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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2017

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aggiornamento al 24.10.2017

aggiornamento al 10.10.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 24.10.2017

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a distanza di anni dall’abuso.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Adottata a distanza di anni dall’abuso – Motivazione – Esclusione.
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino (1).
---------------
   (1) La questione era stata rimessa dalla Cons. St., sez. VI, ord., 24.03.2017, n. 1337.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sul punto si sono formati due orientamenti.
In base a un primo orientamento (ad oggi maggioritario) l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso. In base all’orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (Cons. St., sez. VI, 05.05.2016, n. 1774; id. 23.10.2015, n. 4880; id. 11.12.2013, n. 5943).
Aggiungasi che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908).
In base ad un diverso (e minoritario) orientamento, l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato: ipotesi -questa- in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione la quale indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Cons. St., sez. IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti simile a quella appena richiamata si è affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione di demolizione debba essere assistita da un’adeguata motivazione circa lo specifico interesse pubblico sotteso alla riduzione in pristino dell’area. Ciò si renderà necessario, in particolare: i) quando il proprietario del bene sia pacificamente persona diversa da quella che ha commesso l’abuso; ii) quando l’intervenuta alienazione della res non palesi finalità elusive; iii) quando fra il commesso abuso e l’ordine di demolizione sia intercorso un rilevante lasso di tempo, sì da ingenerare nel proprietario uno stato di affidamento in ordine alla desistenza da parte dell’amministrazione dall’adozione di atti pregiudizievoli (Cons. St., sez. IV, n. 1016 del 2014; id., sez. V, n. 3847 del 2013).
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria la fattispecie in esame non è riconducibile al quadro generale dell’autotutela, non venendo in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti, ma la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove –tuttavia– l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta, in definitiva, dei casi di doverosa –se pure tardiva– attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Ad avviso dell’Alto Consesso non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 9 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa Adunanza Plenaria il ricorso in appello proposto dai signori Fi., An. e Fa.Ba. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio con cui è stato respinto il ricorso da loro proposto avverso l’ordinanza del Sindaco del Comune di Fiumicino con la quale è stata loro ingiunta la demolizione di un immobile realizzato sine titulo oltre trent’anni prima dalla loro comune dante causa, la madre Co.Fi..
2. Come si è anticipato in narrativa,
viene chiesto a questa Adunanza Plenaria di chiarire la questione dell’onere motivazionale che grava in capo all’amministrazione in sede di adozione di un’ingiunzione di demolizione (nel caso in esame, conseguente alla realizzazione di un immobile in area vincolata nella radicale assenza di un valido titolo edilizio) e se in particolare, decorso un considerevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, gravi in capo all’amministrazione un onere motivazionale aggiuntivo, che non resti limitato al solo richiamo alla normativa urbanistica violata e alla conseguente necessità di ripristinare l’ordine giuridico compromesso.
Viene altresì chiesto di stabilire se uno specifico onere di motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e concreto alla demolizione sia altresì ravvisabile nell’ipotesi in cui l’attuale proprietario del bene non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento del bene non denoti intenti elusivi della normativa in tema di onere di ripristino.
3. L’ordinanza di rimessione ha correttamente –sia pur sinteticamente– richiamato gli argomenti essenziali che sostengono le due principali tesi attualmente in campo.
3.1. In base a un primo orientamento (ad oggi maggioritario)
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso. In base all’orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 10.05.2016, n. 1774; id., VI, 23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n. 5943).
Si è osservato al riguardo che
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che,
laddove si annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo –sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di motivazione richiesto all’amministrazione-, si perverrebbe in via pretoria a delineare una sorta di ‘sanatoria extra ordinem’, la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il soggetto interessato non abbia potuto –o voluto– avvalersi delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi edilizi (in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015, n. 13).
3.2. In base a un diverso (e minoritario) orientamento,
l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato: ipotesi -questa- in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione la quale indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti simile a quella appena richiamata
si è affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione di demolizione debba essere assistita da un’adeguata motivazione circa lo specifico interesse pubblico sotteso alla riduzione in pristino dell’area. Ciò si renderà necessario, in particolare: i) quando il proprietario del bene sia pacificamente persona diversa da quella che ha commesso l’abuso; ii) quando l’intervenuta alienazione della res non palesi finalità elusive; iii) quando fra il commesso abuso e l’ordine di demolizione sia intercorso un rilevante lasso di tempo, sì da ingenerare nel proprietario uno stato di affidamento in ordine alla desistenza da parte dell’amministrazione dall’adozione di atti pregiudizievoli (in tal senso: Cons. Stato, IV, sent. 1016 del 2014; id., V, sent. 3847 del 2013).
A conclusioni non dissimili è pervenuta quella parte della giurisprudenza secondo cui
il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia nei confronti dell’amministrazione che del dante causa (in tal senso: Cons. Stato, IV, 04.03.2014, n. 1016; id., V, 15.07.2013, n. 3847; id., V, 24.11.2013, n. 2013).
4. Ad avviso di questa Adunanza Plenaria il dato di fondo da cui occorre prendere le mosse è costituito dall’oggettiva non riconducibilità della fattispecie in esame al quadro generale dell’autotutela.
Ed infatti, non viene qui in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti.
Al contrario, il caso che qui rileva si presenta in termini sensibilmente diversi e concerne la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove –tuttavia– l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione).
Si tratta, in definitiva, dei casi (frequenti nella pratica) di doverosa –se pure tardiva– attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Al riguardo ci si limita a rilevare che:
   - nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto amministrativo illegittimo ma favorevole al proprietario, si radica comunque un affidamento in capo al privato beneficiato dall’atto in questione e ciò giustifica una scelta normativa (quale quella trasfusa nell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990) volta a rafforzare l’onere motivazionale gravante in capo all’amministrazione. Si tratta di stabilire sino a che punto e in che termini l’ordinamento si debba far carico di tutelare un siffatto stato di legittimo affidamento;
   - al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
In definitiva,
non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
5. Va d’altra parte osservato che, anche nelle sue declinazioni più estreme, la tesi maggiormente orientata al riconoscimento delle ragioni e delle prerogative proprietarie non giunge a riconoscere l’illegittimità dell’ordine di demolizione quale diretta conseguenza della sua tardiva emanazione, né postula una sorta di ‘sanatoria extra ordinem’ quale effetto dell’omessa o tardiva adozione del provvedimento demolitorio.
Ed infatti, le decisioni riconducibili a tale approccio pervengono soltanto –in maniera più o meno incisiva– a delineare in capo all’amministrazione che abbia omesso per un considerevole lasso di tempo di adottare l’ordine di demolizione un onere di motivazione sia in ordine alle ragioni di interesse pubblico –concreto e attuale– sottese alla demolizione, sia in ordine alla comparazione fra l’interesse pubblico al ripristino della legittimità violata e l’interesse privato alla permanenza in loco del manufatto.
La stessa sentenza della Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato n. 1016 del 2014 (invocata dagli appellanti a sostegno delle proprie tesi) non ha affermato l’illegittimità ex se dell’ordine di demolizione tardivamente adottato, ma ha soltanto individuato una serie di “casi-limite” in cui graverebbe comunque sull’amministrazione l’obbligo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni sottese alla tardiva attivazione del potere ripristinatorio (la sentenza in questione ha individuato tali “casi-limite” nelle ipotesi in cui: i) il proprietario attuale non abbia commesso l’abuso; ii) l’alienazione in suo favore non palesi intenti elusivi; iii) fra il commesso abuso e il provvedimento demolitorio sia intercorso un notevole lasso di tempo).
5.1. Si osserva comunque al riguardo che non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
5.2. Una chiara conferma di quanto appena rappresentato si desume dal terzo periodo del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001 (per come introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell’articolo 17 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133), secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La disposizione appena richiamata chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l’amministrazione del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche –e diverse– conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo.
6. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
6.1. Deve quindi ribadirsi che, in questi casi, nemmeno si pone un problema di affidamento, che presuppone una posizione favorevole all’intervento riconosciuta da un atto in tesi illegittimo poi successivamente oggetto di un provvedimento di autotutela.
Un condiviso orientamento ha sottolineato al riguardo l’oggettiva differenza che sussiste fra:
   - (da un lato) l’adozione di determinazioni sfavorevoli di segno opposto rispetto ad altre precedenti e di segno favorevole per l’interessato (come l’annullamento in autotutela del titolo edilizio o del provvedimento di sanatoria) e
   - (dall’altro) l’adozione dell’ordine di demolizione in caso di interventi realizzati in radicale assenza del permesso di costruire (articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001).
In tale secondo novero di ipotesi è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
7. A conclusioni del tutto analoghe (in punto di insussistenza di un obbligo di motivazione nelle ipotesi che qui rilevano) è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio anche prendendo le mosse da angoli visuali diversi da quello dell’applicabilità o meno delle categorie dell’autotutela decisoria.
7.1. E’ stato in primo luogo affermato che
il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione. Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; id., VI, 06.03.2017, n. 1060).
7.2. E’ stato inoltre affermato che
il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione. Inoltre, il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
7.3. E’ stato, ancora, affermato che
non occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione. Ed infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; id., VI, 13.12.2016, n. 5256).
Si è altresì osservato –e in modo parimenti condivisibile- che
l’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV, 12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n. 3750).
Deve pertanto essere confermato, anche da questi diversi angoli visuali, che,
nelle ipotesi che qui rilevano di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti.

7.4. L’ordinanza di rimessione si è altresì soffermata sulla possibile sussistenza di un obbligo per l’amministrazione di motivare l’ordine di demolizione in relazione alla concretezza ed attualità dell’interesse pubblico alla demolizione. Le considerazioni sopra esposte -che evidenziano la non riconducibilità della fattispecie all’autotutela decisoria- escludono la rilevanza delle questioni attinenti all’onere motivazionale.
8. L’ordinanza di rimessione si sofferma inoltre sul caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi.
8.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
Del resto, la principale (se non l’unica) ragione che potrebbe indurre a valorizzare la richiamata alterità soggettiva è quella relativa allo stato soggettivo di buona fede e di affidamento che caratterizza la posizione dell’avente causa.
Tuttavia –e per le ragioni dinanzi esposte retro, sub 7.1 e 7.3– tali stati soggettivi non possono essere in alcun modo valorizzati ai fini motivazionali
In definitiva
l’Adunanza plenaria ritiene di confermare l’orientamento secondo cui gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 26.07.2017, n. 3694).
9. A conclusioni del tutto analoghe a quelle appena rassegnate deve giungersi anche in relazione all’ipotesi in cui sia pacifico che l’alienazione dell’immobile oggetto di abuso sia stata realizzata in circostanze che inducono ad escludere qualunque intento elusivo.
Anche in questo caso ci si limita ad osservare che tale circostanza –inerente in ultima analisi allo stato soggettivo dell’avente causa– non può in alcuno modo rilevare sulla doverosità delle conseguenze connesse alla commissione dell’abuso in quanto tale.
10. In conclusione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “
il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria pronuncia sulla motivazione del provvedimento di annullamento della concessione edilizia in sanatoria adottato a distanza di anni dal rilascio del titolo.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato – Necessità – Limiti
Nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005– l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte. (1)

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   (1) I.- Con ordinanza 19.04.2017 n. 1830 (oggetto della News US in data 26.04.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento), la quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la questione concernente l’ambito della motivazione dell’annullamento di ufficio di una concessione in sanatoria intervenuto a considerevole distanza di tempo dal rilascio del titolo, nella vigenza dell’originaria versione della norma generale sull’annullamento d’ufficio, come introdotta nel corpo della legge 241 del 1990 con la riforma del 2005.
La rimessione è stata adottata nell’ambito di un giudizio di appello proposto per la riforma di una sentenza di primo grado che aveva respinto l’originaria impugnativa dell’annullamento d’ufficio di titoli edilizi rilasciati in sanatoria alcuni anni prima.
La sentenza di primo grado aveva fondato il rigetto del gravame sul principio tradizionale a mente del quale l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata negli abusi edilizi è in re ipsa e non richiede una particolare motivazione, essendo prevalente rispetto all’interesse dei ricorrenti al mantenimento del manufatto abusivo.
In sede di appello, richiamando la questione sollevata da Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 24.03.2017 n. 1337 (concernente la consistenza della motivazione dell’ordine di demolizione adottato a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso), la quarta Sezione ha rilevato il sorgere di un contrasto fra due orientamenti, uno più recente ed uno tradizionale, fatto proprio dal giudice di prime cure. Il primo, sulla base del testo dell’art. 21-nonies cit., e anche in considerazione delle recenti modifiche dello stesso, ritiene necessaria una valutazione dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli originari provvedimenti, in un tempo ragionevole; con la conseguenza che il lungo decorso del tempo agisce a favore dell’affidamento ingenerato nel privato e incide anche sulla valutazione del pubblico interesse in concreto. Il secondo, sino ad ora maggioritario, pur nella vigenza del citato articolo, esclude la necessità della valutazione dell’interesse pubblico in concreto, essendo esso insito nella restaurazione della legalità violata, quantomeno, tutte le volte che la illegittimità sia dipesa dalle prospettazioni non veritiere del privato.
   II.- L’Adunanza Plenaria, dopo aver richiamato in modo analitico le argomentazioni dei due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, opera una complessiva ed innovativa rilettura dello statuto del potere di autotutela in materia edilizia alla luce delle norme sancite dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2015, affermando i seguenti principi:
a) poiché la vicenda contenziosa è governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005, non rilevano, ai fini della decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015, disposizione quest’ultima dalla quale non possono trarsi elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo;
b) l’autotutela in materia edilizia, in mancanza di una disciplina speciale (prevista ad esempio per disciplinare le conseguenze dell’annullamento del titolo edilizio dall’art. 38 del DPR 380/2001), è, a tutti gli effetti, attività di amministrazione attiva in senso proprio, implicante l’esercizio di un potere di valutazione comparativa degli interessi, con la conseguenza che di regola –e salva l’ipotesi di mala fede del privato- grava sull’amministrazione l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti, con ciò dovendosi escludere la possibilità di postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati. Ciò anche in applicazione del generale principio del clare loqui, dell’obbligo di motivazione e della progressiva dequotazione dei vizi meramente formali dei provvedimenti in favore delle c.d. illegittimità praticabili desumibile da precisi indici normativi (cfr. in tal senso la modifica al comma 2 dell’articolo 21-nonies, cit., disposta dall’articolo 25, comma 2, lettera b-quater) del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 nonché il comma 2 dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124 che ha espressamente abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della l. 30.12.2004, n. 311);
c) la teorica dell’interesse pubblico in re ipsa implica la rimozione in via ermeneutica di due elementi normativamente indefettibili quali la ragionevolezza del termine e la motivata valutazione dei diversi interessi in gioco (espressamente contemplati dall’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990), si fonda sul principio di inesauribilità del potere che, tuttavia, nell’attuale fase storica, deve conciliarsi con il valore della certezza delle situazioni giuridiche soggettive e di prevedibilità delle decisioni e si pone anche in contrasto con la natura discrezionale del potere di autotutela rendendo, di fatto, vincolata una decisione solo eventuale;
d) la locuzione ‘termine ragionevole’ deve essere interpretata nel senso che il termine in questione decorre soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto, con la conseguenza che in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere, laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità;
e) l’onere motivazionale, comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati. Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi;
f) nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo, l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dall’istante, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico, neppure qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198; id., V, 13.05.2014, n. 2451 citate in motivazione);
g) poiché la errata prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole escludono la possibilità di configurare in capo al medesimo una posizione di affidamento incolpevole, l’amministrazione può adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione.
   III.- Per completezza si segnala quanto segue:
h) in tema di autotutela in materia di urbanistica ed edilizia possono richiamarsi diversi orientamenti giurisprudenziali su temi specifici, fra cui:
      I) in relazione alla inesigibilità di particolari garanzie partecipative in vista dell’autotutela in presenza di un titolo edilizio rilasciato in base ad una errata rappresentazione della realtà giuridica e fattuale, Cons. Stato, Sez. IV, 14.06.2017, n. 2885;
      II) in relazione alla differenza fra annullamento in autotutela del titolo edilizio da parte del comune e annullamento regionale ex art. 39 t.u. edilizia (pure presa in considerazione dalla Adunanza plenaria onde evidenziarne la non riconducibilità al medesimo genus e regime giuridico), Cons. Stato, Sez. IV, 16.08.2017, n. 4008 (che si segnala per la completezza della trattazione dell’istituto; si è precisato, invero, che è ben possibile che l’Amministrazione, in presenza di una norma specifica come quella dell’art. 39 cit. disponga l’annullamento del titolo edilizio anche dopo un considerevole lasso di tempo dall’adozione del titolo medesimo, fermo restando che in relazione a tale norma, però, l’annullamento appare espressione della titolarità e cogestione, rispettivamente del potere e dell’interesse, inerenti alla pianificazione urbanistica da parte della regione);
      III) in relazione all’estensione dell’obbligo di motivazione, Cons. Stato, Sez. VI, 28.06.2016, n. 2842, secondo cui “l’amministrazione, soprattutto quando interviene a distanza di anni dalla formazione di un titolo abilitativo astrattamente idoneo alla realizzazione di alcuni lavori, deve illustrare in maniera diffusa le ragioni, anche di interesse pubblico, che giustificano il ritiro dell'abilitazione, ovvero le altre ragioni che impongono il provvedimento sanzionatorio con l'ordine di riduzione in pristino” (in Rivista Giuridica dell'Edilizia, 2016, 4, I, 523; la sentenza richiama, a sostegno delle tesi sostenute, Corte cost., 09.03.2016 n. 49 – ibidem, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, Giur. it., 2016, 2233, con nota di VIPIANA PERPETUA- che ha dichiarato incostituzionale una norma di una legge della Regione Toscana che consentiva all'Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., in un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4, dell'art. 19, della l. n. 241 del 1990);
      IV) in relazione all’annullamento di atto pianificatorio, Tar per il Lazio-Roma, Sez. II-ter, 19.07.2016, n. 8277: “Dal momento che l'approvazione di uno strumento urbanistico dipende da un procedimento complesso al quale concorrono il Comune (cui è demandata la potestà di iniziativa) e la Regione (cui compete la fase di controllo), laddove l'Ente locale territoriale intenda perseguire l'annullamento dell'atto di pianificazione definitivo per ragioni di grave illegittimità deve rispettare il medesimo procedimento previsto per la formazione dello strumento urbanistico che si intende annullare, secondo il principio del “contrarius actus”, dal momento che l'autotutela non può che essere esercitata congiuntamente ed in concerto tra le Amministrazioni che sono competenti all'esercizio del potere di primo grado, nei rispettivi limiti e ruoli: a diversamente ritenere, infatti, si perverrebbe alla conseguenza che, in sede di autotutela, il Comune eserciterebbe un potere di maggiore ampiezza rispetto a quello di cui è titolare in fase di formazione dello strumento urbanistico”;
      V) in relazione alle distanze, Tar per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, 09.05.2016, n. 152: “L'annullamento in autotutela di una concessione edilizia rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal Comune è vincolata”;
      VI) in relazione alla s.c.i.a., Tar per la Liguria, Sez. I, 03.10.2016 n. 970: “nell'atto di annullamento degli effetti della s.c.i.a, l'Amministrazione deve dare conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati”;
i) in dottrina, per una accurata ricostruzione degli istituti dell’annullamento dei titoli edilizi da parte del comune e dell’annullamento regionale, v. da ultimo, R. LEONARDI – M. OCCHIENA, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 896 ss.; P. PORTALURI, ibidem, 925 ss. (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 8 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell'annullamento d'ufficio dell'ordinanza edilizia in sanatoria disposto a distanza di anni dal suo rilascio.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato - Necessità - Limiti.
Nella vigenza dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241 –introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15- l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   b) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (1).

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   (1) La questione era stata sollevata dalla sez. IV con ord. 19.04.2017, n. 1830.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sulla questione si sono formati due orientamenti.
In base a un primo, maggioritario, orientamento (Cons. St., sez. IV, 19.08.2016, n. 3660; id., sez. V, 08.11.2012, n. 5691), l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato.
I fautori di tale tesi ritengono in particolare che non gravi in capo all’amministrazione un particolare onere motivazionale –ovvero l’obbligo di valutare i diversi interessi in campo– laddove l’illegittimità del titolo in sanatoria sia stata determinata da una falsa rappresentazione dei fatti e dello stato dei luoghi imputabile al beneficiario del titolo in sanatoria (Cons. St., sez. IV, 27.08.2012, n. 4619). In base a tale prospettazione, uno specifico onere motivazionale a sostegno dell’autotutela può essere imposto all’amministrazione soltanto laddove l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione imputabili alla stessa amministrazione (Cons. St., sez. V, 08.11.2012, n. 5691).
In base a un secondo orientamento (più recente e allo stato minoritario), anche nel caso di annullamento ex officio di titoli edilizi in sanatoria dovrebbero trovare integrale applicazione i generali presupposti legali di cui all’art. 21-nonies, l. 241 del 1990, non potendo l’amministrazione fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (Cons. St., sez. VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., sez. IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio postula l’apprezzamento di un presupposto –per così dire– ‘rigido’ (l’illegittimità dell’atto da annullare) e di due ulteriori presupposti riferiti a concetti indeterminati, da apprezzare discrezionalmente dall’amministrazione (si tratta della ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e dell’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari: Cons. St., sez. VI, 27.01.2017, n. 341).
In base a tale orientamento, il fondamento di tali ulteriori presupposti va individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del giusto equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell’assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.
L’amministrazione che intende procedere all’annullamento ex officio di un provvedimento di sanatoria di opere abusive di operare un motivato bilanciamento fra (da un lato) l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e (dall’altro) l’interesse dei destinatari al mantenimento dello status quo ante (interesse viepiù rafforzato dall’affidamento legittimo determinato dall’adozione dell’atto e dal decorso del tempo). La motivata ponderazione fra i diversi interessi in gioco risulta tanto più necessaria nel caso di atti di ritiro di titoli edilizi, i quali sono destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto ampliativo, palesando una scelta legislativa volta a riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto i cui effetti si sono ormai prodotti in via definitiva.
L’Adunanza plenaria ha affermato che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti. Conseguentemente, grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti.
Ha aggiunto che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio –anche in sanatoria– rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (Cons. St., sez. IV, 12.12.2016, n. 5198; id., sez. V, 13.05.2014, n. 2451).
La stessa giurisprudenza ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale (Cons. St., sez. VI, 27.09.2016, n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione. In tali ipotesi l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale), l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 8 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa Adunanza Plenaria il ricorso in appello proposto dai signori No. e De Ga. (i quali hanno acquistato un compendio immobiliare nel Comune di Giovinazzo (BA) comprendente, fra l’altro un ex capannone industriale in seguito adibito a cinema e un immobile pertinenziale poi adibito a bar/rosticceria) avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Puglia con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune ha annullato in autotutela il titolo in sanatoria rilasciato circa nove anni prima per il medesimo immobile, ordinandone altresì la demolizione.
2. Come si è anticipato in narrativa,
l’ordinanza di rimessione n. 1830/2017, dopo aver premesso che la vicenda di causa risulta governata dalla previsione dell’articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241 nel testo introdotto dall’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 15, chiede in sostanza a questa Adunanza plenaria di chiarire:
 
  i) se l’annullamento ex officio di un titolo edilizio in sanatoria intervenuto a notevole distanza di tempo dal provvedimento originario debba comunque essere motivato in relazione a un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione e ai contrapposti interessi dei soggetti incisi;
   ii) se, ai fini di tale comparazione, rilevi che il privato abbia indotto in errore l’amministrazione attraverso l’allegazione di circostanze non veritiere idonee a determinare l’adozione dell’originario provvedimento favorevole.

