legno a
vista mediante recupero della volumetria
esistente su cantina; rifacimento e
realizzazione completa di impianto
elettrico, termico ed idraulico;
all'esterno: sostituzione del tetto e suo
innalzamento; sistemazione della scala
esterna; sistemazione della pavimentazione
del terrazzo con installazione di parapetto
e di ringhiera".
I Giudici del merito neppure contestano,
nella sostanza, come fondatamente osserva il
ricorrente, che detto intervento avrebbe
comportato un aumento delle volumetrie
esistenti, tramite la "sopraelevazione
dell'imposta del tetto con riduzione della
sua pendenza" (pag. 29 della consulenza
del Ct del PM), con la conseguenza che lo
stesso sarebbe definibile come "ristrutturazione
edilizia comprendente ampliamento
volumetrico esterno all'esistente sagoma del
fabbricato con modifica dei prospetti".
Il tribunale cautelare, conformemente a
quanto ritenuto dal giudice per le indagini
preliminari, ha tuttavia sostenuto che
l'interessato aveva giustificato
l'intervento mediante la presentazione di
una segnalazione certificata di inizio
d'attività (Scia) e, se anche all'epoca
della presentazione (01.12.2016) avesse
dovuto richiedere il permesso di costruire,
il decreto legislativo n. 222 del 2016 ha
imposto, per tale tipo di intervento, in
alternativa al permesso di costruire,
proprio la Scia sicché, sulla base dello
ius superveniens (applicabile
dall'11.12.2016, data di entrata in vigore
del d.lgs. n. 222 del 2016) in quanto
normativa più favorevole, alcun rimprovero
poteva essere mosso all'indagato, con
conseguente insussistenza del fumus
delicti.
3. L'opzione ermeneutica prescelta dal
tribunale cautelare non è corretta.
3.1. L'articolo 5 della legge 07.08.2015, n.
124 ha delegato il Governo ad individuare
con esattezza, con uno o più decreti
legislativi, i procedimenti oggetto di
segnalazione certificata di inizio
d'attività o di silenzio-assenso nonché di
quelli per i quali è necessaria
l'autorizzazione espressa e di quelli per i
quali è sufficiente una comunicazione
preventiva, sulla base dei principi e
criteri direttivi desumibili dagli articoli
19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, dei
principi del diritto dell'Unione europea
relativi all'accesso alle attività di
servizi e, infine, dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità,
introducendo anche la disciplina generale
delle attività non assoggettate ad
autorizzazione preventiva espressa, compresa
la definizione delle modalità di
presentazione e dei contenuti standard degli
atti degli interessati e di svolgimento
della procedura, anche telematica, nonché
degli strumenti per documentare o attestare
gli effetti prodotti dai predetti atti, e
prevedendo altresì l'obbligo di comunicare
ai soggetti interessati, all'atto della
presentazione di un'istanza, i termini entro
i quali l'amministrazione è tenuta a
rispondere ovvero entro i quali il silenzio
dell'amministrazione equivale ad
accoglimento della domanda.
La delega è stata attuata con due decreti
legislativi: il decreto legislativo
30.06.2016, n. 126 (Attuazione della delega
in materia di segnalazione certificata di
inizio attività), a norma dell'articolo 5
della legge 07.08.2015, n. 124, cosiddetto
decreto SCIA 1) e con il decreto
legislativo 25.11.2016, n. 222
(Individuazione di procedimenti oggetto di
autorizzazione, segnalazione certificata di
inizio di attività, silenzio assenso e
comunicazione e di definizione dei regimi
amministrativi applicabili a determinate
attività e procedimenti, ai sensi
dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n.
124, cosiddetto decreto SCIA 2).
Mentre il decreto legislativo n. 126 del
2016 detta la disciplina generale
applicabile alle attività private non
soggette ad autorizzazione espressa e
soggette a segnalazione certificata di
inizio attività (Scia), definendo inoltre le
modalità di presentazione di segnalazioni o
istanze alla pubblica amministrazione, il
decreto legislativo n. 222 del 2016
individua in un'apposita tabella, che è
parte integrante del decreto, le attività
oggetto di comunicazione, di segnalazione
certificata di inizio attività (Scia), di
silenzio-assenso nonché quelle per cui è
necessario un provvedimento espresso e
contiene specifiche disposizioni normative
di coordinamento.
In essa sono ricomprese 105 tipologie di
intervento (attività) individuate nel campo
dell'edilizia e sintetizzate nella tabella
con l'indicazione della relativa attività,
ossia dell'intervento da realizzare; del
regime amministrativo, ossia del corretto
titolo edilizio richiesto per ciascun
intervento; delle concentrazioni di regimi
amministrativi e ed infine dei relativi
riferimenti normativi.
Per garantire omogeneità di regime giuridico
in tutto il territorio nazionale, con
specifico riferimento alla materia edilizia,
è prevista l'adozione, con decreto
ministeriale, di un glossario unico
contenente le principali opere edilizie, con
l'individuazione della categoria di
intervento a cui le stesse appartengono e
del conseguente regime giuridico a cui sono
sottoposte, secondo quanto indicato nella
tabella A allegata al decreto legislativo n.
222 del 2016 (articolo 1, comma 2, d.lgs. n.
222 del 2016).
Inoltre le amministrazioni procedenti (i
Comuni per la materia edilizia) sono
chiamate a fornire gratuitamente agli
interessati la necessaria attività di
consulenza funzionale all'istruttoria delle
attività indicate nella tabella A (articolo
1, comma 3, d.lgs. n. 222 del 2016).
In siffatto quadro, è il caso di precisare
come, a causa della frequente connessione
delle attività edilizie con i vincoli
paesaggistici, vadano tenute in
considerazione le norme del regolamento, in
vigore dal 06.04.2017, di cui al d.p.r.
13.02.2017, n. 31 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 22.03.2017, n. 68) recante
l'individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria
semplificata, disposizioni sopravvenute al
d.lgs. n. 222 del 2016.
3.2. La disciplina dei titoli abilitativi è
stata negli ultimi anni oggetto di continui
mutamenti realizzati attraverso plurimi
interventi legislativi (decreto-legge
25.03.2010, n. 40 convertito nella legge
22.05.2010, n. 73; decreto-legge 31.05.2010,
n. 78 convertito in legge 30.07.2010, n.
122; decreto-legge 13.05.2011, n. 70
convertito in legge 12.07.2011, n. 106;
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito
nella legge 09.08.2013, n. 98; decreto-legge
12.09.2014, n. 133 convertito nella legge
11.11.2014, n. 164; decreto legislativo
25.11.2016 n. 222 e, da ultimo,
decreto-legge 24.04.2017, n. 50 (articolo
65-bis che modifica l'articolo 3, lettera
c), del d.p.r. n. 380 del 2001) convertito
in legge 21.06.2017, n. 96), i quali hanno
ridisegnato la classificazione degli
interventi edilizi ed il relativo regime
normativo.
Da un sistema improntato su un doppio
binario (permesso di costruire e denuncia di
inizio attività) e su un'attività
prettamente autorizzatoria della pubblica
amministrazione, si è passati ad un regime
di più estesa liberalizzazione degli
interventi edilizi con l'introduzione di
nuovi istituti giuridici come la CIL
(comunicazione di inizio lavori), la CILA
(comunicazione di inizio lavori asseverata),
la SCIA (segnalazione certificata inizio
d'attività) e l'abolizione di quelli prima
esistenti, come la DIA (denuncia inizio di
attività).
Per quanto qui interessa, il decreto
legislativo n. 222 del 2016 -che, anche
attraverso il richiamo all'allegata tabella
e al varo di un glossario, di cui si è
detto, opera un riordino complessivo dei
titoli e degli atti legittimanti gli
interventi edilizi nell'ottica di un
ampliamento della categoria degli interventi
edilizi soggetti ad attività completamente
libera e di un (non sempre comprensibile)
ridimensionamento del titolo autorizzatorio
(permesso di costruire)- ha inciso sul
d.p.r. n. 380 del 2001:
1) con la modifica dell'articolo 6-bis (la cui nuova rubrica è
intitolata "Interventi subordinati a
comunicazione di inizio lavori asseverata"),
introducendo espressamente il principio
secondo il quale gli interventi non
riconducibili all'elenco di cui agli
articoli 6 (attività edilizia libera), 10
(interventi subordinati al permesso di
costruire) e 22 (interventi subordinati a
segnalazione certificata di inizio di
attività), sono assoggettati a comunicazione
di inizio lavori asseverata da tecnico
abilitato (CILA) e, quindi, "realizzabili
previa comunicazione, anche per via
telematica, dell'inizio dei lavori da parte
dell'interessato all'amministrazione
competente, fatte salve le prescrizioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel
rispetto delle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare,
delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle
relative all'efficienza energetica, di
tutela dal rischio idrogeologico, nonché
delle disposizioni contenute nel codice dei
beni culturali e del paesaggio, di cui al
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42"
(articolo 3, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo n. 222 del 2016);
2) con la modifica del comma 1 dell'articolo 22 secondo il quale: «1.
Sono realizzabili mediante la segnalazione
certificata di inizio di attività di cui
all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n.
241, nonché in conformità alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente:
a) gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all'articolo 3, comma
1, lettera b), qualora riguardino le parti
strutturali dell'edificio;
b) gli interventi di restauro e di
risanamento conservativo di cui all'articolo
3, comma 1, lettera c), qualora riguardino
le parti strutturali dell'edificio;
c) gli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera d), diversi da quelli indicati
nell'articolo 10, comma 1, lettera c)»
(articolo 3, comma 1, lettera f), del
decreto legislativo n. 222 del 2016);
3) con l'inserimento, prima del comma 1 dell'articolo 23, del comma
01 secondo il quale «01. In alternativa
al permesso di costruire, possono essere
realizzati mediante segnalazione certificata
di inizio di attività:
a) gli interventi di ristrutturazione di cui
all'articolo 10, comma 1, lettera c);
b) gli interventi di nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica qualora siano
disciplinati da piani attuativi comunque
denominati, ivi compresi gli accordi
negoziali aventi valore di piano attuativo,
che contengano precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e
costruttive, la cui sussistenza sia stata
esplicitamente dichiarata dal competente
organo comunale in sede di approvazione
degli stessi piani o di ricognizione di
quelli vigenti; qualora i piani attuativi
risultino approvati anteriormente
all'entrata in vigore della legge
21.12.2001, n. 443, il relativo atto di
ricognizione deve avvenire entro trenta
giorni dalla richiesta degli interessati; in
mancanza si prescinde dall'atto di
ricognizione, purché il progetto di
costruzione venga accompagnato da apposita
relazione tecnica nella quale venga
asseverata l'esistenza di piani attuativi
con le caratteristiche sopra menzionate;
c) gli interventi di nuova costruzione
qualora siano in diretta esecuzione di
strumenti urbanistici generali recanti
precise disposizioni plano-volumetriche. Gli
interventi di cui alle lettere precedenti
sono soggetti al contributo di costruzione
ai sensi dell'articolo 16. Le regioni
possono individuare con legge gli altri
interventi soggetti a segnalazione
certificata di inizio attività, diversi da
quelli di cui alle lettere precedenti,
assoggettati al contributo di costruzione
definendo criteri e parametri per la
relativa determinazione» (articolo 3,
comma 1, lettera g), del decreto legislativo
n. 222 del 2016).
3.3. Queste modifiche normative, che è stato
necessario richiamare, danno conto del fatto
di come, proprio in conseguenza dell'entrata
in vigore (a partire dal 11.12.2016) del
decreto legislativo n. 222 del 2016, siano
nettamente distinguibili nel testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di edilizia (d'ora
in poi, TUE) due distinti regimi della
segnalazione certificata di inizio
d'attività, corrispondenti a due
differenti tipologie: una Scia,
cosiddetta "tipica" o "ordinaria",
regolamentata dall'articolo, 22 comma 1, TUE
ed una Scia, cosiddetta "atipica"
o "speciale", alternativa al
permesso di costruire, che trova la sua
disciplina nell'articolo 23 del TUE e che
rivela la sua atipicità nel fatto di
costituire una variante procedurale di
quella ordinaria in ragione della tipologia
degli interventi per la quale è preordinata,
che sono di contenuto diverso e
urbanisticamente più rilevanti, tanto da
essere assoggettata al contributo di
costruzione (al pari della Super Dia per la
quale il contributo di costruzione era
previsto dall'abrogato comma 5 dell'articolo
22 TUE), nonché in considerazione del
contenuto e delle condizioni cui essa è
soggetta, espressamente delineate nei commi
01 e seguenti dell'articolo 23 TUE.
La Scia "ordinaria"
(sostitutiva nella disciplina previgente al
d.lgs. n. 222 del 2016, a condizioni esatte,
all'abrogata Dia e giammai alla Super Dia) è
invece congegnata quale titolo per
l'esecuzione degli interventi di edilizia
minore ed è soggetta al regime giuridico di
cui all'articolo 19 della legge n. 241 del
1990, che l'articolo 22 espressamente
richiama, tant'è che l'attività oggetto
della Scia cd. tipica può essere iniziata,
anche nei casi di cui all'articolo 19-bis,
comma 2, dalla data della presentazione
della segnalazione all'amministrazione
competente (articolo 19, comma 2, legge n.
241 del 1990), laddove per la "Super-Scia"
ossia per la Scia alternativa al permesso di
costruire i lavori possono essere iniziati
solo se decorsi trenta giorni dalla
presentazione allo sportello unico (articolo
23, comma 1, TUE), trovando ciò spiegazione
nel fatto che, entro il suddetto termine, il
dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, ove riscontri l'assenza di
una o più delle condizioni stabilite,
notifica all'interessato l'ordine motivato
di non effettuare il previsto intervento e,
in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l'autorità
giudiziaria e il consiglio dell'ordine di
appartenenza.
3.4. Non può essere pertanto condiviso
l'approdo cui è giunto il tribunale
cautelare perché, se anteriormente alla data
del 11.12.2016 occorreva, come si evince dal
testo del provvedimento impugnato (pagina
4), il permesso di costruire (o un titolo
abilitativo equipollente, costituito prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del
2016, dalla Super Dia) per la
ristrutturazione edilizia pesante, oggetto
dell'intervento di cui si discute (ex
articolo 10, comma 1, lettera c), TUE), non
è certo il possesso di una Scia cd. tipica o
ordinaria, quantunque presentata dieci
giorni prima dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 222 del 2016, a rendere legittimo
l'intervento, posto che la "Super Dia",
ratione temporis vigente, e la "Super
Scia", successivamente introdotta,
differiscono per struttura, contenuti e
forme procedurali dalla Scia ordinaria (si
pensi, ad esempio, al contributo di
costruzione richiesto per la Super Scia, ex
Super Dia, e non invece per la Scia).
Non è pertanto esatto il rilievo formulato
dal tribunale cautelare secondo il quale
l'affermazione del pubblico ministero -circa
il fatto che la Scia prevista anteriormente
al decreto legislativo n. 222 del 2016 e la
Super Scia prevista dall'articolo 23 TUE,
come modificato dal decreto legislativo n.
222 del 2016, non siano sovrapponibili per
essere tra loro nettamente distinguibili- si
risolverebbe in un'affermazione apodittica
ed indimostrata, essendo invece essa la
conseguenza di una precisa scelta
legislativa derivante dall'interpretazione
delle disposizioni di cui agli articoli 3,
10, 22 e 23 TUE.
4. Di ciò si è perfettamente reso conto
l'indagato, il quale, con la memoria
difensiva, ha prospettato di aver
presentato, in data 11.05.2017, una nuova
istanza al Comune in linea con il disposto
di cui all'articolo 23 TUE.
Sul punto, è il caso di precisare come, nel
giudizio di legittimità, non sia ammissibile
la produzione di nuovi documenti attinenti
al merito della regiudicanda, ad eccezione
di quelli che l'interessato non sia stato in
condizione di esibire nei precedenti gradi
di giudizio e dai quali può derivare
l'applicazione dello "ius superveniens",
di cause estintive o di disposizioni più
favorevoli, (Sez. 3, n. 27417 del
01/04/2014, C., Rv. 259188), sempreché non
comportino un'attività di apprezzamento
circa la loro validità formale e la loro
efficacia nel contesto delle prove già
raccolte e valutate dai giudici di merito
(Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Sanvitale,
Rv. 266390).
Trattandosi di un principio di diritto
valido anche nel caso, come nella specie, di
impugnazione cautelare, il Collegio non può
prendere in considerazione il documento
prodotto, il cui esame comporta
apprezzamenti di merito, compito spettante
invece al tribunale cautelare in sede di
giudizio di rinvio.
Fermo tale principio, resta tuttavia da
precisare che la questione dello ius
superveniens (ossia la possibilità che
l'intervento edilizio de quo fosse
consentito attraverso la Super Scia e,
quindi, attraverso la procedura speciale di
cui all'articolo 23 TUE, come modificato dal
d.lgs. n. 222 del 2016) è più complessa
rispetto all'applicazione che ne ha fatto il
tribunale cautelare, il quale ha ritenuto
che l'indagato avrebbe rispettato la norma,
successivamente entrata in vigore,
legittimante l'intervento, nel senso che la
Scia presentata prima dell'entrata in vigore
del d.lgs. n. 222 del 2016 contenesse tutti
gli elementi costitutivi della Super Scia
prevista dal novellato articolo 23 TUE, per
cui, trattandosi di norma che ha sottratto
le condotte del tipo di quella oggetto della
provvisoria imputazione (ristrutturazione
edilizia previa presentazione della sola
S.C.I.A.) dall'area del penalmente
rilevante, parteciperebbe alla categorie
delle norme più favorevoli al reo, con la
conseguenza della sua applicazione ai fatti
pregressi avendo apportato modifiche in
melius alla disciplina di una
fattispecie criminosa.
Allo stesso modo, la soluzione che sarebbe
stata prescelta dall'indagato, fermi gli
accertamenti di merito che esulano dalla
cognizione del giudice di legittimità,
quella cioè di "sanare" l'abuso
ricorrendo alla presentazione della Super
Scia in applicazione dell' articolo 23 TUE
come novellato per effetto del d.lgs. n. 222
del 2016, non è idonea a produrre alcun
effetto sanante, riservato al solo e
tassativo verificarsi delle condizioni
previste rispettivamente dagli articoli 36 e
37 TUE.
Vi è infatti piena continuità normativa
tra la Super Dia, prevista
dall'abrogato comma 3 dell'articolo 22 TUE,
e la Super Scia, prevista dal nuovo
comma 01 dell'articolo 23 TUE, quanto alla
natura degli interventi (nel caso di specie
quanto alla ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 10, comma 1, lettera c), TUE)
nonché continuità normativa quanto alle
modalità procedurali: l'abrogato terzo comma
dell'articolo 22 (Super Dia) è stato
riprodotto nel comma 01 dell'articolo 23 (Super
Scia); l'abrogato quinto comma
dell'articolo 22 che prevedeva il contributo
di costruzione per la Super Dia è stato
riprodotto nell'ultima parte del comma 01
dell'articolo 23 per la Super Scia;
le parole "denuncia" previste per la
Super Dia nel secondo comma dell'articolo 23
sono state sostituite dalle parole "segnalazione"
per indicare la Super Scia; la restante
parte dell'articolo 23 è rimasta del tutto
immutata.
Ne consegue che la sanatoria prevista
dall'articolo 37 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 non è applicabile, potendo essere
richiesta unicamente per gli interventi
edilizi, realizzati in assenza o in
difformità della segnalazione certificata di
inizio attività (S.C.I.A.), previsti
dall'articolo 22, commi primo e secondo, del
d.P.R. citato e quindi non è estensibile
anche agli interventi edilizi, di cui al
comma 01 dell'articolo 23 TUE, per i quali
la S.C.I.A. si pone quale titolo abilitativo
alternativo al permesso di costruire (c.d.
Super Scia), applicandosi in tale ultima
ipotesi la sanatoria mediante procedura di
accertamento di conformità di cui
all'articolo 36 del medesimo d.P.R., come
espressamente previsto dal primo comma della
predetta disposizione; ciò sia a regime e
sia per i fatti commessi anteriormente
all'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del
2016 in ordine ai quali, per la
realizzazione dell'intervento edilizio, era
richiesto, come nel caso di specie, il
permesso di costruire o la Super Dia, in
alternativa a detto permesso, vuoi per la
ricordata continuità normativa tra i
predetti istituti e vuoi per la continuità
normativa quanto alle procedure sananti di
cui agli articoli 36 e 37 TUE.
5. L'ordinanza impugnata va pertanto
annullata con rinvio per nuovo esame ed il
giudice del rinvio, nel riesaminare la
regiudicanda cautelare, si atterrà ai
principi di diritto in precedenza enunciati
anche verificando se, in applicazione di
essi, siano sopravvenuti fatti nuovi che
abbiano potuto incidere sul fumus o
sui pericula ipotizzati con
l'originaria domanda cautelare, facendo
venire meno, se del caso, la serietà degli
indizi o le esigenze cautelari, e sempre che
l'insussistenza dei requisiti della cautela
reale emerga dagli atti acquisiti o prodotti
dalle parti, essendo il Tribunale della
libertà privo di poteri istruttori (Sez. 3,
n. 43560 del 08/07/2016, B., Rv. 267929). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
legittimità di un provvedimento
amministrativo va accertata in base al
principio tempus regit actum, secondo cui i
provvedimenti dell'Amministrazione, in
quanto espressione attuale dell'esercizio di
poteri rivolti al soddisfacimento di
pubblici interessi, devono uniformarsi, per
quanto concerne sia i requisiti di forma e
procedimento sia il contenuto sostanziale
delle statuizioni, alle norme giuridiche
vigenti nel momento in cui sono posti in
essere, e ciò in applicazione del principio
della immediata operatività delle norme di
diritto pubblico.
---------------
4.1.- Infondato è il primo motivo di
ricorso.
L'Amministrazione comunale, nel negare
l’autorizzazione, ha correttamente fatto
riferimento al Regolamento Chioschi, di cui
alla delibera di consiglio n. 70/2014,
normativa generale applicabile al caso in
esame in virtù del principio tempus regit
acutm.
Ad avviso del Collegio, appare irrilevante
il dato, valorizzato dalla società
ricorrente, che la concessione per
installare l’edicola sul suolo pubblico sia
stata rilasciata nel 2012, e quindi in epoca
antecedente al 2014, anno di approvazione
del Regolamento Chioschi; è invece decisivo
il fatto che l'istanza di autorizzazione sia
stata presentata dalla società ricorrente
nel 2017, quando era da tempo vigente la
nuova normativa regolamentare.
Come chiarito da consolidata giurisprudenza
amministrativa, la legittimità di un
provvedimento amministrativo va accertata in
base al principio tempus regit actum,
secondo cui i provvedimenti
dell'Amministrazione, in quanto espressione
attuale dell'esercizio di poteri rivolti al
soddisfacimento di pubblici interessi,
devono uniformarsi, per quanto concerne sia
i requisiti di forma e procedimento sia il
contenuto sostanziale delle statuizioni,
alle norme giuridiche vigenti nel momento in
cui sono posti in essere, e ciò in
applicazione del principio della immediata
operatività delle norme di diritto pubblico
(Consiglio di Stato, sez. IV, 12.04.2017, n.
1700; Idem, sez. V, 31.03.2017, n. 1499 che
conferma TAR Campania, Salerno, sez. II, n.
966 del 2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.10.2017 n. 4747 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio intende ribadire l’indirizzo
manifestato a più riprese dalla Sezione
secondo cui:
a) lo svolgimento di una qualsiasi attività commerciale presuppone
non solo la sussistenza, ma anche la
permanenza della regolarità
urbanistico-edilizia dei locali interessati
(ovvero, nella specie, delle strutture a
servizio dell’attività);
b) nondimeno, la chiusura di un esercizio in attività non può
essere considerata come una sanzione per la
sopravvenuta rilevazione di abusi edilizi, i
quali hanno per converso un sistema
repressivo specifico che regola, per
ciascuna tipologia di illecito, i
presupposti, le modalità applicative, i
destinatari, gli effetti ed anche,
eventualmente, le possibilità di sanatoria;
c) pertanto, l’ordine di cessazione di un’attività in corso esige
che sia stata applicata una sanzione
edilizia (quale ad esempio la demolizione),
nella misura in cui la obbligatoria
esecuzione della misura repressiva adottata
risulti incompatibile con la continuazione
dell’attività commerciale ed in generale con
l’utilizzo delle opere abusive.
---------------
Si palesa illegittimo il provvedimento di
cessazione dell’attività che non si fondi su
una precedente irrogazione della sanzione
repressiva in materia edilizia (non valendo
a “sanare” l’atto la successiva emanazione
dell’ordine di demolizione, poiché la
legittimità del provvedimento amministrativo
va vagliata con riferimento ai presupposti
di fatto e di diritto esistenti al momento
della sua adozione).
Inoltre, si è affermato, altresì,
l’ulteriore principio secondo cui deve
ritenersi consentita la prosecuzione
dell’attività, in ossequio ai “criteri di
ragionevolezza e proporzionalità che devono
sempre improntare l’azione amministrativa”,
qualora la stessa possa continuare nei
termini originari.
Altresì (in tema di domanda di condono
pendente) si è statuito che “l’ordine di
cessazione dell’attività deve essere
limitato all’inibitoria dell’utilizzo delle
opere abusive, di cui sia ordinata la
demolizione, e non può estendersi di per sé
all’intera attività aziendale, a meno che
beninteso non risulti (dal provvedimento o
dagli atti del procedimento, il che non è
nella specie) che le opere abusive sono
parte essenziale ed indispensabile per la
conduzione dell’esercizio, che perderebbe
altrimenti la possibilità stessa di operare
…”.
---------------
In ordine alla mancanza del titolo
autorizzativo e al parziale contrasto con le
previsioni urbanistiche della zona, è
meritevole di accoglimento la censura con
cui si fa valere la lesione dell’affidamento
ingenerato.
In via generale, quest’ultimo non può
ricevere una tutela tale da legittimare
l’attività in contrasto con le disposizioni
di legge o regolamentari, prevalendo
l’interesse pubblico al rispetto delle
norme, per il quale non può darsi eccessivo
rilievo alla tutela di una situazione contra
legem.
Pur tuttavia, va tutelato l’affidamento
ingenerato dalla P.A., allorché siano
ravvisabili specifiche e concordanti
circostanze, in presenza delle quali non può
giustificatamente sacrificarsi l’interesse
del privato, che ha confidato senza colpa
nella legittimità del suo agire.
---------------
Quanto sopra argomentato sulla conservazione
dell’attività economica non può valere a
legittimare una nuova attività (ovvero,
l’ampliamento di essa), che si voglia
intraprendere utilizzando opere non conformi
dal punto di vista urbanistico.
In altri termini, se la mancata adozione dei
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
preclude al momento di sanzionare con la
cessazione l’attività già esercitata (e che,
in ipotesi, può continuare nella restante
parte), lo stesso non può dirsi per la nuova
attività, che presuppone la legittimità
urbanistica delle opere [come costantemente
ribadito dalla giurisprudenza: “la
regolarità urbanistico-edilizia
dell'immobile è prescritta per ogni attività
commerciale (compresa quella artigianale),
stante l'interconnessione esistente tra le
discipline. Cosicché l'attività del privato
può essere intrapresa e continuata solo se
l'immobile è regolare sotto il profilo
urbanistico-edilizio, con conseguente
potere-dovere della P.A. di inibire
l'attività non conforme, secondo un
consolidato e condiviso indirizzo
giurisprudenziale"].
---------------
2.1.1. Tanto precisato, il Collegio intende
ribadire l’indirizzo manifestato a più
riprese dalla Sezione (cfr. la sentenza del
29/01/2017 n. 548 e, da ultimo, del
05/09/2017 n. 4250), secondo cui:
a) lo svolgimento di una qualsiasi attività commerciale presuppone
non solo la sussistenza, ma anche la
permanenza della regolarità
urbanistico-edilizia dei locali interessati
(ovvero, nella specie, delle strutture a
servizio dell’attività);
b) nondimeno, la chiusura di un esercizio in attività non può
essere considerata come una sanzione per la
sopravvenuta rilevazione di abusi edilizi, i
quali hanno per converso un sistema
repressivo specifico che regola, per
ciascuna tipologia di illecito, i
presupposti, le modalità applicative, i
destinatari, gli effetti ed anche,
eventualmente, le possibilità di sanatoria;
c) pertanto, l’ordine di cessazione di un’attività in corso esige
che sia stata applicata una sanzione
edilizia (quale ad esempio la demolizione),
nella misura in cui la obbligatoria
esecuzione della misura repressiva adottata
risulti incompatibile con la continuazione
dell’attività commerciale ed in generale con
l’utilizzo delle opere abusive.
Nella fattispecie in esame –e con
riferimento all’abusività delle opere,
assunta quale presupposto, anche se non
esclusivo, dell’ordine di cessazione–, va
osservato che il provvedimento non si
riferisce alle opere abusive antecedenti
(neppure sanzionate, come detto), ma
solamente ai pergolati oggetto del
richiamato accertamento del 16/01/2017, dei
quali la demolizione è stata ingiunta solo
dopo, con la suddetta ordinanza del
09/02/2017 n. 26.
In ragione di ciò, alla stregua della
richiamata giurisprudenza della Sezione, si
palesa illegittimo il provvedimento di
cessazione dell’attività che non si fondi su
una precedente irrogazione della sanzione
repressiva in materia edilizia (non valendo
a “sanare” l’atto la successiva
emanazione dell’ordine di demolizione,
poiché la legittimità del provvedimento
amministrativo va vagliata con riferimento
ai presupposti di fatto e di diritto
esistenti al momento della sua adozione).
2.1.2. Inoltre, con la richiamata
giurisprudenza della Sezione si è affermato,
altresì, l’ulteriore principio secondo cui
deve ritenersi consentita la prosecuzione
dell’attività, in ossequio ai “criteri di
ragionevolezza e proporzionalità che devono
sempre improntare l’azione amministrativa”
(sentenza del 05/09/2017 n. 4250, cit..),
qualora la stessa possa continuare nei
termini originari.
In detta sentenza (in tema di domanda di
condono pendente), si è quindi statuito che
“l’ordine di cessazione dell’attività
deve essere limitato all’inibitoria
dell’utilizzo delle opere abusive, di cui
sia ordinata la demolizione, e non può
estendersi di per sé all’intera attività
aziendale, a meno che beninteso non risulti
(dal provvedimento o dagli atti del
procedimento, il che non è nella specie) che
le opere abusive sono parte essenziale ed
indispensabile per la conduzione
dell’esercizio, che perderebbe altrimenti la
possibilità stessa di operare …”.
In base allo stesso principio, oltre a
quanto precisato al precedente p. 2.1.1.,
deve ritenersi sproporzionato l’ordine di
cessazione dell’attività di parcheggio, che
potrebbe continuare allo scoperto,
eliminando i pergolati ombreggianti di cui è
stata poi ordinata la demolizione.
2.2. Quanto detto concerne il profilo della
rilevata abusività delle opere.
In ordine alla mancanza del titolo
autorizzativo e al parziale contrasto con le
previsioni urbanistiche della zona, è
meritevole di accoglimento la censura con
cui si fa valere la lesione dell’affidamento
ingenerato.
In via generale, quest’ultimo non può
ricevere una tutela tale da legittimare
l’attività in contrasto con le disposizioni
di legge o regolamentari, prevalendo
l’interesse pubblico al rispetto delle
norme, per il quale non può darsi eccessivo
rilievo alla tutela di una situazione
contra legem.
Pur tuttavia, va tutelato l’affidamento
ingenerato dalla P.A., allorché siano
ravvisabili specifiche e concordanti
circostanze, in presenza delle quali non può
giustificatamente sacrificarsi l’interesse
del privato, che ha confidato senza colpa
nella legittimità del suo agire.
2.2.1. Nella specie, come già ravvisato in
sede cautelare, la decadenza al 31/12/2001
della licenza per l’esercizio di parcheggio
non può fondare l’ordine di cessazione
dell’attività.
Invero, nel considerevole lasso di tempo
intercorso, il Comune di Pompei non ha mai
obiettato alcunché alla prosecuzione della
stessa, sulla base delle comunicazioni
annuali del ricorrente, a fronte delle quali
il Comune non poteva restare inerte, dovendo
quanto meno significare che l’attività non
poteva più ritenersi assentita, ovvero
invitare alla regolarizzazione della
dichiarazione di prosieguo.
2.2.2. Inoltre, con riferimento al parziale
contrasto con la destinazione di zona, il
ricorrente evidenzia che il certificato di
destinazione urbanistica rilasciato
all’epoca attestava che la particella 157 “ricade
in spazi di sosta e parcheggio di
urbanizzazione primaria P5” (doc. 9
della produzione allegata al ricorso).
L’indicazione attuale di un diverso regime
urbanistico di parte delle aree se per un
verso giustifica l’inibitoria della SCIA
relativa all’ampliamento del numero di posti
macchina, non può condurre alla cessazione
dell’attività nel suo complesso, dovendosi
anche in tal caso tenere in debito conto
l’affidamento del privato (ingenerato dal
lasso di tempo intercorso e dalla
riconducibilità al Comune dell’originario
errore di qualificazione delle aree), ed
altresì il fatto che almeno per una parte
del suolo interessato non emerge il motivo
ostativo evidenziato dal Comune a sostegno
della determinazione impugnata, per cui non
si può escludere l’individuazione se del
caso di soluzioni in grado di contemperare i
contrapposti interessi (come, ad esempio, la
concentrazione dell’attività nella parte
urbanisticamente compatibile).
2.3. Per le conclusioni che precedono, è
fondato il ricorso avverso il provvedimento
impugnato, nella parte in cui è ordinata la
cessazione dell’attività sinora esercitata.
3. Per la restante parte, concernente il
diniego e la cessazione di effetti della
s.c.i.a. n. 16/2017 del 18/01/2017, il
ricorso va respinto perché infondato.
Quanto sopra argomentato sulla conservazione
dell’attività non può valere a legittimare
una nuova attività (ovvero, l’ampliamento di
essa), che si voglia intraprendere
utilizzando opere non conformi dal punto di
vista urbanistico.
In altri termini, se la mancata adozione dei
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
preclude al momento di sanzionare con la
cessazione l’attività già esercitata (e che,
in ipotesi, può continuare nella restante
parte), lo stesso non può dirsi per la nuova
attività, che presuppone la legittimità
urbanistica delle opere [come costantemente
ribadito dalla giurisprudenza, anche di
questa Sezione; cfr., per tutte, la sentenza
del 13/01/2016 n. 141: “la regolarità
urbanistico-edilizia dell'immobile è
prescritta per ogni attività commerciale
(compresa quella artigianale), stante
l'interconnessione esistente tra le
discipline. Cosicché l'attività del privato
può essere intrapresa e continuata solo se
l'immobile è regolare sotto il profilo
urbanistico-edilizio, con conseguente
potere-dovere della P.A. di inibire
l'attività non conforme, secondo un
consolidato e condiviso indirizzo
giurisprudenziale (cfr., per tutte, di
recente Cons. Stato - Sez. VI, 23.10.2015 n.
4880)”].
Nella specie, è di ostacolo all’ampliamento
dell’attività il carattere abusivo dei
pergolati, considerati nella relazione
allegata alla s.c.i.a. del 18/01/2017, quali
“apparati vegetali” adottati per
esigenze di ombreggiamento, protezione e
sistemazione paesaggistica-ambientale (cfr.
doc. 7 della produzione del ricorrente), la
cui realizzazione è stata constatata
nell’accertamento della P.M. del 16/01/2017
e che sono oggetto della ricordata ordinanza
di demolizione n. 26 del 09/02/2017 (non
sospesa né tanto meno annullata, avverso la
quale pende ricorso R.G. n. 1613 del 2017)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.10.2017 n. 4745 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sussiste
il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, giusta la pacifica
giurisprudenza di questa Sezione, secondo
cui le procedure indette ai sensi dell'art.
110, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000
nella sua attuale versione: “L'art. 110,
comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura,
prevede che la copertura dei posti di
responsabili dei servizi o degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante
contratto a tempo determinato "previa
selezione pubblica volta ad accertare, in
capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e
specifica professionalità nelle materie
oggetto dell'incarico".
La procedura in questione, per quanto
rivestita di forme atte a garantire
pubblicità, massima partecipazione e
selezione effettiva dei candidati, non ha le
caratteristiche del concorso pubblico e più
precisamente delle "procedure concorsuali
per l'assunzione dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni" utili a radicare
la giurisdizione amministrativa, atteso che
tale tipo di procedura selettiva non
consiste in una selezione comparativa di
candidati svolta sulla base dei titoli o
prove finalizzate a saggiarne il grado di
preparazione e capacità, da valutare tramite
criteri predeterminati attraverso una
valutazione poi espressa in una graduatoria
finale recante i giudizi attribuiti a tutti
i concorrenti ammessi, ma è invece
finalizzata ad accertare tra coloro che
hanno presentato domanda quale sia il
profilo professionale maggiormente
rispondente alle esigenze di copertura
dall'esterno dell'incarico dirigenziale.
Sicché, secondo i principi espressi in
materia dalle Sezioni unite della
Cassazione, è devoluta alla giurisdizione
del giudice ordinario la controversia
originata dall'impugnazione di atti di una
procedura selettiva finalizzata al
conferimento di incarichi dirigenziali a
carattere non concorsuale, laddove per
concorso si intende la procedura di
valutazione comparativa sulla base dei
criteri e delle prove fissate in un bando da
parte di una commissione esaminatrice con
poteri decisori e destinata alla formazione
di una graduatoria finale di merito dei
candidati, mentre al di fuori di questo
schema l'individuazione del soggetto cui
conferire l'incarico invece costituisce
l'esito di una valutazione di carattere
discrezionale, che rimette
all'amministrazione la scelta, del tutto
fiduciaria, del candidato da collocare in
posizione di vertice, ancorché ciò avvenga
mediante un giudizio comparativo tra
curricula diversi.
---------------
... per la riforma della
sentenza 06.07.2016 n. 3412 del
TAR Campania-Napoli, Sez. V, resa tra le
parti, concernente il mancato scorrimento
della graduatoria concorsuale per il
conferimento dell'incarico di istruttore
direttivo;
...
- Vista l’istanza di Bi.Ca., collocato al
secondo posto di una graduatoria concorsuale
per un posto di istruttore direttivo di
vigilanza nel Comune di Terzigno, istanza
presentata per ottenere lo scorrimento nella
graduatoria allorché la prima classificata
aveva optato a far data dal 16.04.2014 per
altro concorso rendendo vacante il relativo
posto in organico e sulla quale
l’Amministrazione comunale con la nota n.
10487 del 29.07.2014 aveva dapprima fornito
riscontro negativo, provvedendo poi con atto
del Segretario Generale n. 1 del 26.06.2014
ad approvare l’avviso pubblico per il
conferimento dell’incarico di istruttore
direttivo per l’assunzione a tempo
determinato, ex art. 110 del d.lgs. n.
267/2000, di un istruttore tecnico, con
decreto n. 21 del 12.08.2014 ed individuando
in seguito il soggetto cui conferire
l’incarico;
- Visto il ricorso proposto dal Ca. dinanzi
al TAR della Campania avverso il
provvedimento di rigetto pronunciato dal
Comune di Terzigno sulla sua diffida,
unitamente agli atti presupposti e
conseguenti riguardanti il successivo avviso
pubblico;
- Vista la sentenza n. 3412 del 06.07.2016
con la quale il TAR, disattesa l’eccezione
di difetto di giurisdizione sollevata della
mancata censura della procedura concorsuale,
ma solo quella successiva di gestione
riservata alla giurisdizione del giudice
ordinario, rilevando che la controversia
aveva per oggetto il controllo giudiziale
sulla legittimità della scelta discrezionale
sull'opzione alternativa scorrimento/nuovo
concorso appartenente alla categoria degli
interessi legittimi, ed accoglieva il
ricorso, riscontrando la fondatezza del
primo motivo per l’asserita violazione
dell’art. 4, comma 3, della l. n. 125 del
2013, recante il favore del legislatore per
l’utilizzo del meccanismo dello scorrimento
delle graduatorie e la possibilità di
indizione procedure concorsuali solo quale
deroga accompagnata da specifica motivazione
ed ancora la fondatezza del secondo motivo
sullo sviamento di potere, nel senso che la
copertura del posto divenuto disponibile per
le dimissioni del precedente dirigente
dell’Area della Polizia municipale sarebbe
stata realizzata con l’assegnazione
temporanea delle relative funzioni al
dirigente dell’Area tecnica, già in
servizio, e mettendo contestualmente a
concorso -procedura selettiva ex art. 110,
TUEL per l’incarico a tempo determinato-
un’altra posizione di istruttore direttivo
nella medesima Area tecnica, distraendo i
medesimi fondi già messi a disposizione per
il settore vigilanza, il tutto in spregio
all’atto di programmazione triennale di
assunzioni per gli anni 2014/2016, la quale
aveva previsto un’unità da inquadrare
nell’Area tecnica ed altra unità con la
qualifica di responsabile della P.M.;
- Visto l’appello in Consiglio di Stato
proposto il 19.08.2016 con il quale il
Comune di Terzigno impugnava la sentenza in
questione e deduceva nuovamente l’eccezione
di difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo sollevato in primo grado, lo
straripamento di potere del giudice di primo
grado che aveva affermato l’obbligo di
indizione del concorso in controversia,
anche in contrasto con le norme riguardanti
l’obbligo di riduzione della spesa
personale, il divieto di assunzione a tempo
indeterminato per consentire l’assorbimento
del personale delle Province e la
possibilità per gli enti locali di stipulare
contratti temporanei per la polizia
municipale, ribadiva la sussistenza di una
mera selezione a tempo determinato ex art.
110 d.lgs. n. 267 del 2000 per un posto
vacante il tipo D1 per l’area tecnica ed
infine l’inammissibilità dell’impugnazione
originaria per carenza di interesse di atti
relativi all’organizzazione comunale che
nulla avevano a che fare con le pretese del
ricorrente di assunzione presso l’Area
vigilanza;
- Vista la costituzione in giudizio del
dott. Ca., il quale ha concluso per
l’infondatezza dell’appello;
- Ritenuto che appare fondata la prima
censura concernente il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo,
giusta la pacifica giurisprudenza di questa
Sezione, secondo cui le procedure indette ai
sensi dell'art. 110, comma 1, del d.lgs. n.
267 del 2000 nella sua attuale versione: “L'art.
110, comma 1, t.u.e.l., regolante la
procedura, prevede che la copertura dei
posti di responsabili dei servizi o degli
uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante
contratto a tempo determinato "previa
selezione pubblica volta ad accertare, in
capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e
specifica professionalità nelle materie
oggetto dell'incarico".
- Considerato che la procedura in questione,
per quanto rivestita di forme atte a
garantire pubblicità, massima partecipazione
e selezione effettiva dei candidati, non ha
le caratteristiche del concorso pubblico e
più precisamente delle "procedure
concorsuali per l'assunzione dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni" utili a
radicare la giurisdizione amministrativa,
atteso che tale tipo di procedura selettiva
non consiste in una selezione comparativa di
candidati svolta sulla base dei titoli o
prove finalizzate a saggiarne il grado di
preparazione e capacità, da valutare tramite
criteri predeterminati attraverso una
valutazione poi espressa in una graduatoria
finale recante i giudizi attribuiti a tutti
i concorrenti ammessi, ma è invece
finalizzata ad accertare tra coloro che
hanno presentato domanda quale sia il
profilo professionale maggiormente
rispondente alle esigenze di copertura
dall'esterno dell'incarico dirigenziale
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29.05.2017 n.
2526; id., 04.04.2017 n. 1549; id.,
12.05.2016 n. 1888);
- Ritenuto che secondo i principi espressi
in materia dalle Sezioni unite della
Cassazione è devoluta alla giurisdizione del
giudice ordinario la controversia originata
dall'impugnazione di atti di una procedura
selettiva finalizzata al conferimento di
incarichi dirigenziali a carattere non
concorsuale, laddove per concorso si intende
la procedura di valutazione comparativa
sulla base dei criteri e delle prove fissate
in un bando da parte di una commissione
esaminatrice con poteri decisori e destinata
alla formazione di una graduatoria finale di
merito dei candidati, mentre al di fuori di
questo schema l'individuazione del soggetto
cui conferire l'incarico invece costituisce
l'esito di una valutazione di carattere
discrezionale, che rimette
all'amministrazione la scelta, del tutto
fiduciaria, del candidato da collocare in
posizione di vertice, ancorché ciò avvenga
mediante un giudizio comparativo tra
curricula diversi (da ultimo: Cass.,
SS.UU., ord. 08.06.2016, n. 11711,
30.09.2014, n. 20571);
- Considerato perciò che l’appello deve
essere accolto con la riforma integrale
della sentenza e l’inammissibilità del
ricorso di primo grado, mentre la natura
della controversia giustifica l'integrale
compensazione di spese e onorari di giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.10.2017 n. 4684 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a. digitale. Correttivo con il sì del Cds.
Il
Consiglio di stato, in Commissione speciale,
ha espresso parere favorevole, con
osservazioni, sullo schema di decreto
legislativo correttivo del Codice
dell'amministrazione digitale.
Si tratta di una iniziativa normativa (Atto
del Governo n. 452) che -secondo i magistrati di Palazzo Spada- ha
il «condivisile obiettivo» di proseguire
l'opera di modernizzazione e di
razionalizzazione della pubblica
amministrazione, attraverso la sua completa
digitalizzazione per dotare cittadini,
imprese e amministrazioni di strumenti e
servizi idonei a rendere effettivi i diritti
di cittadinanza digitale.
La Commissione speciale (Consiglio di Stato,
commissione speciale,
parere 10.10.2017 n. 2122 -
Schema di decreto legislativo recante
disposizioni integrative e correttive al
decreto legislativo 26.08.2016, n. 179,
concernente “modifiche e integrazioni al
Codice dell’amministrazione digitale di cui
al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai
sensi dell’art. 1 della legge 07.08.2015, n.
124, in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche”) ha però evidenziato
come alcune problematiche di merito -che
sono centrali per la corretta attuazione
della riforma- siano state rinviate
all'adozione di atti applicativi, quali i
decreti del presidente del consiglio dei
ministri (ad esempio per il completo
transito al sistema di comunicazione tramite
domicili digitali) e le linee guida tecniche
che dovranno essere adottate dall'Agenzia
per l'Italia digitale (Agid).
Il Consiglio di Stato ha, pertanto, invitato
l'amministrazione a porre una particolare
attenzione a tale profilo, sottolineando
come i rilevanti compiti attribuiti all'Agid
(ad esempio, l'adozione di pareri vincolanti
e delle linee guida, l'istituzione
dell'ufficio del difensore civico a livello
centralizzato) richiedano un costante
monitoraggio sul funzionamento dell'Agenzia
al fine di assicurare che tale organo sia
dotato delle risorse organiche e finanziarie
necessarie al suo corretto funzionamento.
Infine, come spiega una nota di Palazzo
Spada, sono stati formulati diversi rilievi
di ordine tecnico sia a livello
contenutistico (ad esempio, in tema di
domicilio digitale, di documento informatico
e di requisiti per l'accreditamento) sia
sull'articolato, principalmente al fine di
garantire una maggiore chiarezza del testo e
una corretta applicazione delle innovazioni
previste dal correttivo
(articolo ItaliaOggi del
12.10.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Presupposti
indefettibili delle ordinanze sindacali
contingibili ed urgenti sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in
relazione alla ragionevole previsione di un
danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo
incombente con gli ordinari mezzi offerti
dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere
consentito l'uso di strumenti extra ordinem,
che permettono la compressione di diritti ed
interessi privati con mezzi diversi da
quelli tipici indicati dalle legge.
---------------
V.3. Con il secondo motivo di ricorso
la parte lamenta la violazione dell’art. 50
del d.lgs. n. 267/2000, T.U. sugli EE.LL.
deducendo l’assenza dei presupposti per
l’adozione di un’ordinanza contingibile ed
urgente e, dunque, anche per l’omissione
della comunicazione di avvio del
procedimento finalizzato alla sua adozione.
Sostiene, altresì, che, quanto poi alla
competenza, dovrebbe farsi applicazione del
5° comma del medesimo articolo 50, a norma
del quale, atteso il carattere non
esclusivamente locale della problematica
attinente all’inquinamento da diossina,
legittimata all’adozione del relativo
provvedimento sarebbe l’autorità statale o
la Regione in ragione delle dimensioni
dell’emergenza e dell’interessamento di più
ambiti territoriali.
A tal proposito, individua, quale autorità
competente, il Direttore generale della
A.S.L., unica Amministrazione titolare della
potestà di ordinare l’abbattimento degli
animali.
V.3.1. Le doglianze sono infondate.
V.3.2. Prioritariamente, quanto alla
competenza legata alle dimensioni
dell’emergenza, occorre precisare che la
stessa ha, nel caso specifico, valenza
strettamente locale, essendo circoscritta
all’ambito territoriale del Comune di Nola e
all’inquinamento ivi rilevato: la
legittimazione all’adozione di ordinanze
necessitate da imminenti pericoli di natura
sanitaria e di igiene pubblica va quindi
ascritta al Sindaco, quale rappresentante
della comunità locale.
Conseguentemente, per quanto attiene, poi,
all’attività istruttoria di natura sanitaria
correlata, ovvero la segnalazione della
riscontrata presenza di diossina oltre i
valori soglia consentiti con
rappresentazione della necessità di
abbattimento degli animali risultati
positivi, legittimo deve ritenersi
l’intervento del dirigente del Servizio
veterinario dipartimentale locale,
designato, in relazione alla funzione
espletata, dal Direttore Generale
dell’Azienda sanitaria territorialmente
competente.
Di contro il riferimento all’art. 12
dell’O.M. 14.11.2006 non è pertinente non
attenendo alla contaminazione ambientale,
quale quella derivante da presenza di
diossina, ma a “Misure straordinarie di
polizia veterinaria in materia di
tubercolosi, brucellosi bovina e bufalina,
brucellosi ovi–caprina, leucosi”.
V.3.3. Ciò posto, presupposti indefettibili
delle ordinanze de quibus sono
costituiti:
“a) dall'impossibilità di differire
l'intervento ad altra data, in relazione
alla ragionevole previsione di un danno
incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla
situazione di pericolo incombente con gli
ordinari mezzi offerti dall'ordinamento
giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite
temporale di efficacia, in quanto solo in
via temporanea può essere consentito l'uso
di strumenti extra ordinem, che permettono
la compressione di diritti ed interessi
privati con mezzi diversi da quelli tipici
indicati dalle legge” (TAR Campania,
Napoli, sez. V, 24.03.2017 n. 621,
09.11.2016 n. 5162 e 17.02.2016 n. 860; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016 n. 69;
Cons. di St., sez. V, 26.07.2016 n. 3369)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 09.10.2017 n. 4700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'illegittimità
di una ordinanza sindacale contingibile ed
urgente per l'istituzione di un'area
pedonale permanente ad uso della
cittadinanza.
Il ricorso è fondato e
va accolto per l’assorbente rilievo del
difetto, nell’ipotesi di specie, dei
presupposti per l’adozione dell’ordinanza
contingibile ed urgente ex art. 54, comma 4,
T.U.E.L. e del connesso difetto di
istruttoria e di motivazione in ordine ai
medesimi, dovendo invero l’articolata
censura di incompetenza intendersi
ricompresa nella censura di difetto di
presupposti, essendo innegabile che
l’adozione dell’ordinanza ex art. 54, comma
4, T.U.E.L competa al sindaco, ma essendo
del pari indubbio che solo la ricorrenza dei
presupposti di contingibilità ed urgenza
giustifichi una deroga all’ordine della
competenze, avuto riguardo alla competenza
gestionale generalizzata in capo ai
dirigenti ex art. 107 T.U.E.L., espressione
del principio generale di divisione fra
politica ed amministrazione.
Come è noto, l'ordinanza contingibile ed
urgente prevista dalla citata norma del
predetto decreto legislativo è espressione
di un potere atipico e residuale, il cui
presupposto per l'adozione "extra ordinem" è
il pericolo per l'incolumità pubblica (e/o
per la sicurezza urbana), dotato del
carattere di eccezionalità tale da rendere
indispensabile interventi immediati ed
indilazionabili, consistenti
nell'imposizione di obblighi di fare o di
non fare a carico del privato.
Inoltre, presupposto indefettibile per
l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è
la necessità di intervenire urgentemente con
misure eccezionali e imprevedibili di
carattere "provvisorio", non fronteggiabili
con gli "ordinari" mezzi previsti
dall'ordinamento giuridico e a condizione
della "temporaneità dei loro effetti".
---------------
Quanto al presupposto del pericolo per la
pubblica incolumità, deve ricordarsi anche
quanto costantemente ribadito dalla
giurisprudenza amministrativa in materia
secondo cui:
● “Presupposti per l'adozione da parte del Sindaco dell'ordinanza
contingibile ed urgente sono la sussistenza
di un pericolo irreparabile ed imminente per
la pubblica incolumità, non altrimenti
fronteggiabile con i mezzi ordinari
apprestati dall'ordinamento, e la
provvisorietà e la temporaneità dei suoi
effetti, nella proporzionalità del
provvedimento; non è, quindi, legittimo
adottare ordinanze contingibili ed urgenti
per fronteggiare situazioni prevedibili e
permanenti o quando non vi sia urgenza di
provvedere, intesa come assoluta necessità
di porre in essere un intervento non
rinviabile, a tutela della pubblica
incolumità; aggiungasi che tale potere di
ordinanza presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve
essere suffragata da istruttoria adeguata e
da congrua motivazione, e in ragione di tali
situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura,
di tale tipologia provvedimentale”.
● “In caso di ordinanza contingibile ed urgente, trattandosi di un
provvedimento atipico di carattere "extra
ordinem" non disciplinato in modo puntuale
dalla legge, non può derogare alle norme
costituzionali e comunitarie ed anche ai
principi generali dell'ordinamento
giuridico, come quello comunitario del
rispetto del criterio della proporzionalità,
nel senso che la tutela dell'interesse
pubblico sotteso (incolumità pubblica e/o
sicurezza urbana) deve essere perseguita,
oltre che facendo uso dei precetti della
logica e dell'imparzialità ai quali deve
sempre ispirarsi tutta l'attività
amministrativa, con strumenti idonei a
realizzare gli obiettivi perseguiti (tutela
dell'incolumità pubblica e/o della sicurezza
urbana), senza eccedere, utilizzando misure
non necessarie per la tutela dell'interesse
pubblico, e perciò cercando di incidere sui
soggetti privati nella misura strettamente
necessaria, provocando così il minor
sacrificio possibile dei contrapposti
interessi privati”.
---------------
... per l'annullamento, previa
sospensiva, dell'ordinanza n. 8 emessa dal
sindaco del comune di Cimitile in data
06/05/2016 adottata ai sensi dell'art. 54
del Tuel avente ad oggetto l'istituzione di
un'area pedonale permanente ad uso della
cittadinanza sulla base della considerazione
che l'attuale situazione di generalizzato
parcheggio in cui versa la piazza Conte
Filo, con le relative manovre degli
autoveicoli, costituisce un serio pericolo
per i cittadini che transitano a piedi.
...
7. Il ricorso è fondato e va accolto per
l’assorbente rilievo del difetto,
nell’ipotesi di specie, dei presupposti per
l’adozione dell’ordinanza contingibile ed
urgente ex art. 54, comma 4, T.U.E.L. e del
connesso difetto di istruttoria e di
motivazione in ordine ai medesimi, dovendo
invero l’articolata censura di incompetenza
intendersi ricompresa nella censura di
difetto di presupposti, essendo innegabile
che l’adozione dell’ordinanza ex art. 54,
comma 4, T.U.E.L competa al sindaco, ma
essendo del pari indubbio che solo la
ricorrenza dei presupposti di contingibilità
ed urgenza giustifichi una deroga all’ordine
della competenze, avuto riguardo alla
competenza gestionale generalizzata in capo
ai dirigenti ex art. 107 T.U.E.L.,
espressione del principio generale di
divisione fra politica ed amministrazione.
7.1. Come è noto, l'ordinanza contingibile
ed urgente prevista dalla citata norma del
predetto decreto legislativo è espressione
di un potere atipico e residuale, il cui
presupposto per l'adozione "extra ordinem"
è il pericolo per l'incolumità pubblica (e/o
per la sicurezza urbana), dotato del
carattere di eccezionalità tale da rendere
indispensabile interventi immediati ed
indilazionabili, consistenti
nell'imposizione di obblighi di fare o di
non fare a carico del privato.
7.2. Inoltre, presupposto indefettibile per
l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è
la necessità di intervenire urgentemente con
misure eccezionali e imprevedibili di
carattere "provvisorio", non
fronteggiabili con gli "ordinari"
mezzi previsti dall'ordinamento giuridico e
a condizione della "temporaneità dei loro
effetti" (Corte Cost., sentenze
07.04.2011 n.115 e 01.07.2009, n. 196).
Quanto al presupposto del pericolo per la
pubblica incolumità, deve ricordarsi anche
quanto costantemente ribadito dalla
giurisprudenza amministrativa in materia, da
ultimo anche con la recentissima sentenza
Consiglio di Stato, sez. V, 21/02/2017, n.
774, secondo cui “Presupposti per
l'adozione da parte del Sindaco
dell'ordinanza contingibile ed urgente sono
la sussistenza di un pericolo irreparabile
ed imminente per la pubblica incolumità, non
altrimenti fronteggiabile con i mezzi
ordinari apprestati dall'ordinamento, e la
provvisorietà e la temporaneità dei suoi
effetti, nella proporzionalità del
provvedimento; non è, quindi, legittimo
adottare ordinanze contingibili ed urgenti
per fronteggiare situazioni prevedibili e
permanenti o quando non vi sia urgenza di
provvedere, intesa come assoluta necessità
di porre in essere un intervento non
rinviabile, a tutela della pubblica
incolumità; aggiungasi che tale potere di
ordinanza presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve
essere suffragata da istruttoria adeguata e
da congrua motivazione, e in ragione di tali
situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura,
di tale tipologia provvedimentale”.
7.3. Si è inoltre precisato (ex multis
TAR Genova, (Liguria), sez. I, 19/04/2013,
n. 702) che “In caso di ordinanza
contingibile ed urgente, trattandosi di un
provvedimento atipico di carattere "extra
ordinem" non disciplinato in modo puntuale
dalla legge, non può derogare alle norme
costituzionali e comunitarie ed anche ai
principi generali dell'ordinamento
giuridico, come quello comunitario del
rispetto del criterio della proporzionalità,
nel senso che la tutela dell'interesse
pubblico sotteso (incolumità pubblica e/o
sicurezza urbana) deve essere perseguita,
oltre che facendo uso dei precetti della
logica e dell'imparzialità ai quali deve
sempre ispirarsi tutta l'attività
amministrativa, con strumenti idonei a
realizzare gli obiettivi perseguiti (tutela
dell'incolumità pubblica e/o della sicurezza
urbana), senza eccedere, utilizzando misure
non necessarie per la tutela dell'interesse
pubblico, e perciò cercando di incidere sui
soggetti privati nella misura strettamente
necessaria, provocando così il minor
sacrificio possibile dei contrapposti
interessi privati”.
7.4. In punto di diritto giova al riguardo
notare come la Corte Costituzionale abbia
dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, solo nella
parte in cui il disposto comprendeva la
locuzione "anche" prima delle parole
"contingibili e urgenti" e, quindi,
perché non limitato unicamente a tali ultime
circostanze, in violazione della riserva di
legge relativa di cui all'art. 23
Costituzione (sentenza 07.04.2011 n. 115).
7.5. Il citato art. 54 del D.Lvo 267/2000,
che nella sua versione originaria abilitava
il Sindaco nella sua qualità di Ufficiale di
governo ad emanare ordinanze contingibili ed
urgenti per eliminare gravi pericoli a
livello locale che minaccino l'incolumità
pubblica, è stata oggetto di una incisiva
riforma ad opera del D.L. 92/2008 convertito
in legge 125/2008 ed esteso anche alla "sicurezza
urbana", meglio definita dal decreto del
Ministero dell'interno in data 05.08.2008
(come bene pubblico da tutelare, in ambito
locale, attraverso attività poste a difesa
del rispetto delle norme che regolano la
convivenza civile al fine di migliorare le
condizioni di vivibilità dei centri urbani,
la convivenza civile e la coesione sociale)
ed intesa dalla Consulta come da riferire
esclusivamente alla tutela della sicurezza
pubblica ed in funzione delle relative
attività di prevenzione e repressione dei
reati (Corte Costituzionale, 01.07.2009, n.
196).
Infatti, la titolazione del decreto legge n.
92 del 2008 richiama in modo esplicito la "sicurezza
pubblica" e, nelle premesse del citato
decreto ministeriale, oltre a venire
chiaramente esclusa dall'ambito normativo di
riferimento la polizia amministrativa
locale, si cita anche in maniera espressa, a
suo fondamento giuridico, il secondo comma,
lettera h), dell'art. 117 Costituzione il
quale, secondo la giurisprudenza della
Consulta, attiene appunto alla prevenzione
dei reati e alla tutela dei primari
interessi pubblici sui quali si regge
l'ordinata e civile convivenza nella
comunità nazionale (sentenze n. 237 e n. 222
del 2006, n. 383 del 2005) (Consiglio di
Stato sez. VI, 31/10/2013 n. 5276 ).
7.6. Alla luce delle suddette premesse dalle
quali non è dato evincere specifici e
immediati pericoli per la sicurezza urbana,
intesa nel senso indicato, o l’incolumità
pubblica, e con riguardo alla esposta
situazione di fatto, in assenza di adeguata
motivazione in relazione a tali profili
nell’ordinanza gravata ed in assenza di
richiami in essa, anche per relationem,
a specificai atti istruttori –tra l’altro
non depositati dal Comune che non ha inteso
costituirsi, rinunciando ad assolvere
all’onere probatorio su di lui gravante- il
provvedimento gravato si manifesta, non solo
esorbitante ed eccessivo, ma anche
sproporzionato in relazione al principio di
realtà nel fronteggiare una vicenda non
caratterizzata dalla temporaneità ed
eccezionalità, con effetti durevoli nel
tempo; ed invero in assenza dei citati
presupposti normativi doveva ricorrersi agli
ordinari strumenti amministrativi ad opera
del competente settore municipale, onde
regolamentare diversamente la viabilità ed i
parcheggi della piazza de qua, nella
considerazione peraltro dei contrapposti
interessi in gioco, fra cui quelli degli
operatori, come i ricorrenti, aventi
esercizi commerciali nelle vicinanze, senza
dubbio lesi dal gravato provvedimento.
8. Il ricorso va dunque accolto, con
conseguente annullamento dell’atto gravato
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 09.10.2017 n. 4699 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sospensione
di diritto dalle cariche pubbliche a seguito
di condanna.
---------------
● Giurisdizione - Comuni - Assessore -
Nomina - Da parte di Sindaco neo eletto
condannato in primo grado per abuso
d’ufficio - Impugnazione - Giurisdizione
giudice amministrativo.
● Processo amministrativo - Riti - Cumulo
rito ordinario e rito elettorale - Prevale
il rito elettorale.
● Enti locali - Comuni - Amministratori –
Sospensione dalla carica – Art. 11, comma 1,
lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012 – Per
condanna in primo grado per abuso d'ufficio
– Notifica dell’atto di accertamento – Non
occorre - Ratio.
● Rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo
l’impugnazione dell’atto di nomina di un
assessore da parte del Sindaco neo eletto
che, condannato in primo grado per abuso
d’ufficio, non poteva emettere alcun atto,
in ragione della “sospensione di diritto”,
trattandosi di atti autoritativi concernenti
l’individuazione degli organi da investire
di funzioni pubbliche, ai sensi dell’art. 7
c.p.a. (1).
●
In assenza, nel comma 1 dell’art. 32
c.p.a., della disciplina dell’ipotesi di
cumulo, nello stesso giudizio, di rito
ordinario e di rito elettorale prevale il
rito elettorale, ispirato ad una logica di
particolare rapidità dei giudizi (2).
●
La sospensione di diritto, prevista
dall’art. 11, comma 5, d.lgs. 31.12.2012, n.
235 per coloro che abbiano riportato in
primo grado una condanna per il delitto di
abuso d’ufficio, non presuppone che l’atto
di accertamento sia notificato a chi versa
in tale situazione, producendo tale
sospensione effetto nel momento stesso in
cui vi è la proclamazione degli eletti e
inibendo l’esercizio delle pubbliche
funzioni a chi sia stato già condannato in
sede penale (3).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la giurisdizione del giudice ordinario
si radica sulle controversie aventi ad
oggetto il provvedimento con cui il
Prefetto, ai sensi dell’art. 11, comma 1,
lett. a), d.lgs. 31.12.2012, n. 235 accerta
la sussistenza dei presupposti della
sospensione di diritto, nei confronti di chi
sia stato condannato in primo grado per uno
dei delitti che comportino la medesima
sospensione (Cass. civ., S.U., n. 11131 del
2015).
(2) Il comma 1 dell’art. 32 c.p.a. dispone che “1. È sempre
possibile nello stesso giudizio il cumulo di
domande connesse proposte in via principale
o incidentale. Se le azioni sono soggette a
riti diversi, si applica quello ordinario,
salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro
IV”.
Ad avviso del Tar, nel silenzio della norma
va infatti fatta applicazione del principio,
affermato dal Consiglio di Stato (sez.
V, 17 febbraio 2014, n. 755),
secondo cui –quando una controversia
comunque riguarda la materia elettorale-
rileva la “necessità di definire
rapidamente quali siano le autorità titolati
di poteri pubblici nell’assetto
costituzionale”: questo principio si
applica anche quando sono stati
contestualmente impugnati altri atti per
illegittimità derivata, di cui si prospetti
una sostanziale unicità procedimentale.
(3) In altri termini, ad avviso del Tar, l’inibizione all’esercizio
delle pubbliche funzioni non discende
dall’atto del Prefetto (che accerta la
sussistenza della causa di sospensione, al
fine di renderlo noto “agli organi che
hanno convalidato l’elezione o deliberato la
nomina”), tanto che neppure l’atto va
notificato all’interessato, ma dipende dalla
preclusione derivante di per sé dalla
condanna di primo grado.
Diversamente opinando, e cioè se si
ammettesse che, prima dell’emanazione
dell’atto del Prefetto, il candidato
risultato eletto possa porre in essere atti
nella qualità conseguente alla
proclamazione, si verificherebbe una
elusione delle disposizioni dell’art. 11,
d.lgs. n. 235 del 2012.
Si ammetterebbe cioè che il candidato
risultato eletto, pur se sospeso di diritto
dall’esercizio delle funzioni, potrebbe
ugualmente disporre una nomina di carattere
fiduciario, di per sé avente una decisiva
incidenza sulla designazione di tutti gli
assessori, ciò che urterebbe con le ragioni
poste a base della sospensione di diritto
(cioè la sussistenza di una ‘indegnità’
tale da comportare l’assenza di un requisito
essenziale per ricoprire l’ufficio, sulla
base di una valutazione del legislatore,
considerata ragionevole dalla Corte cost.
con la sentenza n. 236 del 2015) (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.10.2017 n. 862 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti in house, ok se
c'è l'interesse generale. Sentenza
della Corte di giustizia europea sulle
ferrovie lituane.
L'esclusione
dall'obbligo di gara per una società
affidataria in house dipende dalle finalità
perseguite (di interesse generale e non
commerciali o industriali) e dal nesso
funzionale delle attività rispetto alla
società controllante; il fatto che operi in
concorrenza e non per interessi generale
deve essere valutato in concreto.
E' quanto
ha chiarito la Corte di giustizia europea
nell'importante
sentenza
05.10.2017 - causa C-567/15 che analizza
la disciplina in materia di «organismo di
diritto pubblico» partendo da una
fattispecie concreta insorta nella vigenza
della direttiva 2004/18 che, sul punto,
contiene peraltro una disciplina analoga a
quella della 2014/24, trasfusa nel codice
dei contratti pubblici all'articolo 3, comma
1, lettera d).
La questione oggetto di giudizio riguardava
una società commerciale lituana (Vldr)
costituita nel 2003 il cui oggetto sociale
consiste nella fabbricazione e nella
manutenzione di locomotive, vagoni nonché
macchine motrici elettriche e veicoli a
motore. La società è una controllata della
società ferroviaria statale lituana (suo
socio unico) che era, all'epoca dei fatti,
il principale cliente della Vlrd, i cui
ordini rappresentavano circa il 90% del
fatturato di tale società.
Si trattava
quindi di accertare se una società (come la Vldr) che, da un lato, è detenuta
interamente da un'amministrazione
aggiudicatrice la cui attività consiste nel
soddisfare esigenze di interesse generale e
che, dall'altro, effettua sia operazioni per
tale amministrazione aggiudicatrice sia
operazioni sul mercato concorrenziale,
potesse essere qualificata come organismo di
diritto pubblico.
I giudici, preso atto che l'attività della
società controllante (prestazione dei
servizi pubblici di trasporto di passeggeri)
depone per la sua attrazione nella categoria
degli organismi di diritto pubblico e,
pertanto, operante come amministrazione
aggiudicatrice, analizzano la natura
giuridica della controllata Vldr.
A tale
riguardo, accertato che il controllo è al
100%, la sentenza verifica se sussista anche
il secondo elemento, cioè che sia un
organismo istituito per soddisfare
specificatamente esigenze di interesse
generale aventi carattere non industriale o
commerciale. Anche su questo punto la Corte
evidenzia che effettivamente «le esigenze
del cui soddisfacimento la Vlrd è stata
investita costituiscono una condizione
necessaria per l'esercizio delle attività di
interesse generale di tale società
controllante».
Il fatto poi che in futuro possa operare sul
mercato, in concorrenza con altri operatori
(quindi con uno scopo di lucro e subendo le
perdite collegate all'esercizio di dette
attività), è elemento non sufficiente per
escludere la natura di amministrazione
aggiudicatrice della società.
Per i giudici «l'esistenza di una
concorrenza articolata non consentirebbe, di
per sé, di concludere per la mancanza di
un'esigenza di interesse generale avente
carattere non industriale o commerciale». Va
verificato in concreto se la società «si
lasci guidare da considerazioni diverse da
quelle economiche» ed è irrilevante il fatto
che il valore delle operazioni interne possa
in futuro rappresentare meno del 90%, o una
parte non essenziale, del fatturato totale
della società
(articolo ItaliaOggi del
13.10.2017).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta
Sezione) dichiara:
L’articolo 1, paragrafo 9,
secondo comma, della direttiva 2004/18/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del
31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, come modificata dal regolamento
(UE) n. 1251/2011 della Commissione, del
30.11.2011, deve essere interpretato nel
senso che una società che, da un lato, è
detenuta interamente da un’amministrazione
aggiudicatrice la cui attività consiste nel
soddisfare esigenze di interesse generale e
che, dall’altro, effettua sia operazioni per
tale amministrazione aggiudicatrice sia
operazioni sul mercato concorrenziale, deve
essere qualificata come «organismo di
diritto pubblico» ai sensi di tale
disposizione, purché le attività di tale
società siano necessarie affinché detta
amministrazione aggiudicatrice possa
esercitare la sua attività e, al fine di
soddisfare esigenze di interesse generale,
tale società si lasci guidare da
considerazioni diverse da quelle economiche,
circostanze che spetta al giudice del rinvio
verificare.
Non incide, a tale riguardo, il fatto che il
valore delle operazioni interne possa in
futuro rappresentare meno del 90%, o una
parte non essenziale, del fatturato totale
della società. |
INCARICHI PROGETTUALI: No a pratiche al
ribasso. Prestazioni professionali da
salvaguardare. L'importanza
dell'equo compenso anche alla luce della
sentenza del Cds.
Sono giorni che nel mondo delle professioni
si discute della
sentenza 03.10.2017 n. 4614 emessa dal
Consiglio di Stato. Questa
pronuncia, che segna una discutibile svolta
della giurisprudenza nell'ambito dei
contratti d'appalto sottoscritti con la
Pubblica amministrazione, interviene in un
momento storico, forse decisivo per la
riqualificazione delle professioni.
Da
diversi mesi, infatti, è in atto l'iter
parlamentare per l'approvazione della legge
sull'equo compenso. Inizialmente pensato
esclusivamente per le sole professioni
legali, introducendo anche la nullità
dell'accordo concluso tra avvocato e
committente «forte» (ovvero banche,
assicurazioni o imprese di grandi
dimensioni) qualora il compenso pattuito non
fosse stato proporzionato alla quantità e
alla qualità del lavoro svolto e alle
caratteristiche della prestazione legale, il
disegno di legge è diventato oggetto
d'interesse di tutte le categorie
appartenenti al mondo della libera
professione (consulenti del lavoro,
commercialisti ecc.). Infatti, è noto che il
ddl sull'equo compenso per la categoria
degli avvocati è stato collegato nel
dibattito parlamentare al ddl dedicato ad
una remunerazione proporzionata di tutte le
prestazioni professionali, comprese anche
quelle non ordinistiche (cfr. legge n.
4/2013).
Se da una parte, dunque, il
parlamento cerca di disegnare una nuova
disciplina volta a consegnare delle regole
ad un mercato, quello della libera
professione, che è stato sempre dipinto come
uno spazio privo di regolamentazione,
dall'altra la giurisprudenza amministrativa
rivisita le caratteristiche del «contratto a
titolo oneroso» nell'ambito dell'appalto ex
art. 3 dlgs 12.04.2016, n. 50, in una
fase in cui anche il consulente del lavoro
rincorre il mercato dei servizi per la
pubblica amministrazione.
Per il Consiglio
di stato, il contratto a titolo oneroso
disciplinato dal dlgs n. 50/2016 «può
assumere per il contratto pubblico un
significato attenuato o in parte diverso
rispetto all'accezione tradizionale» poiché
il vincitore della gara d'appalto, nel
momento realizzativo dell'oggetto del
contratto rispetto al quale non riceve
nessun compenso se non una somma a titolo di
rimborso spese documentate, ne può ricavare
«altri vantaggi, economicamente apprezzabili
anche se non direttamente finanziari,
potenzialmente derivanti dal contratto».
Di
conseguenza, la prestazione professionale
«non può essere considerata come vicenda
gratuita, ma va posta in stretta relazione,
nei termini propri dell'equilibrio
sinallagmatico, con il valore della
controprestazione», ovvero un «ritorno
d'immagine» professionale. L'orientamento
dei giudici fa leva anche sull'entrata nel
mercato dei contratti pubblici del c.d.
terzo settore, soggetti che perseguono scopi
sociali e mutualistici ma non di lucro. A
questi soggetti non è possibile estendere il
c.d. principio dell'utile necessario.
Secondo i giudici, questa apertura
interpretativa consente di ritenere che
l'utile finanziario non è elemento
indispensabile per la serietà e
l'affidabilità dell'offerta, che non può
essere –tornando al caso di specie–
valutata solo ed esclusivamente in relazione
al compenso economico del professionista.
Questo orientamento sembra non aver
risentito della modifica del dlgs n.
50/2016, che all'art. 24, comma 8, così come
modificato dal dlgs n. 56/2017, introduce un
equo compenso anche per i contratti pubblici
quale «importo da porre a base di gara
dell'affidamento».
In tale quadro, è
possibile ipotizzare che la richiesta
proveniente del mondo della rappresentanza
delle professioni di intervenire sul tema
dell'equo compenso sia stata generata non
solo dall'esigenza di porre delle regole in
un mercato tradizionalmente «libero» ma
anche da un'avvertita responsabilità di
arginare quelle pessime pratiche al ribasso
che spesso il mondo professionale ha
generato
(articolo ItaliaOggi del
13.10.2017). |
INCARICHI PROGETTUALI: Per
il Cds incarichi professionali gratis.
Con la
recentissima
sentenza 03.10.2017 n. 4614, la
V Sez. del Consiglio di Stato,
riformando la pronuncia di primo grado (Tar
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 2435),
ha affermato un principio in virtù del quale
la normativa europea e nazionale che
disciplina gli appalti pubblici non
osterebbe alla possibilità che una stazione
appaltante metta a gara un servizio
professionale, senza prevedere alcuna
remunerazione in favore del prestatore del
servizio.
Si tratta di un inaspettato
arretramento delle soglie di garanzia che
l'ordinamento giuridico, sia pure a fatica,
aveva costruito negli ultimi anni a tutela
della dignità e del decoro del libero
professionista che, con questa sentenza si
troverebbe a poter lavorare senza alcun
compenso in denaro e le Amministrazioni
Pubbliche sono legittimate a bandire gare
per l'affidamento di incarichi tecnici da
svolgere gratis, con un rimborso spese,
sostenendo quindi che il mancato guadagno
economico possa essere sufficientemente
compensato da un ritorno di immagine.
Secondo i giudici del Consiglio di stato
quindi è legittimo che il libero
professionista possa essere chiamato a
contribuire direttamente col proprio lavoro,
oltre che fiscalmente, all'economia del
Paese, dimenticando che per essere un libero
professionista bisogna anche essere un
professionista libero, libero da
condizionamenti
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Zero compenso, qualità zero. Anche
dai professionisti, remunerati, un aiuto
alla ripresa.
L'appello di architetti e ingegneri a
riconoscere il diritto a una giusta
retribuzione.
L'Italia è una penisola soggetta a grandi
rischi naturali: terremoti, alluvioni,
frane. Conviviamo con fenomeni atmosferici,
dissesto idrogeologico ed eventi sismici
sempre più frequenti e intensi che si
manifestano con sempre maggiore continuità e
gravità.
Fenomeni spesso imprevedibili e difficili da
controllare, a cui si somma una crisi
economica che ha colpito in modo particolare
il comparto dell'edilizia.
Il nostro territorio, il patrimonio
immobiliare e le infrastrutture pubbliche,
di cui il 75% costruito prima del 1981 in
assenza di normative antisismiche, hanno
subito e ne subiscono pesantemente le
conseguenze, molto spesso con un prezzo
elevatissimo di perdita di vite umane.
Queste considerazioni di ampio respiro
costringono tutti noi, cittadini, liberi
professionisti, amministratori pubblici,
classe politica e dirigente del Paese, a una
serie di profonde riflessioni su come potere
intervenire per evitare, o quantomeno
minimizzare, gli effetti catastrofici delle
calamità naturali, sia dal punto di vista
economico che, soprattutto, per la sicurezza
delle persone.
Dobbiamo uscire dagli schemi del passato con
nuove progettualità, che possano aprire
scenari produttivi capaci di mettere in
sicurezza il Paese e ridare fiato
all'economia nel rispetto del territorio e
della sua vitalità. L'Italia è straordinaria
per le sue peculiarità, merita un'attenzione
totale in modo da garantirne
contemporaneamente la sostenibilità
economica e ambientale, la sicurezza e la
qualità del costruire.
Un Paese, il nostro, che sul piano della
qualità ha saputo far crescere e valorizzare
personaggi che con le loro idee, le loro
opere, il loro mestiere hanno fatto la
storia dell'arte e dell'architettura, in
modo unico e riconosciuto nel mondo.
Ora, purtroppo, quello spirito sembra
essersi spento o almeno assopito, quello
spirito artistico che ci ha consegnato un
patrimonio di ineguagliabile valore storico
e architettonico è stato sopraffatto in nome
del valore economico e della concorrenza:
massimo sfruttamento del territorio
accompagnato dalla regola prevalente del
maggior profitto per l'operatore privato,
deboli controlli e gare al massimo ribasso,
nell'ottica di un risparmio economico per il
settore pubblico. Il tutto con poca
attenzione all'ambiente, alla qualità delle
opere, alla salute e alla sicurezza. A farne
le spese è l'Italia intera, perdendo il
riconoscimento e la credibilità costruite in
decenni di lavoro nel passato; a pagare il
prezzo maggiore è il nostro territorio, con
le sue ricchezze e le sue fragilità.
Abbiamo opere architettoniche con secoli e
secoli di storia che meravigliano il mondo
intero, ma abbiamo anche moderni viadotti in
cemento armato con 10-20 anni di vita che ci
crollano addosso.
I prossimi anni saranno determinanti per il
futuro del nostro Paese e della nostra
professione.
Il territorio, con tutte le sue componenti,
può essere il volano di nuove economie che,
sull'esempio di realtà più virtuose, possono
essere in grado di contrastare e superare
questa difficile fase.
Per fare questo bisogna però ristabilire dei
valori morali ed etici, oggi ampiamente
assenti in gran parte degli operatori del
settore, di ogni ordine e grado, privati e
pubblici, che hanno influenzato e
condizionato lo sviluppo del nostro
territorio dagli anni 60 a oggi.
Sostenere e diffondere una nuova cultura
degli interventi sul territorio significa
passare necessariamente dal coinvolgimento e
dalla sensibilizzazione di tutta la filiera
produttiva, progettisti, imprenditori,
piccole e grandi imprese, politici,
amministratori e uffici tecnici locali, per
arrivare ai cittadini. Questo è il nostro
compito, la nostra responsabilità nei
confronti delle generazioni future.
Bisognerebbe ritornare al mecenatismo del
passato, ove la grandezza dell'uomo si
identificava con la grandezza degli
interventi architettonici: abbiamo tanti
esempi di ciò che sono giunti a noi dal
passato e sono oggi ammirati e invidiati da
tutto il mondo.
Ogni intervento sul territorio, ogni opera
costruita, anche il più piccolo intervento
privato, diventa alla fine un'opera di
interesse pubblico, sotto gli occhi di
tutti. Non dimentichiamo che quanto
costruito, bene o male, sopravvivrà sul
territorio per generazioni e generazioni,
lasciando il segno dei nostri tempi e della
nostra cultura a chi verrà dopo di noi.
Proprio come i nostri antenati hanno saputo
dimostrarci lasciando le tracce della loro
storia nelle costruzioni che sono giunte a
noi. La nostra architettura contemporanea
deve essere pensata per parlare
all'avvenire, al prossimo, deve essere cioè
un testimone del nostro tempo, che diventerà
per le generazioni future un momento di
riflessione e di memoria.
Bisognerebbe ristabilire un patto tra le
generazioni, quelle del passato che ci hanno
trasmesso il patrimonio storico, la nostra
con le architetture contemporanee che siamo
in grado di esprimere, e quelle future che
ci giudicheranno.
Questo patto che lega una generazione
all'altra si manifesta a prima vista proprio
nell'architettura e nella memoria che essa
trasmette nel tempo. Ma perché questa
memoria si possa conservare e il patto tra
le generazioni possa essere mantenuto,
occorre pensare a interventi di qualità che
facciano della propria permanenza sul
territorio, e nel tempo, un principio guida.
Oggi noi lavoriamo confrontandoci con opere
del passato, anche del recente passato,
tutelate e gravate da un vincolo storico o
monumentale, ma c'è da domandarsi cosa
avranno da tutelare coloro che verranno dopo
di noi rispetto a quanto costruito negli
ultimi 50-60 anni.
Serve quindi un'azione di responsabilità che
deve portare in primo piano, insieme alla
sostenibilità e alla sicurezza, la qualità
del costruire in tutte le fasi, a partire
dalla prima progettazione.
Sono temi di cui discutiamo, anche
animatamente, dopo ogni evento catastrofico
che causa morti e feriti e lascia senza casa
intere famiglie. Ma sono argomenti che,
purtroppo, ancora oggi sembra rimangano solo
nei dibattiti pubblici, dato che i segnali
che riceviamo sempre più spesso dalle
istituzioni sembrano indicare tutt'altra
direzione.
In un momento così particolare per il nostro
Paese e per la nostra professione, in cui
c'è bisogno di grande sicurezza e qualità
del costruire, le istituzioni e i media
spingono l'opinione pubblica verso l'idea
che la liberalizzazione delle professioni
porterebbe alla soluzione dei problemi
economici dell'Italia. È quindi paradossale
che oggi il dibattito non si concentri sulla
qualità del costruire e in generale sulla
qualità delle prestazioni professionali, ma
privilegi il mero risparmio economico, con
effetti (se davvero dovessero esserci)
perlopiù solo nel breve periodo. Le
conseguenze le pagheremo solo col tempo.
Di questa deleteria direzione ne è un
esempio la recente sentenza del Consiglio di
stato che ha ribaltato il pronunciamento del
Tar Calabria dichiarando, quindi, legittima
la gara bandita dal Comune di Catanzaro per
la redazione del Piano Strutturale della
città con un compenso simbolico di 1 euro.
Un incarico lungo, delicato, complesso e
multidisciplinare dal quale scaturiscono le
azioni di tutela e sviluppo di una intera
comunità territoriale, e che mette in gioco
grandi interessi pubblici e privati.
Come si fa anche solo a pensare che col
lavoro gratuito, solo il nostro tra l'altro,
ci possa essere un futuro per i nostri
giovani colleghi, per noi e per i nostri
figli, per il Paese intero?
Le prestazioni professionali tecniche, al
pari di ogni altro lavoro, devono essere
compensate per l'effettiva quantità e
qualità del lavoro svolto. La nostra Carta
Costituzionale, all'articolo 36, non
potrebbe essere più chiara: «Il lavoratore
ha diritto a una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e
alla famiglia un'esistenza libera e
dignitosa».
Senza un adeguato compenso al lavoro
professionale si aprono, tra l'altro, le
porte al peggiore dei mali del nostro Paese:
la corruzione. L'argine a tutto ciò potrebbe
essere l'equo compenso, un tema che è
terreno di numerose battaglie, anche
parlamentari. Ma ancora prima di ciò si
tratta di una questione di dignità e onestà.
Come Fondazione Inarcassa lo diciamo a gran
voce non solo in tutela dei 170 mila
architetti e ingegneri liberi professionisti
che ogni giorno, nonostante le oggettive
difficoltà e la burocrazia, si dedicano al
proprio lavoro con grande professionalità,
ma soprattutto per il futuro del nostro
Paese: chiediamo ancora una volta alla
classe politica, alla classe dirigente che
ci governa un sistema che garantisca la
qualità delle prestazioni, delle opere e
della sicurezza dei nostri concittadini. Non
intervenire a seguito di quanto sentenziato
dal Consiglio di stato significherebbe
dichiarare la definitiva condanna a morte
delle libere professioni
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2017). |
APPALTI: Oneri sicurezza
interni e soccorso istruttorio. Restano
in gara le offerte congrue.
E' illegittima
l'esclusione automatica per mancata
indicazione nell'offerta degli oneri di
sicurezza interni; è possibile applicare il
soccorso istruttorio se non sussiste
incertezza sulla congruità dell'offerta.
E'
quanto ha affermato la
sentenza
03.10.2017 n. 4611 del TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
che si esprime su una questione che vede due
orientamenti giurisprudenziali contrapposti.
Il primo a favore della legittimità
dell'automatismo espulsivo dell'offerta che
non abbia rispettato l'obbligo di indicare
gli oneri di sicurezza cosiddetti interni o
aziendali prescritto dall'art. 95, comma 10,
del nuovo codice degli appalti; il secondo
contrario al meccanismo automaticamente
espulsivo nel vigore del nuovo codice dei
contratti pubblici.
Il collegio campano si è schierato a favore
di questo secondo orientamento raccordandosi
alle considerazioni svolte dall'Adunanza
Plenaria nella decisione n. 19/2016 che ha
distinto le ipotesi in cui si contesta al
concorrente di avere formulato un'offerta
economica senza considerare i costi
derivanti dal doveroso adempimento dei
obblighi di sicurezza a tutela dei
lavoratori (l'incertezza assoluta sul
contenuto dell'offerta determina
l'esclusione), da quelle in cui si contesta
soltanto che l'offerta non specifica la
quota di prezzo corrispondente ai predetti
oneri (nessuna esclusione e possibilità di
applicare il soccorso istruttorio).
Il punto che il Tar pone è se questa
impostazione dell'Adunanza plenaria
(relativa ad una gara precedente il decreto
50/2016) sia applicabile anche dopo il 19.042016 (data di entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici).
Il Collegio si esprime positivamente con la
conseguenza che la mancata indicazione da
parte del concorrente ad una gara d'appalto
degli oneri di sicurezza interni alla
propria offerta non consente l'esclusione
automatica di quest'ultima, senza il previo
soccorso istruttorio, tutte le volte in cui
non sussista incertezza sulla congruità
dell'offerta stessa, anche con riferimento
specifico alla percentuale di incidenza
degli oneri, ed il bando non preveda
espressamente la sanzione dell'esclusione
per il caso dell'omessa precisazione dei
suddetti costi
(articolo ItaliaOggi del
13.10.2017).
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MASSIMA
Il ricorso si presenta fondato nei
termini appresso indicati e, in quanto tale,
va accolto.
Premesso che in materia di appalti, secondo
quanto disposto dall’art. 120, co. 6 e 10,
c.p.a., “tutti gli atti di parte e i
provvedimenti del giudice devono essere
sintetici e la sentenza è redatta,
ordinariamente, in forma semplificata”,
e che la motivazione della sentenza in forma
semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a.,
“può consistere in un sintetico
riferimento al punto di fatto o di diritto
ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad
un precedente conforme”, devono
ritenersi risolutive le censure dedotte
dalla ricorrente con il primo motivo di
ricorso avverso la sua esclusione dalla
procedura di gara per cui è causa.
Nel caso in esame con verbale n. 3 del
05.05.2017 la Commissione aveva disposto
l’esclusione della Pu. s.r.l. in quanto
dall’esame della documentazione contenuta
nell’offerta economica aveva rilevato “l’insussistenza
della dichiarazione degli oneri per la
sicurezza aziendale interni” “trattandosi
di indicazione richiesta obbligatoriamente
ex art. 95, comma 10, del D.Lgs. 50/2016,
non essendo ammissibile il soccorso
istruttorio ex art. 83, comma 9, del D.Lgs.
50/2016”.
La questione centrale posta
dall’odierno gravame concerne, pertanto, la
questione della applicabilità, nelle gare
bandite dopo l’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 50/2016, dell’istituto del soccorso
istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del
predetto decreto legislativo in caso di
omessa indicazione nell’offerta economica
dei costi aziendali di sicurezza di cui
all’art. 95, comma 10, al fine di stabilire
se la stazione appaltante abbia
legittimamente escluso immediatamente ed
automaticamente dalla gara la società
ricorrente.
Al riguardo, premesso che si sono registrati
due orientamenti giurisprudenziali
contrapposti, uno a favore della
legittimità dell’automatismo espulsivo
dell’offerta che non abbia rispettato
l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza
c.d. ‘interni o aziendali’ prescritto
dall’art. 95, comma 10, del nuovo codice
degli appalti, ed uno contrario al
meccanismo automaticamente espulsivo nel
vigore del nuovo codice (cfr. sentenza TAR
Lazio, Sezione I-bis, 15.06.2017, n. 7042
alla quale si rinvia per i richiami ad
entrambi gli orientamenti
giurisprudenziali), il
Collegio ritiene di aderire a tale secondo
orientamento sulla base delle considerazioni
svolte dall’Adunanza Plenaria nella
decisione n. 19/2016, nonché della
successiva sentenza della Corte di giustizia
dell’UE 10.11.2016, C-140/16, C-697/15,
C-162/16 - che ha ribadito i principi già
sanciti dalle sentenze richiamate
dall’Adunanza Plenaria.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale
dell’Adunanza Plenaria n. 19/2016,
l’iniziale interpretazione, secondo
cui “gli oneri di sicurezza rappresentano
un elemento essenziale dell'offerta,
insuscettibile, come tale, di essere
successivamente integrato” (Cons. St.,
AP n. 3 e 9 del 2015), è stata superata,
operando un opportuno distinguo tra le
ipotesi “in cui si contesta al
concorrente di avere formulato un'offerta
economica senza considerare i costi
derivanti dal doveroso adempimento dei
obblighi di sicurezza a tutela dei
lavoratori. In questa ipotesi, vi è
certamente incertezza assoluta sul contenuto
dell'offerta e la sua successiva sanatoria
richiederebbe una modifica sostanziale del
"prezzo" (perché andrebbe aggiunto l'importo
corrispondente agli oneri di sicurezza
inizialmente non computati)”.
Laddove, invece, non è in discussione
l'adempimento da parte del concorrente degli
obblighi di sicurezza, né il computo dei
relativi oneri nella formulazione
dell'offerta, ma si contesta soltanto che
l'offerta non specifica la quota di prezzo
corrispondente ai predetti oneri, la
carenza, allora, non è sostanziale, ma solo
formale. In questo caso il soccorso
istruttorio, almeno nei casi in cui ricorre
la situazione sopra descritta di affidamento
ingenerato dalla stazione appaltante, è
doveroso, perché esso non si traduce in una
modifica sostanziale del contenuto
dell'offerta, ma solo nella specificazione
formale di una voce che, pur considerata nel
prezzo finale, non è stata indicata
dettagliatamente.
In questi termini, quindi, deve essere "chiarito"
il principio di diritto indicato nella
sentenza dell'Adunanza plenaria n. 9 del
2015, mitigando il rigore di un esito
applicativo che, altrimenti, risulterebbe “sproporzionato
ed iniquo”
(Cons. St., AP n. 19 e 20 del 2016).
Ebbene, il Collegio ritiene
che il principio espresso dall’Adunanza
Plenaria –riferito alle gare bandite prima
dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.
50/2016– sia applicabile anche con
riferimento a gare, come quella di cui si
discute, bandite in vigenza del nuovo codice
dei contratti pubblici
(cfr. TAR Brescia, Sez. II, 14.07.2017, n.
912, TAR Palermo, Sez. III, 15.05.2017, n.
1318).
Pertanto la mancata
indicazione da parte del concorrente ad una
gara d’appalto degli oneri di sicurezza
interni alla propria offerta non consente
l’esclusione automatica di quest’ultima,
senza il previo soccorso istruttorio, tutte
le volte in cui non sussista incertezza
sulla congruità dell’offerta stessa, anche
con riferimento specifico alla percentuale
di incidenza degli oneri, ed il bando non
preveda espressamente la sanzione
dell’esclusione per il caso dell’omessa
precisazione dei suddetti costi
(cfr. TAR Lazio, Sez. II-ter, 20.07.2017, n.
8819).
Infatti, posta la natura
formale dell’omissione nei termini
considerati dalla sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 19/2016, non essendo in
contestazione la quantificazione effettiva
dei costi che la concorrente ha indicato, né
la sostenibilità del prezzo offerto, né la
loro congruità, non può non venire in
rilievo l’ampia formulazione dell’art. 80,
comma 9, del d.lgs. 50/2016 che consente il
soccorso istruttorio con riferimento a
qualsiasi “elemento formale” della
domanda.
Vero è che la previsione di
cui all’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n.
50/2016 esclude la esperibilità del soccorso
istruttorio nei casi di irregolarità
afferente all’offerta economica: ma si
tratta di irregolarità “essenziali”
ovvero di quei medesimi elementi che
introducono un elemento di incertezza
sostanziale dell’offerta, ai quali si
riferisce la motivazione della sentenza n.
19/2016 dell’Adunanza Plenaria nella parte
sopra riportata.
A diversamente ritenere
-laddove cioè si concludesse circa la
radicale non sanabilità della irregolarità
formale dell’offerta pure in assenza di
contestazioni circa la sua congruità
effettiva- si determinerebbe, per il tramite
della sanzione dell’esclusione, una
conseguenza manifestamente sproporzionata
rispetto alla ratio di tutela della
previsione in esame (che si propone di
assicurare, tramite la esternazione della
percentuale dei costi di sicurezza interni,
la vincolatività di essi per l’operatore
economico ed al contempo la possibilità di
valutarne la congruenza prima
dell’aggiudicazione dell’appalto); si
tratterebbe di una applicazione del
principio funzionale solamente alla
introduzione di meri formalismi nel
procedimento di gara, del tutto inidonei ad
assicurare la verifica della sussistenza di
effettive ricadute concrete sullo
svolgimento del confronto concorrenziale,
sulla par condicio dei concorrenti, nonché
sull’effettività e regolarità del giudizio
circa la migliore offerta cui aggiudicare
l’incanto
(cfr. TAR Lazio, Sez. II-ter, 20.07.2017, n.
8819 cit.).
Passando ad esaminare la fattispecie oggetto
di gravame alla luce della sopra richiamata
giurisprudenza, occorre rilevare che, come
prospettato da parte ricorrente, la legge di
gara non prevedeva espressamente la sanzione
dell’esclusione per il caso dell’omessa
precisazione dei costi della sicurezza
nell’offerta, il modulo predisposto dalla
stazione appaltante non contemplava alcuna
indicazione in merito alla necessità di
indicare i detti oneri, e non è stato
contestato a parte ricorrente che, dal punto
di vista sostanziale, l’offerta non
rispettasse i costi minimi di sicurezza
aziendale, con la conseguenza che l’offerta
presentata dalla società ricorrente non
avrebbe potuto, sic et simpliciter,
essere esclusa dalla procedura di gara per
la mancata indicazione dei costi interni di
sicurezza.
Conclusivamente, alla luce dei su illustrati
motivi, il ricorso va accolto sulla base
delle censure articolate con il primo
motivo di ricorso, con assorbimento
delle restanti doglianze.
Per l'effetto va annullata l’esclusione
disposta nei confronti della ricorrente Pu.
s.r.l. e, quale effetto caducante per
invalidità derivata, vanno annullati i
successivi atti di gara, ivi compresa
l'aggiudicazione disposta in favore della Mu.
s.p.a., con conseguente declaratoria di
inefficacia del contratto eventualmente
stipulato, da differirsi, però, soltanto al
momento dell’eventuale esito favorevole alla
ricorrente della rinnovazione in parte qua
delle operazioni di gara, cui la stazione
appaltante è obbligata quale effetto
conformativo della presente sentenza.
Quanto, infine, alla domanda risarcitoria,
parte ricorrente ha chiesto in via
principale il subentro nell’esecuzione del
servizio e fino alla scadenza dello stesso,
oltre al risarcimento per equivalente
monetario relativamente al periodo nel quale
il servizio è stato svolto dall’odierna
aggiudicataria.
Quanto al subentro, esso deve ritenersi
possibile nel caso di specie (ai sensi
dell’art. 122 cod. proc. amm.) in quanto la
durata del servizio oggetto di gara è di
anni due e non sono stati evidenziati
particolari ostacoli al subentro nel
rapporto, né questi emergono aliunde,
considerata anche la natura del servizio da
svolgere.
Al riguardo occorre precisare che il
soddisfacimento della pretesa azionata passa
necessariamente per la rinnovazione in
parte qua delle operazioni di gara,
posto che il subentro della ricorrente,
quale aggiudicataria del servizio, si
presenta subordinato all’espletamento del
soccorso istruttorio a suo tempo omesso e
alla positiva conclusione della gara, nonché
ad ulteriori verifiche circa il possesso dei
prescritti requisiti di legge in capo alla
ditta, da operare evidentemente a cura
dell'ente appaltante.
Deve inoltre ritenersi
meritevole di accoglimento la richiesta di
risarcimento per equivalente monetario
relativamente al periodo nel quale il
servizio è stato svolto dall’odierna
aggiudicataria.
Ed invero devono ritenersi
sussistenti tutti gli elementi richiesti
dall’articolo 2043 c.c. ai fini della
configurazione della responsabilità
extracontrattuale della stazione appaltante,
tenuto conto che quanto all’elemento
soggettivo in materia di appalti il regime
della responsabilità presenta una
significativa peculiarità, indotta da un
principio enunciato dalla Corte di Giustizia
a partire dalla sentenza 30.09.2010 nella
causa C. 314/2009, recepito dalla
giurisprudenza nazionale sia in ambito di
gare soprasoglia che sottosoglia
(cfr. TAR Piemonte, Sezione II, 06.06.2017,
n. 702).
Ed invero, in ordine al
requisito della colpa dell’amministrazione,
il costante orientamento giurisprudenziale
in materia di risarcimento da mancato
affidamento di gare pubbliche di appalto,
affermatosi successivamente alla suddetta
sentenza della Corte di Giustizia, e dal
quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi, ritiene che non è necessario
provare la colpa dell’amministrazione poiché
il rimedio risarcitorio risponde al
principio di effettività previsto dalla
normativa comunitaria
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
17.02.2017, n. 731, TAR Campania, Napoli,
Sez. I, 20.04.2017, n. 2168, TAR Lazio,
Roma, Sez. II-bis, 03.05.2017, n. 5182).
Venendo alla determinazione
del quantum del risarcimento
richiesto, si ritiene di poterlo
commisurare, in via equitativa, nel 5% del
valore del contratto
(v. art. 5 del bando), al
netto del ribasso offerto, da calcolarsi in
proporzione al periodo in cui il servizio ha
già avuto esecuzione.
Trattandosi di debito di
valore, su tale importo sono dovuti la
rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei
prezzi al consumo (FOI) e gli interessi
corrispettivi, da computarsi al saggio
legale sulla somma rivalutata, con
decorrenza dalla data di cristallizzazione
del danno, da individuare nel giorno in cui
è stata disposta l’esclusione di parte
ricorrente dalla procedura concorsuale, sino
alla data di pubblicazione della presente
sentenza
(cfr. TAR Catanzaro, Sez. II, 18.01.2017, n.
68), dovendo
successivamente essere corrisposti i soli
interessi legali –trattandosi di debito di
valuta– fino all’effettivo soddisfo.
I contrastanti indirizzi giurisprudenziali
formatisi in materia di oneri per la
sicurezza integrano giusti motivi per
disporre la compensazione delle spese della
lite. |
CONDOMINIO:
Debiti, calcoli al condomino. Non
spetta al fornitore indicare quanto dovuto
dai singoli. Un vademecum operativo dalla
suprema Corte per il recupero delle
obbligazioni esterne.
Il condomino a cui sia
ingiunto dal fornitore di pagare l'intero
debito condominiale ha l'onere di attivarsi
in giudizio per indicare la misura della sua
partecipazione alle spese comuni e ottenere
quindi la riduzione dell'importo richiesto.
Infatti, ferma restando la natura parziaria
delle c.d. obbligazioni condominiali
esterne, non si può imporre al creditore
l'onere di individuare e indicare nel
precetto l'esatto importo dovuto dai singoli
condomini in base ai rispettivi millesimi di
proprietà.
Questa la singolare conclusione alla quale è
pervenuta la III Sez. civile della Corte di
Cassazione nella recentissima
sentenza 29.09.2017 n.
22856, nella quale i supremi giudici
hanno fornito una serie di ulteriori e
dettagliate indicazioni operative per
districarsi nel complicato ambito del
recupero dei crediti vantati nei confronti
del condominio.
Il caso in questione.
Nella specie un'impresa edile che aveva
eseguito dei lavori sulle parti comuni di un
condominio e non aveva ricevuto il saldo di
quanto pattuito aveva richiesto e ottenuto
dal tribunale un decreto ingiuntivo nei
confronti del predetto condominio. Il
pagamento della somma era stato quindi
preteso nei confronti di alcuni condomini,
previa notifica ai medesimi del relativo
atto di precetto.
Questi ultimi avevano allora presentato
opposizione all'esecuzione dinanzi al
medesimo tribunale, contestando sia il fatto
che il titolo esecutivo ottenuto contro il
condominio (ritenuto un soggetto terzo)
venisse utilizzato contro di loro sia la
circostanza che l'impresa pretendesse il
pagamento dell'intero importo ingiunto,
senza limitarsi alle rispettive quote di
comproprietà. Sia in primo che in secondo
grado l'opposizione era stata dichiarata
fondata. Di qui il ricorso in Cassazione da
parte dell'impresa.
La decisione della Suprema
corte.
Come si anticipava, con la decisione in
questione la terza sezione della Cassazione
ha fornito una sorta di vademecum operativo
per il recupero dei crediti in ambito
condominiale. Da un lato, infatti, i supremi
giudici hanno confermato la precedente
giurisprudenza di legittimità che
pacificamente ammette che il fornitore possa
agire in giudizio per l'intero credito
contro il condominio, in persona del suo
amministratore pro tempore, per poi
procedere a esecuzione forzata nei confronti
dei singoli condomini, previa notifica a
ciascuno di essi del titolo esecutivo in tal
modo ottenuto e del relativo precetto.
La Suprema corte, seguendo l'insegnamento
delle sezioni unite, ha anche confermato la
natura parziaria (e non solidale) delle
obbligazioni condominiali gravanti sui
singoli condomini (ragione per la quale ogni
comproprietario è tenuto a rispondere verso
i terzi limitatamente alla propria quota
millesimale).
I giudici di legittimità, tuttavia, nel
cassare la sentenza di appello, che, nel
confermare a sua volta la decisione di primo
grado, aveva giudicato fondata l'opposizione
svolta dai condomini all'esecuzione forzata,
hanno avuto modo di concludere che non sia
onere del creditore specificare l'importo
dovuto da ogni condomino in base ai
rispettivi millesimi di proprietà.
In altri termini, secondo la decisione in
questione, il creditore, una volta
dimostrata la legittimazione passiva degli
esecutati (ossia il fatto di rivestire la
qualità di condomini), può limitarsi ad
allegare (a richiedere) il pagamento
dell'obbligazione gravante sul condominio.
Per la Cassazione, infatti, dovrà essere il
condomino cui sia stato eventualmente
richiesto il pagamento di un importo
eccedente quello della sua quota a proporre
opposizione all'esecuzione, dimostrando
l'esatto ammontare del dovuto.
Sul piano pratico, seguendo questa tesi,
risulterebbe quindi indifferente il fatto
che il creditore abbia intimato il pagamento
dell'intera obbligazione a uno o più
condomini sostenendo che gli stessi sono
titolari della totalità delle quote
condominiali o assumendone, al contrario,
erroneamente, la responsabilità solidale. In
ogni caso, infatti, come ritenuto dalla
Suprema corte, le conseguenze sul piano del
diritto di procedere all'esecuzione forzata
sarebbero analoghe.
Ove il condomino debitore non si attivasse
in sede giudiziale, opponendosi
all'esecuzione e dimostrando la misura della
propria quota millesimale di partecipazione
alle spese comuni, il fornitore non
incontrerebbe più alcun ostacolo nel
pretendere da quest'ultimo il pagamento
dell'intera obbligazione condominiale,
quindi anche oltre la sua quota di
comproprietà (e senza intaccare il principio
della natura parziaria di essa).
Questa conclusione, secondo la terza sezione
civile della Suprema corte, troverebbe
conferma nel c.d. principio di riferibilità
o vicinanza della prova, essendo palese la
maggiore prossimità e la riferibilità al
singolo condomino del fatto impeditivo/modificativo
in questione, e cioè la misura della sua
quota condominiale e, di converso, le
difficoltà per il creditore di venire a
conoscenza di esso.
Sul punto è interessante evidenziare come i
giudici di legittimità, pur trattandosi di
controversia insorta prima dell'entrata in
vigore della legge n. 220/2012 di riforma
del condominio, non abbiano ignorato il
nuovo disposto di cui all'art. 63 disp. att.
c.c., secondo il quale l'amministratore è
obbligato a comunicare ai creditori che lo
interpellino le generalità dei condomini
morosi (ai quali in prima battuta deve
essere richiesto il pagamento del debito
gravante sul condominio, salvo poi
eventualmente pretenderlo anche da tutti gli
altri comproprietari.
Tuttavia, secondo i predetti giudici, tale
novella attenuerebbe soltanto in parte le
difficoltà in precedenza individuate. In
effetti non è un mistero che detta
disposizione, lungi dal risolvere la
difficile questione del contemperamento dei
confliggenti interessi dei creditori del
condominio e dei condomini in regola con il
pagamento delle spese comuni, abbia forse
introdotto nuove difficoltà pratiche e
interpretative.
È però evidente come il legislatore abbia
almeno risolto il problema dell'asimmetria
informativa tra creditore e compagine
condominiale (si veda ItaliaOggi Sette del
29/07/2015 si è visto come per il tribunale
di Monza il fornitore abbia addirittura
diritto ad accedere integralmente
all'anagrafe condominiale, quindi non solo
ai nominativi dei morosi).
Appare quindi discutibile, per lo meno a
partire dall'entrata in vigore della riforma
del diritto condominiale, che si debba
addossare ai condomini l'onere di eccepire
in giudizio l'inefficacia del precetto
relativamente alle somme eccedenti la
propria quota millesimale (introducendo
peraltro l'ennesimo procedimento
giurisdizionale in vicende processuali già
presumibilmente molto complesse e
articolate). Per la terza sezione civile
della Cassazione, invece, il condomino
inerte sarà costretto a subire l'esecuzione
per la quota allegata dal creditore e,
laddove la stessa non sia specificata, per
l'intero debito di cui risulti intimato il
pagamento.
In questo caso, come si legge nella
sentenza, nel vigore della nuova normativa
occorrerà però tenere conto delle
limitazioni di cui al secondo comma
dell'art. 63 disp. att. c.c. in merito alla
garanzia della preventiva escussione dei
condomini morosi
(articolo ItaliaOggi
Sette del
09.10.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notificazione
secondo il rito. Inesistenza giuridica se
non si rispettano le regole. Sentenze del
Tar e del Consiglio di stato affrontano
diversi aspetti procedurali.
La giustizia amministrativa è terreno
fertile per rilevanti novità
giurisprudenziali, particolarmente utili per
la quotidiana attività dell'avvocato, anche
e soprattutto in termini di procedura.
Ebbene, recentemente, tre sentenze di Tar e
Consiglio di stato hanno affrontato temi tra
loro sostanzialmente collegati: la
notificazione inesistente, la notifica
eseguita personalmente e infine il decreto
ingiuntivo e il ricorso per ottemperanza.
Momenti procedurali con i quali il legale si
trova quotidianamente a fare i conti.
Quando la notificazione è
inesistente
L'inesistenza giuridica della notificazione
sussiste non solo quando questa manchi del
tutto, ma anche quando sia effettuata in
modo assolutamente non previsto dal codice
di rito.
A ribadirlo sono stati i giudici della III
Sez. del TAR Lombardia-Milano con la
sentenza 29.09.2017 n.
1887.
Quindi nel caso in cui la notificazione
avviene in modo tale da non consentirne
l'assunzione nell'atto tipico di
notificazione delineato dalla legge,
allorquando, per esempio, sia fatta in un
luogo diverso da quello previsto dalla legge
e che non presenti alcun riferimento o
attinenza al destinatario della
notificazione stessa.
Inoltre sempre nella stessa sentenza i
giudici amministrativi milanesi hanno
evidenziato che la scelta del luogo ove
effettuare la notificazione ricade infatti
esclusivamente sul ricorrente (si veda:
Consiglio di stato, sez. VI, 11/09/2013, n.
4495) e non sussistono le condizioni di non
imputabilità dell'esito negativo della
notifica.
Il thema decidendum vedeva che con
ricorso il ricorrente, assistente scelto
della polizia locale del comune, ha
impugnato il provvedimento con cui il
comandante della polizia locale ha disposto
il ritiro cautelare dell'arma d'ordinanza
assegnata fino alla definizione del
procedimento penale a carico del ricorrente
stesso per il reato di cui all'art. 612-bis,
comma 2 c.p.
Di tale provvedimento l'interessato ha
chiesto l'annullamento, previa tutela
cautelare.
Il comune non si è costituito in giudizio.
Alla camera di consiglio la causa, chiamata
per l'esame della domanda cautelare, è stata
trattenuta in decisione per essere risolta
nel merito con sentenza in forma
semplificata, ai sensi dell'art. 60 c.p.a.,
previe le ammonizioni di rito alle parti
presenti.
Come rilevato dal collegio nel corso della
camera di consiglio, il ricorso è stato
dichiarato inammissibile, essendo stato
notificato al comune presso l'Avvocatura
distrettuale dello stato.
Il comune, infatti, non è ente soggetto al
patrocinio dell'Avvocatura dello stato e,
pertanto, la notifica effettuata presso
quest'ultima risulta inesistente.
Decreto ingiuntivo e
ricorso per ottemperanza davanti al g.a.
Il decreto ingiuntivo non opposto definisce
la lite al pari della sentenza passata in
giudicato, sicché nessun dubbio può porsi
sulla proponibilità del ricorso per
ottemperanza davanti al giudice
amministrativo per la sua esecuzione.
Lo hanno affermato sempre i giudici del TAR
Lombardia-Milano (Sez. III,
sentenza 29.09.2017 n.
1889).
La questione sottoposta all'attenzione dei
giudici di Milano vedeva che con decreto
ingiuntivo il tribunale ha ingiunto
all'Azienda sanitaria regionale di pagare
alla ricorrente la somma in conto capitale
ivi indicata, nonché gli interessi di mora
dalla data di deposito del ricorso al saldo,
oltre alle spese del procedimento monitorio,
liquidate contestualmente.
L'Azienda sanitaria non ha eseguito gli
ordini. Da qui il ricorso per ottemperanza
indicato ritualmente proposto. L'Azienda
intimata non si è costituita in giudizio.
Il ricorso, secondo il Tar è fondato.
Nel caso di specie il decreto ingiuntivo di
cui la ricorrente chiede l'adempimento non
sono stati opposti (come da attestazione
della competente cancelleria del tribunale,
agli atti del giudizio) e sono divenuti
esecutivi. Sono stati infine notificati
muniti di formula esecutiva, ma l'Azienda
non vi ha adempiuto. Sussistono pertanto
tutti i presupposti per l'accoglimento del
ricorso.
È stato pertanto dichiarato l'obbligo
dell'Azienda sanitaria intimata di dare
completa esecuzione al decreto ingiuntivo,
ivi compresa la liquidazione delle spese
legali nella misura indicate nel decreto
ingiuntivo, nonché quelle liquidate nel
ricorso di ottemperanza, detratte le somme
eventualmente già corrisposte (parte
ricorrente afferma di essere stato pagato
per il solo capitale).
Sono dovute, in caso di anticipazione da
parte della società ricorrente, le spese di
registrazione dei decreti ingiuntivi, atteso
che, in caso di condanna della parte
soccombente alle spese di giudizio anche
occorrende, le spese di registrazione
spettano alla parte vittoriosa che le abbia
anticipate (si vedano: ex plurimis,
Cass. civ., Sez. VI, 29.07.2010, n. 17698).
Il caso della notifica
eseguita personalmente
La notifica «eseguita personalmente»
deve essere espressamente prescritta
dall'autorità giudiziaria, in quanto
eccezione a forme «generali» di
notifica, quali sono quella effettuata
direttamente dall'avvocato avvalendosi del
servizio postale, ovvero quella eseguita a
mezzo di posta elettronica certificata.
È quanto affermato dall'adunanza plenaria
del Consiglio di Stato con la
sentenza 19.09.2017 n. 6.
Nella sentenza in commento i supremi giudici
amministrativi hanno evidenziato che l'art.
1 della legge 21.01.1994 n. 53 (recante
«Facoltà di notificazioni di atti civili,
amministrativi e stragiudiziali per gli
avvocati e procuratori legali»), prevedeva,
nel suo testo originario, che «1.
L'avvocato o il procuratore legale, munito
di procura alle liti a norma dell'art. 83
del codice di procedura civile e della
autorizzazione del consiglio dell'ordine nel
cui albo è iscritto a norma dell'art. 7
della presente legge, può eseguire la
notificazione di atti in materia civile,
amministrativa e stragiudiziale a mezzo del
servizio postale, secondo le modalità
previste dalla legge 20.11.1982, n. 890,
salvo che l'autorità giudiziaria disponga
che la notifica sia eseguita personalmente».
Successivamente, il testo dell'art. 1,
veniva integrato (per effetto dell'art. 25,
c. 3, lett. a), legge 12.11.2011, n. 183, e
a decorrere dal 01.01.2012), con
l'introduzione, dopo le parole «legge
20.11.1982 n. 890», delle parole «ovvero
a mezzo della posta elettronica
certificata...».
Nel suo testo attualmente vigente (a
decorrere dal 25.06.2014, dopo le ulteriori
modificazioni introdotte dall'art. 46, lett.
a) dl 14.06.2014 n. 90, conv. in legge
11.08.2014 n. 114), l'art. 1 legge n.
53/1994 dispone «1. L'avvocato o il
procuratore legale, munito di procura alle
liti a norma dell'art. 83 del codice di
procedura civile e della autorizzazione del
consiglio dell'ordine nel cui albo è
iscritto a norma dell'art. 7 della presente
legge, può eseguire la notificazione di atti
in materia civile, amministrativa e
stragiudiziale a mezzo del servizio postale,
secondo le modalità previste dalla legge
20.11.1982, n. 890, salvo che l'autorità
giudiziaria disponga che la notifica sia
eseguita personalmente. Quando ricorrono i
requisiti di cui al periodo precedente,
fatta eccezione per l'autorizzazione del
consiglio dell'ordine, la notificazione
degli atti in materia civile, amministrativa
e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo
di posta elettronica certificata».
Dalla lettura delle successive versioni
dell'art. 1 legge n. 53/1994, appare
possibile affermare che il legislatore
considera, almeno dal 01.01.2012, la
notificazione a mezzo di posta elettronica
certificata di atti in materia civile,
amministrativa e stragiudiziale, come un
mezzo ordinario di notificazione, che, in
quanto tale, non necessita di particolari
autorizzazioni da parte del giudice
(articolo ItaliaOggi
Sette del
16.10.2017). |
VARI:
Sinistri, non compie reato chi si
ferma e poi riparte.
Non risponde del reato di fuga dal sinistro
l'automobilista che dopo aver tamponato un
veicolo si ferma a discutere con l'altro
conducente. In particolare se non risultano
feriti e la polizia stradale appositamente
contattata non è in grado di intervenire.
Lo dice la Corte di Cassazione, Sez. IV
penale, con
sentenza
27.09.2017 n. 44616.
Un conducente frettoloso ha tamponato e si è
arrestato qualche decina di metri dopo,
fermandosi a parlare con l'altro autista.
Dopo aver verificato la mancanza di feriti e
aver contattato telefonicamente la Stradale
il trasgressore ripartiva senza fornire
generalità al soggetto tamponato.
Contro la conseguente condanna per fuga dal
sinistro ha proposto ricorso in Cassazione.
Non è penalmente rilevante la condotta
dell'autista che si è fermato dopo l'urto
per verificare l'accaduto. L'art. 189 Cds
sanziona infatti solo con misure
amministrative il conducente che riparte
dopo il sinistro senza agevolare lo scambio
dei dati, in assenza di feriti
(articolo ItaliaOggi
Sette del
16.10.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sentenze, compensazione ko. La
singolarità della causa non esonera dalle
spese. La Corte di cassazione: decisione
giustificata solo da gravi ed eccezionali
ragioni.
La condanna alle spese processuali deve
essere pronunciata se c'è la responsabilità
di una delle parti che ha posto in essere le
condizioni per instaurare un contenzioso del
tutto evitabile. Ciascuno, infatti, è tenuto
a sopportare i costi del giudizio al quale
ha dato luogo con un comportamento contra
ius.
Dunque, non ha alcun fondamento la decisione
del giudice tributario di compensare le
spese per la «singolarità della vicenda» che
è stata sottoposta al suo esame. Non è
questa la ratio della norma, che giustifica
la compensazione delle spese solo per gravi
e eccezionali ragioni.
È questo l'importante principio affermato
dalla Corte di Cassazione, Sez. VI, con l'ordinanza
27.09.2017 n. 22679.
I giudici di piazza Cavour non condividono
affatto la sentenza emanata dal giudice
d'appello, che «si è limitata ad
affermare, quale ragione giustificativa
della disposta compensazione delle spese di
lite, la singolarità della vicenda».
Mentre, per esercitare la facoltà di
compensazione delle spese, avrebbe dovuto «valutare
la ricorrenza nella fattispecie in esame di
gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente
indicate nella motivazione». Secondo la
Cassazione, la deroga al generale criterio
della soccombenza, «trova la sua ragione
giustificativa nel principio di causalità,
in forza del quale è tenuto a sopportare il
carico delle spese del giudizio chi vi abbia
dato luogo con il proprio comportamento
contra ius».
Anche con questa pronuncia la Cassazione
sollecita i giudici tributari ad applicare
correttamente la regola che la parte
soccombente deve rimborsare le spese
giudiziali alla controparte. Con l'ultimo
intervento normativo di riforma (decreto
legislativo 156/2015) della disciplina
processuale tributaria, in effetti, il
legislatore ha limitato ancor di più il
potere del giudice di compensare le spese
processuali. Il nuovo articolo 15 del
decreto legislativo 546/1992, quasi
interamente riscritto dalla legge di
riforma, impone un maggior rigore in caso di
soccombenza.
Le spese processuali possono essere
compensate solo per gravi e eccezionali
ragioni e per soccombenza reciproca, ed è
imposto al giudice di indicare le
motivazioni nella pronuncia. Inoltre,
nell'ambito delle spese devono essere
conteggiati il contributo unificato, l'Iva,
il contributo previdenziale, nonché gli
onorari, i diritti del difensore e tutti gli
esborsi sostenuti.
Quindi, chi dà luogo a una controversia che
poteva essere evitata usando l'ordinaria
diligenza deve sopportarne i costi. La
compensazione, al di là delle situazioni in
cui sussiste una soccombenza reciproca, può
essere dichiarata solo per «gravi ed
eccezionali ragioni», che devono essere
adeguatamente motivate. Per esempio, la
causa riguarda una questione nuova o
complessa oppure si verifica un cambiamento
di orientamento della giurisprudenza
sull'argomento che forma oggetto del
contendere.
Di recente, i giudici di legittimità
(ordinanza 20261/2017) hanno giudicato
infondata la pronuncia d'appello che ha
ritenuto di non condannare la parte che
aveva perso la causa al pagamento delle
spese, solo perché c'era stata una
soccombenza reciproca nei due gradi del
giudizio di merito
(articolo ItaliaOggi
Sette del
16.10.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Qualificazione, i requisiti solo per la
competizione. VINCOLANTI FINO
ALL’AGGIUDICAZIONE.
Una volta
aggiudicata la gara, gli altri concorrenti
non devono assicurare la permanenza dei
requisiti
di qualificazione; in caso di scorrimento
della
graduatoria, l’eventuale aggiudicazione al
secondo
comporta la richiesta di conferma
dell’offerta.
Lo ha ribadito
il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza del 25.09.2017, n. 4470 rispetto a un caso in cui si
discuteva se fosse
legittimo aggiudicare al secondo
classificato in graduatoria
che, dopo l’aggiudicazione, risultava
carente di un requisito.
Il collegio giudicante in primo luogo ha
chiarito che il principio
di continuità nel possesso dei requisiti di
ammissione
si impone non in virtù di un astratto e
vacuo formalismo
procedimentale, quanto piuttosto a garanzia
della permanenza
della serietà e della volontà dell’impresa
di presentare
un’offerta credibile.
Emerge quindi un interesse per la stazione
appaltante
all’instaurazione di un rapporto con un
soggetto che, dalla
candidatura in sede di gara fi no alla
stipula del contratto e
poi ancora fino all’adempimento
dell’obbligazione contrattuale,
sia provvisto di tutti i requisiti di ordine
generale e
speciale per contrattare con la p.a.
Diverso è il caso giudicato dove la gara è
aggiudicata:
per l’aggiudicatario il momento contrattuale
impone
il mantenimento dei requisiti richiesti e
dichiarati in sede
di partecipazione, per gli altri concorrenti
la procedura è da
considerarsi terminata e quindi l’offerta
formulata non è più
vincolante nei confronti
dell’amministrazione, interrompendosi
quel rapporto che si era instaurato con la
domanda di
partecipazione.
Per quanto lo scorrimento
della graduatoria,
tra l’evento terminale della procedura di
evidenza pubblica
(l’aggiudicazione), e la riapertura a
seguito dell’interpello
per lo scorrimento, «c’è una netta cesura,
determinata
dall’efficacia temporale delle offerte (che
la legge limita
nel tempo), tant’è che la stesse devono
essere confermate
in sede di interpello». Diversamente sarebbe
irragionevole
pretendere la continuità del possesso per un
periodo indefinito, durante il quale non c’è alcuna
competizione, alcuna
attività valutativa dell’amministrazione e,
per giunta, alcun
impegno vincolante nei confronti
dell’amministrazione (articolo ItaliaOggi del
29.09.2017).
---------------
MASSIMA
La statuizione del Tribunale
amministrativo regionale è corretta.
2.1.‒ Dalla documentazione in atti risulta
che l’anzidetta impresa ausiliaria era in
possesso di una prima attestazione SOA,
rilasciata dalla Bentley SOA in data
15.10.2012 con scadenza triennale
14.10.2015; successivamente, ha ottenuto una
seconda attestazione SOA, per la medesima
categoria, rilasciata dallo stesso organismo
in data 09.02.2016.
Ne consegue che, alla data del 14.10.2015
‒quando è stata espletata la verifica dei
requisiti‒ il certificato era pienamente
efficace e, quindi, legittimamente la
commissione ha accertato la sussistenza del
requisito di qualificazione in capo alla
concorrente A.T.I. Lu.Al.Co. S.r.l. In capo
alla stazione appaltante non sussisteva
l’onere istruttorio di acquisire (per il
periodo successivo) l’eventuale contratto di
rinnovo stipulato con la SOA (ovvero, per il
rilascio di nuova attestazione), in quanto
l’A.T.I. si era (a quella data) classificata
soltanto seconda in graduatoria. Ogni
verifica ulteriore andava rimandata
nell’eventualità di uno scorrimento della
graduatoria.
2.2.‒ Avuto riguardo alle circostanze del
caso di specie, il principio statuito
dall’Adunanza Plenaria ‒secondo cui le
qualificazioni richieste dal bando debbono
essere possedute dai concorrenti non solo al
momento della scadenza del termine per la
presentazione delle offerte, ma anche in
ogni successiva fase del procedimento di
evidenza pubblica e per tutta la durata
dell’appalto, senza soluzione di continuità
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.
8/2015)‒ non è correttamente invocato
dall’appellante.
È dirimente sul punto richiamare un
recentissimo precedente di questo Consiglio
di Stato (Sez. III, 06.03.2017 n. 1050), il
quale ha ritenuto che l’avvenuta conclusione
del procedimento di gara con
l’aggiudicazione in favore della prima
classificata dispensa le altre imprese
partecipanti dall’onere di conservare i
requisiti di partecipazione alla procedura
selettiva in vista di un possibile
scorrimento.
Nella motivazione di tale sentenza ‒che il
Collegio condivide‒ viene, in primo luogo,
chiarito che il principio di continuità nel
possesso dei requisiti di ammissione si
impone «non in virtù di un astratto e
vacuo formalismo procedimentale, quanto
piuttosto a garanzia della permanenza della
serietà e della volontà dell’impresa di
presentare un’offerta credibile e dunque
della sicurezza per la stazione appaltante
dell’instaurazione di un rapporto con un
soggetto, che, dalla candidatura in sede di
gara fino alla stipula del contratto e poi
ancora fino all’adempimento
dell’obbligazione contrattuale, sia
provvisto di tutti i requisiti di ordine
generale e speciale per contrattare con la
P.A.».
Sennonché, quando «la gara è aggiudicata
ed il contratto stipulato, deve
differenziarsi la posizione
dell’aggiudicatario da quella delle imprese
concorrenti collocatesi in posizione non
utile. Mentre per il primo, il momento
contrattuale costituisce l’appendice
negoziale e realizzativa della procedura ed
impone il mantenimento, giusto quanto
chiarito dalla Plenaria, dei requisiti
richiesti e dichiarati in sede di
partecipazione, per le seconde la procedura
è da considerarsi terminata: l’offerta
formulata non è più vincolante nei confronti
dell’amministrazione e cessa quel rapporto
che si era instaurato con la domanda di
partecipazione».
La sentenza prosegue affermando che,
per
quanto lo scorrimento della graduatoria non
dia luogo alla indizione di una nuova
selezione concorsuale, «ciò non vale ad
elidere l’oggettiva circostanza che tra
l’evento terminale della procedura di
evidenza pubblica, i.e. l’aggiudicazione, e
la riapertura a seguito dell’interpello per
lo scorrimento, c’è una netta cesura,
determinata dall’efficacia temporale delle
offerte (che la legge limita nel tempo),
tant’è che la stesse devono essere
“confermate” in sede di interpello».
Del resto, si conclude, «sarebbe
irragionevole pretendere (non già il
possesso dei requisiti, ma) la continuità
del possesso per un periodo indefinito,
durante il quale non c’è alcuna
competizione, alcuna attività valutativa
dell’amministrazione e, per giunta, alcun
impegno vincolante nei confronti
dell’amministrazione».
2.3.‒ Ebbene, al momento dello scorrimento
della graduatoria è incontestato il possesso
del requisito di qualificazione in capo
all’A.T.I. appellata, in virtù di nuova
attestazione SOA (cert. N. 20179AL/35/00),
peraltro con incremento della classifica
della categoria OG3 (dalla I alla II).
Peraltro, il rilascio di una nuova
attestazione SOA certifica non solo la
sussistenza dei requisiti di capacità da una
data ad un’altra, ma anche che l’impresa non
ha mai perso quei requisiti in passato già
valutati e certificati positivamente e che
li ha mantenuti anche nel periodo
intercorrente tra la domanda di rinnovo e
quella di rilascio della nuova
certificazione, senza alcuna soluzione di
continuità (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
20.07.2016 n. 3270).
3.‒ Anche il secondo motivo di ricorso
incidentale ‒con il quale si deduceva la
violazione dell’art. 48 d.lgs. 163/2006, in
relazione all’art. 263 d.P.R. 207/2010, in
quanto, la Lu.Al.Co. s.r.l., in sede di
verifica a campione, non avrebbe dimostrato
il possesso dei requisiti di progettazione
in capo ai professionisti indicati, in
quanto diversi certificati prodotti dai
progettisti sarebbero mere attestazioni di
soggetti privati, come tali inidonei a
dimostrare il possesso del requisito‒ è
destituito di fondamento.
3.1.‒ L’art. 263, comma 2, del d.P.R. n. 207
del 2010, recita: «[…] Sono valutabili
anche i servizi svolti per committenti
privati documentati attraverso certificati
di buona e regolare esecuzione rilasciati
dai committenti privati o dichiarati
dall’operatore economico che fornisce, su
richiesta della stazione appaltante, prova
dell’avvenuta esecuzione attraverso gli atti
autorizzativi o concessori, ovvero il
certificato di collaudo, inerenti il lavoro
per il quale è stata svolta la prestazione,
ovvero tramite copia del contratto e delle
fatture relative alla prestazione medesima».
Per quanto concerne la disciplina prevista
per i progetti svolti per committenti
privati, è dunque precisato che l’operatore
economico può di regola limitarsi a
dichiarare la buona e regolare esecuzione
dei servizi prestati, salvo l’onere di
fornire ‒«su richiesta della stazione
appaltante»‒ la prova dell’avvenuta
esecuzione degli stessi servizi attraverso
modalità di prova tra di loro alternative.
3.2.‒ Nel caso in esame, i pregressi servizi
di progettazione svolti per un committente
privato, sono stati legittimamente
documentati dalla controinteressata mediante
certificati di regolare esecuzione. Come
emerge dall’esame dei verbali n. 4 del
15.9.2015 e n. 5 del 14.10.2015, la
commissione ha verificato tali requisiti,
richiedendo integrazioni alle ditte e anche
provvedendo a verificare presso le
Amministrazioni –pubbliche e private– la
conferma delle prestazioni (con note
trasmesse, a conferma, dall’Azienda
Ospedaliera San Giuseppe Moscati di
Avellino, dalla R.B.M. di Colleretto
Giocosa, dall’Azienda Ospedaliera San
Gerardo di Monza, dalla SIAD Bulgaria EOOD,
dal Comune di Catanzaro, dal Comune di
Palizzi).
3.3.‒ In questo contesto, il ricorrente
incidentale non afferma (né tantomeno
dimostra) la mancanza del predetto requisito
in capo alla controparte, bensì si limita ad
affermare del tutto genericamente che esso
non sarebbe stato adeguatamente documentato.
È dunque corretta la valutazione del TAR
secondo cui è mancata «la dimostrazione
che i certificati oggetto di contestazione
siano da ritenersi indispensabili ai fini
dell’accertamento del requisiti richiesti
per la progettazione».
4.‒ Per le ragioni che precedono, l’appello
deve essere respinto. |
APPALTI: Rup, Cantone aggiorna
le linee guida vincolanti. Cds
su nomine e ruolo del responsabile unico del
procedimento.
Via
libera all’aggiornamento delle linee
guida Anac 3/2016 sul responsabile
del procedimento (Rup), che avranno
natura vincolante; da valutare se il
Rup debba sempre essere un dirigente per gli
interventi al di sotto dei 150 mila euro;
riduttivo
che abbia esperienza soltanto di appalti e
concessioni.
Lo ha affermato il Consiglio di
Stato
nel
parere 25.09.2017
n. 2040
sulla proposta di aggiornamento delle linee
guida Anac in tema di nomina, ruolo e
compiti
del responsabile unico del procedimento.
L’aggiornamento del testo delle linee
guida (n. 3-2016) si è reso necessario non
soltanto
alla luce delle modifiche apportate al
testo
dell’articolo 31 del Codice dei contratti
pubblici
(il quale, al comma 5, demanda all’Anac
guidata da Raffaele Cantone l’adozione di
tali
linee guida) ad opera dell’articolo 21 del
dlgs
56/2017, ma anche per rispondere
all’esigenza
di fornire risposta a osservazioni e
richieste di
chiarimenti pervenute da parte di numerose
stazioni appaltanti.
Dopo avere segnalato
che il
recente intervento correttivo «ha apportato
in
tema di disciplina del ruolo e delle
funzioni del
Rup (art. 31) un numero limitato di modifiche,
di contenuto, però, piuttosto significativo»,
il
parere entra nel merito di alcuni punti,
primo
fra tutti la natura delle linee guida che
adesso,
in base al comma 5 dell’articolo 31 sono
vincolanti, «a decorrere dall’entrata in
vigore
dell’aggiornamento in esame».
Il Consiglio di stato suggerisce poi di
integrare le previsioni relative alla nomina
del Rup attraverso specifici riferimenti a
tali
presupposti e modalità, in particolare con
riferimento
alla nozione di «necessario livello
di inquadramento giuridico». Come ci si deve
infatti comportare se il dipendente occupa
una
posizione elevata ma non riferita alla
professionalità
tecnica posseduta, o se viceversa può
vantare una rilevante professionalità
tecnica
pur se inquadrato in una posizione non
elevatissima?
Per quanto riguarda gli appalti e
le concessioni di lavori di importo
inferiore a
150 mila euro lo schema dell’Anac consente,
in
caso di carenza in organico di un tecnico,
che
l’incarico di Rup sia affidato «a un
dirigente
laureato in materie giuridiche»: il parere
rimette
all’Autorità la valutazione se tale
requisito
risulti sproporzionato per eccesso, con
particolare
riguardo alla necessità della qualifica
dirigenziale, considerato che la figura del
dirigente
potrebbe non essere presente negli enti
di minori dimensioni e considerato il
modesto
importo dell’appalto.
Da chiarire, per i giudici di Palazzo Spada,
anche il rapporto fra due norme: l’articolo
31, comma 1, penultimo periodo del codice
(secondo
cui, in caso di carenza in organico di
adeguate
professionalità, l’incarico di Rup viene
assegnato «tra gli altri dipendenti in
servizio»)
e il successivo comma 6 secondo cui, in caso
di
assenza in organico di un tecnico, le
funzioni di
Rup per i servizi di ingegneria e di
architettura
sono attribuite «al responsabile del
servizio al
quale attiene il lavoro da realizzare».
Infine, sembra riduttivo e comunque da
chiarire, visto l’ampio spettro di attività
rimesse dalla legge al Rup, la previsione
per cui l’esperienza specifica richiesta al
Rup risulti limitata al solo «affidamento
di appalti e concessioni»
(articolo ItaliaOggi del
29.09.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Allegati
alla Pec con il bollino. La posta
certificata garantisce che non siano
alterati. La Corte di cassazione è
recentemente intervenuta con una serie di
decisioni sul tema.
La Pec (Posta elettronica certificata) è
oggi tema quotidiano per l'attività legale e
vista la indeterminazione nell'uso degli
strumenti informatici, che in molti casi
sono ancora troppo recenti per avere una
taratura consolidata, l'uso ed il valore che
le si da è sovente motivo di pronunce della
Cassazione, la quale recentemente ha
affrontato il tema degli allegati alla Pec e
del valore della Pec nel suo complesso.
Pec, processo e la
questione degli allegati.
La Pec garantisce che durante la
trasmissione di un messaggio gli allegati
non vengano alterati, ma non ne certifica il
contenuto verso terzi.
È quanto affermato dai giudici della Corte
di Cassazione (Sez. IV penale) con la
sentenza 21.09.2017 n.
43498.
I giudici di piazza Cavour hanno, altresì,
aggiunto che da un punto di vista
tecnico-informatico, la Pec può contenere
file allegati. Tuttavia, da un punto di
vista legale, il gestore Pec non offre la
garanzia della genuinità degli stessi. In
buona sostanza il gestore Pec non certifica
affatto il contenuto del messaggio.
In altri termini il ricorrente allega una
mera certificazione Pec di invio e
ricezione, ma non l'allegato contenuto dalla
mail; una trasmissione Pec certifica che una
certa trasmissione è avvenuta tra due
indirizzi e-mail Pec, ma non certifica
(giuridicamente) quello che la «busta
elettronica» conteneva.
Nel caso, infatti, in cui si voglia inviare,
insieme al testo dell'e-mail, un file,
conferendo allo stesso il valore di
originale, sarà necessario utilizzare il
sistema di firma digitale sul documento (si
veda anche circolare del 20.01.2014, n. 3
della Ragioneria gen. Stato).
Il thema decidendum sottoposto
all'attenzione degli Ermellini vedeva che
con sentenza il gup dichiarava: Tizio
responsabile dei reati a lui ascritti e
relativi a violazioni della normativa sugli
stupefacenti e lo condannava alla pena di
anni 10 di reclusione; Caio responsabile del
reato a lui ascritto, con la recidiva
aggravata, e relativo a violazioni della
normativa sugli stupefacenti e lo condannava
alla pena di anni 8 di reclusione; e così
anche per altri imputati con pene
logicamente diverse in base ai casi.
Con sentenza la Corte di appello, adita
dagli imputati, all'esito dell'udienza
camerale, preso atto della rinuncia di tutti
i ricorrenti ai motivi di appello relativi
all'accertamento della penale
responsabilità, limitandoli alla
determinazione della pena, in parziale
modifica della sentenza di primo grado,
rideterminava le pene in melius. Poi,
il ricorso per Cassazione.