3. Il Collegio ritiene che evidenti ragioni di ordine sistematico ed espositivo inducano in primo luogo ad individuare in modo puntuale il quadro normativo applicabile e a delimitare altresì il thema decidendum, anche al fine di evitare che la vastità della materia trattata induca ad esulare dai confini tracciati dall’ordinanza di rimessione.
4. Va in primo luogo osservato che la vicenda per cui è causa resta pacificamente governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005.
Non rilevano, quindi, ai fini della presente decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015.
Tale disposizione non provvede che per il futuro, sicché dalla stessa non possono essere tratti elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo.
Giova, d’altra parte, rilevare che, la novella del 2015 mira, attraverso la fissazione di un termine di diciotto mesi, alla predeterminazione legale della nozione di ragionevolezza del termine per l'annullamento in autotutela; nessuno specifico e novativo riferimento la nuova disciplina contiene, invece, in relazione alla questione della motivazione del provvedimento di autotutela, limitandosi la novella a richiamare, come già la disciplina previgente, la necessità di tener conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati del provvedimento oggetto del potere di autotutela.
5. Si osserva in secondo luogo (e al fine di sgombrare preventivamente il campo da possibili profili di confusione) che la presente decisione –per come delimitata nel suo ambito oggettivo dall’ordinanza di rimessione– attiene in particolare alla determinazione del quantum di onere motivazionale che grava sull’amministrazione al fine di rappresentare correttamente la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per il legittimo esercizio del potere di autotutela.
6. Si osserva in terzo luogo che non viene qui in rilievo, l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia (doverosamente, sia pure tardivamente) adottato un ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
E’ evidente infatti che in tale ipotesi non vengano in rilievo neppure ai fini motivazionali, le categorie tipiche dell’autotutela decisoria, quanto –piuttosto– il diverso tema del tardivo esercizio di un’attività repressiva che è e resta doverosa indipendentemente dal decorso del tempo e dalla valutazione dei diversi interessi in gioco.
Ciò che qui viene in rilievo è invece la diversa ipotesi in cui l’amministrazione dapprima rilasci un titolo in sanatoria a fronte di un’edificazione abusiva e poi, decorso un apprezzabile lasso di tempo, si avveda dell’illegittimità del titolo in sanatoria a suo tempo rilasciato e ravvisi i presupposti per disporne l’annullamento d’ufficio.
7. Tanto premesso in via generale, si osserva che l’ordinanza di rimessione ha richiamato in modo sintetico ma puntuale gli argomenti essenziali che sostengono le due principali tesi attualmente in campo.
7.1. In base a un primo orientamento, allo stato maggioritario,
l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V, 08.11.2012, n. 5691).
I fautori di tale tesi ritengono in particolare che
non gravi in capo all’amministrazione un particolare onere motivazionale –ovvero l’obbligo di valutare i diversi interessi in campo– laddove l’illegittimità del titolo in sanatoria sia stata determinata da una falsa rappresentazione dei fatti e dello stato dei luoghi imputabile al beneficiario del titolo in sanatoria (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 27.08.2012, n. 4619).
In tali ipotesi
risulterebbe anzi inconferente lo stesso richiamo alla disciplina di cui agli articoli 21-octies e 21-nonies della l. 241 del 1990 poiché è proprio la falsa rappresentazione dei fatti rilevanti a rendere vincolata l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (ivi).
In base a tale prospettazione,
uno specifico onere motivazionale a sostegno dell’autotutela può essere imposto all’amministrazione soltanto laddove l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione imputabili alla stessa amministrazione (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5691 del 2012, cit.).
7.2. In base a un secondo orientamento (più recente e allo stato minoritario),
anche nel caso di annullamento ex officio di titoli edilizi in sanatoria dovrebbero trovare integrale applicazione i generali presupposti legali di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, non potendo l’amministrazione fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio postula l’apprezzamento di un presupposto –per così dire– ‘rigido’ (l’illegittimità dell’atto da annullare) e di due ulteriori presupposti riferiti a concetti indeterminati, da apprezzare discrezionalmente dall’amministrazione (si tratta della ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e dell’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari –Cons. Stato, VI, 27.01.2017, n. 341-).
In base all’orientamento in parola,
il fondamento di tali ulteriori presupposti va individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del giusto equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell’assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.
La richiamata sentenza n. 341 del 2017
ha altresì affermato il generale obbligo per l’amministrazione la quale intenda procedere all’annullamento ex officio di un provvedimento di sanatoria di opere abusive di operare un motivato bilanciamento fra (da un lato) l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e (dall’altro) l’interesse dei destinatari al mantenimento dello status quo ante (interesse viepiù rafforzato dall’affidamento legittimo determinato dall’adozione dell’atto e dal decorso del tempo).
La decisione in parola ha inoltre stabilito che
la motivata ponderazione fra i diversi interessi in gioco risulti tanto più necessaria nel caso di atti di ritiro di titoli edilizi, i quali sono destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto ampliativo, palesando una scelta legislativa volta a riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto i cui effetti si sono ormai prodotti in via definitiva.
8. Tanto premesso dal punto di vista generale, il Collegio ritiene di esaminare la questione sottoposta secondo una precisa sequenza logico-sistematica:
   - in primo luogo occorrerà domandarsi se l’annullamento ex officio di un titolo edilizio in sanatoria presupponga –sulla base di generali principi trasfusi nella previsione dell’articolo 21-nonies, cit.– la motivata valutazione dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, anche alla luce degli interessi dei destinatari alla permanenza di effetti di tale titolo, ovvero se in tale particolare materia possa affermarsi la non necessità di un siffatto onere motivazionale, sussistendo un interesse pubblico in re ipsa al ripristino dell’ordine giuridico violato;
   - in secondo luogo (e laddove si considerino applicabili al caso che ne occupa le generali categorie di cui all’articolo 21-nonies, cit.) ci si domanderà se il decorso di un considerevole lasso di tempo possa incidere in radice sul potere di annullamento d’ufficio e quale sia il corretto dies a quo per l’individuazione del termine ‘ragionevole’ di esercizio di tale potere;
   - in terzo luogo (e sempre laddove si considerino applicabili al caso in esame le richiamate, generali categorie) ci si domanderà se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati;
   - in quarto luogo ci si domanderà se la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole consenta comunque di configurare in capo a lui una posizione di affidamento incolpevole e se (in caso negativo) l’amministrazione possa adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento in base al mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione.
9. Ebbene, prendendo le mosse dal primo dei richiamati quesiti,
questa Adunanza plenaria ritiene che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti.
Conseguentemente,
grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti.
9.1. Non si tratta qui di negare l’evidente esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno dell’abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con strumenti efficaci e tempestivi e con la piena consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale (quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio, nonché la tutela della pubblica incolumità).
Occorre tuttavia responsabilizzare le amministrazioni all’adozione di un contegno chiaro e lineare, tendenzialmente fondato sullo scrupoloso esame delle pratiche di sanatoria o comunque di permesso di costruire già rilasciato, e sul diniego ex ante di istanze che si rivelino infondate, nonché sull’obbligo di serbare –in caso di provvedimenti di sanatoria già rilasciati– un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui.
Se infatti è certamente condivisibile l’intento di agevolare le amministrazioni nel contrastare anche ex post l’abusivismo edilizio (consentendo loro di motivare anche in modo sintetico in ordine alla prevalenza delle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento dei provvedimenti di sanatoria illegittimamente concessi), non emergono invece argomenti che legittimino la sostanziale de-responsabilizzazione delle amministrazioni stesse attraverso una radicale e indistinta esenzione dal generale obbligo di motivazione.
Si osserva al riguardo che l’incondizionata adesione alla (pur suggestiva) formula dell’interesse pubblico in re ipsa può produrre effetti distorsivi, consentendo in ipotesi-limite all’amministrazione -la quale abbia comunque errato nel rilascio di una sanatoria illegittima– dapprima di restare inerte anche per un lungo lasso di tempo e poi di adottare un provvedimento di ritiro privo di alcuna motivazione, in tal modo restando pienamente de-responsabilizzata nonostante una triplice violazione dei principi di corretta gestione della cosa pubblica.
Si osserva inoltre che, nel corso del tempo, la richiamata formula dell’interesse pubblico in re ipsa ha assunto talora una connotazione assiologica, inducendo ad annettere un valore in sé all’annullamento del titolo in sanatoria illegittimo, perfino se fondato su profili di illegittimità di carattere meramente formale o procedimentale.
Ma il punto è che, in siffatte ipotesi, non è predicabile un effettivo ed immanente interesse pubblico alla rimozione di un atto (la sanatoria illegittima) che non si pone in contrasto in termini sostanziali con la pertinente disciplina edilizia e urbanistica (e quindi con il complesso di valori cui tale disciplina presiede), ma risulta viziato soltanto in relazione ad aspetti formali o procedimentali, non giustificando in definitiva –e pure in presenza di un atto illegittimo– il riconoscimento di un interesse pubblico in re ipsa all’adozione dell’atto di ritiro.
Si tratta, del resto, di un aspetto che è stato in tempi recenti puntualmente preso in considerazione dal Legislatore il quale ha escluso che l’annullamento ex officio di un atto illegittimo possa essere disposto nel caso delle illegittimità cc.dd. non invalidanti di cui al comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (in tal senso la modifica al comma 2 dell’articolo 21-nonies, cit., disposta dall’articolo 25 , comma 2, lettera b-quater), del decreto-legge 12.09.2014, n. 133).
9.2. Sempre restando sugli argomenti desumibili dal diritto positivo, è rilevante osservare che il legislatore ha in tempi recenti espunto dall’ordinamento la disposizione che rappresentava il più evidente richiamo alla nozione di interesse pubblico in re ipsa.
In particolare, è noto che il comma 2 dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124 ha espressamente abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della l. 30.12.2004, n. 311 (il quale consentiva in ogni tempo alle amministrazioni pubbliche di disporre l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi fosse ancora in corso, a condizione che tale annullamento mirasse “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari”).
9.3. Si osserva poi che il riconoscimento di un interesse pubblico al ripristino della legalità violata (la cui sussistenza è di intuitiva evidenza, anche a notevole distanza di tempo dall’originaria adozione dell’atto) non sta necessariamente a significare che tale interesse sia l’unico fattore idoneo a orientare le scelte discrezionali dell’amministrazione in caso di risalenti violazioni in materia urbanistica, sì da esonerare in radice l’amministrazione da qualunque motivata valutazione in ordine ad ulteriori fattori e circostanze rilevanti.
Si intende con ciò rappresentare che la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione di un atto amministrativo illegittimo (anche a prescindere dal ricorso alla formula dell’interesse in re ipsa) è oggettivamente connaturata alla rilevata sussistenza di una situazione antigiuridica.
Ma ciò non sta a significare che il riconoscimento di un tale interesse (peraltro, espressamente richiamato dal comma 1 del più volte richiamato articolo 21-nonies) comporti di per sé la pretermissione di ogni altra circostanza rilevante (come gli interessi dei destinatari dell’atto, di cui la disposizione chiede espressamente di tener conto) ed esoneri l’amministrazione da qualunque –seppur succintamente motivata- valutazione sul punto.
Una cosa è infatti la tendenziale prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico rispetto agli altri interessi rilevanti; ben altra cosa è la radicale pretermissione, anche ai fini motivazionali, di tali ulteriori circostanze attraverso una loro innaturale espunzione dalla fattispecie (e tanto, in distonia con la generale previsione di cui all’articolo 21-nonies, cit. il quale –con previsione applicabile anche al settore che ne occupa- impone al contrario una considerazione degli elementi sopra indicati).
9.4. Si osserva ancora che la tesi dell’interesse pubblico in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo presenta rilevanti quanto evidenti aspetti di contiguità sistematica con la teorica dell’inconsumabilità del potere (o di quella che un risalente orientamento ebbe a definire “la perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi” –in tal senso: Cons. Stato, II, 07.06.1995, n. 2917/94-).
Ma è altresì evidente che quella teorica (predicabile senza riserve in periodi caratterizzati dalla prevalenza del momento autoritativo nei rapporti fra amministrazione e cittadino e dal sostanziale privilegio riconosciuto all’amministrazione in sede di esercizio dell’autotutela) debba essere almeno in parte rimeditata nell’attuale fase di evoluzione di sistema, che postula una sempre maggiore attenzione al valore della certezza delle situazioni giuridiche e alla tendenziale attenuazione dei privilegi riconosciuti all’amministrazione, anche quando agisce con poteri squisitamente autoritativi e nel perseguimento di primarie finalità di interesse pubblico.
Si osserva inoltre che, laddove si aderisse senza riserve alla tesi dell’interesse pubblico in re ipsa (e conseguentemente alla teorica dell’inconsumabilità del relativo potere), si finirebbe per legittimare nel settore che qui rileva –e in assenza di un solido fondamento normativo– un assetto in tema di presupposti per l’esercizio dell’autotutela decisoria tale da espungere in via ermeneutica due elementi normativamente indefettibili quali la ragionevolezza del termine e la motivata valutazione dei diversi interessi in gioco.
Si osserva infine che, a ben vedere, la teorica dell’interesse in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo, laddove condivisa, finirebbe per rendere nei fatti vincolato l’esercizio del potere di autotutela che un consolidato orientamento giurisprudenziale (prima) e un’espressa previsione di legge (poi) hanno delineato come tipico potere discrezionale dell’amministrazione.
Ed infatti, una volta affermata la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa al ripristino della legittimità violata, non residuerebbero in alcun caso effettivi spazi per l’amministrazione per non esercitare il proprio ius poenitendi attraverso l’annullamento d’ufficio. L’amministrazione non potrebbe valutare a tal fine né il decorso del tempo (inidoneo, nell’ottica in esame, ad attenuare la prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino), né la sussistenza di un interesse pubblico in senso contrario (il quale sarebbe per definizione insussistente, a meno di voler determinare un vero e proprio ossimoro), né –infine– l’interesse del privato destinatario dell’atto, che non potrebbe in alcun caso essere valorizzato neppure nell’ottica del legittimo affidamento.
9.5. E’ necessario riconoscere che il Legislatore (pur consapevole della gravità e diffusività del fenomeno dell’abusivismo edilizio e della frequente inadeguatezza delle risorse messe in campo dalle amministrazioni locali per fronteggiarlo) non ha tutt’oggi approntato una speciale disciplina in tema di presupposti e condizioni per l’adozione dell’annullamento ex officio di titoli edilizi, in tal modo giustificando un orientamento volto a riconoscere anche in tali ipotesi la generale valenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990.
Invero, il Legislatore ha talora disciplinato in modo peculiare le ipotesi di c.d. ‘illegittimità sopravvenuta’ dell’intervento edilizio (in particolare, nel caso di annullamento ex officio o in sede giurisdizionale di un titolo edilizio ab origine sussistente), fissando peraltro un apparato sanzionatorio tendenzialmente meno afflittivo di quello previsto per le ipotesi di interventi ab origine abusivi (in tal senso l’articolo 38 del d.P.R. 06.062001, n. 380, il quale corrisponde in larga parte alle pregresse previsioni dell’articolo 15 della l. 28.01.1977, n. 10 e dell’articolo 11 della l. 28.02.1985, n. 47).
Tuttavia, anche in tali ipotesi il Legislatore si è limitato a disciplinare in modo puntuale le sole conseguenze dell’annullamento del titolo edilizio, ma non anche i relativi presupposti, condizioni e modalità, che restano quindi assoggettati (per quanto riguarda l’annullamento d’ufficio) alla disciplina generale di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, ivi compresi i profili motivazionali.
9.6. Concludendo sul punto, si osserva che,
per le vicende sorte nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005-, l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio anche in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro, tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole, non potendosi predicare in via generale la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione in autotutela di tale atto.
10. E’ ora possibile passare alla disamina del
secondo dei quesiti sub 8 al fine di stabilire se, pur in assenza di puntuali prescrizioni di legge che dispongano in tal senso, il decorso di un considerevole lasso di tempo possa incidere significativamente sul potere di annullamento d’ufficio e quale sia il corretto dies a quo per l’individuazione del termine ‘ragionevole’ di esercizio di tale potere.
10.1. Esaminando la questione nei suoi aspetti generali e sistematici, è innegabile che, anche nel diritto amministrativo, il tempo venga in rilievo -tanto nelle sue singole frazioni, tanto nel suo continuo trascorrere– determinando la costituzione, la modificazione e l’estinzione di situazioni giuridiche.
Secondo un consolidato orientamento, infatti, il tempo rientra nella categoria dei fatti giuridici oggettivi ed è idoneo a sortire i propri effetti sui rapporti giuridici (anche di matrice pubblicistica) indipendentemente dall’atteggiamento psicologico dei soggetti interessati.
L’incidenza del decorso del tempo nei rapporti di diritto pubblico opera tanto sul versante dei poteri esercitabili dall’amministrazione, quanto su quello delle posizioni giuridiche riconosciute ai privati.
Per quanto riguarda il primo aspetto ci si limiterà qui a richiamare le previsioni normative che connettono a carico dell’amministrazione un effetto decadenziale quale conseguenza del mancato esercizio del potere entro un torno temporale normativamente stabilito: si pensi ai termini –perentori– per l’avvio e la conclusione dei procedimenti sanzionatori amministrativi.
Si pensi altresì al rilievo che il decorso del tempo sortisce sul potere di provvedere nelle ipotesi legali di silenzio significativo e all’invalidità che colpisce il provvedimento tardivamente adottato rispetto ai termini in parola.
Per quanto riguarda poi l’incidenza del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche dei privati nei rapporti di diritto pubblico basterà qui richiamare la tradizionale ipotesi della decadenza per decorso del tempo quale conseguenza del mancato esercizio delle facoltà inerenti ad un rapporto derivante da un provvedimento amministrativo (si pensi al caso della decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto dei termini legali per l’inizio dei lavori e per il completamento dell’opera).
Si pensi inoltre alla previsione di cui all’articolo 2934, primo comma del cod. civ. (secondo cui “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”), la quale trova applicazione anche nei rapporti con la pubblica amministrazione.
D’altro canto, è innegabile che la particolare configurazione dell’ordinamento pubblicistico nazionale riconosca taluni temperamenti al generale principio della consumabilità delle posizioni giuridiche per effetto del decorso del tempo.
Basti richiamare al riguardo la previsione, in ambito pubblicistico, di numerosi diritti indisponibili, ai quali è connesso il carattere della imprescrittibilità ai sensi dell’articolo 2934, cpv. cod. civ. (si pensi al carattere di imprescrittibilità dei diritti sui beni sottoposti al regime demaniale).
10.2. Occorre a questo punto esaminare in che modo il principio della modificabilità delle posizioni giuridiche per effetto del decorso del tempo (e i relativi temperamenti in ambito amministrativo) siano stati declinati nel settore –che qui viene in rilievo– dell’esercizio dell’autotutela decisoria da parte dell’amministrazione.
10.3. Si è già ricordato al riguardo che un pregresso quanto risalente orientamento predicava la sostanziale perennità della potestà amministrativa di annullare in autotutela gli atti invalidi.
La successiva evoluzione dell’ordinamento pubblicistico si è mossa in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi dall’esplicazione del potere di autotutela e, prima ancora che la l. 15 del 2005 legificasse le principali acquisizioni in materia, la giurisprudenza amministrativa aveva già temperato il richiamato principio di perennità predicando invece la necessità che l’annullamento e la revoca intervenissero entro un termine ragionevole (sul punto –ex multis-: Cons. Stato, VI, 15.11.1999, n. 1812; id., V, 20.08.1996, n. 939).
Il richiamo alla ragionevolezza del termine, tuttavia, non stava a significare che il decorso di un lasso temporale particolarmente ampio consumasse in via definitiva il potere di riesame da parte dell’amministrazione, quanto –piuttosto– che tale circostanza imponesse una valutazione via via più accorta fra l’interesse pubblico al ritiro dell’atto illegittimo e il complesso delle altre circostanze e interessi rilevanti (e, in primis, quello del destinatario del provvedimento illegittimo – in ipotesi a lui favorevole il quale maturava, per effetto del decorso del tempo, un affidamento legittimo alla permanenza dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento medesimo).
In definitiva, l’evoluzione dell’ordinamento pubblicistico ha comportato che il decorso del tempo condizioni in modo rilevante le modalità di esercizio del potere di autotutela.
10.4. Ciò non esclude, proprio nella materia che ne occupa, che esistano disposizioni che testimoniano la possibilità per l’amministrazione di disporre l’annullamento del titolo edilizio anche dopo un apprezzabile lasso di tempo dall’adozione del titolo medesimo.
Ci si riferisce in particolare all’articolo 39 del d.P.R. 380 del 2001 che consente alla Regione di annullare entro dieci anni “le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano interventi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione” (è qui appena il caso di osservare che il più risalente antecedente storico di tale previsione –l’articolo 27 della l. 17.08.1942, n. 1150– riconosceva tale potere di annullamento “in qualunque tempo”).
Un condiviso orientamento ha al riguardo peraltro chiarito che il potere in questione non è ascrivibile al novero delle attività di controllo, rappresentando –piuttosto– puntuale espressione del ruolo partecipativo della Regione nella complessiva azione di governo del territorio.
10.5. Deve quindi concludersi nel senso che, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale.
10.6. La locuzione ‘termine ragionevole’ richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie.
Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
In particolare,
in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità.
Si tratta del resto (e ai limitati fini che qui rilevano) di un’impostazione del tutto coerente con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 21-nonies, cit. (per come introdotto con la novella del 2015), secondo cui “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (si osserva anzi che la nuova disposizione neppure richiama per tali ipotesi la nozione di ragionevolezza del termine, limitandosi a stabilire che in tali casi l’annullamento possa essere disposto dopo la scadenza del generale termine di diciotto mesi).
11. E’ ora possibile passare all’esame del
terzo dei quesiti dinanzi richiamati sub 8 e domandarsi se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati.
Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo alla luce della pregnanza degli interessi pubblici sottesi alla disciplina in materia edilizia e alla prevalenza che deve essere riconosciuta ai valori che essa mira a tutelare.
Vero è infatti che –per le ragioni dinanzi esposte– il decorso del tempo onera l’amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela di un titolo edilizio illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. E’ parimenti vero, però, che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica.
Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo edilizio illegittimamente rilasciato in area interessata da un vincolo di inedificabilità assoluta o caratterizzata da un grave rischio sismico: in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie.
Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere –per così dire– ‘autoevidente’), l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi.
Non pare quindi condivisibile la tesi (talora affermata dalla giurisprudenza anche di questo Consiglio) secondo cui, anche in sede di motivazione dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai prodotti in via definitiva.
11.1. Si osserva inoltre che
l’onere motivazionale richiesto all’amministrazione in sede di adozione dell’atto di ritiro risulterà altresì agevolato nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo
Se infatti è vero in via generale che il potere della P.A. di annullare in via di autotutela un atto amministrativo illegittimo incontra un limite generale nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’iniziale adozione dell’atto (i quali plasmano il conseguente obbligo motivazionale), è parimenti vero che le medesime esigenze di tutela non possono dirsi sussistenti qualora il contegno del privato abbia consapevolmente determinato una situazione di affidamento non legittimo. In tali casi l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dal soggetto interessato, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico.

12. Le considerazioni appena svolte consentono di passare all’esame della
quarta delle questioni dinanzi richiamate (se, cioè, la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole consentano comunque di configurare in capo a lui una posizione di affidamento incolpevole e se -in caso negativo- l’amministrazione possa adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione).
Al primo di tali quesiti deve essere fornita risposta negativa, non potendosi affermare (per le ragioni già esposte sub 11.1) la sussistenza di un affidamento legittimo e incolpevole al mantenimento dello status quo ante in capo al soggetto il quale abbia determinato, attraverso la non veritiera prospettazione delle circostanze rilevanti, l’adozione di un atto illegittimo a lui favorevole.
Né può deporre in favore del maturare di uno stato di affidamento incolpevole il contegno negligente ed erroneo dell’amministrazione la quale non abbia tempestivamente rilevato l’oggettiva falsità delle circostanze rappresentate.
12.1. La giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio –anche in sanatoria– rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (in tal senso: Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198; id., V, 13.05.2014, n. 2451).
12.2. La giurisprudenza di questo Consiglio ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, VI, 27.09.2016, n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione.
In tali ipotesi (e per le ragioni già esposte retro, sub 11 e 11.1) l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale),
l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata.
13. In conclusione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “
nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005- l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
”.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 5 del D.lgs. 33/2013, modificato dal D.lgs. 97/2016, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’accesso civico a dati e documenti. Risulta utile riportare il testo della disposizione, in particolare i commi 1 e 2.
Le fattispecie di cui al comma 1 e al comma 2 dell’art. 5 sono diverse: mentre il comma 1 riguarda documenti, informazioni o dati per i quali è previsto l’obbligo normativo della pubblicazione, il comma 2 invece riguarda dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto. La distinzione riguarda l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto, ma non quello soggettivo, potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso civico, di cui al primo comma, sia quello c.d. generalizzato, di cui al secondo comma.
L’accesso generalizzato –introdotto dal D.lgs. n. 97/2016– ha la sua ratio nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Posta questa finalità, l’istituto, che costituisce uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della partecipazione degli interessati all’attività amministrativa (cfr. art. 1 D.lgs. 33/2013, come modificato dall’art. 2 D.lgs. 97/2016), non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione.
La valutazione dell’utilizzo secondo buona fede va operata caso per caso, al fine di garantire –in un delicato bilanciamento  che, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo stesso non determini una sorta di effetto “boomerang” sull’efficienza dell’Amministrazione.
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Nel caso di specie l’istanza di accesso di cui è causa, volta ad ottenere “tutte le determinazioni complete degli allegati emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i responsabili dei servizi nell’anno 2016” costituisce una manifestazione sovrabbondante, pervasiva e, in ultima analisi, contraria a buona fede dell’istituto dell’accesso generalizzato.
Non è passibile di censura, ad avviso del Collegio, la motivazione del diniego espressa dal Comune laddove ha ritenuto di rinvenire nell’istanza del ricorrente un’ipotesi di “richiesta massiva”, così come definita dalle Linee Guida adottate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) con determinazione 28.12.2016 n. 1309, che impone un facere straordinario, capace di aggravare l’ordinaria attività dell’Amministrazione.
La richiesta di tutte le determinazioni di tutti i responsabili dei servizi del Comune assunte nel 2016 implica necessariamente l’apertura di innumerevoli subprocedimenti volti a coinvolgere i soggetti controinteressati.
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Sotto un profilo generale il Collegio ritiene debba essere richiamato il principio di buona fede e del correlato divieto di abuso del diritto.
Il dovere di buona fede, previsto dall'art. 1175 del c.c., alla luce del parametro di solidarietà, sancito dall'art. 2 della Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, si pone, secondo i più recenti approdi di dottrina e giurisprudenza, non più solo come criterio per valutare la condotta delle parti nell'ambito dei rapporti obbligatori, ma anche come canone per individuare un limite alle richieste e ai poteri dei titolari di diritti, anche sul piano della loro tutela processuale.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che l’abuso del diritto si configura in presenza dei seguenti elementi costitutivi: “…1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte”.
Alla luce di tali principi, il Collegio è dell’avviso che l’istanza del ricorrente –anche tenuto conto delle precedenti istanze e di quelle successive– costituisca un abuso dell’istituto, in quanto irragionevole e sovrabbondante. Va peraltro osservato che ciò che le Linee Guida dell’ANAC (ndr: determinazione 28.12.2016 n. 1309) qualifica come “richieste massive”, e che giustifica, con adeguata motivazione, il rigetto dell’istanza, altro non è che la declinazione del principio di divieto di abuso del diritto e di violazione del principio di buona fede.
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   I) Con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente espone di aver presentato al Comune di Broni in data 01.03.2017 istanza di accesso civico tesa ad ottenere copia su supporto informatico «di tutte le determinazioni complete degli allegati emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i Responsabili dei servizi nell’anno 2016», in quanto non pubblicate integralmente dal Comune di Broni.
Il Comune di Broni con la nota prot. n. 4184 del 06.03.2017, pervenuta al ricorrente in data 10.03.2017, chiedeva di specificare se l’istanza sostanziasse un accesso civico “semplice", ai sensi del comma 1 dell’art. 5 del D.lgs. 33/2013, ovvero un accesso "generalizzato" ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
Il ricorrente, con successiva nota e diffida ad adempiere, ricevuta dal Comune di Broni in data 13.03.2017, precisava che l’istanza di accesso civico era formulata ai sensi del comma 2 dell’art. 5 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
Il Comune di Broni con nota prot. n. 5013 del 20.03.2017 comunicava il preavviso di diniego in quanto, essendo l’istanza formulata ai sensi del comma 2 dell’art. 5, la stessa era da considerarsi “massiva” e manifestamente irragionevole secondo le Linee Guida approvate dall’ANAC.
Il ricorrente, con la successiva nota di osservazioni e diffida ad adempiere del 27.03.2017, formulava le proprie controdeduzioni.
Indi il Comune di Broni con nota prot. n. 5853 del 03.04.2017 comunicava il diniego definitivo.
Il ricorrente formulava richiesta di riesame con nota del 10.04.2017.
Il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza del Comune di Broni, sentito il Garante per la protezione dei dati personali (ndr: provvedimento 27.04.2017 n. 206), ai sensi dell’art. 5, comma 7, del D.lgs. 33/2013, respingeva la richiesta di riesame confermando il diniego definitivo con atto prot. n. 7396 del 02.05.2017.
Avverso i predetti atti l’interessato proponeva, ai sensi dell’art. 116 c.p.a., il ricorso indicato in epigrafe.
Si costituiva in giudizio il Comune di Broni resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto.
Alla camera di consiglio del 12.09.2017 la causa è stata chiamata e trattenuta in decisione.
...
   III) Nel merito il ricorso è infondato e va respinto.
Il ricorrente, dopo aver presentato al Comune di Broni in data 01.03.2017 istanza di accesso civico, volta ad ottenere “tutte le determinazioni complete degli allegati emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i responsabili dei servizi nell’anno 2016, non pubblicate in modo integrale” ha precisato con la nota del 13.03.2017 che la precedente istanza di accesso civico era formulata ai sensi del comma 2 dell’art. 5 del D.lgs. n. 33/2013.
Va premesso che l’art. 5 del D.lgs. 33/2013, modificato dal D.lgs. 97/2016, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’accesso civico a dati e documenti. Risulta utile riportare il testo della disposizione, in particolare i commi 1 e 2: “1. L'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis
”.
Le fattispecie di cui al comma 1 e al comma 2 dell’art. 5 sono diverse: mentre il comma 1 riguarda documenti, informazioni o dati per i quali è previsto l’obbligo normativo della pubblicazione, il comma 2 invece riguarda dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto. La distinzione riguarda l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto, ma non quello soggettivo, potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso civico, di cui al primo comma, sia quello c.d. generalizzato, di cui al secondo comma.
L’accesso generalizzato –introdotto dal D.lgs. n. 97/2016– ha la sua ratio nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Posta questa finalità, l’istituto, che costituisce uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della partecipazione degli interessati all’attività amministrativa (cfr. art. 1 D.lgs. 33/2013, come modificato dall’art. 2 D.lgs. 97/2016), non può, ad avviso del Collegio, essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione. La valutazione dell’utilizzo secondo buona fede va operata caso per caso, al fine di garantire –in un delicato bilanciamento  che, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo stesso non determini una sorta di effetto “boomerang” sull’efficienza dell’Amministrazione.
Ora, nel caso di specie l’istanza di accesso di cui è causa, volta ad ottenere “tutte le determinazioni complete degli allegati emanate nel corso dell’anno 2016 da tutti i responsabili dei servizi nell’anno 2016” –cui peraltro hanno fatto seguito due ulteriori istanze volte ad ottenere tutte le determinazioni di tutti i Settori dell’Ente emanate nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, queste ultime non oggetto del presente giudizio– costituisce una manifestazione sovrabbondante, pervasiva e, in ultima analisi, contraria a buona fede dell’istituto dell’accesso generalizzato.
Non è passibile di censura, ad avviso del Collegio, la motivazione del diniego espressa dal Comune di Broni (affidata a ben quattro pagine di argomentazioni), laddove ha ritenuto di rinvenire nell’istanza del ricorrente un’ipotesi di “richiesta massiva”, così come definita dalle Linee Guida adottate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) con determinazione 28.12.2016 n. 1309, che impone un facere straordinario, capace di aggravare l’ordinaria attività dell’Amministrazione.
La richiesta di tutte le determinazioni di tutti i responsabili dei servizi del Comune assunte nel 2016 implica necessariamente l’apertura di innumerevoli subprocedimenti volti a coinvolgere i soggetti controinteressati.
Non può essere poi trascurata una circostanza di fatto riferita dalla difesa dell’Amministrazione e non contestata dal ricorrente: dal novembre 2015 all’agosto 2017 l’odierno ricorrente ha rivolto al Comune 73 richieste di accesso.
Sotto un profilo generale il Collegio ritiene debba essere richiamato il principio di buona fede e del correlato divieto di abuso del diritto. Il dovere di buona fede, previsto dall'art. 1175 del c.c., alla luce del parametro di solidarietà, sancito dall'art. 2 della Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, si pone, secondo i più recenti approdi di dottrina e giurisprudenza, non più solo come criterio per valutare la condotta delle parti nell'ambito dei rapporti obbligatori, ma anche come canone per individuare un limite alle richieste e ai poteri dei titolari di diritti, anche sul piano della loro tutela processuale.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che l’abuso del diritto si configura in presenza dei seguenti elementi costitutivi: “…1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V 07.02.2012, n. 656).
Alla luce di tali principi, il Collegio è dell’avviso che l’istanza del ricorrente –anche tenuto conto delle precedenti istanze e di quelle successive– costituisca un abuso dell’istituto, in quanto irragionevole e sovrabbondante. Va peraltro osservato che ciò che le Linee Guida dell’ANAC (ndr: determinazione 28.12.2016 n. 1309) qualifica come “richieste massive”, e che giustifica, con adeguata motivazione, il rigetto dell’istanza, altro non è che la declinazione del principio di divieto di abuso del diritto e di violazione del principio di buona fede.
Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2017 n. 1951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Limiti all’accesso generalizzato.
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Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Finalità – Intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione – Esclusione.
L’istituto dell’accesso generalizzato, introdotto dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che ha modificato il comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla finalità per la quale è stato introdotto nell’ordinamento (id est, favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico) ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’Amministrazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che le fattispecie di cui al comma 1 e al comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14.03.2013, n. 33 sono diverse: mentre il comma 1 riguarda documenti, informazioni o dati per i quali è previsto l’obbligo normativo della pubblicazione, il comma 2 riguarda invece dati e documenti detenuti dalle Pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto.
La distinzione riguarda l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto, ma non quello soggettivo, potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso civico, di cui al comma 1, sia quello c.d. generalizzato, di cui al comma 2.
L’accesso generalizzato –introdotto dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97– ha la sua ratio nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Ad avviso del Tar, posta questa finalità, l’istituto, che costituisce uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della partecipazione degli interessati all’attività amministrativa (cfr. art. 1, d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dall’art. 2, d.lgs. n. 97 del 2016), non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione.
La valutazione dell’utilizzo secondo buona fede va operata caso per caso, al fine di garantire –in un delicato bilanciamento– che, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo stesso non determini una sorta di effetto “boomerang” sull’efficienza dell’Amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2017 n. 1951 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIL'accesso costituisce oggetto di un diritto soggettivo di cui il giudice amministrativo conosce in sede di giurisdizione esclusiva.
Più puntualmente, tale giudizio "ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso, più che la verifica della sussistenza o meno dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo. Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (art. 116 comma 4, c.p.a.).
Questo implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati nel provvedimento amministrativo
”.
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Qualora l'istanza di accesso sia formulata dal difensore, è necessario o che la stessa sia sottoscritta anche dal diretto interessato (e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza), ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, il quale acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato.
In mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio, invece, l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il successivo ricorso giurisdizionale.
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Così ricostruito il contraddittorio processuale, è possibile considerare nel merito come l'accesso costituisca oggetto di un diritto soggettivo di cui il giudice amministrativo conosce in sede di giurisdizione esclusiva.
Più puntualmente, tale giudizio "ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso, più che la verifica della sussistenza o meno dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo. Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (art. 116, comma 4, c.p.a.). Questo implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati nel provvedimento amministrativo” (cfr. C.d.S., VI, 12.01.2011, n. 117 e 26.07.2012, n. 4261).
Nella specie, ha osservato l’Ar. 118 nelle proprie difese che l’istanza di accesso, peraltro formulata ai sensi degli artt. 327-bis e 319-bis c.p.p. e non per un accesso amministrativo, fosse stata presentata in carenza di legittimazione del legale che l’aveva sottoscritta in via esclusiva per conto del ricorrente, non essendo stato neppure documentalmente identificato quest’ultimo e in assenza di alcuna autenticità del documento o della delega che, infatti, neppure risulta allegata all’atto versato nell’odierno giudizio.
Occorre considerare in proposito come, qualora l'istanza di accesso sia formulata dal difensore, è necessario o che la stessa sia sottoscritta anche dal diretto interessato (e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza), ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, il quale acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato; in mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio, invece, l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il successivo ricorso giurisdizionale (cfr. Tar Campania, Napoli, VI, 18.02.2016, n. 907) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 12.10.2017 n. 10317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl funzionario che riceve la richiesta di ostensione deve essere posto in condizioni di poter accertare con sicurezza l'imputazione della stessa al fine di poter verificare la sussistenza dell’interesse all’ostensione; pertanto l'istanza deve provenire dal diretto interessato o da soggetto che possa spenderne il nome.
In caso contrario, ossia di istanza di accesso proveniente come nella specie da difensore senza mandato, egli dovrebbe porre in essere l’attività necessaria per consentire l’accesso, attraverso il rilascio dei documenti o tramite le pubblicazioni sul sito dell’Amministrazione, anche nelle ipotesi di assenza di ratifica dell’attività posta in essere (richiesta di accesso) senza mandato dal difensore ed anche nelle ipotesi in cui l’interesse all’ostensione da parte del rappresentato si rivelasse poi inesistente.
Pertanto nel caso in cui l’istanza di accesso sia formulata dal difensore è necessario che la stessa o sia sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione.
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Il sig. Ma.Ba. con il ricorso in esame chiede al Tribunale di accertare e dichiarare l’illegittimità dell’omessa pubblicazione, all’interno del link ”amministrazione trasparente” del sito web del Comune di Sant’Antioco, delle informazioni e dei dati meglio descritti in epigrafe, nonché l’illegittimità del diniego implicito che si sarebbe formato sull’istanza di accesso civico indicata in epigrafe; chiede anche il risarcimento dei danni che avrebbe subito per effetto del ritardo nella pubblicazione dei dati.
...
Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa del Comune resistente sul rilievo che la richiesta di pubblicazione sul sito non sarebbe firmata dal ricorrente ma dall’avv. Ma.Ca. in assenza di procura per la sua presentazione.
L’eccezione è fondata.
L’istanza di accesso cui si fa riferimento in ricorso risulta presentata (mediante messaggio di posta elettronica certificata) dall’avv. Ma.Ca., senza che il medesimo avvocato abbia allegato alla stessa il mandato o la procura dell’interessato, in nome e per conto del quale dichiarava di agire; neppure nel presente giudizio è stato dimostrato che il conferimento dei poteri rappresentativi da parte del sig. Ma.Ba. all’avv. Ca. fosse avvenuto al tempo della presentazione dell’istanza di accesso.
Il funzionario che riceve la richiesta di ostensione deve essere posto in condizioni di poter accertare con sicurezza l'imputazione della stessa al fine di poter verificare la sussistenza dell’interesse all’ostensione; pertanto l'istanza deve provenire dal diretto interessato o da soggetto che possa spenderne il nome. In caso contrario, ossia di istanza di accesso proveniente come nella specie da difensore senza mandato, egli dovrebbe porre in essere l’attività necessaria per consentire l’accesso, attraverso il rilascio dei documenti o tramite le pubblicazioni sul sito dell’Amministrazione, anche nelle ipotesi di assenza di ratifica dell’attività posta in essere (richiesta di accesso) senza mandato dal difensore ed anche nelle ipotesi in cui l’interesse all’ostensione da parte del rappresentato si rivelasse poi inesistente.
Pertanto nel caso in cui l’istanza di accesso sia formulata dal difensore è necessario che la stessa o sia sottoscritta anche dal diretto interessato, e in tal caso allo stesso se ne imputa la provenienza, ovvero che l'istanza sia accompagnata dal mandato al difensore, che acquisisce in tal modo il potere di avanzare la stessa in luogo dell'interessato, mentre in mancanza di sottoscrizione congiunta o di atto procuratorio l'istanza deve considerarsi inammissibile e con essa il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione (C.d.S., sez. V, 30.09.2013, n. 4839; C.d.S., Sez. V, 05.09.2006, n. 5116; TAR Campania, Napoli, sez. V, 09.03.2009, n. 1331; TAR Lazio, sez. III, 02.07.2008, n. 6365; TAR Lazio-Latina, Sez. I, 13.11.2007; TAR Napoli, Sez. V, 24.11.2008, n. 19980).
Nell’ambito del riferito orientamento giurisprudenziale rientra anche la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 4844 del 26.09.2014, con la quale è stata ritenuta ammissibile l’istanza presentata dal solo difensore che però in precedenza aveva ottenuto una procura dall’interessato con facoltà di rappresentare e difendere “in ogni stato e grado del procedimento” anche di mediazione, perché ciò “implica la ratifica della diffida ad adempiere e dell’istanza di accesso, atti negoziali propedeutici alla difesa, compiuti in nome e per conto della parte dal difensore, a nulla rilevando che il procedimento di mediazione non sia attivabile o attivato, ma essendo quell’attività extragiudiziale compiuta nel chiaro intento di tutelare gli interessi dell’assistito”.
In sostanza nella fattispecie all’esame del Consiglio di Stato la procura era stata in precedenza rilasciata per gestire un affare di interesse del ricorrente, nella gestione del quale il giudice di Appello ha ritenuto compresa la facoltà di presentare richiesta di conclusione di un procedimento e quindi anche la possibilità di presentare un’istanza di accesso.
La preesistenza della procura, nel caso di specie, come sopra evidenziato, non sussisteva e, dunque, il funzionario del Comune di Sant’Antioco non era tenuto, per le ragioni suesposte, a provvedere sull’istanza presentata dall’Avv. Ca..
In conclusione va dichiarata l’inammissibilità del ricorso avverso il silenzio sulla domanda di accesso e conseguentemente va respinta la domanda di risarcimento danni (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 12.06.2015 n. 860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla debenza del contributo di costruzione parametrato a quanto previsto per le attività commerciali, e non alle attività produttive, relativamente alla costruzione di magazzini per deposito e commercio, ove non siano collegati ad altro stabile adibito all'attività produttiva.
L’art. 19 del DPR 06.06.2001, n. 380, per gli interventi destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi prevede la corresponsione di un contributo pari all’incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche.
Per gli interventi relativi ad attività commerciali e allo svolgimento di servizi prevede la corresponsione di un contributo pari all'incidenza delle opere di urbanizzazione e una quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di costruzione.
La Società ricorrente esercita l’attività di commercio al dettaglio di prodotti alimentari e non nei propri supermercati che svolgono la propria attività in tutto il territorio nazionale e l’intervento edilizio ha ad oggetto un ampliamento per realizzare un grande magazzino di stoccaggio di prodotti finiti in entrata e uscita, e marginalmente di prodotti che vengono confezionati per la vendita, da distribuire ai supermercati.
Ciò premesso il Collegio ritiene che correttamente il Comune ha ritenuto di non applicare il contributo di costruzione previsto per le attività produttive, in quanto l’attività che si svolge nel complesso edilizio è riconducibile ad un segmento di quella commerciale.
Infatti, come è stato osservato da questa stessa Sezione in un caso analogo con argomentazioni dalle quali non vi è motivo di discostarsi, è necessario considerare in primo luogo che l’attività di commercio svolta dalla ricorrente si estende e comprende necessariamente anche la fase ad essa strumentale di deposito e stoccaggio di tali prodotti all’interno del magazzino che costituisce a tutti gli effetti una componente dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata, ed in secondo luogo che “la giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 DPR 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica”.
Ne consegue che “è pertanto da escludere l'applicabilità del trattamento contributivo di favore a magazzini per deposito e commercio, ove non siano collegati ad altro stabile adibito all'attività produttiva”.