Se l'atto è portato a
conoscenza, la notifica via Pec non è nulla.
Secondo i giudici della Corte di Cassazione
(Sez. VI civile,
ordinanza 21.09.2017 n. 22007) non
meriterebbe censura una sentenza impugnata,
nella parte in cui escluderebbe che
l'effettuazione presso la cancelleria,
anziché presso l'indirizzo di posta
elettronica certificata del procuratore
costituito nel giudizio di primo grado,
comportasse l'inesistenza della
notificazione dell'atto di appello, e quindi
l'inammissibilità dell'impugnazione:
nonostante l'errata individuazione da parte
dell'appellante delle modalità di
notificazione applicabili alla fattispecie,
l'avvenuta consegna dell'atto ad opera
dell'ufficiale giudiziario competente in
forme corrispondenti a quelle consentite da
disposizioni tuttora in vigore, sia pure in
via sussidiaria rispetto a quelle
concretamente applicabili, assicura infatti
la riconducibilità del procedimento
notificatorio ad uno degli schemi
astrattamente prefigurati dal legislatore;
risulta pertanto giustificata l'affermazione
della mera nullità della notifica e
dell'intervenuta sanatoria della stessa, con
efficacia retroattiva, per effetto della
costituzione dell'appellato, con la
conseguente esclusione dell'inammissibilità
del gravame.
I giudici di piazza Cavour si sono rifatti a
un recente quanto consolidato orientamento
dettato dalla giurisprudenza, hanno
dichiarato non necessario, in quanto
estraneo al modello legale della
notificazione, il requisito del collegamento
tra il luogo in cui è stata effettuata ed il
destinatario, attribuendo invece rilievo
alla sussistenza degli elementi strutturali
idonei a rendere riconoscibile l'atto come
notificazione.
È stato così affermato che, in base ai
principi di strumentalità delle forme degli
atti processuali e del giusto processo,
l'inesistenza della notificazione è
configurabile, oltre che nel caso di totale
mancanza materiale dell'atto, nelle sole
ipotesi in cui non ricorrano: a) l'attività
di trasmissione svolta da un soggetto
qualificato, dotato, in base alla legge,
della possibilità giuridica di compiere
detta attività, in modo da poter ritenere
esistente e individuabile il potere
esercitato; b) la fase di consegna, intesa
in senso lato come raggiungimento di uno
qualsiasi degli esiti positivi della
notificazione previsti dall'ordinamento (in
virtù dei quali, cioè, la stessa debba
comunque considerarsi ex lege
eseguita).
Ogni altra ipotesi di difformità dal modello
legale ricade invece nella categoria della
nullità, sanabile, con efficacia ex tunc,
o per raggiungimento dello scopo, a seguito
della costituzione della parte intimata
(anche se compiuta al solo fine di eccepire
la nullità), o in conseguenza della
rinnovazione della notificazione, effettuata
spontaneamente dalla parte stessa oppure su
ordine del giudice ai sensi dell'art. 291
cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un.,
20/07/2016, n. 14916; v. anche Cass., Sez.
VI, 27/01/2017, n. 2174).
Sul valore della Pec.
E infine i giudici sempre della Corte di
Cassazione (Sez. VI civile,
ordinanza 15.09.2017
n. 21375) si sono soffermati con una
articolata pronuncia sul valore della Pec,
asserendo che la comunicazione della
dichiarazione dell'evento interruttivo del
giudizio effettuata a mezzo Pec (dal
difensore della parte interessata
dall'evento al difensore della controparte),
essendo equivalente a notificazione
effettuata per mezzo del servizio postale,
deve ritenersi idonea a dimostrarne la
conoscenza legale da parte del destinatario,
almeno in mancanza di prova contraria.
La questione vedeva la Corte di appello che
aveva ritenuto tardiva la riassunzione del
giudizio, in quanto l'evento interruttivo, e
cioè il fallimento della società opposta,
era stato portato a conoscenza del
procuratore della società opponente
attraverso una specifica dichiarazione
effettuata dal procuratore della stessa
società opposta, comunicata a mezzo Pec.
Secondo la società ricorrente, tale
comunicazione non sarebbe idonea a
determinare la conoscenza legale
dell'evento, e il termine per la
riassunzione dovrebbe farsi decorrere dalla
data in cui il giudice aveva dichiarato
l'interruzione del processo (con conseguente
tempestività della sua riassunzione).
Inoltre nella sentenza in commento è stato
osservato che occorre tener conto che ai
sensi degli artt. 4 e 6 del dpr 68/2005, «la
posta elettronica certificata consente
l'invio di messaggi la cui trasmissione è
valida agli effetti di legge» (art. 4,
comma 1), e «la ricevuta di avvenuta
consegna fornisce al mittente prova che il
suo messaggio di posta elettronica
certificata è effettivamente pervenuto
all'indirizzo elettronico dichiarato dal
destinatario e certifica il momento della
consegna tramite un testo, leggibile dal
mittente, contenente i dati di
certificazione» (art. 6, comma 3)
(articolo ItaliaOggi
Sette del
02.10.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Abuso
di ufficio e dolo intenzionale -
Responsabile dell'U.T.C. - Fattispecie -
Rilascio di concessione edilizia illegittima
e successivo rilascio in sanatoria del
permesso di costruire - Crollo del
fabbricato - Tutela del pubblico interesse e
pericolo oggettivo per la staticità degli
immobili adiacenti - Ridimensionamento
sostanziale dell'intervento edilizio -
Art. 323 cod. pen. - Artt. 12, 44, lett. b),
d.P.R. n. 380/2001.
In tema di abuso di ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la
fattispecie criminosa, non deve
necessariamente essere desunta
dall'accertamento di un accordo collusivo
con la persona che si intende favorire, ma
anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell'atto
compiuto, l'evidenza, reiterazione e gravità
delle violazioni, la competenza dell'agente
nonché l'intento di sanare le illegittimità
con successive violazioni di legge, giacché
l'intenzionalità del vantaggio ben può
prescindere dalla volontà di favorire
specificamente il privato interessato alla
singola vicenda amministrativa (tra le
altre, da ultimo, Sez. 3, n. 35577 del
06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6,
n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014,
Dragotta). Fattispecie: rilascio di
concessione edilizia per l'esecuzione di
lavori di ristrutturazione che non erano
consentiti e successivo rilascio in
sanatoria del permesso di costruire.
Dirigenti e responsabili
uffici comunali - Abuso di ufficio -
Irrilevanza della compresenza di una
finalità pubblicistica.
In tema di abuso di ufficio, non può
rilevare al fine di escludere il dolo
intenzionale, la compresenza di una finalità
pubblicistica, salvo che il perseguimento
del pubblico interesse costituisca
l'obiettivo principale dell'agente (tra le
altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, dep.
29/05/2015, Adamo).
Nella specie, tutta la condotta
dell'imputato, sin dal rilascio
dell'originaria concessione edilizia, è
apparsa strumentalmente indirizzata a
favorire l'Unione coop. di consumo, restando
evidentemente recessivo e, dunque, non
significativo dell'assenza del dolo
richiesto, il fine, pur eventualmente
legittimo, di sanare la situazione
urbanistica pregiudicata dal crollo del
fabbricato (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43160 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire - Conformità delle opere -
Soggetti responsabili - Committente,
costruttore, progettista e direttore dei
lavori - Artt. 29, 32, 44, 64, 65, 71, 72
d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. n.
42/2004.
L'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001,
rubricato "responsabilità del titolare
del permesso di costruire, del committente,
del costruttore e del direttore dei lavori,
nonché anche del progettista per le opere
subordinate a denuncia di inizio attività",
prevede un meccanismo di responsabilità
concorrente del titolare del permesso di
costruire, del committente e, per quanto qui
rileva, anche del costruttore e del
direttore dei lavori, per quanto concerne la
conformità delle opere a quelle del permesso
e alle modalità esecutive stabilite dal
medesimo; sicché la presenza del direttore
dei lavori non può certo valere ad elidere,
in alcun modo, gli obblighi gravanti sulle
altre figure qualificate previste dal d.P.R.
n. 380/2001 art. 29 e, tra queste,
l'amministratore della società costruttrice
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43153 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
edilizi in una zona paesaggisticamente
vincolata - Qualificazione giuridica.
In presenza di interventi edilizi che siano
stati eseguiti in una zona
paesaggisticamente vincolata, ai fini della
loro qualificazione giuridica, è del tutto
indifferente la distinzione tra interventi
eseguiti in difformità totale o parziale
ovvero in variazione essenziale, in quanto
l'art. 32, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico eseguiti in difformità
dal titolo abilitativo, inclusi quelli
eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e,
quindi, quali difformità totali, come tali
riconducibili alla fattispecie di cui
all'art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n.
380 del 2001, non essendovi spazio per
l'applicazione dell'ipotesi
contravvenzionale contemplata dalla lett. a)
della richiamata disposizione (Sez. 3, n.
37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014, Longo;
Sez. 3, n. 1486 del 03/12/2013, dep.
15/01/2014, P.M. in proc. Aragosa e altri;
Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, dep.
27/04/2010, Santonicola e altro) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43153 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO PROCESSUALE PENALE -
Causa di esclusione della punibilità - Reato
continuato - Comportamento abituale -
Configurabilità - Art. 131-bis cod. pen..
La causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto, infatti, non
può essere applicata, ai sensi del terzo
comma dell'art. 131-bis cod. pen., qualora
l'imputato abbia commesso più reati della
stessa indole, ovvero plurime violazioni
della stessa o di diverse disposizioni
penali sorrette dalla medesima ratio
puniendi.
In particolare, essa non può essere
dichiarata in presenza di più reati legati
dal vincolo della continuazione, in quanto
anche il reato continuato configura
un'ipotesi di "comportamento abituale",
ostativa al riconoscimento del beneficio
(Sez. 3, n. 43816 del 01/07/2015, dep.
30/10/2015, Amadeo; Sez. 3, n. 29897 del
28/05/2015, dep. 13/07/2015, Gau) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43153 -
link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Registri, responsabile il notaio
distratto.
Professionalmente
responsabile è il notaio che, richiesto
della stesura di un atto pubblico di
trasferimento immobiliare, non provvede a
controllare i registri al fine di verificare
se il bene, oggetto di compravendita, sia o
meno assoggettato a pignoramento e ciò anche
nell'ipotesi in cui, come nel caso di
specie, il pagamento del prezzo avvenga
prima del rogito:
lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez.
VI civile, nell'ordinanza
21.09.2017 n. 21953.
Intervenuta sul ricorso di un pubblico
ufficiale avverso la sentenza di merito che
lo vedeva condannare, sia in primo che
secondo grado, per responsabilità
professionale e risarcimento dei danni, la
Corte ha avuto modo di precisare che
esisteva una chiara responsabilità per
negligenza del professionista legata al
fatto che non avesse prima verificato e, di
conseguenza reso edotti i clienti,
dell'esistenza non solo di un'iscrizione
ipotecaria sui beni oggetto di alienazione,
ma anche di un pignoramento sui medesimi,
costringendo di conseguenza le parti lese a
pagare una certa somma al creditore
procedente: «Per il notaio richiesto
della preparazione e stesura di un atto
pubblico di trasferimento immobiliare»,
spiegano sul punto i giudici della VI-3
sezione civile, «la preventiva verifica
della libertà e disponibilità del bene e,
più in generale, delle risultanze dei
registri immobiliari attraverso la loro
visura, costituisce, salvo espressa dispensa
per concorde volontà delle parti, obbligo
derivante dall'incarico conferitogli dal
cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto
della prestazione d'opera professionale,
poiché l'opera di cui è richiesto non si
riduce al mero compito di accertamento della
volontà delle parti, ma si estende a quelle
attività preparatorie e successive
necessarie perché sia assicurata la serietà
e certezza dell'atto giuridico da rogarsi
ed, in particolare, la sua attitudine ad
assicurare il conseguimento dello scopo
tipico di esso e del risultato pratico
voluto dalle parti partecipanti alla stipula
dell'atto medesimo».
Ne deriva che l'inosservanza dei suddetti
obblighi «accessori» configura
un'ipotesi di responsabilità ex contractu
«per inadempimento dell'obbligazione di
prestazione d'opera intellettuale»
(articolo ItaliaOggi Sette del
02.10.2017).
---------------
MASSIMA
Quanto al secondo motivo,
essendo stato accertato nel giudizio
di merito che una responsabilità per
negligenza del notaio esistesse, e che fosse
relativa al non aver preventivamente
verificato, e reso edotti i clienti,
dell'esistenza non solo di una iscrizione
ipotecaria ma anche di un pignoramento sui
tre terreni oggetto di acquisto contestuale
da unico proprietario, ed accertato che gli
stessi, per liberare i terreni acquistati
dal vincolo del pignoramento, hanno pagato
un determinato importo al creditore
procedente,
la condanna del professionista al
risarcimento del danno non viola i principi
più volte affermati da questa Corte, in
quanto essa è volta a porre i danneggiati
nella situazione nella quale si sarebbero
trovati se effettivamente, come erroneamente
detto loro, avessero acquistato l'immobile
libero da pesi e vincoli, ovvero volta a
reintegrarli della somma della quale si sono
dovuti privare -a parte il prezzo della
vendita- per liberare dal vincolo l'immobile
che era stato garantito loro come libero.
Vale cioè il principio secondo il quale
per il notaio richiesto della
preparazione e stesura di un atto pubblico
di trasferimento immobiliare, la preventiva
verifica della libertà e disponibilità del
bene e, più in generale, delle risultanze
dei registri immobiliari attraverso la loro
visura, costituisce, salvo espressa dispensa
per concorde volontà delle parti, obbligo
derivante dall'incarico conferitogli dal
cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto
della prestazione d'opera professionale,
poiché l'opera di cui è richiesto non si
riduce al mero compito di accertamento della
volontà delle parti, ma si estende a quelle
attività preparatorie e successive
necessarie perché sia assicurata la serietà
e certezza dell'atto giuridico da rogarsi
ed, in particolare, la sua attitudine ad
assicurare il conseguimento dello scopo
tipico di esso e del risultato pratico
voluto dalle parti partecipanti alla stipula
dell'atto medesimo.
Conseguentemente,
l'inosservanza dei suddetti obblighi
accessori da parte del notaio dà luogo a
responsabilità "ex contractu" per
inadempimento dell'obbligazione di
prestazione d'opera intellettuale, a nulla
rilevando che la legge professionale non
contenga alcun esplicito riferimento a tale
peculiare forma di responsabilità
(Cass. n. 24733 del 2007). |
TRIBUTI:
Smaltimento rifiuti, prescrizione
in 5 anni.
La tassa comunale per il servizio di
smaltimento dei rifiuti, comunque
denominata, si prescrive in cinque anni,
trattandosi di somme che hanno a oggetto
prestazioni periodiche, da inquadrare
nell'ambito dell'articolo 2948, n. 4, del
codice civile. Il contribuente può ricorrere
contro l'intimazione di pagamento ed
eccepire tale vizio, se tra la stessa e la
notifica della pregressa cartella sono
trascorsi più di cinque anni: la mancata
impugnazione della cartella, infatti, non ha
effetti sulla prescrizione, il cui termine
quinquennale inizia a decorrere nuovamente
dalla notifica di ogni atto interruttivo.
Sono i principi riassunti nella
sentenza 11.09.2017 n.
5304/03/2017 della Ctp di Milano.
La vertenza prende le mosse
dall'impugnazione di una intimazione di
pagamento notificata dall'agente della
riscossione, con richiamo a cinque pregresse
cartelle esattoriali relative alla tassa per
lo smaltimento dei rifiuti. Tra la notifica
dell'intimazione e quella delle precedenti
cartelle, esponeva il contribuente nel
proprio ricorso, erano trascorsi più di
cinque anni, essendo quindi decorso il
termine della prescrizione breve.
La Ctp meneghina ha accolto il ricorso,
osservando che la tassa comunale che si paga
per il servizio di smaltimento dei rifiuti
rientra certamente nell'ambito di
applicazione dell'articolo 2948 del codice
civile («Prescrizione di cinque anni»)
e, precisamente, nell'ipotesi delineata al
numero 4): «Si prescrivono in cinque anni
gli interessi e, in generale, tutto ciò che
deve pagarsi periodicamente ad anno o in
termini più brevi». Il corrispettivo per
lo smaltimento dei rifiuti, si legge in
sentenza, ha a oggetto delle prestazioni
periodiche e, dunque, indipendentemente
dalla denominazione assunta dalle varie
tasse succedutesi nel tempo, rientra nella
prescrizione breve.
La Ctp ha poi richiamato l'orientamento
delle Sezioni Unite (sentenza n. 23397/2016)
sugli effetti della c.d. «definitività
amministrativa» degli atti di riscossione,
ovvero l'effetto che consegue alla mancata
impugnazione degli stessi entro i termini
previsti, ai fini della prescrizione: la
mancata impugnazione della cartella non
determina l'effetto di allungamento del
termine di prescrizione, da breve a
ordinario, cosi che il termine breve inizia
nuovamente a decorrere dalla notifica di
ogni atto interruttivo.
Nel caso di specie, erano trascorsi più di
cinque anni tra la cartella e l'intimazione,
per cui la decisione, alla luce dei principi
di diritto enunciati, si è sviluppata in
senso favorevole al contribuente.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
Con il ricorso in esame, notificato (oltre
che tramite Pec anche) per mezzo del
servizio postale in data 31.10.2016, viene
impugnata l'intimazione di pagamento n. ( )
emessa da Equitalia Servizi di riscossione
s.p.a. in data 22.07.2016, nella parte in
cui si riferisce a quattro precedenti
cartelle di pagamento ( ), a loro volta
relative alla tassa di smaltimento rifiuti
solidi urbani pretesa dal Comune di ( ), per
un ammontare complessivo pari a euro 684,75.
Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. non
si è costituita in giudizio.
Tenutasi la pubblica udienza in data
10.07.2017, la causa è stata trattenuta in
decisione.
Ritiene il Collegio che il ricorso sia
fondato in quanto meritevole di accoglimento
l'eccezione di prescrizione sollevata dal
ricorrente.
Va difatti osservato che, secondo un
condivisibile orientamento
giurisprudenziale, il termine prescrizionale
relativo ai crediti derivanti dalla tassa di
smaltimento dei rifiuti solidi urbani è pari
a cinque anni, trattandosi di crediti che
hanno a oggetto prestazioni periodiche ed
essendo, quindi, a essi applicabile il
termine breve di cui all'art. 2948, n. 4),
cod. civ. (cfr. Cass. Civ. sez. trib.
23.02.2010 n. 4283).
Il termine breve, precisa sempre la
giurisprudenza, si applica anche quando la
relativa pretesa si fondi su una cartella di
pagamento la quale, in quanto atto
amministrativo, non beneficia della norma di
favore contenuta nell'art. 2953 cod. civ.,
applicabile esclusivamente agli atti
giurisdizionali (cfr. Cass. Civ. sez. un.,
18.11.2016, n. 23397).
Ciò premesso, si deve osservare che, nel
caso di specie, emerge dagli atti che fra la
notifica al contribuente delle suddette
cartelle di pagamento e la notifica
dell'intimazione di pagamento impugnata è
trascorso un periodo superiore al
quinquennio.
Ne discende che, come anticipato, i diritti
relativi a tali cartelle di pagamento sono
prescritti e che, quindi, il ricorso deve
essere accolto, con conseguente annullamento
dell'atto impugnato nella parte relativa
alle suindicate quattro cartelle di
pagamento.
Sussistono giustificate ragioni per disporre
la compensazione delle spese di giudizio.
PQM
La Commissione, in accoglimento del ricorso,
annulla l'atto impugnato. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi
Sette del
02.10.2017). |
TRIBUTI: Tari
senza discriminazioni. I non residenti non
vanno penalizzati con tariffe più alte. Una
sentenza con cui il Consiglio di stato
rimarca il principio di proporzionalità.
Tia-
I comuni non possono penalizzare i non
residenti rispetto ai residenti, imponendo
tariffe più alte per il pagamento della
tassa rifiuti, violando il principio di
proporzionalità. La tassa ha la finalità di
coprire i costi del servizio svolto in
regime di privativa dall'amministrazione
comunale, ma non può gravare il prelievo in
misura eccessiva e irrazionale su coloro che
producono meno rifiuti.
Il principio è stato affermato dal Consiglio
di Stato, V Sez., con la
sentenza 06.09.2017 n.
4223.
Per i giudici di Palazzo Spada, il principio
di proporzionalità, cui si deve conformare
la discrezionalità amministrativa
nell'individuazione delle tariffe Tia, ma le
stesse regole valgono oggi per la Tari,
porta a ritenere non legittimo un criterio
di determinazione che risulti «più gravoso
per le abitazioni dei non residenti rispetto
a quelle di coloro che dimorano abitualmente
nel comune».
Secondo i giudici
amministrativi, la ratio del tributo è
quella di coprire i costi complessivi del
servizio erogato, «ripartendone
ragionevolmente gli oneri in coerenza con la
natura di tassa e con la quantità di rifiuti
potenzialmente producibili dalle varie
tipologie di beni e della rispettiva
capacità inquinante». Ed è evidente che
abitando i residenti con continuità nel
territorio comunale, gli stessi vi producano
ben più rifiuti di coloro che invece, a
parità di condizioni abitative, vi ci
soggiornano solo per periodi di tempo
limitati o saltuari». «Ciò vale, a maggior
ragione, in una località turistica (qual è Jesolo) a vocazione balneare, prettamente
stagionale». Mentre i non residenti sono
«mediamente assenti per la maggior parte
dell'anno».
In realtà, la questione del trattamento
fiscale dei contribuenti non residenti ha
formato oggetto di dibattito in passato, a
proposito del pagamento della tassa che è
rapportata anche al numero di coloro che
occupano l'immobile. Al riguardo, la
Cassazione (sentenza 8383/2013) ha ritenuto
legittima la determinazione della quota
variabile della Tia (la stessa disciplina si
applica alla Tari) per le seconde case in
base al numero degli occupanti desunto dalla
superficie dell'immobile. Questa
presunzione, secondo la Cassazione, è
ammessa qualora non sia possibile conoscere
il numero dei soggetti che di fatto lo
utilizzano.
Dunque, non è irragionevole il
ricorso al metodo proporzionale basato sulla
superficie del bene: più ampia è la
superficie, maggiore è il numero di coloro
che si presume occupano l'immobile. Spetta
al contribuente fornire gli elementi di
prova idonei a dimostrare l'infondatezza
della presunzione.
In senso contrario,
invece, si è espresso il Tribunale
amministrativo regionale per la Sardegna
(sentenza 551/2012), che ha giudicato
ingiustificabile la suddetta presunzione,
adottata solo perché il dato reale è
difficile da accertare attraverso le
risultanze anagrafiche. Può accadere,
infatti, che un immobile di notevole
ampiezza sia utilizzato da un numero
ristretto di occupanti. Questo criterio crea
solo una discriminazione tra residenti e non
residenti. Per i primi la tariffa è
correttamente ancorata a un elemento
concreto, quello cioè del numero degli
occupanti desunto dalle risultanze
anagrafiche.
Motivazione tariffe.
Le tariffe adottate dalle amministrazioni
locali formano spesso oggetto di
contestazioni da parte dei contribuenti,
soprattutto per quanto concerne la mancanza
di motivazione delle delibere che ne fissano
la misura per le varie categorie di
attività. Anche i giudici hanno preso
posizione sulla questione in ordine sparso.
Per esempio il Tar Latina (sentenza
486/2016), contrariamente a quanto sostenuto
da altri giudici amministrativi, ha
stabilito che le tariffe Tari non richiedono
la motivazione se i comuni applicano i
coefficienti fissati dal regolamento statale
per la determinazione della quota fissa e di
quella variabile del tributo. Il contrasto
di posizioni era già emerso negli anni
scorsi anche per la Tarsu e la Tares e non è
venuto meno neppure per la Tari, istituita a
partire dal 2014. In primo luogo, secondo il
Tar Latina, la delibera che fissa le tariffe
Tari non richiede «una particolare o
specifica motivazione dato che si tratta di
un atto generale».
Inoltre, i ricorrenti
laddove lamentano che la tariffa stabilita
per gli stabilimenti balneari non tiene
conto della diversa attitudine alla
produzione di rifiuti dell'arenile rispetto
al chiosco e del carattere stagionale delle
attività svolte, dimenticano «che la
valutazione di questi elementi è per così
dire insita nel metodo normalizzato, nel
senso che i coefficienti previsti dalle
tabelle allegate al dpr 158 per la
determinazione della quota fissa e della
quota variabile per gli stabilimenti
balneari già tengono conto delle
caratteristiche dell'attività». E non a caso
i coefficienti previsti per gli stabilimenti
balneari sono diversi e soprattutto
notevolmente più bassi rispetto a quelli
previsti per es. per bar, pasticcerie e
ristoranti o campeggi e alberghi.
Quello che la legge impone all'ente è che
nello scegliere il coefficiente per
l'applicazione del metodo normalizzato «si
mantenga all'interno del range previsto
dalle tabelle» allegate al citato dpr.
Pertanto, nel caso di specie «poiché i
coefficienti scelti si collocano in un
ambito intermedio, la tariffa non sarebbe
sindacabile trattandosi di scelte rientranti
nel merito della discrezionalità
amministrativa».
In effetti, nonostante in
alcuni casi e per particolari attività
coefficienti di produzione dei rifiuti e
tariffe deliberate possano sembrare
eccessive, non è sindacabile la scelta
comunale che fissi delle tariffe in linea
con i parametri stabiliti dal citato
regolamento statale sul metodo normalizzato.
Ancorché l'ente abbia il potere di
aumentarle o diminuirle in modo consistente
per alcune tipologie di attività in
relazione alla loro tendenziale maggiore o
minore produzione di rifiuti.
In realtà, il
contrasto giurisprudenziale sull'obbligo o
meno di motivare le delibere tariffarie era
già emerso prepotentemente in regime di Tarsu, anche se per il vecchio tributo i
comuni non avevano vincoli ad hoc nella
scelta delle tariffe da applicare. L'unico
limite era rappresentato dal raggiungimento
dell'obbiettivo primario di copertura dei
costi del servizio di smaltimento rifiuti (articolo ItaliaOggi
Sette del
02.10.2017). |
TRIBUTI COMUNALI:
Perizia ad hoc batte delibera
comunale.
Il valore venale delle aree fabbricabili
calcolato dagli enti comunali e attuato in
apposite delibere si pone come una
presunzione semplice, per stimare la base
imponibile ai fini del versamento dell'Imu;
tale valore, dunque, è superabile attraverso
una specifica perizia di stima, che tenga
conto delle caratteristiche effettive
dell'immobile.
È quanto afferma la Ctp di Bergamo nella
sentenza 04.09.2017 n.
445/02/2017.
Il caso riguarda l'impugnazione di un avviso
di accertamento Imu, notificato da un comune
della provincia bergamasca a un
contribuente, proprietario di alcuni terreni
edificabili. Il comune lamentava l'omessa
dichiarazione ai fini Imu, con
consequenziale omesso versamento
dell'imposta, che accertava facendo
riferimento al valore venale individuato in
apposite delibere comunali. Il contribuente
eccepiva, sotto il profilo del merito,
l'eccessiva valutazione dell'area e
depositava, in allegato al proprio ricorso,
una perizia di stima giurata, condotta
specificamente sul bene in questione, da cui
emergeva un valore ampiamente inferiore
rispetto a quello calcolato dall'ente
comunale.
La Ctp di Bergamo ha parzialmente accolto il
ricorso, rideterminando la misura dell'Imu,
utilizzando come base imponibile il valore
individuato nella perizia, confermando però
la debenza delle sanzioni, a causa
dell'omissione dichiarativa comunque posta
in essere.
L'ente comunale, spiega il collegio, può
determinare il valore venale delle aree
fabbricabili con apposite delibere: tale
valore, tuttavia, si pone come una
presunzione semplice, in maniera simile a
quanto avviene con gli studi di settore. Da
ciò deriva la possibilità, per il
contribuente, di superare quella
presunzione, per esempio con la produzione
di una perizia di stima, circostanziata e
che tenga in considerazione le
caratteristiche dell'immobile. La stima
specifica del bene, ove ritenuta attendibile
e ben corredata di tutti gli elementi
necessari, supera il valore presuntivo
calcolato dal Comune nelle proprie delibere.
Nel caso di specie, la Ctp ha valutato gli
elementi evidenziati nella perizia, volti a
evidenziare le ragioni per cui il terreno
doveva ritenersi penalizzato rispetto agli
standard, ritenendoli fondati. Su tale
valore, dunque, va ricalcolata l'Imu. Per
quanto riguarda le sanzioni, invece, le
stesse sono dovute poiché il contribuente ha
comunque omesso di dichiarare alcun valore e
di versare alcunché.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
[omissis] Così sommariamente ricostruite le
rispettive allegazioni delle parti, la
Commissione giudica che la pretesa dell'Ente
resistente sia solo parzialmente fondata. A
sostegno di questa conclusione, valgono le
concorrenti ragioni che seguono.
Quanto alle contestazioni della contribuente
sul valore attribuito alle sue proprietà, il
Collegio osserva che ai comuni è consentito
di determinare periodicamente i valori
venali in comune commercio delle aree
fabbricabili per zone omogenee; e che detta
estimazione, oltre a limitare il potere di
accertamento del comune, può essere
legittimamente utilizzata al fine di
acquisire elementi di giudizio
sull'effettivo valore delle aree. Detti
regolamenti, pur non avendo natura
propriamente imperativa, svolgono infatti
funzione analoga a quella dei cosiddetti
studi di settore, e integrano una fonte di
presunzione idonea a costituire, anche con
portata retroattiva, un indice di
valutazione sia per l'Amministrazione
comunale, sia per lo stesso giudice
tributario.
Ebbene, la natura presuntiva che connota la
delibera comunale richiamata nell'atto
d'accertamento avrebbe imposto al
contribuente di vincerla, con argomentazioni
plausibili e convincenti. Come in effetti è
stato nella fattispecie, giacché la perizia
prodotta agli atti (cfr. allegato 2 della
parte ricorrente) consente al Collegio di
prendere atto, anche attraverso la
documentazione fotografica allegata,
dell'effettiva consistenza dei fondi oggetto
d'estimazione, obiettivamente caratterizzati
da difficoltà di commercializzazione per
l'elevata pendenza che li connota, per
l'accertata presenza nell'immediato
sottosuolo di strati rocciosi e stante la
limitrofa allogazione di un sito industriale
deputato alla produzione della gomma.
Le suddette caratteristiche dei compendi in
esame fanno dunque ritenere che la loro
corretta valutazione in base al metodo
sintetico comparativo debba essere pari a
complessivi euro 250.000,00. Cosicché, la
pretesa dell'Amministrazione comunale
resistente deve essere parametrata a detto
valore.
Quanto invece alle sanzioni irrogate con
l'atto d'accertamento, esse sono affatto
legittime, essendo pacifico che la
contribuente ha mancato di denunziare ai
fini Imu i mappali edificabili di sua
proprietà.
Conclusivamente, il ricorso del contribuente
deve essere, per le ragioni sopra esposte,
parzialmente accolto, nei termini indicati
in dispositivo.
Mentre la reciproca soccombenza comporta che
le spese di lite debbano essere tra le parti
integralmente compensate.
PQM la Commissione, in parziale accoglimento
del ricorso, determina il valore venale in
comune commercio dei fondi della ricorrente
in complessivi euro 250.000,00 conferma
l'avviso impugnato nella parte riferita alle
sanzioni. Compensa tra le parti le spese di
lite
(articolo ItaliaOggi
Sette del
16.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Case,
fideiussioni per gli acconti. O
preliminare di compravendita nullo.
Il contratto preliminare per l'acquisto di
immobili è nullo se il venditore non stipula
una fideiussione a garanzia dell'acconto.
Lo
ha affermato il TRIBUNALE di Parma,
sentenza
18.07.2017 n. 1116, dichiarando la nullità
di un contratto preliminare stipulato da due
ragazzi in previsione delle nozze, avente ad
oggetto un immobile da costruire nella
provincia di Parma e condannato il
costruttore alla restituzione in favore di
ciascuno dei promissari della somma da loro
versata a titolo d'acconto, ossia 65.731,50
euro.
Il giudice ha ritenuto il preliminare
nullo a causa dell'inosservanza da parte
della società promittente dell'art. 2, comma
1, dlgs 20.06.2005 n. 122, ai sensi del
quale «All'atto della stipula di un
contratto che abbia come finalità il
trasferimento non immediato della proprietà
o di altro diritto reale di godimento su un
immobile da costruire o di un atto avente le
medesime finalità, ovvero in un momento
precedente, il costruttore è obbligato, a
pena di nullità del contratto che può essere
fatta valere unicamente dall'acquirente, a
procurare il rilascio ed a consegnare
all'acquirente una fideiussione, anche
secondo quanto previsto dall'articolo 1938
del codice civile, di importo corrispondente
alle somme e al valore di ogni altro
eventuale corrispettivo che il costruttore
ha riscosso e, secondo i termini e le
modalità stabilite nel contratto, deve
ancora riscuotere dall'acquirente prima del
trasferimento della proprietà o di altro
diritto reale di godimento».
Il venditore
non aveva concesso una fideiussione di
importo pari alla somma versata a titolo di
acconto a quella che i due ragazzi avrebbero
dovuto corrispondere a saldo. Sulla base di
tali circostanze il tribunale ha, poi,
ritenuto irrilevante il fatto che i due
ragazzi si siano resi inadempienti alla
stipula del definitivo.
Secondo l'avvocato
Giovanni Franchi di Parma, il legale dei due
promissari, si tratta di una sentenza «che
potrà essere utilizzata da tutti coloro che,
in occasione della stipula di un contratto
preliminare per l'acquisto di un'abitazione,
non ricevono dal venditore una fideiussione
a garanzia della restituzione dell'acconto
versato»
(articolo ItaliaOggi del
12.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Variante
urbanistica: sì al danno per la mancata
tempestiva approvazione.
Nell’ambito del variegato panorama delle
decisioni amministrative aventi ad oggetto
la tutela risarcitoria del privato leso da
atti e comportamenti della P.a.,
riconosciuti illegittimi dal Giudice
Amministrativo, si inserisce una recente
sentenza del TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.07.2017 n. 1223, la
quale merita di essere segnalata per
l’applicazione del giudizio prognostico
sulla spettanza del bene della vita in
materia edilizia ed, in particolare, in tema
di varianti urbanistiche.
Nello specifico, si discute del diniego di
variante urbanistica per un insediamento
produttivo (ex art. 5, D.P.R.. 447/1998,
oggi, art. 8, D.P.R. 160/2010) determinato
da sopravvenuta incompatibile normativa e
del conseguente danno subito dal privato a
causa del ritardo nella definizione del
procedimento urbanistico.
Limitando l’analisi della sentenza al solo
an del risarcimento (il quantum,
o meglio i criteri indicati dal TAR per
definire il quantum, meriterebbe una
apposita trattazione), il Giudice
Amministrativo, dopo aver ricostruito i
fatto l’imputabilità del ritardo ai
comportamenti illegittimi dalla P.a., ha
statuito che “può
ritenersi, in base ad un giudizio
prognostico di tipo probabilistico, che il
bene della vita auspicato dai ricorrenti,
ossia il rilascio dell’autorizzazione
richiesta, sarebbe stato da questi
conseguito se il procedimento fosse stato
condotto con modalità ordinarie e si fosse
concluso in un termine ragionevole, e può
dunque inferirsi che sia stata la condotta
complessivamente tenuta dalla P.A. a
precludere (definitivamente) il
conseguimento del risultato utile perseguito
e a determinare i danni lamentati,
qualificandosi come antecedente causale
necessario.
Ciò rende conto, ad avviso del Collegio,
della ricorrenza dell’elemento oggettivo
della pretesa risarcitoria azionata col
presente gravame in quanto, come detto, è
ragionevole ritenere, come più sopra
spiegato, che, ove non fosse intervenuto il
ritardo nell’azione amministrativa, gli
aventi diritto avrebbero conseguito
l’autorizzazione richiesta.”.
Ora, tale sillogismo,
che esatto nei procedimenti ad esito
vincolato (es. permesso di costruire) o il
cui esito è determinato da parametri
vincolanti (es. gare pubbliche),
non si ritiene possa trovare
ingresso nell’ambito urbanistico, ivi
incluso nel procedimento di variante
semplificata per gli insediamenti
produttivi.
Il risarcimento del danno
da ritardo, relativo ad un interesse
legittimo pretensivo, non può essere avulso
da una valutazione concernente la spettanza
del bene della vita e deve, quindi, essere
subordinato, tra l’altro, alla dimostrazione
che l’aspirazione al provvedimento sia
destinata ad esito favorevole e, quindi,
alla dimostrazione della spettanza
definitiva del bene sostanziale della vita
collegato a un tale interesse, cioè
all’esistenza di un legittimo affidamento
alla conclusione positiva del procedimento.
La Giurisprudenza ha da tempo evidenziato
che l’art. 5, D.P.R.
20.10.1998, n. 447 prevede una procedura
semplificata per la variazione di strumenti
urbanistici preordinati all’autorizzazione
di insediamenti produttivi contrastanti con
il vigente strumento urbanistico che si
conclude con una Conferenza di servizi la
cui determinazione costituisce proposta di
variante urbanistica sulla quale, tenuto
conto delle osservazioni, proposte ed
opposizioni formulate, il Consiglio comunale
si pronuncia entro sessanta giorni. La
proposta di variazione dello strumento
urbanistico assunta dalla Conferenza di
servizi, da considerare alla stregua di un
atto di impulso del procedimento volto alla
variazione urbanistica, non è vincolante per
il Consiglio comunale, che conserva le
proprie attribuzioni e valuta autonomamente
se aderirvi
(cfr. ex multis Cons. di Stato, IV
Sez. n. 4151 del 2013).
La determinazione della
conferenza dei servizi, nell’ambito del
particolare procedimento di cui al ricordato
articolo 5, del D.P.R. 447 del 1998,
rappresenta un peculiare atto di impulso
(proposta) dell’autonomo procedimento (di
natura esclusivamente urbanistica) volto
alla variazione del vigente piano
regolatore, rientrante nelle normali ed
esclusive attribuzioni dell’ente locale.
In altri termini, diversamente da come
sembra sostenere il TAR Campano,
il ricorso alla procedura
semplificata in questione –pur ovviamente
ispirata nel disegno legislativo a
facilitare ed accelerare la realizzazione di
iniziative produttive- non comporta
l’abdicazione da parte del Consiglio
comunale alla sua fisiologica capacità
pianificatoria
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV,
01.03.2017, n. 940).
In conseguenza, non è
possibile ritenere che la conclusione
positiva della conferenza di servizi possa
far ritenere l’approvazione della variante
pressoché obbligatoria, restando al
contrario integra per l’organo consiliare la
possibilità di discostarsi motivatamente
dalla determinazione finale assunta dalla
conferenza di servizi
(TAR Puglia Lecce, Sezione I, 29.06.2011, n.
1217).
Al consiglio Comunale, che
conserva le sue normali attribuzioni,
compete infatti una valutazione ulteriore
–nonché autonoma e largamente discrezionale–
necessaria a giustificare sul piano
urbanistico la deroga, per il caso singolo,
alle regole poste dallo strumento vigente
(TAR Lombardia-Milano, sez. II, 11.11.2010,
n. 7244; TAR Puglia Bari, sez. III,
03.09.2008, n. 2015).
In altre parole “la
proposta di variazione dello strumento
urbanistico assunta dalla Conferenza dei
servizi non è vincolante per il consiglio
comunale, il quale deve autonomamente
valutare se aderire o meno a tale proposta”
(Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2007, n. 3772;
TAR Abruzzo-Pescara, sez. I, 07.11.2007, n.
875; Cons. Stato, sez. IV, 03.09.2008, n.
4110; Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2006, n.
2170), “anche con una
eventuale determinazione negativa
adeguatamente motivata”
(Cons. Stato, sez. VI, 25.06.2007, n. 3593).
Ora, riportando tali principi alla
fattispecie in esame e ricordando che
l’entrata in vigore dell’art. 2-bis, L.
07.08.1990, n. 241 non ha elevato a bene
della vita suscettibile di autonoma
protezione, mediante il risarcimento del
danno, l’interesse procedimentale al
rispetto dei termini dell’azione
amministrativa avulso da ogni riferimento
alla spettanza dell’interesse sostanziale al
cui conseguimento il procedimento stesso è
finalizzato (come peraltro riconosciuto
dallo stessa TAR; cfr. Consiglio di Stato,
IV, 02/11/2016, n. 4580; TAR Lazio, Latina,
I, 26/09/2016, n. 579; TAR Trentino-Alto
Adige, Trento, I, 06/09/2016, n. 327),
è da escludere possa trovare
accoglimento una domanda risarcitoria
incentrata su una presunta aspettativa in
diritto alla approvazione della variante da
parte del Consiglio Comunale, aspettativa
che, va ribadito, a prescindere dalla
legittimità degli atti, è e resta
aspettativa di fatto non tutelabile e non
risarcibile.
Se infatti da una parte è
comprensibile che i privati abbiano “sperato”
nell’approvazione della variante, ciò non di
meno non è possibile affermare che tale
attuazione fosse “dovuta”, “certa”
o “doverosa”.
In conclusione, salvo taluni casi in cui
sarebbe possibile scorgere un affidamento
qualificato, e ciò, in sostanza,
nell’ipotesi in cui la pubblica
Amministrazione abbia adottato atti o posto
in essere comportamenti suscettibili di
generare nel privato un’aspettativa, o
meglio una “fiducia” qualificata,
nella conseguente attività provvedimentale
(es. reiterazione di un vincolo preordinato
all’esproprio dopo aver approvato un
variante per rendere edificabile la zona con
vincolo scaduto), in ambito
urbanistico, si ritiene che non sia
possibile individuare un criterio generale
ed astratto che consenta di prognosticare
l’esito del procedimento di pianificazione,
poiché la discrezionalità urbanistica
impinge in valutazioni ed interessi
differenti ed ulteriori rispetto agli esiti
procedimentali ed alle risultanze
istruttorie, legati, spesso, alle “idee”
di sviluppo e gestione del territorio del
governo del momento.
La mancanza di tale
certezza (o meglio di tale aspettativa
qualificata), rende non risarcibile il danno
derivante dalla ritardata approvazione delle
varianti urbanistiche
(12.10.2017 - commento tratto da e
link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: Deve
affermarsi il difetto di giurisdizione di
questo Tribunale a conoscere di tutte le
censure riguardanti la misura dell’indennità
di reiterazione del vincolo espropriativo,
nonché la misura dell’indennità provvisoria
di esproprio, trattandosi di doglianze di
ordine patrimoniale, la cui cognizione è
devoluta al giudice ordinario.
Invero, le doglianze proposte attengano alla
determinazione del quantum, rispettivamente,
dell’indennità prevista dall’art. 39, comma
1, del d.P.R. n. 327/2001 per la
reiterazione del vincolo espropriativo e
dell’indennità provvisoria di esproprio. Si
tratta, quindi, di doglianze a contenuto
patrimoniale circa la misura delle suddette
indennità, la cui cognizione è attribuita al
giudice ordinario dal comma 3 del medesimo
art. 39 per la prima delle indennità sopra
elencate e dall’art. 53 del d.P.R. n. 327
cit., nonché dall’art. 133, comma 1, lett.
g), c.p.a. per l’indennità di esproprio.
Ed invero, come affermato dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con
decisione n. 7 del 24.05.2007, il principio
della spettanza di un indennizzo al
proprietario nel caso di reiterazione del
vincolo preordinato all’esproprio
(introdotto dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n. 179 del 20.05.1999) non ha
rilevanza per la verifica della legittimità
dei provvedimenti di primo grado, che hanno
disposto l’approvazione dello strumento
urbanistico con la conseguente reiterazione
del vincolo: i profili attinenti alla
spettanza o meno dell’indennizzo e al suo
pagamento non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano
questioni di carattere patrimoniale, che
presuppongono la conclusione del
procedimento di pianificazione, devolute
alla cognizione della giurisdizione civile.
Dal canto loro, le questioni attinenti alla
determinazione ed alla corresponsione
dell’indennità di espropriazione in
conseguenza dell’adozione di atti di natura
espropriativa o ablativa, esulano dalla
giurisdizione del giudice amministrativo,
essendo espressamente attribuite al giudice
ordinario in base al disposto dell’art. 133,
comma 1, lett. g), c.p.a..
---------------
Non innovando rispetto al passato, anche
l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la
reiterazione del vincolo urbanistico come
variante al piano urbanistico generale.
L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit.
prevede, poi, che la medesima funzione
urbanistica possa essere svolta anche
dall’approvazione del progetto preliminare o
definitivo, che, una volta deliberata dal
Consiglio Comunale, costituisce adozione
della variante allo strumento urbanistico. A
ciò consegue che il vincolo preordinato
all’esproprio è parte essenziale del
procedimento ablativo e possiede, allo
stesso tempo, valore di previsione
urbanistica, essendo intimamente connesso
con lo strumento di pianificazione
territoriale.
Quindi, per esplicita indicazione dell’art.
19, comma 2, cit., l’adozione della variante
allo strumento urbanistico può ben
discendere dall’approvazione del progetto
preliminare ad opera del Consiglio Comunale.
---------------
Secondo la giurisprudenza, all’approvazione
del progetto preliminare di opera pubblica
effettuata in difetto di un’attuale
copertura di spesa non consegue
l’illegittimità dell’atto, ma
esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del
d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di
effettuare la spesa fino al reperimento
degli specifici fondi.
---------------
La fissazione dei termini di inizio e
compimento dei lavori e delle espropriazioni
non occorre, ove sia stato approvato solo il
progetto preliminare dell’opera da
realizzare, inidoneo a comportare gli
effetti di una dichiarazione implicita di
pubblica utilità.
---------------
Il Collegio ritiene in via preliminare di
dover precisare l’ambito della propria
indagine, sgombrando il campo da taluni
equivoci insiti nella ricostruzione dei
fatti e nella prospettazione delle doglianze
offerte dalla parte ricorrente.
In primo luogo, deve affermarsi –in
accoglimento dell’apposita eccezione della
difesa comunale– il difetto di giurisdizione
di questo Tribunale a conoscere di tutte le
censure riguardanti la misura dell’indennità
di reiterazione del vincolo espropriativo,
nonché la misura dell’indennità provvisoria
di esproprio, trattandosi di doglianze di
ordine patrimoniale, la cui cognizione è
devoluta al giudice ordinario.
In particolare, per quanto concerne
l’indennità per la reiterazione del vincolo
espropriativo, la sig.ra Pa. contesta:
a) nel ricorso originario, la misura simbolica di tale indennità,
prevista nell’impugnata deliberazione
consiliare n. 68/2000 nella misura di £.
15.000.000 (terzo motivo);
b) nei primi motivi aggiunti, la riproposizione, da parte della
P.A., a titolo di indennità, della stessa
somma già offerta con la citata
deliberazione n. 68/2000 (€ 8.000,00), senza
alcuna considerazione del tempo trascorso
(terzo motivo). La ricorrente reitera,
altresì, la doglianza formulata con il terzo
motivo del ricorso originario;
c) nei secondi motivi aggiunti, la mancata previsione, negli atti
ivi impugnati, compreso il decreto di
esproprio, di una qualunque somma a titolo
di indennità per la reiterazione del vincolo
(secondo motivo aggiunto). La ricorrente
reitera, altresì, le censure proposte con il
terzo motivo del ricorso originario e del
primo ricorso per motivi aggiunti.
Con riguardo, invece, all’indennità
provvisoria di esproprio, la ricorrente
lamenta, nel terzo motivo del primo ricorso
e del secondo ricorso per motivi aggiunti,
che per la determinazione della stessa la
P.A. abbia considerato l’area di sua
proprietà come avente destinazione agricola.
Lamenta, inoltre, che detta indennità sia
stata calcolata sulla base della superficie
catastale dell’area in esame, mentre
l’espropriazione avrebbe riguardato la
superficie effettiva di siffatta area, che
sarebbe maggiore, per mq. 178, di quella
catastale (sesto motivo del secondo gruppo
di motivi aggiunti).
Orbene, non è chi non veda come tutte le
doglianze ora riportate attengano alla
determinazione del quantum,
rispettivamente, dell’indennità prevista
dall’art. 39, comma 1, del d.P.R. n.
327/2001 per la reiterazione del vincolo
espropriativo e dell’indennità provvisoria
di esproprio. Si tratta, quindi, di
doglianze a contenuto patrimoniale circa la
misura delle suddette indennità, la cui
cognizione è attribuita al giudice ordinario
dal comma 3 del medesimo art. 39 per la
prima delle indennità sopra elencate (cfr.
C.d.S., Sez. IV, 06.05.2010, n. 2627; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 20.12.2013, n.
3100) e dall’art. 53 del d.P.R. n. 327 cit.,
nonché dall’art. 133, comma 1, lett. g),
c.p.a. per l’indennità di esproprio (cfr.
C.d.S., Sez. IV, 14.03.2016, n. 987).
Ed invero, come affermato dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con
decisione n. 7 del 24.05.2007, il principio
della spettanza di un indennizzo al
proprietario nel caso di reiterazione del
vincolo preordinato all’esproprio
(introdotto dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n. 179 del 20.05.1999) non ha
rilevanza per la verifica della legittimità
dei provvedimenti di primo grado, che hanno
disposto l’approvazione dello strumento
urbanistico con la conseguente reiterazione
del vincolo: i profili attinenti alla
spettanza o meno dell’indennizzo e al suo
pagamento non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano
questioni di carattere patrimoniale, che
presuppongono la conclusione del
procedimento di pianificazione, devolute
alla cognizione della giurisdizione civile
(cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV,
n. 2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n.
1214; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
02.03.2015, n. 595; TAR Sicilia, Catania,
Sez. I, 09.10.2007, n. 1631).
Dal canto loro, le questioni attinenti alla
determinazione ed alla corresponsione
dell’indennità di espropriazione in
conseguenza dell’adozione di atti di natura
espropriativa o ablativa, esulano dalla
giurisdizione del giudice amministrativo,
essendo espressamente attribuite al giudice
ordinario in base al disposto dell’art. 133,
comma 1, lett. g), c.p.a. (cfr., tra le
ultime, TAR Campania, Napoli, Sez. V,
04.11.2016, n. 5069).
Da quanto detto discende, in definitiva, che
va dichiarato il difetto di giurisdizione di
questo giudice amministrativo a conoscere
delle censure poc’anzi elencate, contenute
nel terzo motivo del ricorso
originario, nel terzo motivo del
primo ricorso per motivi aggiunti, nonché
nel secondo, terzo e sesto
motivo del secondo ricorso per motivi
aggiunti.
Sempre in via preliminare, va, poi, rimosso
l’equivoco in cui è incorsa la ricorrente
con l’assumere che la deliberazione del
Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68 del
29.12.2000 –impugnata con il ricorso
originario– recasse la dichiarazione di p.u.
dell’opera per cui è causa (completamento
degli impianti sportivi comunali), sebbene
in tale sede fosse stato approvato il
progetto preliminare dell’opera e non già
quello definitivo.
Tale assunto è sviluppato nei dettagli dalla
ricorrente nel quarto motivo del
primo ricorso per motivi aggiunti e nel
quinto motivo del secondo ricorso per
motivi aggiunti, con i quali,
rispettivamente, si deducono:
a) l’illegittimità della deliberazione n. 32/2006, poiché la stessa
recherebbe una proroga oltre i limiti di
legge della dichiarazione di p.u., che
–nella prospettiva della sig.ra Pa.– sarebbe
già stata emessa con la deliberazione n.
68/2000;
b) la tardività del decreto di esproprio rispetto alla medesima
deliberazione n. 68/2000, in base
all’argomentazione per cui quest’ultima,
contenendo l’adozione di una variante
parziale al P.R.G., non potrebbe che
configurarsi quale dichiarazione di p.u.
dell’opera.
Il suddetto assunto è, peraltro, sotteso
anche ad altre censure della ricorrente, ed
in specie alle censure che non tengono conto
della natura di semplice progetto
preliminare del progetto approvato con la
deliberazione n. 68 cit..
Ad avviso del Collegio, l’assunto in
questione è del tutto privo di fondamento.
In particolare, la circostanza che la
deliberazione n. 68/2000 cit. recasse
l’adozione di una variante urbanistica non
significa per nulla –come pretende la
ricorrente– che la stessa contenesse,
altresì, la dichiarazione di p.u.
dell’opera, né tantomeno significa che il
progetto ivi approvato avesse solo la
denominazione –ma non il contenuto– di un
progetto preliminare, come parimenti adombra
la ricorrente.
Al riguardo si osserva che, non innovando
rispetto al passato, anche l’art. 9 del
d.P.R. n. 327/2001 configura la reiterazione
del vincolo urbanistico come variante al
piano urbanistico generale. L’art. 19, comma
2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che
la medesima funzione urbanistica possa
essere svolta anche dall’approvazione del
progetto preliminare o definitivo, che, una
volta deliberata dal Consiglio Comunale,
costituisce adozione della variante allo
strumento urbanistico. A ciò consegue che il
vincolo preordinato all’esproprio è parte
essenziale del procedimento ablativo e
possiede, allo stesso tempo, valore di
previsione urbanistica, essendo intimamente
connesso con lo strumento di pianificazione
territoriale (TAR Puglia, Lecce, Sez. III,
10.03.2015, n. 816).
Anzitutto, quindi, per esplicita indicazione
dell’art. 19, comma 2, cit., l’adozione
della variante allo strumento urbanistico
può ben discendere dall’approvazione del
progetto preliminare ad opera del Consiglio
Comunale (e nello stesso senso deponeva pure
l’art. 1, quinto comma, della l. n. 1/1978,
non a caso richiamato nella proposta di
deliberazione approvata con la deliberazione
del Consiglio Comunale di Bonavigo n.
68/2000).
In secondo luogo, l’approvazione del
progetto definitivo dell’opera de qua
è testualmente avvenuta con la deliberazione
della Giunta Comunale n. 32/2006, impugnata
con il primo gruppo di motivi aggiunti, la
quale, nel dispositivo, dà atto che
l’approvazione del progetto definitivo
stesso, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n.
327/2001, equivale a dichiarazione di p.u.
dell’opera.
In terzo luogo, i documenti allegati alla
deliberazione n. 68/2000, depositati dalla
difesa comunale il 26.03.2001 (docc. 2 e 3:
relazione tecnica e quadro economico di
spesa), confermano che quello approvato con
la deliberazione n. 68 cit. era solo il
progetto preliminare dell’opera pubblica.
In altre parole, da tutti i documenti in
atti si evince che la qualificazione formale
del progetto approvato con la deliberazione
de qua è quella di “progetto
preliminare”; peraltro, anche sul piano
dei contenuti è solo con la deliberazione n.
32/2006 che è stato approvato un progetto
avente le caratteristiche del progetto
definitivo, recando esso in allegato, tra
l’altro, il piano particellare d’esproprio
(cfr. TAR Lazio, Latina, 04.03.2004, n. 92).
Del resto, in nessuna parte della
deliberazione n. 68 cit. si rinviene la
dichiarazione di p.u.: donde, in ultima
analisi, l’infondatezza delle argomentazioni
della ricorrente.
Da quanto appena esposto discende:
- l’infondatezza del quarto motivo del primo gruppo di
motivi aggiunti, in quanto la deliberazione
n. 32/2006 reca per la prima volta la
dichiarazione di p.u. dell’opera, e non la
proroga di una pregressa dichiarazione che
sarebbe stata contenuta nella deliberazione
n. 68/2000;
- l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di
motivi aggiunti, attesa la tempestività del
decreto di esproprio, emesso il 28.06.2006,
quindi entro il termine di cinque anni
dall’acquisto di efficacia della
dichiarazione di p.u. dell’opera ex art. 13,
comma 4, del d.P.R. n. 327/2001, tenuto
conto che, come appena visto, la citata
dichiarazione di p.u. è intervenuta con la
deliberazione della Giunta Comunale n. 32
del 19.01.2006;
- l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario,
poiché, secondo la giurisprudenza (TAR
Puglia, Bari, Sez. II, 16.06.2005, n. 2919),
all’approvazione del progetto preliminare di
opera pubblica effettuata in difetto di
un’attuale copertura di spesa non consegue
l’illegittimità dell’atto, ma
esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del
d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di
effettuare la spesa fino al reperimento
degli specifici fondi;
- l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario,
giacché la fissazione dei termini di inizio
e compimento dei lavori e delle
espropriazioni non occorre, ove sia stato
approvato solo il progetto preliminare
dell’opera da realizzare, inidoneo a
comportare gli effetti di una dichiarazione
implicita di pubblica utilità (C.d.S., Sez.
IV, 08.06.2007, n. 2999; id., 14.12.2002, n.
6917; TAR Calabria, Reggio Calabria,
03.10.2005, n. 1745)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il testo dell’art. 151, comma 4,
del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei
fatti recitava: “I provvedimenti dei
responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al
responsabile del servizio finanziario e sono
esecutivi con l’apposizione del visto di
regolarità contabile attestante la copertura
finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha
affermato che l’atto amministrativo emanato
senza copertura finanziaria, lungi
dall’essere “nullo di diritto”, come
previsto dalla previgente disciplina (cfr.
l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è
valido, ma diviene esecutivo solo con
l’apposizione del visto di regolarità
contabile attestante la copertura.
Assai significativo, sul punto, è un recente
arresto che, proprio con riguardo ad una
vicenda in cui ci si doleva
dell’approvazione di un progetto di opere
pubbliche comportante l’espropriazione di
aree di proprietà privata, pur essendosi
prevista una copertura solo parziale delle
opere, ha escluso che possano rilevare,
quali vizi di legittimità dell’atto,
eventuali difetti di integrale copertura
finanziaria del progetto approvato.
In definitiva, pertanto, la copertura
finanziaria e la relativa attestazione non
costituiscono requisito di validità del
provvedimento amministrativo,
rappresentandone, semmai, condizione di
esecutività: ciò, in quanto la copertura
finanziaria non attiene alla volizione
contenuta nell’atto, ma concerne il distinto
profilo dell’esistenza di stanziamenti di
bilancio necessari a fare fronte agli oneri
finanziari da esso rivenienti.
---------------
Infine, va sgombrato il campo dall’ulteriore
equivoco, per cui l’asserita assenza e/o
insufficienza della copertura finanziaria
per il progetto in esame avrebbero inciso
sulla legittimità e, quindi, sulla validità
dei provvedimenti di approvazione del
progetto stesso.
Il punto richiede una precisazione.
Ad avviso del Collegio, la ricorrente è
legittimata a sollevare la questione ora
riportata, nella misura in cui lamenta come
l’asserita carenza di mezzi finanziari
precluderebbe al Comune di versarle le somme
che le spettano a titolo indennitario;
tuttavia, va escluso che la presenza di
adeguati mezzi finanziari costituisca
requisito di legittimità degli atti
impugnati ed in specie delle deliberazioni
nn. 68/2000 e 32/2006, nonché della
determinazione n. 29/2006.
Ed invero, il testo dell’art. 151, comma 4,
del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei
fatti recitava: “I provvedimenti dei
responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al
responsabile del servizio finanziario e sono
esecutivi con l’apposizione del visto di
regolarità contabile attestante la copertura
finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha
affermato che l’atto amministrativo emanato
senza copertura finanziaria, lungi
dall’essere “nullo di diritto”, come
previsto dalla previgente disciplina (cfr.
l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è
valido, ma diviene esecutivo solo con
l’apposizione del visto di regolarità
contabile attestante la copertura (cfr.,
ex multis, C.d.S., Sez. IV, 25.05.2005,
n. 2718; TAR Campania, Napoli, Sez. V,
06.05.2015, n. 2503; TAR Puglia, Lecce, Sez.
III, 02.12.2014, n. 3029).
Assai significativo, sul punto, è un recente
arresto che, proprio con riguardo ad una
vicenda in cui ci si doleva
dell’approvazione di un progetto di opere
pubbliche comportante l’espropriazione di
aree di proprietà privata, pur essendosi
prevista una copertura solo parziale delle
opere, ha escluso che possano rilevare,
quali vizi di legittimità dell’atto,
eventuali difetti di integrale copertura
finanziaria del progetto approvato (C.d.S.,
Sez. IV, 29.08.2013, n. 4315).
In definitiva, pertanto, la copertura
finanziaria e la relativa attestazione non
costituiscono requisito di validità del
provvedimento amministrativo,
rappresentandone, semmai, condizione di
esecutività: ciò, in quanto la copertura
finanziaria non attiene alla volizione
contenuta nell’atto, ma concerne il distinto
profilo dell’esistenza di stanziamenti di
bilancio necessari a fare fronte agli oneri
finanziari da esso rivenienti (cfr. C.d.S.,
Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; TAR Toscana,
Sez. I, 27.01.2017, n. 147).
Ne discende l’infondatezza:
- del quarto motivo del ricorso introduttivo (di cui già si
è sottolineata l’infondatezza sotto distinto
e concorrente profilo);
- dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita
carenza di mezzi finanziari non è
sufficiente, di per sé, a provare lo
sviamento di potere lamentato dalla
ricorrente (secondo cui essa indicherebbe
che il vero fine avuto di mira dalla P.A.
fosse quello di “prenotare” l’area di
sua proprietà attraverso il vincolo
espropriativo).
In argomento si rammenta che, secondo la
giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 08.01.2013,
n. 32; TAR Lazio, Latina, Sez. I,
07.06.2013, n. 524), lo sviamento di potere
–consistente nell’effettiva e comprovata
divergenza fra l’atto e la sua funzione
tipica– deve essere supportato da precisi e
concordanti elementi di prova, idonei a dare
conto delle divergenze dell’atto dalla sua
tipica funzione istituzionale, non bastando
mere supposizioni o indizi che non si
traducano nella dimostrazione
dell’illegittima finalità perseguita in
concreto dalla P.A.;
- del primo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti;
- del secondo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, a
mezzo del quale si censura il mancato
inserimento dell’opera nell’elenco annuale
degli interventi per l’anno 2006, tenuto
conto che la deliberazione di approvazione
del progetto definitivo (n. 32) è stata
assunta dalla Giunta Comunale il 19.01.2006,
cosicché a nulla varrebbe che l’opera sia
inserita nel programma triennale per il
2005/2007 e nell’elenco annuale degli
interventi per il 2005.
Al riguardo, peraltro, si evidenzia che la
deliberazione del Consiglio Comunale di
Bonavigo n. 2 del 03.02.2006, di
approvazione del bilancio di previsione per
il 2006, ha impegnato la spese per la
realizzazione dell’opera pubblica, e che
l’opera è prevista alle pagg. 29 e 93 della
relazione previsionale e programmatica del
Comune, anch’essa approvata con la ricordata
deliberazione n. 2/2006 (cfr. docc. 5 e 6
depositati dalla difesa comunale il
04.05.2006);
- del terzo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti,
nella parte in cui si lamenta con esso non
già l’insufficienza dell’indennità per la
reiterazione del vincolo (questione che,
come detto, è devoluta al G.O.), ma
l’illogicità della spesa prevista per la
realizzazione dell’opera pubblica;
- del terzo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti,
anche qui nella parte in cui si sostiene che
l’inadeguatezza della somma offerta a titolo
di indennità provvisoria di esproprio
–unitamente alla pretesa insufficienza dei
mezzi finanziari complessivamente previsti–
costituirebbero indizi dello sviamento di
potere poc’anzi ricordato
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Niente Tarsu? Non basta
l'inutilizzabilità di fatto.
In tema di rifiuti, per essere esclusi dalla
tassazione di un immobile per
«inutilizzabilità» dello stesso, non è
sufficiente la situazione «di fatto» ma
soltanto ove questa sia indicata dal
contribuente nella denuncia originaria o di
variazione.
Lo ha stabilito la Sez. V civile della Corte
di Cassazione nell'ordinanza
16.06.2017 n. 15044.
La vertenza trae origine dall'impugnazione
degli avvisi di accertamento per Tarsu
relativa agli anni ricompresi tra il 2003 e
il 2007. Il giudice regionale della Puglia
aveva escluso la tassazione dell'immobile
posseduto dal contribuente per
l'inutilizzabilità dello stesso, malgrado
questa inutilizzabilità non fosse mai stata
denunciata dal contribuente, che anzi aveva
ottenuto per la medesima unità la deduzione
Ici «prima casa».
La cassazione ha ribaltato la decisione di
giudici regionali e rinviato la causa per un
nuovo esame. «In base alla norma generale
dell'articolo 62, comma 1, dlgs. n. 507/1993»,
spiegano gli Ermellini, «La Tarsu è
dovuta per il solo fatto della detenzione
immobiliare, sicché le deroghe ammesse
dall'articolo 62, comma 2, non operano per
la mera situazione di fatto, ma soltanto ove
questa sia indicata dal contribuente nella
denuncia originaria o di variazione
(cassazione n. 3772/2013)».
Al di là di ogni disputa interpretativa
quindi, l'articolo 62, comma 1, del dlgs. n.
507/1993 non lascia alcun dubbio: la tassa è
dovuta in ragione dell'occupazione o del
possesso del locale, indipendentemente da
quella che in realtà sia la situazione di
fatto per il diverso uso che se ne possa
fare. Quindi il contribuente che voglia
ottenere l'esclusione dal tributo, ne dovrà
informare il comune con una variazione
adeguata che gli possa consentire l'esonero
in presenza di unità immobiliari che non
producono rifiuti.
Secondo la Corte di cassazione, infatti, al
contribuente non sarà consentito recuperare
successivamente alla mancata variazione così
come aveva, invece, stabilito il Ministero
nella C.M. 22.06.1994, n. 95/E/5/2806,
paragrafo III. La parola passa adesso ai
giudici di rinvio che dovranno conformarsi
con quanto stabilito da Piazza Cavour
(articolo ItaliaOggi del
21.10.2017). |
APPALTI SERVIZI: Gare
outside alla Corte Ue.
Chiarire i limiti temporali entro i quali
una società che gestisce servizi pubblici
locali può partecipare a gare per
l'affidamento di servizi pubblici anche al
di fuori del proprio ambito territoriale.
È uno dei punti che il Consiglio di Stato
-Sez. V,
ordinanza 29.05.2017 n. 2555- ha
posto alla Corte di giustizia con una
domanda pregiudiziale (12.06.2017,
pubblicata sulla gazzetta europea di ieri)
su una vicenda che coinvolge le Autolinee
toscane (causa C-351/17) e che ha ad oggetto
il regolamento (Ce) n. 1370/2007 e la sua
applicazione nel nostro ordinamento.
In particolare i giudici di Palazzo Spada
chiedono, in rapporto al divieto per un
operatore interno, di partecipare a gare
«extra moenia» (di cui alle lettere b e d
dell'articolo 5 del regolamento Ce) se esso
sia applicabile anche agli affidamenti
aggiudicati in epoca precedente all'entrata
in vigore del medesimo regolamento.
Un
secondo punto posto all'attenzione della
Corte europea è se sia astrattamente
riconducibile alla qualifica di «operatore
interno», ai sensi del medesimo regolamento
e in eventuale analogia di ratio con la
giurisprudenza formatasi sull'istituto
dell'in house providing, una persona
giuridica di diritto pubblico titolare di
affidamento diretto del servizio di
trasporto locale ad opera di una
amministrazione statale, laddove la prima
sia direttamente collegata alla seconda
sotto il profilo organizzativo e di
controllo ed il cui capitale sociale sia
detenuto dallo Stato medesimo (integralmente
o pro quota, in tal caso unitamente ad altri
enti pubblici).
Un terzo elemento attiene
invece alla possibilità che non sia
applicabile il regolamento europeo nel caso
in cui, a fronte di un affidamento diretto
di servizi ricadenti nell'ambito di
disciplina del regolamento (Ce) n.
1370/2007, successivamente all'affidamento,
l'amministrazione istituisca un ente
pubblico amministrativo dotato di poteri
organizzativi sui servizi in questione
(rimanendo peraltro in capo allo Stato
l'esclusivo potere di disporre del titolo concessorio)
che non esercita alcun «controllo analogo»
sull'affidatario diretto dei servizi.
Infine il Consiglio di stato chiede alla
Corte se l'originaria scadenza di un
affidamento diretto oltre il termine
trentennale del 03.12.2039 (termine
decorrente dalla data di entrata in vigore
del regolamento (Ce) 1370/2007) comporti
comunque la non conformità dell'affidamento
ai principi del regolamento, oppure se
l'irregolarità debba considerarsi
automaticamente sanata per implicita
riduzione al termine trentennale
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2017). |
TRIBUTI: Delibere
illegittime senza un piano finanziario ad
hoc.
Sono illegittime le delibere tariffarie se
l'amministrazione comunale non predispone un
piano finanziario dettagliato.
In questi termini si è espresso il TAR
Lazio-Latina con la
sentenza 04.01.2017 n. 1.
Per i giudici amministrativi, il piano
finanziario Tari deve contenere tutte le
indicazioni previste dalla legge, altrimenti
rende illegittima la delibera che fissa le
tariffe. Il piano finanziario non può
tradursi in una tabella riassuntiva dei
costi del servizio, distinti in fissi e
variabili. E non è sufficiente che gli
elementi richiesti dalla legge siano
indicati in una relazione allegata alla
delibera comunale.