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... per l’accertamento della non debenza, in tutto o in parte, delle somme pretese dal Comune a titolo di contributo commisurato al costo di costruzione e a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione primaria quantificate con determinazione prot. n. 5788 del 18.09.2014, con ogni conseguente statuizione ivi compresa la condanna del Comune ex art. 2033 c.c. e alla restituzione delle somme già versate;
...
La Società ricorrente espone di svolgere l’attività di distribuzione di generi alimentari preconfezionati e non preconfezionati, di prodotti per l’igiene e la cura della casa e della persona in numerose strutture di vendita dislocate su tutto il territorio nazionale.
Nel Comune di Belfiore vicino alla propria sede amministrativa in zona territoriale omogenea di tipo D-produttiva, ha realizzato il proprio Centro di distribuzione in un’area in cui lo strumento urbanistico assoggetta l’edificazione alla previa redazione di un piano attuativo, nell’ambito del quale devono essere realizzate le opere di urbanizzazione, il cui valore per la convenzione deve essere scomputato dagli oneri di urbanizzazione.
Il Comune con determinazione prot. n. 5788 del 18.09.2014, ha quantificato in complessivi euro 3.614.440,00 il contributo concessorio dovuto.
Il primo motivo con il quale la Società ricorrente sostiene di non dover pagare il contributo di costruzione parametrato a quanto previsto per le attività commerciali, ma alle attività produttive, è infondato e deve essere respinto.
L’art. 19 del DPR 06.06.2001, n. 380, per gli interventi destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi prevede la corresponsione di un contributo pari all’incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche.
Per gli interventi relativi ad attività commerciali e allo svolgimento di servizi prevede la corresponsione di un contributo pari all'incidenza delle opere di urbanizzazione e una quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di costruzione.
La Società ricorrente esercita l’attività di commercio al dettaglio di prodotti alimentari e non nei propri supermercati che svolgono la propria attività in tutto il territorio nazionale attraverso le insegne “Famila”, “Famila Superstore”, D-Più”, “A&O”, CC Maxigross” e “Cash and Carry” e l’intervento edilizio ha ad oggetto un ampliamento per realizzare un grande magazzino di stoccaggio di prodotti finiti in entrata e uscita, e marginalmente di prodotti che vengono confezionati per la vendita, da distribuire ai supermercati.
Ciò premesso il Collegio ritiene che correttamente il Comune ha ritenuto di non applicare il contributo di costruzione previsto per le attività produttive, in quanto l’attività che si svolge nel complesso edilizio è riconducibile ad un segmento di quella commerciale.
Infatti, come è stato osservato da questa stessa Sezione in un caso analogo con argomentazioni dalle quali non vi è motivo di discostarsi (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 18.12.2014, n. 1537), è necessario considerare in primo luogo che l’attività di commercio svolta dalla ricorrente si estende e comprende necessariamente anche la fase ad essa strumentale di deposito e stoccaggio di tali prodotti all’interno del magazzino che costituisce a tutti gli effetti una componente dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata, ed in secondo luogo che “la giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 DPR 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica (Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n. 1512; cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.02.2002, n. 495)”.
Ne consegue che “è pertanto da escludere l'applicabilità del trattamento contributivo di favore a magazzini per deposito e commercio, ove non siano collegati ad altro stabile adibito all'attività produttiva” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23.04.2014, n. 2044).
Il primo motivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.09.2017 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’articolo 23-ter, comma 2, del dpr n. 380 del 2001, la destinazione d’uso di un’unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile (nel caso di specie, non appare contestato che la superficie prevalente di tale unità immobiliare abbia destinazione artigianale).
Invero, la giurisprudenza ha già chiarito che gli uffici, ove “previsti come accessori all'insediamento industriale localizzato nello stesso immobile, devono qualificarsi come costruzioni destinate esse stesse ad attività industriale, giacché la diversificazione del regime dei contributi edilizi riguarda la complessiva ed unitaria attività imprenditoriale che si svolge in un medesimo immobile o complesso immobiliare e non le singole parti dell'immobile in cui si svolgono le diverse fasi o funzioni nelle quali si articola una medesima attività”.
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- Considerato che la ricorrente impugna il provvedimento comunale di determinazione del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, relativi al permesso di costruire per la realizzazione di un capannone artigianale e annessa area di deposito, e chiede la condanna del Comune resistente alla restituzione di quanto già indebitamente corrisposto a tale titolo.
- Che nella determinazione della tariffa al mq applicabile, il Comune ha considerato lo spazio aperto di detto capannone e il piano primo della costruzione al suo interno come area produttiva, mentre ha considerato il secondo piano della medesima costruzione come avente destinazione direzionale.
- Che, con il ricorso introduttivo, la ricorrente ha dedotto che il costo di costruzione non sarebbe dovuto ai sensi dell’articolo 8 della legge regionale n. 89 del 1998, avendo la struttura destinazione artigianale.
- Che, sempre nel ricorso introduttivo, la ricorrente ha evidenziato che, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, della legge regionale n. 89 del 1998, “Quando in una medesima costruzione coesistono unità immobiliare delle quali alcune hanno destinazione residenziale ed altre destinazione turistica, commerciale, direzionale o artigianale, per ciascuna unità si applica il contributo corrispondente alla sua specifica destinazione d'uso”.
- Che pertanto, a suo avviso, nel caso di specie, non essendovi unità immobiliari autonome ma solo parti di un’unica struttura, non si potrebbero artificiosamente attribuire a esse destinazioni distinte, ricadendo tutte sotto la destinazione prevalente, vale a dire quella artigianale e non quella direzionale.
- Che, inoltre, argomentando dagli articoli 40 del dpr 1142 del 1949 e 36, comma 2, del dpr 917 del 1986, un’unità immobiliare autonoma sarebbe ciascun cespite indipendente, da intendersi come intere costruzioni o parti di esse suscettibili di produrre un reddito autonomo.
- Che, all’udienza del 21.04.2017, la causa è passata in decisione.
- Rilevato che, non appare contestato che il primo piano della costruzione in questione non abbia autonomia funzionale e quindi non possa essere considerato un cespite autonomo, essendo destinato a uffici e zone a servizio delle superfici artigianali, e non suscettibili di utilizzazione autonoma.
- Che, ai sensi dell’articolo 23-ter, comma 2, del dpr n. 380 del 2001, la destinazione d’uso di un’unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile e che, nel caso di specie, non appare contestato che la superficie prevalente di tale unità immobiliare abbia destinazione artigianale.
- Che, difatti, la giurisprudenza ha già chiarito che gli uffici, ove “previsti come accessori all'insediamento industriale localizzato nello stesso immobile, devono qualificarsi come costruzioni destinate esse stesse ad attività industriale, giacché la diversificazione del regime dei contributi edilizi riguarda la complessiva ed unitaria attività imprenditoriale che si svolge in un medesimo immobile o complesso immobiliare e non le singole parti dell'immobile in cui si svolgono le diverse fasi o funzioni nelle quali si articola una medesima attività” (cfr. Tar Milano, sez. II, 11/03/2002, n. 1036).
- Che, pertanto, l’intero immobile nel caso di specie deve essere considerato come destinato ad attività artigianale.
- Rilevato, altresì, che, nelle more del giudizio, l’Amministrazione ha annullato la richiesta di pagamento del costo di costruzione, adottando invece per il contributo di urbanizzazione un provvedimento meramente confermativo, sicché il ricorso può essere dichiarato in parte qua improcedibile per cessazione della materia del contendere.
- Ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato in parte improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere, e in parte fondato, per le ragioni indicate (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 06.06.2017 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, 22.09.2017).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, 12.09.2017).

SICUREZZA LAVORO: IMPIANTI DI CLIMATIZZAZIONE: SALUTE E SICUREZZA NELLE ATTIVITÀ DI ISPEZIONE E BONIFICA (INAIL, settembre 2017).

EDILIZIA PRIVATA: IMPRESE DI INSTALLAZIONE DEGLI IMPIANTI ALL’INTERNO DEGLI EDIFICI - DM 37/2008 - Raccolta di pareri, circolari e lettere circolari (Ministero dello Sviluppo Economico, 21.06.2017).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 20.10.2017 "Criteri e modalità per l’assegnazione di contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1)" (deliberazione G.R. 17.10.2017 n. 7241).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 19.10.2017, "Settimo aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 12.10.2017 n. 12532).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 18.10.2017 n. 244, suppl. ord. n. 333, "Criteri Ambientali Minimi per l’acquisizione di sorgenti luminose per illuminazione pubblica, l’acquisizione di apparecchi per illuminazione pubblica, l’affidamento del servizio di progettazione di impianti per illuminazione pubblica" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territori e del Mare, decreto 27.09.2017).

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Aggiornamento dell’Elenco regionale dei rifugi ai sensi dell’art. 35, legge regionale 01.10.2015 n. 27 «Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo»" (decreto D.U.O. 10.10.2017 n. 12302).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Fondo per interventi straordinari della presidenza del Consiglio dei Ministri – Linee guida per l’individuazione degli interventi di adeguamento strutturale e antisismico degli edifici scolastici, nonché di costruzione di nuovi immobili sostitutivi di edifici esistenti a rischio sismico" (deliberazione G.R. 09.10.2017 n. 7195).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.09.2017, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 09.10.2017 n. 158).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Pubblicazione dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgls. 17.02.2017, n. 42, Allegato 2, parte B, punto 2 - Aggiornamento al 30.09.2017" (comunicato regionale 09.10.2017 n. 157).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2017 "Modifica della d.g.r. 3965/2015 in relazione agli obblighi di formazione abilitante e di aggiornamento per l’installazione e la manutenzione straordinaria degli impianti di produzione energetica alimentati da fonti rinnovabili" (deliberazione G.R. 02.10.2017 n. 7143).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.10.2017 "Decadenza del presidente e scioglimento del consiglio di gestione dell’Ente Parco Adda Nord e contestuale nomina del Sig. Giovanni Bolis a commissario regionale, ai sensi dell’art. 33, comma 1-bis, della l.r. 86/1983" (deliberazione G.R. 09.10.2017 n. 7188).

VARI: G.U. 07.10.2017 n. 235 "Disciplina dell’indicazione obbligatoria nell’etichetta della sede e dell’indirizzo dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12.08.2016, n. 170 - Legge di delegazione europea 2015" (D.Lgs. 15.09.2017 n. 145).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 04.10.2017, "Programma di sviluppo rurale 2014-2020 della Lombardia. Riduzioni ed esclusioni dai contributi per mancato rispetto delle norme in materia di appalti pubblici" (decreto D.S. 29.09.2017 n. 11824).

LAVORI PUBBLICI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 del 03.10.2017, "Regolamento di attuazione della legge regionale 01.10.2014 n. 26 «Norme per la promozione e lo sviluppo delle attività motorie e sportive, dell’impiantistica sportiva e per l’esercizio delle professioni sportive inerenti alla montagna»" (regolamento regionale 29.09.2017 n. 5).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 02.10.2017, "Disposizioni regionali inerenti le caratteristiche e le condizioni per l’installazione delle serre mobili stagionali e temporanee (art. 62 c. 1-ter, della l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 25.09.2017 n. 7117).

ENTI LOCALI: G.U. 29.09.2017 n. 228 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3 della legge 31.12.2009, n. 196 e successive modificazioni (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Patroni Griffi, Valore del precedente e nomofilachia (13.10.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: C. Deodato, Il Subappalto: un problema o un’opportunità? (13.10.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. I differenti obiettivi della regolazione europea e italiana del subappalto - 3. L’analisi del Consiglio di Stato - 4. Genesi ed evoluzione del subappalto - 5. La limitazione quantitativa: un caso di gold plating? - 6. La giustificazione relativa alla tutela delle piccole e medie imprese - 7. I possibili correttivi.

EDILIZIA PRIVATA: A. Moliterni, La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra tutela dell’ambiente e libertà di iniziativa economica privata: la difficile semplificazione amministrativa (27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La ratio del sistema regolatorio in materia di fonti energetiche rinnovabili in un recente intervento della Consulta – 2. La riduzione degli oneri amministrativi quale “incentivo istituzionale” alla diffusione delle energie rinnovabili – 3. La strutturale complessità della regolazione amministrativa delle fonti energetiche rinnovabili: la prevalenza del potere legislativo statale a tutela dell’ambiente – 4. La difficile semplificazione della procedura autorizzatoria: problemi e prospettive.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: S. Foà, Risarcimento degli interessi legittimi e termine decadenziale. La lettura italiana del principio di effettività della tutela (27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La questione di legittimità costituzionale: irragionevolezza del termine decadenziale per l’azione risarcitoria. – 2. Il sindacato debole della Corte costituzionale in materia processuale: prevale la stabilità dei rapporti giuridici amministrativi e dei bilanci pubblici. – 3. La disomogeneità delle situazioni giuridiche soggettive in comparazione: asserita adeguatezza del termine decadenziale per l’interesse legittimo. – 4. Conformità al diritto UE e alla CEDU: proporzionalità nell’esercizio dell’autonomia processuale. – 5. Osservazioni critiche.

EDILIZIA PRIVATA: M. Venneri, La legislazione regionale e l’intervento degli enti locali in materia religiosa: una ricognizione interformanti a quadro istituzionale immutato (27.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: L’articolo si propone di effettuare una ricognizione dell’intervento legislativo delle Regioni e degli enti locali in materia religiosa e del contributo dato dalla dottrina sull’argomento, anche alla luce delle principali pronunce giurisprudenziali a esso relative, in un quadro istituzionale e costituzionale rimasto inalterato dopo il recente referendum dell’autunno 2016.
L’utilizzazione di un accostamento interformanti (normazione, giurisprudenza, dottrina), condotto su un tema di attualità quale è l’edilizia di culto, è preordinato a un’analisi della qualità e quantità dell’intervento di Regioni ed enti locali sulla fenomenologia religiosa, soprattutto in relazione alla situazione e alla dinamica dei rapporti istituzionali e di fatto tra Stato ed enti territoriali e dell’incidenza dell’intervento di questi ultimi sulle libertà individuali e collettive.
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Sommario: 1. Introduzione. 1.1 Premessa e note metodologiche. 1.2 Evoluzione del diritto ecclesiastico regionale. 2. Legislazione e giurisprudenza nella lettura della dottrina. 2.1 Il percorso legislativo. La riforma Bassanini: il D.Lgs. n. 112/1998 e le implicazioni in materia religiosa. 2.2 Brevi cenni di giurisprudenza costituzionale prima e dopo l’introduzione della riforma Bassanini. 2.3 Caratteristiche della legislazione regionale dagli anni ’90 alla riforma del 2001: spunti della dottrina. 3. Revisione costituzionale. 3.1 La L.cost. n. 3 del 2001. 3.2 Libertà religiosa e novellato art. 117 Cost. 3.3 Libertà religiosa e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. 3.4 Libertà religiosa e art. 118 Cost.: nuovo criterio di ripartizione delle funzioni amministrative. 4. La legislazione di interesse ecclesiastico tra Stato e Regioni: ricostruzione del contenuto. 4.1 Espansione dell’intervento regionale nella fenomenologia religiosa. 5. I singoli settori di intervento: introduzione. 5.1 Gli statuti delle regioni. 5.2 I beni culturali di interesse religioso. 5.3 L’assistenza religiosa negli istituti di ricovero. 5.4 Assistenza sociale e sussidiarietà orizzontale. Il ruolo degli enti ecclesiastici. 5.5 Il turismo religioso. 5.6 La disciplina urbanistica dei servizi religiosi. 5.7 In particolare: l’edilizia di culto tra tutela della libertà religiosa e politica urbanistica. 6. Un leading case: la vicenda e l’impatto delle leggi regionali della Lombardia sull’edilizia di culto e la giurisprudenza costituzionale. 6.1 Il quadro normativo. La l.r. n. 12 del 2005 «Legge per il governo del territorio». 6.2 La l.r. Lombardia n. 12 del 2005 e il cambio di destinazione d’uso. 6.3 Ancora sul cambio di destinazione d’uso: interventi di TAR e Consiglio di Stato. 6.4 La previa stipulazione della convenzione con il comune al vaglio della giurisprudenza. 6.5 La l.r. Lombardia n. 2 del 2015 di modifiche alla l.r. 12 del 2005. 6.6 La normativa e i suoi profili di criticità: la posizione della dottrina. 6.7 Ulteriori considerazioni sulla legge. 6.8 Ancora sul mutamento di destinazione d’uso: l’impatto del d.l. “Sblocca Italia” n. 133 del 2014 sulle normative regionali. 6.9 La sentenza n. 63 del 2016 della Corte costituzionale sulla cd. legge “anti-moschee”. 7. Considerazioni conclusive: prospettive e tendenze.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Patroni Griffi, La funzione nomofilattica: profili interni e sovranazionali (11.10.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1 - Le ragioni della nomofilachia. 2 - Soggetti e strumenti di nomofilachia. 3 – Corte di giustizia dell’Unione europea e funzione nomofilattica. 4 - Conclusioni.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Linee guida dell'Anac per forniture infungibili. Procedure negoziate: cosa devono fare le stazioni appaltanti.
Adeguata programmazione dei fabbisogni, accurate ricerche di mercato per individuare operatori economici alternativi, multi outsourcing come rimedio al fenomeno del lock-in.