Nel caso esaminato il
piano approvato dall'amministrazione
comunale, secondo il Tar, «non è un
documento di tipo pianificatorio ma una
semplice tabella riassuntiva dei costi del
servizio, distinti in costi fissi e costi
variabili, e con finale indicazione della
incidenza percentuale di questi ultimi sul
costo complessivo». Mancano, infatti, nella
tabella gli elementi richiesti dall'articolo
8 del dpr 158/1999 per il piano e la
relazione. E non sono state rispettate le
regole stabilite dal regolamento sul metodo
normalizzato. Ancorché possano essere
sintetici gli atti suddetti, devono tuttavia
contenere i requisiti essenziali.
Dunque, il
comune non può invocare la circostanza che
essi sono rinvenibili in una relazione che
«non fa parte del piano approvato, come del
resto si ammette in memoria, e costituisce
quindi un semplice atto istruttorio». In
particolare, il citato articolo 8 prescrive
che il piano finanziario deve comprendere il
programma degli interventi necessari; il
piano finanziario degli investimenti e la
specifica dei beni, delle strutture e dei
servizi disponibili.
Inoltre, occorre
specificare se si fa ricorso all'utilizzo di
beni e strutture di terzi o si affida il
servizio a terzi. Al piano, poi, va allegata
una relazione dalla quale deve emergere il
modello gestionale ed organizzativo, i
livelli di qualità del servizio ai quali
deve essere commisurata la tariffa e
l'elencazione degli impianti esistenti per
l'anno precedente. Infine, devono essere
posti in evidenza gli scostamenti che si
siano eventualmente verificati e le relative
motivazioni (articolo ItaliaOggi
Sette del
02.10.2017). |
AGGIORNAMENTO AL 10.10.2017 |
ã |
Commissariato il PARCO ADDA NORD!! |
ENTI LOCALI:
Parco Adda Nord: Giovanni Bolis nominato commissario
regionale.
"Giovanni Bolis è il Commissario regionale del
Parco Adda Nord". Lo fa sapere l'assessore
all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile della
Lombardia, annunciando il provvedimento, approvato
dalla Giunta (deliberazione
G.R. 09.10.2017 n. 7188), che stabilisce anche la decadenza
dall'incarico dell'attuale presidente e lo
scioglimento del Consiglio di Gestione dell'Ente
Parco Adda Nord.
LE MOTIVAZIONI
- "Un provvedimento doveroso -sottolinea
l'assessore regionale- che ho dovuto prendere a
seguito dei risultati della verifica ispettiva,
avviata grazie a una serie di segnalazioni che ho
ricevuto, dalla quale sono emerse gravi
irregolarità, trasmesse anche alle autorità
competenti: Procura della Repubblica, Corte dei
Conti, Autorità nazionale anticorruzione e Inps".
L'ISPEZIONE
- In seguito a segnalazioni da parte di alcuni
componenti del comitato di gestione del Parco,
pervenute agli uffici dell'assessore all'Ambiente,
Energia e Sviluppo sostenibile in merito a presunti
comportamenti di dubbia legittimità nell'ambito
dell'attività dell'ente Parco Adda Nord, la
direzione di funzione specialistica sistema dei
controlli della presidenza regionale, in
collaborazione con la Direzione generale Ambiente,
ha avviato una verifica ispettiva sull'Ente.
L'attività di ispezione si è svolta anche in
contraddittorio con l'ente gestore del Parco, e ha
abbracciato un lasso di tempo che va dal mese di
ottobre 2016 al 21.06.2017. Ha partecipato
all'attività di verifica ispettiva anche l'Arac,
l'Agenzia regionale anticorruzione.
IRREGOLARITÀ ACCERTATE
- Gli accertamenti svolti hanno rilevato molteplici
irregolarità, sia amministrative, sia contabili
riconducibili all'attività dell'Ente negli ultimi
anni. In particolare, le violazioni riscontrate si
riferiscono, soprattutto, alla violazione delle
procedure di acquisizione del personale,
all'affidamento di incarichi e di aggiudicazione di
appalti di servizi e forniture; alla carente
motivazione nei provvedimenti amministrativi e
all'omessa redazione dei contratti in forma scritta.
IL COMMISSARIO
- Giovanni Bolis eserciterà i compiti e le funzioni
del presidente e del Consiglio di Gestione per porre
in essere tutte le misure utili anche di natura
organizzativa per la regolarizzazione e il
miglioramento delle attività del Parco, tenendo
conto delle indicazioni contenute nella relazione
conclusiva della verifica ispettiva. La durata della
nomina è di 12 mesi e l'indennità è pari a 1.500
euro lordi, mensili, con oneri a carico del parco
Adda Nord. "Non posso tollerare -conclude
l'assessore regionale- che accadano episodi simili.
Come amministratori seri abbiamo il dovere di
vigilare e in questo caso non potevamo soprassedere.
La situazione era oramai compromessa e occorreva un
deciso cambio di rotta" (09.10.2017 -
tratto da e link a www.regione.lombardia.it). |
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Sulla rettifica
(in più) della misura del
contributo di costruzione erroneamente quantificato
tempo addietro, quale attività
-purché svolta entro il termine di prescrizione
decennale- non solo legittima ma
anzi doverosa per la Pubblica Amministrazione.
In primis il
TAR dà ragione al cittadino ricorrente... |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale di addossare al
titolare di un permesso edilizio, rilasciato oltre
cinque anni prima, l’ulteriore carico finanziario
derivante (a ben vedere) dal meccanismo di
aggiornamento del contributo di costruzione.
Nella fattispecie, effettivamente, il provvedimento
comunale impugnato -recante in oggetto “Recupero
delle somme non versate a titolo di contributo di
costruzione relativamente al permesso di costruire
n. 09 del 16.04.2009 P.E. 65/2007”- accolla ex post
alla ricorrente, in ragione del titolo edilizio
rilasciato oltre cinque anni prima, ulteriori oneri
concessori.
Il Tribunale ritiene di escludere che si sia di
fronte all’esercizio di un potere di autotutela
volto a correggere meri errori di determinazione o
calcolo compiuti all’epoca del rilascio del permesso
di costruire.
A ben vedere, l’attività comunale appare -invece-
orientata ad addossare al privato successivamente al
rilascio del titolo edilizio costi supplementari
derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli
oneri concessori (e, in particolare, della
componente costituita dal costo di costruzione).
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi
ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli
oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili
costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma,
D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce
relativa al costo di costruzione, facendo
“riferimento ai costi massimi ammissibili per
l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e
in assenza di quest’ultima “in ragione
dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma,
D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare
l’importo degli oneri concessori a fenomeni di
natura sostanzialmente inflattiva -legati
all’aumento generalizzato dei costi di
urbanizzazione o costruzione- in maniera da far
corrispondere a permessi edilizi rilasciati in
epoche diverse un impegno economico sostanzialmente
uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza amministrativa, fondato sullo stesso
tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001
n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri
di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto
del rilascio del permesso di costruire” e “la quota
di contributo relativa al costo di costruzione,
determinata all'atto del rilascio”), i contributi
concessori devono essere stabiliti al momento del
rilascio del permesso edilizio; a tale momento
occorre dunque avere riguardo per la determinazione
della entità dell’onere facendo applicazione della
normativa vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il
corollario della irretroattività delle
determinazioni comunali a carattere regolamentare
con cui vengono stabiliti i criteri generali e le
nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri
concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la
irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni
tariffarie sopravvenute rispetto al momento del
rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che i provvedimenti
comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri
concessori (sia con riferimento alla voce relativa
agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla
voce inerente al costo di costruzione) possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione
dell'atto deliberativo (avente carattere
regolamentare), e non anche per quelli rilasciati in
epoca anteriore.
Questo Tribunale ritiene, sulla base del dato
normativo e in conformità dell’orientamento
giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono
ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri concessori debba avvenire
sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa
non possa essere richiesta che una tantum al momento
del rilascio del permesso edilizio senza possibilità
di esigersi pagamenti per annualità successive al
rilascio del titolo.
---------------
Né può condividersi la tesi del Comune resistente
secondo cui, nel particolare caso di specie, si
tratterebbe della rettifica di un mero errore di
calcolo nella determinazione del quantum della voce
relativa al costo di costruzione compiuto dagli
Uffici comunali al momento della liquidazione, in
quanto non corrispondente alle determinazioni
regionali direttamente vigenti al momento del
rilascio del permesso di costruire n. 9 del
16.04.2009.
E’ agevole, infatti, rilevare in proposito che le
previsioni normative vigenti in “subiecta materia”
(art. 16, sesto e nono comma, del D.P.R. 06.06.2001
n. 380 e 2, secondo comma, della Legge Regionale
Pugliese 01.02.2007 n. 1, statuente che: “I Comuni
hanno facoltà di applicare al costo base per
l’edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i
criteri per il calcolo del contributo relativo al
costo di costruzione di cui all’Allegato A della
presente legge, motivando adeguatamente le eventuali
riduzioni o incrementi sia in relazione alle
situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai
costi di costruzione effettivamente praticati in
loco”) contemplano espressamente ed
inequivocabilmente il necessario esercizio di un
potere regolamentare/tariffario da parte dell’Ente
Comune (in ordine alla quantificazione della misura
dei contributi concessori, vuoi per la componente
relativa agli oneri di urbanizzazione, vuoi per la
componente inerente il costo di costruzione), che
-con ogni evidenza- non può avere effetto
retroattivo ed impedisce (prima della sua concreta
esplicazione) la diretta applicabilità delle
determinazioni regionali modificative degli importi
del costo di costruzione dovuto per le nuove
edificazioni.
---------------
... per l'annullamento della nota prot. n. 7259 del
23.09.2014 a firma del Responsabile del Settore
Servizi Tecnici, notificata in data 01.10.2014, con
la quale il Comune di Arnesano, in rettifica
dell’ammontare del contributo correlato al costo
costruzione a suo tempo richiesto per il rilascio
del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009, ha
intimato alla Società ricorrente il pagamento della
somma di € 9.948,60;
...
La Società ricorrente impugna la nota prot. n. 7259
del 23.09.2014 a firma del Responsabile del Settore
Servizi Tecnici, notificata in data 01.10.2014, con
la quale il Comune di Arnesano, in rettifica
dell’ammontare del contributo correlato al costo
costruzione a suo tempo richiesto per il rilascio
del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009
(impianto carburanti), le ha intimato il pagamento
(entro il termine di sessanta giorni) della somma di
€ 9.948,60, nonché ogni altro atto presupposto,
connesso e/o consequenziale tra cui in particolare
la nota del Responsabile del Settore Servizi Tecnici
prot. n. 5428 dell’08.07.2014.
Chiede, altresì, l’accertamento e la declaratoria
dell’inesistenza del credito vantato dal Comune di
Arnesano a mezzo degli atti sopra indicati.
...
Il ricorso è fondato nel merito e va accolto.
Con la presente impugnativa la Società ricorrente
assume (essenzialmente) che il Comune di Arnesano
abbia (illegittimamente) rideterminato
retroattivamente l’importo del contributo correlato
al costo di costruzione, a distanza di oltre cinque
anni dal rilascio del permesso di costruire n. 9 del
16.04.2009, ultimata l’opera edilizia e saldati il
pagamento degli oneri richiesti.
La doglianza merita di essere condivisa.
Osserva il Collegio che, effettivamente, il
provvedimento comunale impugnato -recante in oggetto
“Recupero delle somme non versate a titolo di
contributo di costruzione relativamente al permesso
di costruire n. 09 del 16.04.2009 P.E. 65/2007”-
accolla ex post alla ricorrente, in ragione
del titolo edilizio rilasciato oltre cinque anni
prima, ulteriori oneri concessori.
Il Tribunale, in seguito alla lettura del
provvedimento contestato, ritiene di escludere che
si sia di fronte all’esercizio di un potere di
autotutela volto a correggere meri errori di
determinazione o calcolo compiuti all’epoca del
rilascio del permesso di costruire.
A ben vedere, l’attività comunale appare -invece-
orientata ad addossare al privato successivamente al
rilascio del titolo edilizio costi supplementari
derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli
oneri concessori (e, in particolare, della
componente costituita dal costo di costruzione).
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi
ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli
oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione
primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16,
sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in
relazione alla voce relativa al costo di
costruzione, facendo “riferimento ai costi
massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su
determinazione regionale, e in assenza di
quest’ultima “in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata
dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma, D.P.R.
06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare
l’importo degli oneri concessori a fenomeni di
natura sostanzialmente inflattiva -legati
all’aumento generalizzato dei costi di
urbanizzazione o costruzione- in maniera da far
corrispondere a permessi edilizi rilasciati in
epoche diverse un impegno economico sostanzialmente
uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza amministrativa, fondato sullo stesso
tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001
n. 380 (“la quota di contributo relativa agli
oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire” e
“la quota di contributo relativa al costo di
costruzione, determinata all'atto del rilascio”),
i contributi concessori devono essere stabiliti al
momento del rilascio del permesso edilizio; a tale
momento occorre dunque avere riguardo per la
determinazione della entità dell’onere facendo
applicazione della normativa vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il
corollario della irretroattività delle
determinazioni comunali a carattere regolamentare
con cui vengono stabiliti i criteri generali e le
nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri
concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum” e, quindi, la
irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni
tariffarie sopravvenute rispetto al momento del
rilascio della concessione edilizia (Cfr. “ex
multis”: TAR Puglia Lecce, III Sezione,
15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che i provvedimenti
comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri
concessori (sia con riferimento alla voce relativa
agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla
voce inerente al costo di costruzione) possano
trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione
dell'atto deliberativo (avente carattere
regolamentare), e non anche per quelli rilasciati in
epoca anteriore.
Questo Tribunale ritiene, sulla base del dato
normativo e in conformità dell’orientamento
giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono
ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri concessori debba avvenire
sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa
non possa essere richiesta che una tantum al
momento del rilascio del permesso edilizio senza
possibilità di esigersi pagamenti per annualità
successive al rilascio del titolo (Cfr. “ex
multis”: TAR Puglia Lecce, III Sezione,
15.01.2013 n. 49).
E’, pertanto, evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione Comunale di Arnesano di
addossare al titolare di un permesso edilizio
rilasciato oltre cinque anni prima l’ulteriore
carico finanziario derivante (a ben vedere) dal
meccanismo di aggiornamento.
Né può condividersi la tesi del Comune resistente
secondo cui, nel particolare caso di specie, si
tratterebbe della rettifica di un mero errore di
calcolo nella determinazione del quantum
della voce relativa al costo di costruzione compiuto
dagli Uffici comunali al momento della liquidazione,
in quanto non corrispondente alle determinazioni
regionali direttamente vigenti al momento del
rilascio del permesso di costruire n. 9 del
16.04.2009.
E’ agevole, infatti, rilevare in proposito che le
previsioni normative vigenti in “subiecta materia”
(art. 16, sesto e nono comma, del D.P.R. 06.06.2001
n. 380 e 2, secondo comma, della Legge Regionale
Pugliese 01.02.2007 n. 1, statuente che: “I
Comuni hanno facoltà di applicare al costo base per
l’edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i
criteri per il calcolo del contributo relativo al
costo di costruzione di cui all’Allegato A della
presente legge, motivando adeguatamente le eventuali
riduzioni o incrementi sia in relazione alle
situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai
costi di costruzione effettivamente praticati in
loco”) contemplano espressamente ed
inequivocabilmente il necessario esercizio di un
potere regolamentare/tariffario da parte dell’Ente
Comune (in ordine alla quantificazione della misura
dei contributi concessori, vuoi per la componente
relativa agli oneri di urbanizzazione, vuoi per la
componente inerente il costo di costruzione), che
-con ogni evidenza- non può avere effetto
retroattivo ed impedisce (prima della sua concreta
esplicazione) la diretta applicabilità delle
determinazioni regionali modificative degli importi
del costo di costruzione dovuto per le nuove
edificazioni.
In conclusione, per le ragioni esposte, vista
l’illegittimità del provvedimento impugnato, il
ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez.
III,
sentenza
01.03.2016 n. 404
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
...ma l'adito Consiglio di Stato, censurando il TAR,
dà ragione al comune: |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla rettifica (in più) della misura del contributo di
costruzione erroneamente quantificato, quale attività
–purché svolta entro il termine di prescrizione decennale-
non solo legittima ma anzi doverosa per la Pubblica
Amministrazione.
Sul piano normativo, occorre ricordare che le controversie
in tema di determinazione della misura dei contributi
edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che
traggono origine direttamente da fonti normative, per cui
sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di
provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di
prescrizione.
Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa, ha già avuto modo di affrontare la
questione della rideterminazione degli oneri concessori da
parte dell’amministrazione, con considerazioni che si
intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela
della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato
nella più risalente determinazione degli oneri adottata
dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri
errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela
dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella
quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione
consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche
(sia in favore del privato che in senso contrario), purché
ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo
diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri
di urbanizzazione non è attività autoritativa e la
contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile
nel termine di prescrizione decennale a prescindere
dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito
a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel
caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a
prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale
l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti
parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura
cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità
applicativa”;
c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità
ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove
affetta da errore, con il solo limite della maturata
prescrizione del credito). La originaria determinazione,
pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma
affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta
originaria erroneità della determinazione iniziale sussista
effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un
importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato
un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
---------------
Nel caso di specie, il Comune, rilevato di
aver provveduto a calcolare l’importo dovuto quale
contributo per il costo di costruzione per il permesso di
costruire “senza tener conto della
normativa regionale in vigore al momento del rilascio del
titolo abilitativo” ha provveduto a rideterminare
l’importo dovuto, facendo applicazione della normativa
innanzi citata.
Sicché, nella fattispecie non vi è stata alcuna attività di
adeguamento/integrazione del contributo in momento
successivo al rilascio del titolo (il che integrerebbe, ove
fosse, una violazione dell’art. 16 DPR n. 380/2001), ma solo
una rettifica della misura del contributo, riportandolo a
quanto effettivamente dovuto sulla base di già adottate e
vigenti disposizioni regionali.
E tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale-
non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica
Amministrazione.
---------------
... per la riforma
della
sentenza
01.03.2016 n. 404 del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE:
SEZ. III, resa tra le parti, concernente
rettifica ammontare del contributo a titolo di costo di
costruzione per il rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, il Comune di Arnesano impugna la
sentenza 01.03.2016 n. 404, con la quale il TAR per la
Puglia, Sez. III della sede di Lecce ha accolto il ricorso
proposto dalla società Me. s.r.l. ed ha annullato la
nota del Responsabile Settore servizi tecnici 23.02.2014 n. 7259, recante la rettifica dell’ammontare del
contributo correlato al costo di costruzione a suo tempo
richiesto per il rilascio del permesso di costruire n.
9/2009 e la conseguente intimazione a pagare la ulteriore
somma di Euro 9948,60.
La sentenza impugnata –rilevato che la società ricorrente
assume (essenzialmente) che il Comune di Arnesano abbia
(illegittimamente) rideterminato retroattivamente l’importo
del contributo correlato al costo di costruzione, a distanza
di oltre cinque anni dal rilascio del permesso di costruire– afferma, in particolare:
- escluso che “si sia di fronte all’esercizio di un potere
di autotutela volto a correggere meri errori di
determinazione o calcolo compiuti all’epoca del rilascio del
permesso di costruire ... l’attività comunale appare
invece orientata ad addossare al privato successivamente al
rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti
dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori
(e, in particolare, della componente costituita dal costo di
costruzione”;
- “i contributi concessori devono essere stabiliti al
momento del rilascio del titolo edilizio; a tale momento
occorre dunque avere riguardo per la determinazione
dell’entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio”;
- “i provvedimenti comunali che dispongono l’adeguamento
degli oneri concessori (sia con riferimento alla voce
relativa agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla
voce inerente al costo di costruzione) possono trovare
applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far
tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo (avente
carattere regolamentare), e non anche per quelli rilasciati
in epoca anteriore”;
- ne consegue che è “illegittima la pretesa
dell’amministrazione comunale di Arnesano di addossare al
titolare di un permesso edilizio rilasciato oltre cinque
anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante ...
dal meccanismo di aggiornamento”.
...
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, nei
limiti di cui in motivazione, con conseguente parziale
riforma della sentenza impugnata.
2.1. L’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di
esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Quanto a quest’ultimo, il comma 9 prevede:
“Il costo di costruzione per i nuovi edifici è determinato
periodicamente dalle regioni con riferimento ai costi
massimi ammissibili per l'edilizia agevolata, definiti dalle
stesse regioni a norma della lettera g) del primo comma
dell'articolo 4 della legge 05.08.1978, n. 457. Con lo
stesso provvedimento le regioni identificano classi di
edifici con caratteristiche superiori a quelle considerate
nelle vigenti disposizioni di legge per l'edilizia
agevolata, per le quali sono determinate maggiorazioni del
detto costo di costruzione in misura non superiore al 50 per
cento. Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni
regionali, ovvero in eventuale assenza di tali
determinazioni, il costo di costruzione è adeguato
annualmente, ed autonomamente, in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT). Il contributo afferente al
permesso di costruire comprende una quota di detto costo,
variabile dal 5 per cento al 20 per cento, che viene
determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche
e delle tipologie delle costruzioni e della loro
destinazione ed ubicazione”.
A fronte di ciò, l’art. 2 l.reg. Puglia 01.02. 2007 n.
1, prevede:
“1. Il costo di costruzione per la nuova edificazione viene
confermato, fino a nuovo aggiornamento, in misura pari al
costo base di nuova costruzione stabilito, con riferimento
ai limiti massimi ammissibili per l'edilizia residenziale
agevolata, a norma della lettera g) del primo comma
dell'articolo 4 della legge 05.08.1978, n. 457 (Norme per
l'edilizia residenziale), con Delib. G.R. 04.04.2006, n.
449 (Aggiornamento dei limiti massimi di costo per gli
interventi di Edilizia residenziale sovvenzionata e di
Edilizia residenziale agevolata), ossia pari a euro
594,00/mq.
2. I comuni hanno facoltà di applicare al costo base per
l'edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i
"Criteri per il calcolo del contributo relativo al costo di
costruzione" di cui all'allegato A della presente legge,
motivando adeguatamente le eventuali riduzioni o incrementi
sia in relazione alle situazioni di bilancio comunale sia in
relazione ai costi di costruzione effettivamente praticati
in loco.
3. In assenza di apposite deliberazioni della Giunta
regionale che provvedano ad adeguare il costo di
costruzione, il costo medesimo, così come determinato dalla
presente legge, è adeguato annualmente dai comuni in ragione
dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT).
4. Il primo adeguamento annuale si applica ai permessi di
costruire e/o alla Denuncia inizio attività (DIA) la cui
domanda sia pervenuta al comune, completa, in data
successiva al 31.12.2006; analogamente, per gli anni a
seguire, l'adeguamento annuale si applica ai permessi di
costruire e/o alla DIA la cui domanda sia pervenuta al
Comune, completa, in data successiva al 31 dicembre di ogni
anno”.
Dalle disposizioni innanzi riportate si evince che il potere
di determinazione del costo di costruzione per i nuovi
edifici è attribuito alle Regioni e che, qualora queste
ultime non vi provvedano ovvero nei periodi intercorrenti
tra le determinazioni regionali, “il costo di costruzione è
adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione
dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT)”.
Nella Regione Puglia, inoltre, al costo di costruzione,
ragguagliato a quello previsto per l’edilizia residenziale
pubblica, i Comuni “hanno facoltà” di applicare, in aggiunta
al costo base determinato dalla Regione, “eventuali
riduzioni o incrementi sia in relazione alle situazioni di
bilancio comunale sia in relazione ai costi di costruzione
effettivamente praticati in loco”.
Ovviamente, qualora i Comuni non esercitino tale “facoltà”
(e non obbligo) –in data antecedente a quella del rilascio
del titolo edilizio, e senza possibilità di applicazione
retroattiva- il contributo dovuto per costo di costruzione
resta commisurato a quello definito dalla Regione,
eventualmente incrementato, sussistendone i presupposti,
mediante applicazione dell’indicato indice ISTAT.
2.2. Tanto precisato sul piano normativo, occorre ricordare
che le controversie in tema di determinazione della misura
dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine direttamente da fonti
normative, per cui sono proponibili, a prescindere
dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel
termine di prescrizione (Cons. Stato , sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V,
04.05.1992, n. 360).
Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa (v.
Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V, 17.09.2010 n. 6950), ha già avuto modo di affrontare la
questione della rideterminazione degli oneri concessori da
parte dell’amministrazione, con considerazioni che si
intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela
della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato
nella più risalente determinazione degli oneri adottata
dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la
rideterminazione degli oneri concessori da parte
dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri
errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela
dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella
quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione
consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche
(sia in favore del privato che in senso contrario), purché
ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo
diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri
di urbanizzazione non è attività autoritativa e la
contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile
nel termine di prescrizione decennale a prescindere
dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito
a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel
caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a
prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale
l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti
parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura
cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità
applicativa”;
c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità
ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove
affetta da errore, con il solo limite della maturata
prescrizione del credito). La originaria determinazione,
pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma
affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta
originaria erroneità della determinazione iniziale sussista
effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un
importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato
un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
3.1. Nel caso di specie, il Comune di Arnesano, rilevato di
aver provveduto a calcolare l’importo dovuto quale
contributo per il costo di costruzione per il permesso di
costruire 18.04.2009 n. 9 “senza tener conto della
normativa regionale in vigore al momento del rilascio del
titolo abilitativo” –e precisamente le delibere di Giunta
Regionale n. 449/2006, n. 2268/2008 e n. 766/2010, nonché
l’art. 2 l.reg. n. 1/2007– ha provveduto a rideterminare
l’importo dovuto, facendo applicazione della normativa
innanzi citata (ad eccezione della delibera di Giunta
regionale n. 766/2010).
Nel caso di specie, dunque, così come sostenuto dal Comune
appellante non vi è stata alcuna attività di
adeguamento/integrazione del contributo in momento
successivo al rilascio del titolo (il che integrerebbe, ove
fosse, una violazione dell’art. 16 DPR n. 380/2001), ma solo
una rettifica della misura del contributo, riportandolo a
quanto effettivamente dovuto sulla base di già adottate e
vigenti disposizioni regionali.
E tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale-
non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica
Amministrazione.
Di conseguenza, non può consentirsi con la sentenza
impugnata:
- né laddove essa afferma che “l’attività comunale appare
invece orientata ad addossare al privato successivamente al
rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti
dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori
(e, in particolare, della componente costituita dal costo di
costruzione”, poiché, come si è detto, trattasi di attività
doverosa di rettifica della misura del contributo in base a
delibere regionali già in precedenza emanate;
- né laddove sostiene che “l’attività comunale appare invece
orientata ad addossare al privato successivamente al
rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti
dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori
(e, in particolare, della componente costituita dal costo di
costruzione”, poiché, se l’adozione del nuovo atto da parte
del Comune è certamente successivo al rilascio del permesso
di costruire, non lo sono, invece, le disposizioni regionali
delle quali si fa applicazione in sede di rettifica.
3.2. Tuttavia, proprio alla luce di quanto sin qui esposto,
la rideterminazione del costo di costruzione, operata dal
Comune di Arnesano, non può fare applicazione né della
delibera di Giunta Regionale n. 755/2010 (richiamata nel
preambolo ma poi non citata tra quelle considerate),
né
della delibera 03.11.2009 n. 2081 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Puglia 17.11.2009
n. 183, che risulta invece considerata), in quanto ambedue
successive alla data di rilascio del permesso di costruire
n. 9 (16.04.2009).
3.3. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere
accolto, nei limiti ora precisati, con conseguente parziale
riforma della sentenza impugnata e corrispondente
accoglimento, in parte, del ricorso instaurativo del
giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.09.2017 n. 4515 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
E adesso si chiedono lumi (riparatori ...
inutilmente) al M.I.T. poiché "a
seguito di indagini della Guardia di finanza, nella
sola provincia di Lecce, la quasi totalità dei
comuni (97 comuni) è incorsa in indagini per danno
erariale a carico esclusivamente di circa 200
tecnici comunali per gli anni dal 2008 al 2012, cui
è stato imputato di non aver esercitato la propria
iniziativa nei confronti degli organi politici degli
enti locali per l'adeguamento degli oneri di
urbanizzazione e dei costi di costruzione. In
sostanza, è stata imputata ai tecnici una
responsabilità che invece fa capo alle attribuzioni,
in generale, degli organi politici istituzionali dei
comuni"... |
EDILIZIA PRIVATA:
Interrogazione a risposta scritta 4-18002 del
03.10.2017 presentata dall'On. Sergio
PIZZOLANTE (link a http://aic.camera.it).
---------------
PIZZOLANTE. — Al Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti. — Per sapere
–premesso che:
●
il contributo di costruzione costituisce
un'obbligazione contributiva; tale obbligazione si
compone degli oneri di urbanizzazione e dei costi di
costruzione;
●
l'incidenza degli oneri di urbanizzazione deve
essere stabilita dai comuni in base a tabelle
parametriche definite da ciascuna regione. Ogni
cinque anni i comuni devono provvedere ad aggiornare
gli oneri di urbanizzazione, in conformità alle
disposizioni regionali. Nei periodi intercorrenti
tra le determinazioni regionali, il costo di
costruzione deve essere adeguato annualmente, ed
autonomamente, in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata
dall'Istat;
●
l'ultimo provvedimento in merito della regione
Puglia è rappresentato dalla deliberazione della
giunta regionale n. 2081 del 2009. In tale regione,
malgrado l'elevazione degli oneri di urbanizzazione
e dei costi di costruzione operati dal 2007 in poi,
diversi comuni hanno continuato a prescindere da
tali determinazioni regionali (auto-operative),
continuando ad applicare il precedente inferiore
parametro di fonte ministeriale, sostanzialmente per
non gravare sullo sviluppo del settore edilizio in
chiara funzione anti crisi;
●
tuttavia, i medesimi comuni pugliesi stanno
inoltrando in questi anni a cittadini e imprese,
richieste di rettifica verso l'alto dell'ammontare
del contributo correlato al costo di costruzione, in
applicazione tardiva delle norme regionali. Questo
ha prodotto un contenzioso giunto sino al Consiglio
di Stato (IV sezione, sentenza 15.06.2017 su ricorso
n. 07053/2016) che ha ribaltato quanto stabilito dal
Tar Puglia, riconoscendo ai comuni il potere-dovere
di ricalcolare successivamente e recuperare, nei
termini di prescrizione decennale, gli oneri
intervenuti medio tempore;
●
a seguito di indagini della Guardia di
finanza, nella sola provincia di Lecce la quasi
totalità dei comuni (97 comuni) è incorsa in
indagini per danno erariale a carico esclusivamente
di circa 200 tecnici comunali per gli anni dal 2008
al 2012, cui è stato imputato di non aver esercitato
la propria iniziativa nei confronti degli organi
politici degli enti locali per l'adeguamento degli
oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione.
In sostanza, è stata imputata ai tecnici una
responsabilità che invece fa capo alle attribuzioni
in generale degli organi politici istituzionali dei
comuni;
●
il Consiglio regionale della Puglia ha approvato un
ordine del giorno riguardante le competenze dei
comuni in materia di oneri di urbanizzazione e costi
di costruzione, nel quale si è impegnato il
presidente della giunta regionale «ad assumere
un'iniziativa affinché si induca il Governo ad
affermare con un provvedimento legislativo, anche in
via di interpretazione autentica, la discrezionalità
dei comuni in materia di adeguamento dei contributi
di costruzione e che tale potere discrezionale resti
di esclusiva competenza del consigli comunali»;
●
un analogo
ordine del giorno (9/3926-A-R/33) è stato pienamente
accolto dalla Camera nella seduta del 21.07.2016
(ndr: si legga a pag. 31).
In esso si impegna il Governo «(...) ad emanare
disposizioni interpretative dei commi 5, 6, 7 e 9
dell'articolo 16 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001 nelle quali si chiarisca
che spetta al consiglio comunale la competenza
esclusiva per quel che riguarda l'aggiornamento
degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione (...)» e che «(...) qualora il
Consiglio, non si pronunci o non ritenga di
pronunciarsi, non sono addebitabili responsabilità
agli organi gestionali dell'ente»–:
se non ritenga di assumere le iniziative di
competenza, in linea con quanto indicato nell'Ordine
del giorno 9/3926-A-R/33 citato in premessa, al fine
di chiarire la corretta interpretazione delle
disposizioni sopra richiamate fissando in capo ai
comuni la competenza esclusiva di aggiornamento
degli oneri di urbanizzazione ed escludendo
qualsiasi responsabilità degli organi tecnici e
gestionali.
(4-18002) |
...quando già con l'AGGIORNAMENTO
AL 26.01.2012 davamo conto (nella
fattispecie ivi rappresentata) di come l'annuale
adeguamento ISTAT del costo (base) di costruzione
fosse "attività
vincolata"
(e non politicamente discrezionale) sicché
di competenza del
Dirigente e non
dell'Organo politico (Giunta), diversamente da
quanto risulta on-line (qua e là) laddove -ancora
oggi- alcuni amministratori illegittimamente
vogliono "deliberare" a tutti i costi.
Non solo, davamo anche conto -con l'AGGIORNAMENTO
AL 17.01.2017- di come
«Si
rischia grosso a "disturbare" la Corte dei Conti con
interrogativi impertinenti...». |
|
|
Il privato (confinante) non può impugnare la d.i.a.
ovvero s.c.i.a. che dir si voglia. |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a.,
atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata.
L’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n.
241, aggiunto dall'art. 6, co. 1, lett. c), del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione:
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca
anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto
inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a.,
atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata;
b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a
quella dell’atto impugnato;
c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita
dal citato art. 19, co. 6-ter;
d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la
conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria
del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura
privatistica della d.i.a.);
e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado,
la signora Ri., oltre a impugnare direttamente la d.i.a.,
abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del
comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non
rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal
quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a
una specifica diffida del confinante, deriva solo la
possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in
vista della nomina di un commissario che prenda in esame la
diffida e provveda su di essa.
---------------
15. Così detto, in parte, del primo motivo dell’appello,
appare più liquido -secondo le coordinate interpretative
dettate dall’Adunanza plenaria 27.04.2015, n. 5- il secondo
motivo di censura incentrato sull’inammissibilità
dell’impugnativa diretta della d.i.a. del 2009 da parte
della signora Ri..
15.1. Il Tar non ha valutato l’eccezione in quanto ha
erroneamente ritenuto che la caducazione dei due permessi di
costruire si ripercuotesse inevitabilmente pure sulla d.i.a.
In questo non può essere seguito perché, come detto prima,
la d.i.a. è l’unico titolo edilizio efficace e oggetto del
giudizio.
15.2. Il motivo è fondato.
15.3. L’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241,
aggiunto dall'art. 6, co. 1, lett. c), del decreto-legge
13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
15.4. Secondo l’orientamento della Sezione (28.04.2017, n.
1967; 09.05.2017, n. 2120; 05.07.2017, n. 3281):
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca
anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto
inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a.,
atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2008, n. 4513; sez. IV,
12.03.2009, n. 1474; sez. IV, 13.05.2010, n. 2919);
b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a
quella dell’atto impugnato;
c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita
dal citato art. 19, co. 6-ter;
d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la
conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria
del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura
privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte appellata
nella memoria del 28 luglio scorso;
e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado,
la signora Ri., oltre a impugnare direttamente la d.i.a.,
abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del
comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non
rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal
quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a
una specifica diffida del confinante, deriva solo la
possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in
vista della nomina di un commissario che prenda in esame la
diffida e provveda su di essa (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.10.2017 n. 4659 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di d.i.a e s.c.i.a., non è
configurabile sia la formazione di un provvedimento
silenzioso ad opera dell’Amministrazione, sia,
conseguentemente, l’impugnativa diretta di atti
schiettamente privatistici.
---------------
10. Il Comune, con il primo e secondo motivo di gravame, ha
eccepito l’inammissibilità e l’irricevibilità del ricorso di
primo grado avverso la nota del 14.02.2007 e la seconda DIA,
in collegamento con l’implicito provvedimento di assenso del
Comune.
Sostiene la titolarità in capo al terzo che si assume leso
solo di un’azione di accertamento, non potendosi configurare
la DIA come un provvedimento amministrativo a formazione
tacita, ma come mero atto privato. Argomenta, inoltre, in
ordine alla tardività dell’impugnazione proposta, atteso che
il mutamento di destinazione d’uso era stato oggetto della
prima DIA, conosciuta e non impugnata, e che la seconda DIA
costituiva solo una variante non essenziale della prima.
10.1. Ritiene il Collegio che, in ossequio al criterio della
ragione più liquida (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del
2015), possa prescindersi dall’esame di tali eccezioni
essendo il ricorso impugnatorio di primo grado infondato nel
merito.
In limine è appena il caso di rilevare –come ribadito
di recente dalla Sezione (cfr. sentenze nn. 2120 e 1967 del
2017)– che, in materia di d.i.a e s.c.i.a., non è
configurabile sia la formazione di un provvedimento
silenzioso ad opera dell’Amministrazione, sia,
conseguentemente, l’impugnativa diretta di atti
schiettamente privatistici (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.07.2017 n. 3281 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato,
anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui
all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990, ha
ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una
DIA, atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente
privata;
b) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita
dal più volte menzionato art. 19, comma 6-ter.
---------------
10. A prescindere dalla fondatezza dell’eccezione formulata
dalla parte appellante di violazione dell’art. 276 c.p.c.,
conseguente all’omessa pronuncia del Tar di Genova in ordine
alla mancata notifica del ricorso al condominio interessato
all’installazione dell’ascensore, va preliminarmente
rilevato che appare più liquida –secondo le coordinate
ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015–
la ragione fondativa del motivo di appello incentrato
sull’inammissibilità dell’impugnativa diretta delle due DIA
presentate dalla signora Be..
11. Il Tar non ha accolto l’eccezione in quanto non ha
ritenuto che la disposizione di cui all’art. 19, comma
6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241 -che ha stabilito la
non impugnabilità diretta della D.I.A.- trovasse
applicazione ratione temporis alle controversie che,
come nel caso di specie, fossero state instaurate in data
anteriore alla sua entrata in vigore.
12. Tuttavia, sul punto va rilevato che:
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca
anteriore alla modifica legislativa di cui all’art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241/1990, ha ritenuto
inammissibile una domanda di annullamento di una DIA, atto
che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (cfr.
Cons. St., sez. IV, 13.05.2010, n. 2919; 12.03.2009, n.
1474; 19.09.2008, n. 4513);
b) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita
dal più volte menzionato art. 19, comma 6-ter.
13. Tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e
coeva a quella degli atti impugnati (DIA del 04.04.2008 e
DIA del 25.03.2010) e comunque precedente alla pronuncia
dell’Adunanza Plenaria n. 15 del 29.07.2011 (che pure ha
confermato la natura privatistica della DIA), richiamata dal
Tar nella motivazione della sentenza impugnata (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 28.04.2017 n. 1967 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
10.10.2017 - LA
SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Comune di Tremezzina - Interventi di pianificazione
attuativa in ambiti vincolati sotto il profilo paesaggistico
- parere ex articolo 16 della legge n. 1150 del 1942
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 03.04.2015 n. 7899 di prot.). |
APPALTI SERVIZI:
Linee guida n. 7 di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50 recanti «Linee Guida per l’iscrizione nell’Elenco delle
amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori
che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di
proprie società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs.
50/2016». Approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera
n. 235 del 15.02.2017 - Aggiornate al D.lgs. 19.04.2017, n.
56 con deliberazione del Consiglio n. 951 del 20.09.2017
(determinazione
20.09.2017 n. 951 - link a www.anticorruzione.it). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Questa Sezione ha già avuto
modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042
continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi
regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa
regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali,
nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti
urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse
storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939
sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in
ragione del principio di “autocompletamento”
dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora
applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3,
della legge n. 1150/1942.
A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005
(rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla
tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si
limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del
DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto
che la legge urbanistica statale costituisce ancora
normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel
caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina
generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
---------------
... per l’annullamento della nota della Soprintendenza belle
arti e paesaggio di Milano, prot. 4672 datata 03.08.2015,
avente ad oggetto “Tremezzina loc. Mezzegra (Co) – piano
attuativo di iniziativa privata ATR 1. Richiedente Ca.Al.,
De Ma. Ca., De Ma. Al., Ra.Gi., Bo.Ma0. Parere ai sensi
dell’art. 16, commi 3 e 4, della L. 1150/1942 – osservazioni
al piano per gli aspetti di impianto paesaggistico”;
...
FATTO
I ricorrenti, premettendo di essere proprietari di immobili
siti in territorio di Mezzegra, situati in un unico
comparto, soggetto a vincolo paesaggistico e per il quale
–ai fini di nuova edificazione– è obbligatorio un piano
attuativo, piano attuativo richiesto il 03.02.2011 ed
approvato con deliberazione consiliare del Consiglio del
Comune di Mezzegra n. 19 del 05.08.2011, impugnano il parere
in epigrafe.
Affidano il ricorso ai seguenti motivi:
1. Violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990, del principio di
partecipazione al procedimento amministrativo, delle
disposizioni comunitarie in materia di partecipazione e
giusto procedimento amministrativo. Il parere definitivo
sarebbe stato espresso senza essere preceduto dal preavviso
di rigetto.
2. Violazione degli artt. 14-ter e 14-quater della L. 241/1990, del
principio di leale collaborazione tra Enti e del principio
del giusto procedimento. La Soprintendenza, convocata alle
conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe
partecipato, ciò da cui deriverebbe, nella prospettazione di
parte ricorrente, l’inammissibilità del parere.
3. Violazione dell’art. 14 LR 12/2005, dell’art. 159 d.lgs. 42/2004,
e del principio di legalità; incompetenza; violazione
dell’art. 1 L. 241/1990, dell’art. 97 Cost. e del principio
di buona amministrazione. Parte ricorrente, premettendo
l’inapplicabilità dell’art. 16 della L. 1150/1942, in quanto
“cedevole” rispetto all’art. 14 della LR 12/2005, che
disciplina il procedimento di approvazione dei piani
attuativi, afferma l’insussistenza di qualsivoglia obbligo
di sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani
attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT.
4. Violazione dell’art. 146, n. 8, d.lgs. 42/2004, degli artt. da 8
a 13 LR 12/2005; eccesso di potere; incompetenza; violazione
degli artt. 117 e 118 Cost., dell’art. 42 Cost., dell’art.
17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
La Soprintendenza, anziché rimanere nell’ambito delle
proprie attribuzioni a tutela del vincolo paesaggistico di
inedificabilità relativa, ne avrebbe esorbitato, imponendo,
di fatto, un vincolo di inedificabilità assoluta e sine
die sul comparto, così trasformando il contenuto
conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di
nuova edificazione.
La Soprintendenza si è costituita, spiegando difese nel
merito.
Con ordinanza 05.02.2016, n. 143, questa Sezione III ha
rigettato la domanda cautelare.
All’udienza del 09.05.2017 la causa è stata trattata e
trattenuta per la decisione.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso non è fondato.
L’impugnato parere della Soprintendenza risulta essere stato
richiesto –a sanatoria– con nota del Comune di Tremezzina n.
4937 del 13.05.2015 (depositata dall’Avvocatura dello Stato
in data 29.03.2017 sub 2) ai sensi dell’art. 16, comma 3,
della legge n. 1150/1942, sul presupposto che «…durante
l’iter di adozione ed approvazione del piano attuativo, non
è stato recepito il parere previsto dall’art. 16 della L. n.
1150/1942. Considerato che con
nota
03.04.2015 n. 7899 di prot., l’Ufficio Legislativo
del Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del
Turismo ha indicato allo scrivente ufficio la possibilità di
chiedere, a sanatoria del piano attuativo, il formale parere
della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 16 della
legge 1150 del 1942…».
Il parere si inserisce quindi nel procedimento di
approvazione del piano attuativo quale atto istruttorio
endoprocedimentale; non è quindi l’atto conclusivo del
procedimento, in relazione al quale dovrebbe essere emanato
il preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della
legge 241/1990.
Il secondo motivo, con cui parte ricorrente deduce
l’illegittimità del parere perché la Soprintendenza, pur
convocata alle conferenze di VAS per l’approvazione del PGT,
non vi avrebbe partecipato, ed il terzo motivo, con
cui viene dedotto che non vi sarebbe obbligo di sottoporre
ad autorizzazione paesaggistica i piani attuativi, a maggior
ragione se conformi al PGT, possono essere trattati
congiuntamente.
Entrambi presuppongono infatti la questione se sia
applicabile ai piani attuativi regolati dalla LR 12/2005 la
previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942,
secondo cui «I piani particolareggiati nei quali siano
comprese cose immobili soggette alla legge 01.06.1939, n.
1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o
storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione
delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti
alla competente soprintendenza…».
Entrambi i motivi sono infondati.
Questa Sezione III, con motivazioni dalle quali questo
Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, ha già avuto
modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042
continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi
regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa
regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali,
nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti
urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse
storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939
sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in
ragione del principio di “autocompletamento”
dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora
applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3,
della legge n. 1150/1942.
A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005
(rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla
tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si
limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del
DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto
che la legge urbanistica statale costituisce ancora
normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel
caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina
generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
Tale applicabilità risulta poi confermata dalla sentenza di
questa Sezione III del 12.02.2016, n. 288.
Ciò determina il rigetto sia del terzo motivo di
ricorso, sia, attesa la diversità fra il procedimento VAS
per il PGT ed il procedimento per il piano attuativo, del
secondo motivo di ricorso.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Con l’impugnato parere non è stata imposta l’inedificabilità
dei suoli, ma espresso parere contrario alla soluzione
proposta invitando i richiedenti e l’Amministrazione
comunale a rivedere il posizionamento e il peso edificatorio
delle previsioni insediative.
Si legge infatti nel parere: «…La soluzione proposta
riguarda la realizzazione di sei corpi di fabbrica (per
complessivi 2.500 mc) oltre alle relative opere esterne e
infrastrutturali d’accesso disposti lungo una fascia
attualmente ad uso agricolo, segnata da ampi terrazzi a
prato sostenuti da muretti a secco, in posizione centrale
rispetto ad un sistema ancora inalterato, che ne
snaturerebbe gravemente le valenze, compromettendo
irrimediabilmente e in via definitiva la qualità dei luoghi,
con perdita dei caratteri identitari del territorio e per
gli effetti intrusivi e occlusivi determinati dai nuovi
insediamenti. Le opere previste sembrano pertanto
determinare, rispetto alle valenze sopra evidenziate,
rilevanti criticità in merito ai seguenti rischi:
- rischio di completa occlusione dello spazio inedificato con
perdita dei residui elementi di equilibrio percettivo di
questo brano del paesaggio agrario storico di elevata
visibilità da lago, dalla sponda opposta nonché dai luoghi
panoramici circumvicini;
- rischio di perdita dell’attuale assetto del paesaggio sotto il
profilo culturale e naturalistico a seguito di opere di
infrastrutturazione che darebbero il via alla saturazione di
questa straordinaria fascia di territorio mantenuta ancora
nei sui assetti storici, come espressamente riconosciuti dal
vincolo.
Tutto ciò richiamato e premesso, questa Soprintendenza
esprime parere contrario alla soluzione proposta, e invita i
richiedenti e l’Amministrazione comunale a rivedere
sostanzialmente il posizionamento e il peso edificatorio
delle previsioni insediative, anche mediante azioni
perequative che portino ad individuare altri ambiti
suscettibili di trasformazione, o ancor meglio privilegiando
operazioni di recupero e di contenuto aumento volumetrico
del patrimonio edilizio esistente…».
Tali valutazioni, oltre a non imporre un vincolo di
inedificabilità assoluta e sine die sul comparto,
costituiscono espressione di potere tecnico–discrezionale
della Soprintendenza, che può formare oggetto di sindacato
del giudice amministrativo solo sotto i profili di
illogicità, irragionevolezza od errore nei presupposti,
profili che non appaiono sussistere.
Il ricorso deve quindi essere rigettato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 29.05.2017 n. 1207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il dato di fatto che
l'area di trasformazione
sia inclusa
nell’area di notevole interesse culturale
determina l’applicazione, alla fattispecie in esame, del
disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942,
ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano
comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n.
1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente
Soprintendenza.
---------------
Deve rilevarsi che l’esistenza di
insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile
con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della
stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in
modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di
trasformazione del territorio.
---------------
Se è vero che il piano attuativo non deve essere sottoposto
a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già stato
vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale
strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere
della Soprintendenza (ex art.
16, comma 3, della L. n. 1150/1942)
in casi di area dichiarata di notevole interesse pubblico,
la cui necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a
VAS dello strumento urbanistico.
---------------
FATTO
Con deliberazione del consiglio comunale n. 3 del 17.02.2010, il Comune di Vizzolo Predabissi ha approvato
il Piano di Governo del Territorio, che ha individuato, tra
le altre, l'area di trasformazione denominata AT6.
Il comparto, che ha una superficie territoriale di circa mq
20.000, si sviluppa ad occidente della Strada Provinciale n.
39 (detta anche Strada Provinciale della Cerca) e si estende
sino al confine ovest del Comune di Vizzolo Predabissi. A
settentrione, l'ambito confina con il distributore di
benzina posto in fregio alla SP39 e con l'area di proprietà
Ku.It., attiva nell'ambito della produzione e
commercializzazione di macchine agricole.
Il Documento di Piano stabilisce che "l'area di
trasformazione AT 6 ha vocazione terziaria. Sono ammissibili
attività ricettive e commerciali nella misura non superiore
al 40% della potenzialità edificatoria di mq 6.000 di Slp
consentita alla iniziativa privata. Il 50% dell'area o un
area che consenta un insediamento pari a quello della
iniziativa privata con un It < 0,6 mq/mq di Slp deve essere
ceduto al Comune per la realizzazione della sede ASL ed ARPA
o altro servizio di interesse pubblico. Lo strumento
esecutivo è il Programma Integrato di Intervento. Le aree
per servizi devono essere pari al 100% della Slp di cui
almeno il 50% destinati a parcheggi e realizzato anche nel
sottosuolo".
La scheda di approfondimento n. 6 della VAS indica che
l’area AT6 si inserisce in un contesto di pregio
paesaggistico, vincolato ai sensi del D.lgs. 42/2004 come
“bellezze d’insieme”, pur precisando, quanto alla
sensibilità paesistica del comparto, che "secondo la
classificazione comunale, l'area AT6 è in classe MOLTO
BASSA".
Invero l’area è inclusa, in forza del decreto del Presidente
della Regione Lombardia n. 1351 del 28.03.1984
nell’elenco delle località da sottoporre a tutela
paesistica, in quanto avente notevole interesse pubblico, ai
sensi della L. 1497/1939.
Con istanza del 23.04.2013, l'Impresa Za. s.r.l.
ha richiesto all'Amministrazione comunale un parere
preventivo circa l'assentibilità del Piano Integrato di
Intervento relativo all'area di trasformazione AT6,
precisando che "si andranno ad edificare tre corpi di
fabbrica a destinazione prettamente commerciale. Le
superfici edificatorie previste dal vigente piano non
vengono saturate nella globalità e di conseguenza anche le
cessioni delle aree e degli standard saranno in rapporto
all'edificato".
Il Progetto prevede infatti la realizzazione di tre corpi di
fabbrica collocati parallelamente alla strada provinciale
SP39. Il primo lotto, posto più a Nord, a confine con il
distributore di carburanti esistente e con il capannone Ku.,
è destinato ad essere ceduto all'Amministrazione affinché vi
insedi i servizi previsti dalla scheda d'ambito. Gli altri
due lotti sono destinati ad ospitare attività commerciali.
Il prospettato insediamento potrà sviluppare una volumetria
sino a mc 25.000 ed un'altezza massima di 4 piani fuori
terra.
Ad occidente del comparto di riferimento (tra il fiume
Lambro ed il comparto stesso) si trova il Cimitero di
Melegnano, che è circondato da un muro in cemento armato
alto otto metri, che si frappone tra il fiume Lambro e le
strutture progettate dall’impresa.
Con nota del 19.07.2013, il Responsabile dell'Ufficio
tecnico comunale ha comunicato che "la soluzione progettuale
risulta in linea di massima ammissibile in relazione al
vigente PGT, in quanto la destinazione commerciale è
compatibile con la vocazione terziaria che connota l'AT6".
Avendo ottenuto preliminare parere favorevole al progetto,
la ricorrente si è attivata per acquistare il terreno
oggetto di trasformazione e ha stipulato il relativo
contratto di compravendita in data 13.09.2013.
Inoltre ha stipulato un contratto preliminare di
compravendita relativamente al lotto 2 di intervento e un
contratto preliminare di locazione ad uso commerciale,
registrato in data 16.05.2014, per il lotto 3.
L'impianto progettuale ha imposto la realizzazione di una
rotatoria sulla SP39 e contempla altresì una pista
ciclopedonale lungo la strada provinciale che in parte
interessano l'area di competenza del Parco Agricolo Sud
Milano.
Per tale ragione in data 31.07.2014 l’impresa ricorrente
ha richiesto l'autorizzazione paesaggistica ex art. 146,
comma 9, d.lgs. 42/2004, alla Regione Lombardia, che l'ha
accordata con decreto n. 8469 del 16.09.2014, ai
sensi dell’art. 4, comma 6, del DPR n. 139/2010, non avendo la
Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici
rilasciato il parere di competenza entro i termini previsti.
Anche l'Ente Parco, con deliberazione n. 34 del 21.10.2014, ha espresso parere di conformità del progetto
viabilistico.
A parziale scomputo degli oneri di urbanizzazione,
l'operatore si è reso disponibile ad effettuare le opere di
pavimentazione del sagrato della Abbazia di Santa Maria in
Calvenzano, edificio religioso sottoposto a tutela.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici
di Milano, in data 01.12.2014, ha espresso parere
favorevole sul progetto di pavimentazione, precisando che
"essendo l'area interessata dal Piano Attuativo AT6 interna
alla citata area dichiarata di interesse culturale con DPGR
28/03/1984 - il suddetto piano attuativo deve essere
sottoposto a questa soprintendenza ai sensi dell'art. 16
della L. 1150/1942".
Il Comune di Vizzolo Predabissi ha chiesto chiarimenti su
tale posizione, evidenziando che "il piano di lottizzazione,
quale piano attuativo del PGT approvato, è [...] conforme al
vigente PGT, quindi si tratta di un piano che attua quanto
riportato nel PGT - non si tratta quindi di variante al PGT"
(cfr. mail del 09.12.2014).
La Soprintendenza, con mail dell’11.12.2014, ha
ribadito di ritenere applicabile l'art. 16 della L. n.
1150/1942, per quanto attiene all’impostazione planivolumetrica, trattandosi di piano attuativo
interessante un’area con vincolo paesaggistico, oltre
all’ulteriore parere ai sensi dell’art. 146 del D.lgs.
42/2004 per quanto riguarda gli aspetti più strettamente
architettonici.
Avendo ottenuto i necessari atti di assenso in ordine alle
opere collocate all'interno del Parco, con istanza
protocollata in data 04.12.2014, la ricorrente ha
chiesto l'approvazione definitiva da parte del Consiglio
Comunale di Vizzolo Predabissi del Piano Attuativo di
Lottizzazione AT6.
In data 12.12.2014 l'Amministrazione Comunale ha
trasmesso tutta la documentazione progettuale alla
Soprintendenza.
Successivamente, in data 15.12.2014 l'Amministrazione
comunale ha comunicato che “la Commissione per il paesaggio
nella seduta del giorno 15.12.2014 ha espresso parere
FAVOREVOLE” con riguardo al prospettato intervento edilizio.
Diversamente la Soprintendenza ha emesso il parere prot. n.
247 del 06.03.2015 con il quale, dopo aver premesso che
l’ambito interessato “risulta ricompreso nel territorio del
Parco Agricolo Sud Milano nonché nell’area dichiarata di
notevole interesse culturale con DPGR 29/03/1984 riguardante
il contesto dell’antica Abbazia di Santa Maria in Calvenzano”
e che “l’area in oggetto risulta di particolare importanza
per mantenere il residuale rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”, ha espresso parere favorevole –limitatamente
all’impostazione complessiva planivolumetrica– condizionato
al rispetto delle seguenti prescrizioni “volte ad assicurare
il mantenimento a verde, come allo stato attuale, del
cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del
fiume Lambro”:
-
“sia conservata libera da costruzioni almeno la metà
dell’ambito –letto nella direzione parallela alla strada–
con la conseguente concentrazione dell’edificato nella sola
porzione settentrionale posta in adiacenza all’area industriale-commerciale già esistente (“proprietà Khum” e
distributore) individuata negli elaborati grafici come lotto
1;
-
il volume da edificarsi sia di altezza massima pari a 6
metri (come quello rappresentato nella tav. n. 15);
-
in corrispondenza del volume da edificarsi sia realizzata
una fascia di mitigazione verde con alberi ad alto fusto a
Est (lato strada) e a Sud”.
Tale atto è stato trasmesso dall'Amministrazione Comunale
all’impresa ricorrente in data 16.03.2015.
Con nota del 14.04.2015 la ricorrente ha svolto
osservazioni in relazione al parere. Con nota di pari data
il Comune ha trasmesso tali osservazioni alla
Soprintendenza, precisando che l’Amministrazione ha
investito il massimo impegno nel salvaguardare l’area su cui
sorge la Basilica di S. Maria in Calvenzano e osservando,
però, che il fiume Lambro è situato circa 7 metri sotto
all’ubicazione della basilica e che il cono ottico è in gran
parte già occluso dalla presenza del muro di cinta del
cimitero del comune di Melegnano.
Avverso il parere della Soprintendenza la società ha
proposto il ricorso indicato in epigrafe, chiedendone
l’annullamento, previa tutela cautelare, e formulando
altresì domanda risarcitoria.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i Beni e le
Attività Culturali e la Soprintendenza per Beni
Architettonici e per il Paesaggio, per il tramite
dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, con memoria di
mera forma.
Si sono altresì costituiti in giudizio il Comune di Vizzolo
Predabissi e la Regione Lombardia, resistendo al ricorso e
chiedendone il rigetto, spiegando difese nel merito.
Alla camera di consiglio del 25.06.2015 la ricorrente ha
rinunciato alla domanda cautelare.
In vista della trattazione nel merito del ricorso le parti
hanno scambiato memorie e repliche insistendo nelle
rispettive conclusioni.
Indi all’udienza pubblica del 17.12.2015 la causa è
stata chiamata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
I) Con l’atto introduttivo del giudizio l’impresa ricorrente
ha impugnato il parere reso dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e per il Paesaggio della Lombardia, ai sensi
dell’art. 16 della L. 1150/1942, richiesto dal Comune
nell’ambito del procedimento per l’approvazione del Piano
Attuativo di Lottizzazione AT6 presentato dalla ricorrente.
II) Il ricorso è affidato ai motivi di gravame di seguito
sintetizzati:
1) violazione e falsa applicazione dell'art. 16, della L.
1150/1942; travisamento dei presupposti di fatto; erroneità;
difetto di competenza: l’applicazione dell'art. 16 della L.
n. 1150/1942, laddove si richiede il parere preventivo della
Soprintendenza, sarebbe limitata ai piani rientranti in aree
tutelate paesaggisticamente. Poiché l'Area di Trasformazione
AT6 non sarebbe ricompresa all'interno del Parco Agricolo
Sud Milano (il cui confine occidentale è costituito proprio
dalla Strada Provinciale della Cerca -SP39, oltre la quale è
collocato l'ambito in esame), il parere della Soprintendenza
sarebbe illegittimo, muovendo dall’errato presupposto
dell’inclusione dell’ambito AT6, oggetto del PII, nel Parco
predetto;
2) violazione e falsa applicazione della Parte I, Titolo II, Capo
II della L.r. n. 12/2005; violazione e falsa applicazione
degli artt. 14-ter, 14-quater e 21-nonies, L. 241/1990;
violazione e falsa applicazione dell'art. 16, comma 12, l.
1150/1942; contraddittorietà del parere della Soprintendenza
con le previsioni del PGT del Comune di Vizzolo Predabissi e
della relativa VAS; difetto di competenza della
Soprintendenza; violazione dell'affidamento ingenerato
nell'operatore dalle previsioni del PGT approvato;
violazione e falsa applicazione dell'art. 97 Cost.;
ingiustizia manifesta:
a) Il progetto di Piano Integrato di Intervento
presentato dalla ricorrente è conforme al PGT e rispetta le
prescrizioni della scheda di approfondimento n. 6 della VAS,
come rilevato dal Comune in sede procedimentale (si veda il
parere favorevole della Commissione per il paesaggio). La
Soprintendenza di Milano, pur invitata alla conferenza di
servizi prodromica all'approvazione dei documenti facenti
parte della valutazione ambientale strategica, ivi compresa
la scheda di approfondimento relativa all'ambito AT6, non vi
ha partecipato, né ha rilasciato pareri in ordine al PGT
sottoposto a valutazione, di fatto prestando acquiescenza
alla favorevole conclusione del procedimento.
A distanza di
cinque anni dall'approvazione del PGT, la Soprintendenza ha
assunto un parere che contrasterebbe palesemente con le
prescrizioni della VAS, di fatto integrando e modificando le
previsioni della valutazione ambientale strategica.
L’istituto della conferenza di servizi imporrebbe infatti la
partecipazione necessaria delle Amministrazioni per
l’espressione del parere, al fine di rendere effettivo tale
modulo procedimentale. Il parere gravato, che di fatto si
contrappone alla VAS legittimamente approvata a seguito
della conferenza di servizi, dovrebbe essere considerato
tamquam non esset o comunque illegittimo.
b) L'art. 16, comma 12, della L. n. 1150/1942,
prevede che "lo strumento attuativo di piani urbanistici già
sottoposti a valutazione ambientale strategica non è
sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica
di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo
strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale
strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove
previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di
edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani
volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi,
dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità
ambientale delle trasformazioni previste".
Nel caso di
specie, il PGT del Comune disciplina dettagliatamente l'Area
di Trasformazione AT6 sia sul piano locatizzativo, sia su
quello dell'edificabilità, degli usi ammessi, delle
volumetrie e delle dotazioni territoriali. Sotto tale
profilo, ulteriori verifiche ambientali in ordine al
progetto conforme ai parametri della Scheda AT6 non
sarebbero dovuti.
Difetterebbe, pertanto, la competenza della Soprintendenza
per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano in
ordine al progetto in esame, posto che un nuovo parere al
riguardo equivarrebbe a rimettere in discussione le
risultanze istruttorie emerse in fase di VAS e confluite nel
provvedimento che l'ha definitivamente approvata.
3) violazione e falsa applicazione del D.lgs. 42/2004; palese
travisamento dei presupposti di fatto; eccesso di potere per
illogicità ed irragionevolezza, contraddittorietà e
ingiustizia manifesta: la Soprintendenza muove dal
presupposto di fatto che l'area di trasformazione AT6 sia
imprescindibile al fine di mantenere il "rapporto tra
l'Abbazia ed il fiume Lambro" e che debba essere finalizzata
ad "assicurare il mantenimento del verde, come allo stato
attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in
direzione del fiume Lambro".
A detta della ricorrente tali
presupposti sarebbero errati, posto che dall'Abbazia di
Santa Maria in Calvenzano sarebbe impossibile anche solo
percepire il fiume Lambro, che si trova ad una quota di ben
sette metri al di sotto di quella dell'Abbazia ed a più di
un chilometro di distanza dall'edificio (circa 1,2 Km).
Inoltre, il cono ottico orientato verso il fiume Lambro che
origina dal fabbricato in esame si scontrerebbe con
l'edificato esistente (cimitero di Melegnano, distributore
di carburante, capannoni industriali di proprietà Ku.,
capannone industriale in uso a concessionario di auto
usate), che non consentirebbe di avere percezione dell'area
fluviale.
Il nuovo intervento infatti si frapporrebbe non tra
l'Abbazia e le sponde fluviali, ma tra l'Abbazia ed il muro
perimetrale del Cimitero di Melegnano. Inoltre il parere
della Soprintendenza sarebbe carente su un piano
istruttorio, omettendo di considerare nel suo complesso
l’area interessata dall’intervento, posto che il PGT di
Melegnao ha conferito vocazione residenziale all’area, oggi
libera, immediatamente attigua all’ambito di trasformazione
AT6.
Ancora, il parere sarebbe contraddittorio rispetto ad altri
provvedimenti del Comune di Vizzolo Predabissi che hanno
inciso sulla zona di tutela dell'Abbazia di Santa Maria in
Calvenzano (in particolare sarebbe stata autorizzata sin
dalla fine degli anni ottanta la costruzione di un intero
nuovo quartiere residenziale, ossia del quartiere
Saramazzano).
Infine, in via subordinata, a detta della ricorrente
l’irragionevolezza del parere della Soprintendenza si
rifletterebbe anche sul DPGR n. 1351 del 28.03.1984 che
ha dichiarato di notevole interesse pubblico la zona
dell’Abbazia, posto che già all’epoca del provvedimento
regionale l’area sarebbe stata interessata da insediamenti
di tipo terziario.
III) Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Invero il parere della Soprintendenza muove da un duplice
presupposto di fatto, ovvero l’inclusione dell’ambito in
questione sia nel territorio del Parco Agricolo Sud Milano,
sia nell’area dichiarata di notevole interesse culturale con
DPGR del 28.03.1984. Se il primo presupposto di fatto
risulta errato, non altrettanto può dirsi quanto
all’inclusione dell’AT6 nell’area di notevole interesse
culturale ai sensi del decreto regionale del 1984.
Tale
indiscutibile dato di fatto –noto anche alla ricorrente
che, seppur in via subordinata, ha impugnato il decreto– determina l’applicazione, alla fattispecie in esame del
disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942,
ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano
comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n.
1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente
Soprintendenza.
III.1) A tale proposito, per logica espositiva, il Collegio
ritiene di scrutinare anche la censura formulata, seppure in
via subordinata (si veda pag. 17 del ricorso), con il terzo
motivo di gravame e diretta verso il predetto DPGR n.
1351/1984.
A prescindere dalla genericità della censura, e
dai profili di inammissibilità della stessa sollevati dalla
difesa della Regione, deve rilevarsi che l’esistenza di
insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile
con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della
stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in
modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di
trasformazione del territorio.
Sotto tale profilo deve rilevarsi il difetto di interesse a
gravare tale provvedimento, posto che, appunto, dallo stesso
non deriva un vincolo assoluto all’utilizzo dell’area.
IV) Considerato che, per quanto precede, deve ritenersi
corretta l’applicazione del disposto di cui all’art. 16,
comma 3, della L. n. 1150/1942, anche il secondo mezzo
di gravame non è meritevole di accoglimento.
Il parere della Soprintendenza infatti si colloca
nell’ambito della disposizione sopra richiamata, quale
effetto della dichiarazione di notevole interesse pubblico
dell’area in questione. Ne consegue che la prospettazione
della ricorrente secondo cui la Soprintendenza non avrebbe
competenza ad intervenire, trattandosi di progetto conforme
al PGT e alle relative prescrizioni della VAS non pare
cogliere il punto centrale della questione. Invero si tratta
di ambiti di disciplina differenti.
La dichiarazione di area
di notevole interesse pubblico impone, ai sensi del comma 3
dell’art. 16 sopra richiamato, l’espressione del parere da
parte della Soprintendenza. La disposizione di cui al comma
12 dell’art. 16, richiamato dalla parte ricorrente a
sostegno del proprio assunto, esclude la sottoposizione a VAS di piani attuativi di strumenti urbanistici già
sottoposti a VAS (qualora non comportino variante e lo
strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale
strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove
previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di
edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani
volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi,
dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità
ambientale delle trasformazioni previste).
La presenza di due disposizioni (comma 3 e comma 12) aventi
ambiti oggettivi di disciplina differenti, porta a ritenere
che se è vero che il piano attuativo non deve essere
sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già
stato vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale
strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere
della Soprintendenza in casi di area dichiarata di notevole
interesse pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta
sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
Tale ricostruzione interpretativa priva di rilevanza gli
ulteriori profili di censura dedotti con il secondo mezzo di
gravame, che, come detto, non è meritevole di accoglimento.
V) Risulta invece fondato il terzo motivo di ricorso,
con il quale, in sintesi, la ricorrente lamenta il difetto
di istruttoria e di motivazione del parere impugnato.
La Soprintendenza, nell’indicare le prescrizioni da
rispettare in sede di sviluppo del progetto, dichiara come
obiettivo “il mantenimento a verde, come allo stato attuale,
del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del
fiume Lambro”, nell’ambito di quello che, nello stesso
parere, è definito come il “rapporto tra l’Abbazia e il
fiume Lambro”.
Ora, la sussistenza di un cannocchiale percettivo e
paesaggistico dall’Abbazia al fiume Lambro è contestata sia
dalla ricorrente sia dal Comune, tanto in sede difensiva
quanto in sede procedimentale.
La ricorrente ha prodotto (sub doc. 18) la vista del
predetto cannocchiale prospettico dall’Abbazia alle sponde
fluviali secondo due diverse angolature, la prima della
quali vede frapporsi interamente il muro del cimitero di
Melegnano, la seconda le già esistenti costruzioni
insistenti sull’area.
Il Comune, per parte sua, già in sede procedimentale (cfr.
nota del 14 aprile indirizzata alla Soprintendenza) ha
sostenuto che “il cono ottico è in gran parte già occluso
dalla presenza del muro di cinta del cimitero del comune di Melegnano” e ha sottolineato che il fiume Lambro è situato
circa sette metri sotto all’ubicazione della basilica.
La Soprintendenza, costituitasi in giudizio per il tramite
dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha spiegato difese
di mera forma, quindi non prendendo posizione sulla sopra
riferita circostanza, che risulta contestata in fatto. Il
Collegio ritiene di valutare tale elemento ai sensi
dell’art. 64 c.p.a..
Alla luce dei profili evidenziati sia dalla ricorrente sia
dal Comune, la circostanza di fatto da cui la Soprintendenza
muove per dettare le prescrizioni nella realizzazione del
progetto non risulta supportata da un’indiscutibile
evidenza. Ciò si riverbera sul contenuto prescrittivo del
parere stesso, che risulta perciò privo di idonea
motivazione.
Va inoltre rilevato che il parere considera l’area in
questione come ricompresa nel Parco Agricolo Sud Milano,
circostanza che risulta essere errata, come si ricava
chiaramente dalla scheda di approfondimento n. 6 allegata
alla VAS (e come già anticipato al precedente punto III).
Ora, se tale circostanza non fa venir meno l’applicabilità
al caso di specie dell’art. 16, comma 3, della L. n.
1150/1942, in forza del DPGR del 28.03.1984, costituisce
comunque un evidente indizio di un’istruttoria condotta in
modo approssimativo e non puntuale, neppure nei suoi
elementi essenziali ed oggettivi.
Per le ragioni esposte, in accoglimento del motivo esaminato
e assorbiti gli ulteriori profili dedotti, va disposto
l’annullamento del parere della Soprintendenza che è tenuta
a ripronunciarsi tenendo conto della concreta conformazione
dei luoghi e dell’esistenza di fabbricati che si frappongono
tra il fiume e l’edificio religioso, all’interno del cono
ottico, anche tenuto conto dei vigenti strumenti urbanistici
del Comune di Vizzolo Predabissi e del Comune di Melegnano
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.02.2016 n. 288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
aumenti retroattivi.
Illegittimo aumentare i fondi per il salario
accessorio in modo retroattivo, anche se si
utilizzano risorse finanziarie di enti terzi
per esercitare funzioni da essi delegate.
La Corte dei Conti, Sez. autonomie, con la
deliberazione
28.09.2017 n. 23 ritorna su una
questione da sempre molto delicata e irta di
rischi di danno erariale per gli enti
locali.
La sezione, rispondendo
negativamente al quesito posto dalla
Conferenza delle regioni, ha chiarito che
«la corresponsione del salario accessorio,
nelle varie forme in cui questo è previsto,
deve essere correlata ad una programmazione
basata su criteri predeterminati, misurabili
ex ante e misurati ex post in sede di
consuntivazione. Una ricostruzione a
posteriori, quando ormai una gestione
annuale è conclusa, non sembra coerente né
con le norme giuscontabili, né con i
principi di sana gestione finanziaria».
Indirettamente il parere della sezione
autonomie evidenzia i rischi connessi alla
prassi sin troppo diffusa negli enti locali
di stipulare i contratti decentrati con
grave ritardo, tanto da finire l'anno o gli
anni successivi a quello di riferimento. Il
principio contabile 4/2, punto 5.2, lettera
a), ha ingenerato la convinzione che
bastando la costituzione del fondo delle
risorse decentrate per vincolare
definitivamente le risorse, risulti
possibile senza problemi anche sottoscrivere
il contratto decentrato in ritardo, anche
l'anno successivo.
Ci si dimentica, però,
che se l'ente non dispone di un sistema
permanente di valutazione e rimette
(erroneamente) alla contrattazione
decentrata la fissazione dei criteri di
valutazione e la definizione degli
obiettivi, interpretando in maniera
impropria quanto prevede l'articolo 18 del Ccnl 01.04.1999, come modificato
dall'articolo 367 del Ccnl 22.01.2004, si
determina effettivamente un incremento delle
risorse (a valere sull'articolo 15, commi 2
e 5, del Ccnl 01.04.1999) e la fissazione di
obiettivi quando la gestione si è conclusa e
non al suo inizio. Dunque, sebbene
contabilmente l'impegno di spesa si possa
anche assumere l'anno successivo, la parte
di risorse destinata al premio di risultato,
per la maggior parte derivante dalle risorse
variabili, risulterebbe definita a
posteriori rispetto alla gestione.
È per
questa ragione che appare comunque
necessario stipulare i contratti per tempo,
ben entro l'anno di riferimento. È
opportuno, quindi, definire ad inizio anno
gli obiettivi col piano esecutivo di
gestione, connettere ad essi le risorse
variabili e stipulare il contratto a inizio
anno, per non incorrere in rischi di danno
erariale
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2017). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti
in house solo se iscritti all'elenco.
Obbligo dal 30/10 per amministrazioni ed
enti aggiudicatori.
Sarà operativo dal 30 ottobre l'elenco Anac
delle società in house; l'iscrizione sarà
elemento necessario per procedere
legittimamente ad affidamenti in house alle
società controllate.
È stato approvato in via definitiva
l'aggiornamento delle linee guida Anac n. 7
(approvato con la
determinazione 20.09.2017 n. 951) che
riguardano l'iscrizione nell'elenco delle
amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori che operano mediante
affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house previsto dall'art. 192 del dlgs 50/2016. Le linee guida si applicano
alle amministrazioni aggiudicatrici e agli
enti aggiudicatori che operano mediante
affidamenti diretti nei confronti di propri
organismi in house di cui all'art. 5 del
Codice dei contratti pubblici e hanno
carattere vincolante.
L'aggiornamento è stato necessario per tener
conto delle modifiche normative apportate
dal dlgs 56/2017 (correttivo del codice dei
contratti), nonché delle modifiche
procedurali necessarie ai fini del miglior
funzionamento del sistema di gestione
dell'elenco.
Un elemento che ha determinato
l'aggiornamento delle linee guida n.7
concerne l'abrogazione della disciplina del
potere di raccomandazione vincolante di cui
all' articolo 123, comma 1, lett. b), del
decreto correttivo dlgs 56/2017 che ha
abrogato il potere di raccomandazione
vincolante attribuito all'Autorità dall'art.
211, comma 2, da 1-bis a 1-quater.
A questa disciplina è subentrata una nuova
regolamentazione fondata sull'impugnazione
da parte di Anac dell'atto ritenuto viziato,
in caso di inosservanza al precedente parere
reso dall'Autorità alla stazione appaltante.
La principale novità riguarda i punti 5.7 e
8.8 delle linee guida che disciplinano gli
affidamenti pregressi per i casi in cui
l'Autorità, accertata l'assenza dei
requisiti di legge che devono essere
posseduti per l'in-house, dispone la mancata
iscrizione o la cancellazione dall'Elenco. A
seguito delle modifiche introdotte all'art.
211 del Codice, l'Autorità ha previsto, in
luogo dell'esercizio del potere di
raccomandazione vincolante, l'esercizio dei
poteri di cui all'art. 211, commi 1-bis e
1-ter, del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, al punto 4.1 delle Linee guida è
previsto che il soggetto avente titolo alla
presentazione della domanda di iscrizione
nell'elenco è la persona fisica deputata ad
esprimere all'esterno la volontà del
soggetto richiedente, ovvero il responsabile
dell'anagrafe delle stazioni appaltanti
(Rasa), su delega delle persone fisiche
deputate ad esprimere all'esterno la volontà
del soggetto richiedente.
Il punto 7.1 delle linee guida è stato
integrato con la seguente previsione: «In
caso di inerzia e ritardo dell'ente istante
a comunicare le variazioni circa la
composizione del controllo analogo
congiunto, l'Ufficio può procedere alle
variazioni anche su iniziativa degli altri
enti partecipanti alla compagine che
esercita il controllo analogo congiunto
sull'organismo in house».
Il termine per l'avvio della presentazione
della domanda di iscrizione nell'elenco è
stato posticipato al 30.102017, come già
preannunciato nel comunicato del presidente
05.07.2017
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2017). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Presidente super partes.
Revocabile solo per inadempienze
istituzionali. Il numero uno del consiglio
non può essere rimosso per ragioni
politiche.
Il presidente del consiglio comunale può
essere destinatario di una mozione di
sfiducia da parte dello stesso organo che
presiede?
L'articolo 38, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 rinvia il
funzionamento del consiglio comunale alla
disciplina regolamentare «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto».
In merito alla fattispecie in esame, assume
particolare rilievo la modalità con cui la
mozione di sfiducia, prevista dallo statuto
nei confronti del presidente del consiglio,
può conciliarsi con la disposizione
regolamentare; questa, infatti, limita la
possibilità di un voto all'espressione di «un
giudizio su mozione presentata in merito ad
atteggiamenti del sindaco o della giunta
comunale, ovvero un giudizio sull'intero
indirizzo dell'amministrazione».
Inoltre la norma regolamentare che
disciplina le adunanze affida addirittura al
sindaco la presidenza del consiglio e non
contiene alcuna norma specifica che
disciplini la sfiducia al presidente del
consiglio, mentre è proprio lo statuto che
prevede come meramente eventuale l'elezione
di un presidente del consiglio comunale tra
i propri componenti.
Nel caso di specie il consiglio ha dunque
utilizzato, nonostante la mancanza di una
disciplina regolamentare di dettaglio, la
normativa statutaria (ritenendola
sufficiente) per eleggere il presidente del
consiglio; pertanto, la richiesta
applicazione di ipotetiche norme
regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la
revoca, appare incoerente rispetto alla
pacifica accettazione della sola norma
statutaria per l'elezione del presidente del
consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni
caso, non prevede espressamente la
possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una
specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermarne
costantemente l'illegittimità (v., tra
l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n.
2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità
della citata disposizione statutaria che
disciplina la revoca del presidente, «la
giurisprudenza ha chiarito che la figura del
presidente del consiglio è posta a garanzia
del corretto funzionamento di detto organo e
della corretta dialettica tra maggioranza e
minoranza, per cui la revoca non può essere
causata che dal cattivo esercizio della
funzione, in quanto ne sia viziata la
neutralità e deve essere motivata, perciò,
con esclusivo riferimento a tale parametro e
non a un rapporto di fiducia (conforme, Tar
Puglia-Lecce, sentenza n. 528/2014,
Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n.
5605)».
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata
sentenza (richiamando anche Tar
Sicilia-Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696;
Tar Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n.
1181), ha statuito che «lo statuto
comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e
procedure di revoca del presidente del
consiglio comunale, con riferimento a
fattispecie che integrino comportamenti
incompatibili con il ruolo istituzionale
super partes che esso deve costantemente
disimpegnare nell'Assemblea consiliare»
Infine, il Tar Campania-Napoli - sez. I, con
decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che
il ruolo del presidente del consiglio
comunale è strumentale non già
all'attuazione di un indirizzo politico di
maggioranza, bensì al corretto funzionamento
dell'organo stesso e, come tale, non solo è
neutrale, ma non può restare soggetto al
mutevole atteggiamento fiduciario della
maggioranza, ha precisato che la revoca di
detta carica non può essere attivata per
motivazioni politiche, ma solo
istituzionali, quali la ripetuta e
ingiustificata omissione della convocazione
del Consiglio o le ripetute violazioni dello
statuto o dei regolamenti comunali (v.
anche, Consiglio di stato, sez. V,
18/01/2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del
06.10.2017). |
APPALTI:
Quesito: In una procedura
negoziata previa pubblicazione di manifestazione di
interesse per l'affidamento di un appalto di servizi di
pulizia, posso aggiudicare la gara alla ditta uscente se è
l'unica ad aver presentato offerta valida alla luce del
recente orientamento del Consiglio di Stato sul principio di
rotazione?
Risposta.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 4125 del 31.08.2017,
sancisce il divieto per la S.A. di invitare nelle procedure
negoziate l'aggiudicatario dell'appalto uscente «nel
primo affidamento successivo» prevedendo, in caso di
deroga, che l'amministrazione aggiudicatrice motivi tale
scelta.
Va precisato che tale sentenza si riferisce ai casi in cui
la SA promuova una procedura negoziata senza pubblicazione
del bando/avviso, ossia a quei casi in cui gli operatori
economici vengono individuati sulla base di indagini di
mercato o tramite elenchi.
Tuttavia, pur introducendo un divieto generale anche in per
tali procedure, il CDS non esclude tassativamente la
possibilità di invitare l'aggiudicatario uscente, prevedendo
la possibilità per la SA di derogare, attraverso un'adeguata
motivazione, detto divieto.
Dunque, nulla di diverso da quanto già indicato nelle Linee
guida ANAC n. 4 (delibera n. 1097/2016 ): "ai sensi
dell'art. 36, comma 2, lett. b), del Codice la stazione
appaltante è tenuta al rispetto del principio di rotazione
degli inviti, al fine di favorire la distribuzione temporale
delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei e di evitare il consolidarsi di
rapporti esclusivi con alcune imprese".
Pertanto, "l'invito all'affidatario uscente ha carattere
eccezionale e deve essere adeguatamente motivato avuto
riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul
mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola
d'arte, nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti) ovvero
all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di
riferimento)".
Nel caso di specie, si ritiene che nessuna contestazione
potrebbe essere sollevata per l'affidamento del servizio
all'aggiudicatario uscente, in quanto:
1. la SA ha proceduto a dare pubblicità alla gara attraverso
manifestazione di interesse;
2. il solo aggiudicatario uscente ha risposto alla manifestazione
di interesse;
3. nel bando era prevista la possibilità di affidare anche in
presenza di un'unica offerta.
Si ritiene possibile procedere all'aggiudicazione
dell'appalto, motivando in ogni caso la scelta effettuata
dalla SA (tratto dalla newsletter 04.10.2017 n. 189
di http://asmecomm.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Gli incentivi tecnici.
DOMANDA:
Esistono ancora gli incentivi per l'ufficio tecnico previsti
dall'art. 92 comma 5, D.Lgs. n. 163/2006 - in pratica quelli
finanziati dalle spese in conto capitale, nel quadro
economico dell'opera, per progettazione, direzione lavori
...?
Se esistono ancora, sono da calcolare ai fini del controllo
della spesa fondo contrattazione decentrata 2017 o sono al
di fuori dell'invarianza in quanto finanziati da conto
capitale?
Se non esistono, gli incentivi attuali vigenti sono
finanziati all'interno delle spese in conto capitale opere o
sono finanziati da spese correnti?
Anche perché ai fini contabili se sono finanziati
all'interno dell'opera spesa in conto capitale poi si deve
fare ancora il giro per imputazioni di tali spese a parte
corrente?
RISPOSTA:
Allo stato attuale le norme che trattano degli “incentivi
per funzioni tecniche” sono state definite dall’articolo
113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016.
Circa le modalità applicative di queste disposizioni, si è
pronunciata la Sezione autonomie della Corte dei conti con
la delibera n. 7/2017; questa delibera stabilisce che,
diversamente da quanto era stato stabilito per
l’applicazione degli incentivi per le “progettazioni
interne” stabilite dall’articolo 92 e successivamente
dall’articolo 93 del D.lgs. n. 163 /2006, i quali erano
considerati esclusi dai limiti del trattamento accessorio
(vedi delibera 51/2011 della Corte dei conti sezioni
riunite) gli “incentivi per funzioni tecniche”
debbono essere incluse nei limiti del trattamento
accessorio.
Le indicazioni fornite dalla Corte dei conti con la delibera
n. 7/2017, creano problemi agli enti; infatti, gli enti
sulla base di quanto stabilito dall’articolo 1, comma 236,
della legge 208/2015, nel stabilire l’ammontare del
trattamento accessorio debbono tenere conto che esso non
poteva essere superiore a quello dell’anno 2010. E quindi,
ora, gli incentivi per le progettazioni interne debbono
rispettare i limiti massimi stabiliti per il trattamento
accessorio, mentre in precedenza erano esclusi.
I problemi posti in precedenza, potrebbero essere superati
rendendo omogenei i dati, per cui il tetto massimo in vigore
precedentemente andrebbe ricalcolato aggiungendo gli
incentivi sulle progettazioni e ciò al fine di rendere
omogeneo il dato con quello derivante dalla applicazione di
quanto stabilito dalla delibera n. 7/2017 della Corte dei
conti. Ma per potere applicare questa soluzione occorrerebbe
una modifica normativa o quanto meno un nuovo pronunciamento
della Corte dei conti.
Inoltre si mette in evidenza che per dare applicazione alle
disposizioni normativa in materia di incentivi per le
funzioni tecniche occorre anche attenersi a quanto stabilito
dall’ANAC con il comunicato del Presidente del 06/09/2017.
Questo comunicato, tra l’altro, precisa che questi compensi
non possono essere erogati prima della adozione dello
specifico regolamento che stabilisce le modalità ed i
criteri di ripartizione del fondo in sede di contrattazione
decentrata integrativa.
Si deve anche rilevare che nella citata deliberazione n.
7/2017, della sezione Autonomie, si legge: “va affermato
che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata
ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano
erogabili, con carattere di generalità, anche per gli
appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si
configurino, in maniera inequivocabile, come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di
personale)”. Pertanto sulla base di queste
considerazioni sembra che si debba dedurre che queste spese
non sono più da considerarsi come spese di investimento, ma
come spese correnti e nello specifico spese di personale.
E’ evidente che questa interpretazione crea nuovi problemi,
in particolare sulle modalità con le quali dare copertura
finanziaria a queste spese: Anche in questo caso si ritiene
necessario ed opportuno che vengano meglio definite queste
norme con la finalità di non creare ulteriori problemi agli
enti (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Il regolamento per le aree verdi.
DOMANDA:
Si chiede se un regolamento comunale possa disciplinare le
attività connesse alla potatura, all'abbattimento e alla
manutenzione di alberi e filari su aree di proprietà privata
non sottoposti ad alcun vincolo paesaggistico, con connessa
previsione nel regolamento comunale di un apparato
sanzionatorio a carico del proprietario trasgressore per
violazioni quali irregolare potatura o taglio non
autorizzato ed altro.
Si chiede quale norma legittimi l'assunzione di un tale
potere regolamentare di incidere sulle modalità di esercizio
della proprietà privata relativa al patrimonio arboreo
privato, ponendo gravami e sanzioni che non risultano
previsti dall'ordinamento giuridico.
Inoltre, si dubita che con una norma regolamentare comunale
si possano prevede forme di autorizzazione comunale
relativamente alla posa ed all'abbattimento di essenze
arboree in aree non soggette ad alcun vincolo paesaggistico,
in connessione con l'esercizio della attività edilizia,
aggravando, in tal modo, il procedimento edilizio con la
richiesta di presentare un progetto di “ristrutturazione
ambientale” e di “perizia tecnica per le essenze
arboree” in assenza di alcuna disposizione neppure negli
strumenti urbanistici comunali.
Il ricorso ad un sistema autorizzatorio per tali interventi
si pone in contrasto con la normativa vigente in materia
edilizia che prevede ampio ricorso allo strumento della SCIA
(con l'indubbia contraddizione di poter vedere realizzata
una nuova costruzione previa presentazione di una SCIA,
mentre se è prevista la posa/abbattimento di alberi non
sottoposti a vincolo paesaggistico occorre acquisire una
autorizzazione comunale).
Si chiede il vostro cortese avviso al riguardo con
riferimento a quanto sopra, soprattutto per capire entro
quali limiti possa espandersi la potestà regolamentare e
sanzionatoria comunale nei riguardi di beni (piante ed
essenze arboree) di proprietà privata.
RISPOSTA:
In effetti la necessità di dettare una particolare
disciplina del verde e degli alberi presenti nel territorio
comunale non costituisce nella prassi una novità, poiché si
deve dare atto che molti comuni si sono dotati di una
siffatta regolamentazione che può trovare, in genere, il suo
fondamento nei principi generali di tutela del paesaggio che
la stessa Costituzione prevede all’art. 9 tra i suoi
principi fondamentali.
Ed infatti nella cura del verde, pubblico o privato che sia,
possono individuarsi le esigenze di perseguimento insite
nell'interesse pubblico al miglioramento ambientale e
microclimatico locale, oltre che nella salvaguardia della
biodiversità. Ed in questa prospettiva la definizione in via
regolamentare, e salvo comunque il rispetto di tutte le
eventuali disposizioni nazionali e regionali vigenti in
materia, di modalità di intervento sulle aree verdi, di come
si debbano attuare le più consone operazioni di potatura per
il mantenimento e lo sviluppo complessivo della vegetazione
esistente e per favorire l’incremento delle presenze arboree
non può non ricondursi a tali principi ed obiettivi generali
che non riguardano di per sé l’attività costruttiva o
edilizia ma risultano essenziali affinché questa si sviluppi
nei modi migliori per una migliore vivibilità dei luoghi per
la comunità in armonia con lo sviluppo edilizio dei
territori.
Al tempo stesso una tale regolamentazione può essere vista
anche in funzione di avere una disciplina di tutela
preventiva dei luoghi finalizzata ad impedire per esempio
danneggiamenti irreversibili, o a vietare scavi,
impermeabilizzazioni di terreni o ammassi di materiali in
prossimità di apparati radicali, garantendo quindi una
salvaguardia che interessa sia le alberature di proprietà
privata che quelle di proprietà pubblica. Allo stesso modo
si possono ritenere legittime previsioni regolamentari tese
a prevedere per esempio che in caso di eliminazione di un
albero protetto, si renda obbligatoria la messa a dimora di
un nuovo albero, scelto in funzione dello sviluppo
raggiungibile a maturità e posto ad una distanza corretta da
fabbricati, strade e fondi confinanti secondo le norme
vigenti.
E’ chiaro peraltro che tutte queste previsioni devono
appunto essere contenute in un ambito di esclusiva
disciplina del verde in quanto tale e per gli obiettivi e
finalità anzidette e non possono tradursi di per sé in una
sovrapponibile disciplina della attività urbanistica che
trova in genere sede nei piani regolatori e negli altri
strumenti urbanistici di cui dispongono i comuni in
conformità alle normative regionali e statali vigenti.
E per quanto dunque anche nel rilascio dei vari titoli
abilitativi all’edilizia possa talvolta essere contenuta
quale specifica prescrizione avente ad oggetto tali aspetti
ambientali in considerazione della natura dei luoghi, si
ritiene che essa non possa tradursi in adempimenti ed oneri
e/o condizioni eccessivamente onerosi e/o vincolanti tali da
condizionare, in assenza di specifica legislativa,
l’attività edilizia consentita dalla normativa urbanistica
vigente (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
Quesito: Posso
autorizzare il subappalto sulla base di un contratto che, in
merito alle lavorazioni, si limita ad indicare la quota del
subappalto e nulla più?
Risposta.
Si rende parere negativo sul quesito proposto.
L'art. 105, comma 7, del Codice degli Appalti detta chiare
regole in merito al rapporto tra aggiudicatario e
subappaltatore: "il contratto di subappalto, corredato
della documentazione tecnica, amministrativa e grafica
direttamente derivata dagli atti del contratto affidato,
indica puntualmente l'ambito operativo del subappalto sia in
termini prestazionali che economici".
Il subappalto è oggetto di particolare attenzione nella più
recente normativa comunitaria perché la fase dell'esecuzione
dei lavori pubblici risulta particolarmente sensibile a
potenziali attività illegali. Nel Considerando 105 della
direttiva 2014/24/UE viene esplicitato che è "necessario
garantire una certa trasparenza nella catena dei subappalti,
in quanto ciò fornisce alle amministrazioni aggiudicatrici
informazioni su chi è presente nei cantieri edili nei quali
si stanno eseguendo i lavori per loro conto".
Nel caso di specie, al momento dell'autorizzazione al
subappalto la stazione appaltante deve accertare che il
relativo contratto contenga l'indicazione puntuale delle
lavorazioni e, a fianco di ogni prestazione, riportare il
prezzo praticato.
Inoltre il Legislatore ha previsto che detto contratto deve
essere corredato della documentazione tecnica,
amministrativa e grafica. In tal modo tutelando la stazione
appaltante e mettendola al riparo da generici affidamenti a
soggetti esterni al contratto principale tra PA e
aggiudicatario che renderebbero impossibile effettuare
controlli in fase di esecuzione delle lavorazioni (a cura di
M. Terrei) (tratto
dalla newsletter 15.09.2017 n. 188 di http://asmecomm.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di abusi edilizi, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale di verificarne la sanabilità, ai sensi
dell'art. 36 d.p.r. 380/2001, prima di emanare l'ordinanza
di demolizione.
Al riguardo, per un verso, gli artt. 27 e 31 d.p.r. 380 del
2001 obbligano il responsabile del competente ufficio
comunale ad adottare i provvedimenti repressivi e
sanzionatori di contrasto immediato alle opere considerate
abusive per il solo fatto di essere prive del prescritto
titolo abilitativo, senza alcuna valutazione circa la loro
eventuale sanabilità; per altro verso, l’art. 36 d.p.r.
380/2001 rimette all'esclusiva iniziativa della parte
interessata l'attivazione del procedimento di accertamento
di conformità urbanistica ivi disciplinato.
Secondo consolidata giurisprudenza, l’efficacia dell’ordine
di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità,
ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Nel sistema non è infatti individuabile una previsione dalla
quale possa desumersi simile effetto; pertanto, se da un
lato la presentazione di siffatta istanza determina
inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di
demolizione, ciò all’evidente scopo di evitare, nell’ipotesi
di accoglimento, l’abbattimento di un’opera che, pur
realizzata in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente; dall’altro, l’efficacia dell’atto sanzionatorio è
soltanto sospesa, essendo cioè posto in uno stato di
temporanea quiescenza.
A conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dell’abuso sia al
momento della presentazione della domanda, con conseguente
venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera
realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui si forma il diniego tacito ovvero la reiezione della
sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui
infatti non può risultare pregiudicato dall’avere esercitato
una facoltà riconosciutagli dalla legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata sua esecuzione.
Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione dovrebbe riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale a riconoscere in capo a un soggetto
privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il
potere di paralizzare, attraverso un sostanziale
annullamento, quel medesimo provvedimento.
---------------
Come chiarito da consolidata e condivisibile giurisprudenza,
il silenzio dell'Amministrazione protratto oltre il termine
di sessanta giorni, a fronte di un'istanza di accertamento
di conformità urbanistica presentata ai sensi dell'art. 36
d.p.r. 380/2001, costituisce un'ipotesi di silenzio
significativo al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento di rigetto tacito dell'istanza, così
determinandosi una situazione del tutto simile a quella che
si verificherebbe nell’ipotesi di provvedimento espresso di
diniego, impugnabile per il contenuto reiettivo dell'atto.
---------------
1.- Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3, 6, 9, 22,
31, 36 e 37 d.p.r. 380/2001; degli artt. 1 e 19 L. n.
241/1990; dell’art. 5 d.p.r. 412/1993; eccesso di potere per
violazione del giusto procedimento; inesistenza dei
presupposti di fatto e di diritto; erroneità
dell’istruttoria, travisamento, sproporzione.
1.1.- Il Comune di San Giuseppe Vesuviano ha ordinato la
demolizione dell’opera oggetto del provvedimento impugnato
senza valutare la possibilità di sanatoria, peraltro
richiesta dal ricorrente.
1.2.- Il motivo non è fondato.
1.2.1.- In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale di verificarne la sanabilità, ai sensi dell'art. 36
d.p.r. 380/2001, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione. Al riguardo, per un verso, gli artt. 27 e 31
d.p.r. 380 del 2001 obbligano il responsabile del competente
ufficio comunale ad adottare i provvedimenti repressivi e
sanzionatori di contrasto immediato alle opere considerate
abusive per il solo fatto di essere prive del prescritto
titolo abilitativo, senza alcuna valutazione circa la loro
eventuale sanabilità; per altro verso, l’art. 36 d.p.r.
380/2001 rimette all'esclusiva iniziativa della parte
interessata l'attivazione del procedimento di accertamento
di conformità urbanistica ivi disciplinato (ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; Idem,
sez. VI, 13.02.2015, n. 1068).
1.2.2.- Secondo consolidata giurisprudenza, alla quale
questa Sezione ha in più occasioni aderito, l’efficacia
dell’ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla
successiva presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Nel sistema non è infatti individuabile una previsione dalla
quale possa desumersi simile effetto; pertanto, se da un
lato la presentazione di siffatta istanza determina
inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di
demolizione, ciò all’evidente scopo di evitare, nell’ipotesi
di accoglimento, l’abbattimento di un’opera che, pur
realizzata in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente; dall’altro, l’efficacia dell’atto sanzionatorio è
soltanto sospesa, essendo cioè posto in uno stato di
temporanea quiescenza.
A conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dell’abuso sia al
momento della presentazione della domanda, con conseguente
venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera
realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui si forma il diniego tacito ovvero la reiezione della
sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui
infatti non può risultare pregiudicato dall’avere esercitato
una facoltà riconosciutagli dalla legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata sua esecuzione (cfr. in
questo senso, Tar Campania Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n.
4961 e Cd.S., Sez. IV, ord. 19.02.2008, n. 849).
Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione dovrebbe riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale a riconoscere in capo a un soggetto
privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il
potere di paralizzare, attraverso un sostanziale
annullamento, quel medesimo provvedimento (Consiglio di
Stato, sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
1.2.3.- Facendo applicazione di questi principi, si osserva
che, nel caso di specie, l’istanza di accertamento di
conformità, presentata in data 13.03.2017, è stata definita,
sessanta giorni dopo il suo ricevimento al protocollo
dell’amministrazione, con provvedimento tacito di rigetto,
come previsto dal menzionato art. 36, comma 3, secondo cui:
“Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata”.
Come chiarito da consolidata e condivisibile giurisprudenza,
il silenzio dell'Amministrazione protratto oltre il termine
di sessanta giorni, a fronte di un'istanza di accertamento
di conformità urbanistica presentata ai sensi dell'art. 36
d.p.r. 380/2001, costituisce un'ipotesi di silenzio
significativo al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento di rigetto tacito dell'istanza, così
determinandosi una situazione del tutto simile a quella che
si verificherebbe nell’ipotesi di provvedimento espresso di
diniego, impugnabile per il contenuto reiettivo dell'atto
(TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.06.2016, n. 7354; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 02.10.2015, n. 4681).
1.2.4.- E’ importante rilevare che l’edificio sul quale sono
state compiute le opere abusive, ricade nell’ambito del
Piano Territoriale Paesistico dei Comuni vesuviani,
approvato con d.m. 04.07.2002, e rientra nella "perimetrazione
Zona Rossa”, all’interno della quale -ai sensi della
Legge regionale Campania 10.12.2003, n. 21- è vietato il
rilascio di titoli edilizi abilitanti la realizzazione di
interventi finalizzati all'incremento dell'edilizia
residenziale, il che preclude in radice la condonabilità
dell’opera (cfr. questa Sezione 22.10.2015, n. 4972).
Pertanto, ad oggi, anche tenendo conto del fatto che non
risulta alcuna iniziativa processuale del ricorrente avverso
il diniego tacito, il provvedimento ripristinatorio e
sanzionatorio dispiega di nuovo e per intero i suoi effetti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia urbanistica, la
nozione di pertinenza è più circoscritta di quella definita
dall'art. 817 c.c.; rivestendo peculiarità sue proprie che
la differenziano da quella civilistica, dal momento che il
manufatto dev’essere non solo preordinato ad un’oggettiva
esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito
al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo
valore di mercato nonché dotato comunque di un volume
modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare
il c.d. carico urbanistico.
Invero, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad una
opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per
il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non
anche manufatti che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali
alla stessa, tale cioè che risulti non configurabile una
diversa utilizzazione economica.
Ne consegue che, ove le opere realizzate, pur se
astrattamente possano ritenersi accessorie a quella
principale, finiscano per incidere sull'assetto edilizio
preesistente, con aggravio del carico urbanistico, per le
stesse si rende necessario richiedere il permesso di
costruire.
---------------
2.- Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10, 22, 31,
32, 36 e 37 d.p.r. 380/2001; dell’art. 167 del d.lgs.
42/2004; degli artt. 1, 2, 3 e 4 nonché nn. 1 e 4
dell'allegato 1 di cui all'art. 1, comma 1, del d.p.r. 139
del 09.07.2010; violazione e falsa applicazione dell’art. 7,
comma 6, dell’art. 9, comma 1, lett. a), dell’art. 13, commi
1 e 6 del Piano Paesistico del Vesuvio; violazione e falsa
applicazione art. 5 d.p.r. 412 del 26.08.1993; violazione e
falsa applicazione dell'art. 3 L. n. 241/1990; eccesso di
potere per violazione del giusto procedimento, inesistenza
dei presupposti di fatto e di diritto, erroneità
dell’istruttoria, travisamento, illogicità ed irrazionalità
manifesta, eccesso di potere, sviamento.
2.1.- L’Ente comunale, con il provvedimento impugnato, non
ha considerato che l’opera compiuta sarebbe compatibile con
gli strumenti urbanistici vigenti nel Comune di San Giuseppe
Vesuviano. La stessa avrebbe prodotto un contenuto aumento
di volumetria senza minimamente trasformare in unità
residenziale la destinazione del locale adibito a
sottotetto, avendo peraltro natura pertinenziale.
Ne conseguirebbe il suo inquadramento nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10,
comma 1, lett. c), d.p.r. 380/2001, come modificato da
ultimo dalla L. n. 164/2014, per i quali -anche in presenza
della modifica della sagoma o dei prospetti degli immobili
sottoposti a vincolo- sarebbe sufficiente la denuncia di
inizio attività, ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.p.r.
380/2001.
L’intervento sarebbe peraltro conforme all’art. 13, comma 6,
PTP dei comuni vesuviani e, pertanto, sanabile ai sensi
dell’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004, per di più
a mezzo di procedura semplificata di cui al d.p.r. 139/2010.
2.2.- Il motivo non è condivisibile e va respinto.
2.2.1- Secondo la relazione dell’Ufficio tecnico comunale,
prot. n. 1391 del 12.01.2017, svolta a seguito del
sopralluogo condotto dalla Polizia Municipale e da un
funzionario tecnico del comune, risultano essere state
realizzati i seguenti interventi edilizi:
- "demolizione del solaio di copertura di un vecchio sottotetto
a falda inclinata, sito al secondo piano”;
- incremento dell’“altezza delle pareti perimetrali”;
- “nuovo solaio di copertura” con inversione del “senso
di inclinazione” e conseguente “aumento di volume”.
Per quanto descritto, l’opera compiuta ha prodotto non solo
un evidente cambio di prospetto ma anche un aumento
significativo del volume preesistente (mq 30 circa per
un’altezza media di m. 2,80 circa, collegato al piano
sottostante previo una scala interna metallica), tramite la
demolizione del solaio di copertura del vecchio sottotetto a
falda inclinata, allungamento delle pareti perimetrali e
realizzazione di un nuovo solaio di copertura con inversione
del senso di inclinazione.
L’intervento edilizio effettuato –a fronte dell’aumento di
volume e della sovrastruttura creata sul lastrico solare- ha
quindi tutte le caratteristiche per essere annoverato come
nuova costruzione, per la quale- ai sensi dell’art. 10,
lett. a), d.p.r. n. 380/2001 - sarebbe occorso il permesso
di costruire e la preventiva autorizzazione
paesaggistico-ambientale, ai sensi dell’art. 146 d.lgs.
42/2004, non rilasciabile in via postuma ex art. 165, co. 4
e 5, dello stesso d.lgs..
L’opera abusivamente compiuta ricade, infatti, in virtù dei
decreti ministeriali 06.10.1961, in area vincolata ai sensi
del d.lgs. n. 42/2004 (ex R.D. 1497/1939, sostituito dal
d.lgs. 490/1990), ed, ai sensi della L.R. 10.12.2003, n. 21,
nella “perimetrazione della Zona Rossa”, all’interno
della quale è vietato il rilascio di titoli edilizi che
autorizzino la realizzazione di interventi comportanti
incremento dell'edilizia a fini residenziale; è quindi
preclusa in radice la possibilità di condonare l’opera
contestata" (cfr. questa Sezione 22.10.2015, n. 4972).
2.2.2.- Né poi appare sostenibile la tesi del ricorrente
circa la natura pertinenziale dell’opera realizzata.
La stessa, infatti, per consistenza, tipologia e dimensioni
è in grado di incidere sul preesistente assetto urbanistico,
senza che vi siano margini, in relazione alla sua
destinazione funzionale, per considerarla pertinenza
dell’immobile principale.
Il Collegio rammenta al riguardo che, in materia
urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di
quella definita dall'art. 817 c.c.; rivestendo peculiarità
sue proprie che la differenziano da quella civilistica, dal
momento che il manufatto dev’essere non solo preordinato ad
un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato
comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico.
Invero, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad una
opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per
il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non
anche manufatti che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali
alla stessa, tale cioè che risulti non configurabile una
diversa utilizzazione economica (Tar Napoli, sez. VIII,
30.05.2017, n. 2870).
Ne consegue che, ove le opere realizzate, pur se
astrattamente possano ritenersi accessorie a quella
principale, finiscano per incidere sull'assetto edilizio
preesistente, con aggravio del carico urbanistico, per le
stesse si rende necessario richiedere il permesso di
costruire (Cons. Stato, sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Id,
24.07.2014, n. 3952, Id., 12.02.2013, n. 817).
2.2.3.- Nel caso di specie, l’opera compiuta, per natura,
funzione e dimensioni, appare preordinata a costituire una
nuova unità abitativa a fini residenziali, con consistente
aumento di volume ed alterazione dello stato preesistente
dei luoghi, plasticamente evidenziato dall’inversione
dell’originaria inclinazione del sottotetto, in un’area per
giunta soggetta ai noti vincoli paesaggistico- ambientali
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001
-introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), della
legge n. 164 del 2014– affida all’autorità competente il
compito di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria,
allo scopo di attribuire un ulteriore strumento punitivo per
un più efficace contrasto al fenomeno dell'abusivismo.
In questo caso, l’amministrazione è obbligata ad irrogare la
sanzione, salvo il suo potere discrezionale nel determinarne
l’importo, compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro.
Nella fattispecie in esame occorre, tuttavia, considerare la
presenza di vincoli ambientali e paesaggistici vigenti sul
territorio del comune, perché, per siffatte ipotesi, il
menzionato comma 4-bis, ultimo periodo, dell’art. 31 è
categorico nel disporre che: “La sanzione, in caso di abusi
realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2
dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio
idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata
nella misura massima.”.
E’ quindi evidente che, nel caso specifico, la presenza dei
vincoli paesaggistici ed ambientali priva l’amministrazione
comunale del potere discrezionale di valutare l’importo
della sanzione da irrogare, la quale va disposta sempre
nella misura massima, tanto più che, aggiunge il citato
comma 4-bis: “La mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità
penali, costituisce elemento di valutazione della
performance individuale nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
---------------
3.- Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione artt. 1, 3, 6, 9, 22, 31, 36
e 37 d.p.r. 380/2001; violazione e falsa applicazione artt.
1, 2, 3 L. n. 241/1990; eccesso di potere per violazione del
giusto procedimento, inesistenza dei presupposti di fatto e
di diritto, erroneità dell’istruttoria, travisamento,
sproporzione.
3.1.- Con l'ordinanza di demolizione impugnata, il Comune di
San Giuseppe Vesuviano ha disposto l'irrogazione di una
sanzione pecuniaria nel massimo edittale, pari ad €
20.000,00, omettendo la benché minima motivazione sulla sua
quantificazione e senza tenere in considerazione la modesta
entità del manufatto, a suo avviso realizzato in sintonia
con la strumentazione urbanistica della zona.
3.2.- Il motivo è infondato, prima ancora che inammissibile
in quanto si riferisce al mero avviso, privo di una
immediata attitudine lesiva, della sanzione che verrà
successivamente applicata in caso d’inottemperanza
all’ordine di demolizione.
Infatti, l'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001
-introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), della
legge n. 164 del 2014– affida all’autorità competente il
compito di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria,
allo scopo di attribuire un ulteriore strumento punitivo per
un più efficace contrasto al fenomeno dell'abusivismo.
In questo caso, l’amministrazione è obbligata ad irrogare la
sanzione, salvo il suo potere discrezionale nel determinarne
l’importo, compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro.
Nella fattispecie in esame occorre, tuttavia, considerare la
presenza dei menzionati vincoli ambientali e paesaggistici
vigenti sul territorio del comune di San Giuseppe Vesuviano,
perché, per siffatte ipotesi, il menzionato comma 4-bis,
ultimo periodo, dell’art. 31 è categorico nel disporre che:
“La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e
sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.”.
E’ quindi evidente che, nel caso specifico, la presenza dei
vincoli paesaggistici ed ambientali priva l’amministrazione
comunale del potere discrezionale di valutare l’importo
della sanzione da irrogare, la quale va disposta sempre
nella misura massima, tanto più che, aggiunge il citato
comma 4-bis: “La mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità
penali, costituisce elemento di valutazione della
performance individuale nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente.”.
4.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Giurisdizione nelle controversie in materia di sanzioni
pecuniarie per inosservanza prescrizioni canoni Peep.
---------------
Giurisdizione – Sanzioni - Sanzioni pecuniarie - per
inosservanza prescrizioni canoni Peep – Giurisdizione Ago.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la
comminata per la violazione del Regolamento comunale in
materia di canoni e condizioni per la concessione del
diritto di superficie e vendita dei terreni Peep, avendo le
medesime ceduto l’alloggio di cui erano titolari ad un
prezzo superiore a quello risultante dalla convenzione a suo
tempo stipulata tra il comune e la cooperativa (1)
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che il riparto di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo nel settore delle
sanzioni non penali avviene distinguendo tra sanzioni
punitive e sanzioni ripristinatorie; nel primo caso,
trattandosi di sanzioni che hanno carattere meramente
afflittivo, ricollegate al verificarsi concreto della
fattispecie legale, restando esclusa ogni discrezionalità in
ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla
contestazione della lesione del diritto soggettivo; nel
secondo caso, poiché le misure ripristinatorie tendono a
realizzare direttamente l'interesse pubblico leso dall'atto
illecito, riconoscendosi all'amministrazione la scelta della
misura più idonea a realizzare tale interesse, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo a tutela di
interessi legittimi (Tar Veneto, sez. II, 18.01.2007, n.
98).
Più recentemente il Giudice del riparto ha ribadito in
proposito che, in materia di edilizia, le controversie
aventi ad oggetto l'irrogazione di sanzioni sono devolute
alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che la
relativa opposizione non genera una controversia nascente da
atti e provvedimenti della p.a. relativi alla gestione del
territorio, bensì l'esercizio di una posizione giuridica
avente consistenza di diritto soggettivo da parte di chi
deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi
non stabiliti dalla legge (Cass. civ., sez. un., 27.01.2014,
n. 1528; id. 06.03.2009, n. 5455) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 05.10.2017 n. 1158
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Viene in decisione il ricorso proposto dalle signore Gr.
e Gi.Ta. avverso l’atto, in epigrafe precisato, con cui il
Comune di Orbetello ha ingiunto alle medesime il pagamento
della sanzione di € 560.031,21 a motivo della violazione
dell’art. 20 del Regolamento comunale in materia di canoni e
condizioni per la concessione del diritto di superficie e
vendita dei terreni P.E.E.P., avendo le medesime ceduto
l’alloggio di cui erano titolari ad un prezzo superiore a
quello risultante dalla convenzione a suo tempo stipulata
tra lo stesso comune e la coop. Se., dante causa delle
ricorrenti.
Le ricorrenti invocano, con il primo motivo,
l’intervenuta prescrizione del diritto dell’Amministrazione
a sanzionare l’illecito applicandosi alla fattispecie l’art.
28 della l. n. 689/1981.
La censura, non delibabile nel merito, introduce, tuttavia,
il tema del giudice competente a conoscere della
controversia.
Come è noto, "il riparto di
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo
nel settore delle sanzioni non penali avviene distinguendo
tra sanzioni punitive e sanzioni ripristinatorie; nel primo
caso, trattandosi di sanzioni che hanno carattere meramente
afflittivo, ricollegate al verificarsi concreto della
fattispecie legale, restando esclusa ogni discrezionalità in
ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla
contestazione della lesione del diritto soggettivo; nel
secondo caso, poiché le misure ripristinatorie tendono a
realizzare direttamente l'interesse pubblico leso dall'atto
illecito, riconoscendosi all'amministrazione la scelta della
misura più idonea a realizzare tale interesse, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo a tutela di
interessi legittimi
(C.d.S., IV, 04.02.1999, n. 112; conf. id., 23.01.1992, n.
92)" (TAR
Veneto, sez. II, 18.01.2007, n. 98).
Più recentemente il Giudice del riparto ha ribadito in
proposito che, in materia di edilizia, le
controversie aventi ad oggetto l'irrogazione di sanzioni
sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario,
posto che la relativa opposizione non genera una
controversia nascente da atti e provvedimenti della p.a.
relativi alla gestione del territorio, bensì l'esercizio di
una posizione giuridica avente consistenza di diritto
soggettivo da parte di chi deduce di essere stato sottoposto
a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge
(Cass. civ., sez. un., 27.01.2014 n. 1528; id. 06.03.2009 n.
5455).
Nel caso di specie non può esservi dubbio in ordine alla
natura meramente sanzionatoria del provvedimento impugnato
seguendone, perciò, che il ricorso va dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, fatti salvi gli effetti della domanda, ex
art. 11, co. 2, c.p.a.. |
APPALTI:
Facoltà di immediata impugnazione degli ammessi alla gara se
non è stato pubblicato il relativo elenco.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito
superaccelerato – Omessa pubblicazione elenco concorrenti
ammessi – Onere di immediata impugnazione – Esclusione –
Facoltà di impugnazione degli ammessi prima
dell’aggiudicazione – Permane.
L’omessa formale pubblicazione dei
provvedimenti di ammissione delle imprese concorrenti ad una
gara pubblica, ai sensi dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, se da un lato fa venir meno l’onere di immediata
impugnazione, dall’altro non preclude la facoltà di
impugnazione di tali provvedimenti prima dell’aggiudicazione
della gara; la norma in questione, infatti, in deroga alla
disciplina generale sull’interesse all’impugnazione degli
atti di gara, ha inteso qualificare tali atti come
immediatamente lesivi e come tali suscettibili di immediata
contestazione (1).
---------------
(1) Sull’onere di immediata impugnazione v.
Tar Molise 21.08.2017, n. 280 (TAR
Molise,
sentenza 04.10.2017 n. 332 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progetti
anche a compenso zero. Ritorno di immagine
equiparato al pagamento in denaro. Il
Consiglio di Stato avalla la gratuità del
contratto se il committente è la Pa.
Non è illegittimo
l'affidamento di un servizio di
progettazione di un piano regolatore per il
prezzo simbolico di un euro.
La
sentenza 03.10.2017 n. 4614
del Consiglio di Stato, Sez. V, suggerisce
una lettura particolare del concetto di «onerosità»
dei contratti che i privati stipulano con la
pubblica amministrazione. L'onerosità,
infatti, può essere «attenuata», cioè
non necessariamente ricondotta al pagamento
di un corrispettivo in denaro. Palazzo Spada
spiega che il prezzo non costituisce
elemento indefettibile del contratto, perché
«la ratio di mercato [...] di garanzia
della serietà dell'offerta e di affidabilità
dell'offerente, può essere ragionevolmente
assicurata da altri vantaggi, economicamente
apprezzabili anche se non direttamente
finanziari, potenzialmente derivanti dal
contratto».
Insomma, si possono ammettere altri generi
di «utilità» per l'imprenditore,
comunque sempre economicamente apprezzabili,
tipo il ritorno di immagine. Ciò, spiega la
sentenza, avviene in generale con le «figure
del c.d. Terzo settore, per loro natura
prive di finalità lucrative, vale a dire di
soggetti che perseguano scopi non di stretto
utile economico, bensì sociali o
mutualistici; a loro è stato ritenuto non
estensibile il principio del c.d. «utile
necessario» fondato sull'innaturalità e
inaffidabilità, per un operatore del
mercato, di un'offerta in pareggio, perché
contro il naturale scopo di lucro». E
accade anche quando ci si avvalga del
contratto di sponsorizzazione.
La sentenza ravvisa «la preferenza,
nell'ordinamento, dei contratti pubblici,
per un'accezione ampia e particolare
(rispetto al diritto comune)
dell'espressione «contratti a titolo
oneroso», tale da dare spazio
all'ammissibilità di un bando che preveda le
offerte gratuite (salvo il rimborso delle
spese), ogniqualvolta dall'effettuazione
della prestazione contrattuale il contraente
possa figurare di trarre un'utilità
economica lecita e autonoma, quand'anche non
corrispostagli come scambio contrattuale
dall'Amministrazione appaltante».
Nel caso di specie, la gratuità
dell'incarico non ha vulnerato la
concorrenza, perché si è pur sempre dato
vita ad una procedura di gara, che ha
valutato in maniera adeguata gli aspetti
tecnici della progettazione, assegnando loro
un punteggio molto rilevante e congruo.
Altri progettisti, insomma, avrebbero potuto
concorrere a parità di condizioni.
---------------
Le reazioni dei
rappresentanti delle professioni. Sentenza
aberrante. Ora tutto sull'equo compenso.
«Una sentenza criminogena». «Aberrante,
avalla il caporalato intellettuale e
professionale». «Il Consiglio di
stato vuole inspiegabilmente distruggere
l'ingegneria e l'architettura italiana».
«L'equo compenso non può più aspettare».
Sono solo alcune delle reazioni provenienti
dal mondo delle professioni in merito alla
sentenza del Consiglio di stato relativa
alla progettazione del piano regolatore di
Catanzaro al prezzo di un euro (si vedano
articoli in pagina). Oltre alla sorpresa e
allo sdegno, i rappresentanti dei
professionisti esprimono la necessità di
procedere con urgenza per l'approvazione,
entro la fine della legislatura, della legge
sui compensi minimi ai professionisti.
Cup.
Più che criticare la sentenza, il commento
alla sentenza della presidente del Comitato
unitario delle professioni (Cup) Marina
Calderone ha voluto porre l'accento sulla
necessità di approvare in fretta una legge
sull'equo compenso per i professionisti «quella
dell'equo compenso è una battaglia di
civiltà giuridica, in particolare per i
giovani, affinché il loro lavoro non
continui ad essere mortificato da quei
committenti che sempre più spesso chiedono
prestazioni consulenziali a titolo gratuito»,
ha affermato la Calderone, che nel merito
della sentenza ha poi aggiunto: «L'interpretazione
dei giudizi di Palazzo Spada del contratto a
titolo oneroso non è condivisibile in quanto
troppo ampia».
Confprofessioni.
Sulla stessa lunghezza d'onda il commento di
Gaetano Stella, presidente di
Confprofessioni, che però pone l'accento
sulla necessità di evitare confusione
nell'emanazione della norma: «È
necessario approvare nel minor tempo
possibile la legge sull'equo compenso, ma è
altrettanto necessario produrre una legge
chiara, che non lasci spazio a contenziosi.
È fondamentale avere la maggiore chiarezza
possibile, non siamo disposti ad accettare
un consentito che stabilisca un compenso
equo ma lasci la strada aperta a libere
interpretazioni della disposizione».
Cni.
«La sentenza è abnorme, oserei dire
criminogena, perché potrebbe aprire la
strada a comportamenti scorretti della p.a.
Siamo arrivati al punto in cui un organo
giudiziario amministrativo del Paese
legittima l'affidamento di appalti a titolo
gratuito». Questo il commento di Armando
Zambrano, presidente del Consiglio nazionale
degli ingegneri. Secondo il Cni la sentenza
afferma «l'incredibile principio secondo
il quale il corrispettivo del professionista
risiederebbe nel ritenersi lusingato
dall'eseguire un piano urbanistico per il
comune di Catanzaro».
Cna.
«Credevamo che, dopo la bocciatura del
bando da parte del Tar, finalmente la
giustizia sarebbe riuscita a fermare
un'iniziativa immorale e scandalosa, come
quella del bando».
---------------
L'analisi. Così Palazzo
Spada va contro il codice dei contratti.
I servizi di ingegneria e di progettazione
non possono essere gratuiti. Lo afferma con
assoluta chiarezza l'articolo 24, comma
8-ter, del dlgs 50/2016 (codice dei
contratti), ai sensi del quale «Nei
contratti aventi ad oggetto servizi di
ingegneria e architettura la stazione
appaltante non può prevedere quale
corrispettivo forme di sponsorizzazione o di
rimborso, ad eccezione dei contratti
relativi ai beni culturali, secondo quanto
previsto dall'articolo 151».
Letta sotto la luce dell'espressa previsione
normativa, la
sentenza 03.10.2017 n. 4614
del Consiglio di Stato, Sez. V, che ha
considerato legittimo l'affidamento
dell'incarico gratuito e con solo rimborso
spese del servizio di progettazione del
piano regolatore della città di Catanzaro,
appare ancora più criticabile di quanto non
sia apparsa ai primi commentatori. Palazzo
Spada, tra le varie argomentazioni
utilizzate per riconoscere la legittimità
dell'incarico gratuito, afferma
espressamente che nei rapporti contrattuali
tra privati e amministrazione pubblica
l'accezione di contratto oneroso può essere
attenuata e non connessa necessariamente
alla controprestazione di un pagamento in
denaro, visto che lo stesso codice dei
contratti regola e ammette i contratti di
sponsorizzazione.
Secondo il Consiglio di stato «la
circostanza che vi sia verso lo sponsor una
traslazione meramente simbolica, cioè di
immagine, della cosa di titolarità pubblica
non può essere considerata come vicenda
gratuita, ma va posta in stretta relazione,
nei termini propri dell'equilibrio
sinallagmatico, con il valore della
controprestazione, vale a dire della dazione
dello sponsor. Con la sponsorizzazione si ha
dunque lo scambio di denaro contro
un'utilità immateriale, costituita dal
ritorno di immagine».
Che la sponsorizzazione sia a titolo
oneroso, è certo. Non è, però, un caso che
il correttivo al codice dei contratti la
consenta, per i servizi di progettazione,
solo nel caso degli interventi sui beni
culturali: infatti, il ritorno di immagine
e, dunque, l'utilità economica della
sponsorizzazione è molto più evidenziabile,
che non rispetto alla realizzazione di un
piano regolatore, il quale difficilmente
crea utilità immateriali troppo diverse dal
contatto privilegiato con l'ente affidante.
Sulla base dell'espressa previsione
normativa, anche se intervenuta
successivamente alla pubblicazione del bando
del comune calabrese, il Consiglio di stato
avrebbe dovuto meglio ponderare le proprie
considerazioni.
Per altro, ai sensi dell'articolo 19, comma
1, del codice dei contratti, la
sponsorizzazione consiste nella «dazione
di danaro o accollo del debito, o altre
modalità di assunzione del pagamento dei
corrispettivi dovuti». Non è, quindi, un
contratto che elide il pagamento del
corrispettivo, ma lo regola in altro modo.
Nel caso del comune di Catanzaro, non si è
sicuramente trattato di sponsorizzazione,
perché non c'è uno sponsor che paga il
progettista al posto del comune, mediante
finanziamento o accollo di debito, o uno
sponsor che addirittura si accolli la
realizzazione del servizio spese comprese:
infatti, è previsto un rimborso spese anche
piuttosto sostanzioso (250 mila euro) e il
corrispettivo è qualificato chiaramente come
simbolico per 1 euro, trasformandolo,
dunque, in una sorta di erogazione liberale,
da corrispettivo quale deve essere anche nel
caso di sponsorizzazione.
L'applicazione del principio di
concorrenzialità imposto dal codice e,
soprattutto, dalle direttive Ue dalle quali
discende, ma anche gli obblighi vari in tema
di verifica dell'anomalia dei ribassi,
convincono che non vi sia alcuna particolare
attenuazione dell'onerosità dei contratti
con la p.a., per quanto con la
sponsorizzazione l'utilità possa anche non
derivare da un pagamento in denaro. Al
contrario, il codice dei contratti ha
previsto espressamente che addirittura con
l'offerta economicamente più vantaggiosa non
si chieda ribasso alcuno e non si
attribuisca punteggio al prezzo, da
considerare fisso; mentre per appalti «riservati»
finalizzati all'inserimento lavorativo di
categorie svantaggiate, è espressamente
consentito un valore contrattuale anche non
di mercato.
Oggettivamente, le norme coordinate del
codice dei contratti depongono per
l'obbligatoria onerosità dei rapporti con la
p.a., posto che ribassi eccessivi, che
giungano fino all'azzeramento dei
corrispettivi possono essere causa di
esclusione e posto che la salvaguardia dei
rapporti economici e l'utilità sociale dei
contratti (nota anche come «causa»)
sono principi enunciati anche dalla
Costituzione
(articolo ItaliaOggi del
06.10.2017). |
APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROGETTUALI:
Legittimo l’appalto gratis ai professionisti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalti a
titolo gratuito – Onerosità - Possibilità – Conseguenza –
Applicazione disciplina del Codice dei contratti pubblici.
Anche un affidamento concernente
servizi a titolo gratuito configura un contratto a titolo
oneroso, soggetto alla disciplina del Codice dei contratti
pubblici; la garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca
alla ragione economica a contrarre, infatti, non
necessariamente trova fondamento in un corrispettivo
finanziario della prestazione contrattuale, che resti
comunque a carico dell’Amministrazione appaltante, ma può
avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità,
pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si
immagini vada ad essere generata dal concreto contratto (1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che la garanzia di serietà e
affidabilità, intrinseca alla ragione economica a contrarre,
non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo
finanziario della prestazione contrattuale, che resta
comunque a carico della Amministrazione appaltante; può,
infatti, avere analoga ragione anche in un altro genere di
utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o
si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto.
A supporto delle conclusioni cui è pervenuta, la Sezione ha
ricordato che assume ormai particolare pregnanza
nell’ordinamento, evidenziando il rilievo dell’economia
dell’immateriale, la pratica dei contratti di
sponsorizzazione. La sponsorizzazione non è un contratto a
titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor in
termini di dazione del denaro o di accollo del debito
corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor,
del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di
titolarità pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è
l’utilità costituita ex novo dall’opportunità di
spendita dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene
immateriale.
Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa –cioè
passiva: non comporta un’uscita finanziaria- ma comunque
genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito
in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo
vantaggio. In altri termini, la circostanza che vi sia verso
lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di
immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere
considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta
relazione, nei termini propri dell’equilibrio
sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale
a dire della dazione dello sponsor. Con la sponsorizzazione
si ha dunque lo scambio di denaro contro un’utilità
immateriale, costituita dal ritorno di immagine.
In conclusione, non vi è estraneità sostanziale alla logica
concorrenziale che presidia, per la matrice eurounitaria, il
Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in
cui l’utilità economica del potenziale contraente non è
finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter
eseguire la prestazione contrattuale (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 03.10.2017 n. 4614
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1.- Il Comune di Catanzaro ha interposto appello avverso la
sentenza 13.12.2016 n. 2435 del
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, che ha accolto il
ricorso dell’Ordine degli Architetti Pianificatori
Paesaggistici e Conservatori, dell’Ordine degli Ingegneri,
dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della
Provincia di Catanzaro, dell’Ordine dei Geologi della
Calabria, del Collegio dei Geometri e del Collegio dei
Periti Industriali della Provincia di Catanzaro avverso i
provvedimenti dirigenziali comunali dell’ottobre 2016 di
approvazione del bando e del disciplinare di gara della “procedura
aperta per l’affidamento dell’incarico per la redazione del
piano strutturale del Comune di Catanzaro e relativo
regolamento urbanistico”, nonché del capitolato
speciale, ed ancora avverso la presupposta delibera di
Giunta comunale del 17.02.2016 con cui è stata condivisa la
possibilità di formulare un bando contemplante incarichi
professionali a titolo gratuito.
La delibera di Giunta, dando attuazione alla deliberazione
consiliare n. 25 del 13.05.2015 disponente la
predisposizione di un nuovo strumento urbanistico generale,
rilevava l’assenza di copertura finanziaria per una spesa
stimata in circa euro 800.000,00; e stabiliva, previo parere
favorevole della Corte dei Conti, sezione regionale di
controllo per la Calabria, del 29.01.2016, di formulare un
bando che prevedesse incarichi professionali da affidare a
titolo gratuito, delegando il dirigente del Settore
Pianificazione Territoriale all’approvazione dello stesso.
Tali atti sono stati impugnati dagli indicati ordini
professionali con il ricorso in primo grado, articolato in
censure incentrate sull’illegittimità del bando di gara
nella parte in cui ha previsto la natura gratuita del
contratto di appalto di servizi, indicando, al punto 2.1 del
bando, un corrispettivo pari ad euro uno, laddove l’appalto
si caratterizza come contratto a titolo oneroso, sia nella
disciplina del Codice civile, sia in quella dei contratti
pubblici.
2. - La sentenza qui appellata ha accolto il ricorso,
nell’assunto che si verta di un appalto di servizi (avente
ad oggetto la “elaborazione, stesura e redazione
integrale del piano strutturale del Comune di Catanzaro”
in forma imprenditoriale) e che non è configurabile un
appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero
atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del
2016.
...
3. - Il secondo e terzo, tematicamente
centrali, motivi di appello censurano, con argomenti
complementari, la sentenza che ha ritenuto non configurabile
un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito
(finalizzato alla pianificazione urbanistica, e con rimborso
delle sole spese previamente autorizzate dal RUP), e dunque
(ha ritenuto) illegittima la relativa gara, in quanto non
conforme al paradigma normativo dell’art. 3, comma 1, lett.
ii), d.lgs. n. 50 del 2016, e inoltre perché inidonea a
garantire la qualità dell’offerta e, ancora prima, a
consentire una sua effettiva valutazione.
Per l’appello, l’ordinamento in generale in realtà non vieta
una prestazione d’opera professionale a titolo gratuito a
vantaggio di una pubblica Amministrazione, e neppure con
riguardo al sistema dei contratti pubblici (nel cui ambito,
del resto, è ammessa la sponsorizzazione). L’Amministrazione
appellante aggiunge che la valutazione dell’offerta
economicamente più vantaggiosa dei professionisti è qui
-necessariamente- avvenuta con la sola esclusione
dell’elemento prezzo (pari a zero in tutte le offerte), che
rappresenta il parametro proprio dell’offerta economica:
vale a dire, è avvenuta circoscrivendo preventivamente lo
spazio della valutazione all’offerta tecnica, e secondo i
criteri comunque a tale scopo fissati dal disciplinare di
gara alla pagina 16.
I motivi d’appello, ritiene il Collegio, sono fondati.
Il bando di gara qualifica l’”affidamento dell’incarico
per la redazione del piano strutturale comunale del Comune
di Catanzaro e relativo R.E.U.” alla stregua di un
appalto di servizi, e, tra le “informazioni complementari”
(punto VI.3), precisa che «l’appalto è a titolo gratuito.
E’ prevista una somma totale di €. 250.000,00 comprensiva di
IVA a solo titolo di rimborso spese per come indicato nel
disciplinare di gara».
Il capitolato speciale, all’art. 4, conferma: «si precisa
che l’incarico è a titolo gratuito e che l’importo del
rimborso di tutte le spese documentate e preventivamente
autorizzate dal RUP, di qualunque genere ed in ogni caso
dovute relative alle prestazioni da effettuare, sostenute
dai professionisti costituenti il Gruppo di progettazione
incaricato e dai propri consulenti e collaboratori per lo
svolgimento dell’incarico affidato ammonta ad € 250.000,00,
finanziati con fondi del bilancio comunale».
Analogo contenuto si desume dal disciplinare di gara, il
quale precisa che l’importo dell’appalto posto a base di
gara è [con evidente significato] di euro 1,00, e che il
costo della polizza assicurativa, riferita all’incarico
professionale, rientra nel rimborso spese.
Il Collegio rileva che si tratta,
anzitutto, di verificare se la legge consente la gratuità di
un siffatto contratto: cioè se un contratto di prestazione
di servizi (professionali), che preveda il solo (seppure
ampio) rimborso delle spese contrasti o non contrasti con il
paradigma normativo dell’appalto pubblico (di servizi),
posto che l’art. 3 (definizioni), lett. ii), del d.lgs.
12.04.2016, n. 50 definisce gli “appalti pubblici”
come «contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto
tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori
economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la
fornitura di prodotti e la prestazione di servizi»,
derivando queste connotazioni di onerosità dal diritto
europeo.
In particolare, per gli appalti nei settori ordinari, la
direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 26.02.2014, afferma:
- considerando (4): «La normativa dell’Unione in materia di
appalti pubblici non intende coprire tutte le forme di
esborsi di fondi pubblici, ma solo quelle rivolte
all’acquisizione di lavori, forniture o prestazioni di
servizi a titolo oneroso per mezzo di un appalto pubblico».
- art. 2 (definizioni) n. 5): ««appalti pubblici»: contratti a
titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più
operatori economici e una o più amministrazioni
aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la
fornitura di prodotti o la prestazione di servizi».
Occorre dunque chiarire la portata ed il
significato, nei particolari contesti detti,
dell’espressione «a titolo oneroso».
Va considerato che la nozione è replicata anche per le
contestuali direttive 2014/23/UE e 2014/25/UE. L’intero
settore degli appalti pubblici e delle concessioni è dunque
caratterizzato da questa necessaria connotazione.
Ciò rilevato, si deve considerare che il fondamento della
disciplina sui contratti pubblici riposa in principi
generali del diritto dell’Unione Europea: il divieto di
discriminazione in base alla nazionalità (art. 18 T.F.U.E.),
le libertà di circolazione delle merci, di prestazione dei
servizi, di stabilimento, e di circolazione dei servizi, le
regole di concorrenza enucleate dall’art. 101 del T.F.U.E..
I contratti pubblici debbono perciò formarsi in un mercato
concorrenziale e la loro disciplina è improntata alla
concorrenza.
La caratterizzazione di “onerosità” appare da
riferire a questa contestualizzazione al mercato di matrice
europea; sembra muovere dal presupposto che il prezzo
corrispettivo dell’appalto costituisca un elemento
strumentale e indefettibile per la serietà dell’offerta, e
l’inerente affidabilità dell’offerente nell’esecuzione della
prestazione contrattuale. Al fondamento pare esservi il
concetto che un potenziale contraente che si proponga a
titolo gratuito, dunque senza curare il proprio interesse
economico nell’affare che va a costosamente sostenere, celi
inevitabilmente un cattivo e sospettabile contraente per una
pubblica Amministrazione.
Il tema ha naturalmente diverse declinazioni, a seconda che
riguardi contratti “attivi” (comportanti per
l’Amministrazione un’entrata) o contratti “passivi”
(comportanti per l’Amministrazione una spesa). Per quanto
riguarda gli appalti pubblici, si verte in principio di
contratti passivi e su questi occorre concentrare
l’attenzione.
La par condicio tra partecipanti alla gara, presidio
della concorrenzialità, è necessaria nel presupposto che la
tutela della concorrenza rechi con sé la garanzia di
efficienza del mercato.
In una tale prospettiva -osserva il Collegio- una lettura
sistematica delle previsioni ricordate, con considerazione
degli interessi pubblici immanenti al contratto pubblico e
alle esigenze che lo muovono, induce a ritenere che
l’espressione “contratti a titolo oneroso” può
assumere per il contratto pubblico un significato attenuato
o in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale e
propria del mondo interprivato. In realtà, la ratio
di mercato cui si è accennato, di garanzia della serietà
dell’offerta e di affidabilità dell’offerente, può essere
ragionevolmente assicurata da altri vantaggi, economicamente
apprezzabili anche se non direttamente finanziari,
potenzialmente derivanti dal contratto.
La garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca alla
ragione economica a contrarre, infatti, non necessariamente
trova fondamento in un corrispettivo finanziario della
prestazione contrattuale, che resti comunque a carico della
Amministrazione appaltante: ma può avere analoga ragione
anche in un altro genere di utilità, pur sempre
economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad
essere generata dal concreto contratto.
Del resto, quanto alla ragione economica
del contraente, la giurisprudenza da tempo ammette
l’abilitazione a partecipare alle gare pubbliche in capo a
figure del c.d. “terzo settore”, per loro natura prive di
finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguano
scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o
mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il
principio del c.d. “utile necessario” fondato sull’innaturalità
ed inaffidabilità, per un operatore del mercato, di
un’offerta in pareggio, perché contro il naturale scopo di
lucro (Cons.
Stato, V, 20.02.2009, n. 1018 e n. 1030; VI, 16.06.2009, n.
3897; V, 10.09.2010, n. 6528; V, 13.07.2010, n. 4539; V,
26.08.2010, n. 5956; III, 09.08.2011, n. 4720; III,
20.11.2012, n. 5882; VI, 23.01.2013, n. 387; III,
15.04.2013, n. 2056; V, 16.01.2015, n. 84; III, 17.11.2015,
n. 5249; III, 27.07.2015, n. 3685; V, 13.09.2016, n. 3855).