Sono queste alcune delle best practices che l'Autorità nazionale anti corruzione (Anac) ha chiesto alle stazioni appaltanti di applicare con le linee guida sulle procedure negoziate senza previa pubblicazione di bando in caso di forniture e servizi ritenuti infungibili, che sono state approvate in via definitiva il 17 ottobre (determinazione 13.09.2017 n. 950 - Linee guida n. 8 - Ricorso a procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili) e che saranno a breve pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale.
Il documento nasce dall'esigenza avvertita dall'Anac di intervenire avendo osservato un esteso ricorso alla procedura negoziata (oltre 15 miliardi nell'ultimo anno) rispetto alle ordinarie procedure previste dal Codice dei contratti. Il fenomeno è stato rilevato come caratterizzante settori quali quello sanitario, quello informatico e quello della manutenzione e dell'acquisto di materiali di consumo per determinate forniture. In queste ipotesi l'affidamento diretto di forniture e servizi ritenuti infungibili, quando non è giustificato da oggettive condizioni del mercato, può avere l'effetto di sottrarre alla concorrenza importanti aree di mercato della contrattualistica pubblica, con danni per gli operatori economici e le stesse amministrazioni.
Da qui le indicazioni puntuali sulle modalità da seguire per accertare l'effettiva infungibilità di un bene o di un servizio, gli accorgimenti che le stazioni appaltanti devono adottare per evitare di trovarsi in situazioni in cui le decisioni di acquisto in un certo momento vincolino le decisioni future (fenomeno cosiddetto del lock-in), le condizioni che devono verificarsi affinché si possa legittimamente ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara in caso di infungibilità di beni e servizi.
La chiave di tutto sarà partire da analisi di mercato e da programmazioni e progettazioni accurate, arrivando alla scelta dell'affidatario con una adeguata motivazione.
Per quel che riguarda la programmazione l'Autorità ritiene che sia essenziale per «definire ex ante le proprie esigenze, le conseguenti migliori soluzioni idonee a soddisfarle, evidenziando anche quali». Nella fase di progettazione e nella predisposizione dei documenti di gara, le amministrazioni dovranno quindi considerare, oltre ai costi immediati che devono sostenere, anche quelli futuri attualmente prevedibili legati a elementi quali gli acquisti di materiali di consumo e di parti di ricambio nonché i costi per il cambio di fornitore. Le stazioni appaltanti dovranno anche procedere agli affidamenti considerando il costo del ciclo di vita del prodotto. Poi, come accennato, dovranno essere le ricerche di mercato ad assicurare l'impossibilità di trovare fornitori o appaltatori alternativi.
Le linee guida evidenziano anche alcuni strumenti utilizzabili: affidamento di un unico appalto a due o anche più imprese (multi outsourcing), oppure la suddivisione in lotti degli appalti. L'Anac ha suggerito anche di optare per un'altra soluzione proposta dalla Commissione europea per il settore dell'Ict: agire sulle specifiche tecniche, mediante gare su standard e non su sistemi prioritari (articolo ItaliaOggi del 20.10.2017).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi senza motivazione. Il consigliere non deve spiegare le ragioni. E non spetta al sindaco valutare la pertinenza delle richieste.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, possono considerarsi legittime, ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, le norme regolamentari che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»; oppure che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere?

Il diritto di accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali, in relazione agli atti in possesso dell'amministrazione comunale utili all'espletamento del proprio mandato, sono disciplinati dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Tale disciplina specifica si differenzia dal pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo; infatti il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste (v. anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
La commissione, infatti, considerato che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha ritenuto che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi, oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data 06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò, anche nel rispetto del principio di separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti locali, dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto con tale normativa.
Nel caso di specie, quindi, è opportuna la revisione delle disposizioni che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Del resto l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie alternative possibili, per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 20.10.2017).

ENTI LOCALI: Azienda pubblica di servizi alla persona. Incarico di funzioni di Direttore Generale a Segretario comunale.
Si ritiene che, in una situazione di emergenza in cui non sussistano condizioni alternative, sia possibile affidare temporaneamente l'incarico di Direttore Generale di Azienda pubblica di servizi alla persona ad un Segretario comunale. Si tratta infatti di una figura professionale necessariamente dotata dei titoli di studio richiesti per l'accesso alla categoria dirigenziale, che ha maturato notevole esperienza in enti locali, quali i Comuni, che esercitano attività anche nel settore sociale, al pari delle aziende predette, e che presentano complessità operative ben rilevanti.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che le funzioni di Direttore Generale dell'Azienda siano svolte da un Segretario Generale comunale, per un periodo limitato e per il tempo strettamente necessario ad apportare determinate modifiche statutarie (che riguardano, nello specifico, i requisiti prescritti per la nomina del Direttore Generale) e ad assicurare nel contempo la gestione dell'Azienda medesima, nel rispetto dei principi di buona amministrazione.
L'Azienda rappresenta a tal proposito che l'Ente, privo della figura dirigenziale apicale dal 01.10.2017, versa in una situazione contingente di estrema difficoltà, in quanto la ricerca di una figura sostitutiva è apparsa estremamente difficoltosa, proprio in relazione ai requisiti previsti attualmente dallo Statuto, dalla disponibilità delle risorse a bilancio e infine dalla scarsa disponibilità, manifestata da altre analoghe aziende, al convenzionamento.
Inoltre l'Azienda ha riscontrato l'assenza di professionalità interne all'amministrazione, dotate della necessaria esperienza professionale e tecnica, che possano garantire lo svolgimento di dette funzioni.
In relazione poi alle disponibilità di bilancio, l'Azienda evidenzia che l'incarico di Direttore può essere conferito solo a tempo parziale, salvo incidere sulla definizione delle rette.
Pertanto, stante la predetta difficoltà nell'individuazione di una soluzione immediata, l'Amministrazione istante si è rivolta al Sindaco di un Comune, al fine di ottenere l'autorizzazione, per il Segretario comunale, a svolgere temporaneamente le funzioni di Direttore dell'Azienda di servizi alla persona, per un massimo di 10 ore settimanali e fuori orario di servizio, per il tempo strettamente necessario a superare l'emergenza attuale.
Nel ritenere che l'iniziativa assunta sia idonea a dare soluzione temporanea alla criticità illustrata, si ritiene opportuno esprimere alcune considerazioni di seguito riportate.
Pare evidente che in questo momento l'Azienda non si trova nella situazione di ricercare un direttore generale con la prospettiva della normale continuità gestionale in relazione alla quale sono preordinati dalle norme vigenti i requisiti e le condizioni dell'incarico.
In ogni caso i requisiti previsti dal vigente articolo 15, comma 3, dello Statuto dell'Azienda appaiono compatibili con l'incarico temporaneo al Segretario generale del Comune di Latisana.
Si tratta infatti di una figura professionale necessariamente dotata dei titoli di studio richiesti, nonché dell'esperienza in enti locali, quali i Comuni, che esercitano attività anche nel settore sociale al pari delle aziende pubbliche di servizi alla persona, e che ha svolto incarichi di natura dirigenziale di rilievo in enti locali che presentano complessità operative ben maggiori dell'Azienda in questione, anche con riferimento specifico al settore sociale.
Infatti, nell'esercizio delle proprie funzioni, la figura del segretario generale di un Comune è contrassegnata da una profonda conoscenza della normativa di dettaglio nei vari ambiti di attività, sia per dovere di ufficio, sia per l'esperienza e la preparazione professionale desumibili dalla categoria di appartenenza
[1].
Ed è inoltre da rammentare che le conoscenze ed esperienze di lavoro acquisite dal segretario comunale all'interno della pubblica amministrazione, unitamente al possesso di una solida preparazione giuridica, gli consentono di comprendere e di governare in generale azioni, procedimenti e comportamenti del settore pubblico.
Né si può negare che detta esperienza sia stata maturata ed acquisita in modo specifico anche nell'ambito del settore socio-assistenziale, in quanto tra le funzioni fondamentali del comune figura anche la progettazione e gestione dei servizi sociali, attività attinente a quella gestita dall'Azienda istante.
L'ampiezza dell'esperienza professionale, che caratterizza in genere i segretari degli enti locali, assicura quindi in modo più che adeguato sia il presidio delle funzioni di assistenza giuridico amministrativa nel momento in cui il consiglio di amministrazione ha in animo di por mano a delle modifiche statutarie sia l'esercizio delle funzioni gestionali in relazione alla esigenza di garantire immediatamente la continuità amministrativa necessaria.
----------------
[1] L'art. 108 del d.lgs. 267/2000 stabilisce una sostanziale equiordinazione tra la figura del segretario comunale e quella del direttore generale, entrambe figure apicali e di natura dirigenziale (18.10.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

APPALTI: Il codice unico di progetto.
DOMANDA:
IL CUP, codice unico di progetto per gli investimenti, deve essere richiesto solo nel caso di lavori pubblici o anche per l'acquisto di beni mobili, arredi .... spesa in conto capitale?
RISPOSTA:
L’articolo 11 della legge 3/2003 stabilisce che il CUP deve essere richiesto per ogni progetto d’investimento pubblico e non indica un tetto minimo di spesa. Tra gli interventi rientranti nei “progetti di investimento pubblico” ci sono anche i progetti di ammodernamento della strumentazione della Pubblica Amministrazione (realizzabili, come natura, sia come acquisto di beni, sia come acquisto di servizi da imprese private, sia come produzione di servizi, nel caso il soggetto responsabile provveda direttamente).
Ai fini dell’obbligo di collegamento a un CUP è determinante non la tipologia contabile delle spese (correnti o in conto capitale) ma la loro riconducibilità ad un progetto d’investimento pubblico. Un “progetto di investimento pubblico” (o intervento di sviluppo) può comprendere anche “spese di gestione” o “spese di parte corrente” (es. compensi a personale, spese di progettazione). Così come un intervento di funzionamento può comprendere anche “spese in conto capitale” (es. sostituzione di un computer obsoleto. Se invece la sostituzione è con macchinari più moderni o diversamente performanti, si ha una spesa in conto capitale di sviluppo). Quindi occorre sempre verificare non tanto la spesa ma il suo obiettivo, il contesto in cui si inquadra, e desumere se detta spesa costituisce, o fa parte, di un progetto di investimento pubblico.
Tale verifica va fatta considerando che le spese che rientrano nell’intervento di sviluppo (investimento pubblico), sono quelle che:
   - apportano miglioramenti funzionali o strutturali all’Ente che ha deciso di realizzarli, e alla sua capacità di produrre servizi;
   - aumentano il patrimonio dell’Ente;
   - sono finanziate con risorse comunitarie o con fondi FAS;
   - sono realizzate con risorse finanziarie derivanti da concessioni (esempio: lavori pubblici realizzati con operazioni di finanza di progetto “pura”).
Se nel caso concreto si tratta di acquisto di arredi volti a sostituirne altri obsoleti, si ritiene che -pur trattandosi di spesa in conto capitale- l’intervento sia di gestione/funzionamento e non di investimento e quindi non serva il CUP (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Verbale delle sedute del consiglio comunale. Frasi ingiuriose.
Secondo la dottrina prevalente le frasi ingiuriose espresse dai consiglieri nel corso di una seduta consiliare non devono essere inserite dal segretario comunale nel verbale del consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in materia di redazione del verbale del consiglio comunale. In particolare, desidera sapere se il segretario comunale abbia o meno l'obbligo di verbalizzare eventuali frasi ingiuriose espresse dai consiglieri nel corso della seduta consiliare.
In via preliminare si ricorda che il verbale è un atto giuridico ed, in quanto proveniente da una pubblica amministrazione, è un atto pubblico. Più in dettaglio, il verbale è un documento dotato di pubblica fede descrittivo di atti o fatti compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante appositamente incaricato.
[1]
Come affermato da certa dottrina
[2] il verbale della seduta di un organo collegiale 'rappresenta la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta, affinché i fatti in essa avvenuti possano essere successivamente documentati'.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull'argomento, ha affermato che: 'Il verbale ha l'onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse.'
[3]
Pertanto, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l'attività di verbalizzazione è preposta.
Con specifico riferimento all'obbligo o meno del segretario di verbalizzazione di frasi ingiuriose, si osserva come la dottrina prevalente
[4] afferma che esse debbano essere omesse dal verbale. In tal senso, in un parere dell'ANCI si legge che: 'Eventuali ingiurie, allusioni o dichiarazioni offensive o diffamatorie non debbono essere riportate a verbale ed il Segretario comunale provvede ad escluderle'. [5]
Per completezza espositiva, si segnala l'orientamento di certa dottrina la quale afferma la sussistenza non già di un obbligo ma di una mera facoltà in capo al segretario di omissione delle frasi offensive o ingiuriose. In tale senso è stato affermato che 'avendo il segretario l'obbligo di inserire a verbale solo i punti essenziali della discussione, si può ritenere che il segretario stesso abbia la facoltà di evitarne la riproduzione, salvo che non gliene sia fatto esplicito obbligo'.
[6]
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[1] Così, R. Nobile, 'Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e degli organismi collegiali negli enti locali', in La Gazzetta degli enti locali, 2015.
[2] I. Tricomi, Prontuario degli Enti Locali, 2003, pag. 380.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio-Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. In questo senso si veda, anche il parere del Ministero dell'Interno del 20.01.2015.
[4] Si veda, c. Polidori, 'Verbali e organi collegiali nelle pubbliche amministrazioni', Trieste, 2012, pag. 195.
[5] ANCI, parere del 18.12.2007.
[6] A.R., 'Consiglio comunale - verbale delle adunanze - contenuto - redazione dei processi verbali', in L'Amministrazione italiana, n. 11/1999
(13.10.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI:  OSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglio, presidente doc. Vicesindaco-assessore esterno: strada chiusa. Nullaosta sulla commissione elettorale (in sostituzione del sindaco).
In un Comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, è possibile affidare la carica di vice presidente del consiglio comunale al vicesindaco-assessore esterno? Il vicesindaco facente funzioni può assumere le funzioni di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?

In merito al primo quesito, ai sensi dell'art. 64, comma 3, del Tuoel n. 267/2000, nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000 prevede che nei comuni sino a 15.000 abitanti le stesse siano svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano.
La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'Ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del Comune conferma al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la Presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità occupa il posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e, ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni fino a 15.000 abitanti, di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vicesindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21/02/1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14/06/2001) -con riferimento all'estensione dei poteri del vice sindaco- ha affermato che il vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nel caso di specie, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal Ministero dell'Interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vicesindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico (riguardo la questione precedente, infatti, l'assenza del sindaco presidente del consiglio è supplita dal consigliere anziano) è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223 all'articolo 14, stabilisce che la Commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nella fattispecie in esame, alla luce delle disposizioni di cui al Tuoel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).

ENTI LOCALI: Amministratori. Consiglio di amministrazione di Azienda pubblica di servizi alla persona. Assunzione carica da parte di pensionato.
A seguito della novella operata dalla l. 124/2015, ad un soggetto in quiescenza può essere conferita la carica di componente del consiglio di amministrazione di un'Azienda pubblica di servizi alla persona anche per una durata superiore a un anno, ferma restandone la gratuità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di conferire a un pensionato, ex medico di base convenzionato con il SSN, la rappresentanza dell'Ente stesso nel Consiglio di amministrazione di un'Azienda pubblica di servizi alla persona, alla luce della vigente normativa che pone precisi vincoli all'affidamento di incarichi/cariche a soggetti collocati in quiescenza
Com'è noto, l'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014 e dall'art. 17, comma 3, della l. 124/2015, sancisce il divieto, per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 di attribuire, a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi di studio e di consulenza.
Alle richiamate amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[1], del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 125/2013. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni sopra indicate sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
[2], l'art. 6 del d.l. 90/2014 ha introdotto nuove disposizioni in materia di incarichi a soggetti in quiescenza, volte ad evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse.
Premesso un tanto, si osserva che le Aziende pubbliche di servizi alla persona rientrano nel novero delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, configurandosi quali enti pubblici non economici.
In linea generale, in ordine alla possibilità di conferire cariche in organi di governo (nella fattispecie, l'assunzione della carica di amministratore di Azienda pubblica di servizi alla persona) a lavoratori collocati in quiescenza, si osserva che il legislatore ha assunto una posizione negativa e restrittiva, in virtù del divieto esplicitamente sancito dal richiamato articolo 6, comma 1, del d.l. 90/2014.
Una espressa deroga al suddetto divieto è contemplata nel medesimo articolo, laddove è ammesso il conferimento di cariche in organi di governo per i 'componenti delle giunte degli enti territoriali'. Si rappresenta, a tal proposito, che in tale locuzione non possono ricomprendersi le aziende pubbliche di servizi alla persona.
Si rileva infatti che si considerano enti territoriali solo quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Come anticipato, la norma di cui si discute prevede un'eccezione e cioè che gli incarichi, le cariche e le collaborazioni oggetto del divieto possano essere attribuiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, la durata non può comunque essere superiore a un anno, ferma la gratuità.
In conclusione, con riferimento al caso di specie, si osserva che, a seguito della novella operata dalla l. 124/2015, i soggetti in quiescenza possono essere nominati alla suddetta carica di componente del Consiglio di amministrazione di un'ASP anche per una durata superiore a un anno, ferma restandone la gratuità
[3].
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[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Come chiarito con circolare n. 4/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
(29.09.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Decadenza dalla carica di un consigliere comunale.
Qualora lo statuto comunale non sia ancora stato adeguato in applicazione di quanto disposto dall'art. 43, comma 4, del D.Lgs. 267/2000, l'istituto della decadenza dell'amministratore locale per ripetute assenze continua ad essere disciplinato in via transitoria dall'art. 289 del R.D. 148/1915.
Segue che il consiglio comunale può dichiarare la decadenza del consigliere per mancata partecipazione alle sedute solo qualora si verifichi la condizione consistente nel mancato intervento dello stesso ad una intera sessione ordinaria.

L'amministratore locale chiede un parere in materia di decadenza dei consiglieri comunali dalla carica per ripetute assenze, in particolare con riferimento ai casi e alle modalità procedimentali per formulare la relativa richiesta.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 18 dello statuto comunale rubricato 'Decadenza' prevede che: 'Si ha decadenza dalla carica di consigliere comunale: a) omissis; b) Per mancato intervento, senza giustificati motivi, ad una intera sessione ordinaria'. Il comma 2 del medesimo articolo, specifica, poi, che: 'La decadenza è pronunciata dal consiglio comunale, d'ufficio, promossa dal Prefetto o su istanza di qualunque elettore del comune, decorso il termine di 10 giorni dalla notificazione all'interessato della relativa proposta'.
L'articolo 43, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), recita: 'Lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative'.
Atteso che lo statuto dell'Ente è di data antecedente all'entrata in vigore del TUEL rileva il disposto di cui all'articolo 273 dello stesso nella parte in cui prevede che: 'Le disposizioni degli articoli [...] 289 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 04.02.1915, n. 148, si applicano fino all'adozione delle modifiche statutarie e regolamentari previste dal presente testo unico'.
In particolare, l'articolo 289 del R.D. 148/1915, al primo comma, stabilisce che: 'I consiglieri, che non intervengono ad una intera sessione ordinaria, senza giustificati motivi, sono dichiarati decaduti.'.
[1] Il successivo terzo comma dispone, poi, che: 'La decadenza è pronunciata dai rispettivi Consigli.'.
Trovando, pertanto, ancora applicazione in via transitoria l'articolo 289 del R.D. 148/1915 il consiglio comunale può dichiarare la decadenza del consigliere per mancata partecipazione alle sedute solo qualora si verifichi la condizione consistente nel mancato intervento del consigliere comunale ad una intera sessione ordinaria.
Circa il significato da attribuire alla nozione 'sessione ordinaria', atteso il silenzio sul punto dello statuto,
[2] si fa presente che l'articolo 124 del R.D. 148/1915 stabiliva che: 'Il Consiglio comunale deve riunirsi due volte l'anno in sessione ordinaria.
L'una nei mesi di marzo, aprile o maggio.
L'altra nei mesi di settembre, ottobre o novembre
'.
In altri termini, parrebbe che per sessioni ordinarie debbano intendersi quelle relative all'approvazione del bilancio di previsione annuale e pluriennale e del rendiconto di gestione.
Sull'istituto della decadenza dalla carica del consigliere per ripetute assenze i giudici amministrativi hanno estrapolato una serie di principi volti a garantire il giusto contemperamento degli interessi coinvolti nel procedimento in riferimento ovverosia 'da una parte l'esigenza di rispettare il mandato elettorale e di non rendere eccessivamente difficile l'adempimento dello stesso da parte del soggetto eletto, dall'altra l'esigenza di garantire una ordinata e proficua attività dell'organo collegiale che non può essere paralizzata da un'ingiustificata assenza dei suoi componenti.'.
[3]
Di particolare interesse, al riguardo, è la pronuncia del Consiglio di Stato del 20.02.2017
[4] che riepiloga quanto affermato in diverse occasioni dai giudici amministrativi sull'istituto in argomento. Recita l'indicata sentenza: «La fondatezza del ricorso in esame va valutata alla luce dei principi che questa stessa Sezione ha già da tempo avuto modo di ben chiarire, dai quali non v'è motivo di discostarsi e che qui si richiamano testualmente:
   - le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale non (devono) essere giustificate preventivamente di volta in volta;
   - le giustificazioni possono essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all'interessato della proposta di decadenza, ferma restando l'ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
   - le circostanze da cui consegue la decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all'esercizio di un munus publicum;
   - gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati con la massima attenzione anche per evitare un uso distorto dell'istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze;
   - le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l'incarico pubblico elettivo;
[5]
   - la mancanza o l'inconferenza delle giustificazioni devono essere obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi
(V Sezione, sentenza 09.10.2007, n. 5277).
"La protesta politica, dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, affinché l'assenza dalle sedute possa assumere la connotazione di protesta politica occorre che il comportamento ed il significato di protesta che il consigliere comunale intende annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce espressione"; "spetta al Consigliere nei confronti del quale è instaurato il procedimento di decadenza di fornire ragionevoli giustificazioni dell'assenza"; "è legittima la decadenza dalla carica di consigliere comunale per assenza ingiustificata, qualora la giustificazione addotta dall'interessato è talmente relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce (come nel caso della protesta politica non altrimenti e non prima esternata), da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza del motivo" (V Sezione - sentenza 29.11.2004, n. 7761).».
Premesso un tanto, con riferimento alle modalità e procedure da porre in essere al fine della dichiarazione di decadenza, si rileva la necessità che venga avviato un procedimento amministrativo di contestazione.
Al riguardo la giurisprudenza
[6] ha affermato l'applicabilità al procedimento di decadenza in riferimento della legge 07.08.1990, n. 241 e, nello specifico, dell'articolo 7 relativo all'obbligo dell'Amministrazione di comunicare all'interessato l'avvio del procedimento. Tale comunicazione deve, tra l'altro, indicare il termine entro cui l'amministratore locale coinvolto deve ottemperare alla presentazione delle giustificazioni, laddove queste non siano state già comunicate congiuntamente alle dichiarazioni di assenza.
Legittimati all'instaurazione del relativo procedimento sono i consiglieri comunali, in forza del disposto di cui all'articolo 43, comma 1, TUEL nella parte in cui recita che: 'I consiglieri comunali [...] hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio.'.
Quanto alla dichiarazione di decadenza si ribadisce che la stessa compete al consiglio comunale il quale dovrà procedere nel rispetto delle condizioni tutte sopra indicate. Pertanto, spetta al consiglio la valutazione -discrezionale ma congruamente motivata- in ordine alla valenza giustificativa delle motivazioni delle assenze, presentate anche successivamente dal consigliere.
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[1] Il secondo comma dell'articolo 289 del RD 148/1915 disciplinava, invece, la diversa ipotesi della decadenza dell'assessore comunale e disponeva che: 'Il deputato provinciale, o l'assessore municipale, che non interviene a tre sedute consecutive del rispettivo consesso, senza giustificato motivo, decade dalla carica.'.
[2] E sul presupposto che neppure il regolamento sul funzionamento del consiglio dica alcunché al riguardo.
[3] Cfr. TAR Basilicata, sentenza del 27.03.2000, n. 184.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 20.02.2017, n. 743.
[5] Si veda, anche TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, sentenza del 22.03.2017, n. 3786.
[6] TAR Abruzzo, Pescara, sentenza del 07.11.2006, n. 689. Nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, sentenza del 04.12.1992, n. 436
(14.09.2017 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Controlli senza segreti. Diritto di accesso per i consiglieri comunali. Va garantita la conoscenza delle risposte date dal comune alla Corte conti.
In materia di diritto di accesso da parte dei consiglieri comunali, ex art. 43 del decreto legislativo n. 267/00, è legittimo il diniego espresso da un comune nei confronti di un consigliere che ha chiesto all'ente di potere acquisire «il riscontro fornito dal comune ad una nota della Corte dei conti»?

Nella fattispecie, il comune, che avrebbe parzialmente riscontrato la richiesta della Corte dei conti, ha precisato che trattasi di «chiarimenti e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'Organo di revisione contabile». A seguito del diniego all'accesso, l'interessato ha diffidato la responsabile del settore ai sensi dell'art. 328, comma II, del codice penale.
In merito, il plenum della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Ferma restando l'opportunità, per l'ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio dell'esercizio di tale diritto, la maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale.
Infatti, il consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Nel caso di specie, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso hanno rilevato che le richieste della Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e seguenti della legge 23.12.2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs 18.08.2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'ente e per l'attività della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura giudiziale (rispetto ai quali la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con talune pronunce (plenum del 25.01.2005) ha optato per il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano, invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria. La conoscenza degli atti in parola, non violerebbe, dunque alcun segreto istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del consigliere al vincolo della riservatezza.
Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il Consiglio di stato, sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto «sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000». Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta materia».
Talché, come affermato sempre dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 33 del 14.03.2013, chiunque, e dunque anche i consiglieri comunali, ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l'obbligo di pubblicare». Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, non appare che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOIl Collegio ritiene importante ribadire come il quadro normativo, ermeneutico ed applicativo di riferimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei suoi contenuti.
Opportuna appare comunque una ricognizione della normativa in tema di cumulo di impieghi e di incarichi presso le pubbliche amministrazioni, al fine dell’individuazione dei principi fondamentali, rilevanti ed applicabili alle condotte contestate.
Sulla incompatibilità e sul cumulo di impieghi, il decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", all'art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, già art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato prima dall'art. 2 del decreto legge n. 358 del 1993, convertito dalla legge n. 448 del 1993, poi dall'art. 1 del d.l. n. 361 del 1995, convertito con modificazioni dalla legge n. 437 del 1995 e, infine, dall'art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998 nonché dall'art. 16 del d.lgs. n. 387 del 1998) prevede che:
  
“Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con dPR 10.01.1957, n. 3, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma 2, del d.p.c.m. 17.03.1989, n. 117 e dall'articolo 1, commi 57 e seguenti della legge 23.12.1996, n. 662. Restano ferme altresì le disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 nonché 676 del dlgs 16.04.1994, n. 297, all'articolo 9, commi 1 e 2, della legge 23.12.1992, n. 498, all'articolo 4, comma 7, della legge 30.12.1991, n. 412, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina”.
  
“Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati”.
  
“Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti, da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sono individuati gli incarichi consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse magistrature, i rispettivi istituti”.
  
“Nel caso in cui i regolamenti di cui al comma 3 non siano emanati, l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative”.
  
“In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.
  
“I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all'articolo 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali. Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi derivanti:
a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
b) dalla utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali;
c) dalla partecipazione a convegni e seminari;
d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate;
e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita”.
  
“I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.”.
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1. Con atto di citazione regolarmene notificato, la Procura Regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna, citava in giudizio il Prof. BI.AU., ricercatore di ruolo a tempo pieno dell’Università degli Studi di Bologna, contestandogli di aver svolto attività economiche e prestazioni professionali in situazione di incompatibilità assoluta e senza che ne fosse stata data alcuna comunicazione all’amministrazione di appartenenza, l’Università di Bologna.
2. In particolare il convenuto:
   a) è entrato in ruolo il 01/03/2011 come Ricercatore, confermato dal 08/03/2014. Il regime di impegno orario è sempre stato quello di tempo pieno dalla data della nomina in ruolo;
   (b) nel 2011 ha ricevuto, per l'attività d'insegnamento presso l'Università, la retribuzione lorda di euro 20.112,63;
   (c) è stato amministratore unico della PL.EN. S.r.l. dal 17/02/2005 al 30/04/2011. Ha pertanto ricoperto una carica di natura operativa all'interno di società avente scopo di lucro, senza ricevere/dichiarare compensi;
   (d) è stato amministratore unico della RA.TE. S.r.l. dal 03/05/2010 al 14/10/2011. Ha pertanto ricoperto una carica di natura operativa all'interno di società avente scopo di lucro, senza ricevere/dichiarare compensi. Dal 14.10.2011 al 10.08.2012 è stato consigliere di amministrazione della società senza deleghe (quest’ultimo incarico è stato autorizzato dall’Università di Bologna);
   (e) partecipa al capitale sociale della società PL.EN. S.r.l. per una quota pari al 12% e, fino al 23/10/2012, ha partecipato al capitale sociale della società RA.TE. S.r.l. per una quota pari al 8,5%. Quest'ultima società è stata costituita da BI. e dalla PL.EN.;
   (f) non ha fatto mai alcuna comunicazione all’Università della assunzione delle cariche di amministratore unico nelle due società sopra indicate (complessivamente svolte nel periodo dall’ingresso in ruolo in data 1.03.2011 al 14.10.2011);
3. Alla luce di tali considerazioni, la Procura Regionale ha ipotizzato un danno erariale nella misura di euro 13.834,29 (pari agli emolumenti lordi liquidati dall’Università di Bologna in favore del dott. Bi. nel periodo 01.03.2011–14.10.2011, oggetto di contestazione), oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
4. Con comparsa di risposta, il convenuto ribadisce:
   - di essere stato assunto dall’amministrazione universitaria in data 01/03/2011 poiché vincitore di concorso bandito nel dicembre 2009 (procedura comparativa n. 1 posto di ricercatore universitario settore scientifico disciplinare ING-IND/17 IM.IN.ME.) bandita con DR n. 1432 del 17/12/2009 presso la seconda Facoltà di Ingegneria di Cesena dell’università di Bologna le cui relative prove sono state sostenute soltanto in data 23/02/2011 (quindi pochi giorni prima dell’assunzione).
   - che la comunicazione del risultato della selezione a cui il Dott. Bi. ha partecipato è avvenuta soltanto in data 28/02/2011 da parte dell’Università (dunque soltanto il giorno prima dell’assunzione e della sottoscrizione del contratto). Nella medesima data, appena ricevuta la notizia dell’assunzione prevista per il giorno seguente, il dott. Bi. ha prontamente comunicato alle società in cui era all’epoca nominato Amministratore unico (Pl.En. e Ra.Te.) di individuare in maniera tempestiva un sostituto che potesse rivestire la sua posizione societaria. L’Assemblea della Pl.En. ha nominato il nuovo Amministratore in data 30/04/2011;
   - che, per quanto riguarda la Ra.Te., il dott. Bi. si è dimesso dalla carica ricoperta in data 31/08/2011 e l’Assemblea della suddetta società, in data 14/10/2011, provvedeva a nominare il nuovo Amministratore;
   - che nelle more del procedimento di nomina del nuovo amministratore delegato della Ra.Te., il Dott. Bi. ha svolto compiti meramente esecutivi e non gestionali e/o operativi.
Il convenuto evidenzia inoltre che, nonostante la normativa richiamata (in particolare, artt. 60 e 63 D.P.R. n. 3/1957) vieti l’esercizio di attività incompatibile con il ruolo di professore universitario, “non esiste alcuna disposizione che stabilisce che dalla trasgressione del divieto di svolgere determinate attività ne discenda l’integrazione di un danno erariale pari ai compensi stipendiali percepiti, né è prevista altra penalizzazione di tipo pecuniario” (Corte dei conti, Sez. giur. Liguria sent. 25/2015).
La richiesta della Procura sarebbe pertanto basata sull’errata presunzione che il mero svolgimento di attività incompatibili influisca negativamente sui compiti universitari, prescindendo dall’accertamento di un reale pregiudizio all’attività di docenza. Il Dott. Bi. ha omesso di dichiarare formalmente tale incompatibilità (peraltro comunque comunicata per le vie brevi), poiché la prestazione ulteriore è stata resa a titolo gratuito a partire dal 01/03/2011 (giorno di assunzione da parte dell’Università).
Sottolinea l’inesistenza di un danno alla finanza pubblica, in quanto il dott. Bi., nel periodo fra l’01/03/2011 e il 14/10/2011, ha regolarmente svolto la prestazione lavorativa nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, né d’altronde la Procura ha fornito la prova del presunto danno arrecato dal Dott. Bi. alle casse dell’amministrazione universitaria.
5. L’azione erariale, avente ad oggetto l’esercizio di attività libero-professionali da parte di un professore universitario in regime di incompatibilità con il suo status giuridico, si palesa infondata e, come tale, va rigettata nei termini che seguono.
Con atto di citazione la Procura, all’esito dell’attività istruttoria espletata, ha ipotizzato la sussistenza di elementi di responsabilità amministrativa a carico del Dott. Bi. individuando la lesione del bilancio dell’amministrazione universitaria nello svolgimento di prestazioni professionali non autorizzate e determinando il danno erariale in euro 13.834,29 euro (emolumenti lordi corrisposti a Bianchini dal datore di lavoro pubblico nel periodo 01/03/2011 e il 14/10/2011), oltre rivalutazione e interessi.
6. Innanzitutto il Collegio ritiene importante ribadire come il quadro normativo, ermeneutico ed applicativo di riferimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei suoi contenuti. Opportuna appare comunque una ricognizione della normativa in tema di cumulo di impieghi e di incarichi presso le pubbliche amministrazioni, al fine dell’individuazione dei principi fondamentali, rilevanti ed applicabili alle condotte contestate.
6.1. Sulla incompatibilità e sul cumulo di impieghi, il decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", all'art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, già art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato prima dall'art. 2 del decreto legge n.358 del 1993, convertito dalla legge n. 448 del 1993, poi dall'art. 1 del decreto legge n. 361 del 1995, convertito con modificazioni dalla legge n. 437 del 1995 e, infine, dall'art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998 nonché dall'art. 16 del d.lgs. n. 387 del 1998) prevede che:
   6.1.1. “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17.03.1989, n. 117 e dall'articolo 1, commi 57 e seguenti della legge 23.12.1996, n. 662. Restano ferme altresì le disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 nonché 676 del decreto legislativo 16.04.1994, n. 297, all'articolo 9, commi 1 e 2, della legge 23.12.1992, n. 498, all'articolo 4, comma 7, della legge 30.12.1991, n. 412, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina”.
   6.1.2. “Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati”.
   6.1.3. “Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti, da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sono individuati gli incarichi consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse magistrature, i rispettivi istituti”.
   6.1.4. “Nel caso in cui i regolamenti di cui al comma 3 non siano emanati, l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative”.
   6.1.5. “In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.
   6.1.6. “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all'articolo 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali. Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi derivanti: a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita”.
   6.1.7. “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.”
7. Dalla ricostruzione del quadro legislativo, si desume quindi che lo status giuridico ed economico dei dipendenti pubblici è contraddistinto da uno specifico divieto, poiché i medesimi non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, e che dalla inosservanza di tale divieto discende -salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare- l'obbligo, con adempimento a cura dell'erogante od in difetto del percettore, di versare il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente, per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
7.1. I medesimi principi e la stessa ratio, sono ravvisabili nello status giuridico ed economico del professore universitario, il quale è assoggettato alla medesima disciplina giuridica in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi a garanzia del buon andamento amministrativo dell'attività didattica, di ricerca e di studio. A tal proposito si veda l’art. 53, co. 7, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 il quale espressamente prevede che ”Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto"; nonché il DPR 11.07.1980 n. 382, in materia di riordinamento della docenza universitaria.
7.2. Il quadro normativo dei principi e delle disposizioni vigenti in materia di cumulo di incarichi, di incompatibilità e di conflitto d'interessi tra funzioni ed incarichi, risulta essere stato rafforzato e consolidato nei più recenti interventi del legislatore in materia.
In particolare, la legge 30.12.2010 n. 240, recante "Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario" all'art. 6, comma 12, ha richiamato il principio del divieto di conflitto d'interesse tra funzioni didattiche ed incarichi professionali, e tra questi ultimi e le cariche accademiche (i professori e i ricercatori a tempo definito possono svolgere attività libero professionale di lavoro autonomo anche continuative, purché non determinino situazioni di conflitto di interesse rispetto all'ateneo di appartenenza. La condizione di professore a tempo definito è incompatibile con l'esercizio di cariche accademiche. Gli statuti di ateneo disciplinano il regime della predetta incompatibilità).
7.3. Infine la legge 06.11.2012 n. 190 recante "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione", all'art. 1, comma 42, nell’introduzione di alcune modifiche apportate all'art. 53 decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ha confermato la giurisdizione della Corte dei conti sulla responsabilità patrimoniale del dipendente pubblico gravato dall'obbligazione restitutoria dei compensi illegittimamente percepiti (dopo il comma 7 è inserito il seguente: «7-bis. L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti»).
Tale ultimo intervento normativo appare confermativo della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in conformità agli orientamenti già enunziati in materia dalla Corte di Cassazione.
8. Dalla documentazione acquista agli atti,
risulta provato e non contestato dalle parti il fatto che, a fronte dell’espletamento di incarichi svolti all'interno di società avente scopo di lucro, e quindi in violazione delle norme sull’incompatibilità, non siano stati percepiti nessun tipo di compensi.
Ritiene il Collegio, pertanto, che non possa configurarsi alcuna ipotesi di responsabilità amministrativa del convenuto per l’omesso versamento dei compensi, stante la loro mancata percezione.

9. La domanda va in conclusione rigettata (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna, sentenza 20.10.2017 n. 206).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'affidamento all'esterno dell'ente di incarichi illegittimi comporta sempre danno erariale.
I profili di illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non conformità dell’azione amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé, una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione, induce la considerazione secondo la quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica.
La preservazione di tali valori ha luogo, oltre che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale che definiscono condizioni e procedure che legittimano l’esborso; in tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di carattere modale è presupposto di legittimità della spesa sostenuta.
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Questa Sezione d’Appello, dopo aver evidenziato che le speciali condizioni:
   - rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente;
   - assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A. ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
   - complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale della P.A. o dell'ente pubblico;
   - indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell'incarico esternalizzato;
   - indicazione della durata dell'incarico, svolgimento da parte del privato di un'attività non continuativa;
   - proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall'amministrazione,
che legittimano il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha affermato che tali requisiti «….devono coesistere e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….».

Inoltre, ha precisato anche che, «
….nei rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il legislatore pone agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di funzioni dell’Ente a soggetti esterni costituisce, quindi, il presupposto antigiuridico che cagiona un danno erariale per l’Ente (pari alle somme che sono state pagate a soggetti esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono escludono, quindi, che una qualche utilità possa attribuirsi a una prestazione conseguente ad un incarico conferito contra legem con conseguente impossibilità di considerare, ai fini della quantificazione del danno risarcibile, l’eventuale vantaggio conseguente all’attività del soggetto esterno all’Ente, illegittimamente incaricato.
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Nella vicenda in esame, come chiaramente rappresentato dal Giudice di primo grado, di cui questo Collegio condivide le motivazioni, il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni è avvenuto senza rispettare le predette condizioni di legge e, infatti, dalla lettura dei provvenimenti attributivi di funzioni a soggetti esterni, a firma della dr.ssa Fa., emerge chiaramente che:
   · la genericità con la quale è stato definito l’oggetto degli incarichi e la carenza di motivazione dei provvedimenti di proroga, non soltanto non consente di valutare la riconducibilità degli incarichi stesso alle funzioni sindacali, ma preclude anche l’individuazione dell’utilità attesa;
   · il limite massimo di incarichi conferibili, ai sensi dell’art. 14 della L.r. n. 7/1992, che per il Comune di Salemi era pari a 2 (tenuto conto che la popolazione ivi residente non superava le 30.000 unità), mentre, nella fattispecie, tale limite è stato evidentemente ampiamente violato;
   · non è stato rispettato il limite massimo del compenso mensile indicato dall’art. 14 della L.r. n. 7/92, ove è previsto che “....Agli esperti è corrisposto un compenso pari a quello globale, previsto per i dipendenti in possesso della seconda qualifica dirigenziale...” che era pari ad € 1.566,26 (come risulta chiaramente dalla attestazione del 14.10.2014, a firma del Responsabile dell’Ufficio del Personale del Comune di Salemi, allegata alla relazione del Capo Settore Amministrazione delle Risorse dello stesso Comune n. prot. 23707 del 15.10.2014) poiché i compensi riconosciuti ai consulenti avevano oscillato tra i 1.800,00 e i 2.448,00 euro mensili;
   · non risulta presentata, da parte del Sindaco, e nemmeno dal Vice Sindaco in funzione di supplenza, la relazione sull’attività svolta al consiglio comunale, né è stata trovata altra documentazione idonea a compendiare i risultati dell’attività svolta dai consulenti; sul punto si osserva che, per gli incarichi conferiti dalla odierna appellante, appare logico che detta relazione avrebbe dovuto essere presentata da quest’ultima;
   · manca una effettiva e concreta ricognizione delle risorse interne al fine di verificare che le medesime attività non potessero essere svolte utilizzando i dipendenti del Comune;
   · in violazione di quanto previsto dall’art. 3 della legge finanziaria per il 2008 (legge n. 244/2007), gli incarichi conferiti non erano stati inseriti nella programmazione annuale del Consiglio comunale, e non era stato rispettato il tetto di spesa, fissato dallo stesso organo, in complessivi euro 8.800,00, con delibera n. 38 del 01.08.2008.
Tutto ciò premesso, non appare superfluo evidenziare che,
secondo un orientamento giurisprudenziale pressoché pacifico (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. Lombardia, 05.03.2007, n. 141; id., Sez. App. III, 10.03.2003, n. 100/A; id., Sez. Molise, 04.04.2002, n. 65/E), i profili di illegittimità degli atti costituiscono un sintomo della dannosità per l’erario delle condotte che, all’adozione di quegli atti, abbiano concorso; in altri termini, la non conformità dell’azione amministrativa alle puntuali prescrizioni che ne regolano lo svolgimento pur non essendo idonea a generare, di per sé, una responsabilità amministrativa in capo all’agente, può assumere rilevanza allorché quegli atti integrino una condotta almeno gravemente colposa, foriera di un nocumento economico per l’Amministrazione.
Tale principio, certamente valevole come enunciazione di sintesi, deve comunque subire un’operazione di attualizzazione e specificazione, per tener conto dei peculiari connotati dell’agire pubblico che, di volta in volta, viene portato all’attenzione del Giudice contabile.
Ebbene, tale operazione di taratura del principio porta il Collegio a ritenere che le plurime e qualitativamente significative devianze dalle vincolanti prescrizioni di riferimento, in precedenza specificate, integrino fatti dannosi per l’erario dell’Ente.
A tale conclusione, induce la considerazione secondo la quale gli stringenti limiti al conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni sono posti a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica.
La preservazione di tali valori ha luogo, oltre che attraverso la fissazione di tetti quantitativi alla spesa, anche mediante l’imposizione di vincoli di carattere modale che definiscono condizioni e procedure che legittimano l’esborso; in tale peculiare contesto, per quanto di rilievo nel presente giudizio, il rispetto delle limitazioni di carattere modale è presupposto di legittimità della spesa sostenuta.
Le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della motivazione dei provvedimenti oggetto del presente giudizio, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di legittimità dei provvedimenti stessi, ma si riverberano anche sugli effetti economici prodotti da questi, rendendo, automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa; tale ricostruzione è in linea con un orientamento giurisprudenziale consolidato sia in primo grado
(tra le tante, più di recente, Sez. Giur. Lazio Sent 06.05.2008, n. 736; Sez. Giur. Sicilia Sent. 07.01.2008, n. 185; Sez. Giur. Molise Sent. 28.02.2007, n. 50; Sez. Giur. Sicilia Sent. 21.09.2007, n. 2492; Sez. Giur. Veneto Sent. 03.04.2007, n. 303; Sez. Giur. Calabria Sent. 30.08.2006, n. 672), che in grado di appello (ex pluribus: Sez. I App Sent. 28.05.2008, n. 237; Sez. App. III Sent. 05.04.2006, n. 173; Sez. App. II Sent. 20.03.2006, n. 122; Sez. App. II Sent. 16.02.2006, n. 107; Sez. App. III Sent. 06.02.2006, n. 74; Sez. App. I Sent. 04.10.2005, n. 304; Sez. App. I Sent. 08.08.2005, n. 259; Sez. App. I Sent. 31.05.2005, n. 187; Sez. App. III Sent. 13.04.2005, n. 183; Sez. App. II Sent. 28.11.2005, n. 389).
In particolare, poi,
tale indirizzo ha ricevuto anche l’avallo di questa Sezione d’Appello (cfr. Sent. 101/A/2010; 196/A/2009; 284/A/2008; 206/A/2008; 122/A/2008; 48/A/2007), la quale, dopo aver evidenziato che le speciali condizioni (….rispondenza dell'incarico esternalizzato agli obiettivi dell'ente; assenza di una apposita struttura organizzativa della P.A. ovvero carenza organica che impedisca o renda oggettivamente difficoltoso l'esercizio di una determinata funzione pubblica, da accertare per mezzo di una reale ricognizione; complessità dei problemi da risolvere che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale della P.A. o dell'ente pubblico; indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell'incarico esternalizzato; indicazione della durata dell'incarico, svolgimento da parte del privato di un'attività non continuativa; proporzione fra il compenso corrisposto all'incaricato e l'utilità conseguita dall'amministrazione) che legittimano il conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., ha affermato che tali requisiti «….devono coesistere e, soprattutto, devono essere oggettivamente sussistenti….».
Inoltre, ha precisato anche che, «
….nei rapporti pubblicistici (…) si deve tenere conto dei limiti posti dal legislatore all'azione degli amministratori, soprattutto quando, come nella specie, detti limiti mirano a tutelare preminenti interessi pubblici, quali quelli che si ricollegano alle esigenze di equilibrio della finanza pubblica in un momento di grave crisi economico-finanziaria del paese. Pertanto, quando, come nel caso in esame, il legislatore pone agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utile tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti, è sufficiente che la spesa si effettui contra legem perché si realizzi il danno….».
L’illegittimità dei conferimenti di funzioni dell’Ente a soggetti esterni costituisce, quindi, nella fattispecie, il presupposto antigiuridico che ha cagionato un danno erariale per l’Ente (pari alle somme che sono state pagate a soggetti esterni all’Ente stesso).
Le considerazioni che precedono escludono, quindi, che una qualche utilità possa attribuirsi a una prestazione conseguente ad un incarico conferito contra legem con conseguente impossibilità di considerare, ai fini della quantificazione del danno risarcibile, l’eventuale vantaggio conseguente all’attività del soggetto esterno all’Ente, illegittimamente incaricato.
Quanto detto, vale evidentemente anche per la posta di danno corrispondente alle spese sostenute dal Comune di Salemi per il rimborso delle missioni effettuate dal sig. Ip. in quanto, dalla lettura dei provvedimenti autorizzativi nelle missioni svolte, si evince che:
   · l’Ip. veniva qualificato come addetto stampa e non come portavoce e, quindi, i compiti affidati all’addetto stampa, diretti a curare i rapporti tra l’Amministrazione e gli organi di informazione, non giustificavano, in alcun modo, l’attività diretta a coadiuvare l’organo di vertice fuori sede, da ritenersi propria, invece, del portavoce;
   · non appare giustificata l’utilità attesa per il Comune dalla presenza del consulente nelle svariate località indicate nella parte in fatto.
Ciò premesso, ritiene, tuttavia, il Collegio che debba ritenersi legittima la nomina dell'avv. Ma., esperto in materia di diritto degli enti locali, in quanto al punto n. 11 della nota prot. n. 21812 del 22.09.2014, a firma del Segretario Generale del Comune di Salemi, viene precisato che “....il Comune di Salemi non disponeva e non dispone di Ufficio Legale e la pianta organica del Comune non ha mai previsto personale con la qualifica di avvocato...” e, pertanto, il compenso a quest’ultimo corrisposto, che ha prestato all’Amministrazione la propria consulenza giuridica, quantificato in euro 11.999,52 e imputato al vice-sindaco Fa. (che ha adottato la determinazione sindacale n. 61/2011, sulla cui base era stato pagato l’importo contestato, mediante tranches erogate nella date 14.06.2011, 23.06.2011, 02.08.2011, 30.03.2012 e 12.04.2012) non può essere ritenuto danno erariale.
Il danno erariale da addebitare all’appellante va, pertanto, quantificato in euro 73.547,48.
Su detta somma il Collegio, tenuto conto della natura degli addebiti e delle reiterate violazioni normative, ritiene non applicabile il richiesto poter riduttivo di cui all'art. 52, comma 2, del regio decreto 12.07.1934, n. 1214.
Per tali ragioni, in parziale accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza impugnata, la dr.ssa Fa.An. va condannata a pagare al Comune di Salemi, la somma di euro 73.547,48, oltre rivalutazione monetaria che, con criterio semplificativo favorevole all’appellante, va fatta decorrere dall’ultimo dei pagamenti effettuati, e agli interessi legali, su detta somma così rivalutata, dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale d’Appello per la Regione siciliana, definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente l’appello, e, a parziale modifica della sentenza n. 518/2016, emessa dalla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione siciliana, condanna Fa.An.a a pagare, al Comune di Salemi, la somma di euro 73.547,48, oltre rivalutazione monetaria, a decorrere dall’ultimo dei pagamenti effettuati, e agli interessi legali, su detta somma così rivalutata, dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'appello Sicilia, sentenza 19.09.2017 n. 112).