Il fatto stesso della presenza di questa
consolidata giurisprudenza dimostra che l’utile finanziario
in realtà non è considerato elemento indispensabile dal
diritto vivente dei contratti pubblici: e conferma l’assunto
qui testé enunciato.
La circostanza che l’offerta senza
prefissione di utile presentata da un siffatto tipo di
soggetto non sia presunta, solo per questo, anomala o
inaffidabile, e non impedisca il perseguimento efficiente di
finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio
stricto sensu economico, dimostra che le finalità ultime
per cui un soggetto può essere ammesso a essere parte di un
contratto pubblico possono prescindere da una stretta
utilità economica.
E’ proprio per questo riguardo che è stato
rilevato come non contrasti con la definizione di operatore
economico contenuta nelle direttive europee la detta
connotazione propria delle associazioni di volontariato.
A maggiore ragione, dunque, può esservi
ammesso l’aspirante contraente cui si chiede di prescindere
non già da un’utilità economica, ma solo da un’utilità
finanziaria: perché l’utilità economica si sposta su leciti
elementi immateriali inerenti il fatto stesso del divenire
ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della
prestazione richiesta dall’Amministrazione.
Conseguenza di una tale considerazione è la preferenza,
nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione
ampia e particolare (rispetto al diritto comune)
dell’espressione «contratti a titolo oneroso», tale
da dare spazio all’ammissibilità di un bando che preveda le
offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese),
ogniqualvolta dall’effettuazione della prestazione
contrattuale il contraente possa figurare di trarre
un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non
corrispostagli come scambio contrattuale
dall’Amministrazione appaltante.
L’assunto trova del resto conforto nella giurisprudenza
europea, per la quale vale ricordare Corte Giust. U.E.,
12.07.2011, in causa C-399/98 (Bicocca), a tenore della
quale la direttiva 93/37/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, osta ad una
normativa nazionale in materia urbanistica (art. 28 legge n.
1150 del 1942 e art. 12 legge reg. Lombardia n. 60 del 1977)
che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva,
consenta al titolare di una concessione edilizia o di un
piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di
un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del
contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel
caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la
soglia fissata dalla stessa direttiva.
Detta sentenza, per quanto qui rileva, ha affermato (§§ 76 e
ss.) che se si ha riguardo all’obiettivo della direttiva
93/37/CEE sugli appalti pubblici di lavori, la sua
previsione secondo cui «gli appalti pubblici di lavori sono
contratti a titolo oneroso» va interpretata “in modo da
assicurare l'effetto utile della direttiva medesima”:
infatti per attribuire a un contratto pubblico il carattere
di oneroso non è necessario un esborso pecuniario, perché ad
analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a
scomputo di opere di urbanizzazione secondaria.
Quel ragionamento incentrato sul principio dell’effetto
utile, che vuole che le disposizioni siano lette, di
preferenza, nel senso di favorire il raggiungimento
dell’obiettivo da esse prefissato, avvalora le
considerazioni qui sopra svolte.
Del resto, non è inconferente rilevare che
assume ormai particolare pregnanza nell’ordinamento,
evidenziando il rilievo dell’economia dell’immateriale, la
pratica dei contratti di sponsorizzazione, che ha per gli
stessi contratti pubblici la disciplina generale nell’art.
19 del d.lgs. n. 50 del 2016 (cfr. art. 199-bis d.lgs. n.
163 del 2006), e una particolare applicazione nel settore
dei beni culturali (art. 120 d.lgs. 22.01.2004, n. 42).
La sponsorizzazione non è un contratto a titolo gratuito, in
quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione
del denaro o di accollo del debito corrisponde
l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto
all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità
pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è l’utilità
costituita ex novo dall’opportunità di spendita
dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene
immateriale.
Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa –cioè
passiva: non comporta un’uscita finanziaria- ma comunque
genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito
in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo
vantaggio. In altri termini: la circostanza che vi sia verso
lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di
immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere
considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta
relazione, nei termini propri dell’equilibrio
sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale
a dire della dazione dello sponsor.
Con la sponsorizzazione si ha dunque lo
scambio di denaro contro un’utilità immateriale, costituita
dal ritorno di immagine.
L’utilità costituita dal potenziale ritorno di immagine per
il professionista può essere insita anche nell’appalto di
servizi contemplato dal bando qui gravato: il che
rappresenta un interesse economico, seppure mediato, che
appare superare -alla luce della ricordata speciale ratio-
il divieto di non onerosità dell’appalto pubblico, e
consente una rilettura critica dell’asserita natura gratuita
del contratto di redazione del piano strutturale del Comune
di Catanzaro.
L’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna
dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al
pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale,
appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta
del contratto pubblico, di cui qui si verte, una
controprestazione contrattuale anche se a risultato
aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo)
di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità
dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad
effetti risolutivi o risarcitori.
Non vi è dunque estraneità sostanziale alla logica
concorrenziale che presidia, per la ricordata matrice
eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si
bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale
contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto
stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale.
Il mercato non ne è vulnerato. Al tempo stesso, non si vede
per quale ragione le dette considerazioni di economia
dell’immateriale non possano essere prese in considerazione
quando giovano, come qui patentemente avviene, all’esigenza
generale di contenimento della spesa pubblica.
4. - Resta comunque l’esigenza della garanzia della par
condicio dei potenziali contraenti, che va assicurata dalla
metodologia di scelta tra le offerte.
E’ infatti il caso di rilevare che è per questa essenziale
ragione che un tale contratto pubblico, per quanto “gratuito”
in senso finanziario (ma non economico), non può che
rimanere nel sistema selettivo del d.lgs. n. 50 del 2016:
altrimenti, se ne fosse fuori, portando alle conseguenze un
diverso ragionamento, l’Amministrazione appaltante potrebbe
scegliere il contraente a piacimento, con ciò ingenerando
un’evidente lesione della par condicio dei potenziali
interessati al contratto proprio per quell’utile immateriale
e ledendo gli stessi principi di derivazione eurounitaria
del mercato concorrenziale che sono alla base delle commesse
pubbliche.
La gratuità finanziaria, anche se non economica, del
contratto si riflette infatti sulla procedura di selezione,
che non può non esservi in concreto adattata.
La descritta concezione “debole” di «contratto a
titolo oneroso» va dunque ulteriormente valutata in
compatibilità con il d.lgs. n. 50 del 2016 anche per ciò che
riguarda la procedura di scelta del contraente, improntata
al criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, che, di suo, si baserebbe sul miglior
rapporto tra qualità e prezzo.
Ma la caratterizzazione che si è finora esaminata
corrisponde fatalmente a una lex specialis del tutto
particolare, che non può che riservare punti zero alla
componente economica. Sicché il vaglio della domanda si
esaurisce nella valutazione dell’offerta tecnica, in
ipotetica criticità con la configurazione di tale criterio
ad opera dell’art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016.
Occorre dunque valutare la compatibilità di una siffatta
tipologia contrattuale con le regole dell’evidenza pubblica
ed i principi eurounitari, in particolare sotto il profilo
della suscettibilità di adeguata valutazione delle offerte
prive di un contenuto economico. Si tratta di una
valutazione da svolgere in concreto ed ex ante.
A questo riguardo, osserva il Collegio che i criteri di
aggiudicazione enucleati alle pagg. 16 e seguenti del
disciplinare di gara, basati sulla componente tecnica
(professionalità, adeguatezza dell’offerta, caratteristiche
metodologiche dell’offerta), cui sono attribuiti novanta
punti, e residualmente sul tempo, al quale sono riservati
dieci punti, appaiono comunque sufficientemente oggettivi
per una valutazione dell’offerta e non contrastano dunque
con il rammentato art. 83. E’ questo, del resto, il solo
modo in cui può essere inteso in un tal caso il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Un tale carattere sintetico e sincopato del criterio di
aggiudicazione in concreto stabilito è infatti coerente con
la delineata nozione di onerosità del concreto contratto,
che impone un’applicazione adattata della disciplina del
Codice degli appalti pubblici sui criteri di aggiudicazione.
4.1.- Occorre aggiungere, vista anche la riproposizione dei
motivi assorbiti in primo grado da parte del Consiglio
Nazionale degli Ingegneri e da parte dell’Ordine degli
Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori,
dell’Ordine degli Ingegneri ed altri della Provincia di
Catanzaro, che nel caso di specie la scelta di questo
contratto risulta presidiata, per l’assoluta particolarità
della fattispecie, da un’attenta valutazione a monte in
ordine alla necessarietà di pervenire al nuovo piano
strutturale, oltre che della non (integrale) copertura in
bilancio del costo stimato, anche nella misura minima, del
compenso professionale.
Al contempo, il valore dell’appalto è stato parametrato al
valore della prestazione, ad evitare l’elusione delle regole
dell’evidenza pubblica.
Il ricorso ad un siffatto contratto è stato sottoposto al
parere della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo
per la Calabria, che, con atto 10.02.2016, ha ritenuto,
seppure con ragionamento diverso, che l’Amministrazione
comunale può «procedere alla indizione di un bando
pubblico per il conferimento di incarico gratuito di
redazione del nuovo piano di sviluppo comunale, con la
previsione del mero rimborso delle spese sostenute.
Tuttavia, il bando dovrà integrare tutti gli elementi
necessari per l’esatta individuazione del contenuto della
prestazione richiesta, onde consentire la valutazione
oggettiva degli elaborati tecnici che vengono così prodotti,
senza pretesa di corrispettivo, dai tecnici interessati a
prestare appunto gratuitamente la propria opera
professionale».
5. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto,
l’appello va accolto, e, per l’effetto, in riforma della
sentenza appellata, va respinto il ricorso di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA:
E' inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo l'impugnata ordinanza di demolizione
motivata in relazione all'abusiva costruzione di centralina
idroelettrica con captazione delle acque del torrente ....
La giurisdizione appartiene infatti al tribunale superiore
delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 143, lettera a),
del r.d. n. 1775 del 1933 e dell'art. 133, lettera f), del
codice del processo amministrativo.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento di diffida a
demolire e ripristinare lo stato dei luoghi datata
10.05.2017, prot. n. 3266, adottata dal Responsabile del
Procedimento- Ufficio Tecnico del Comune di Taibon Agordino
(BL), P.e. Co.Fu., notificata a mani dei ricorrenti in data
11.05.2017;
...
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo.
La giurisdizione appartiene infatti al tribunale superiore
delle acque pubbliche ai sensi dell’art. 143 del R.D. n.
1775 del 1933 e dell’art. 133, lettera f), del codice del
processo amministrativo.
L'impugnata ordinanza di demolizione è motivata in relazione
all'abusiva costruzione di centralina idroelettrica con
captazione delle acque del torrente Foram.
Trattasi dunque di provvedimento che rientra nella materia
delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 143, lettera a),
del r.d. n. 1775 del 1933 e dell'art. 133, lettera f), del
codice del processo amministrativo e dunque è devoluta alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche
(così Tar Veneto II n. 257 del 2016, II n. 774 del 2015,
Consiglio di Stato V n. 3055 del 2016).
Le oscillazioni giurisprudenziali sul punto consentono di
compensare le spese tra le parti (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.10.2017 n. 883 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Le
offerte collegate sono escluse dalla gara.
Imprese con unico centro decisionale.
Vanno escluse le offerte presentate da due
imprese imputabili a un unico centro
decisionale; fra gli indici del controllo di
fatto i rapporti di parentela fra gli
amministratori e le circostanze di luogo e
di tempo di presentazione delle offerte.
È quanto ha spiegato il TAR Basilicata nella
sentenza 28.09.2017 n. 614 che
interpreta l'art. 80 del codice dei
contratti pubblici (esclusione per
situazione di controllo fra due imprese che
partecipano alla stessa gara). La previsione
serve a evitare che talune relazioni tra
imprese partecipanti allo stesso appalto
possano condizionare i rispettivi
comportamenti e precludere il rapporto
concorrenziale che costituisce la stessa
ragion d'essere delle procedure di gara.
In altri termini, dice la sentenza, va
assicurata l'effettiva ed efficace tutela
della regolarità della gara e, in
particolare, la par condicio fra tutti i
concorrenti, nonché la serietà, compiutezza,
completezza ed indipendenza delle offerte,
evitando che, attraverso meccanismi di
influenza societari, pur non integranti
collegamenti o controlli di cui all'art.
2359 cod. civ., possa essere alterata la
competizione, mettendo in pericolo
l'interesse pubblico alla scelta del giusto
contraente.
Per i giudici, ad esempio, costituiscono
indici presuntivi della sussistenza di un
collegamento di fatto i rapporti di
parentela fra amministratori delle società,
nonché le circostanze di tempo e di luogo di
spedizione delle domande di partecipazione e
gli elementi formali connotanti i documenti
di gara (quindi, fra gli altri: i tempi di
presentazione delle domande di
partecipazione, le significative
similitudini e peculiarità dei documenti di
gara).
In particolare, nel caso di specie i giudici
hanno evidenziato che le buste contenenti le
offerte recavano numeri di protocollo di
ricezione immediatamente consecutivi e che
le offerte erano contraddistinte dalla
stessa data di sottoscrizione. Inoltre, le
domande di partecipazione riportavano la
stessa data e nell'intestazione di entrambe
le offerte vi era l'identico errore
nell'indicazione della centrale unica di
committenza. E risultavano sovrapponibili le
«proposte migliorative» di entrambe
le imprese, su alcuni paragrafi dell'offerta
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).
---------------
MASSIMA
7. Nel merito, il ricorso è fondato in
parte, alla stregua della motivazione che
segue.
7.1. E’ stata in primo luogo dedotta la
violazione dell’art. 80, n. 5, lett. m), del
d.lgs. n. 50 del 2016, sussistendo nella
presente questione una situazione di
controllo sostanziale “anche di fatto” tra
le società Ta. s.n.c. e Ca. s.a.s.
«riscontrabile agevolmente dall’analisi di
molteplici elementi».
7.1.1. La censura coglie nel segno.
L’art.
80 del codice dei contratti pubblici
sanziona con l’esclusione dalla
partecipazione alla procedura d’appalto, tra
l’altro, gli operatori economici che versino
in una situazione di controllo, di cui
all’art. 2359 del codice civile, o in una
qualsiasi relazione, anche di fatto, tale da
comportare l’imputabilità delle offerte a un
unico centro decisionale. Tale previsione è
volta a evitare che talune relazioni tra
imprese partecipanti allo stesso appalto
possano condizionare i rispettivi
comportamenti e precludere il rapporto
concorrenziale che costituisce la stessa
ragion d’essere delle procedure di gara.
In
altri termini, va assicurata l’effettiva ed
efficace tutela della regolarità della gara
e, in particolare, la par condicio fra tutti
i concorrenti, nonché la serietà,
compiutezza, completezza ed indipendenza
delle offerte, evitando che, attraverso
meccanismi di influenza societari, pur non
integranti collegamenti o controlli di cui
all’art. 2359 cod. civ., possa essere
alterata la competizione, mettendo in
pericolo l’interesse pubblico alla scelta
del giusto contraente.
7.1.2. Nel caso di specie, ritiene il
Collegio che sussistano indizi plurimi,
precisi e concordanti che inducono a
considerare sussistente un collegamento
sostanziale tra le imprese di cui innanzi.
7.1.2.1. In primo luogo non forma oggetto di
contestazione che le legali rappresentanti
delle cennate società siano avvinte da
vincolo di parentela, in quanto tra loro
sorelle.
7.1.2.2. Al medesimo approdo conducono poi i
tempi di presentazione delle domande di
partecipazione e talune significative
similitudini e peculiarità dei documenti di
gara. In particolare:
- le buste contenenti
le offerte recano numeri di protocollo di
ricezione immediatamente consecutivi (nn.
7211 e 7212 del 12.12.2016);
- le
offerte sono contraddistinte dalla medesima
data di sottoscrizione del 05.12.2016;
- le domande di partecipazione riportano la
stessa data del 30.01.2016;
-
nell’intestazione di entrambe le offerte vi
è l’identico errore nell’indicazione della
centrale unica di committenza, costituito
dall’utilizzo della denominazione “Canastra”
anziché quella corretta “Camastra”;
- nella
domanda di partecipazione della Ca.
s.a.s, alla lettera j), riferita
all’indicazione dell’indirizzo p.e.c. da
utilizzare per le comunicazioni di rito, è
stato indicato il recapito dell’altra
concorrente, ovvero della società Ta. s.n.c..
7.1.2.3. Va pure rilevato come i contenuti
delle offerte tecniche delle imprese in
questione siano speculari relativamente al
capo rubricato per entrambe “organizzazione
del servizio” (pagine da 2 a 7 dell’offerta
della Ta. s.n.c. e da 5 a 12 dell’offerta
della Ca. s.a.s.).
7.1.2.4. Ancora, risultano del tutto
sovrapponibili le “proposte migliorative” di
entrambe le imprese, con riguardo ai
medesimi paragrafi della “organizzazione, a
proprie spese, di specifici menù in
occasione di particolari ricorrenze” e
“organizzazione e assistenza aggiuntiva con
piani predisposti da dietologi per casi
particolari – obesità, celiachia, diabete e
religione” (pagine 10 e 11 dell’offerta
della Ta. s.n.c. e 18 e 19 dell’offerta
della Ca. s.a.s.).
7.1.3. Secondo la stazione appaltante tali
“elementi indiziari” avrebbero una valenza
prettamente formale e sarebbero inidonei a
supportare la tesi del collegamento
sostanziale, e, tra l’altro, «la loro
presenza ben potrebbe essere plausibilmente
riconducibile alla circostanza che le dette
concorrenti abbiano affidato la
predisposizione degli atti di gara ad una
stessa agenzia, che, nell’espletamento del
mandato ricevuto, abbia commesso» i predetti
errori.
In senso contrario, tuttavia, va
evidenziato come tale argomento costituisca
mera congettura, e che di tale supposizione
non vi è comunque traccia negli atti di
gara. Inoltre, tale teorizzato affidamento
implicherebbe comunque la violazione dei
principi di trasparenza e di segretezza e
serietà delle offerte.
7.1.4. Ritiene dunque il Collegio che i
cennati elementi, anche considerati nella
loro complessiva valenza, inducano a
ritenere la riferibilità a un unico centro
decisionale delle offerte formalmente
presentate da distinte imprese collettive.
Sul punto, va richiamato il condivisibile
orientamento giurisprudenziale secondo cui
ben possono costituire indici presuntivi
della sussistenza di un collegamento di
fatto i rapporti di parentela fra
amministratori delle società, nonché le
circostanze di tempo e di luogo di
spedizione delle domande di partecipazione e
gli elementi formali connotanti i documenti
di gara
(Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2013, n. 1091).
8. Dalle considerazioni che precedono
discende l’accoglimento dell’azione
impugnatoria, con assorbimento di ogni
ulteriore censura e, per l’effetto,
l’annullamento degli atti in epigrafe.
8.1. Non vi è luogo a disporre in ordine
alla richiesta declaratoria di inefficacia
del contratto, non risultando dagli atti e
dalle deduzioni delle parti che esso sia
stato stipulato, né in ordine all’istanza
risarcitoria, risultando l’interesse
sostanziale di parte ricorrente soddisfatto
per effetto della aggiudicazione in suo
favore dell’appalto in questione,
conseguente all’annullamento di quella
disposta a favore dell’impresa
controinteressata, sebbene subordinatamente
all’esito positivo del previo accertamento
della sussistenza dei requisiti previsti
dalla legge di gara. |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli
edilizi Ok esplicito.
Non si applica l'istituto del silenzio
assenso alle istanze che hanno lo scopo di
ottenere titoli edilizi per immobili nel
centro storico (zona A) di un comune.
A fornire i chiarimenti è la
sentenza 27.09.2017 n. 4516
del Consiglio di Stato, Sez. IV.
I giudici ricordano che l'art. 20, 8° comma,
del dpr n. 380/2001, nel prevedere che «decorso
inutilmente il termine per l'adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o
il responsabile dell'ufficio non abbia
opposto motivato diniego, sulla domanda di
permesso di costruire si intende formato il
silenzio assenso», esclude espressamente «i
casi in cui sussistono vincoli relativi
all'assetto idrogeologico, ambientali,
paesaggistici o culturali».
Tale disposizione, peraltro, è coerente con
quanto previsto, in linea generale,
dall'articolo 20 della legge n. 241/1990,
che esclude l'applicazione dell'istituto del
silenzio-assenso, tra l'altro, agli atti e
procedimenti riguardanti il patrimonio
culturale e paesaggistico. In sostanza,
l'art. 20, comma 8, del dpr 380/2001 e, più
in generale, l'art. 20, comma 4, legge n.
241/1990, nell'escludere dalla formazione
del silenzio assenso gli atti ed i
procedimenti riguardanti il patrimonio
culturale e paesaggistico, non intendono
riferirsi ai soli casi in cui sussistano
vincoli specifici, riguardanti un
determinato immobile ovvero una parte di
territorio, puntualmente individuati per il
loro valore storico, artistico o
paesaggistico con puntuali atti della
pubblica amministrazione, ma si riferiscono,
più in generale, a tutte le ipotesi in cui
siano presenti, nell'ordinamento realtà
accertate come riconducibili, anche in via
generale, al patrimonio culturale e/o
paesaggistico.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei
casi per i quali è esclusa la formazione del
silenzio assenso, le domande volte ad
ottenere titoli edilizi relativi ad immobili
situati in zona A del territorio comunale,
posto che tale zona, ai sensi dell'articolo
2 dm n. 1444/1968 è quella costituente parte
del territorio interessata «da
agglomerati urbani che rivestono carattere
storico, artistico o di particolare pregio
ambientale o da porzioni di essi, comprese
le aree circostanti, che possono
considerarsi parte integrante, per tali
caratteristiche, degli agglomerati stessi»
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2017).
---------------
MASSIMA
2. L’appello è fondato, in relazione al secondo motivo proposto,
concernente, in sostanza, il lamentato vizio di difetto di
istruttoria nel procedimento conclusosi con il diniego di
permesso di costruire.
2.1. Occorre, innanzi tutto, osservare che è invece
infondato, e deve essere pertanto respinto, il primo motivo
di appello, riferito alla presunta, intervenuta formazione
del silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire.
Come è noto,
l’art. 20 DPR n. 380/2001, nel prevedere (co.
8) che “decorso inutilmente il termine per l’adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile
dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla
domanda di permesso di costruire si intende formato il
silenzio-assenso”, esclude espressamente “i casi in cui
sussistono vincoli relativi all’assetto idrogeologico,
ambientali, paesaggistici o culturali”.
Tale disposizione, peraltro, è coerente con quanto previsto,
in linea generale, dall’art. 20 della l. n. 241/1990, che
esclude l’applicazione dell’istituto del silenzio assenso,
tra l’altro e per quel che interessa nella presente sede,
agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale
e paesaggistico.
In sostanza,
l’art. 20, co. 8, DPR n. 380/2001 e, più in
generale, l’art. 20, co. 4, l. n. 241/1990, nell’escludere
dalla formazione del silenzio-assenso gli atti ed i
procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, ovvero ove sussistano vincoli (tra gli altri)
culturali e/o paesaggistici, non intendono riferirsi ai soli
casi in cui sussistano vincoli specifici, riguardanti un
determinato immobile ovvero una parte di territorio,
puntualmente individuati per il loro valore storico,
artistico o paesaggistico con puntuali atti della pubblica
amministrazione, ma si riferiscono, più in generale, a tutte
le ipotesi in cui siano presenti, nell’ordinamento realtà
accertate come riconducibili, anche in via generale, al
patrimonio culturale e/o paesaggistico.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei casi per i quali è
esclusa la formazione del silenzio-assenso, le domande volte
ad ottenere titoli edilizi relativi ad immobili situati in
zona A del territorio comunale, posto che tale zona, ai
sensi dell’art. 2 D.M. n. 1444/1968 è quella costituente
parte del territorio interessata “da agglomerati urbani che
rivestono carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”.
Nel caso di specie, l’immobile oggetto di domanda di
permesso di costruire, per dichiarazione degli stessi
appellanti (v. pag. 2 appello) è situato nel centro storico
(zona A) del Comune di Francavilla Fontana e risale
all’inizio del 1900.
Da ciò consegue che, in relazione alle istanze volte al
rilascio di titolo autorizzatorio edilizio concernenti lo
stesso, non può formarsi il silenzio-assenso, attesa la
tutela cui l’immobile è sottoposto, anche ai sensi dell’art.
136, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 42/2004.
2.2. Come si è detto, risulta fondato il secondo motivo di
appello, posto che il Comune avrebbe dovuto più
approfonditamente considerare la documentazione fornita
dagli appellanti (comprensiva di planimetrie e di
documentazione fotografica), al fine di stabilire la
consistenza del fabbricato in ordine al quale era stato
richiesto il titolo edilizio.
Ciò non significa che incombe sulla Pubblica Amministrazione
l’onere di comprovare detta consistenza (ponendosi tale
onere, come è evidente, a carico dell’istante), ma, al tempo
stesso, non risulta coerente con la tutela delle facultates
agendi del proprietario e con le disposizioni in tema di
ristrutturazione edilizia [art. 3, lett. c), DPR n.
380/2001], il diniego di una istanza volta ad ottenere il
permesso di costruire per ristrutturazione edilizia attesa
la “impossibilità” di definire la preesistente consistenza
del manufatto.
E ciò in presenza, come nel caso di specie,
di riscontro
dell’esistenza del fabbricato in catasto, di atti di
compravendita del medesimo e di una pluralità di rilievi
fotografici, che possono condurre, anche in via deduttiva, a
stabilire la più volte citata consistenza (anche in misura
inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli
interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati
possibili, motivatamente per quello più restrittivo).
Nel caso di specie, dunque, a fronte della documentazione
prodotta dagli interessati (in atti, ed esibita anche nel
giudizio di I grado: v. attestazione del 14.03.2017), non
può condividersi la sentenza impugnata, laddove essa assume
un difetto di allegazione probatoria, anche in giudizio, da
parte dei ricorrenti.
Al contrario, deve concludersi per la sussistenza del vizio
di difetto di istruttoria nel quale è incorsa
l’amministrazione e che rende illegittimo il diniego del
permesso di costruire.
2.3. Alla luce di quanto esposto, l’appello deve essere
accolto, con riferimento al secondo motivo di impugnazione
(sub lett. b) dell’esposizione in fatto), il che dispensa il
Collegio dall’esame dell’ulteriore motivo di appello
proposto.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve
essere accolto il ricorso instaurativo del giudizio di I
grado, con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato.
Resta fermo il potere dell’amministrazione di esaminare
compiutamente la domanda di permesso di costruire a suo
tempo presentata, onde verificare l’effettiva e preesistente
consistenza dell’immobile oggetto della domanda di permesso
di costruire, nonché ogni potere della medesima in ordine
alle determinazioni da assumere nel caso di specie, alla
luce delle disposizioni urbanistiche ed edilizie ad esso
applicabili (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.09.2017 n. 4516 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 20 del DPR n. 380 del 2001 non si applica
ai casi in cui sussistono vincoli relativi all'assetto
idrogeologico, ambientale, paesaggistico o culturale.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame si esprime
ancora in coerenza con quanto stabilito dall'art. 20 della
l. n. 241/1990, che esclude l'applicazione dell'istituto del
silenzio assenso, agli atti e procedimenti riguardanti il
patrimonio culturale e paesaggistico.
Con l'appello in esame, gli interessati impugnano la
sentenza 09.03.2017 n. 393, con la quale il TAR per la
Puglia, sez. I della sezione staccata di Lecce, ha rigettato
il ricorso proposto avverso il provvedimento 11.05.2016, con
il quale il Dirigente dell'Ufficio tecnico comunale ha
negato il rilascio del permesso di costruire per una
ristrutturazione edilizia.
In particolare il motivo dell'impugnazione è che
sull'immobile oggetto di istanza di permesso a costruire
grava il vincolo ex art. 136 co. 1, lett. c), d.lgs. n.
42/2004, il che esclude che sulla istanza possa formarsi il
silenzio-assenso.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei casi per i quali è
esclusa la formazione del silenzio assenso, le domande volte
ad ottenere titoli edilizi relativi ad immobili situati in
zona A del territorio comunale, posto che tale zona, ai
sensi dell'art. 2 D.M. n. 1444/1968 è quella costituente
parte del territorio interessata "da agglomerati urbani
che rivestono carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi"
(commento tratto dalla newsletter Ancitel 05.10.2017 -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
27.09.2017 n. 4516 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Ristorante emissione di
fumi e vapori maleodoranti - Molestie olfattive promananti
da impianto munito di autorizzazione - Emissioni in
atmosfera - Criteri della normale tollerabilità e stretta
tollerabilità - Cortile condominale - Art. 674 cod. pen. -
Art. 844 cod. civ. - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 674 cod. pen. (Getto
pericoloso di cose) è configurabile anche in presenza di
"molestie olfattive" promananti da impianto munito di
autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso
dei relativi limiti, come nel caso di specie), e ciò perché
non esiste una normativa statale che preveda disposizioni
specifiche -e, quindi, valori soglia- in materia di odori;
con conseguente individuazione del criterio
della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità
dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una
protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di
quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844
cod. civ. in un'ottica strettamente individualistica.
Sicché, nella fattispecie, trovano
applicazione i seguenti principi giurisprudenziali:
a) l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal
superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge,
essendo sufficiente quello del limite della stretta
tollerabilità;
b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con
adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben
può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a
diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non
si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel
riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi
dichiaranti.
---------------
1. Con sentenza del 09.02.2016, il Tribunale di Roma
dichiarava Gi.Pa. colpevole della contravvenzione di cui
all'art. 674 cod. pen. e, per l'effetto, lo condannava alla
pena di 500,00 euro di ammenda; allo stesso, quale titolare
del ristorante "La Ba.", era contestato di aver provocato
l'emissione di fumi e vapori maleodoranti nel cortile
condominale, atti a molestare i soggetti indicati nel capo
di imputazione.
...
5. Quanto precede, peraltro, con l'annotazione che la
sentenza in esame ha fatto buon governo del principio
-costantemente affermato in questa sede di legittimità- a
mente del quale il reato di cui all'art.
674 cod. pen. (Getto pericoloso di cose) è configurabile
anche in presenza di "molestie olfattive" promananti
da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in
atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti, come nel caso
di specie), e ciò perché non esiste una normativa statale
che preveda disposizioni specifiche -e, quindi, valori
soglia- in materia di odori
(Sez. 3, n. 37037 del 29/05/2012, Guzzo, Rv. 253675);
con conseguente individuazione del criterio della "stretta
tollerabilità" quale parametro di legalità
dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una
protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di
quello della "normale tollerabilità", previsto
dall'art. 844 cod. civ. in un'ottica strettamente
individualistica
(Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, Alghisi, Rv. 238447).
Da quanto precede, dunque, deriva che, nel caso in esame,
trovano applicazione i seguenti principi, enunciati
dalla giurisprudenza sopra richiamata:
a) l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal
superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge,
essendo sufficiente quello del limite della stretta
tollerabilità;
b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con
adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben
può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a
diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non
si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel
riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi
dichiaranti (per
tutte, Sez. 3, n. 19206 del 27/03/2008, Crupi, Rv. 239874;
in termini, anche Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi,
non massimata) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 26.09.2017 n. 44257). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
I camini (ma ciò vale anche per gli impianti di
riscaldamento per uso domestico alimentati a nafta) sono
assoggettati alla disciplina posta dall'art. 890 cod. civ.,
che pone una presunzione legale di nocività e pericolosità
che è solo "relativa", ed è quindi superabile con la prova
che non esiste danno o pericolo per il fondo vicino, quando,
come nella specie, non esiste una norma del regolamento
edilizio comunale che prescriva una determinata distanza.
---------------
Rilevato che:
- la vicenda oggetto del giudizio trae origine dalle asserite
immissioni di fumo provenienti dal camino di Ar.Ri.Pa. e
patite dal fondo viciniore di proprietà di Di Tu.Do.;
- a conclusione dei giudizi di merito, il Tribunale di Trani
(Sezione distaccata di Canosa di Puglia), riformando la
sentenza del locale Giudice di pace, rigettò la domanda con
la quale il Di Tu. aveva chiesto la condanna dell'Ar. ad
innalzare la canna fumaria sino al filo superiore
dell'apertura più alta dell'abitazione dell'attore e a
sostituire il comignolo con altro a norma del d.lgs. n.
153/2006;
- avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione
Di Tu.Do. sulla base di un unico motivo;
- Ar.Ri.Pa. ha resistito con controricorso;
Considerato che:
- l'unico motivo di ricorso (proposto ai sensi dell'art. 360
nn. 3 e 5 cod. proc. civ., per avere il Tribunale ritenuto
che la canna fumaria non fosse nociva o pericolosa per il
fondo del vicino ai sensi dell'art. 890 cod. civ.) è
inammissibile, in quanto -premesso che i camini (ma ciò vale
anche per gli impianti di riscaldamento per uso domestico
alimentati a nafta) sono assoggettati alla disciplina posta
dall'art. 890 cod. civ., che pone una presunzione legale di
nocività e pericolosità che è solo "relativa", ed è
quindi superabile con la prova che non esiste danno o
pericolo per il fondo vicino, quando, come nella specie, non
esiste una norma del regolamento edilizio comunale che
prescriva una determinata distanza (Cass., Sez. 2, n. 10607
del 23/05/2016; Sez. 2, n. 4286 del 22/02/2011; Sez. 2, n.
22389 del 22/10/2009)- la doglianza, per un verso, si
riduce ad una censura di merito in ordine alla valutazione
delle risultanze della esperita C.T.U., e, per altro
verso, risulta non specifica per difetto di
autosufficienza, laddove si lamenta che non siano state
valutate le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio
formale e di escussione dei testimoni, senza trascriverle
per intero nel ricorso, in modo da consentire a questa Corte
di vagliarne la decisività;
- il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile, con
conseguente condanna della parte ricorrente, risultata
soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate
come in dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 26.09.2017 n. 22367). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La decadenza, intesa quale misura sanzionatoria,
non può riguardare il deliberato astensionismo di un
consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di
dialettica politica.
Nella fattispecie in esame l'organo giudicante ha disposto
l'annullamento di una delibera del consiglio che dichiarava
decaduti alcuni consiglieri ai sensi dello statuto comunale,
in quanto non intervenuti, alle sedute del consiglio per un
lungo periodo. Il periodo di assenza infatti, risultava
deliberato e preannunciato dagli stessi consiglieri
dichiarati decaduti, in conformità ad una decisione assunta
dai gruppi consiliari di appartenenza, adeguatamente
motivata in relazione ad un atteggiamento della maggioranza
che li aveva esclusi dalle scelte amministrative più
significative.
L'art. 43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone che «lo
statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata
partecipazione alle sedute e le relative procedure,
garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause
giustificative», rimettendo dunque all'autonomia
riconosciuta all'ente locale di disciplinare le ipotesi di
decadenza, ma anche garantendo la possibilità del
consigliere comunale di esprimere le proprie
giustificazioni.
La Sezione ha recentemente ribadito il proprio indirizzo
secondo cui le circostanze da cui consegue la decadenza del
consigliere comunale vanno interpretate restrittivamente e
con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta
all'esercizio di un munus publicum, considerando
dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono
essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un
uso distorto dell'istituto come strumento di discriminazione
delle minoranze (Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743)
(commento tratto dalla newsletter Ancitel 05.10.2017 -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
22.09.2017 n. 4433 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1.- Principiando dalla disamina dell’appello
incidentale, concernente il capo della sentenza con cui è
stata dichiarata l’illegittimità della delibera di decadenza
dei consiglieri appellanti principali, e dunque con
carattere preliminare od assorbente, va rilevato che lo
stesso, ad avviso del Collegio, è infondato, e deve pertanto
essere disatteso.
In particolare, deduce il Comune di Caprino Bergamasco la
violazione degli artt. 12, comma 5, dello statuto comunale e
43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, censurando la
sentenza dei prime cure laddove ha ritenuto giustificato,
come strumento di lotta politica, l’astensionismo deliberato
e preannunciato, ancorché superiore al periodo di
maturazione della decadenza, in quanto la carica di
consigliere comunale non attribuisce uno status, ma
una funzione, che deve essere svolta attraverso l’esercizio
del diritto di voto, sia pure di dissenso.
L’assunto non è condivisibile, in quanto
la decadenza, intesa quale misura sanzionatoria, non può
riguardare il deliberato astensionismo di un consigliere
comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica
politica tra maggioranza ed opposizione di documentata
conflittualità,
come si evince anche dalla relazione del Ministero
dell’Interno in data 17.07.2003 (acuita dal fatto che nel
giugno 2002 è stato modificato il regolamento consiliare,
con l’introduzione di una disposizione relativa alla
decadenza dalla carica di consigliere al verificarsi di
almeno tre assenze).
L’art. 43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone che «lo
statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata
partecipazione alle sedute e le relative procedure,
garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause
giustificative», rimettendo dunque all’autonomia
riconosciuta all’ente locale di disciplinare le ipotesi di
decadenza, ma anche garantendo la possibilità del
consigliere comunale di esprimere le proprie
giustificazioni.
La Sezione ha recentemente ribadito il proprio indirizzo
secondo cui
le circostanze da cui consegue la decadenza del consigliere
comunale vanno interpretate restrittivamente e con estremo
rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio
di un munus publicum, considerando dunque che gli
aspetti garantistici della procedura devono essere valutati
attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto
dell’istituto come strumento di discriminazione delle
minoranze
(Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743).
Ne consegue che
le assenze danno luogo a decadenza dalla carica qualora la
giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla
sfera mentale soggettiva di colui che la adduce, sì da
impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e
rilevanza dei motivi
(Cons. Stato, V, 29.11.2004, n. 7761),
ovvero, più in generale, quando dimostrano con ragionevole
evidenza un atteggiamento di disinteresse per motivi futili
od inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico
elettivo
(Cons. Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
Nel caso di specie l’astensionismo degli appellanti
principali, ancorché superiore al periodo previsto, risulta
deliberato e preannunciato, in conformità ad una decisione
assunta dai gruppi consiliari di appartenenza ed
adeguatamente motivata in relazione ad un asserito
atteggiamento della maggioranza che li ha esclusi dalle
scelte amministrative più significative, come è dato
desumere dalla seduta consiliare del 15.05.2003, conclusasi
con la pronunzia di decadenza.
Per tali ragioni merita conferma la sentenza appellata nella
parte in cui ha accolto l’azione impugnatoria. |
EDILIZIA PRIVATA:
Come chiarito dall’univoco orientamento della
giurisprudenza, i muri di contenimento possiedono una
struttura idonea, per consistenza e modalità costruttive, a
sorreggere le spinte del terreno medesimo e dunque, pur
potendo avere concomitante funzione di confine, quest’ultima
è solo accessoria ed eventuale, mentre quella principale ne
rappresenta un’utilità specifica per il proprietario,
autonomamente valutabile e comunque comportante
un’alterazione significativa dello stato dei luoghi, con
conseguente soggezione al regime del permesso a costruire.
---------------
Il ricorso è privo di fondamento.
Con il primo motivo parte ricorrente adduce che le
rilevate difformità nell’altezza dei muri di contenimento
realizzati sarebbero di scarsa entità rispetto all’opera
complessivamente intesa; esse sarebbero fisiologiche
nell’ambito dell’esecuzione delle opere, in quanto derivanti
dalla particolare conformazione del terreno che ha imposto
l’innalzamento dell’altezza dei muti progettati.
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Deve anzitutto rilevarsi la non contestazione nell’an
e nel quantum delle violazioni rilevate
dall’Amministrazione con riferimento alla maggiore altezza
dei muri di contenimento rispetto a quella autorizzata nei
provvedimenti abilitativi.
Deve altresì rilevarsi che la maggiore altezza realizzata
non è affatto di trascurabile entità, come pretenderebbe
parte ricorrente, incidendo per oltre un metro rispetto a
quella assentita (rispettivamente metri 2 e 3), con la
conseguenza che anche da un punto di vista paesaggistico,
tenuto conto che la zona è sottoposta al relativo vincolo,
la variazione non può non avere riflessi apprezzabili,
alterando sostanzialmente la configurazione originaria
dell’opera assentita.
Parte ricorrente nega poi la contestata traslazione di due
parti dei muri di contenimento, ma si limita sul punto a
sovrapporre la propria diversa valutazione a quella operata
dall’Amministrazione.
Sempre in via preliminare deve precisarsi che, come chiarito
dall’univoco orientamento della giurisprudenza da cui il
Tribunale non ha motivo per discostarsi, i muri di
contenimento possiedono una struttura idonea, per
consistenza e modalità costruttive, a sorreggere le spinte
del terreno medesimo e dunque, pur potendo avere
concomitante funzione di confine, quest’ultima è solo
accessoria ed eventuale, mentre quella principale ne
rappresenta un’utilità specifica per il proprietario,
autonomamente valutabile e comunque comportante
un’alterazione significativa dello stato dei luoghi, con
conseguente soggezione al regime del permesso a costruire
(cfr. TAR Calabria, sez. dist. Reggio Calabria, 16.04.2014,
n. 186; TAR Napoli, sez. IV, 26.10.2012, n. 4275; cfr. anche
TAR Piemonte, 18.12.2013, n. 1368; TAR l’Aquila, 14.02.2013,
nr. 145; TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.02.2013, nr. 1210; TAR
Milano, sez. II, 08.11.2012, nr. 2687 ed altre).
Del resto ciò è quanto la stessa parte ricorrente ha
mostrato di intendere nel momento in cui ha proposto istanza
per il conseguimento del Permesso di costruire e per
l’autorizzazione paesaggistica per le opere oggetto di
causa.
Ciò posto, le variazioni introdotte rispetto a quanto
assentito nei titoli abilitativi non possono imputarsi alle
difficoltà riscontrate in sede di esecuzione, come
pretenderebbe parte ricorrente, atteso che come rilevato
dalla resistente Amministrazione sia l’addotto avvallamento
della strada comunale che il palo dell’Enel e la scala
dell’abitazione del confinante, erano circostanze in fatto
preesistenti, per cui non possono essere valide a
legittimare, in via successiva, le difformità contestate con
l’ordinanza de qua.
Peraltro, pure a prescindere da siffatta considerazione in
fatto, e si viene così allo scrutinio anche del secondo
motivo di ricorso, non può ritenersi che l’aumento
dell’altezza dei muri di contenimento possa essere
considerata alla stregua di una minima variazione (di tipo
esecutivo) non incidente sui parametri edilizi e sottoposta
pertanto a mera segnalazione, secondo quanto previsto
all’art. 22 del d.P.R.
Deve infatti rammentarsi che l’area sulla quale insistono le
opere in questione è soggetta a vincolo paesaggistico, tanto
è vero che il progetto originario è stato oggetto del
provvedimento abilitativo della relativa Amministrazione,
con la conseguenza che ogni variazione di esso avrebbe
dovuto essere sottoposta al medesimo iter autorizzativo,
come confermato dall’articolo 32, co. 3, del d.P.R. n.
380/2001.
Ne consegue che parte ricorrente, prima di apportare le
modifiche rilevate e non contestate, avrebbe dovuto
riattivare l’iter autorizzativo e ottenere l’assenso delle
autorità competenti, in assenza del quale le modifiche
devono ritenersi abusivamente realizzate (TAR Molise,
sentenza 22.09.2017 n. 317 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La granitica giurisprudenza sul tema afferma che
per gli atti sanzionatori di abusi edilizi, qual è
l’ordinanza di demolizione, l’Amministrazione non sarebbe
nemmeno tenuta a comunicare l’avvio del procedimento,
trattandosi di atto vincolato e dovuto.
---------------
Con il terzo motivo parte ricorrente deduce la
violazione dell’obbligo di motivazione in quanto nel
provvedimento gravato non si sarebbe tenuto conto del
contributo fornito con le deduzioni prodotte in sede
contraddittorio procedimentale con le osservazioni proposte
dal direttore dei lavori.
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Occorre ricordare che la granitica giurisprudenza sul tema
afferma che per gli atti sanzionatori di abusi edilizi, qual
è l’ordinanza di demolizione, l’Amministrazione non sarebbe
nemmeno tenuta a comunicare l’avvio del procedimento,
trattandosi di atto vincolato e dovuto (Consiglio di Stato,
sez. VI, 04.03.2013, n.1268).
Ciò nonostante, nel caso di specie, non è contestato che
parte ricorrente abbia comunicato scritti difensivi (in data
26.08.2016) instaurando un contraddittorio senza contestare
il dato fattuale della variazione delle altezze dei muri di
contenimento, confermando nella sostanza le violazioni
rilevate nell’ordine di demolizione (TAR Molise,
sentenza 22.09.2017 n. 317 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
E’ legittimo l’esercizio dell’esercizio del diritto di
critica che, nel denunciare la condotta tenuta da un altro
funzionario e ritenuta scorretta, utilizzi un linguaggio
contenuto, limitandosi a prefigurare che il funzionario non
avesse rispettato il suo dovere di imparzialità.
I cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente
alle autorità competenti i
comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano
irregolari o illegali.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1 - Con sentenza del 03.02.2017 il Tribunale di Catania
confermava la
sentenza del Giudice di pace di Adrano che aveva ritenuto
Ni.Me.
colpevole del delitto di diffamazione aggravata, per avere
offeso la reputazione
di Sa.Co., dirigente del Comune di Adrano, inviando
una lettera al
sindaco del medesimo comune ed al segretario della Corte dei
conti in cui aveva
affermato che la mancata definizione di una pratica di suo
interesse era derivata
dal comportamento doloso e colposo del Co..
Il Tribunale confermava il giudizio di condanna considerando
che le ragioni
del Me. non avevano trovato accoglimento nel
procedimento giurisdizionale
amministrativo che questi aveva intentato e che le
espressioni contenute nella
missiva non erano contenute, erano lesive della
professionalità del Co. ed
erano destituite di ogni fondamento.
2 - Propone ricorso l'imputato, a mezzo del suo difensore,
articolando le
proprie censure in tre motivi.
2-1 - Con il primo motivo deduce il difetto di motivazione
avendo il
Tribunale ignorato le censure mosse in ordine alla nullità
della sentenza di primo
grado in riferimento alla mancata notifica dall'imputato ed
al suo difensore
dell'atto di citazione a giudizio davanti al Giudice di
pace.
Si era eccepito che, nella data indicata nel decreto di
citazione, l'08.11.2014, il Giudice di pace di Adrano non aveva tenuto alcuna
udienza. Dopo alcuni
rinvii generici, per tutti i procedimenti fissati in quei
determinati giorni, il Giudice
aveva fissato, all'udienza del 18.07.2015, il rinvio del
processo all'udienza del 07.11.2015, nel corso della quale il difensore aveva
eccepito la nullità del
decreto di citazione perché relativo ad udienza non tenuta.
Con ordinanza del 21.11.2015 il Giudice aveva rigettato l'eccezione sulla
scorta del fatto che i
decreti di spostamento delle date di udienza, emessi il 05.09.2014 ed il 23.04.2015, erano stati correttamente comunicati
all'imputato ed al suo
difensore. Ciò, però, almeno in riferimento al decreto del 05.09.2014, non
rispondeva al vero.
2-2 - Con il secondo motivo lamenta il difetto di
motivazione in ordine alle
censure mosse con il secondo motivo di appello.
La motivazione sul punto del Tribunale era meramente
apparente.
Non si era tenuto conto del fatto che Co. aveva
illegittimamente disposto
la sospensione della procedura amministrativa e che,
comunque, le critiche
mosse al suo operato dal Messina, con espressioni contenute,
erano la mera
espressione del suo diritto di critica.
Al tempo, infatti, Co. non era neppure il responsabile del
procedimento ed
aveva agito nonostante l'avvenuta approvazione del
competente organo
collegiale, la giunta comunale. Ne aveva disposto la
sospensione, assumendo di
volerne verificare la regolarità, nonostante fosse del tutto
carente di tale potere,
senza neppure individuare alcun concreto profilo di
illegittimità della delibera.
La giustizia amministrativa poi non aveva affermato la
legittimità di tale
operato ma aveva solo respinto la richiesta di risarcimento
avanzata dal privato.
Negando vi fosse responsabilità contrattuale ma affermando
invece la
sussistenza della responsabilità precontrattuale,
condannando l'ente a rifondere
le spese sostenute dalla società dell'imputato.
I rilievi mossi dal medesimo ricorrente dovevano essere
pertanto valutati
alla luce di tale conclusione e considerando che la sua
azione doveva esser
valutata al momento di cui questa si era consumata e non
alla luce di successivi
approfondimenti giurisdizionali.
Né poteva considerarsi legittima la successiva astensione
del Co.
dall'occuparsi della procedura e doveva considerarsi il
fatto che ciò aveva
comunque determinato la definitiva stasi della stessa.
Circostanza questa che
legittimava il diritto di critica del Me..
Critica esercitata senza trascendere in espressioni di per
sé offensive e che
si erano appuntate sui fatti accaduti che l'imputato
riteneva illegittimi tanto da
interessarne il giudice amministrativo davanti al quale
aveva lamentato che si
fosse giunti alla ingiustificata paralisi del procedimento.
La nota era stata poi inviata a destinatari che comunque
potevano esercitare
un'attività di controllo sull'operato del funzionario.
Tutte questioni non realmente esaminate dal giudice
dell'appello.
2-3 - Con il terzo motivo lamenta il mancato
proscioglimento
dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., in
quanto l'autore materiale
della nota era stato il legale dell'imputato e questi
l'aveva sottoscritta solo per
rendere operativo il recesso della società, uno dei
contenuti espressi della stessa.
Il ricorrente non aveva pertanto consumato il reato o ne era
comunque
assente quantomeno il dolo.
In ogni caso, come si è detto, le espressioni usate nella
nota non erano
offensive o diffamatorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il secondo motivo di ricorso è fondato, per le ragioni che
si illustreranno, e
tale accoglimento assorbe le ulteriori doglianze.
1 - Deve comunque precisarsi, trattandosi di eccezione di
natura
processuale e quindi preliminare, che è infondata la censura
mossa nel primo
motivo, posto che le osservazioni spese dal ricorrente non
colgono nel segno.
Il decreto di citazione, infatti, non era nullo perché in
esso era stata
regolarmente e correttamente indicata la data della prima
udienza della fase
dibattimentale.
Vero è che tale udienza non si era poi tenuta ma ciò non
aveva determinato
alcuna nullità dell'atto introduttivo del giudizio ma solo
la necessaria verifica che
la successiva udienza fosse stata regolarmente ed
adeguatamente comunicata
all'imputato ed al suo difensore. Comunicazione che, non
avvenuta
compiutamente con i primi rinvii, si era invece avuta, con
la necessaria
completezza, quando, all'udienza del 18.07.2015, il
Giudice aveva disposto la
notifica agli aventi diritto del decreto di citazione
integrato da copia del verbale
di udienza ove si fissava la data di prima comparizione al 07.11.2015,
decreto e verbale regolarmente comunicati all'imputato ed al
suo difensore che
così erano venuti a perfetta conoscenza del giorno in cui si
sarebbe celebrato il
processo (per quella imputazione).
Corretta era stata pertanto la decisione del Giudice di pace
di rigetto
dell'eccezione di nullità della citazione a giudizio.
2 - Quanto al merito si è detto che il ricorso è fondato.
Sa.Co., infatti, con la lettera inviata al sindaco
ed al magistrato
della Corte dei Conti, aveva inteso denunciare una condotta,
che aveva ritenuto
scorretta, tenuta da un funzionario del Comune in una
pratica di suo interesse.
Aveva utilizzato un linguaggio contenuto, limitandosi a
prefigurare che il
funzionario non avesse rispettato il suo dovere di
imparzialità. Del resto lo stesso
si era prima interessato della pratica per poi dichiarare
che intendeva
astenersene.
Se è vero che, ex post, il Tribunale amministrativo
regionale aveva
affermato che Me. non aveva diritto ad essere risarcito,
lo stesso giudice
aveva, nel contempo, affermato che l'ente era incorso in una
responsabilità di
tipo precontrattuale.
Ne discende che, ferma rimanendo la contenutezza del
linguaggio utilizzato
nella missiva (peraltro indirizzata proprio agli organi di
controllo dell'operato del
funzionario la cui condotto si era sottoposta a critica),
nella stessa non si erano
superati i limiti della pertinenza dell'argomentazione e
della verità dei fatti
esposti, almeno in relazione alla posizione soggettiva del
ricorrente e
all'andamento della pratica di suo interesse.
Si conclude così per la non punibilità del Me. avendo
egli esercitato un
suo diritto di denuncia dell'operato del pubblico
funzionario (agli organi preposti)
e di critica del medesimo.
In relazione al diritto di denuncia della condotta, ritenuta
scorretta, del
pubblico funzionario, giova citare l'arresto della Corte EDU
n. 14881/2003
Zakharov c. Russia, in riferimento alla denunciata
violazione dell'art. 10 della
convenzione (sulla "libertà di espressione" ed i suoi
limiti), in cui si è affermato
che i cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente
alle autorità competenti i
comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano
irregolari o illegali.
Un principio di diritto che si attaglia perfettamente al
caso di specie ove il
cittadino Co. aveva denunciato agli organi preposti al
controllo dell'azione del
funzionario Me. la condotta che questi aveva tenuto, nel
trattare una pratica
di suo interesse, che appariva, nella fase in cui era stata
sporta la denuncia,
irregolare, come aveva ex post dimostrato la ritenuta
responsabilità dell'ente pur
sotto il solo profilo della responsabilità precontrattuale.
La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio non
essendo
l'imputato punibile per avere esercitato il suo diritto di
denuncia e di critica e non
prospettandosi l'utilità ai fini del decidere di alcun
ulteriore approfondimento in
fatto (Corte di Cassazione, Sez. feriale civile,
sentenza 21.09.2017 n. 43139). |
EDILIZIA PRIVATA:
Com’è noto, la falsa o inesatta rappresentazione
dello stato di luoghi in base al quale un soggetto chieda di
effettuare (e, in concreto, effettui) un intervento di
trasformazione del territorio, ben legittima la P.A. a far
venire meno, mediante autotutela, il titolo così
illegittimamente formato, tuttavia non consente affatto di
ritenere tamquam non esset il titolo comunque formato e
tuttora consolidato in capo al beneficiario e/o aventi
causa.
---------------
L’opera realizzata rispettando la concessione edilizia, ma
in contrasto con la norma urbanistica, non può essere
oggetto di sanzione amministrativa in quanto la concessione
stessa funge da titolo legittimante e la licenza edilizia
illegittima può essere solo oggetto di annullamento e non di
sanzione amministrativa, la quale riguarda opere edilizie
eseguite senza concessione o in contrasto con la
concessione.
E' illegittima l’ordinanza con cui il Comune, senza
previamente annullare la licenza edilizia, ha irrogato una
sanzione pecuniaria al proprietario di un edificio,
realizzato in conformità a detto titolo e all’atto d’obbligo
gravante sul terreno, sebbene con fondamenta inadeguate al
rilascio del titolo previsto in quella zona del piano
particolareggiato.
---------------
Il ricorso all’esame ha ad oggetto l’ordinanza di
demolizione contestata all’odierna parte ricorrente con
riferimento ad opere asseritamente realizzate in assenza di
titoli edilizi
Segnatamente, le opere contestate consistono in: opere di
contenimento in c.a.; terrazzamenti ed opere di viabilità,
modifica delle scale di accesso ai terrazzi; bacino
artificiale di raccolta delle acque, denominato nel permesso
di costruire n. 10/11 vasca per riserva idrica, sistemazione
delle aree pertinenziali dei due fabbricati; locale tecnico
di forma irregolare, posto in aderenza al fabbricato avente
superficie di metri quadrati 5,93 con altezza variabile da
2, 15 a 2.50; locale tecnico a servizio del bacino
artificiale, delle dimensioni di mq. 12 circa, altezza di
ml. 2.10.
Con i primi due motivi dedotti che per ragioni di
connessione possono essere esaminati congiuntamente, la
parte ricorrente lamenta che la sanzione demolitoria sarebbe
illegittima per essere intervenuta in pendenza di un
procedimento sanzionatorio non ancora concluso e,
soprattutto, per interventi assentiti in forza dei predetti
titoli (in pratica i ricorrenti sostengono che le opere
realizzate non sono qualificabili come interamente abusive
perché corrispondono al progetto autorizzato dal comune che
essi hanno in parte eseguito e aggiungono che le modifiche
al progetto risultano “riduttive” rispetto a quanto
illo tempore assentito).
Le doglianze sono fondate.
Osserva, in proposito, il Collegio che il sistema disegnato
dal T.U. Edilizia consente la comminazione di sanzioni,
ripristinatorie e/o pecuniarie avuto riguardo ad opere
edilizie che siano state realizzate in assenza o in
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia ovvero, ove
l’attività sia stata permessa all’esito di procedimento,
concessorio e/o autorizzatorio, ove le opere non siano
rispettose di quanto prescritto nel titolo, che funge,
pertanto, da parametro –interposto- di conformità
dell’opera.
Il caso di specie è caratterizzato appunto dalla
circostanza, peraltro denunciata dal ricorrente, della
copertura e della sostanziale aderenza degli interventi
contestati (ad eccezione per gli allegati lavori in variante
per i quali pendono istanze di accertamento di
compatibilità), con quanto assentito dai sopra richiamati
titoli edili a suo tempo dal Comune rilasciati (e da ultimo
con permesso di costruire n. 10/11).
Né rileva, come osservato, che il titolo sia stato
rilasciato sul presupposto di non completa, o addirittura
inesatta o fuorviante, rappresentazione dei luoghi, giacché
il titolo abilitativo si forma e si consolida sulla base di
quanto in esso -e nei suoi allegati, grafici e progettuali-
previsto.
Del resto, com’è noto, la falsa o inesatta rappresentazione
dello stato di luoghi in base al quale un soggetto chieda di
effettuare (e, in concreto, effettui) un intervento di
trasformazione del territorio, ben legittima la P.A. a far
venire meno, mediante autotutela, il titolo così
illegittimamente formato, tuttavia non consente affatto di
ritenere tamquam non esset il titolo comunque formato
e tuttora consolidato in capo al beneficiario e/o aventi
causa.
In estrema sintesi, ciò che il Comune ha inteso tardivamente
contestare sono i titoli in precedenza rilasciati, in
pendenza peraltro di un procedimento in autotutela ex art.
21-nonies della L. 241/1990, avviato ma non ancora concluso.
Sul piano giuridico, soccorre allora la giurisprudenza
formatasi in fattispecie analoga, secondo cui “l’opera
realizzata rispettando la concessione edilizia, ma in
contrasto con la norma urbanistica, non può essere oggetto
di sanzione amministrativa in quanto la concessione stessa
funge da titolo legittimante e la licenza edilizia
illegittima può essere solo oggetto di annullamento e non di
sanzione amministrativa, la quale riguarda opere edilizie
eseguite senza concessione o in contrasto con la concessione”
(cfr. TAR Lombardia, Brescia, n. 842/2002) ed “è
illegittima l’ordinanza con cui il Comune, senza previamente
annullare la licenza edilizia, ha irrogato una sanzione
pecuniaria al proprietario di un edificio, realizzato in
conformità a detto titolo e all’atto d’obbligo gravante sul
terreno, sebbene con fondamenta inadeguate al rilascio del
titolo previsto in quella zona del piano particolareggiato”
(cfr. Cons. di Stato, n. 1113/1995).
Le considerazioni che precedono consentono di accogliere il
ricorso, potendo restare assorbiti gli ulteriori profili di
censura dedotti (TAR Lazio-Latina,
sentenza 20.09.2017 n. 463 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non ritiene il Collegio che con il pagamento, da
parte della società ricorrente, della somma richiesta a
titolo di oneri concessori, sia stata integrata un’ipotesi
di acquiescenza idonea ad incidere sul diritto di azione.
Invero, l’acquiescenza postula atti e comportamenti univoci
posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto che
dimostrino la sua chiara ed irrevocabile volontà di
accettarne gli effetti.
In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in
giudizio, l’accertamento in ordine all’avvenuta accettazione
del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo
deve essere accurato e volto a ricostruire tutti gli
elementi che caratterizzano la dichiarazione negoziale, da
cui deve risultare senza margini di incertezza la presenza
di una chiara e definitiva intenzione di non rimettere in
discussione l’assetto impresso dall’atto lesivo.
E’, peraltro, pacifico in giurisprudenza che la mera
esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non
implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento
amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce
effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è
dunque comportamento neutro, potendo trovare
giustificazione, più che nell’univoca e incondizionata
volontà di accettarne gli effetti, nell’esigenza di evitare
le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua
inottemperanza.
I medesimi principi sono stati affermati anche con
riferimento al pagamento, al momento del ritiro della
concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi,
escludendo che ricorra il requisito della univoca
manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le
statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo,
e quindi a rinunciare all'esperimento della tutela
giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della
concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna
circa la debenza degli oneri concessori perché tale
comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza
indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo
titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del
rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione
dell'opera sono di diritto soggettivo.
---------------
1 - Espone in
fatto la società odierna ricorrente di aver presentato, in
data 01.03.1995, istanza di sanatoria per il cambio di
destinazione d’uso di un immobile, di sua proprietà, da
industriale a commerciale.
Tale istanza è stata accolta, con rilascio della concessione
in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, la quale è stata
oggetto di istanza di riesame con riferimento all’errore
materiale nell’indicazione della relativa superficie, pari a
1 mq.
A seguito dell’accoglimento di tale istanza di riesame, il
Comune ha proceduto alla quantificazione degli oneri
concessori, nella misura di € 136.469,60, somma pagata dalla
ricorrente e della quale, in questa sede giurisdizionale,
viene chiesta la restituzione nell’asserito presupposto
della non debenza di oneri concessori.
A sostegno dell’assunto, rappresenta parte ricorrente che,
venendo in rilievo un cambio di destinazione d’uso da
industriale a commerciale, ed essendo il cambio di
destinazione d’uso soggetto, ai sensi dell’art. 25 della
legge n. 47 del 1985, alla semplice autorizzazione, la
stessa sarebbe sottratta al pagamento degli oneri
concessori.
Lamenta, inoltre, parte ricorrente l’illegittimità della
richiesta in quanto conseguente al riesame della concessione
in sanatoria nella parte in cui veniva indicata la
superficie di 1 mq.
Chiede, quindi, parte ricorrente, previo annullamento della
gravata nota, la condanna dell’intimata Amministrazione alla
restituzione delle somme versate a titolo di oneri
concessori, oltre interessi dalla data del versamento o, in
subordine, dalla data della domanda.
Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione
Comunale sostenendo, con articolate argomentazioni,
l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispondente
pronuncia.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha
controdedotto a quanto ex adverso sostenuto,
insistendo nella proprie deduzioni ed ulteriormente
argomentando.
Alla pubblica udienza del 10.07.2017 la causa è stata
chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti,
trattenuta per la decisione, come da verbale.
2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del
presente giudizio, ne ritiene il Collegio l’infondatezza.
La controversia, riconducibile tra le materie di
giurisdizione esclusiva, concerne l’accertamento della
debenza degli oneri concessori a seguito del rilascio, in
data 12.07.2000, della concessione in sanatoria –come poi
integrata in sede di correzione di errore materiale,
rettificando la superficie da 1 mq a 1.218,18 mq– per
l’avvenuto cambio di destinazione d’uso di un immobile da
industriale a commerciale.
In via preliminare, deve essere rigettata l’eccezione,
sollevata dalla resistente Amministrazione, di intervenuta
acquiescenza, da parte della ricorrente, all’assetto
impresso dalla nota –anch’essa gravata con il ricorso in
esame– con la quale è stata determinata e richiesta la somma
di € 136.469,60, per oneri concessori, stante l’intervenuto
pagamento di tale somma da parte della società ricorrente
senza riserva alcuna.
Non ritiene, invero, il Collegio, che con il pagamento, da
parte della società ricorrente, della somma richiesta a
titolo di oneri concessori, sia stata integrata un’ipotesi
di acquiescenza idonea ad incidere sul diritto di azione.
Invero, l’acquiescenza postula atti e comportamenti univoci
posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto che
dimostrino la sua chiara ed irrevocabile volontà di
accettarne gli effetti.
In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in
giudizio, l’accertamento in ordine all’avvenuta accettazione
del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo
deve essere accurato e volto a ricostruire tutti gli
elementi che caratterizzano la dichiarazione negoziale, da
cui deve risultare senza margini di incertezza la presenza
di una chiara e definitiva intenzione di non rimettere in
discussione l’assetto impresso dall’atto lesivo.
E’, peraltro, pacifico in giurisprudenza che la mera
esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non
implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento
amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce
effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è
dunque comportamento neutro, potendo trovare
giustificazione, più che nell’univoca e incondizionata
volontà di accettarne gli effetti, nell’esigenza di evitare
le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua
inottemperanza.
I medesimi principi sono stati affermati anche con
riferimento al pagamento, al momento del ritiro della
concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi,
escludendo che ricorra il requisito della univoca
manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le
statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo,
e quindi a rinunciare all'esperimento della tutela
giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della
concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna
circa la debenza degli oneri concessori perché tale
comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza
indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo
titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del
rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione
dell'opera sono di diritto soggettivo (Cons. di Stato, V, nn.
296/1996 e 108/1991; TAR Firenze, 11.03.2004, n. 671).
Disattesa l’eccezione di acquiescenza sollevata dalla
resistente Amministrazione, con conseguente ammissibilità
della proposta azione, ne rileva tuttavia il Collegio
l’infondatezza.
Destituita di fondamento deve ritenersi, innanzitutto, la
tesi di parte ricorrente –meglio esplicitata nelle memorie
difensive– in base alla quale non sarebbero dovuti gli oneri
concessori per i mutamenti di destinazione d’uso avvenuti in
epoca antecedente al 1985, e quindi prima dell’entrata in
vigore della legge n. 47 del 1985, allorquando il titolo
edilizio era costituito dalla licenza edilizia gratuita.
La disciplina edilizia applicabile va invero rinvenuta in
quella in vigore all’epoca –non della realizzazione
dell’abuso– ma del rilascio della concessione in sanatoria,
con conseguente doverosa applicazione dei parametri previsti
per il rilascio della concessione relativamente ad opere
soggette a permesso a costruire.
Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza
realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale,
integra un mutamento tra categorie funzionali distinte e non
omogenee che determina un incremento del carico urbanistico,
soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri
concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da
un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque
presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri
concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione, in considerazione del vantaggio
economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico
in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di
clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla
iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
In conclusione, alla luce delle considerazioni sopra
illustrate, accertato l’obbligo di pagamento degli oneri
concessori in relazione al rilascio della concessione in
sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, va rigettata la proposta
azione volta ad ottenere l’accertamento della non debenza di
tali oneri e la restituzione delle somme già versate a tale
titolo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 19.09.2017 n. 9818 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di destinazione d'uso, anche senza
realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale
comporta un incremento del carico urbanistico e conseguente
aggravio degli oneri concessori.
Il mutamento di destinazione d’uso,
anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a
commerciale, integra un mutamento tra categorie funzionali
distinte e non omogenee che determina un incremento del
carico urbanistico, soggiacendo, pertanto, all’onere di
sopportare gli oneri concessori conseguenti all’aggravio del
carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da
un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque
presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri
concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione, in considerazione del vantaggio
economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico
in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di
clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla
iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
---------------
1 - Espone in fatto la società odierna ricorrente di aver
presentato, in data 01.03.1995, istanza di sanatoria per il
cambio di destinazione d’uso di un immobile, di sua
proprietà, da industriale a commerciale.
Tale istanza è stata accolta, con rilascio della concessione
in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, la quale è stata
oggetto di istanza di riesame con riferimento all’errore
materiale nell’indicazione della relativa superficie, pari a
1 mq.
A seguito dell’accoglimento di tale istanza di riesame, il
Comune ha proceduto alla quantificazione degli oneri
concessori, nella misura di € 136.469,60, somma pagata dalla
ricorrente e della quale, in questa sede giurisdizionale,
viene chiesta la restituzione nell’asserito presupposto
della non debenza di oneri concessori.
A sostegno dell’assunto, rappresenta parte ricorrente che,
venendo in rilievo un cambio di destinazione d’uso da
industriale a commerciale, ed essendo il cambio di
destinazione d’uso soggetto, ai sensi dell’art. 25 della
legge n. 47 del 1985, alla semplice autorizzazione, la
stessa sarebbe sottratta al pagamento degli oneri
concessori.
Lamenta, inoltre, parte ricorrente l’illegittimità della
richiesta in quanto conseguente al riesame della concessione
in sanatoria nella parte in cui veniva indicata la
superficie di 1 mq.
Chiede, quindi, parte ricorrente, previo annullamento della
gravata nota, la condanna dell’intimata Amministrazione alla
restituzione delle somme versate a titolo di oneri
concessori, oltre interessi dalla data del versamento o, in
subordine, dalla data della domanda.
Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione
Comunale sostenendo, con articolate argomentazioni,
l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispondente
pronuncia.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha
controdedotto a quanto ex adverso sostenuto,
insistendo nella proprie deduzioni ed ulteriormente
argomentando.