INCENTIVO FUNZIONE TECNICHE: Gli incentivi tecnici sono spesa. Vanno ricompresi nei tetti e nel trattamento accessorio. La sezione autonomie ha smorzato le speranze suscitate dalla Corte conti Liguria.
La Corte dei conti, sezione autonomie, con deliberazione 10.10.2017 n. 24, ha ribadito che gli incentivi per le funzioni tecniche (art. 113 del dlgs n. 50/2016) non possono essere assimilati ai vecchi compensi per la progettazione e vanno ricompresi nel tetto della spesa del personale e in quello del trattamento accessorio annuale.
La pronuncia spegne le speranze suscitate negli ingegneri comunali dalla deliberazione n. 58/2017 della Corte dei conti della Liguria che, rilevando le nuove finalità poste a base delle previsioni dell'articolo 113 del codice degli appalti, cioè stimolare il personale a dare corso alla migliore esecuzione dei contratti pubblici, concludeva nel senso dell'esclusione sia dal tetto di spesa del personale sia da quello del fondo per la contrattazione decentrata.
La sezione autonomie ha dichiarato inammissibile la questione di massima posta dalla sezione regionale di controllo per la Liguria, che dovrà attenersi al principio di diritto già enunciato con la precedente
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
L'articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015 ha previsto, nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge n. 124/2015, che l'ammontare complessivo del trattamento accessorio annuale del personale, anche di livello dirigenziale, non potesse superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015.
L'art. 1, comma 236, della legge di Stabilità 2016, ha confermato tale limite di spesa «nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 7/08/2015 n. 124».
Nonostante la tardiva approvazione dei decreti attuativi della riforma Madia, nel 2017 ha continuato a trovare applicazione il blocco al salario accessorio. Il Consiglio di stato (parere 09.01.2017) ha rilevato che i decreti legislativi, emanati in attuazione della legge n. 124/2015, «restano validi ed efficaci fino ad una eventuale pronuncia della Corte che li riguardi direttamente, e salvi i possibili interventi correttivi che nelle more dovessero essere effettuati». Lo stesso orientamento era stato espresso dalla Corte dei conti della Puglia, con la deliberazione n. 6 del 24.01.2017.
I magistrati pugliesi si erano espressi nel senso di ritenere valida tale barriera anche dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 251/2016. Secondo la Corte dei conti della Puglia, le pronunce d'illegittimità costituzionale, contenute nella decisione «sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124/2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative».
Appurata la vigenza del limite al salario accessorio, occorre verificare il trattamento riservato agli incentivi di cui all'art. 113 del dlgs n. 50/2016. Il compenso incentivante (2% dell'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara) riguarda l'espletamento di specifiche attività di natura tecnica non più legate alla progettazione, quanto piuttosto a quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell'esecuzione del contratto.
Le sezioni riunite avevano affermato che il tetto al salario accessorio potesse essere superato da alcune voci, individuando quale criterio discretivo la circostanza che determinati compensi fossero remunerativi di «prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili», acquisibili anche attraverso il ricorso a personale estraneo all'amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi.
Sussistendo le condizioni previste, anche gli incentivi per la progettazione di cui all'art. 93 del dlgs n. 163/2006, erano stati esclusi dall'applicazione dell'art. 9, comma 2-bis, compensando prestazioni professionali per investimenti.
Il compenso incentivante del nuovo codice degli appalti non è, però, del tutto analogo a quello previsto dall'art. 93 del vecchio codice, oggi abrogato. La sezione autonomie ritiene che non ricorrano più gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata a investimenti. Il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture, comporta che gli stessi si configurino come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale). Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, comma 2, del dlgs n. 50/2016, pertanto, sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'articolo 1, comma 236, legge n. 208/2015 (legge di Stabilità 2016).
Tale inclusione comporterà una forte conflittualità tra il personale dei comuni. Bisognerà scegliere se privilegiare i soggetti che partecipano alle attività tecniche, di cui all'art. 113, oppure altre forme di incentivazione per il restante personale, a partire della cosiddetta «produttività».
Sussiste, poi, un problema di omogeneizzazione dei dati per il calcolo del salario accessorio.
Appare, infatti, iniquo confrontare un valore in cui gli incentivi alla progettazione erano esclusi con un valore in cui gli incentivi per funzioni tecniche sono inclusi nel calcolo per determinare il tetto non superabile (articolo ItaliaOggi del 20.10.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici nei tetti del salario accessorio - La Sezione Autonomie conferma la linea «dura».
Niente da fare. Gli incentivi per le funzioni tecniche di cui al Dlgs 50/2016 continuano a rimanere nel limite del trattamento accessorio.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti ha ricevuto la richiesta di riesame della questione da parte della Sezione Regionale della Liguria (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 19 luglio), ma i magistrati hanno ritenuto inammissibile procedere in quanto non vi sono sostanziali novità né normative né interpretative.
Tutto questo è quanto contenuto nella deliberazione 10.10.2017 n. 24.
Problemi operativi. Gli operatori degli enti locali attendevano con grande attenzione questa risposta che però, ora, rischia di lasciare un amaro sapore in bocca. Se, infatti, il principio giuridico espresso nella precedente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione Autonomie (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 13 aprile) e oggi confermato, ha un suo fondamento, la problematica si sposta immediatamente sulle concrete modalità di calcolo dei nuovi limiti al salario accessorio, visto che tali incentivi fanno «numero» solo dal 2016 e, peraltro, neppure per l'intero anno.
Come poter gestire nei limiti una voce di salario accessorio così variabile da un anno all'altro? Come faranno le amministrazioni a gestire un giusto equilibrio del fondo tra dipendenti che partecipano alle attività di incentivazione e quelli invece degli altri uffici?
L’indicazione della Cassazione. Con questa interpretazione si apre quindi una guerra fratricida che non riuscirà a trovare risposta nel breve periodo. Difficile trovare elementi certi e al tavolo delle relazioni sindacali la partita andrà giocata attentamente.
Va, infatti, ricordato che la
sentenza 05.06.2017 n. 13937 della Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha affermato che senza la contrattazione integrativa (e il successivo regolamento) è inibito il riconoscimento dell'incentivo. Si prospettano tempi duri, tenuto conto che entro fine anno, il fondo del salario accessorio dovrà essere, comunque, definitivamente costituito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Oneri derivanti dall'erogazione degli incentivi per funzioni tecniche e computo della spesa per il personale ai fini della verifica del rispetto del tetto di contenimento della stessa e dei limiti del trattamento accessorio.
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La questione di massima sollevata dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58 ripropone la medesima problematica già valutata e risolta da questo Organo di nomofilachia e per essa si riscontra sia l’assenza di decisioni contrastanti assunte dalle Sezioni regionali, sia la mancanza di elementi che impongano una nuova valutazione a fini di prevenire l’insorgere di potenziali contrasti interpretativi, sia l’assenza di argomentazioni giuridiche e/o fattuali nuove e diverse da quelle già esaminate con la richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7 e, di conseguenza, la rimessione si configura, nella sostanza, come una mera richiesta di riesame della decisione già assunta, sulla base dei medesimi elementi di fatto e di diritto già considerati, deve concludersi per l’inammissibilità della stessa.
PQM
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, dichiara inammissibile la questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria dovrà attenersi al principio di diritto già enunciato con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7
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PREMESSO
   I. La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58, a seguito di valutazione della richiesta di parere presentata dal Comune di Ceriale (SV) per il tramite del Consiglio delle autonomie Locali, ha ravvisato la necessità di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale, e pertanto ha rimesso al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012 n. 174, o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, la seguente questione di massima di interesse generale: «se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015».
La Sezione remittente prende atto che la Sezione delle autonomie, con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 assunta nell’adunanza del 30.03.2017, pronunciandosi su identica questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, ha enunciato il seguente principio di diritto: «Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)» tuttavia, diversamente da quanto stabilito dall’art. 6 comma 4, del d.l. n. 174/2012, ha ritenuto di non conformarsi a detto enunciato poiché non ne condivide l’iter motivazionale, in relazione al quale espone il proprio convincimento basato sull’asserita diversa (propria) interpretazione delle norme di riferimento.
Ritenendo che il vigente impianto normativo non contempli una nuova norma in materia di incentivi, bensì esponga una diversa formulazione volta a regolare in modo differente e, a tratti, più ampi, la materia degli incentivi previsti nell’ambito dei contratti pubblici e sulla base dei pregressi orientamenti della giurisprudenza contabile (Sezione delle autonomie,
deliberazione 13.11.2009 n. 16; Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione 04.10.2011 n. 51 che, nella vigenza del vecchio codice degli appalti, aveva escluso gli incentivi alla progettazione ivi contemplati dal computo rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa in materia di contenimento della spesa per il personale e dei limiti stabiliti per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio di quest’ultimo, la Sezione ligure afferma che, a proprio parere, «vi sono plurimi elementi interpretativi che fanno propendere per una conferma dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto la vigenza del precedente quadro normativo, escludendo gli incentivi tecnici dal rispetto dei limiti di spesa sopra richiamati e disciplinati dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006 (come riformulato), nonché dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, che riproduce, sostanzialmente, il limite disposto dall’art. 9, comma 2-bis, fissando il tetto di spesa nell’ammontare del fondo per il trattamento accessorio determinato nell’esercizio finanziario 2015».
Pur nella consapevolezza che l’istituto di cui si discute ha un respiro differente rispetto a quello del vecchio testo dell’art. 93 del d.lgs. 163 del 2006, la Sezione sostiene che la nuova norma rispetta comunque le finalità di quella precedente all’uopo evidenziando che la volontà del legislatore è volta ad ottenere la massima soddisfazione dall’esecuzione del contratto pubblico (sia di lavori, forniture o servizi), con il miglior coinvolgimento delle risorse interne e che, pertanto, l’incentivo in esame mira a realizzare un siffatto scopo, al di là del fatto che la prestazione sia annoverabile tra le spese correnti o di investimento, o sia fungibile rispetto al ricorso a personale esterno.
Evidenzia, quindi, che la disciplina in esame fissa criteri e limiti che autolimitano la spesa per incentivi con ciò evitando che la spesa del personale possa assumere un carattere incontrollato.
In conseguenza la ritenuta specialità della norma ed i puntuali limiti di spesa intrinseci al quadro normativo di riferimento hanno indotto la Sezione remittente alla conclusione che «gli incentivi tecnici previsti dal nuovo codice degli appalti debbano essere esclusi dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa complessivo per il personale (art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006), nonché dei limiti stabiliti per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale (art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015)».
In aggiunta a quanto sopra, la Sezione di controllo ligure ha evidenziato che, diversamente argomentando, si potrebbero verificare taluni effetti non in linea con la finalità perseguita dalla interpretazione resa in sede di nomofilachia dalla Sezione delle autonomie, posto che gli incentivi alla progettazione, negli esercizi 2011/2013, non erano ricompresi nella base di calcolo per il tetto di spesa di cui al comma 557 citato, così come non erano ricompresi nella base di calcolo del limite del 2015 riferito alle risorse per il trattamento accessorio.
In conseguenza, la Sezione remittente sostiene che «Includere oggi gli incentivi tecnici nella base di calcolo della spesa rilevante ai fini del computo della spesa complessiva vorrebbe dire superare, con assoluta certezza, il tetto di spesa di cui al comma 557 citato, senza che l’ente abbia la possibilità di ridurre altre voci, in considerazione della rigidità della spesa di personale stretta, nell’ultimo decennio, tra numerosi vincoli. Allo stesso modo, qualora tali incentivi rilevassero ai fini del tetto di spesa per il trattamento accessorio, si verificherebbe l’impossibilità di erogare gli stessi se non a scapito del trattamento accessorio di altri dipendenti, mediante riduzione di altre risorse, al fine di compensare l’erogazione degli incentivi tecnici in discorso. Con riferimento, inoltre, al limite di spesa di cui al comma 557, un’interpretazione “restrittiva” determinerebbe la violazione del principio, affermato dalla giurisprudenza contabile, di omogeneità tra i dati (e i tetti di spesa) oggetto di comparazione. Non sarebbe logico, né legittimo, contrapporre due limiti di spesa il cui ammontare sia composto da voci differenti. Se si ritenesse di adottare tale principio, legittimo e coerente con il sistema dei tetti di spesa, si potrebbero, tuttavia, verificare conseguenze non coerenti con le esigenze di contenimento della spesa di personale, con possibili effetti espansivi della stessa, oltre che un fenomeno di casualità che potrebbe condurre alcuni enti a realizzare una spesa rilevante, ed altri a non poter erogare alcunché».
In ultimo, la Sezione prospetta possibili soluzioni atte a rendere omogeneo il dato evidenziando, tuttavia, le problematicità insite in ciascuna di esse paventando, in taluni casi, la possibile situazione di inapplicabilità della disposizione normativa in esame.
La Sezione remittente ritiene, inoltre, che le osservazioni svolte, e l’interpretazione del quadro normativo offerta, rimangono valide anche alla luce dell’art. 23 del d.lgs. 75 del 2017 che ha introdotto un nuovo limite alle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale a decorrere dal 01.01.2017 e, nel contempo, ha abrogato, a decorrere dalla stessa data, l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208.
Conclusivamente la Sezione di controllo ligure afferma che, diversamente da quanto affermato nel principio di diritto enunciato dalla Sezione delle autonomie con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, gli incentivi tecnici previsti dal nuovo codice degli appalti debbano essere esclusi dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa complessivo per il personale (art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006), nonché dei limiti stabiliti per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale (art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015).
In conseguenza di ciò la Sezione regionale «considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale, sospende la decisione sul parere richiesto dal Comune di Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009, e dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012, sotto l’illustrata diversa prospettazione interpretativa» la suesposta questione di massima.
Il Presidente della Corte, con propria ordinanza n. 15 del 28.07.2017 ha deferito l’esame e la pronuncia della prospettata questione alla Sezione delle autonomie.
CONSIDERATO
   I. La questione di massima sollevata dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con
deliberazione 29.06.2017 n. 58, involge la problematica concernente l’inclusione, o meno, degli oneri derivanti dall'erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 nel computo della spesa per il personale rilevante ai fini della verifica del rispetto del tetto di contenimento della stessa (art. 1, comma 557, legge 27.12.2006, n. 296) e dei limiti del trattamento accessorio disciplinato dall'art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015 (norma vigente fino al 31.12.2016, ora art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017), tematiche già trattate dalla Sezione delle autonomie nella deliberazione 06.04.2017 n. 7, nell’esercizio della funzione ad essa attribuita dall’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla l. 07.12.2012, n. 213, come modificato dall’art. 33, comma 2, lett. b), del d.l. 24.06.2014, n. 91, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 116.
   II. In via preliminare si appalesa necessario ricordare che la Sezione delle autonomie, unitamente alle Sezioni Riunite in sede di controllo -competenti nei casi riconosciuti dal Presidente della Corte dei conti di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica ovvero qualora si tratti di applicazione di norme che coinvolgono l'attività delle Sezioni centrali di controllo (art. 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito dalla l. 03.08.2009, n. 102)- ha assunto un ruolo di primo piano nella funzione di “nomofilachia del controllo”.
Infatti, mentre antecedentemente all’entrata in vigore della riforma operata con il d.l. 10.10.2012, n. 174, la Sezione delle autonomie emanava pronunce interpretative "non vincolanti" le quali si fondavano “su valutazioni cui concorrevano i componenti, tra i quali i Presidenti delle Sezioni regionali di controllo, aventi il pregio di effettuare approfondimenti sulle questioni deferite, individuando soluzioni che potevano essere consapevolmente condivise dalle varie Sezioni regionali” (in termini: Sezione delle autonomie, deliberazione n. 3/INPR/2011), nel vigente, ricordato assetto normativo (art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, come novellato dall’art. 33, comma 2, del d.l. n. 91/2014), la Sezione delle autonomie è chiamata a prevenire e/o dirimere i contrasti interpretativi che potrebbero palesarsi o che sono già sorti, rilevanti per l'attività di controllo e consultiva o a risolvere questioni di massima di particolare rilevanza, attraverso l’emanazione di delibere di orientamento cui la legge espressamente collega l’obbligo per le Sezioni regionali di controllo di conformarsi al principio di diritto ivi enunciato.
Come precisato da questa Sezione (deliberazione n. 2/SEZAUT/2013/QMIG) la novella introdotta dall’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, al fine di garantire la coerenza dell’unitaria attività svolta dalla Corte dei conti per le funzioni ad essa spettanti in materia di coordinamento della finanza pubblica, «ha assegnato alla Sezione delle autonomie nuovi compiti di coordinamento e di indirizzo interpretativo nei confronti delle Sezioni regionali di controllo competenti a pronunciarsi sulle richieste di parere in materia di contabilità pubblica ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131. Le attribuzioni in questione, da esercitare attraverso pronunce di orientamento generale in ordine sia a questioni interpretative risolte in maniera difforme dalle Sezioni regionali di controllo sia a casi che richiedono la risoluzione di una questione di massima di particolare rilevanza, si inquadrano nell’ambito della funzione nomofilattica già assegnata alle Sezioni riunite ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 03.08.2009, n. 102, ora circoscritta ai casi di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica ovvero agli ambiti di applicazione di norme che coinvolgono l’attività delle Sezioni centrali di controllo».
Nell’esercizio di detta funzione, circoscritta a temi di particolare peso e spessore, alla Sezione delle autonomie compete enucleare il principio di diritto, mentre alle Sezioni regionali spetta la definizione nel merito delle specifiche questioni ad esso collegate.
In tale contesto, la presenza di una delibera di orientamento “alla quale le Sezioni regionali si conformano” rende incontestabile il punto deciso dalla Sezione delle autonomie, realizzando le esigenze di certezza del diritto cui è preordinata la funzione nomofilattica.
Si osserva, in proposito, che l’unitarietà interpretativa, oltre a garantire l’esatta attuazione della legge rispetto alle singole questioni, costituisce il presupposto perché la funzione consultiva possa giovare alle stesse amministrazioni.
Il legislatore, infatti, con la evidente finalità di promuovere il maggior grado possibile di coerenza ed uniformità delle deliberazioni territoriali, garantendo una voce univoca ed eliminando, al contempo, i contrasti interpretativi sorti nel corso dell’esperienza della funzione consultiva svolta dalle Sezioni regionali di controllo, ha individuato una sede unica ove comporre eventuali antinomie interpretative, assegnando un pregnante rilievo nomofilattico alle deliberazioni ivi assunte.
Si precisa, peraltro, che la proposizione di questioni di massima già precedentemente esaminate e risolte non è, in linea di principio, preclusa, ma soggiace a precise condizioni di ammissibilità, le quali –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– sono riconducibili alla prospettazione, da parte del remittente, di elementi nuovi non precedentemente considerati, rappresentati o da sopravvenuti mutamenti legislativi o giurisprudenziali, ovvero da nuove e diverse situazioni di fatto sulle quali l’organo nomofilattico non abbia avuto occasione di soffermarsi.
In conseguenza la riproposizione della medesima questione, in carenza di tali presupposti, non è da ritenere ammissibile.
   III. Si premette anche che la magistratura contabile è stata già più volte chiamata a pronunciarsi, non solo in sede territoriale ma anche in sede di nomofilachia, sulle problematiche inerenti gli incentivi di cui al codice degli appalti, attese le plurime modifiche normative che ne hanno modificato sensibilmente la natura e l’ambito di applicazione.
In particolare, quanto alla computabilità, o meno, degli incentivi di che trattasi nella spesa del personale rilevante ai fini della verifica del rispetto della normativa vincolistica di contenimento della stessa devono richiamarsi i pronunciamenti di questa Sezione delle autonomie -
deliberazione 13.11.2009 n. 16,
deliberazione 07.12.2016 n. 34, nonché la deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo- in relazione agli incentivi per la progettazione di cui al previgente codice degli appalti, e la recente deliberazione 06.04.2017 n. 7 emessa da questa Sezione nell’adunanza del 30.03.2017 in relazione agli incentive tecnici di cui alla novella legislativa introdotta dal d.lgs. n. 50/2016.
      III.1. Con riferimento agli incentivi di cui al previgente codice degli appalti (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) gli Organi della nomofilachia, in sede di controllo, hanno:
   a) escluso dal computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296 gli incentivi per la progettazione interna di cui all’art. 92 del codice in ragione della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale” (Sezione delle autonomie,
deliberazione 13.11.2009 n. 16);
   b) escluso le risorse finalizzate a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche dal tetto del salario accessorio previsto dall’articolo 9, comma 2-bis, d.l. n. 78/2010 in quanto risorse correlate “allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica” in relazione ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti” per le quali le predette amministrazioni, in caso di carenza di personale interno qualificato, avrebbero dovuto “ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato” (SS.RR.
deliberazione 04.10.2011 n. 51);
   c) osservato come la struttura del vincolo di spesa per il trattamento economico accessorio del personale degli Enti locali imposti dall’art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), ai fini del concorso delle autonomie territoriali al raggiungimento del riequilibrio complessivo e della stabilità della finanza pubblica, ricalcasse fedelmente, fatto salvo il diverso riferimento temporale, la lettera dell’art. 9, comma 2-bis, del decreto-legge n. 78/2010 riproducendone, per molti aspetti, analoghe problematiche interpretative già valutate dalla medesima Sezione in sede di nomofilachia (Sezione delle autonomie,
deliberazione 07.12.2016 n. 34).
      III.2. A diversa conclusione si è invece pervenuti in relazione ai nuovi incentivi per “funzioni tecniche” di cui al d.lgs. n. 50/2016, entrato in vigore dal 19.04.2016, che ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente codice ed ha introdotto, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche” effettuate dai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici «esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti».
Ritenuto, infatti, che i nuovi incentivi per le "funzioni tecniche" di cui all'art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 si presentano, all’evidenza, con caratteristiche diverse rispetto a quelli disciplinati dal previgente codice degli appalti, questa Sezione delle autonomie, sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi nonché la non sovrapponibilità del compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, ha affermato che i predetti incentivi sono da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015– posto che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e, quindi, di personale (Sezione delle autonomie,
deliberazione 06.04.2017 n. 7).
      III.3. Successivamente al deliberato di questa Sezione delle autonomie, l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 è stato modificato ad opera del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni correttive e integrative al d.lgs. 18.04.2016, n. 50), che con l’art. 76 ha sostituito al comma 1 dell’art. 113 le parole: “per la realizzazione dei singoli lavori” con “per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture” (art. 76, comma 1, lett. a) e nel contempo ha interamente sostituito il previgente comma 2 (art. 76, comma 1, lett. b), con il seguente: «2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione».
Inoltre il comma 236 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità 2016) che disponeva in materia di limitazione alla crescita delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale in modo sostanzialmente sovrapponibile a quelle adottate con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, è stato abrogato dal d.lgs. 25.05.2017 n. 75 (Modifiche e integrazioni al d.lgs. n. 165/2001) che ha riformulato anche il tetto di spesa per la retribuzione accessoria.
La novella legislativa dispone, infatti, quanto segue (art. 23, comma 2): «Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell’anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016».
Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione.
   IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva che la questione di massima deferita dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria è sostanzialmente identica a quella già valutata e risolta da questa Sezione delle autonomie con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 assunta nell’adunanza del 30.03.2017 con la quale, sia pure in via incidentale, in conformità alla questione di massima ad essa in tale sede deferita, la Sezione si è pronunciata anche sul rapporto tra nuovi incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione, nel delineato nuovo scenario normativo gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e dalla Sezione delle autonomie con la deliberazione 13.11.2009 n. 16 (in relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e 562, della l. 296/2006).
      IV.1. Sulla problematica si sono successivamente pronunciate, in sede consultiva, le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia (rispettivamente con il
parere 09.06.2017 n. 113 e parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto, allo stato non si registrano ulteriori contrasti interpretativi in relazione alla novella legislativa oggetto della questione di massima nuovamente riproposta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, ed oggi all’esame.
Quest’ultima, come già evidenziato, involge un quesito perfettamente sovrapponibile, nella sostanza, a quello già deciso dalla Sezione delle autonomie con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7, assunta nell’esercizio della funzione di nomofilachia, alla stessa attribuita ex lege, in relazione al quale la Sezione remittente, ha prospettato un proprio, diverso, orientamento rispetto alle argomentazioni addotte dall’organo nomofilattico a motivazione del proprio enunciato, invocandone il revirement, senza tuttavia indicare alcun elemento nuovo di valutazione, ma riproponendo quelli in tale sede già esaminati.
La Sezione remittente, quindi, in relazione alla corretta interpretazione ed applicazione della normativa sottesa alla problematica sollevata, non ha formulato altri ed ulteriori dubbi esegetici, non espressamente affrontati in sede di nomofilachia, né evidenziato particolari, singolari, ovvero nuove situazioni, per dirimere i quali possa ravvisarsi l’esigenza, anche in via preventiva, di una nuova decisione nomofilattica.
      IV.2. Pertanto, posto che
la questione di massima sollevata dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58 ripropone la medesima problematica già valutata e risolta da questo Organo di nomofilachia e che per essa si riscontra sia l’assenza di decisioni contrastanti assunte dalle Sezioni regionali, sia la mancanza di elementi che impongano una nuova valutazione a fini di prevenire l’insorgere di potenziali contrasti interpretativi, sia l’assenza di argomentazioni giuridiche e/o fattuali nuove e diverse da quelle già esaminate con la richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7 e che, di conseguenza, la rimessione si configura, nella sostanza, come una mera richiesta di riesame della decisione già assunta, sulla base dei medesimi elementi di fatto e di diritto già considerati, deve concludersi per l’inammissibilità della stessa.
PQM
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, dichiara inammissibile la questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione 29.06.2017 n. 58.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria dovrà attenersi al principio di diritto già enunciato con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213 (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 10.10.2017 n. 24).

GIURISPRUDENZA

APPALTII bandi di gara (ed il relativi atti connessi, disciplinari, capitolati speciali) devono essere chiari in modo da non poter indurre in errore i partecipanti in merito ai requisiti richiesti; non è ammissibile un’interpretazione diretta a ricavare dalle norme relative all’esecuzione della prestazione ulteriori requisiti di ammissione “nascosti” o “impliciti”, facendo leva sul concetto di “essenzialità”.
Spetta, infatti, alla sola stazione appaltante, nell’esercizio del proprio potere tecnico discrezionale, delineare in modo palese (facendolo seguire dall’indicazione specifica “a pena di inammissibilità dell’offerta”) ciò che riveste natura “essenziale” per lo svolgimento del servizio, tenuto conto delle sue specifiche esigenze: non possono ricavarsi ex post, attraverso la lettura congiunta delle clausole del capitolato speciale, presunti requisiti ritenuti “essenziali” per lo svolgimento del servizio (ma non qualificati come tali dalla stazione appaltante), facendo leva -per di più- sulle particolari modalità di esecuzione della prestazione indicate dal concorrente nella sua offerta tecnica.
In questo modo, infatti, si confondono i due piani nettamente separati, costituiti dall’individuazione dei requisiti di ammissione (potere che spetta alla sola stazione appaltante) e che riguarda elementi oggettivi valevoli per tutti i concorrenti, nel rispetto del principio della par condicio, e requisiti specifici attinenti alle particolari modalità di esecuzione della prestazione oggetto del successivo contratto, prescelti del singolo concorrente in sede di offerta tecnica, che come tali sono stati individuati dall’impresa partecipante alla gara e che valgono –ovviamente– solo per essa.
Non può infatti ritenersi che l’offerta di tali particolari modalità e caratteristiche specifiche possa costituire motivo di esclusione, ove non vi sia prova del loro possesso al momento della presentazione dell’offerta: ciò non rileva né sotto il profilo della asserita “falsità” della dichiarazione, né sotto quello dell’inammissibilità dell’offerta, come invece sostenuto nell’atto di appello.
Tutto ciò che attiene all’esecuzione della prestazione riguarda lo specifico rapporto esistente tra la stazione appaltante e l’impresa aggiudicataria: quest’ultima si può dotare anche successivamente di tutti quegli elementi (ad esempio mezzi, personale aggiuntivo, strutture indicate nell’offerta) che costituiscono l’oggetto della prestazione dedotta nel contratto stipulato con la stazione appaltante, purché tali mezzi siano assicurati in sede di esecuzione.
E’ notorio che le imprese si dotano dei mezzi per eseguire una commessa quando l’hanno acquisita, non quando sperano di acquisirla, se tali mezzi non sono richiesti dal bando ai fini dell’ammissione.
L’omessa disponibilità dei “mezzi” indicati nell’offerta al momento della sua presentazione e relativi all’esecuzione della prestazione, non costituisce, quindi, falsità della dichiarazione o inammissibilità dell’offerta alla gara.
L’eventuale mancato rispetto da parte dell’aggiudicataria degli “impegni assunti” con la presentazione dell’offerta in sede di gara (che integrano l’oggetto del contratto stipulato con la stazione appaltante), costituisce inadempimento contrattuale, sanzionabile con i rimedi apprestati dall’ordinamento, ma non costituisce motivo di esclusione per mancanza dei requisiti, né per falsità della dichiarazione.
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8.2 - Ritiene il Collegio di dover confermare il proprio orientamento espresso in sede cautelare, confermando sul punto il capo di sentenza di primo grado.
Il TAR ha respinto la doglianza rilevando che: “il servizio oggetto del contratto d’appalto per cui è causa è destinato a svolgersi in parte in locali ubicati all’interno della struttura ospedaliera, in parte in locali esterni, cioè nella c.d. Centrale di Sterilizzazione Esterna, verso la quale lo strumentario da sterilizzare viene indirizzato dopo essere stato sottoposto al primo trattamento, di decontaminazione. Emerge altresì con evidenza, da una parte che la disponibilità di una Centrale di Sterilizzazione Esterna non è indicata tra i requisiti di partecipazione alla gara, posto che il Disciplinare di gara individua a tale scopo solo lo svolgimento di servizi analoghi nel triennio 2012-2014; d’altra parte che nessuna previsione contenuta nel Disciplinare di gara o nel Capitolato Speciale imponeva in modo chiaro e specifico che i partecipanti alla gara dovessero produrre, unitamente alla domanda di partecipazione, la documentazione che dimostrava la disponibilità di una centrale di sterilizzazione esterna, né la documentazione che tale disponibilità comprovava per un periodo minimo di 5 anni.
15.1. L’art. 17 del Disciplinare imponeva, è vero, ai partecipanti di inserire, nella Busta Tecnica, anche una dichiarazione attestante che la centrale di sterilizzazione esterna “indicata” era conforme al D.P.R. 37/1997, ma tale previsione non imponeva e non aveva ad oggetto, in modo esplicito e diretto, la dimostrazione della disponibilità della centrale in capo al partecipante e/o la dimostrazione di tale disponibilità per un periodo minimo di cinque anni: si vuol cioè dire che la previsione di che trattasi, contenuta nell’art. 17 del Disciplinare di gara, poteva -e potrebbe- essere letta anche nel senso che imponeva semplicemente in capo ai partecipanti l’obbligo di attestare l’impegno ad utilizzare un centrale di sterilizzazione esterna a norma di legge, e nulla più. D’altro canto è fuor di dubbio che la disponibilità di una centrale esterna di sterilizzazione risultava necessaria ai fini della esecuzione dell’appalto, emergendo evidente, dall’art. 1 nonché dalle altre norme sopra riportate del Capitolato Speciale, che nella centrale esterna debbono svolgersi alcune fasi del servizio oggetto di appalto
”.
Ha poi aggiunto il TAR che: "la disponibilità di una centrale esterna per il quinquennio non è stata indicata tra i requisiti oggettivi di capacità tecnica e che, pertanto, la citata utilità non può e non deve essere individuata nella mera esigenza di tutelare la Stazione Appaltante in ordine alla affidabilità del contraente ed alla sua capacità di avere, per tutta la durata del contratto, la disponibilità di una centrale di sterilizzazione esterna. Da questo punto di vista occorre qui rammentare che rientra nella discrezionalità della Stazione Appaltante la individuazione dei requisiti oggettivi di capacità tecnica e che il Giudice Amministrativo non può sostituirsi ad essa in tale valutazione, segnatamente interpretando la lex specialis in guisa da far assumere il ruolo di requisito di capacità tecnica ad un elemento che invece non lo è in base alla medesima lex specialis”.
8.3 - Tali conclusioni sono state rese dal primo giudice dopo un’approfondita disamina della lex specialis di gara, rilevando –condivisibilmente- che non vi era nella lex specialis alcuna disposizione che imponeva come requisito di ammissione alla procedura di gara la disponibilità quinquennale della centrale di sterilizzazione, sicché l’eventuale esclusione dalla gara per tale motivo, avrebbe comportato la sua illegittimità per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.
8.4 - Peraltro, la tesi interpretativa dell’appellante, diretta a trasformare un requisito di esecuzione –quale è quello previsto dall’art. 17 del disciplinare– in un requisito di partecipazione, confondendo la natura e la finalità (ben distinti tra loro) dei requisiti, comporterebbe anche la violazione dei criteri ermeneutici relativi all’interpretazione del contratto, applicabili alla materia degli appalti (art. 1362 e seguenti, ed in particolare la violazione del principio di cui all’art. 1366 c.c.), incidendo in questo modo sul legittimo affidamento dei concorrenti: l’introduzione surrettizia di un requisito di ammissione non chiaramente espresso dalla stazione appaltante, lede –infatti– la buona fede dei concorrenti che, facendo affidamento sull’interpretazione letterale delle clausole di gara, non hanno riscontrato l’esistenza di un requisito di ammissione “implicito” e dunque “nascosto” e, conseguentemente, non si sono avvalsi degli strumenti apprestati dall’ordinamento (ad es. avvalimento, ricorso al R.T.I.), per procurarselo.
I bandi di gara (ed il relativi atti connessi, disciplinari, capitolati speciali) devono essere chiari in modo da non poter indurre in errore i partecipanti in merito ai requisiti richiesti; non è ammissibile un’interpretazione diretta a ricavare dalle norme relative all’esecuzione della prestazione ulteriori requisiti di ammissione “nascosti” o “impliciti”, facendo leva sul concetto di “essenzialità”.
Spetta, infatti, alla sola stazione appaltante, nell’esercizio del proprio potere tecnico discrezionale, delineare in modo palese (facendolo seguire dall’indicazione specifica “a pena di inammissibilità dell’offerta”) ciò che riveste natura “essenziale” per lo svolgimento del servizio, tenuto conto delle sue specifiche esigenze: non possono ricavarsi ex post, attraverso la lettura congiunta delle clausole del capitolato speciale, presunti requisiti ritenuti “essenziali” per lo svolgimento del servizio (ma non qualificati come tali dalla stazione appaltante), facendo leva -per di più- sulle particolari modalità di esecuzione della prestazione indicate dal concorrente nella sua offerta tecnica.
In questo modo, infatti, si confondono i due piani nettamente separati, costituiti dall’individuazione dei requisiti di ammissione (potere che spetta alla sola stazione appaltante) e che riguarda elementi oggettivi valevoli per tutti i concorrenti, nel rispetto del principio della par condicio, e requisiti specifici attinenti alle particolari modalità di esecuzione della prestazione oggetto del successivo contratto, prescelti del singolo concorrente in sede di offerta tecnica, che come tali sono stati individuati dall’impresa partecipante alla gara e che valgono –ovviamente– solo per essa.
Non può infatti ritenersi che l’offerta di tali particolari modalità e caratteristiche specifiche possa costituire motivo di esclusione, ove non vi sia prova del loro possesso al momento della presentazione dell’offerta: ciò non rileva né sotto il profilo della asserita “falsità” della dichiarazione, né sotto quello dell’inammissibilità dell’offerta, come invece sostenuto nell’atto di appello.
Tutto ciò che attiene all’esecuzione della prestazione riguarda lo specifico rapporto esistente tra la stazione appaltante e l’impresa aggiudicataria: quest’ultima si può dotare anche successivamente di tutti quegli elementi (ad esempio mezzi, personale aggiuntivo, strutture indicate nell’offerta) che costituiscono l’oggetto della prestazione dedotta nel contratto stipulato con la stazione appaltante, purché tali mezzi siano assicurati in sede di esecuzione.
E’ notorio che le imprese si dotano dei mezzi per eseguire una commessa quando l’hanno acquisita, non quando sperano di acquisirla, se tali mezzi non sono richiesti dal bando ai fini dell’ammissione.
L’omessa disponibilità dei “mezzi” indicati nell’offerta al momento della sua presentazione e relativi all’esecuzione della prestazione, non costituisce, quindi, falsità della dichiarazione o inammissibilità dell’offerta alla gara.
L’eventuale mancato rispetto da parte dell’aggiudicataria degli “impegni assunti” con la presentazione dell’offerta in sede di gara (che integrano l’oggetto del contratto stipulato con la stazione appaltante), costituisce inadempimento contrattuale, sanzionabile con i rimedi apprestati dall’ordinamento, ma non costituisce motivo di esclusione per mancanza dei requisiti, né per falsità della dichiarazione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.10.2017 n. 4859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione immediata degli atti di gara - Offerte anomale e soccorso istruttorio.
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● Processo amministrativo – Rito appalti – Mancata esclusione altro concorrente – Conseguenza.
● Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara – Immediata impugnazione – Condizione.
● Contratti della pubblica amministrazione – Offerta anomala – Verifica – Scelta del contraente con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa – Rup – Competenze – Individuazione.
● Contratti della pubblica amministrazione – Offerta anomala – Verifica – Contraddittorio con il concorrente – Art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Modalità – Individuazione.
● Contratti della pubblica amministrazione – Offerta anomala – Verifica – Sindacato giurisdizionale – Limiti.
● Contatti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Omessa allegazione di una referenza bancaria – Applicabilità del soccorso istruttorio.
  
● L’onere di tempestiva impugnativa del provvedimento di mancata esclusione di altro concorrente da una gara pubblica, ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non può essere ovviato tramite l’impugnazione incidentale di un successivo e autonomo provvedimento, quale quello inerente all’esclusione per anomalia della controparte e di accertamento dell’intervenuta efficacia dell’aggiudicazione. Né la decadenza processuale può essere superata ventilando il profilo della mancata verifica da parte della stazione appaltante dell’insussistenza dei requisiti morali, in sede di dichiarazione di efficacia dell’intervenuta aggiudicazione (1).
   ● In materia di gare pubbliche sussiste un onere di immediata impugnazione del bando di gara nel caso di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione che siano ex se ostativi all'ammissione dell'interessato o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; la mancata tempestiva impugnazione della lex specialis di gara rende irricevibile l’impugnativa della stessa successivamente formulata con ricorso incidentale (2).
   ● Ai sensi delle linee guida ANAC n. 3 del 2016 relative al Rup, nel caso di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa il Rup è competente a verificare la congruità delle offerte con il supporto della commissione giudicatrice; il riferimento al supporto da parte della commissione esaminatrice nella valutazione di anomalia contenuto nelle linee Guida ANAC comporta che il RUP, prima di assumere le valutazioni definitive in ordine al giudizio di anomalia, debba richiedere il parere non vincolante della Commissione esaminatrice (3).
   ● L’art. 97, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non articola più il contraddittorio inerente alla valutazione di anomalia o di congruità secondo rigide e vincolanti scansioni procedimentali, stabilendo esclusivamente che “la stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni”; da ciò, tuttavia, non deriva che il cit. art. 97, escluda l’esperibilità di ulteriori fasi di contraddittorio procedimentale prima di addivenire all’esclusione, come la richiesta di precisazioni scritte o l’audizione diretta dell’offerente, nel caso in cui le giustificazioni non siano state ritenute sufficienti in quanto affette da incompletezza o, comunque, rimangano dei chiari dubbi e perplessità che il confronto possa dipanare (4).
   ● Il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla stazione appaltante in ordine all’anomalia dell’offerta sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell’istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica (5).
   ● L’ipotesi di omessa allegazione di una referenza bancaria richiesta nella lex specialis rientra nell’ambito di applicazione della disciplina del soccorso istruttorio, attualmente disciplinata dall’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (6).

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   (1) Ha chiarito il Tar che nel caso di specie non occorre prendere posizione sulla questione se, come sostenuto da un orientamento giurisprudenziale più recente, il termine per l’impugnativa decorra esclusivamente dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo del committente ai sensi dell'art. 29, comma 1, d.lgs. 18.04.2016 n. 50 (Tar Napoli, sez. V, 06.10.2017, n. 4689; Tar Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379; id., sez. II-quater, 19.07.2017, n. 8704), oppure se il medesimo termine decorra dall'avvenuta conoscenza dell'atto di ammissione, anche a prescindere dall’indicata pubblicazione (Tar Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582; Tar Bari, sez. III, 08.11.2016, n. 1262).
Ad avviso del Tar si può, infatti, ritenere pacifico che, pur ammettendo la tesi più restrittiva, ove l'atto di ammissione dell'impresa alla gara pubblica non sia stato pubblicato sul profilo del committente, il termine decadenziale di 30 giorni inizierebbe comunque a decorrere dall’aggiudicazione, o meglio, dalla ricezione, mediante posta elettronica, del provvedimento di aggiudicazione definitiva (Tar Basilicata 13.01.2017, n. 24) e, comunque, dall’avvenuta conoscenza di quest’ultimo.
   (2) Cons. St., sez. III, 18.07.2017, n. 3541; Tar Valle d'Aosta 26.07.2017, n. 46; Tar Milano Sez. III, 20.02.2017, n. 423.
Ha ricordato il Tar che la mancata tempestiva impugnazione della lex specialis di gara rende irricevibile l’impugnativa della stessa successivamente formulata con ricorso incidentale. Né in senso opposto induce la previsione di cui all’art. 42, comma 1, c.p.a., giacché nel processo amministrativo è inammissibile l'introduzione in via incidentale (o meglio, entro i termini del ricorso incidentale) di una domanda diretta ad ampliare la materia del contendere, domanda che l'interessato aveva l'onere di proporre mediante un tempestivo e rituale ricorso avverso il provvedimento dal quale era sorta in lui un'autonoma ed immediata lesione e un conseguente e diretto interesse ad agendum (Tar Lazio, sez. II-ter, 02.01.2012, n. 4).
   (3) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza formatasi nel regime antecedente al nuovo codice dei contratti pubblici, sia in vigenza dell’art. 88, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che in precedenza, riconosceva che spettasse al Rup il compito di verifica delle offerte anomale.
Si riteneva che, allorché si fosse aperta la fase di verifica delle offerte anormalmente basse, la commissione aggiudicatrice avesse ormai esaurito il proprio compito, essendosi in tale momento già proceduto alla valutazione delle offerte tecniche ed economiche, all’assegnazione dei relativi punteggi ed alla formazione della graduatoria provvisoria tra le offerte; una possibile riconvocazione della commissione, di regola, sarebbe stata ipotizzabile solo laddove in sede di controllo sulle attività compiute fossero emersi errori o lacune tali da imporre una rinnovazione delle valutazioni (oltre che nell’ipotesi di regressione della procedura a seguito di annullamento giurisdizionale, come previsto dal comma 12 dell’art. 84, d.lgs. n. 163 del 2006).
Si riteneva, pertanto, del tutto fisiologico che fosse il Rup, che in tale fase interviene ad esercitare la propria funzione di verifica e supervisione sull’operato della commissione, il titolare delle scelte, e se del caso delle valutazioni, in ordine alle offerte sospette di anomalia (Cons. St., sez. V, 24.07.2017, n. 3646; id., sez. V, 10.02.2015, n. 689; id., A.P., 29.11.2012, n. 36).
Il testo dell’art. 97 del nuovo Codice dei contratti pubblici non contiene elementi che depongono per il passaggio delle competenze inerenti alla verifica dell’offerta anomala in capo alla Commissione giudicatrice, di cui all’art. 77 del medesimo Codice, e in grado di supportare un mutamento rispetto all’orientamento formatosi in vigenza del “vecchio” codice degli appalti.
La norma attuale dell’art. 97, come quella precedente dell’art. 84 del previgente Codice, rileva come tale verificazione spetti alla “Stazione appaltante”, senza ulteriori specificazioni. L’art. 31 del vigente Codice dei contratti pubblici, oltre a indicare alcuni specifici compiti del Rup, delinea la sua competenza in termini residuali precisando che “quest’ultimo, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Tra i compiti espressamente attribuiti alla Commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016, non figura la verifica dell’anomalia dell’offerta. Le linee guida ANAC n. 3 del 2016 relative al Rup, specificamente previste dal comma 5 dell’art. 31 del nuovo Codice, contemplano che nel caso di aggiudicazione con il criterio del minor prezzo, il Rup si occupa della verifica della congruità delle offerte. La stazione appaltante può prevedere che il Rup possa o debba avvalersi della struttura di supporto o di una commissione nominata ad hoc.
Nel caso di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, viene invece previsto che il Rup verifichi la congruità delle offerte con il supporto della commissione giudicatrice. Quest’ultima indicazione, quindi, seppure conferma la competenza in capo al RUP delle valutazioni di anomalia di offerta, prevede che, per gli appalti aggiudicati con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tale valutazione venga fatta con l’ausilio della commissione giudicatrice.
In sostanza, per gli appalti in cui, per il criterio di selezione, la valutazione dell’offerta dal punto di vista tecnico si presenta più complessa, viene indicata la necessità di un “intervento” da parte della Commissione esaminatrice che ha già esaminato l’offerta anche nelle sue componenti tecniche. Il riferimento al “supporto” da parte della commissione esaminatrice nella valutazione di anomalia contenuto nelle linee Guida ANAC palesa, quindi, l’esigenza che il Rup, prima di assumere le valutazioni definitive in ordine al giudizio di anomalia, chieda il parere non vincolante della Commissione esaminatrice.
   (4) Ha chiarito il Tar che la circostanza che l’ulteriore fare di confronto procedimentale dopo la presentazione delle giustificazioni non sia più prevista come obbligatoria in ogni caso dalla norma di legge, non esclude che la stazione appaltante non sia tenuta alla richiesta di ulteriori chiarimenti o a una audizione quando le circostanze concrete lo richiedano per l’incompletezza delle giustificazioni.
Ha aggiunto che la normativa del nuovo Codice dei contratti pubblici, stante la sua diretta derivazione dalle norme comunitarie, deve essere interpretata in coerenza con i superiori principi di riferimento e, in particolare per quanto qui interessa, con l’art. 69 della Direttiva n. 2014/24 secondo cui “l'amministrazione aggiudicatrice valuta le informazioni fornite consultando l'offerente”, quindi garantendo il pieno contraddittorio anche, all’occorrenza (se necessario), mediante più passaggi procedimentali, nella forma ritenuta più opportuna, volti a chiarire i profili ancora dubbi o in contestazione dopo la presentazione delle iniziali giustificazioni scritte; tutto questo anche per le procedure sotto soglia qualora non sussista una disciplina specifica (come, ad es., quella di cui al comma 8 dello stesso art. 97) o emerga l’inequivocabile contrasto con i principi di cui all’art. 30, comma 1, richiamati dall’art. 36, comma 1, del Codice (Tar Marche 23.01.2017, n. 66).
   (5) Cons. St., sez. III, 13.09.2017, n. 4336.
   (6) Ha chiarito il Tar che già in vigenza del “vecchio” Codice dei contratti pubblici, in seguito all’introduzione del comma 1-ter all'art. 46, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 –ad opera dell'art. 39, comma 2, d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.08.2014, n. 114- si poteva ritenere che l’istituto fosse applicabile all'ipotesi di omessa produzione delle referenze bancarie previste, a pena di esclusione, dalla lex specialis (Tar Lecce., sez. III, 18.05.2016, n. 829).
Il soccorso istruttorio riguardava, infatti, tutte le ipotesi in cui vi fosse una omissione, incompletezza o irregolarità di una dichiarazione o di un elemento con il carattere dell'essenzialità (ex art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006), al ricorrere delle quali la stazione appaltante non poteva più comminare direttamente l'esclusione del concorrente, ma il procedimento contemplato nell'art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006.
Il legislatore, infatti, perseguendo l'obiettivo di una disciplina sostanzialistica e semplificatrice in tema di documentazione e accertamento dei requisiti soggettivi, aveva esteso e procedimentalizzato il potere di soccorso istruttorio ed aveva relegato l'esclusione dalla gara come conseguenza dell'omessa produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il termine (appositamente) assegnato dalla stazione appaltante, e non più quale effetto di carenze originarie. Ciò con la ratio di evitare, nella prima fase dell'ammissione delle offerte, esclusioni immediate dalla procedura selettiva per carenze documentali, compresa la mancanza assoluta delle dichiarazioni.
Tale orientamento favorevole all’applicazione del soccorso istruttorio per tali ipotesi può considerarsi ribadito dall’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, ai sensi del quale "le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
Ha infine aggiunto il Tar che il comma 9 del cit. art. 84 ritiene il soccorso istruttorio ammissibile per la “mancanza” di “elementi” e ammette anche che le dichiarazioni mancanti siano “rese” (e non solo integrate o regolarizzate) successivamente, consentendo, quindi, anche di allegare documenti formati dopo la richiesta da parte dell’amministrazione. Quelli che non possono sopravvenire alla data di presentazione dell’offerta sono, infatti, i requisiti sostanziali richiesti dalla legge o dal bando, non i documenti che comprovano l’esistenza di tali requisiti, come, nel caso di specie, quelli attestati dalla referenza bancaria, ovverosia l’esistenza di rapporti di affidamento bancari con l’impresa e la sua relativa solidità finanziaria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.10.2017 n. 4884 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Commissari, ok alle linee dell'Anac. Dal Cds.
Via libera del Consiglio di stato alle linee guida Anac sui commissari di gara, ma occorre fare presto nell'adozione del decreto ministeriale sui compensi per non bloccare il varo del sistema di nomina dei commissari.

Lo dice il Consiglio di Stato con il parere 19.10.2017 n. 2163 sulle linee guida Anac relative a criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell'Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni aggiudicatrici di contratti pubblici.
Nel parere si sottolinea la necessità che il decreto ministeriale sui compensi dei commissari di gara venga adottato in tempi brevi «in quanto la determinazione del compenso costituisce un elemento essenziale del conferimento dell'incarico, con la conseguenza che un ritardo nella predisposizione delle tabelle potrebbe impedire l'entrata in vigore dell'intera disciplina in esame». Ed è infatti quello che sta accadendo.
Il parere segue l'invio da parte dell'Autorità di una nuova bozza messa a punto a valle del decreto correttivo del codice appalti che, fra le altre cose, ha previsto che la stazione appaltante possa nominare alcuni componenti interni alla stazione appaltante, nel rispetto del principio di rotazione, escluso il Presidente, anche in caso di lavori di importo inferiore a un milione di euro e in presenza di servizi e forniture di elevato contenuto tecnologico e innovativo.
Il parere chiede di articolare la composizione dell'Albo in modo da separare gli esperti «esterni» da quelli «interni» alle stazioni appaltanti, nonché di creare un'area dedicata agli esperti che operano in settori delicati e specifici (articolo ItaliaOggi del 20.10.2017).

APPALTIMancata aggiudicazione, il danno va provato. Risarcimento del 10% non è automatico.
Il 10% di risarcimento per mancata aggiudicazione di un appalto non è automatico perché il pregiudizio subito va provato sia come danno curricolare, sia come mancato utile.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, con la sentenza 17.10.2017 n. 4803 della VI Sez..
La pronuncia affronta a tutto tondo il tema di risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, ripercorrendo l'iter che deve essere compiuto per arrivare alla eventuale riconoscimento del risarcimento. In particolare, la sentenza ha specificato che, nel caso di mancata aggiudicazione, il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse cosiddetto positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno cosiddetto curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto).
A tale riguardo sarà poi a carico dell'impresa che si ritiene danneggiata provare l'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto. La possibilità di operare una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 del codice civile è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno.
Viene invece escluso che si possa pretendere di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché questo criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata; anche per il cosiddetto danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante; invece, il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa (articolo ItaliaOggi del 20.10.2017).

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MASSIMA
1.– La statuizione del giudice di prime cure è erronea e l’appello deve essere accolto.
2.– Ai sensi dell’art. 97, comma 2, lettera e), del decreto-legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici): «Quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata; al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia, il RUP o la commissione giudicatrice procedono al sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi: […] lettera e) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media, moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla commissione giudicatrice o, in mancanza della commissione, dal RUP, all’atto del suo insediamento tra i seguenti valori: 0,6; 0,7; 0,8; 0,9».
La disposizione riproduce il calcolo di cui alla lettera a), a cui aggiunge un ulteriore passaggio, vale a dire la c.d. manipolazione della media degli scarti: una volta accantonate le ali, individuata la media e lo scarto medio degli scarti delle offerte che superano la predetta media deve essere sorteggiato un coefficiente casuale da 0,6 a 1,4 da moltiplicare alla media degli scarti (il metodo e) coincide con quello a) quando il coefficiente estratto è pari a 1).
2.1.‒ L’appellante contesta alla stazione appaltante di avere “reinserito” nel calcolo dello scarto medio aritmetico le due offerte previamente eliminate nella prima fase del taglio delle ali, in violazione dell’art. 97, comma 2, lettera e), del codice dei contratti. Le modifiche introdotte nella lettera dall’art. 62, comma 1, lettera a), punto 6), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 ‒che pure non sarebbero applicabili in quanto la causa in oggetto attiene a fatti esauriti nel 2016‒ non rilevano quindi nel caso in esame.
3.– Occorre premettere che i precedenti evocati dal Tribunale amministrativo regionale non sono pertinenti, in quanto fanno riferimento alla diversa fattispecie dei ribassi identici.
Il tema oggi in contestazione –se le offerte rientranti nel 10% di maggiore o minore ribasso (c.d. “ali”) debbano essere fittiziamente escluse solo nella fase d’accertamento della soglia d’anomalia (per poi essere riammesse per la determinazione della media percentuale dei ribassi e per il calcolo dello scarto medio aritmetico) oppure se il loro “taglio” debba rappresentare una definitiva fuoriuscita dal novero delle offerte valide per la gara– è diverso dalla quaestio iuris consistente nello stabilire se, nell’effettuare il “taglio delle ali” l’amministrazione debba considerare come offerta unica soltanto le offerte con eguale ribasso che si trovino “a cavallo” delle ali da tagliare, ovvero anche le offerte con eguale ribasso che si collochino all’interno delle ali.
Quest’ultimo aspetto ‒avuto tuttavia riguardo alla disciplina previgente dettata dal d.lgs. n. 163 del 2006‒ è stato recentemente risolto dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 19.09.2017, n. 5), enunciando i seguenti principi di diritto: «1) il comma 1 dell’articolo 86 del decreto legislativo n. 163 del 2006 deve essere interpretato nel senso che, nel determinare il dieci per cento delle offerte con maggiore e con minore ribasso (da escludere ai fini dell’individuazione di quelle utilizzate per il computo delle medie di gara), la stazione appaltante deve considerare come ‘unica offerta’ tutte le offerte caratterizzate dal medesimo valore, e ciò sia se le offerte uguali si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse;
2) il secondo periodo del comma 1 del d.P.R. 207 del 2010 (secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all'articolo 86, comma 1, del codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”) deve a propria volta essere interpretato nel senso che l’operazione di accantonamento deve essere effettuata considerando le offerte di eguale valore come ‘unica offerta’ sia nel caso in cui esse si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse
».
4.– L’istituto dell’anomalia dell’offerta è risalente ed è stata nel tempo oggetto di ripetuti interventi correttivi. Tuttavia, rispetto alla specifica regola operativa che si chiede oggi di interpretare è ravvisabile una “continuità normativa”, pur nella successione di diverse fonti, a partire dalla legge n. 415 del 1998 e sino all’entrata in vigore dell’odierno decreto-legislativo n. 50 del 2016).
4.1.‒ La formulazione del testo legislativo, di per sé, non chiarisce se la fittizia eliminazione del 10% delle offerte di maggior ribasso valga solo ai fini del calcolo della prima media (la media dei ribassi) e non anche della seconda media (la media degli scostamenti), oppure se tale depurazione interessi tutte e due le fasi del calcolo. L’inciso della norma («incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media») può essere interpretato, sia nel senso di incrementare a media aritmetica con lo scarto ottenuto tenendo conto di tutti i ribassi percentuali eccedenti la media, e quindi anche del 10% delle offerte escluse dal calcolo della prima media aritmetica; sia nel senso di non considerare più le stesse (una volta fittiziamente eliminate) a fini del complessivo calcolo del valore di anomalia.
Sennonché, elementi di carattere teleologico e sistematico militano a ritenere come corretta l’interpretazione secondo cui la previa esclusione (c. d. taglio delle ali) va inclusa anche nel calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali superiori alla media. Si tratta ‒è bene precisare sin d’ora‒ di una soluzione ermeneutica che, a partire dal parere del Consiglio di Stato, sez. II, 03.03.1999, n. 285, non è mai stata posta in discussione dalla giurisprudenza, e rispetto alla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi.
4.2.‒ Il metodo di calcolo della c.d. soglia di anomalia è composto da una serie di operazioni successive: anzitutto la determinazione della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, poi la determinazione dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superino la predetta media, quindi la somma del secondo risultato al primo.
Ai fini del calcolo, la disposizione prevede l’accantonamento dal calcolo di quelle offerte che si collocano sui margini estremi del gruppo, così percentualmente definiti. Si presume infatti che le offerte che si collocano in queste fasce estreme possano corrispondere non tanto ad una reale intenzione di contrarre, quanto all'obiettivo di condizionare la determinazione della media stessa e dunque della soglia di anomalia (c.d. offerte di appoggio): per questa ragione di prevenzione di un'ipotetica turbativa esse sono prudenzialmente accantonate dal calcolo e dunque temporaneamente private di effetto, salva restando la loro successiva verifica, ai fini della effettiva esclusione dalla gara, rispetto al risultato del calcolo stesso
4.3.‒ La logica del taglio delle ali è tale per cui la presunzione su cui si basa è di ordine generale, tale cioè da non soffrire eccezioni o intermittenze nello sviluppo logico e aritmetico della determinazione della soglia di anomalia, sicché un metodo di calcolo che la prendesse in considerazione ai fini della prima operazione, ma la escludesse dalla seconda, sarebbe intrinsecamente contraddittorio: da un lato infatti, ai fini della prima e principale operazione (la determinazione della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse) essa escluderebbe tali offerte a causa di questa presunzione; ma poi, ai fini della operazione di correttivo (la determinazione dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superino la predetta media) le recupererebbe facendole partecipare a pieno titolo al calcolo stesso del correttivo.
Questo effetto sarebbe irragionevolmente contraddittorio, perché farebbe perno su due giudizi di valore giuridico tra loro antitetici e incompatibili e dunque comprometterebbe la stessa ragion d'essere del primo accantonamento, peraltro indubitabilmente voluta dalla legge.
La stessa formula di calcolo diverrebbe disomogenea e irrazionale, perché, per definire la media degli scarti (vale a dire un elemento semplicemente correttivo della media delle offerte) includerebbe nel calcolo fattori già esclusi (le offerte di margine) dall’elemento corretto, che questo non hanno concorso a determinare: sicché, trattandosi di una “correzione” che ha i caratteri e lo scopo di un affinamento ulteriore della media delle offerte da prendere in considerazione ai fini del calcolo, non si vede perché tali fattori prima esclusi dovrebbero ora concorrere a definire questo ulteriore affinamento.
Inoltre, dal punto di vista pratico, l’attenuazione dell’effetto dell’accantonamento già operato provocherebbe la determinazione di una soglia di anomalia deviata dai ribassi più accentuati: vale a dire una contraddizione intrinseca non solo al calcolo, ma anche alla ratio della legge stessa, che è tesa ad evitare che le offerte disancorate dal mercato possano incidere negativamente sul conteggio.
Il che evidenzia che l’opinione della limitazione del taglio delle ali alla sola prima operazione finirebbe per confliggere con le finalità della legge e del sistema in tema di esclusione delle offerte anomale e che, all'opposto, la sua estensione anche alla seconda operazione costituisce un elemento essenziale per mantenere coerenza al metodo di calcolo e al sistema. Occorre invero che il metodo sia tale da evitare ogni suo sostanziale squilibrio, strumentale all'ottenimento di una soglia-risultato eterodossa rispetto alla funzione della norma.
4.4.‒ Su queste basi, non vale obiettare che, in tal modo, la determinazione quantitativa della soglia di anomalia si colloca su valori costantemente più elevati rispetto al primo, con la conseguenza che anche l’aggiudicazione dell’appalto avviene a prezzi mediamente più alti.
La finalità della verifica dell’anomalia dell’offerta è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l’amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta e con modalità esecutive in violazione di norme con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi.
L’amministrazione deve infatti aggiudicare l’appalto a soggetti che abbiano presentato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all’insieme dei costi, rischi ed oneri che l’esecuzione della prestazione comporta a carico dell’appaltatore con l’aggiunta del normale utile d’impresa affinché la stessa possa rimanere sul mercato. Occorre quindi contemperare l’interesse del concorrente a conseguire l’aggiudicazione formulando un’offerta competitiva con quello della stazione appaltante ad aggiudicare al minor costo senza rinunciare a standard adeguati ed al rispetto dei tempi e dei costi contrattuali.
Lo spirito del meccanismo del taglio delle ali risponde all’esigenza di porre rimedio al fenomeno delle offerte largamente e palesemente disancorate dai valori medi, presentate al solo scopo di condizionare pesantemente le medie. Se la ratio sottesa alle norme in esame è quella di “sterilizzare” (attraverso il noto meccanismo dell’accantonamento) la valenza di offerte dal contenuto estremo (e in quanto tali tendenzialmente inaffidabili), è del tutto coerente con tale approccio che la predetta funzione correttiva operi sia sul versante del computo della media, sia del calcolo dello scarto aritmetico medio dei ribassi percentuali. Il reinserimento delle offerte “tagliate” nelle successive operazioni di calcolo si appalesa invece come contraria dello stesso fondamento di contrastare la turbativa degli incanti.
L’interpretazione accolta, tra l’altro, è quella più garantista dell’interesse pubblico, in quanto maggiormente idonea a prevenire manipolazioni della gara e del suo esito ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso.
4.5.– In definitiva, va ribadito che la “soglia di anomalia” va determinata nel seguente modo:
   a) si forma l’elenco delle offerte ammesse disponendole in ordine crescente dei ribassi;
   b) si calcola il dieci per cento del numero delle offerte ammesse e lo si arrotonda all’unità superiore;
   c) si accantona in via provvisoria un numero di offerte, pari al numero di cui alla lettera b), di minor ribasso nonché un pari numero di offerte di maggior ribasso (taglio delle ali);
   d) si calcola la media aritmetica dei ribassi delle offerte che restano dopo l’operazione di accantonamento di cui alla lettera c);
   e) si calcola ‒sempre con riguardo alle offerte che restano dopo l’operazione di accantonamento di cui alla lettera c)‒ lo scarto dei ribassi superiori alla media di cui alla lettera d) e, cioè, la differenza fra tali ribassi e la suddetta media;
   f) si calcola la media aritmetica degli scarti e cioè la media delle differenze;
   g) si somma la media di cui alla lettera d) con la media di cui alla lettera f); tale somma costituisce la “soglia di anomalia”.

4.6.– Tali modalità corrispondono peraltro alle esemplificazioni costantemente operate dalla apposita Autorità di vigilanza, ora ANAC (cfr. le determinazioni n. 4/1999 e n. 6/2009, non contraddette dal recente comunicato 05.10.2016).
4.7.– L’argomento di interpretazione letterale utilizzato dal giudice di primo grado avrebbe dovuto svilupparsi lungo una direzione esattamente opposta: se il legislatore avesse volutamente disporre il reinserimento delle “ali tagliate” nel secondo conteggio ‒contraddicendo un assetto ermeneutico oramai consolidato‒ avrebbe dovuto esplicitarlo chiaramente.
4.8.‒ Peraltro, nel caso in esame, il giudice di prime cure ha omesso di stigmatizzare anche una ulteriore illegittimità. Dopo l’iniziale esclusione delle ali “estreme”, la stazione appaltante ha reinserito, nei successivi conteggi, soltanto le “ali maggiori”. Ebbene, pur ponendosi nella prospettiva interpretativa (sopra respinta) secondo cui lo scarto medio aritmetico andava calcolato mediante il reinserimento delle ali inizialmente tagliate, appare del tutto ingiustificato ‒logicamente prima ancora che normativamente‒ l’inserimento della sola “ala maggiore” e non delle offerte contenenti un ribasso più contenuto.
5.– In definitiva, la procedura di affidamento dell’appalto risulta viziata.
Sul versante conformativo, il Collegio deve tener conto del fatto che l’amministrazione appellata ha contestato in punto di fatto quanto affermato dall’appellante ‒ovvero che il reinserimento delle due ali maggiori (inizialmente “tagliate”) avrebbe determinato un valore del 3,36% quale scarto medio percentuale‒ affermando invece che, anche utilizzando gli scarti di detta ala, la media degli scarti ottenuta sarebbe stata proprio del 5,84%, in esecuzione della presente sentenza.
Pertanto, in esecuzione della presente sentenza, la stazione appaltante dovrà dunque operare, nel contraddittorio delle parti, una ripetizione della gara “virtuale”, nel rispetto dei canoni di determinazione della soglia di anomalia sopra indicati.
6.‒ Per economia di giudizi, il Collegio statuisce sin d’ora che, ove risulti all’esito della ripetizione virtuale della gara che la EL. SRL (avendo offerto un ribasso percentuale del 29,92%) avrebbe dovuta esclusa, ai sensi dell’art. 97, comma 8, del codice dei contratti pubblici, la stazione appaltante dovrà liquidare in favore della società appellante il risarcimento del danno (il quale, come è noto, prescinde da un accertamento in ordine alla imputabilità soggettiva della lamentata violazione), calcolato secondo i criteri di seguito indicati ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.
6.1.‒ A tale proposito, è utile richiamare i principi elaborati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2017, alla stregua dei quali:
   - ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   - nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell’appalto);
   - spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.);
   - la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull’ammontare del danno;
   - le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni (sulla base della regola della inferenza “probabilistica” e non “necessaria”);
   - va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata;
   - anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante;
   - il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa.