Alla pubblica udienza del 10.07.2017 la causa è stata
chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti,
trattenuta per la decisione, come da verbale.
2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del
presente giudizio, ne ritiene il Collegio l’infondatezza.
La controversia, riconducibile tra le materie di
giurisdizione esclusiva, concerne l’accertamento della
debenza degli oneri concessori a seguito del rilascio, in
data 12.07.2000, della concessione in sanatoria –come poi
integrata in sede di correzione di errore materiale,
rettificando la superficie da 1 mq a 1.218,18 mq– per
l’avvenuto cambio di destinazione d’uso di un immobile da
industriale a commerciale.
...
Destituita di fondamento deve ritenersi, innanzitutto, la
tesi di parte ricorrente –meglio esplicitata nelle memorie
difensive– in base alla quale non sarebbero dovuti gli oneri
concessori per i mutamenti di destinazione d’uso avvenuti in
epoca antecedente al 1985, e quindi prima dell’entrata in
vigore della legge n. 47 del 1985, allorquando il titolo
edilizio era costituito dalla licenza edilizia gratuita.
La disciplina edilizia applicabile va invero rinvenuta in
quella in vigore all’epoca –non della realizzazione
dell’abuso– ma del rilascio della concessione in sanatoria,
con conseguente doverosa applicazione dei parametri previsti
per il rilascio della concessione relativamente ad opere
soggette a permesso a costruire.
Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza
realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale,
integra un mutamento tra categorie funzionali distinte e non
omogenee che determina un incremento del carico urbanistico,
soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri
concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da
un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque
presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri
concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione, in considerazione del vantaggio
economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico
in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di
clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla
iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
In conclusione, alla luce delle considerazioni sopra
illustrate, accertato l’obbligo di pagamento degli oneri
concessori in relazione al rilascio della concessione in
sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, va rigettata la proposta
azione volta ad ottenere l’accertamento della non debenza di
tali oneri e la restituzione delle somme già versate a tale
titolo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 19.09.2017 n. 9818 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Condominio, Tar Lombardia: ok allo scarico a
parete se la canna fumaria collettiva non è idonea. Accolto
il ricorso di un condòmino cui era stato vietato lo scarico
a parete.
Cna Installazione e
Impianti segnala una recente sentenza del Tar Lombardia –n.
1808/2017 pubblicata il 13 settembre- di estrema importanza
per gli installatori e particolarmente utile per dirimere e
chiarire ogni problema qualora si dovessero trovare a
sostituire un apparecchio a gas in un condominio con scarico
in canna collettiva (ramificata o meno) non idonea.
Come è noto, in questi casi la legge (art. 5, commi 9 e
9-bis, D.P.R. 412/1993 modificato dal D.Lgs. 102/2014)
consente lo scarico a parete nel rispetto della norma UNI
7129 circa le distanze dello scarico fumi, ma sono
altrettanto note le difficoltà ed i problemi pratici che
sorgono in queste occasioni.
Nel caso in oggetto, un condòmino che doveva sostituire una
caldaia installata su una canna fumaria collettiva,
verificato che la stessa non era idonea ne chiedeva
l’adeguamento al condominio che però non agiva. Il condòmino
in questione, allora, si scollegava dalla canna fumaria e,
nel rispetto della normativa, andava a scaricare a parete
con una caldaia tipo C a condensazione ed a bassa emissione
di NOx.
A seguito delle contestazioni avanzate da un altro condòmino
che abitava al piano di sopra, il Comune di Gallarate
emetteva un’ordinanza con la quale, richiamando la circolare
8/San del 1995 della Regione Lombardia che, va ricordato, è
un “mero atto di indirizzo”, vietava al condòmino lo
scarico a parete e obbligava il condominio all’adeguamento
della canna fumaria.
A questo punto il condòmino cui era stato vietato lo scarico
a parete si rivolgeva al TAR che accoglieva il ricorso per
“Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DPR n. 412
del 26.08.1993” e per “Eccesso di potere per travisamento
dei presupposti di fatto e di diritto e per motivazione
illogica, carente e contraddittoria” ed emetteva una
sentenza con cui annullava l’ordinanza del Comune e
condannava il Comune stesso (per aver emesso l'ordinanza) ed
il condominio (per non aver adeguato la canna fumaria e
condiviso l'ordinanza del Comune) al pagamento delle spese
processuali e accessorie
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Per una migliore intelligenza delle questioni devolute alla
cognizione del Collegio, giova preliminarmente precisare che
il condominio controinteressato non ha impugnato l’ordinanza
comunale di cui si tratta; l’oggetto del giudizio è quindi
riferito alla sola posizione della società ricorrente, da
esso esulando le questioni inerenti l’adempimento o meno da
parte del condominio all’impugnata ordinanza.
A seguire, il primo motivo di ricorso è fondato.
L’impugnata ordinanza risulta fondata sul presupposto che lo
scarico dei fumi della caldaia di cui si tratta dovrebbe
essere adeguato «…in quanto non conforme all’art. 3.4.46
del Regolamento Comunale di Igiene (R.C.I.)…».
Tale art. 3.4.46 del regolamento comunale di igiene del
Comune (da ora innanzi RCI) è stato versato in atti sia
quale allegato al ricorso sub 6, sia dal Comune resistente
in data 20.05.2016, sub 5.
Secondo il punto o di tale articolo 3.4.46, i comignoli
degli impianti termici devono essere collocati oltre il
colmo del tetto.
Dispone l’art. 5, ai commi 9 e 9-bis, del DPR 412/1993, per
quanto di interesse: «9. Gli impianti termici installati
successivamente al 31.08.2013 devono essere collegati ad
appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei
prodotti della combustione, con sbocco sopra il tetto
dell’edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione
tecnica vigente.
9-bis. E’ possibile derogare a quanto stabilito dal comma 9
nei casi in cui:
a) si procede, anche nell’ambito di una riqualificazione energetica
dell’impianto termico, alla sostituzione di generatori di
calore individuali che risultano installati in data
antecedente a quella di cui al comma 9, con scarico a parete
o in canna collettiva ramificata;
b) l’adempimento dell’obbligo di cui al comma 9 risulta
incompatibile con norme di tutela degli edifici oggetto
dell’intervento, adottate a livello nazionale, regionale o
comunale;
c) il progettista attesta e assevera l’impossibilità tecnica a
realizzare lo sbocco sopra il colmo del tetto;
d) si procede alle ristrutturazioni di impianti termici individuali
già esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella
versione iniziale non dispongano già di camini, canne
fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della
combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio,
funzionali e idonei o comunque adeguabili alla applicazione
di apparecchi a condensazione…».
Il comma 9 del citato art. 5 prevede quindi l’obbligo di
espellere al di sopra del tetto i prodotti della combustione
di impianti termici realizzati dopo il 31.08.2013; l’art.
3.4.46 del RCI risulta quindi coerente con il disposto di
tale comma 9.
Il successivo comma 9-bis del citato art. 5 prevede però
ipotesi di deroga a tale obbligo; tale comma è stato
introdotto dall’art. 17-bis, comma 1, del DL 04.06.2013, n.
63, convertito, con modificazioni, dalla Legge 03.08.2013,
n. 90, che ha sostituito l’originario comma 9 con gli
attuali commi da 9 a 9-quater, e successivamente è stato
modificato ad opera dell’art. 14, comma 8, del D.Lgs.
04.07.2014, n. 102, che ha aggiunto due lettere al comma
9-bis.
Il successivo comma 9-quater prevede l’obbligo a carico dei
comuni di adeguare i propri regolamenti alle disposizioni di
cui ai commi 9, 9-bis e 9-ter.
Risulta dalla documentazione versata in atti che:
a) la relazione dei tecnici incaricati dal
condominio controinteressato ha precisato che: «…In
generale, nelle canne fumarie collettive ramificate non
possono coesistere caldaie di tipo B e C, ma possono essere
collegate solo caldaie di tipo B. Per quanto detto la canna
fumaria ispezionata non è a norma, ed è necessario
intervenire con opere di risanamento…»
(allegato al ricorso sub 2, pag. 2);
b) il condominio controinteressato ha ritenuto «…necessario
che chi ha collegato caldaie di tipo C le scolleghi
immediatamente dalla canna fumaria…» (verbale
dell’assemblea di condominio del 27.05.2013, allegato al
ricorso sub 3), ciò imponendo alla società controinteressata
di intervenire;
c) la società ricorrente ha installato la caldaia
in data 30.05.2014, successivamente quindi alla data del
31.08.2013, in sostituzione di altra precedentemente
installata (ciò
risultando dalla dichiarazione di conformità dell’impianto,
allegato al ricorso sub 5).
Risulta quindi che la società ricorrente
ben poteva, ai sensi dell’art. 5, comma 9-bis, lett. a),
derogare all’obbligo di espellere al di sopra del tetto i
prodotti della combustione.
Né a diversa decisione può indurre la circostanza che la
società ricorrente non ha impugnato il citato art. 3.4.46
del RCI.
Tale art. 3.4.46 del RCI, non prevedendo le ipotesi di
deroga di cui al citato comma 9-bis dell’art. 5 del DPR
412/1993, risulta in contrasto con tale comma 9-bis, ciò da
cui discende l’obbligo della sua disapplicazione (in tema di
disapplicazione dei regolamenti si rinvia, ex plurimis,
a Cons. Stato, Sez. VI, 14.07.2014, n. 3623), trattandosi di
norma regolamentare comunale contrastante con norma di legge
(essendo stato il comma 9-bis del DPR 412/1993 introdotto
dall’art. 17-bis del DL 63/2013, inserito dalla legge di
conversione 90/2013, e quindi modificato ad opera dell’art.
14, comma 8, del D.Lgs. 04.07.2014, n. 102).
Il ricorso –assorbito il secondo motivo sul presupposto
dell’accoglimento del primo motivo, con cui è stata dedotta
una più radicale illegittimità del provvedimento impugnato
(sul punto, Cons. Stato, AP, 27.04.2015, n. 5)– va quindi
accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 13.09.2017 n. 1808). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha più volte chiarito che “in
materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato
che intende dimostrare la legittimità del proprio operato e
non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non
assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge”.
Tale onere poi, può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo
quando le prove addotte risultano obiettivamente
inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori, offrono la
ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del
manufatto.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “l'autorità
urbanistica, pur dovendo sempre espletare un'istruttoria
adeguata anche relativamente all'epoca di edificazione (onde
individuare il regime giuridico di riferimento), non deve
fornire, quale condizione di legittimità per l'irrogazione
della sanzione, anche la prova certa dell'epoca di
realizzazione dell'abuso, atteso che è posto in capo al
proprietario (o al responsabile dell'abuso), ingiunto della
demolizione l'onere di provare la risalenza dell'immobile ad
epoca anteriore alla legge ponte n. 765 del 1967, che estese
l'obbligo di previa licenza edilizia anche alle costruzioni
realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano”.
---------------
L'01.09.1967 è la data di entrata in vigore della L. n.
765/1967 che estese a tutto il territorio comunale l’obbligo
della concessione edilizia prima circoscritto al solo centro
urbano.
---------------
I. Sul ricorso principale.
2.1. Con il primo mezzo la ricorrente si duole che il
Comune non ha tenuto conto della legittimità delle due
costruzioni siccome realizzate anteriormente al 1967 su
un’area demaniale posta al di fuori del centro urbano per
cui le stesse, in forza dell’art. 31 della L. n. 1150/1942
non erano soggette ad alcun titolo autorizzatorio.
L’ordinanza avversata fa riferimento in modo del tutto
generico ad un’epoca di costruzione collocabile tra il
luglio 1968 e l’aprile 1977 in un caso e nell’altro tra il
31.11.1982 e il 03.10.1988 determinando perplessità sugli
adempimenti istruttori effettuati.
2.2. La doglianza non persuade il Collegio e va disattesa,
avendo la giurisprudenza più volte chiarito che “in
materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato
che intende dimostrare la legittimità del proprio operato e
non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non
assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge” (TAR
Piemonte, Sez. I, 05.06.2009, n. 1564; TAR Sicilia-Palermo,
sez. III, 26.10.2005, n. 4099; in tal senso anche TAR
Umbria, 10.07.2003, n. 589; TAR Basilicata, 29.04.2003, n.
370).
Tale onere poi, può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo
quando le prove addotte risultano obiettivamente
inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori, offrono la
ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del
manufatto (cfr. TAR Umbria, 10.07.2003, n. 589).
Più di recente la Sezione ha ribadito che “l'autorità
urbanistica, pur dovendo sempre espletare un'istruttoria
adeguata anche relativamente all'epoca di edificazione (onde
individuare il regime giuridico di riferimento), non deve
fornire, quale condizione di legittimità per l'irrogazione
della sanzione, anche la prova certa dell'epoca di
realizzazione dell'abuso, atteso che è posto in capo al
proprietario (o al responsabile dell'abuso), ingiunto della
demolizione l'onere di provare la risalenza dell'immobile ad
epoca anteriore alla legge ponte n. 765 del 1967, che estese
l'obbligo di previa licenza edilizia anche alle costruzioni
realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano”
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, 20.04.2016 n. 1957).
Per converso la ricorrente non ha fornito prova idonea
dell’avvenuta realizzazione dei due manufatti specifici
colpiti dalla gravata ordinanza di demolizione in epoca
antecedente il 01.09.1967, a nulla valendo le generiche
concessioni demaniali invocate, che non attestano l’avvenuta
costruzione dei due manufatti.
Non deve infatti sfuggire la diversa funzione dei due
provvedimenti amministrativi in questione, la concessione
demaniale assolvendo alla funzione di creare in capo al
concessionario la facoltà di godere a titolo esclusivo del
bene demaniale che ne forma oggetto e quella edilizia alla
funzione di rendere legittima l’attività edificatoria
costituendone il titolo giuridico abilitante.
Più in dettaglio rileva il Collegio che la richiesta prova
dell’anteriorità dei manufatti al 01.09.1967 non è raggiunta
nemmeno attraverso il testimoniale di Stato prodotto il
06.12.2016 in quanto tale atto prova soltanto l’esistenza
dei manufatti ivi descritti, tra i quali nell’allegata
planimetria figura l’infermeria, alla data della sua
redazione ossia al 04.06.1977.
Si precisa infatti in detto documento che con atto stipulato
in forma pubblica amministrativa l’11.04.1967 registrato a
Torre del Greco il 6.12.1967 venne concessa alla signora
Maria Imperato per quindici anni “una zona demaniale
marittima, situata sulla spiaggia Gabella del Pesce al
confine tra il Comune si Portici e quello di Ercolano, della
superficie di mq. 2.030 allo scopo di costruirvi e
mantenervi uno stabilimento balneare”.
Non viene tuttavia specificato quando fu costruito detto
stabilimento ed in particolare il manufatto adibito a
medicheria.
Né, per le ragioni già esposte, la concessione marittima del
11.04.1967 può tenere luogo della allora concessione
edilizia.
3. Del pari infondato è il secondo motivo, con il
quale la deducente lamenta che il Comune non ha tenuto conto
del testimoniale di Stato redatto il 04.06.1977 per la
acquisizione al demanio pubblico di tutte le cabine in
muratura realizzate su zona demaniale in località Gabella
del Pesce del Comune di Portici, non menzionando siffatto
testimoniale, i due manufatti adibiti a deposito e
medicheria raggiunti dall’ordinanza demolitoria impugnata.
Valga inoltre richiamare le considerazioni testé svolte in
ordine alla mancata prova della avvenuta costruzione dei due
manufatti de quibus tra l’11.04.1967 e il 01.09.1967,
data di entrata in vigore della L. n. 765/1967 che estese a
tutto il territorio comunale l’obbligo della concessione
edilizia prima circoscritto al solo centro urbano (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' infondata la dedotta
illegittimità dell’ordinanza di demolizione laddove non ha
valutato che la demolizione pregiudicherebbe
l’utilizzabilità di quelle assentite.
Invero, l’invocata valutazione attiene alla seconda fase del
procedimento demolitorio che fa seguito all’inesecuzione
dell’ordine demolitorio da parte del destinatario, laddove
nella prima fase l’emissione dell’ingiunzione di ripristino
è atto dovuto che prescinde dall’espressione di ogni
giudizio in ordine alla fattibilità tecnica della
demolizione.
Si è infatti condivisibilmente sancito che “Il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato
non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (questa volta non
indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi
dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in
materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto,
soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria”.
Anche il Tribunale segue il riportato indirizzo affermando
che “L'art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001, concernente gli
interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità, individua,
come prima opzione sanzionatoria, proprio quella
ripristinatoria a conferma della gravità dell'abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale le
medesime sono subordinate, prevedendo semplicemente la
possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di
esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione
pecuniaria. Tale evenienza, tuttavia, rileva solo in sede
esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di
demolizione (come per l'eventuale presenza del presupposto
dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio
dell'ordine di riduzione in pristino”.
---------------
5. Con il quarto motivo la deducente sostiene
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione al vaglio
della Sezione per non aver valutato la peculiarità delle
opere, la cui demolizione pregiudicherebbe l’utilizzabilità
di quelle assentite.
5.1. La censura è infondata, avendo la giurisprudenza
precisato che l’invocata valutazione attiene alla seconda
fase del procedimento demolitorio che fa seguito all’inesecuzione
dell’ordine demolitorio da parte del destinatario, laddove
nella prima fase l’emissione dell’ingiunzione di ripristino
è atto dovuto che prescinde dall’espressione di ogni
giudizio in ordine alla fattibilità tecnica della
demolizione.
Si è infatti condivisibilmente sancito che “Il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato
non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (questa volta non
indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi
dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in
materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto,
soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III , 23.01.2015
n. 211).
Anche il Tribunale segue il riportato indirizzo affermando
che “L'art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001, concernente gli
interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità, individua,
come prima opzione sanzionatoria, proprio quella
ripristinatoria a conferma della gravità dell'abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale le
medesime sono subordinate, prevedendo semplicemente la
possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di
esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione
pecuniaria. Tale evenienza, tuttavia, rileva solo in sede
esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di
demolizione (come per l'eventuale presenza del presupposto
dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio
dell'ordine di riduzione in pristino” (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI, 12.03.2015 n. 1521) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza pacificamente afferma
l’estraneità ai provvedimenti repressivi di abusi edilizi di
motivazione in ordine al pubblico interesse, che va
ravvisato in re ipsa.
La Sezione ha enunciato, sulla scorta di precedenti arresti,
siffatta interpretazione che è stata ribadita più di recente
da questo TAR, che ha sancito che
- “E' ben motivata l'ordinanza demolitoria che richiami la
circostanza della mancanza del permesso di costruire (nonché
della reiezione della sanatoria successivamente chiesta),
non occorrendo alcuna specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati” e che
- “L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato
dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse
al mantenimento "in loco" della res, ed è adeguatamente e
sufficientemente motivata attraverso la compiuta descrizione
delle opere abusive e la constatazione della loro esecuzione
in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio”.
Anche il Consiglio di Stato ha di recente riaffermato che
“L'ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi,
oltre che di rimessione in pristino dello stato dei luoghi,
costituisce un atto dovuto in mera dipendenza
dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di
una sua particolare motivazione, essendo in tal senso
sufficiente la rappresentazione del carattere illecito
dell'opera realizzata, né una previa espressa comparazione
tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in
re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione”.
---------------
6. Con il quinto mezzo la ricorrente lamenta omessa
valutazione dell’interesse pubblico alla demolizione.
6.1. La censura è infondata al lume della giurisprudenza che
pacificamente afferma l’estraneità ai provvedimenti
repressivi di abusi edilizi, di motivazione in ordine al
pubblico interesse, che va ravvisato in re ipsa.
La Sezione ha enunciato, sulla scorta di precedenti arresti,
siffatta interpretazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
09.10.2014 n. 5254), che è stata ribadita più di recente da
questo TAR, che ha sancito che “E' ben motivata
l'ordinanza demolitoria che richiami la circostanza della
mancanza del permesso di costruire (nonché della reiezione
della sanatoria successivamente chiesta), non occorrendo
alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati” (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII, 29.08.2016 n. 4114) e che “L'ordinanza
di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato dalla
ponderazione discrezionale del confliggente interesse al
mantenimento "in loco" della res, ed è adeguatamente e
sufficientemente motivata attraverso la compiuta descrizione
delle opere abusive e la constatazione della loro esecuzione
in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 12.01.2016, n. 118).
Anche il Consiglio di Stato ha di recente riaffermato che “L'ordinanza
di demolizione e rimozione di abusi edilizi, oltre che di
rimessione in pristino dello stato dei luoghi, costituisce
un atto dovuto in mera dipendenza dall'accertamento della
relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo
ad una delle fattispecie d'illecito previste dalla legge,
che esclude la necessità di una sua particolare motivazione,
essendo in tal senso sufficiente la rappresentazione del
carattere illecito dell'opera realizzata, né una previa
espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla
rimozione dell'opera, che è in re ipsa, e quello privato
alla relativa conservazione” (Consiglio di Stato, Sez.
V, 02.10.2014, n. 4926) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le difformità da una d.i.a., oggi s.c.i.a.,
ovvero la loro assenza, se in linea di massima sfuggono alla
sanzione demolitoria, ciò non è predicabile allorché
trattisi di interventi eseguiti in zone vincolate, quali
quelle all’esame.
Nella fattispecie, il territorio del Comune è infatti
sottoposto ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. 22.01.2004,
n. 42 (ex L. n. 1497/1939) ragion per cui trova applicazione
il disposto di cui all’art. 167, comma 1, d.lgs. n. 22 del
2004 a norma del quale in caso di violazione delle
disposizioni di cui al Titolo I della Parte Terza del
codice, tra le quali quella dell’art. 146 che impone il
preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per la
realizzazione di qualunque tipologia di opere, la riduzione
in pristino è sempre ingiunta.
La giurisprudenza ha infatti elaborato un principio di
indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione
di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità
dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere
soggette a mera d.i.a..
Si è infatti sancito che “L'art. 27, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001 riconosce all'Amministrazione comunale un
generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività
urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate
in zone vincolate in assenza dei relativi titoli
abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante
l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini
di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli
abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione
paesaggistica”.
Opzione seguita dall’orientamento del Tribunale che ha più
di recente ribadito che “L'art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale
potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività
urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate
in zone vincolate in assenza dei relativi titoli
abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante
l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini
di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli
abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A., prive di autorizzazioni
paesaggistiche”.
---------------
Il provvedimento che dispone la demolizione di opera abusiva
realizzata in zona soggetta a vincolo, non deve essere
preceduto dal parere della autorità preposta alla tutela di
detto vincolo, stante la obbligatorietà dell'ordine di
demolizione.
Il provvedimento che ordina la demolizione dell'opera
abusiva è, quando sia stato preceduto dal diniego di
concessione in sanatoria, provvedimento dovuto, sicché, non
residuando alcun margine di discrezionalità, è superflua
l'acquisizione di qualsiasi parere.
---------------
7. Con il sesto e il settimo mezzo la
deducente sostiene l’assentibilità delle opere realizzate,
sulla base di una semplice d.i.a. anziché del permesso di
costruire ma non offre al Collegio alcun elemento di prova
in tal senso, ragion per cui le censure sono da respingere.
7.1. Nemmeno persuade l’assunto difensivo secondo il quale i
manufatti costruiti integrano delle pertinenze edilizie da
ciò discendendo l’illegittimità della sanzione
ripristinatoria ingiunta, non comminabile relativamente ad
opere assoggettate a d.i.a..
7.2. Tale opzione è invero infondata e va disattesa.
Evidenzia in proposito il Collegio che le difformità da una
d.i.a., oggi s.c.i.a., ovvero la loro assenza, se in linea
di massima sfuggono alla sanzione demolitoria, ciò non è
predicabile allorché trattisi di interventi eseguiti in zone
vincolate, quali quelle all’esame.
Il territorio del Comune, come pure attesta il
provvedimento, è infatti sottoposto ai vincoli di tutela di
cui al d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ex L. n. 1497/1939) ragion
per cui trova applicazione il disposto di cui all’art. 167,
comma 1, d.lgs. n. 22 del 2004 a norma del quale in caso di
violazione delle disposizioni di cui al Titolo I della Parte
Terza del codice, tra le quali quella dell’art. 146 che
impone il preventivo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica per la realizzazione di qualunque tipologia di
opere, la riduzione in pristino è sempre ingiunta.
La giurisprudenza ha infatti elaborato un principio di
indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione
di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità
dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere
soggette a mera d.i.a..
Si è infatti sancito che “L'art. 27, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione comunale un
generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività
urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate
in zone vincolate in assenza dei relativi titoli
abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante
l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini
di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli
abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione
paesaggistica” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.01.2013
n. 62).
Opzione seguita dall’orientamento del Tribunale che ha più
di recente ribadito che “L'art. 27, comma 2, d.P.R. n.
380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un
generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività
urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate
in zone vincolate in assenza dei relativi titoli
abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante
l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini
di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli
abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A., prive di autorizzazioni
paesaggistiche” (TAR Campania–Napoli, Sez. III,
08.01.2016 n. 17; in terminis, TAR Campania-Napoli
sez. IV, 28.04.2016 n. 2155; TAR Campania–Napoli, Sez. VI,
11.10.2016 n. 4659).
8. Con l’ottavo ed ultimo motivo la ricorrente
lamenta illegittimità dell’ordinanza di demolizione
impugnata perché, insistendo le opere su aree sottoposte a
vincoli, occorrerebbe la previa acquisizione del parere
dell’autorità proposta alla sua gestione.
8.1. Anche tale ultima censura è infondata poiché
l’ordinanza di demolizione è atto dovuto che non involge
valutazioni tecnico discrezionali per le quali sia richiesto
il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Si è invero condivisibilmente precisato in tal senso che “Il
provvedimento che dispone la demolizione di opera abusiva
realizzata in zona soggetta a vincolo, non deve essere
preceduto dal parere della autorità preposta alla tutela di
detto vincolo, stante la obbligatorietà dell'ordine di
demolizione (cfr.: TAR Molise 10.12.2002 n. 944)” (TAR
Molise, 02.04.2008, n. 111) e che “Il provvedimento che
ordina la demolizione dell'opera abusiva è, quando sia stato
preceduto dal diniego di concessione in sanatoria,
provvedimento dovuto (da ultimo, CdS, IV, 08.03.2005 n.
1662), sicché, non residuando alcun margine di
discrezionalità, è superflua l'acquisizione di qualsiasi
parere” (TAR Veneto, Sez. II, 07.03.2006, n. 534).
In definitiva, alla luce delle svolte considerazioni il
ricorso si profila infondato e va conseguentemente respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 31, comma 2, d.P.R.
380/2001, prevede espressamente che, una volta accertata
l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
ne viene ingiunta la rimozione o demolizione “al
proprietario e al responsabile dell'abuso”; parallelamente,
la legge regionale del Lazio n. 15 del 2008, prevede
all’art. 15 che l’ingiunzione di demolizione è rivolta al
responsabile dell'abuso, nonché al proprietario, ove non
coincidente con il primo.
Sicché, l’obbligo di emanare le ordinanze di
demolizione di opera edilizia abusiva anche nei confronti di
chi risulti essere il proprietario, per come sancito a
livello normativo, sussiste indipendentemente dall’essere
anche responsabile delle opere abusive, essendo il
proprietario individuato dalla norma tra i soggetti che sono
comunque in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno
nella realizzazione dell'abuso, in considerazione della
natura non meramente sanzionatoria, ma ripristinatoria
dell’ordine di demolizione.
Tuttavia, nel caso in esame, il provvedimento
impugnato è illegittimo nella parte in cui dispone, altresì,
l’acquisizione gratuita delle opere e dell’area di sedime
nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione,
tenuto conto che il sopra richiamato art. 15, l.r. n.
15/2008 chiarisce che la sanzione dell’acquisizione gratuita
al patrimonio pubblico dell'area di sedime colpisce il solo
"responsabile dell’abuso", ovviamente quando questi è
al contempo proprietario, mentre quest’ultimo, ove estraneo
ai fatti, è soggetto al solo ordine di demolizione, ai sensi
del comma 1, in conformità a quanto statuito dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 345 del 1991, con la quale si
è escluso che la sanzione della perdita del lotto possa
raggiungere il proprietario incolpevole.
---------------
... per l'annullamento
dell'ordinanza 18.02.2014, n. 3/14, relativa alla demolizione
di opere edilizie eseguite in assenza di permesso di
costruire;
...
-
CONSIDERATO che la società Unicredit Leasing s.p.a. espone
di essere proprietaria di un immobile sito in Cerveteri,
concesso in locazione finanziaria, in forza di contratto di
leasing del 2010, alla società Az. s.a.s. di Da.To. & C., poi risolto per inadempimento in data 27.08.2012, e di avere ottenuto la restituzione
dell’immobile solo dal 15.03.2014;
-
CONSIDERATO che impugna, pertanto, il provvedimento del 18.02.2014 con cui il Comune di Cerveteri, nel contestare
la realizzazione di una serie di opere in assenza di idoneo
titolo abilitativo, ha ingiunto la demolizione di tali opere
con l’avvertimento che, in difetto, si sarebbe proceduto
alla acquisizione di diritto a titolo gratuito del bene e
dell’area pertinenziale, e che deduce, al riguardo, la
violazione dell’art. 31, comma 2, d.P.R. 380/2001, art. 15,
L.R. n. 15/2008, eccesso di potere sotto il profilo della
carenza di istruttoria, erroneità dei presupposti,
illogicità manifesta, carenza di motivazione, erroneità dei
presupposti;
-
CONSIDERATO che lamenta, in sostanza, l’omessa
identificazione dell’autore degli abusi contestati con
illegittimo coinvolgimento della società ricorrente,
estranea all’esecuzione degli illeciti edilizi, anche perché
priva della detenzione dell’immobile; l’illegittimità del
procedimento sanzionatorio attivato ai sensi dell’art. 31,
d.P.R. 380/2001, previsto, invece, per l’esecuzione di una
diversa tipologia di lavori in cui nessuno delle opere
elencate nel provvedimento impugnato rientrerebbe;
l’illegittimità del provvedimento nella parte in cui si
prevede l’automatica acquisizione di diritto a titolo
gratuito, senza che sia stato tenuto in conto che il
proprietario è incolpevole in quanto del tutto ignaro delle
modifiche apportate dall’utilizzatore e nonostante che si
sia attivato nei confronti del soggetto detentore con
intimazione a rimuovere gli interventi realizzati
abusivamente; in subordine, la sproporzione tra l’entità
delle difformità contestate e la pretesa di acquisizione
della proprietà dell’intero immobile nonché della relativa
area pertinenziale;
-
CONSIDERATO che, con motivi aggiunti, la parte ricorrente,
avendo conosciuto in data 06.05.2014 tutti gli atti del
procedimento da cui è emersa l’identità del soggetto autore
delle opere illecite, ha ulteriormente dedotto avverso
l’atto già impugnato, sia sotto il profilo della illegittima
individuazione della medesima quale destinataria del
provvedimento impugnato, pure essendo l’Amministrazione a
conoscenza del fatto che la medesima non si è resa autrice
delle opere da rimuovere, né è in grado di accedere
all’immobile di cui altro soggetto è detentore, sia sotto il
profilo della illegittima previsione della acquisizione
gratuita del bene per il caso di inottemperanza all’ordine
di demolizione;
-
CONSIDERATO che si è costituito in giudizio il Comune di
Cerveteri eccependo l’infondatezza dei motivi dedotti con il
ricorso introduttivo e l’inammissibilità dei motivi aggiunti
con cui non sono impugnati nuovi atti e, nel merito,
l’infondatezza degli stessi;
RILEVATO, in via pregiudiziale, che il ricorso è da
considerarsi tempestivo in quanto, ancorché appaia affidato
per la notifica solo il 61° giorno dalla data di notifica
del provvedimento impugnato, lo stesso è stato, invece,
consegnato nel termine decadenziale all’Ufficiale
giudiziario, giusta documentazione versata in atti dalla
parte ricorrente;
-
RILEVATO, sempre in via pregiudiziale, che anche i motivi
aggiunti sono da ritenersi ammissibili, siccome volti a
dedurre ulteriori profili di due delle censure (prima e
terza) già avanzate avverso l’atto impugnato con il ricorso
introduttivo a seguito dell’accesso agli atti del
procedimento che ha reso note alla parte ricorrente fatti e
atti prima non conosciuti;
-
RILEVATO che, ai sensi dell’art. 31, comma 2, d.P.R.
380/2001, prevede espressamente che, una volta accertata
l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
ne viene ingiunta la rimozione o demolizione “al
proprietario e al responsabile dell'abuso”; parallelamente,
la legge regionale del Lazio n. 15 del 2008, prevede
all’art. 15 che l’ingiunzione di demolizione è rivolta al
responsabile dell'abuso, nonché al proprietario, ove non
coincidente con il primo;
-
RITENUTO che l’obbligo di emanare le ordinanze di
demolizione di opera edilizia abusiva anche nei confronti di
chi risulti essere il proprietario, per come sancito a
livello normativo, sussiste indipendentemente dall’essere
anche responsabile delle opere abusive, essendo il
proprietario individuato dalla norma tra i soggetti che sono
comunque in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno
nella realizzazione dell'abuso, in considerazione della
natura non meramente sanzionatoria, ma ripristinatoria
dell’ordine di demolizione;
-
RITENUTO, peraltro, che nel caso in esame, il provvedimento
impugnato è illegittimo nella parte in cui dispone, altresì,
l’acquisizione gratuita delle opere e dell’area di sedime
nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione,
tenuto conto che il sopra richiamato art. 15, l.r. n.
15/2008 chiarisce che la sanzione dell’acquisizione gratuita
al patrimonio pubblico dell'area di sedime colpisce il solo
"responsabile dell’abuso", ovviamente quando questi è al
contempo proprietario, mentre quest’ultimo, ove estraneo ai
fatti, è soggetto al solo ordine di demolizione, ai sensi
del comma 1, in conformità a quanto statuito dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 345 del 1991, con la quale si
è escluso che la sanzione della perdita del lotto possa
raggiungere il proprietario incolpevole;
-
RILEVATO, con riferimento al caso che ne occupa, che il
Comune resistente non contesta che altri soggetti siano gli
autori degli abusi, essendo parte ricorrente chiamata in
causa esclusivamente in ragione del titolo proprietario;
RITENUTO, giusta quanto dedotto e depositato in atti dalla
parte ricorrente che non sussistono elementi tali da far
ritenere questa in qualche modo responsabile;
CONSIDERATO che le superiori considerazioni inducono il
Collegio a ritenere manifestamente fondata la censura
dedotta con il terzo motivo di ricorso ed il secondo motivo
dell’atto aggiunto, con assorbimento delle restanti censure,
per cui il ricorso ed i motivi aggiunti sono meritevoli di
accoglimento, con annullamento del provvedimento impugnato
nella parte in cui dispone, per il caso di inottemperanza
dell’ordine di demolizione, l’acquisizione di diritto a
titolo gratuito al patrimonio comunale del bene e dell’area
necessaria ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. 380/2001,
quantificata in mq 940 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 09.09.2014 n. 9537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Accesso a sistema informatico da parte di un soggetto
abilitato ma per finalità non istituzionali.
Integra il delitto previsto dall'art.
615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio
che, pur essendo abilitato e pur non violando le
prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema
informatico o telematico protetto per delimitarne l'accesso
(nella specie, Registro delle notizie di reato: Re.Ge.),
acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente
estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali,
soltanto, la facoltà di accesso gli è attribuita.
---------------
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni unite è
la seguente: "Se il delitto previsto dall'art. 615-ter,
secondo comma, n. 1, cod. pen., sia integrato anche nella
ipotesi in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio, formalmente autorizzato all'accesso ad un
sistema informatico o telematico, ponga in essere una
condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto
mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, pur
in assenza di violazione di specifiche disposizioni
regolamentari ed organizzative".
2. L'art. 615-ter cod. pen. sanziona, al primo comma, il
comportamento di chiunque «abusivamente si introduce in
un sistema informatico o telematico protetto da misure di
sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o
tacita di chi ha il diritto di escluderlo». Il secondo
comma prevede: «La pena è della reclusione da uno a
cinque anni: - 1) se il fatto è commesso da un pubblico
ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla
funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente
la professione di investigatore privato, o con abuso della
qualità di operatore del sistema».
L'accesso, quindi, è abusivo qualora
avvenga mediante superamento e violazione delle chiavi
fisiche ed informatiche di accesso o delle altre esplicite
disposizioni su accesso e mantenimento date dal titolare del
sistema.
3. Con la sentenza Casani le Sezioni Unite avevano
affrontato la questione se integrasse la fattispecie
criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o
telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento
nel sistema da parte di soggetto abilitato all'accesso,
perché dotato di password, ma attuata per scopi o finalità
estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli era
stata attribuita.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che la questione di diritto
controversa non dovesse essere riguardata sotto il profilo
delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene
nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto
di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della
permanenza dell'agente in esso, dovendosi verificare la
contraria volontà del titolare del sistema solo con
riferimento al risultato immediato della condotta posta in
essere, non già ai fatti successivi.
Avevano ritenuto, quindi, che rilevante dovesse considerarsi
il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel
sistema informatico da parte di un soggetto non autorizzato
ad accedervi ed a permanervi, sia quando violasse i limiti
risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal
titolare del sistema (con riferimento alla violazione delle
prescrizioni contenute in disposizioni organizzative
interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti
individuali di lavoro), sia quando ponesse in essere
operazioni di natura "ontologicamente diversa" da
quelle di cui sarebbe stato incaricato ed in relazione alle
quali l'accesso era a lui consentito, con ciò venendo meno
il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel
sistema.
4. La Sezione rimettente ha dato atto dello svilupparsi
nella giurisprudenza successiva alla sentenza Casani di
diverse posizioni, dettate dalla ritenuta necessità di
precisazioni e specificazioni, in funzione eminentemente
estensiva, della portata del principio di diritto espresso
dalla citata sentenza, tanto da considerare idonea ad
integrare la tipicità della fattispecie incriminatrice la
condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di
pubblico servizio che si traduca in un abuso o sviamento dei
poteri conferitigli.
È stato, in particolare, evidenziato il contrasto
manifestatosi con le sentenze, entrambe della Quinta
Sezione, n. 22024 del 24/04/2013, Carnevale, Rv. 255387, e
n. 44390 del 20/06/2014, Mecca, Rv. 260763, che, seppure
fondate sulla espressa adesione all'identica premessa
costituita dal decisum delle Sezioni Unite Casani,
avevano fornito risposte antitetiche circa la possibilità di
ravvisare l'abusività dell'accesso nella violazione dei
principi che presiedono allo svolgimento dell'attività
amministrativa, quali sinteticamente enunciate dall'art. 1
legge 07.08.1990, n. 241.
Secondo la prima decisione, nel caso
in cui l'agente sia un pubblico dipendente «non può non
trovare applicazione il principio di cui alla L. 07.08.1990
n. 241, art. 1, in base al quale l'attività amministrativa
persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri
di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità,
trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente
legge e dalle disposizioni che disciplinano singoli
procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento
comunitario». Di qui deriverebbe la "ontologica
incompatibilità" di un utilizzo del sistema informatico
senza il rispetto di tali principi, in quanto «fuoriuscente
dalla ratio del conferimento del relativo potere».
Con la seconda delle citate decisioni
era stata, all'opposto, esclusa la possibilità di
identificare il carattere di abusività della condotta di
accesso al sistema, o di mantenimento al suo interno, nella
violazione delle predette regole di imparzialità e
trasparenza enunciate dall'art. 1 legge. n. 241 del 1990, se
non a prezzo di frustrare la ratio della stessa norma
incriminatrice come interpretata dalle Sezioni Unite,
dilatando inammissibilmente la nozione di "accesso
abusivo" oltre i limiti imposti dalla necessità di
tutelare i diritti del titolare del sistema.
Viene, di conseguenza, sottoposta ora alle Sezioni Unite
la valutazione del non infrequente caso del
soggetto, in specie pubblico ufficiale o equiparato, che,
abilitato e senza precisazione di limiti espressi alle
possibilità di accesso e trattenimento nel sistema pubblico,
acquisisca da questo notizie e dati, in violazione dei
doveri insiti nello statuto del pubblico dipendente, nel
complesso degli obblighi e dei doveri di lealtà a lui
incombenti.
5. Ritiene il Collegio che lo spunto fornito dalla vicenda
processuale debba indurre a puntualizzare alcuni dei
passaggi della precedente decisione delle Sezioni Unite
Casani.
La vicenda oggetto del procedimento in corso contempla un
accesso con credenziali al sistema Re.Ge., nonché specifiche
letture di dati relativi a procedimento in carico a un
pubblico ministero diverso da quello presso cui l'agente
prestava servizio: accesso che, secondo le prospettazioni
del ricorso, non sarebbe stato abusivo in virtù delle
diposizioni organizzative interne del Procuratore aggiunto
della Repubblica, dettate dall'esigenza di buona
amministrazione di rendere disponibili i dati predetti per
tutte le situazioni nelle quali i diretti titolari non
potessero per un qualsiasi motivo accedervi.
La particolarità del caso e la precisa indicazione del
quesito sviluppato dalla Sezione rimettente, centrato sulle
condizioni per il ricorrere o meno dell'ipotesi aggravata
prevista dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen.,
inducono il Collegio a concentrare il proprio esame sulla
specifica previsione che descrive la condotta criminosa in
quanto posta in essere dal pubblico ufficiale o da un
incaricato di pubblico servizio.
6. In sintonia con le conclusioni della sentenza Casani, il
Collegio rileva che quella prevista dal secondo comma, n. 1,
della norma incriminatrice è qualificabile come circostanza
aggravante esclusivamente soggettiva, nel senso che descrive
la condotta punibile in quanto posta in essere da
determinati soggetti. Il pubblico ufficiale, l'incaricato di
pubblico servizio, l'investigatore privato e l'operatore del
sistema possono rispondere del reato solo in forza della
previsione del secondo comma Per tali soggetti il reato è
sempre aggravato, proprio perché la circostanza è
inscindibilmente collegata a quella qualità soggettiva ed in
tutti i casi la configurata aggravante comporta un abuso,
che ben può connotarsi delle caratteristiche dell'esecuzione
di "operazioni ontologicamente estranee" rispetto a
quelle consentite.
Invero la norma si riferisce a soggetti che accedono al
sistema e vi si trattengono abusando della propria qualità
soggettiva, che rende più agevole la realizzazione della
condotta tipica, oppure che connota l'accesso in sé quale
comportamento di speciale gravità.
Così, nel caso dell'investigatore privato, la cui attività
professionale di indagine comporta limitazioni, essendo
soggetta alla regolamentazione dell'art. 134 del TULPS ed al
possesso della licenza prefettizia, che consente di eseguire
investigazioni o ricerche o di raccogliere informazioni per
conto di privati, con divieto di operazioni che importano
una menomazione della libertà individuale, esercitando
quindi un'attività sottoposta a controllo pubblico
preventivo e successivo circa il rispetto delle attività di
indagine che, secondo le relative norme, devono essere
preventivamente pubblicizzate dai responsabili. Ugualmente,
abuso di speciale rilievo è quello dell'operatore di sistema
che, abilitato all'accesso al sistema proprio per la natura
di manutenzione ed aggiornamento del sistema a lui affidato,
oltrepassi i limiti connaturali allo svolgimento di quegli
specifici compiti.
Altro abuso qualificato, per il quale si giustifica il più
rigoroso trattamento sanzionatorio e la procedibilità di
ufficio, è quello commesso dal pubblico ufficiale e
dall'incaricato di pubblico servizio che, dotato di
credenziali di accesso al sistema in uso presso l'ufficio di
appartenenza, vi acceda o vi si trattenga in violazione dei
doveri o con abuso dei poteri inerenti alla funzione o al
servizio.
7. Nella giurisprudenza della Corte ripetuti sono gli esempi
di violazione da parte di pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio delle disposizioni del titolare del
sistema concernenti le modalità di accesso, o più
frequentemente di trattenimento e di utilizzo del sistema.
Negli specifici casi viene in evidenza l'abuso del pubblico
ufficiale in termini di violazione del dovere di rispetto
delle norme che espressamente ne disciplinano l'azione,
quali poste dai titolari del sistema.
Ad avviso del Collegio non esce dall'area di applicazione
della norma la situazione nella quale l'accesso o il
mantenimento nel sistema informatico dell'ufficio a cui è
addetto il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico
servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di
credenziali proprie dell'agente ed in assenza di ulteriori
espressi divieti in ordine all'accesso ai dati, si connoti,
tuttavia, dall'abuso delle proprie funzioni da parte
dell'agente, rappresenti cioè uno sviamento di potere, un
uso del potere in violazione dei doveri di fedeltà che ne
devono indirizzare l'azione nell'assolvimento degli
specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati.
Si è autorevolmente chiarito da parte della dottrina che «sotto
lo schema dell'eccesso di potere si raggruppano tutte le
violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità
amministrativa, che, pur non essendo consacrati in norme
positive, sono inerenti alla natura stessa del potere
esercitato».
Lo sviamento di potere è una delle tipiche
manifestazioni di un tale vizio dell'azione amministrativa e
ricorre quando l'atto non persegue un interesse pubblico, ma
un interesse diverso (di un privato, del funzionario
responsabile, ecc.). Si ha quindi "sviamento di potere"
quando nella sua attività concreta il pubblico funzionario
persegue una finalità diversa da quella che gli assegna in
astratto la legge sul procedimento amministrativo (art. 1,
legge n. 241 del 1990).
In tal senso il Collegio ritiene di dover privilegiare
l'interpretazione proposta da una delle sentenze (Sez. 5, n.
22024 del 2013, Carnevale) in cui si era concretizzato il
contrasto di giurisprudenza segnalato dalla Sezione
rimettente e, in sostanza, fatto proprio dall'ordinanza di
rimessione, laddove è stato evidenziato il principio di cui
all'art. 1 della legge n. 241 del 1990, in base al quale «l'attività
amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è
retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità,
pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla
presente legge e dalle disposizioni che disciplinano singoli
procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento
comunitario».
8. I principi di cui alla legge n. 241 del 1990 hanno
trovato progressive specificazioni nelle disposizioni
emanate in tema di organizzazione del pubblico impiego fra
le quali assume speciale rilievo la definizione legislativa
del "Codice di comportamento" dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni ad opera dell'art. 54 d.lgs.
30.03.2001, n. 165 (Testo unico sul pubblico impiego), come
sostituito dall'art. 1, comma 44, legge 06.11.2012, n. 190,
e del successivo d.P.R. 16.04.2013, n. 62, Regolamento
contenente, in attuazione del citato art. 54 del T.U. sul
pubblico impiego, il vigente Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici.
9. I principi cui si è fatto riferimento trovano la loro
genesi nelle norme di cui agli artt. 54, 97 e 98 della
Costituzione: disposizioni, queste, che chiedono l'adesione
del dipendente ai "principi dell'etica pubblica",
intesa come locuzione di sintesi dei valori propri della
deontologia dell'impiego pubblico, al fine di porre il
funzionario nella condizione di servire gli amministrati
imparzialmente e con «disciplina ed onore».
La violazione dei doveri d'ufficio,
attraverso le varie tipologie di condotta idonee a produrre
uno sviamento della prestazione lavorativa dai canoni
segnati dalla legislazione di attuazione dei principi di
fedeltà ed esclusività del servizio, è stata ripetutamente
oggetto della giurisprudenza penale, amministrativa e
contabile, che ha posto al centro la prossimità teleologica
tra i quei principi, considerati nelle sentenze come
espressivi di valori cardine del pubblico impiego,
proiezioni del legame tra funzionario e pubblica
amministrazione, e tra questa e la comunità degli
amministrati.
Si è ritenuto (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, dep.
2012, Rv. 251498) che «ai fini della
configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il
requisito della violazione di legge non solo quando la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche
quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione
di un interesse collidente con quello per il quale il potere
è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge
poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema
normativo che ne legittima l'attribuzione».
10. Con particolare riferimento all'oggetto specifico della
presente decisione vengono in evidenza le norme che regolano
la gestione e l'utilizzo dei registri informatizzati
dell'amministrazione della giustizia, e, fra questi, il
programma Re.Ge. (Registro delle notizie dì reato mod. 21),
diffuso negli uffici giudiziari, con le conseguenti
problematiche di tenuta e sicurezza dei dati.
Il programma Re.Ge., operativo presso ogni Procura della
Repubblica, prevede, fino al provvedimento di chiusura
dell'indagine preliminare, la sua diretta gestione dalla
segreteria del pubblico ministero, cui spetta l'esecuzione
dell'iscrizione, disposta dal magistrato ai sensi dell'art.
335 cod. proc. pen., di ogni notizia di reato pervenuta o
acquisita di iniziativa «nonché, contestualmente o dal
momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il
reato stesso è attribuito» e dei successivi
aggiornamenti, oltre al rilascio delle certificazioni sulle
iscrizioni.
Queste, non essendo di libera fruibilità per il pubblico,
sono circondate dalle limitazioni previste sia dal citato
art. 335 (commi 3 e 3-bis) sia dall'art. 110-bis disp. att.
cod. proc. pen., secondo il quale: «Quando vi è richiesta
di comunicazione delle iscrizioni contenute nel registro
delle notizie di reato a norma dell'articolo 335, comma 3,
del codice, la segreteria della procura della Repubblica, se
la risposta è positiva, e non sussistono gli impedimenti a
rispondere di cui all'articolo 335, commi 3 e 3-bis del
codice, fornisce le informazioni richieste precedute dalla
formula: "Risultano le seguenti iscrizioni suscettibili di
comunicazione". In caso contrario, risponde con la formula:
"Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione"».
L'importanza e la delicatezza dell'insieme di iscrizioni nel
Re.Ge., delle relative certificazioni e dell'inserimento dei
riferimenti ad atti di indagine per ciascun procedimento
giustificano la necessità che il sistema informatico, in
quanto registro di cancelleria, sia posto sotto il diretto
controllo del procuratore della Repubblica, capo
dell'ufficio, nella qualità di responsabile del trattamento
e sicurezza dei dati, ai sensi del d.lgs. 30.06.2003, n.
196, e di titolare del potere di opporre, se del caso, il
segreto investigativo, negando l'accesso ad atti, anche in
sede di ispezione o inchiesta dell'Ispettorato Generale del
Ministero della giustizia.
11. In ogni caso, l'amministratore dei servizi informatici (ADSI)
garantisce che il capo dell'ufficio giudiziario, o un suo
delegato, possa accedere alla infrastruttura logistica
condivisa per verificare il rispetto degli standard di
sicurezza e della normativa sulla tenuta informatizzata dei
registri.
Nella materia della tenuta dei registri informatizzati è
intervenuto, in sostituzione del d.m. 24.05.2001, il d.m.
27.04.2009, il quale prevede l'organizzazione centrale e
periferica del sistema informatico del Ministero della
giustizia, in particolare la D.G.S.I.A. con a capo il
Responsabile S.I.A., le strutture interdistrettuali,
distrettuali e locali.
All'art. 8 dell'allegato è previsto che venga definita e
gestita dal Responsabile S.I.A., con aggiornamenti
periodici, la individuazione delle procedure di
autenticazione, consistente in generale nella conoscenza di
una coppia di informazioni (username e password) per
l'accesso, così che ogni utente ottiene, tramite la
procedura di autorizzazione, uno specifico insieme di
privilegi di accesso ed utilizzo, denominato "profilo di
autorizzazione", rispetto alle risorse del sistema
informatico. Ogni profilo viene definito in modo tale da
assegnare a ciascun utente solo ed esclusivamente i
privilegi strettamente necessari per l'espletamento delle
attività di propria competenza.
Sono poi stabilite, all'art. 10, le procedure di controllo
sulle attività relative all'utilizzo e alla gestione del
sistema informatico, sottoposte ad un processo continuo di
controllo e verifica a garanzia della autenticità e della
integrità dei dati, prevedendosi, come misura minima di
monitoraggio, la registrazione di tutti gli accessi, anche
di carattere tecnico, ivi compresi quelli non riusciti o
falliti, e di tutte le operazioni effettuate sui dati.
Controllo che, in virtù del d.lgs. 25.07.2006, n. 240, come
modificato con legge 22.02.2010, n. 24, compete anche al
magistrato capo dell'ufficio giudiziario, per il quale
l'art. 1-bis prevede il dovere di assicurare la tempestiva
adozione dei programmi per l'informatizzazione predisposti
dal Ministero della giustizia per l'organizzazione dei
servizi giudiziari, in modo da garantire l'uniformità delle
procedure di gestione nonché le attività di monitoraggio e
di verifica della qualità e dell'efficienza del servizio.
Il capo dell'ufficio giudiziario è, in definitiva, il
responsabile della concreta gestione e del controllo
dell'utilizzo dei registri informatizzati secondo i
programmi concretamente messi a disposizione dal Ministero
della giustizia, che, con le sue strutture, ne garantisce la
gestione specificamente tecnica di accesso, controllo e
aggiornamento.
12. Le disposizioni normative, di vario livello, sopra
esaminate delineano lo status della persona dotata di
funzioni pubbliche, il cui agire deve essere indirizzato
alle finalità istituzionali in vista delle quali il rapporto
funzionale è instaurato: doveri a cui sono correlati i
necessari poteri e l'utilizzo di pubbliche risorse,
traducendosi in abuso della funzione, nell'eccesso e nello
sviamento di potere la condotta che si ponga in contrasto
con le predette finalità istituzionali.
Condizioni e doveri che, se connotano in primo luogo la
figura del pubblico ufficiale, sia o meno legato
all'amministrazione da rapporto organico, ma dotato di
poteri autoritativi, deliberativi o certificativi,
considerati anche disgiuntamente tra loro,
contraddistinguono anche quella dell'incaricato di pubblico
servizio, la cui figura è connessa allo svolgimento di un
servizio di pubblica utilità presso soggetti pubblici.
E tanto vale anche in riferimento alla gestione dei registri
di cancelleria. Ai pubblici dipendenti che,
nella loro qualità, debbono operare su registri
informatizzati è imposta l'osservanza sia delle diposizioni
di accesso, secondo i diversi profili per ciascuno di essi
configurati, sia delle disposizioni del capo dell'ufficio
sulla gestione dei registri, sia il rispetto del dovere loro
imposto dallo statuto personale di eseguire sui sistemi
attività che siano in diretta connessione con l'assolvimento
della propria funzione. Con la conseguente illiceità ed
abusività di qualsiasi comportamento che con tale obiettivo
si ponga in contrasto, manifestandosi in tal modo la "ontologica
incompatibilità" dell'accesso al sistema informatico,
connaturata ad un utilizzo dello stesso estraneo alla
ratio del conferimento del relativo potere.
Per converso, il pubblico dipendente,
addetto a mansioni d'ordine, cui non possano attribuirsi le
qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico
servizio, che violi le disposizioni del titolare del sistema
ed abbia accesso al medesimo al di fuori delle sue mansioni,
commette in ogni caso, a prescindere dalle finalità
perseguite, il reato di cui al primo comma dell'art. 615-ter
cod. pen.
13. Conclusivamente, a fronte del quesito proposto dalla
Sezione rimettente, può essere formulato il seguente
principio di diritto: "Integra il
delitto previsto dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1,
cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo
abilitato e pur non violando le prescrizioni formali
impartite dal titolare di un sistema informatico o
telematico protetto per delimitarne l'accesso (nella specie,
Registro delle notizie di reato: Re. Ge.), acceda o si
mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e
comunque diverse rispetto a quelle per le quali, soltanto,
la facoltà di accesso gli è attribuita"
(Corte di Cassazione, Sezz. unite penali,
sentenza 08.09.2017 n. 41210). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune può ordinare la demolizione di un’opera abusiva
anche a distanza di molti anni?
L’ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun
termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a
notevole intervallo temporale dall’abuso edilizio.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 06.09.2017 n. 4243 , ha fornito alcune
interessanti precisazioni in tema di abusi edilizi e termini
per l’emissione dell’ordinanza di demolizione (art. 31,
D.P.R. n. 380 del 2001).
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, un soggetto, nel
1966, aveva realizzato una veranda sul proprio terrazzo e
aveva provveduto anche ad accatastarla.
Alla morte di tale soggetto, gli eredi avevano proceduto
alla divisione dell’asse ereditario e l’appartamento del
defunto era stato assegnato alla figlia.
Successivamente, su segnalazione dei vicini di casa, era
intervenuta la Polizia Municipale, la quale aveva accertato
al sussistenza di un abuso edilizio, in quanto la veranda
risultava essere stata coperta con dei vetri.
La figlia, attuale proprietaria dell’appartamento, aveva
rilasciato ai Vigili una dichiarazione, nella quale spiegava
che il suddetto abuso edilizio risaliva ancora al 1966 ed
era stato realizzato dal padre, all’epoca ancora in vita.
Il Comune, tuttavia, aveva ordinato alla proprietaria
dell’appartamento in questione di rimuovere le opere
abusivamente realizzate.
La donna, dunque, decideva di impugnare davanti al TAR tale
provvedimento, evidenziando come il Comune avesse
erroneamente ritenuto che fosse lei la responsabile
dell’abuso, senza tener presente che la veranda era stata
realizzata dal defunto padre.
Secondo la ricorrente, inoltre, il diritto del Comune di
ordinare la demolizione si sarebbe prescritto, essendo
trascorsi ben 44 anni dalla costruzione del manufatto.
La ricorrente rilevava, infine, che la demolizione
dell’opera avrebbe comportato un grave ed irreparabile
pregiudizio per il figlio, che abitava l’appartamento in
questione assieme alla propria famiglia, in quanto tale
demolizione avrebbe sconvolto “in maniera irreversibile,
l’assetto attuale della casa” ed avrebbe inciso “pesantemente
sulle abitudini di vita dell’intero nucleo famigliare”.
Il TAR, pronunciatosi in primo grado, riteneva che fosse del
tutto irrilevante il tempo trascorso dalla costruzione del
manufatto e i danni che ne sarebbero potuti derivare al
figlio, precisando che “per costante giurisprudenza (…)
l’attività di repressione degli abusi edilizi non
costituisce attività discrezionale, ma del tutto vincolata
che non abbisogna di particolare motivazione, essendo
sufficiente fare riferimento all’accertata abusività delle
opere che si ingiunge di demolire”.
Di conseguenza, secondo il TAR, “l’ordinanza di
demolizione, quale provvedimento repressivo, non è
assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è
adottabile anche a notevole intervallo temporale dall’abuso
edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla
ricognizione dei suoi presupposti”.
Ritenendo la decisione ingiusta, la proprietaria
dell’appartamento in questione decideva di rivolgersi al
Consiglio di Stato, nella speranza che questo riformasse la
sentenza a lei sfavorevole.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, riteneva di dover
confermare quanto evidenziato dal TAR in primo grado,
ribadendo che l’attività sanzionatoria della Pubblica
Amministrazione ha carattere vincolato e non discrezionale e
che, pertanto, “l’ordine di demolizione di opere abusive
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione”.
Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato
rigettava l’impugnazione proposta dalla proprietaria
dell’appartamento, confermando integralmente la sentenza
resa in primo grado dal TAR (commento tratto da
www.brocardi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deruralizzazione di un'area agricola: necessario il permesso
di costruire.
L’area destinata al deposito di inerti è
stata previamente livellata e ricoperta di “mista”, ossia da
ghiaia, ciottoli e sabbia.
Si tratta, quindi, di opere che hanno determinato la
deruralizzazione del terreno agricolo, per destinarlo allo
svolgimento dell’attività produttiva e, come tali,
comportanti una trasformazione che, pur in assenza di opere
edilizie, assume rilevanza dal punto di vista urbanistico,
in ossequio ai principi costantemente affermati dalla
giurisprudenza.
L’intervento è, perciò, ascrivibile alla fattispecie di cui
all’articolo 3, comma 1, lett. e.7), del d.P.R. n. 380 del
2001 e, conseguentemente, assoggettato al previo rilascio
del permesso di costruire, come –del resto– già affermato
dalla Sezione proprio con riferimento a un caso analogo di
realizzazione di un deposito di materiali inerti in area
agricola.
---------------
9.2 Quanto, poi, alla ritenuta compatibilità delle opere con
la destinazione dell’area, è da rilevare anzitutto, in punto
di fatto, che –secondo quanto allegato dalla difesa
comunale, che ha rinviato al materiale fotografico
depositato in atti– l’area destinata al deposito di inerti è
stata previamente livellata e ricoperta di “mista”,
ossia da ghiaia, ciottoli e sabbia.
La circostanza, non
specificamente contestata dalla parte ricorrente, è da
ritenersi provata, anche ai sensi dell’articolo 64, comma 2,
cod. proc. amm..
Si tratta, quindi, di opere che hanno determinato la
deruralizzazione del terreno agricolo, per destinarlo allo
svolgimento dell’attività produttiva e, come tali,
comportanti una trasformazione che, pur in assenza di opere
edilizie, assume rilevanza dal punto di vista urbanistico,
in ossequio ai principi costantemente affermati dalla
giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
23.07.2012, n. 4204).
L’intervento è, perciò, ascrivibile alla fattispecie di cui
all’articolo 3, comma 1, lett. e.7), del d.P.R. n. 380 del
2001 e, conseguentemente, assoggettato al previo rilascio
del permesso di costruire, come –del resto– già affermato
dalla Sezione proprio con riferimento a un caso analogo di
realizzazione di un deposito di materiali inerti in area
agricola (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 29.01.2014, n.
303; cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 27.08.2014, n. 4342).
Anche sotto questo profilo, le doglianze delle ricorrenti
vanno dunque rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.09.2017 n. 1789 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso non è assoluto e incondizionato, ma
subisce alcuni temperamenti. Segnatamente, tale rimedio non
si sostanzia in un’azione popolare e neppure può tradursi in
un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione
amministrativa, ma deve essere strumentale alla tutela di un
interesse personale di chi lo richiede.
La posizione legittimante, anche se non deve assumere
necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o
dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente
tutelata non potendo identificarsi con il generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento
dell’attività amministrativa.
---------------
Nel caso di specie, si tratta di una richiesta massiva di
atti, di cui non è plausibilmente dimostrata l’idoneità a
spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti
dell’istante, la quale si limita ad affermare genericamente
che l’ottenimento di tale documentazione avrebbe permesso
una ricostruzione più precisa delle circostanze di fatto,
consentendole di meglio tutelare i propri diritti avanti
alle competenti sedi.
Se deve escludersi che la titolarità del diritto d’accesso
risieda soltanto in una situazione funzionale all’esercizio
di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di
tutela giurisdizionale, la richiesta di accesso deve pur
tuttavia sempre basarsi su un interesse percepibile concreto
ed attuale.
---------------
L’onere di specificazione dei documenti per i quali si
esercita il diritto di accesso non comporta la formale
indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può
ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello
scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere
l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed
il contenuto della domanda.
---------------
9.1.– Occorre ricordare che il diritto di accesso non è
assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti.
Segnatamente, tale rimedio non si sostanzia in un’azione
popolare e neppure può tradursi in un controllo
generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa,
ma deve essere strumentale alla tutela di un interesse
personale di chi lo richiede.
La posizione legittimante,
anche se non deve assumere necessariamente la consistenza
del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve
essere però giuridicamente tutelata non potendo
identificarsi con il generico ed indistinto interesse di
ogni cittadino al buon andamento dell’attività
amministrativa.
Nel caso di specie, si tratta di una richiesta massiva di
atti, di cui non è plausibilmente dimostrata l’idoneità a
spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti
dell’istante, la quale si limita ad affermare genericamente
che l’ottenimento di tale documentazione avrebbe permesso
una ricostruzione più precisa delle circostanze di fatto,
consentendole di meglio tutelare i propri diritti avanti
alle competenti sedi.
Se deve escludersi che la titolarità
del diritto d’accesso risieda soltanto in una situazione
funzionale all’esercizio di un interesse giuridicamente
protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale, la
richiesta di accesso deve pur tuttavia sempre basarsi su un
interesse percepibile concreto ed attuale.
10.– La sentenza del TAR deve invece essere riformata nella
parte in cui ha rigettato anche le domande di accesso di cui
ai punti 1, 2, 3 e 4 dell’istanza presentata il 21.01.2016, aventi ad oggetto:
- tutti gli atti, i documenti e le
dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella
comunicazione di avvio di procedimento disciplinare e
contestazione di addebito prot. 1647/C1-RIS.30 del
11/02/2015;
- tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni
depositate agli atti richiamati nella comunicazione di
chiusura di procedimento disciplinare prot. 4165/C1.-RIS95
del 10/04/2015;
- tutti gli atti, i documenti e le
dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella
comunicazione di avvio di procedimento disciplinare -
contestazione di addebito Prot. n. 4221/C1-RIS.97 del
11/04/2015;
- tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni
depositate agli atti richiamati nella comunicazione di
chiusura procedimento disciplinare Prot. n. 6665/C1-RIS 140
del 08/06/2015, compresa nota Prot. 3618/C1-RIS 84.
10.1.– Tali richieste ostensive si riferiscono a documenti
adeguatamente individuati in relazione al procedimento cui
afferiscono. L’onere di specificazione dei documenti per i
quali si esercita il diritto di accesso non comporta infatti
la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi,
ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e
dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere
l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed
il contenuto della domanda.
10.2.– L’interesse dell’appellante all’accesso non è
meramente esplorativo in quanto si tratta della
documentazione posta a base del primo e secondo procedimento
disciplinare instaurato nei confronti dell’appellante (la
signora PO. è stata sanzionata una prima volta per la
mancata pubblicazione entro il termine perentorio del
31.01.2015 dell’apposito file XML contenente i riferimenti
dei contratti conclusi dall’Istituto nel corso
dell’esercizio finanziario 2014, ai fini del controllo
dell’Autorità Anticorruzione; una seconda volta per
ingiustificato abbandono del servizio in orario di lavoro).
Nella richiesta del 21.01.2016, viene enunciato
espressamente il dichiarato fine di «poter tutelare i propri
interessi e diritti avanti le competenti sedi».
10.3.– Il diniego formulato dall’Amministrazione scolastica
era quindi in parte qua illegittimo.
11.‒ In definitiva, l’appello deve essere accolto in parte
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.08.2017 n. 4074 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
legittimità
dell’ordinanza del Sindaco con la quale è stato disposto
l’allontanamento di gatti e di un cane, nonché un intervento
di sanificazione di casa adibita a civile abitazione e parti
comuni.
L’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000
attribuisce al sindaco, quale ufficiale del Governo, il
potere di adottare “con atto motivato provvedimenti, anche
contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali
dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi
pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana”.
Tale potere è riconosciuto sulla base di presupposti ben
individuati dalla giurisprudenza: necessità di intervenire
in determinate materie quali la sanità e l’igiene; attualità
o imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da
rimuovere con urgenza; preventivo accertamento da parte di
organi competenti della situazione di pericolo e di danno;
la mancanza di strumenti alternativi previsti
dall’ordinamento, stante il carattere extra ordinem del
potere sindacale.
Inoltre il giudice amministrativo, con riferimento ad una
fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto legittima
l’ordinanza contingibile e urgente adottata per ragioni
igienico-sanitarie, ai sensi dell’art. 38 della legge n.
142/1990 (oggi sostituito dall’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000), al fine di provvedere allo
spostamento di animali (nella specie cani) tenuti presso la
residenza del proprietario in altro luogo idoneo.
---------------
Secondo la giurisprudenza, il provvedimento amministrativo
può ritenersi sufficientemente motivato se la motivazione
risulta espressa per relationem, ossia facendo riferimento
ad atti del procedimento, non essendo neppure necessario che
tali siano allegati al provvedimento essendo sufficiente che
esso possa essere acquisito con i mezzi previsti dalla
legge.
Né giova alla ricorrente dedurre che nella motivazione
dell’impugnata ordinanza non viene indicata la norma
violata, perché le ordinanze contingibili ed urgenti non
sono provvedimenti sanzionatori, essendo finalizzate a
prevenire ed eliminare “gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza del Sindaco del Comune
di Volano n. 66/2016 in data 19.12.2016, prot. 7008,
notificata in pari data, con la quale è stato disposto
l’allontanamento di gatti e di un cane, nonché un intervento
di sanificazione di casa adibita a civile abitazione e parti
comuni, e di qualsiasi altro atto presupposto connesso o
conseguente;
...
1. Il Collegio ritiene che la decisone assunta nella sede
cautelare vada confermata alla luce delle seguenti
considerazioni.
2. Innanzi tutto giova rammentare che l’art. 54, comma 4,
del decreto legislativo n. 267/2000 attribuisce al sindaco,
quale ufficiale del Governo, il potere di adottare “con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Tale potere è
riconosciuto sulla base di presupposti ben individuati dalla
giurisprudenza: necessità di intervenire in determinate
materie quali la sanità e l’igiene; attualità o imminenza di
un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza;
preventivo accertamento da parte di organi competenti della
situazione di pericolo e di danno; la mancanza di strumenti
alternativi previsti dall’ordinamento, stante il carattere
extra ordinem del potere sindacale.
Inoltre il giudice
amministrativo (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2005, n. 16477), con riferimento ad una fattispecie analoga
a quella in esame, ha ritenuto legittima l’ordinanza contingibile e urgente adottata per ragioni
igienico-sanitarie, ai sensi dell’art. 38 della legge n.
142/1990 (oggi sostituito dall’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000), al fine di provvedere allo
spostamento di animali (nella specie cani) tenuti presso la
residenza del proprietario in altro luogo idoneo.
3. Tenuto conto di quanto precede, il primo ed il quarto
motivo, suscettibili di esame congiunto, non possono essere
accolti.
Innanzi tutto, sebbene l’impugnata ordinanza
effettivamente non contenga un espresso riferimento alla
disposizione dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo
n. 267/2000, tuttavia il Collegio ritiene che -conseguendo
l’adozione di tale provvedimento sindacale al verbale di
sopralluogo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari
in data 15.06.2016 ed alla successiva relazione di
sopralluogo del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in
data 30.11.2016, ove sono stati inequivocabilmente
evidenziati lo stato di degrado dell’immobile di cui è parte
l’unità abitativa di proprietà della ricorrente, nonché il
conseguente pericolo la sanità e l’igiene pubblica- il
provvedimento stesso vada senz’altro qualificato come
un’ordinanza contingibile e urgente e, quindi, nessun
rilievo possa assumere il mancato richiamo dei presupposti
normativi in base ai quali è stato adottato.
Giova poi
rammentare che, secondo la giurisprudenza (ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.03.2017, n. 1299), il
provvedimento amministrativo può ritenersi sufficientemente
motivato se la motivazione risulta espressa per relationem,
ossia facendo riferimento ad atti del procedimento, non
essendo neppure necessario che tali siano allegati al
provvedimento essendo sufficiente che esso possa essere
acquisito con i mezzi previsti dalla legge. Pertanto la
ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che non siano
stati resi disponibili il verbale di sopralluogo
dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari in data 15.06.2016 e la successiva relazione di sopralluogo del
Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in data 30.11.2016, perché tali atti sono stati prodotti in giudizio dal
Comune di Volano unitamente ai verbali del Corpo di Polizia
Locale Alta Vallagarina in data 02.05.2016, 07.05.2016
e 09.05.2016.
Né giova alla ricorrente dedurre che nella
motivazione dell’impugnata ordinanza non viene indicata la
norma violata, perché le ordinanze contingibili ed urgenti
non sono provvedimenti sanzionatori, essendo finalizzate a
prevenire ed eliminare “gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Quanto poi
alle ulteriori carenze motivazionali evidenziate dalla
ricorrente, consistenti nella mancata specificazione degli
animali presenti nell’edificio e nella mancata allegazione
di elementi di valutazione in ordine al pregiudizio per la
salute pubblica, è sufficiente leggere i suddetti verbali ed
esaminare la documentazione fotografica agli stessi allegata
per verificare che il pericolo per la salute delle persone
che abitano l’edificio in questione è stato determinato
dalla mancata cura degli animali che la ricorrente detiene
presso la propria abitazione (particolarmente eloquenti
appaiono le descrizioni dello stato dei luoghi contenute nei
predetti verbali e le fotografie che documentano la presenza
di escrementi di animali nelle parti comuni dell’edificio).
4. Analoghe considerazioni valgono per le ulteriori censure
incentrate sul difetto di istruttoria. A tal riguardo non
può sottacersi la contraddittorietà delle affermazioni della
ricorrente in quanto la stessa, dapprima ammette che
«all’interno dell’immobile, costituito da più appartamenti,
sono effettivamente presenti degli animali domestici che
peraltro non sono di proprietà della ricorrente» (pag. 5) e
subito dopo sostiene che i suoi animali «sono ben curati,
nutriti e tenuti in stato di benessere» (pag. 6), come
sarebbe provato dalla documentazione medica allegata al
ricorso.
Ciò posto comunque non giova alla ricorrente
lamentare che non è stato effettuato alcun sopralluogo
all’interno della sua abitazione, che i luoghi ritenuti
insalubri non costituiscono una proprietà esclusiva, essendo
parti comuni dell’edificio e che, in definitiva, non sono
provate né l’esistenza di una situazione di pericolo, né che
tale situazione sia causata dagli animali presenti
all’interno della sua abitazione.
Difatti -premesso che la
ricorrente non ha indicato quali sarebbero gli altri animali
presenti nell’edificio- è sufficiente osservare che:
A) i
verbali di sopralluogo costituiscono atti pubblici, sicché
fanno piena prova fino a querela di falso di quanto negli
stessi attestato dai pubblici ufficiali che hanno eseguito i
sopralluoghi;
B) come già evidenziato, i suddetti verbali di
sopralluogo e la documentazione fotografica agli stessi
allegata comprovano una palese situazione di pericolo per la
salute di tutti coloro che abitano all’interno
dell’edificio;
C) sebbene dal verbale di sopralluogo
dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari in data 15.06.2016 effettivamente si evinca che non è stato
possibile accedere all’abitazione della ricorrente, tuttavia
dal verbale del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in
data 09.05.2016 si desume inequivocabilmente che la
situazione di pericolo è causata dagli animali presenti
all’interno dell’abitazione di proprietà della ricorrente.
In definitiva -tenuto conto dell’istruttoria svolta
dall’Amministrazione e del fatto che, come evidenziato dal
Comune nelle sue difese, l’adozione dell’impugnata ordinanza
è stata preceduta da tentativi di sensibilizzazione, che non
hanno però trovato alcun riscontro neppure parziale da parte
della ricorrente, che «evidentemente rivendica il diritto di
poter trattenere presso la propria abitazione degli animali
trascurando il fatto che tale presenza se non è accompagnata
dall’adozione di minime operazioni di igienizzazione può
provocare situazioni di vero e proprio pericolo per la
salubrità»- risulta palese l’interesse pubblico
all’allontanamento degli animali in questione.
Del resto, a
fronte delle inequivocabili risultanze dell’istruttoria,
nessun rilievo assume la circostanza che il regolamento del
Comune di Volano per la detenzione e la circolazione di
animali non preveda alcun limite numerico alla detenzione di
animali, anche perché la stessa ricorrente evidenzia che
tale regolamento impone ai proprietari di garantire il
benessere degli animali.
5. Risultano poi palesemente infondate le censure dedotte
con il terzo motivo, incentrate sulla violazione delle
disposizioni di cui all’art. 1 della legge quadro in materia
di animali di affezione e prevenzione del randagismo (legge
n. 281/1991) e all’art. 13 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea e della Convenzione europea per la
protezione degli animali da compagnia. Difatti il Collegio
ritiene che anche lasciar vivere animali da compagnia in
precarie condizioni igienico-sanitarie configuri una forma
di maltrattamenti e, quindi, che sia la condotta della
ricorrente -e non il provvedimento impugnato- a porsi in
contrasto con le predette disposizioni.
6. Infine, quanto all’asserita violazione delle norme sul
procedimento amministrativo, il Collegio osserva che la
ricorrente non ha replicato alle difese svolte
dall’Amministrazione, ove è stato evidenziato che è stata
trasmessa, a mezzo raccomandata, la nota del 04.10.2016
recante la comunicazione di avvio del procedimento
finalizzato all’emissione di una «ordinanza di
allontanamento dall’immobile ... della colonia felina e del
cane e di prescrizione di un intervento di sanificazione»,
ma la raccomandata non è stata ritirata dalla ricorrente ed
è stata, quindi, restituita al Comune per compiuta giacenza.
Inoltre, assume rilevanza decisiva la circostanza che
l’Amministrazione abbia ampiamente dimostrato in giudizio
come la partecipazione della ricorrente al procedimento non
avrebbe comunque potuto incidere sul contenuto del
provvedimento finale, stante l’acclarata esigenza di
«intervenire sia al fine di tutelare l’igiene e la sanità
pubblica, che le condizioni degli animali detenuti dalla
signora Al.To.».
Ne consegue -alla luce della
disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, seconda parte,
della legge n. 241/1990, secondo la quale “Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”- la ricorrente non ha motivo di dolersi
del fatto che non sarebbe stata posta in condizione di
partecipare al procedimento.
7. In definitiva il ricorso deve essere respinto perché
infondato
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 16.08.2017 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E’ dovere di chi conferisce ad altri soggetti i propri
rifiuti per il recupero o lo smaltimento accertarsi che
questi siano autorizzati allo svolgimento di tali
operazioni. Si tratta di una regola di cautela
imprenditoriale, la cui inosservanza è idonea a determinare
in capo al soggetto conferente la responsabilità per il
reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro
che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo
abilitativo.
Colui che conferisce i propri rifiuti a
soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere
di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati
allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che
l'inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è
idonea a configurare la responsabilità per il reato di
illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li
hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo.
Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità
del produttore dei rifiuti che aveva fatto colpevole
affidamento sulle sole rassicurazioni verbali del
trasportatore di avere regolare autorizzazione allo
svolgimento dell'attività.
---------------
1. Con sentenza in data 04.04.2016, il Tribunale di
Alessandria ha assolto Ku.Ol. dal reato ascrittogli -art.
110 e 256 lett. a), d.Lgs. 152/2006, perché in qualità di
titolare della carrozzeria aveva effettuato attività di
smaltimento e trasporto di rifiuti ferrosi (paraurti,
elettrodomestici, cofani), senza essere in possesso di
idonea autorizzazione, abbandonandoli all'aperto in località
"Regione Fornace/Rosso" del Comune di Strevi, in
Strevi accertato il 17.03.2013- per particolare tenuità del
fatto.
...
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente ha omesso di considerare che
l'imputazione ascrittagli è in concorso con altro soggetto
non indicato nel capo d'imputazione ma che, si intuisce
dalla motivazione, essere certamente il Pa. che ha definito
la sua posizione con il decreto penale di condanna.
Quindi corretta è la qualificazione penale del reato
contestato, giacché dall'istruttoria dibattimentale, è
emerso che il ricorrente aveva "regalato" due
paraurti di plastica al Pa., il che equivale ad averli
conferiti a soggetti terzi, che li aveva smaltiti
abusivamente. Il Giudice ha accertato che l'imputato aveva
dei registri di carico e scarico e che i due paraurti non
risultavano registrati.
Come correttamente rilevato nella sentenza impugnata è
pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui colui
che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il
recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che
questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento
delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di
tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a
configurare la responsabilità per il reato di illecita
gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno
ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo;
fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità
del produttore dei rifiuti che aveva fatto colpevole
affidamento sulle sole rassicurazioni verbali del
trasportatore di avere regolare autorizzazione allo
svolgimento dell'attività (Cass., n. 29727/2013, Rv 255876) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.08.2017 n. 38981). |
EDILIZIA PRIVATA: Data
la natura giuridica della segnalazione certificata di inizio
attività -che non è istanza di parte per l'avvio di un
procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita,
ma è dichiarazione di volontà privata di intraprendere una
determinata attività ammessa direttamente dalla legge- è da
escludersi che l'autorità procedente debba comunicare al
segnalante l'avvio del procedimento o il preavviso di
rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 prima
dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori.
---------------
Il ricorso è infondato e, in quanto tale, va respinto.
Con il primo motivo di ricorso sono state dedotte le
seguenti censure:
I violazione di legge, violazione e falsa applicazione
dell’art. 7 della legge n. 241/1990, omessa comunicazione
avvio del procedimento. Parte ricorrente lamenta che non le
sarebbe stata inviata la comunicazione di avvio del
procedimento relativamente al provvedimento oggetto di
impugnazione.
Il motivo è infondato.
Ed invero, data la natura giuridica della segnalazione
certificata di inizio attività -che non è istanza di parte
per l'avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi
in forma tacita, ma è dichiarazione di volontà privata di
intraprendere una determinata attività ammessa direttamente
dalla legge- è da escludersi che l'autorità procedente debba
comunicare al segnalante l'avvio del procedimento o il
preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990
prima dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e
inibitori (cfr. TAR Catanzaro (Calabria), sez. II,
05.03.2015, n. 478, Consiglio di Stato, sez. IV, 19.06.2014,
n. 3112, 14.04.2014, n. 1800 e 25.01.2013, n. 489)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento eseguito concerne edifici esistenti che all’attualità sono
destinati alla conservazione, valorizzazione e
trasformazione di prodotti agricoli e, quindi, aventi
destinazione sostanzialmente agricola/produttiva;
l’intervento comporta, quindi, come rappresentato dall’ente
locale resistente, il cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante dell’intervento da
agricolo/produttivo a commerciale, ai sensi dell’art. 23-ter
del D.P.R. n. 380/2001.
Considerato che, nel caso di specie, l’intervento per cui è
causa si sostanzia in una modifica di destinazione d'uso,
peraltro anche mediante opere, esso necessita del preventivo
rilascio del permesso di costruire.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che la destinazione di un
immobile non si identifica con l'uso che ne fa in concreto
il soggetto che lo utilizza (mutamento d'uso di fatto), ma
con quella impressa dal titolo abilitativo, assumendo una
connotazione oggettiva che vale ad individuare in modo
inconfutabile ed evidente un determinato bene.
In altri termini, si afferma che la destinazione d’uso
giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella
prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere
urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il
rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia
stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di
mero fatto. Tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo,
è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di
situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica
dell’immobile.
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l'abuso
eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi
commerciali una parte di un immobile con destinazione
industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso
una destinazione formale diversa da quella risultante
cartolarmente.
---------------
Con ulteriori quattro motivi di ricorso, che si
ritiene di poter affrontare unitariamente, sono state
dedotte le seguenti censure:
II Violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell'art.
23-ter del D.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere per totale
erroneità di valutazione dei presupposti di fatto, per
travisamento, per motivazione illogica e contraddittoria,
per sviamento e per falsità dei presupposti.
Ad avviso di parte ricorrente non occorrerebbe il piano
attuativo in quanto non si tratterebbe di una nuova
edificazione ma di una ristrutturazione; inoltre,
diversamente da quanto rappresentato nel provvedimento
impugnato, l’intervento non si sostanzierebbe in un cambio
di destinazione d’uso in quanto l’attività rientrerebbe
nelle attività commerciali previste dal PRG per la zona G
(commerciale) ovvero attrezzature mercantili al dettaglio
pubblico o privato e alla grande distribuzione e, pertanto,
all’interno della stessa categoria funzionale “commerciale”.
III Eccesso di potere per sviamento, per falsità dei presupposti,
per totale erroneità di valutazione dei presupposti di
fatto, per travisamento, per motivazione illogica e
contraddittoria, omessa valutazione. Parte ricorrente
lamenta che il Comune di Santa Maria Capua Vetere non
avrebbe valutato che con l’intervento richiesto il carico
urbanistico verrebbe ridotto in quanto la volumetria
esistente verrebbe decrementata con l’abbattimento del
fabbricato e l’ampliamento dell’area destinata a parcheggio.
IV Erronea applicazione dell'art. 24 delle NTA del Comune di Santa
Maria Capua Vetere, eccesso di potere per totale erroneità
di valutazione dei presupposti di fatto, per travisamento,
per motivazione illogica e contraddittoria, omessa
valutazione, per sviamento per falsità dei presupposti.
Parte ricorrente contesta la necessità del piano urbanistico
esecutivo. Lamenta che non avrebbe richiesto una
autorizzazione ad edificare su una superficie di 11.000 mq,
non urbanizzata e fuori dal tessuto urbano, ma la
ristrutturazione di un immobile di sua proprietà già
ricadente in zona commerciale e pertanto già autorizzato,
assentito e nel quale sarebbe stata svolta l'attività di
vendita per circa cinquant’anni. Trattandosi, quindi, di
ristrutturazione l’intervento richiesto non necessiterebbe
del piano attuativo.
V Violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell’art. 6,
comma 2, e dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001,
eccesso di potere per totale erroneità di valutazione dei
presupposti di fatto, per travisamento, per motivazione
illogica e contraddittoria, omessa valutazione, per
sviamento, per falsità dei presupposti. Ad avviso di parte
ricorrente l’intervento edilizio diretto sarebbe consentito
in quanto la situazione di fatto sarebbe perfettamente
corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano
esecutivo; in particolare il piano attuativo non sarebbe
necessario in quanto l’area sarebbe già totalmente
urbanizzata.
I motivi sono infondati.
Occorre premettere che l’amministrazione comunale resistente
ha rappresentato nel provvedimento impugnato che “In data
11.05.2016 l’Ufficio ha concluso l’istruttoria della SCIA in
parola riscontrando quanto segue:
- “L’intervento proposto concerne vari corpi di fabbrica
costituenti il Consorzio Agrario Provinciale Caserta,
incluso nell’ambito della Zona G (commerciale) “dove è
consentita una edificazione con densità edilizia fondiaria
totale 1,5 mc/mq ed una altezza massima di 10 m e riservata
esclusivamente per costruzioni adibite ad attrezzature
mercantili al dettaglio pubblico o privato e alla grande
distribuzione, autorizzabili anche con singola concessione
per una superficie inferiore a 8.000 mq. Per una superficie
maggiore, invece, è obbligatorio il preventivo piano
urbanistico esecutivo (P.P.E. o P.L.)”;
- Considerato che l’intervento consiste nel cambio di destinazione
d’uso di edifici già esistenti destinate alla conservazione,
valorizzazione trasformazione di prodotti agricoli e che
dunque urbanisticamente rilevante in quanto richiede diversi
standards urbanistici”.
- Considerato che l’area di intervento si articola su di una
superficie pari a circa 11.000 mq., dunque maggiore di 8000
mq;”
ed ha “RITENUTO quindi necessario il preventivo piano
urbanistico esecutivo (P.P.E. o P.L.);”.
Dall’esame del provvedimento impugnato emerge che
l’intervento concerne vari corpi di fabbrica costituenti il
Consorzio Agrario Provinciale Caserta, circostanza questa
non contestata da Su.An.Ge.Im. s.r.l. e
peraltro risultante anche dal certificato di destinazione
urbanistica prodotta in atti dalla stessa parte ricorrente.
L’intervento, secondo quanto rappresentato nel provvedimento
impugnato, concerne edifici esistenti che all’attualità sono
destinati alla conservazione, valorizzazione e
trasformazione di prodotti agricoli e, quindi, aventi
destinazione sostanzialmente agricola/produttiva;
l’intervento comporta, quindi, come rappresentato dall’ente
locale resistente, il cambio di destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante dell’intervento da
agricolo/produttivo a commerciale, ai sensi dell’art. 23-ter
del D.P.R. n. 380/2001.
Ed invero la predetta disposizione normativa espressamente
prevede che “costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa, da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.”.
Considerato che, nel caso di specie, l’intervento per cui è
causa si sostanzia in una modifica di destinazione d'uso,
peraltro anche mediante opere, esso necessita del preventivo
rilascio del permesso di costruire (TAR Napoli, Sez. VIII,
19.01.2016, n. 246, Sez. VIII, 31.03.2014, n. 1881, Sez. VII,
22.02.2012, n. 885, Cass. Pen. Sez. III, 28.01.2015, n.
3953).
Al riguardo, a fronte del contestato cambio di destinazione,
la società ricorrente si è limitata ad affermare
apoditticamente nel ricorso che l’attività svolta nei
fabbricati oggetto di intervento era commerciale ma non ha
provato tale circostanza, come era suo onere, trattandosi di
prova rientrante nella sua piena disponibilità, ai sensi
dell’art. 64 c.p.a.. Né elementi utili che avvalorino la
prospettazione di parte ricorrente possono trarsi dalla
relazione di consulenza tecnica, depositata in giudizio.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che la
destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che
ne fa in concreto il soggetto che lo utilizza (mutamento
d'uso di fatto), ma con quella impressa dal titolo
abilitativo, assumendo una connotazione oggettiva che vale
ad individuare in modo inconfutabile ed evidente un
determinato bene.
In altri termini, si afferma che la destinazione d’uso
giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella
prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere
urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il
rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia
stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di
mero fatto. Tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo,
è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di
situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica
dell’immobile (cfr. Consiglio di Stato, sez. 26.03.2013, n.
1712).
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l'abuso
eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi
commerciali una parte di un immobile con destinazione
industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso
una destinazione formale diversa da quella risultante
cartolarmente (cfr. Consiglio Stato sez. V 11.06.2003 n.
3295)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La giurisprudenza ha riconosciuto l’ampio potere
discrezionale del Comune, nell'esercizio della propria
potestà di pianificazione del territorio, relativamente alla
previsione della necessità del piano attuativo, anche nelle
aree urbanizzate.
Al riguardo occorre preliminarmente rilevare che la
giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha individuato situazioni in
presenza delle quali il permesso di costruire può essere
legittimamente rilasciato anche in assenza del piano
attuativo richiesto dallo strumento urbanistico
sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente
sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur
trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una
situazione di fatto corrispondente a quella derivante
dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo
strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere
di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards
urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli
strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano
attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di
fatto in quanto occorre verificare le concrete
caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità
o ultroneità della predisposizione di uno strumento
urbanistico attuativo.
---------------
Occorre altresì richiamare il consolidato orientamento del
Consiglio di Stato in base al quale lo strumento attuativo
può riguardare anche zone urbanizzate che sono comunque
esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici
e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
L'esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il
rilascio della concessione edilizia, s’impone, infatti,
anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia, e perciò anche in caso di lotto intercluso o
di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
In particolare, la necessità di un piano attuativo può
rendersi indispensabile nelle ipotesi in cui, per effetto di
una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad un
situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire
efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi quando debba
essere completato il sistema di viabilità secondaria nella
zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione
esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l'armonico collegamento con le zone contigue già asservite
all'edificazione.
---------------
Quanto alla necessità del preventivo piano urbanistico
esecutivo, occorre rilevare che nella stessa relazione di
consulenza tecnica è rappresentato che il complesso
immobiliare insiste su un’area di circa 11.000 mq e,
pertanto, su un’area maggiore di 8.000 mq, limite previsto
dalle NTA del Comune di Santa Maria Capua Vetere ai fini del
rilascio del permesso di costruire diretto. Deve ritenersi
che, pertanto, legittimamente il suddetto Comune abbia
ritenuto necessario il preventivo piano urbanistico
esecutivo previsto dalla normativa urbanistica comunale,
peraltro riportata nel certificato di destinazione
urbanistica prodotto da parte ricorrente.
Ciò in disparte la questione, non rilevante a tali fini,
della qualificazione dell’intervento per cui è causa, tenuto
conto, peraltro, che, alla luce del ritenuto mutamento di
destinazione d’uso, l’intervento edilizio non può
sicuramente qualificarsi quale intervento di manutenzione
straordinaria, come rappresentato nella suddetta relazione
di consulenza tecnica di parte (cfr. Cass. Pen. Sez. III,
28.01.2015, n. 3953 cit.); né il Collegio ha elementi
sufficienti al fine di inquadrare l’intervento stesso tra
quelli di ristrutturazione edilizia, come prospettato nel
ricorso, o di nuova costruzione, non avendo parte ricorrente
prodotto la scia ed il relativo progetto da essa presentato.
Ed invero la giurisprudenza ha riconosciuto l’ampio potere
discrezionale del Comune, nell'esercizio della propria
potestà di pianificazione del territorio, relativamente alla
previsione della necessità del piano attuativo, anche nelle
aree urbanizzate. Né parte ricorrente ha impugnato, neppure
in questa sede, la disposizione normativa comunale che
prevede la necessità del suddetto piano.
Al riguardo occorre preliminarmente rilevare che la
giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997
del 27.09.2016, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e
sez. V, n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in
presenza delle quali il permesso di costruire può essere
legittimamente rilasciato anche in assenza del piano
attuativo richiesto dallo strumento urbanistico
sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente
sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur
trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una
situazione di fatto corrispondente a quella derivante
dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo
strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere
di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards
urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli
strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano
attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di
fatto (Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del
27.09.2016 cit.) in quanto occorre verificare le concrete
caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità
o ultroneità della predisposizione di uno strumento
urbanistico attuativo (TAR Campania, Napoli, sez VIII,
03.09.2010, n. 17298).
Tuttavia, se è pur vero quanto sopra, occorre tuttavia
evidenziare che nella fattispecie oggetto di gravame parte
ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente la
totale urbanizzazione dell’area oggetto di intervento mentre
nella relazione di consulenza tecnica di parte il tecnico
incaricato si è limitata ad indicare che la zona è
completamente urbanizzata in quanto “servita da luce,
gas, fognature, e servizi comunali”, ma non ha indicato
in modo puntuale le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria presenti nell’area oggetto dell’intervento per
cui è causa in modo da provare la superfluità dello
strumento attuativo richiesto dalla normativa comunale.
Peraltro occorre altresì richiamare il consolidato
orientamento del Consiglio di Stato in base al quale lo
strumento attuativo può riguardare anche zone urbanizzate
che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei
valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e
compensare il disordine edificativo in atto.
L'esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il
rilascio della concessione edilizia, s’impone, infatti,
anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia, e perciò anche in caso di lotto intercluso o
di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
(Consiglio di Stato n. 1177 del 2012).
In particolare, la necessità di un piano attuativo può
rendersi indispensabile nelle ipotesi in cui, per effetto di
una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad un
situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire
efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi quando debba
essere completato il sistema di viabilità secondaria nella
zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione
esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l'armonico collegamento con le zone contigue già asservite
all'edificazione (TAR Roma, (Lazio), sez. II, 04.01.2016, n.
25 e la giurisprudenza ivi richiamata, TAR Napoli,
(Campania), sez. II, 23.02.2016, n. 965).
Alla luce di quanto sopra esposto devono, pertanto,
ritenersi infondati il secondo terzo, quarto e quinto motivo
di ricorso.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve
essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ciò posto in ordine all’accesso civico in senso proprio, che
ex art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 33/2013 ha riguardo ai
soli dati, documenti e informazioni “soggetti a
pubblicazione obbligatoria” e soccorre solo nel caso della
omessa pubblicazione on-line di essi, nessun diniego tacito
dell’Ente Locale è ravvisabile in relazione all’istanza di
accesso civico libero, generalizzato o aperto presentata ai sensi dell’art. 5, comma 2,
del medesimo D.Lgs. n. 33/2013 e relativa a dati e
documenti per i quali non sussiste l’obbligo di
pubblicazione.
----------------
Ritiene il Tribunale che il Comune abbia correttamente
assolto agli obblighi di pubblicità, trasparenza e
ostensione documentale sullo stesso gravante, atteso che:
- anche l’accesso civico, pur segnando il passaggio dal bisogno di
conoscere al diritto di conoscere (from need to right to
know, nella definizione inglese F.O.I.A), come ogni altra
posizione giuridica attiva, non può essere esercitata dal
suo titolare con finalità emulative o con modalità distorte
e abusive;
- possono formare oggetto della richiesta di accesso civico solo i
documenti e i dati già in possesso della P.A., che non è
tenuta a raccogliere informazioni che non siano in suo
possesso né a rielaborare le informazioni che detiene, per
rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato;
- il Comune, che ha trasmesso all’istante la relazione conclusiva,
rendicontazione e richiesta liquidazione saldo contributo
per la manifestazione di cui trattasi, non era tenuto a
fornire al ricorrente anche i singoli documenti
giustificativi (cd. pezze giustificative) delle entrate e
delle uscite relative alla rendicontazione dell’AVIS per il
semplice e decisivo motivo che essi non sono stati
specificamente richiesti nell’istanza di accesso civico del
15.01.2017 sulla quale l’Ente Civico è stato chiamato a
pronunciarsi (il cittadino non può integrare in giudizio
l’istanza di accesso civico e chiedere per la prima volta al
G.A. di condannare il Comune a ostendere documenti, dati o
informazioni mai richiesti in precedenza alla P.A.: arg. ex
art. 34, comma 2, c.p.a.): nessun diniego tacito può,
dunque, dirsi formato sul punto.
---------------
Con il ricorso all’esame il Sig. D’Ag. sostiene
che il Comune ha assolto solo parzialmente agli obblighi
sullo stesso gravanti e impugna il prospettato (parziale)
diniego tacito, invocando la corretta osservanza delle norme
in tema di pubblicità, trasparenza e accesso civico.
Si è costituito in giudizio il Comune di Dolo, premettendo
che il D’Ag. è persona nota alle amministrazioni locali
e agli organi di stampa per la solerzia e lo scrupolo con
cui è solito presentare plurime e meticolose istanze di
accesso civico volte a conoscere, in ogni dettaglio, le
modalità di allocazione delle risorse pubbliche in relazione
alle più disparate iniziative o manifestazioni.
Ciò posto, l’Ente Civico censura l’uso eccessivo e distorto,
talvolta esasperato, dell’accesso civico fatto dal
D’Ag., rimarcando come l’esercizio distorto di tale
istituto rischi di compromettere il buon andamento
dell’amministrazione locale, chiamata ad evadere continue
richieste di accesso civico, sino quasi a paralizzarne
l’attività; nel merito contrasta analiticamente le avverse
pretese e chiede il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio in epigrafe indicata la causa è
stata trattenuta in decisione.
Il ricorso non merita accoglimento.
Risulta dagli atti che l’Ente Civico ha correttamente
adempiuto agli obblighi di pubblicità sullo stesso gravanti
ex art. 23 del D.Lgs. 33/2013, come modificato del D.Lgs.
97/2016, pubblicando nella sottosezione “Provvedimenti
organi indirizzo politico” della Sezione Amministrazione
trasparente del sito istituzionale del Comune di Dolo, il
verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 314 del
22.11.2016 e i relativi pareri di regolarità contabile e
tecnica.
Dal verbale di deliberazione della Giunta Comunale n.
314/2016, pubblicato sul sito istituzionale del Comune, si
evincono tutti i dati rilevanti dell’iniziativa e in
particolare:
- l’oggetto del provvedimento (“indirizzi in merito alla
manifestazione “I DOLO VE CHRISTMAS” in programma a Dolo nei
mesi di novembre/dicembre e al relativo contributo”);
- il beneficiario (“AVIS Riviera del Brenta di Dolo”),
l’importo del contributo erogato (“€ 13.500,00”);
- il motivo dell’erogazione della predetta somma
(“realizzazione della manifestazione”);
- l’indicazione della normativa vigente in
materia di contributi delle P.A..
Il Comune non era tenuto a pubblicare sul proprio sito
istituzionale documenti o dati ulteriori (e in particolare
la proposta di collaborazione dell’AVIS, quale atto
richiamato dalla Delibera n. 314/2016: proposta che,
peraltro, è stata messa a disposizione del ricorrente
unitamente a tutta la documentazione dallo stesso richiesta
con l’istanza del 15.01.2017) rispetto a quelli sopra
indicati, considerato che l’art. 22 del D.Lgs. n. 97/2016
ha abrogato la previsione, originariamente contenuta
nell’art. 23 del D.Lgs. n. 33/2013, che imponeva alla P.A.
di pubblicare, oltre al provvedimento finale, anche i
principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al
procedimento.
Ciò posto in ordine all’accesso civico in senso proprio, che
ex art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 33/2013 ha riguardo ai
soli dati, documenti e informazioni “soggetti a
pubblicazione obbligatoria” e soccorre solo nel caso della
omessa pubblicazione on-line di essi, nessun diniego tacito
dell’Ente Locale è ravvisabile in relazione all’istanza di
accesso civico libero, generalizzato o aperto presentata dal
Dr. D’Ag. il 15.01.2017 ai sensi dell’art. 5, comma 2,
del medesimo D.Lgs. n. 33/2013 e relativa a dati e
documenti per i quali non sussiste l’obbligo di
pubblicazione.
Tale istanza è stata correttamente evasa dal Comune, con
nota Prot. n. 3991 datata 14.02.2017, con cui il
Responsabile della Trasparenza ha trasmesso via mail al
ricorrente i seguenti documenti e dati informativi:
- “proposta del Presidente dell’AVIS Riviera del Brenta,
Giuseppe Polo, datata 22.11.2016, protocollata al n.
31366/7.6 in data 22.11.2016;
- relazione conclusiva, rendicontazione e richiesta
liquidazione saldo contributo per manifestazione “I DOLO VE
Christmas 2016” dell’AVIS Riviera del Brenta, pervenuta al
Comune in data 31.01.2017 e protocollata al n. 2644/2017, con
in allegato il prospetto rendicontazione al 30.1.2017, in
cui sono indicate le liberalità raccolte destinate alla
ricostruzione terremoto Centro Italia, pari ad € 3.440,00;
- copia del dettaglio del bonifico effettuato dall’AVIS
Riviera del Brenta a favore dell’AVIS Provinciale di Ascoli
Piceno, con causale “raccolta fondi serata del 01.12.2016-
Fuori dalla macerie”, di € 3.440,00;
- copia del bollettino postale relativo al versamento in
favore di ABACO della somma di € 192,00 per le pubbliche
affissioni;
- copia della nota datata 13.02.2017 del Responsabile del
Settore Tributi del Comune di Dolo, Dr. Ro.Vo., il
quale evidenzia che il provvedimento in relazione
all’occupazione del suolo pubblico per la manifestazione
natalizia non è stato emesso, in quanto l’evento è stato
organizzato dal Comune di Dolo in collaborazione con AVIS
Riviera del Brenta in forza della delibera di Giunta
Comunale n. 314 del 22.11.2016;
- copia della nota datata 13.02.2017 del Responsabile del
Settore Urbanistica ed Edilizia privata, Arch. Ri.To., nella quale è indicata la normativa statale e i
regolamenti comunali di riferimento, relativi
all’autorizzazione all’installazione di striscioni
pubblicitari lungo le strade”.
Alla luce delle suesposte considerazioni, ritiene il
Tribunale che il Comune di Dolo abbia correttamente assolto
agli obblighi di pubblicità, trasparenza e ostensione
documentale sullo stesso gravante, atteso che:
- anche l’accesso civico, pur segnando il passaggio dal
bisogno di conoscere al diritto di conoscere (from need to
right to know, nella definizione inglese F.O.I.A), come ogni
altra posizione giuridica attiva, non può essere esercitata
dal suo titolare con finalità emulative o con modalità
distorte e abusive;
- nel caso di specie tutti i dati e le informazioni
rilevanti della manifestazione natalizia in possesso del
Comune sono stati pubblicati sul sito istituzionale
dell’Ente e/o comunicati personalmente al ricorrente;
- possono formare oggetto della richiesta di accesso civico
solo i documenti e i dati già in possesso della P.A., che
non è tenuta a raccogliere informazioni che non siano in suo
possesso né a rielaborare le informazioni che detiene, per
rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato (il
Comune non era pertanto tenuto a richiedere all’Associazione
Commercianti dati e notizie in merito ai fondi raccolti, di
propria iniziativa, dai commercianti e a comunicarli al
ricorrente);
- il Comune, che ha trasmesso all’istante la relazione
conclusiva, rendicontazione e richiesta liquidazione saldo
contributo per la manifestazione di cui trattasi, non era
tenuto a fornire al ricorrente anche i singoli documenti
giustificativi (cd. pezze giustificative) delle entrate e
delle uscite relative alla rendicontazione dell’AVIS per il
semplice e decisivo motivo che essi non sono stati
specificamente richiesti nell’istanza di accesso civico del
15.01.2017 sulla quale l’Ente Civico è stato chiamato a
pronunciarsi (il cittadino non può integrare in giudizio
l’istanza di accesso civico e chiedere per la prima volta al
G.A. di condannare il Comune a ostendere documenti, dati o
informazioni mai richiesti in precedenza alla P.A.: arg. ex
art. 34, comma 2, c.p.a.): nessun diniego tacito può,
dunque, dirsi formato sul punto.
Per quanto sin qui esposto il ricorso in materia di accesso
civico proposto dal Signor D’Ag. deve essere respinto,
con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 29.06.2017 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pur dopo la scadenza del termine procedimentale,
e anche in casi di c.d. silenzio rigetto, l'Amministrazione
non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio
rigetto esplicitamente previsto solo per consentire
all'interessato di adire il giudice; in particolare, la
ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U.
dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce
all'Amministrazione di pronunciarsi tardivamente.
---------------
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente deduce ulteriormente
la violazione dell’art. 36, ultimo comma, del d.P.R. n.
380/2001 ove prevede che “sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”.
In ossequio alla disposizione richiamata, afferma parte
ricorrente, sull’Amministrazione che intenda concedere la
sanatoria richiesta dopo lo spirare del citato termine e la
conseguente formazione implicita del rigetto, graverebbe
l’onere di agire in via preventiva in autotutela annullando
il silenzio formatosi.
La doglianza è infondata.
Sul punto la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare
che “pur dopo la scadenza del termine procedimentale, e
anche in casi di c.d. silenzio rigetto, l'Amministrazione
non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio
rigetto esplicitamente previsto solo per consentire
all'interessato di adire il giudice; in particolare, la
ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U.
dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce
all'Amministrazione di pronunciarsi tardivamente (cfr. sent. nn. 713/2013 del
04/03/2013 e 1055/2013 del 12/04/2013)” TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 11.07.2013, n. 2059)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 04.04.2017 n. 127 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che “i vicini
controinteressati rispetto al rilascio della concessione
edilizia non sono annoverabili tra i soggetti destinatari,
ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, della
comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di
un titolo edilizio (anche in sanatoria) poiché l'invocata
estensione ad essi della predetta comunicazione
comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i
principi di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa.
Secondo un orientamento "anche qualora si tratti di soggetti
in precedenza oppostisi all'attività edilizia del
proprietario confinante".
---------------
Con il terzo
motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione
dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento teso al rilascio della
concessione in sanatoria.
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che “i vicini controinteressati rispetto al rilascio della concessione
edilizia non sono annoverabili tra i soggetti destinatari,
ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, della
comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di
un titolo edilizio (anche in sanatoria) poiché l'invocata
estensione ad essi della predetta comunicazione
comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i
principi di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa (Consiglio Stato, sez. IV, 31.07.2009, n.
4847; TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 14.10.2010, n. 194; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918; TAR Campania Salerno, sez. II, 16.12.2009, n. 7921), secondo un orientamento "anche qualora si
tratti di soggetti in precedenza oppostisi all'attività
edilizia del proprietario confinante" (così TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918)” (TAR Puglia,
Bari, Sez. III, 13.01.2012, n. 187)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 04.04.2017 n. 127 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
Come chiarito dalla giurisprudenza, l'art.
192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la
competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative (criterio
specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto
dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
---------------
Come è noto, nella disciplina comunitaria in materia di
ambiente costituisce un principio cardine il principio “chi
inquina paga” (cfr. art. 191, comma 2, del Trattato) e
l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel declinare
tale principio, reca innanzitutto il divieto ad abbandonare
i rifiuti, disponendo che alla loro rimozione, recupero e
smaltimento sono tenuti l’autore dell’abbandono e i titolari
di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai
quali l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Alla luce di tale quadro normativo, l’ordinanza impugnata
risulta illegittima:
- nella parte in cui dispone la rimozione dei rifiuti a carico del
fallimento della Società Op. Srl, perché questa non è
l’autrice dell’abbandono;
- nella parte in cui pone a carico di Hy.Al.Ad.Ba. Spa
l’obbligo di rimozione, perché è da escludere, tenuto conto
delle circostanze concrete, che quest’ultima abbia concorso
a titolo di dolo o colpa, per una condotta omissiva o per
culpa in vigilando, all’abbandono dei rifiuti;
- nella parte in cui pone l’obbligo di rimozione al fallimento
della Società Qu. perché, ferma restando la
responsabilità della Società nell’abbandono dei rifiuti,
nessun addebito può essere mosso al fallimento.
---------------
La
giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del curatore
fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio
in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza
dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del
medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di
comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che
abbiano dato luogo al fatto antigiuridico, perché altrimenti gli effetti
economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a
carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente
estranei, fino a prova contraria, alla condotta
dell’abbandono dei rifiuti.
Da quanto esposto, nel contesto fattuale così delineato, e
applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, discende che il Comune è tenuto a
procedere all'esecuzione d'ufficio, recuperando le somme
anticipate mediante insinuazione del relativo credito nel
passivo fallimentare del fallimento della Società
Qu. Srl, mentre nessuna pretesa può essere vantata
nei confronti del fallimento della Società Op. Srl, in
quanto quest’ultima Società, come sopra precisato, non è
responsabile dell’abbandono dei rifiuti, e nessuna pretesa
può essere vantata neppure nei confronti di Hy.Al.Ad.Ba. Spa, proprietaria dell’immobile, alla quale l’abbandono
dei rifiuti non può essere addebitato a titolo di dolo o
colpa.
Per completezza va tuttavia sottolineato che, qualora dallo
svolgimento delle indagini ambientali dovesse essere
accertata la necessità di bonificare l’area a causa del
superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione,
Hy.Al.Ad.Ba. Spa potrà essere chiamata a rispondere
degli oneri di bonifica nei limiti del valore dell’immobile,
in ragione dell’onere reale gravante sul sito ai sensi
dell’art. 253 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
---------------
I ricorsi, di cui va disposta la riunione in quanto
soggettivamente ed oggettivamente connessi, sono fondati e
devono essere accolti.
In primo luogo sono fondate le censure di incompetenza del
responsabile del servizio ecologia ad adottare l’ordine di
rimozione dei rifiuti abbandonati.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 25.08.2008, n.
4061; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 26.01.2011,
n. 61) anche di questo Tribunale (cfr. Tar Veneto, Sez. III,
20.10.2009, n. 2623; id. 14.01.2009, n. 40) l'art.
192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la
competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative (criterio
specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto
dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
Tale rilievo comporta pertanto di per sé l’annullamento
dell’ordinanza impugnata, fermo restando che la questione
andrà rimessa al Sindaco, che è l’organo individuato come
competente dalla norma ad adottare le ordinanze di rimozione
dei rifiuti.
Nel caso di specie, atteso che si è di fronte ad un vizio di
incompetenza di tipo infrasoggettivo, che è quello che si
verifica nell'ambito dello stesso ente, poiché
l'Amministrazione è evocata in giudizio nella sua unitarietà
indipendentemente dallo specifico riferimento soggettivo
all'organo che ha emanato l'atto impugnato, non vi è
pericolo che una pronuncia di merito sugli altri motivi di
ricorso possa, in violazione del principio del
contraddittorio, dettare regole di condotta nei confronti di
soggetti rimasti estranei al giudizio, e pertanto il
rilevato vizio di incompetenza non assume carattere
assorbente delle ulteriori censure (cfr. Tar Veneto, Sez.
III, 28.04.2008, n. 1136; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2001, n. 398) e possono pertanto essere esaminati gli
ulteriori motivi di ricorso al fine di orientare la
successiva attività dell'Amministrazione (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. V, 30.08.2004, n. 5654).
Come è noto nella disciplina comunitaria in materia di
ambiente costituisce un principio cardine il principio “chi
inquina paga” (cfr. art. 191, comma 2, del Trattato) e
l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel declinare
tale principio, reca innanzitutto il divieto ad abbandonare
i rifiuti, disponendo che alla loro rimozione, recupero e
smaltimento sono tenuti l’autore dell’abbandono e i titolari
di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai
quali l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Alla luce di tale quadro normativo, l’ordinanza impugnata
risulta illegittima:
- nella parte in cui dispone la rimozione dei rifiuti a carico del
fallimento della Società Op. Srl, perché questa non è
l’autrice dell’abbandono;
- nella parte in cui pone a carico di Hy.Al.Ad.Ba. Spa
l’obbligo di rimozione, perché è da escludere, tenuto conto
delle circostanze concrete, che quest’ultima abbia concorso
a titolo di dolo o colpa, per una condotta omissiva o per
culpa in vigilando, all’abbandono dei rifiuti;
- nella parte in cui pone l’obbligo di rimozione al fallimento
della Società Qu. perché, ferma restando la
responsabilità della Società nell’abbandono dei rifiuti,
nessun addebito può essere mosso al fallimento.
Più in dettaglio, per quanto riguarda il ricorso r.g. 1512
del 2011 proposto dal fallimento Op. Srl, va accolto il
secondo motivo, con il quale si lamenta la mancata
considerazione che il periodo nel corso del quale tale
Società ha avuto la disponibilità dell’immobile è talmente
breve da escludere che i rifiuti possano essere stati
prodotti ed abbandonati dalla stessa, e pertanto nessun
addebito può esserle mosso.
Infatti è la stessa ordinanza impugnata ad affermare che “la
Società Op. Srl, sulla base del contratto d’affitto di
ramo d’azienda e su quanto sopra specificato, non può aver
prodotto le quantità di rifiuti riportate nella perizia di
stima visto il breve periodo intercorso dalla data di
stipula del contratto di affitto (14.11.2008) e la data di
risoluzione del contratto stesso (30.01.2009)” e nella
motivazione reca anche l’indicazione che il curatore del
fallimento della Società Op. Srl, con nota del 06.12.2010 ha precisato che la predetta Società, in forza del
contrato di affitto del ramo d’azienda, come ricordato
stipulato il 14.11.2008, ha poi cessato effettivamente
l’attività a fine novembre 2008, ben prima della stessa data
di risoluzione del contratto.
La circostanza che il contratto di affitto prevedesse
l’obbligo della Società Op. Srl di smaltire i rifiuti non
può rilevare nel senso di attribuire a questa la
responsabilità nella rimozione dei rifiuti, ai sensi e per
gli effetti di cui all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n.
152, perché questo è un obbligo contrattuale intervenuto tra
le parti interessate, che non produce effetti nei confronti
di terzi, e che quindi può al limite rilevare, nei rapporti
tra le curatele fallimentari, come inadempimento
dell’obbligazione pattiziamente assunta.
Per quanto riguarda il ricorso r.g. 1512 del 2011 è fondato
il primo motivo, con il quale si lamenta l’illegittimità del
provvedimento impugnato per aver posto gli oneri conseguenti
all’abbandono dei rifiuti a carico della Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa.
Dalla documentazione versata in atti risulta infatti che la
Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa ha acquistato l’immobile su
incarico della Società Qu. Srl, che lo ha scelto,
al solo scopo di concederlo alla stessa in locazione
finanziaria, e pertanto nell’esercizio dell’attività
creditizia dato che il contratto assolve solamente lo scopo
di soddisfare i bisogni finanziari dell’utilizzatore, e Hy.Al.Ad.Ba. Spa non ha mai avuto la detenzione
dell’immobile, in quanto questo è stato consegnato dal
venditore direttamente all’utilizzatore del contratto di
leasing.
Risulta inoltre che i rifiuti presenti nell’immobile non
sono estranei all’esercizio dell’attività imprenditoriale
che vi si svolgeva, di realizzazione di componenti di
mobili, atteso che i rifiuti sono costituiti da vernici
scadute, polveri di essicazione, acetone di distillazione,
necessari alla laccatura degli elementi scomposti dei
mobili, ed inoltre, dalla concatenazione degli eventi -la
Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa ha risolto il contratto di
leasing per il mancato pagamento dei canoni, ha ottenuto la
dichiarazione di fallimento della Società Qu. Spa,
ed ha appreso dalla curatela fallimentare dell’esistenza di
materiali qualificabili come rifiuti- si desume che la
Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa non ha avuto conoscenza
diretta della presenza di materiali qualificabili come
rifiuto (e tali solo in quanto non più commerciabili).
Ritiene pertanto il Collegio che il Comune non abbia assolto
all’onere, sullo stesso incombente, al fine di poter
legittimamente emettere l’ordine di rimozione a carico del
proprietario dell’immobile Hy.Al.Ad.Ba. Spa, di
provare che l’abbandono dei rifiuti sia addebitabile ad un
suo comportamento doloso o colposo, anche solamente omissivo
consistente in culpa in vigilando, tenuto conto della
condotta concretamente esigibile nel caso di specie, e tali
conclusioni non possono fondatamente essere contrastate
citando l’esistenza di una clausola, contenuta nel contratto
di leasing, secondo cui il proprietario dell’immobile si
sarebbe riservato la facoltà di svolgere accertamenti e
controlli, perché una tale previsione di per sé nulla prova
circa una effettiva responsabilità nell’abbandono dei
rifiuti.
Per quanto riguarda il ricorso r.g. 1153 del 2011 proposto
dal fallimento della Società Qu. Srl, poiché
l’abbandono dei rifiuti è addebitabile all’attività di
impresa svolta dalla predetta Società prima del fallimento,
e non al fallimento, è fondato e deve essere accolto il
terzo motivo.
Infatti l’impresa non è stata ammessa all’esercizio
provvisorio, l’immobile non era neppure nella materiale
detenzione del fallimento perché nella disponibilità della
Società Op. Srl, e il curatore ha appreso dell’esistenza
di materiali qualificabili come rifiuti solo a seguito del
sopralluogo svolto con il curatore del fallimento della
Società Op. Srl.
Sotto tale profilo va rilevato che la giurisprudenza, da cui
il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, ha chiarito
che nei confronti del curatore fallimentare non è
configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine
all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento
univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo,
conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti
commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato
luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19.03.2010, n. 700; Tar Campania, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II,
09.09.2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25.01.2005,
n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10.05.2005, n.
1159; Tar Lazio, Latina, 12.03.2005, n. 304; Consiglio di
Stato, Sez. V, 29.07.2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II,
01.08.2001, n. 1318), perché altrimenti gli effetti
economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a
carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente
estranei, fino a prova contraria, alla condotta
dell’abbandono dei rifiuti.
Da quanto esposto, nel contesto fattuale così delineato, e
applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, discende che il Comune è tenuto a
procedere all'esecuzione d'ufficio, recuperando le somme
anticipate mediante insinuazione del relativo credito nel
passivo fallimentare del fallimento della Società
Qu. Srl, mentre nessuna pretesa può essere vantata
nei confronti del fallimento della Società Op. Srl, in
quanto quest’ultima Società, come sopra precisato, non è
responsabile dell’abbandono dei rifiuti, e nessuna pretesa
può essere vantata neppure nei confronti di Hy.Al.Ad.Ba. Spa, proprietaria dell’immobile, alla quale l’abbandono
dei rifiuti non può essere addebitato a titolo di dolo o
colpa.
Per completezza va tuttavia sottolineato che, qualora dallo
svolgimento delle indagini ambientali dovesse essere
accertata la necessità di bonificare l’area a causa del
superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione,
Hy.Al.Ad.Ba. Spa potrà essere chiamata a rispondere
degli oneri di bonifica nei limiti del valore dell’immobile,
in ragione dell’onere reale gravante sul sito ai sensi
dell’art. 253 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
I ricorsi indicati in epigrafe vanno pertanto accolti nel
senso sopra precisato, e deve ritenersi assorbita ogni
ulteriore censura non espressamente esaminata (TAR Veneto,
Sez. III,
sentenza 19.11.2012 n. 1398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La scadenza del termine apposto
all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la conclusione dei
lavori, riferendosi soltanto alle modalità cronologiche di
esercizio di una facoltà del destinatario, non determina,
automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento,
ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento
eventuale della decadenza dall'autorizzazione edilizia.
Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale che il
collegio ritiene di condividere, la decadenza della
concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel
termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere
esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero
decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o
proroga connessi a "factum principis", forza maggiore o
cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i
suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo,
deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione.
---------------
Il collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui il sequestro penale di immobili oggetto di un
provvedimento di assenso all’edificazione, costituendo
"factum principis", determina la sospensione dei termini di
validità del provvedimento medesimo. Di conseguenza, ai fini
della dichiarazione di decadenza del provvedimento per
mancata ultimazione dei lavori nel termine in esso previsto,
non deve essere computato il periodo di tempo in cui è
rimasto di fatto efficace il sequestro giudiziario.
Più specificamente, l'istituto giuridico della decadenza
dalla concessione edilizia, per mancato completamento dei
lavori entro il termine assegnato, assume sì carattere
esclusivamente oggettivo, giacché si fonda sul mero decorso
del tempo previsto, ma va fatta eccezione per i casi di
sospensione o proroga connessi a “factum principis”, forza
maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla
legge, non riferibili alla condotta del titolare della
concessione e assolutamente ostative dei lavori , le quali
producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo
massimo stabilito per l'esecuzione delle opere.
Non può condividersi la tesi dell’amministrazione, che
sostiene che la proroga avrebbe necessariamente dovuto
essere richiesta dalla ricorrente prima della scadenza del
termine in parola, giacché nel caso in cui l’amministrazione
sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare
della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa
non può adottare un provvedimento di decadenza della
concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta
del concessionario, la proroga del termine per la
ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del
concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori
durante la loro esecuzione.
---------------
Il ricorso è fondato.
La scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia
per l'avvio e la conclusione dei lavori, riferendosi
soltanto alle modalità cronologiche di esercizio di una
facoltà del destinatario, non determina, automaticamente, la
cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce
soltanto il presupposto per l'accertamento eventuale della
decadenza dall'autorizzazione edilizia (cfr. C.S., V,
18.09.2008, n. 4498).
Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale che il
collegio ritiene di condividere, la decadenza della
concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel
termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere
esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero
decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o
proroga connessi a "factum principis", forza maggiore
o cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i
suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo,
deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione
(v. C.S., V, 15.061998, n. 834; TAR Abruzzo, Pescara,
28.06.2002, n. 595; TAR Sardegna, II, 15.11.2005, n. 2126;
TAR Lazio, II, 24.11.2004, n. 13996).
Nella fattispecie in esame, il Comune di Siderno non ha
proceduto, prima di adottare gli impugnati provvedimenti di
sospensione dei lavori e di demolizione delle opere
realizzate, ad accertare l’intervenuta decadenza
dell’autorizzazione edilizia che li assentiva, con
conseguente illegittimità dei provvedimenti medesimi.
D’altronde, questi ultimi sono illegittimi anche perché
l’asserita decadenza della predetta autorizzazione, sulla
quale essi si fondano, non può in realtà considerarsi
intervenuta, non potendo in proposito computarsi il periodo
(dall’01.10.2003 all’08.10.2004) nel quale il cantiere “de
quo” è stato sottoposto a sequestro penale.
Il collegio condivide, sul punto, l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui il sequestro penale di
immobili oggetto di un provvedimento di assenso
all’edificazione, costituendo "factum principis",
determina la sospensione dei termini di validità del
provvedimento medesimo. Di conseguenza, ai fini della
dichiarazione di decadenza del provvedimento per mancata
ultimazione dei lavori nel termine in esso previsto, non
deve essere computato il periodo di tempo in cui è rimasto
di fatto efficace il sequestro giudiziario (cfr. C.S., V,
26.04.2005, n. 1895).
Più specificamente, l'istituto giuridico della decadenza
dalla concessione edilizia, per mancato completamento dei
lavori entro il termine assegnato, assume sì carattere
esclusivamente oggettivo, giacché si fonda sul mero decorso
del tempo previsto, ma va fatta eccezione per i casi di
sospensione o proroga connessi a “factum principis”,
forza maggiore o ad altre cause espressamente contemplate
dalla legge, non riferibili alla condotta del titolare della
concessione e assolutamente ostative dei lavori , le quali
producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo
massimo stabilito per l'esecuzione delle opere (cfr. TAR
Lazio, Sez. II, 15.04.2004, n. 3297; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 29.04.2004, n. 7513; TAR Toscana, Sez. III,
25.09.2003, n. 5124; TAR Sicilia, Catania, Sez. I,
02.10.2003, n.1494; Cons. Stato, Sez. V, 03.02.2000, n.
597).
Non può condividersi la tesi dell’amministrazione, che
sostiene che la proroga avrebbe necessariamente dovuto
essere richiesta dalla ricorrente prima della scadenza del
termine in parola, giacché nel caso in cui l’amministrazione
sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare
della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa
non può adottare un provvedimento di decadenza della
concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta
del concessionario, la proroga del termine per la
ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del
concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori
durante la loro esecuzione (TAR Sicilia, III, 19.02.2007, n.
560).
Né possono avere rilievo, come pure eccepito dal Comune,
eventuali abusi commessi dal proprietario del lastrico
solare sul quale la ricorrente ha installato la sua stazione
radio base –dei quali non si fa peraltro cenno nei
provvedimenti impugnati- che vanno evidentemente contestati
e sanzionati separatamente, nei confronti di chi li ha posti
in essere.
In relazione a quanto precede, il ricorso in esame si
appalesa fondato –rimanendo assorbite le censure formali non
esaminate- e va quindi accolto, con conseguente annullamento
dei provvedimenti impugnati (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 20.04.2010 n. 420 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’art. 31, comma 11, della legge n. 1150 del
1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche
comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le
previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati
iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4,
del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di
emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale
“il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti
previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già
iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in
contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio
nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche
devono trovare indefettibile applicazione (salva la
possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto
volte –per definizione– ad un più razionale assetto del
territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati
coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate
all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la
natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano
precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni
urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la
violazione della normativa sugli standard) se fossero
edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle
indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in
quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4,
del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge
n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, che si ha quando i lavori precedentemente
assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in
vigore– possano continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano
completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel
vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo
edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente
effetti ex tunc.
---------------
Ritiene la Sezione che del tutto legittimamente, nella
fattispecie, l’Amministrazione comunale ha dichiarato la
decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992.
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua
dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo
piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di
proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la
sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato
inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001
(riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della
legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di
compimento dei lavori “possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che possono
consistere nel factum principis o in altri casi di forza
maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono
costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa
quando l’interessato proponga una domanda di proroga, il cui
accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia
di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai
proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei
lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano
regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza
del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in
primo grado il Comune non poteva che prendere atto della
circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori,
risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e
successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad
avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il
riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
Del resto, neppure in concreto tale riconoscimento può
essere effettuato in questa sede, poiché:
- il sequestro giudiziario (che ha riguardato le “pratiche relative
a richieste di concessioni edilizie” e i “pareri espressi
dalle commissioni edilizie tenutesi nelle sedute del
03.02.1992 e seguenti”) non ha riguardato il cantiere o il
luogo dell’erigendo fabbricato (sicché non è tale da
impedire la pronuncia di decadenza della concessione
edilizia) e comunque è venuto meno con l’ordinanza della
Sez. VII della Corte d’appello di Napoli depositata in data
26.03.2001, in epoca di gran lunga antecedente alla data di
emanazione dell’atto impugnato in primo grado (10.02.2006);
- la nota sindacale n. 22771 del 2000 non ha precluso lo
svolgimento dei lavori e comunque ha perso rilievo a seguito
dell’ordinanza di dissequestro;
- anche la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del 2002 (annullata
dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004) non ha
materialmente impedito la realizzazione dei lavori ed è
stata comunque a sua volta seguita dal mancato inizio dei
lavori, sino alla data di emanazione dell’atto impugnato in
primo grado.
Pertanto, nel loro complesso vanno respinte le censure con
cui l’appellante ha dedotto che il mancato inizio dei lavori
sarebbe dipeso da circostanze qualificabili come factum
principis.
---------------
Per quanto riguarda il notevole decorso del tempo intercorso
tra il rilascio della concessione edilizia e la pronuncia di
decadenza e la sussistenza di un legittimo affidamento,
rilevano le precedenti considerazioni sull’ambito di
applicazione dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380
del 2001, per il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano
regolatore comporta la pronuncia di decadenza del titolo
edilizio basato sul piano precedente, quando i relativi
lavori non siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere
vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va
emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché
accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio
difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione
sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi
pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo
carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione
che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di
fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in
vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in
precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse
pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta
dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che
determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi
presupposti oggettivi.
---------------
1. Nel presente giudizio, è controversa la legittimità della
nota n. 4148 del 10.02.2006, con cui il dirigente
dell’ufficio tecnico del Comune di Quarto ha dichiarato la
decadenza di una concessione edilizia (risultante da una
nota sindacale n. 5063 del 12.03.1992, che comunicava il
precedente parere favorevole della commissione edilizia),
poiché i relativi lavori non sono cominciati né
anteriormente, né successivamente all’approvazione del
sopravvenuto piano regolatore (approvato con il decreto
provinciale n. 291 del 18.11.1994), che ha destinato l’area
a zone Fb e Ha (in parte ad attrezzature per spazi pubblici
e in parte a zona di rispetto stradale).
Con la sentenza gravata n. 10044 del 2006, il TAR per la
Campania ha respinto il ricorso di primo grado. Con
l’appello in esame, l’appellante ha chiesto che, in riforma
della medesima sentenza, il ricorso di primo grado sia
accolto.
2. Per la comprensione dell’oggetto del presente giudizio,
va premesso che il provvedimento di decadenza della
concessione edilizia ha fatto seguito alla precedente
sentenza del TAR n. 10860 del 2004 (che ha annullato l’atto
n. 792 del 2002, con cui l’ufficio tecnico comunale ha
escluso che la nota sindacale n. 5063 del 12.03.992 potesse
essere qualificata come concessione edilizia, in quanto
comunicativa di un parere), appellata dal Comune con il
gravame ancora pendente n. 8017 del 2005.
Il presente giudizio può essere definito senza una
preliminare sospensione, con l’esame delle censure di primo
grado –e riproposte in questa sede- rivolte avverso la nota
n. 4148 del 2006 che ha disposto la decadenza della
concessione edilizia (anche se sulla esistenza di tale
concessione non si è ancora formato il giudicato).
3. Dopo aver ricostruito le vicende che hanno condotto alla
presente fase del giudizio, col primo motivo
l’appellante ha dedotto che il provvedimento di decadenza
impugnato in primo grado sarebbe illegittimo per violazione
dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942, dell’art. 15,
comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, e dell’art. 21-septies
della legge n. 241 del 1990, nonché per molteplici profili
di eccesso di potere.
Ad avviso dell’appellante, dalla motivazione della sentenza
n. 10860 del 2004 (che ha rilevato l ’esistenza della
concessione edilizia) si evincerebbe che:
- il Comune, oltre a dover ritenere sussistente la concessione
edilizia, avrebbe dovuto qualificare quale factum
principis le circostanze che non hanno consentito la
realizzazione dei lavori (cioè l’emanazione dell’ordine di
sequestro giudiziario da parte della Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Napoli);
- sarebbero irrilevanti le sopravvenute previsioni urbanistiche,
anche perché la nota sindacale del 1992 avrebbe valutato
tutti gli aspetti riguardanti la ‘compatibilità
urbanistica’.
Inoltre, nella specie per diverse ragioni il mancato inizio
dei lavori sarebbe dipeso da un factum principis,
poiché:
- il sequestro giudiziario del cantiere avrebbe disposto ‘una
sorta di sospensione’ della concessione;
- il mancato inizio dei lavori sarebbe dipeso dall’Amministrazione
comunale (che ha subordinato il rilascio materiale della
concessione al dissequestro, con la nota sindacale n. 22771
dell’08.09.2000, e non ha rilasciato materialmente la
concessione, con la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del
2002, annullata dal TAR con la sentenza n. 10860 del 2004).
4. Ritiene la Sezione che le censure così riassunte vadano
respinte, perché infondate.
4.1. Contrariamente a quanto ha dedotto l’appellante, la
sentenza n. 10860 del 2004 si è limitata a rilevare
l’illegittimità della nota n. 792 del 2002, con cui
l’ufficio tecnico comunale aveva negato che il precedente
atto sindacale del 12.03.1992 potesse essere qualificato
come concessione edilizia in senso tecnico.
In considerazione dell’oggetto di quel giudizio, tale
sentenza:
- ha qualificato l’atto del 12.03.1992 come concessione edilizia
per il suo contenuto adesivo al parere favorevole della
commissione edilizia (anche se la sentenza ha constatato la
mancata conclusione del procedimento, per l’assenza della
determinazione degli oneri di urbanizzazione ed il mancato
rilascio del titolo formale);
- non ha precluso l’emanazione di ulteriori provvedimenti inerenti
alla vicenda, facendo anzi espressamente salvo ogni potere
dell’Amministrazione, anche in sede di autotutela.
Pertanto, la sentenza si è riferita alla ‘sospensione
forzosa’ del procedimento (conseguente al sequestro
degli atti in sede penale) solo per rilevare l’insussistenza
di ragioni impeditive del rilascio formale della concessione
(considerata ‘esistente e pienamente efficace’), ma
non per precludere alla Amministrazione comunale la
valutazione delle questioni riguardanti il rilievo del
decorso del tempo, maturato successivamente al rilascio
dell’atto del 12.03.1992.
Ugualmente infondata è la deduzione dell’appellante secondo
cui la sentenza n. 10860 del 2004 avrebbe valutato tutti gli
aspetti riguardanti la ‘compatibilità urbanistica’,
con la conseguente irrilevanza delle previsioni del nuovo
piano, approvato con il decreto provinciale n. 291 del
18.11.1994.
Infatti, dall’esame della medesima sentenza non emerge
alcuna statuizione attinente all’ambito dei poteri
dell’Amministrazione comunale, conseguenti all’approvazione
del nuovo piano regolatore, proprio perché l’oggetto del
giudizio riguardava unicamente la questione se fosse
legittimo l’atto comunale che aveva disconosciuto
l’esistenza di una concessione edilizia risalente al
12.03.1992.
4.2. Vanno altresì respinte le censure con cui l’appellante
ha dedotto che il Comune avrebbe dovuto qualificare quale
factum principis le circostanze verificatesi durante il
periodo in cui i lavori non sono stati cominciati.
Va premesso che, per l’art. 31, comma 11, della legge n.
1150 del 1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni
urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in
contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi
lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il
termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4,
del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di
emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale
“il permesso decade con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori
siano già iniziati e vengano completati entro il termine di
tre anni dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in
contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio
nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche
devono trovare indefettibile applicazione (salva la
possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto
volte –per definizione– ad un più razionale assetto del
territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati
coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate
all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la
natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano
precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni
urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la
violazione della normativa sugli standard) se fossero
edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle
indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in
quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4,
del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge
n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, che si ha quando i lavori precedentemente
assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in
vigore– possano continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano
completati entro il termine di tre anni dalla data di
inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel
vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo
edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente
effetti ex tunc (cfr. Sez. V, 09.09.1985, n. 288).
Ciò premesso, ritiene la Sezione che del tutto
legittimamente l’Amministrazione comunale ha dichiarato la
decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992
(ritenuta sussistente dalla sentenza del TAR n. 10860 del
2004).
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua
dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo
piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di
proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la
sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato
inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001
(riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della
legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di
compimento dei lavori “possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che
possono consistere nel factum principis o in altri
casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma
possono costituire oggetto di valutazione in sede
amministrativa quando l’interessato proponga una domanda di
proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi
sia la pronuncia di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai
proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei
lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano
regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza
del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in
primo grado il Comune non poteva che prendere atto della
circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori,
risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e
successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad
avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il
riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
4.3. Del resto, neppure in concreto tale riconoscimento può
essere effettuato in questa sede, poiché:
- il sequestro giudiziario (che ha riguardato le “pratiche
relative a richieste di concessioni edilizie” e i “pareri
espressi dalle commissioni edilizie tenutesi nelle sedute
del 03.02.1992 e seguenti”) non ha riguardato il
cantiere o il luogo dell’erigendo fabbricato (sicché non è
tale da impedire la pronuncia di decadenza della concessione
edilizia: cfr. Cons. Giust. Amm., 28.12.1990, n. 444) e
comunque è venuto meno con l’ordinanza della Sez. VII della
Corte d’appello di Napoli depositata in data 26.03.2001, in
epoca di gran lunga antecedente alla data di emanazione
dell’atto impugnato in primo grado (10.02.2006);
- la nota sindacale n. 22771 del 2000 non ha precluso lo
svolgimento dei lavori e comunque ha perso rilievo a seguito
dell’ordinanza di dissequestro;
- anche la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del 2002 (annullata
dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004) non ha
materialmente impedito la realizzazione dei lavori ed è
stata comunque a sua volta seguita dal mancato inizio dei
lavori, sino alla data di emanazione dell’atto impugnato in
primo grado.
Pertanto, nel loro complesso vanno respinte le censure con
cui l’appellante ha dedotto che il mancato inizio dei lavori
sarebbe dipeso da circostanze qualificabili come factum
principis.
5. Col secondo motivo, l’appellante ha dedotto che il
provvedimento di decadenza sarebbe illegittimo per
violazione dell’art. 97 Cost., dell’art. 3 della legge n.
241 del 1990 e dell’art. 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del
2001, nonché per vari profili di eccesso di potere, poiché
esso è stato emesso a distanza di circa 14 anni dalla
emanazione della concessione edilizia, dopo la formazione di
un legittimo affidamento sui suoi effetti, senza alcuna
motivazione sulla prevalenza dell’interesse pubblico su
quello privato.
6. Anche tale censura va respinta, perché infondata.
Per quanto riguarda il notevole decorso del tempo intercorso
tra il rilascio della concessione edilizia e la pronuncia di
decadenza e la sussistenza di un legittimo affidamento,
rilevano le precedenti considerazioni sull’ambito di
applicazione dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380
del 2001, per il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano
regolatore comporta la pronuncia di decadenza del titolo
edilizio basato sul piano precedente, quando i relativi
lavori non siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere
vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc
e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio
perché accerta il venir meno degli effetti del titolo
edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione
sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi
pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo
carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione
che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di
fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in
vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in
precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse
pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta
dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che
determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi
presupposti oggettivi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.08.2007 n. 4423 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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