6.2.‒ L’applicazione di tali principi al caso di specie conduce alle seguenti conclusioni:
   a) va esclusa la possibilità di riconoscere, automaticamente e forfettariamente, a titolo di lucro cessante una somma corrispondente al 10% dell’importo dei lavori;
   b) non è stata fornita la prova del c.d. danno curriculare;
   c) sussistono i presupposti per applicare la detrazione relativa al c.d. aliunde perceptum. Rileva, a tal fine, la considerazione: «secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili. Pertanto, in mancanza di prova contraria, che l'impresa che neghi l'aliunde perceptum può fornire anche sulla base dei libri contabili, deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la mancata aggiudicazione l'aliunde perceptum, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria. Del resto -e si è al secondo ordine di considerazioni- nell'ambito delle gare d'appalto, tale conclusione risulta avvalorata dalla distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell'impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell'aggiudicazione di una commessa, o nell'attesa dell'esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenere l'aggiudicazione, atteso che possono essere molteplici le evenienze per cui potrebbe risultare non aggiudicataria della commessa stessa (il che corrobora la presunzione); dall'altro che, ai sensi dell'art. 1227, secondo comma, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell'impresa ben può assumere rilievo in ordine all'aliunde percipiendum»
(cfr. Adunanza Plenaria n. 2 del 2017).
6.3.‒ In definitiva, esclusa la possibilità di applicare la percentuale del 10%, e riconosciuta la particolare difficoltà di fornire una prova puntuale del relativo importo, tale utile non può che essere determinato in via equitativa (art. 2056 c.c.) nella misura del cinque per cento del valore dell’appalto (determinato in ragione del ribasso offerto in gara dall’avente diritto), da cui va però detratto un ulteriore 2% per cento, in quanto deve presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno.
6.4.‒ Ai fini dell’integrale risarcimento del danno, che costituisce debito di valore, occorre riconoscere, inoltre, al danneggiato sia la rivalutazione monetaria (secondo l’indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat), che attualizza al momento della liquidazione il danno subito, sia gli interessi compensativi (determinati in via equitativa assumendo come parametro il tasso di interesse legale) calcolati sulla somma periodicamente rivalutata, volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia, infine, gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo.

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIL’accesso agli atti di una procedura di affidamento di contratti pubblici è oggi, nel settore degli appalti pubblici, disciplinato dall’art. 53 d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
La giurisprudenza sull’immediato antecedente normativo, l’art. 13 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di identico tenore, ha affermato trattarsi di norma eccezionale la cui portata va limitata sia soggettivamente ad altro concorrente che proponga istanza di accesso alla stazione appaltante, che oggettivamente alla sola tutela in giudizio dei propri interessi.
Nondimeno, al di là della platea dei concorrenti che competono per il bene della vita dell’aggiudicazione e di quanto l’accesso è strumentale, e in ragione del rinvio contenuto nel primo comma dell’art. 53 alla l. 07.08.1990 n. 241, le fattispecie, diverse da quelle ricordate dalla giurisprudenza circa i concorrenti, restano per i terzi disciplinate dalle disposizioni generali degli articoli 22 e ss. l. 07.08.1990, n. 241.
Tra queste rientra quella del presente giudizio in cui a richiedere l’accesso agli atti è un soggetto estraneo alla procedura di gara, che intende salvaguardare la consistenza e il valore del diritto di proprietà dei condomini sul quale l’appalto stesso va evidentemente ad incidere: perciò titolare di un interesse differenziato e qualificato, inerente al godimento della proprietà immobiliare. Egli, in ragione tale distinzione dell’interesse di cui è portatore, ben può accedere agli atti della procedura nei presupposti, che ricorrono, e nelle condizioni dell’art. 22 l. n. 241 del 1990.
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Il vaglio dell’Amministrazione sull’istanza di accesso è per costante giurisprudenza limitato in un perimetro ristretto dalla legge e non contempla alcuna valutazione dell’utilizzo che il privato intenda fare del documento.
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9. L’appello del Ministero dell’interno è infondato e va respinto.
10. Vale rammentare che l’accesso agli atti di una procedura di affidamento di contratti pubblici è oggi, nel settore degli appalti pubblici, disciplinato dall’art. 53 d.lgs. 18.04.2016, n. 50. La giurisprudenza sull’immediato antecedente normativo, l’art. 13 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di identico tenore, ha affermato trattarsi di norma eccezionale la cui portata va limitata sia soggettivamente ad altro concorrente che proponga istanza di accesso alla stazione appaltante, che oggettivamente alla sola tutela in giudizio dei propri interessi (cfr. Cons. giust. amm. Sic., 23.09.2016, n. 324 e Cons. Stato, V, 16.03.2016, n. 1056).
11. Nondimeno, al di là della platea dei concorrenti che competono per il bene della vita dell’aggiudicazione e di quanto l’accesso è strumentale, e in ragione del rinvio contenuto nel primo comma dell’art. 53 alla l. 07.08.1990 n. 241, le fattispecie, diverse da quelle ricordate dalla giurisprudenza circa i concorrenti, restano per i terzi disciplinate dalle disposizioni generali degli articoli 22 e ss. l. 07.08.1990, n. 241.
Tra queste rientra quella del presente giudizio in cui a richiedere l’accesso agli atti è un soggetto estraneo alla procedura di gara, che intende salvaguardare la consistenza e il valore del diritto di proprietà dei condomini sul quale l’appalto stesso va evidentemente ad incidere: perciò titolare di un interesse differenziato e qualificato, inerente al godimento della proprietà immobiliare. Egli, in ragione tale distinzione dell’interesse di cui è portatore, ben può accedere agli atti della procedura nei presupposti, che ricorrono, e nelle condizioni dell’art. 22 l. n. 241 del 1990.
12. Il Ministero, nell’appello, non nega sussistere una situazione soggettiva in capo all’appellata, tanto è che richiama le “prerogative condominiali” (i poteri e le facoltà riconosciuti dal codice civile a chi riveste lo status di condomino), ma assume che l’interessata non potrebbe ricevere utilità diretta dalla conoscenza degli atti della procedura di gara.
Così agendo e così argomentando, tuttavia, il Ministero si sostituisce indebitamente al privato interessato nella valutazione delle modalità, naturalmente libere, di salvaguardia dei propri interessi: e, senza averne legittimazione in ragione dei principi dello Stato di diritto, esercita un non previsto sindacato di tutela sull’istanza di accesso: che è naturalmente precluso all’Amministrazione che detiene i documenti.
13. Nemmeno pare ricorrere una delle cause di esclusione dell’art. 24, commi 1 e 6, l. 07.08.1990, n. 241.
14. Vale aggiungere che il vaglio dell’Amministrazione sull’istanza di accesso è per costante giurisprudenza limitato in un perimetro ristretto dalla legge e non contempla alcuna valutazione dell’utilizzo che il privato intenda fare del documento (Cons. Stato, V, 23.03.2015 n. 1545; IV, 29.01.2014 n. 461; IV, 19.03.2014, n. 1339, ma già Cons. Stato, V, 10.01.2007, n. 55).
15. Il collegamento dell’interesse differenziato dell’istante condominio con i documenti di cui chiede l’accesso era dunque palese, essendo ente gestore dello stabile dove si trovano gli immobili adibiti ad abitazione e accoglienza. Sicché è del tutto naturale che, a meglio tutelare il proprio definito interesse, stimasse funzionale l’acquisizione della conoscenza degli atti in questione, tra cui ad esempio le certificazioni urbanistiche e sanitarie, sulla cui base l’Associazione culturale Ac. ha partecipato alla procedura e la Prefettura ne ha disposto l’affidamento, così destinando gli appartamenti condominiali a fini che l’interessata assume diversi da quelli consentiti dal regolamento condominiale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.10.2017 n. 4784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa esclusa la natura meramente accessoria e pertinenziale dell’impianto di autolavaggio rispetto al distributore di carburante, poiché il primo è comunque suscettibile di autonomo utilizzo economico quale fonte reddituale, dovendosi altresì escludere la natura precaria dello stesso essendo preordinato a soddisfare utilità a tempo indeterminato.
Per tali ragioni devono pertanto considerarsi nuove costruzioni (ex art. 3, comma 1, lett. e.5, del DPR n. 380/2001) soggette a permesso di costruire, anche i manufatti mobili e leggeri che costituiscono l’impianto allorché siano funzionali in maniera permanente allo svolgimento di un'attività e comunque non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Per le stesse ragioni gli impianti di autolavaggio non possono essere ricondotti alla nozione di variante non essenziale rispetto ad un permesso di costruire rilasciato per il solo distributore di carburante.
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1. La ricorrente, in qualità di gestore di un distributore di carburanti nel comune di Mogliano, presentava, al SUAP comunale, una SCIA per la realizzazione di un autolavaggio entro l’area del predetto distributore dopo aver acquisito l’Autorizzazione Unica Ambientale dalla provincia di Macerata (per gli scarichi di acque reflue e i profili acustici).
Il responsabile del SUAP, tuttavia, adottava l’ordinanza oggetto di gravame recante ordine di non esecuzione dei lavori, ritenendo che gli stessi rappresentassero una nuova costruzione da realizzare previo rilascio di un permesso di costruire convenzionato come previsto dall’art. 7 delle NTA del PRG.
...
3. Nel merito il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate, che trattano congiuntamente tutti i profili di doglianza.
Va innanzitutto esclusa la natura meramente accessoria e pertinenziale dell’impianto di autolavaggio rispetto al distributore di carburante, poiché il primo è comunque suscettibile di autonomo utilizzo economico quale fonte reddituale, dovendosi altresì escludere la natura precaria dello stesso essendo preordinato a soddisfare utilità a tempo indeterminato (cfr. TAR Abbruzzo, L’Aquila, 14.11.2016 n. 712).
Per tali ragioni devono pertanto considerarsi nuove costruzioni (ex art. 3, comma 1, lett. e.5, del DPR n. 380/2001) soggette a permesso di costruire, anche i manufatti mobili e leggeri che costituiscono l’impianto allorché siano funzionali in maniera permanente allo svolgimento di un'attività e comunque non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis 26.03.2014 n. 3328 e giurisprudenza ivi richiamata).
Per le stesse ragioni gli impianti di autolavaggio non possono essere ricondotti alla nozione di variante non essenziale rispetto ad un permesso di costruire rilasciato per il solo distributore di carburante.
Risulta inoltre irrilevante la SCIA presentata in data 04.08.2016 (non contestata dal comune) per la realizzazione di un muro di sostegno lungo le scarpate esistenti nel perimetro occidentale e meridionale del distributore, trattandosi di opera di altra natura, peraltro non suscettibile di autonomo utilizzo economico.
Da ultimo va osservato che le previsioni di cui al punto 87 della Sezione I dell’allegato A al D.Lgs. n. 222/2016 (che sottopongono la realizzazione dei distributori di carburante al regime amministrativo dell’autorizzazione e del silenzio-assenso in caso di inerzia oltre ad autorizzazione -non soggetta a silenzio-assenso- per lo scarico in caso di lavaggio auto), non contrastano con il regime edificatorio subordinato al permesso di costruire, atteso che anche quest’ultimo è sottoposto al regime del silenzio-assenso ex art. 20, comma 8, del DPR n. 380/2001 (TAR Marche, sentenza 16.10.2017 n. 778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVale pur sempre, in materia di distanze tra edifici, il principio di prevenzione in caso di sopraelevazione, il quale implica che il preveniente, da un lato, deve conformarsi alla scelta originariamente effettuata e proseguire in altezza, onde il prevenuto, dall'altro lato, ha diritto di soprelevare o sul confine (come poi ha da ultimo fatto pure l’appellante), o ad una distanza da questo pari a quella minima prevista dalla legge o dagli strumenti urbanistici.
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... per la riforma della sentenza 15.04.2013 n. 3804 del TAR Lazio–Roma, sez. II-bis, resa tra le parti e concernente una concessione edilizia in sanatoria;
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Considerato per contro che:
   – per la restante parte, l’appello invece non ha pregio e va respinto, anzitutto con riguardo al torrino copriscale, alla prosecuzione del muro perimetrale ed alla copertura dei posti-auto, opere, queste, per le quali il CTU nominato dal Tribunale di Civitavecchia ha escluso ogni sconfinamento nella proprietà attorea;
   – né vale obiettare che la consulenza tecnica de qua afferisca ad altro giudizio, poiché, per un verso, nel processo amministrativo essa (comunque sia introdotta innanzi a questo Giudice) costituisce non un mezzo di prova ma, al più, di ricerca della prova (c.d. consulenza tecnica percipiente) nel pieno contraddittorio tra le parti, al fine di fornire al Giudice medesimo i necessari elementi di valutazione quando la complessità sul piano tecnico dei fatti di causa ne impedisca l’esatta comprensione (arg., da ultimo, ex Cons. St., V, 11.05.2017 n. 2181) e, per altro e correlato verso, l’acquisizione di una CTU, resa in altro giudizio ma tra le stesse parti e per la medesima questione controversa, non è che l’assunzione d’una documentazione già formata (e, comunque, soggetta a tal contraddittorio) ed apprezzabile da questo Giudice secondo gli ordinari criteri di giudizio sui mezzi di prova;
   – quand’anche fosse vero lo sconfinamento, varrebbe pur sempre, in materia di distanze tra edifici, il principio di prevenzione in caso di sopraelevazione, il quale implica che il preveniente, da un lato, deve conformarsi alla scelta originariamente effettuata e proseguire in altezza, onde il prevenuto, dall'altro lato, ha diritto di soprelevare o sul confine (come poi ha da ultimo fatto pure l’appellante), o ad una distanza da questo pari a quella minima prevista dalla legge o dagli strumenti urbanistici (cfr. Cons. St., V, 10.01.2012 n. 53) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.10.2017 n. 4760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo un avviso costante di questa Sezione, la destinazione a parcheggio pubblico impressa in base a previsioni di tipo urbanistico, non comportando automaticamente l’ablazione dei suoli ed, anzi, ammettendo la realizzazione anche da parte dei privati, in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all’uso pubblico costituisce vincolo conformativo e non anche espropriativo della proprietà privata per cui la relativa imposizione non necessita della contestuale previsione dell’indennizzo, né delle puntuali motivazioni sulle ragioni poste a base della eventuale reiterazione della previsione stessa.
Più in generale, va attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999 che ha sancito appunto il principio per cui non sono annoverabili tra i vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte urbanistiche realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata.
In sostanza, sono conformativi e al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene.
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14. Non è poi fondata la censura relativa alla illegittima reiterazione di un vincolo espropriativo. La destinazione dell’area di proprietà degli appellanti ad “attrezzature e servizi di quartiere”, specificata nel Paino particolareggiato a “parcheggio pubblico”, non ha infatti natura di vincolo espropriativo, tenuto conto che ai sensi dell’art. 23 della NTA al PRG non riservava la realizzazione delle attrezzature e dei servizi di quartiere alla sfera pubblica. Da ciò ne discende la natura conformativa e non espropriativa di tale destinazione.
15. Infatti, secondo un avviso costante di questa Sezione (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 17.03.2017, n. 1196), la destinazione a parcheggio pubblico impressa in base a previsioni di tipo urbanistico, non comportando automaticamente l’ablazione dei suoli ed, anzi, ammettendo la realizzazione anche da parte dei privati, in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all’uso pubblico costituisce vincolo conformativo e non anche espropriativo della proprietà privata per cui la relativa imposizione non necessita della contestuale previsione dell’indennizzo, né delle puntuali motivazioni sulle ragioni poste a base della eventuale reiterazione della previsione stessa.
16. Più in generale, va attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati (cfr. Cons. Stato sez. IV 07.04.2010 n. 1982) e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999 che ha sancito appunto il principio per cui non sono annoverabili tra i vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte urbanistiche realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata.
In sostanza, sono conformativi e al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo (non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione) i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2017, n. 1700) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.10.2017 n. 4748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Circa la necessità di una puntuale motivazione delle scelte urbanistiche operate dal Comune, in ogni caso, non può ammettersi l’obbligo di una specifica motivazione per tutte le scelte operate.
Nel caso di specie si tratta di una variante generale che non necessita una motivazione articolata in modo diverso rispetto a quella propria di un Piano regolatore, cioè non una motivazione specifica circa la destinazione di zona delle singole aree, essendo sufficiente una motivazione sulle esigenze urbanistiche che sono a fondamento della variante medesima.
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17. Quanto poi alla necessità di una puntuale motivazione delle scelte urbanistiche operate dal Comune, nella sostanza, come detto, essa è riferita al vigente Piano particolareggiato. In ogni caso, non può ammettersi l’obbligo di una specifica motivazione per tutte le scelte operate.
Nel caso di specie si tratta di una variante generale che non necessita una motivazione articolata in modo diverso rispetto a quella propria di un Piano regolatore, cioè non una motivazione specifica circa la destinazione di zona delle singole aree, essendo sufficiente una motivazione sulle esigenze urbanistiche che sono a fondamento della variante medesima (cfr. Cons. Stato. A.P. n. 24 del 1999 e sez. IV, 28.09.2016, n. 4022) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.10.2017 n. 4748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricostruzione a seguito di crollo non è dissimile dalla demolizione e ricostruzione ammesse nell’ambito della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, sempreché vi siano elementi sufficienti per provare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio “da ristrutturare”.
Anche se l’edificio non è in tutto o in parte fisicamente esistente al momento dell’intervento richiesto (per effetto del crollo), non v’è ragione di classificarlo come nuova costruzione.
Un edificio può, infatti, dirsi esistente non solo quando “esista un organismo edilizio, seppur non necessariamente abitato od abitabile, connotato nei suoi caratteri essenziali, dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua (fedele) ricostruzione”, ma anche quando la sua più recente consistenza, precedente l’evento sismico o assimilato, sia apprezzabile compiutamente sulla base di aerofotogrammetrie e/o immagini satellitari di sicura veridicità.
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... per la riforma della sentenza 12.01.2012 n. 62 del TAR per il Piemonte, sez. II, resa tra le parti, concernente diniego di permesso di costruire in sanatoria.
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L’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina all’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto “se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La fattispecie fattuale oggetto di gravame va, dunque, analizzata alla stregua dei presupposti previsti da tale norma, atteso che, nel caso di specie, è stata proprio tale “conformità” all’astratta fattispecie normativa ad essere stata, essenzialmente, messa in discussione dall’Amministrazione.
La decisione di denegare la sanatoria invocata dai ricorrenti muove, infatti, dall’indimostrato assunto che le difformità edilizie riscontrate si pongano in contrasto con la disciplina urbanistico/edilizia vigente e, nello specifico, con le norme tecniche di attuazione di natura idrogeologica (art. 22) del vigente PRGC (d’ora in poi semplicemente NTA) e con l’art. 69 del Regolamento edilizio comunale.
L’analisi non può, quindi, che partire dalla lettura delle citate disposizioni e dalla valutazione della reale situazione fattuale dell’immobile.
Al riguardo, va innanzitutto evidenziato che il PRGC, sia vigente che adottato, di Gassino individua il sedime su cui insiste l’immobile oggetto d’istanza di sanatoria come ricadente in area ascritta alla classe IIIb2, rispetto alla quale le NTA, all’art. 22 (e, nel testo adottato, all’art. 1.3.4), dispongono, per quanto qui rileva, che non sono consentiti cambi di destinazione d’uso che implichino un aumento del carico antropico.
Tale previsione va, peraltro, letta anche alla luce della descrizione della classe IIIb riportata nella circolare del Presidente della Giunta della Regione Piemonte 08.05.1996, n. 7/LAP e con la relativa nota tecnica esplicativa pubblicata dalla Regione Piemonte (pt. 7.2 secondo cui, nella classe IIIb, in assenza di interventi di riassetto saranno consentite solo trasformazioni che non aumentino il carico antropico, fatte salve le situazioni di grave pericolo, individuate in ambito di P.R.G.C. dalle cartografie tematiche o esplicitate nella cartografia di sintesi quali sottoclassi specifiche, si ritiene corretto, a seguito di opportune indagini di dettaglio, considerare accettabili o di adeguamenti che consentano una più razionale fruizione degli edifici esistenti oltreché gli adeguamenti igienico-funzionali (p.es: si intende quindi possibile la realizzazione di ulteriori locali, il recupero di preesistenti locali inutilizzati, pertinenze quali box, ricovero attrezzi ecc..., escludendo viceversa la realizzazione di nuove unità abitative).
Nel caso di specie si tratta della trasformazione senza aumento di cubatura di un ex dimora rurale in una casa trifamiliare (previa ricostruzione di parti crollate e aumento di volumetria, principalmente sulle estremità nord-ovest e sud-est dell’edificio), pur con lieve aumento del carico antropico, ma con preminenti finalità migliorative dell’edificio, in seguito all’intervento di messa in sicurezza eseguito dai ricorrenti sull’immobile di proprietà per consentirne la sicurezza e la stabilità.
Tale circostanza, di per sé idonea, dal punto di vista motivazionale, induce a ritenere insufficiente la motivazione del diniego gravato, pur relativo ad abusi dei quali è stata legittimamente invocata la sanatoria, essendo plausibile quanto dedotto in ordine alla conformità del preesistente al ricostruito.
E qualora gli interventi eseguiti possano ricondursi ad opere di ristrutturazione c.d. “leggera”, ne dovrebbe riconoscersi la conformità alle NTA del Comune di Gassino o, quantomeno, all’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui l’aumento di carico antropico e la cui realizzazione, in base alle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune di Gassino, è subordinata alla previa attuazione degli interventi di riassetto territoriale di cui innanzi s’è detto.
Quanto all’asserita perdurante vigenza dell’art. 69 del Regolamento edilizio comunale, il quale vieta la ricostruzione, in tutto o in parte, di edifici accidentalmente crollati, qualora ubicati in classe IIIb2, va rilevato che tale norma appare superata per incompatibilità con quelle sopra richiamate.
La ricostruzione a seguito di crollo non è dissimile, infatti, dalla demolizione e ricostruzione ammesse nell’ambito della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, sempreché vi siano elementi sufficienti per provare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio “da ristrutturare”.
Anche se l’edificio non è in tutto o in parte fisicamente esistente al momento dell’intervento richiesto (per effetto del crollo), non v’è ragione di classificarlo come nuova costruzione. Un edificio può, infatti, dirsi esistente non solo quando “esista un organismo edilizio, seppur non necessariamente abitato od abitabile, connotato nei suoi caratteri essenziali, dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua (fedele) ricostruzione” (ex multis C.d.S., V, 10.02.2004, n. 475), ma anche quando la sua più recente consistenza, precedente l’evento sismico o assimilato, sia apprezzabile compiutamente sulla base di aerofotogrammetrie e/o immagini satellitari di sicura veridicità.
Ne deriva che, nel caso di specie, le parti crollate potevano comunque essere ricostruite, previa compiuta ed analitica verifica degli elementi e requisiti ora ricordati.
Sulla scorta delle considerazioni innanzi riportate, la Sezione ritiene di poter concludere per l’accoglimento dell’appello ed, in riforma della sentenza appellata, per l’annullamento degli atti impugnati in primo grado, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.10.2017 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica Pec ad una Pubblica amministrazione effettuata ad indirizzo di posta elettronica non inserito nel registro del Ministero della giustizia.
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Processo amministrativo – Notifica del ricorso – A mezzo posta elettronica certificata – A Pubblica amministrazione – Ad indirizzo di posta elettronica non inserito nel registro del Ministero della giustizia – Esclusione.
Ai fini della notifica telematica di un atto processuale ad una Amministrazione pubblica non può utilizzarsi qualunque indirizzo Pec, ma solo quello inserito nell'apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia, al quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli entro il 30.11.2014 (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar, richiamando Tar Palermo, sez. III, 13.07.2017, n. 1842, che il d.m. 16.02.2016, n. 40, recante le regole operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, all'art. 14 stabilisce che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi Pec di cui all'art. 16, comma 12, d.l. 18.10.2012, n. 179.
Il predetto comma 12 (come modificato da ultimo ad opera del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito in l. 11.08.2014, n. 114, onerava le amministrazioni pubbliche di comunicare entro il 30.11.2014 l'indirizzo di posta elettronica certificata ai fini della formazione dell'elenco presso il Ministero della giustizia. Il comma 1-bis, aggiunto all'art. 16-ter, d.l. n. 90 del 2014, estende alla giustizia amministrativa l'applicabilità del comma 1 dello stesso art. 16-ter, a tenore del quale ai fini della notificazione si intendono per pubblici elenchi "quelli previsti dagli artt. 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'art. 16, comma 6, d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla l. 28.01.2009, n. 2, dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia".
Non è più espressamente annoverato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi Pec da utilizzare per le notificazioni e comunicazioni degli atti il registro IPA, disciplinato dall'art. 16, comma 8, d.l. 29.11.2008, n. 185, secondo cui tutte le amministrazioni pubbliche devono istituire una casella di posta elettronica certificata e darne comunicazione al Centro Nazionale per l'informatica nella Pubblica amministrazione, che così provvedeva alla pubblicazione di tali caselle in un elenco consultabile per via telematica.
Tale elenco IPA era stato dapprima equiparato agli elenchi pubblici dai quali poter acquisire gli indirizzi Pec validi per le notifiche telematiche dall'art. 16-ter, d.l. n. 179 del 2012. Ma quest'ultima disposizione è stata modificata dall'art. 45-bis, comma 2, lett. a), n. 1), d.l. n. 90 del 2014 nel senso sopra trascritto ed il registro IPA, che prima era espressamente contemplato, non è stato più richiamato dalla norma come novellata, che continua a richiamare l'art. 16, d.l. n. 185 del 2008, ma limitatamente al comma 6, che riguarda il registro delle imprese.
Ha aggiunto il Tar, richiamando Tar Basilicata 21.09.2017, n. 607, che è irrilevante che il sito dell’Amministrazione intimata rechi l’indicazione del recapito Pec, trattandosi di circostanza inidonea ad integrare l’errore scusabile, in quanto le Amministrazioni pubbliche, in adempimento alle norme del codice dell’amministrazione digitale, di cui al d.lgs. 07.03.2005, n. 82, sono tenute a pubblicare nella pagina iniziale del loro sito un indirizzo di posta elettronica certificata a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta, ma la normativa in proposito nulla prevede in relazione alla notificazione dei ricorsi giurisdizionali.
Non è dunque configurabile un'ipotesi di riconoscimento dell'errore scusabile, atteso che l’art. 37 c.p.a. riconnette l’errore scusabile alla "presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto, nella specie non ravvisabili. Del resto, si tratta di istituto di carattere eccezionale, che introduce una deroga al principio cardine della perentorietà dei termini di impugnativa, sicché la disposizione è di stretta interpretazione" (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 13.10.2017 n. 2401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn linea di principio, la concretezza dell'interesse personale all'acceso ai documenti amministrativi significa che la posizione legittimante all'accesso non è confondibile con quello di altri soggetti o con l'interesse pubblico né può essere caratterizzato da un eccessivo grado d'astrazione, ma deve collegarsi a situazioni giuridicamente rilevanti, secondo cui il titolare deve esternare le ragioni per cui intende accedere e, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione di diritto d'accesso è preordinato.
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L'onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di accesso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può ritenersi assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, così da mettere l'amministrazione in condizione di comprendere la portata e il contenuto della domanda.
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In linea di principio, la concretezza dell'interesse personale all'acceso ai documenti amministrativi significa che la posizione legittimante all'accesso non è confondibile con quello di altri soggetti o con l'interesse pubblico né può essere caratterizzato da un eccessivo grado d'astrazione, ma deve collegarsi a situazioni giuridicamente rilevanti, secondo cui il titolare deve esternare le ragioni per cui intende accedere e, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione di diritto d'accesso è preordinato (C.d.S., V, 13.12.1999, n. 2109).
Facendo applicazione di questi principi occorre considerare come, con la domanda di accesso in esame, gli interessati abbiano sufficientemente delineato la propria posizione differenziata e lo scopo rilevante dell’accesso, segnatamente indicando la propria qualità di genitori di minore nato nella struttura ospedaliera, la ragioni di tutela giuridica, ancorché in via transattiva (sulla «strumentalità» intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante anche diverso da quello legato all’utilizzo giudiziale dei documenti v. C.d.S., VI, 15.05.2017, n. 2269), dei propri interessi in relazione a un’ipotesi di responsabilità medica (evidentemente collegata all’evento della nascita), con un legame logico-consequenziale sicuramente riconoscibile dalla Struttura sanitaria, la quale ha pure ammesso di aver già consegnato le cartelle cliniche relative al parto del bambino.
Quanto, poi, al possibile vulnus alla privacy di eventuali controinteressati, occorre considerare come la richiesta di accesso (per come è stato ribadito in ricorso) non riguarda affatto i nominativi dei nati, quanto piuttosto documenti contenenti dati puramente quantitativi, racchiusi entro un preciso spettro temporale e distinti soprattutto per tecnica del parto.
A tal fine risulta senz’altro accoglibile, perché strettamente connesso all’interesse di tutela rappresentato, l’accesso a tali informazioni documentali in forma anonima (con apposizione cioè di eventuali omissis), dovendo essere escluse per la mancanza di un evidenza in tal senso soltanto la distinzione di razza e sesso dei minori («quanti neonati maschi e femmine di colore») e il dato relativo al giorno 30.12.2007, successivo alla nascita del minore interessato.
Allo stesso modo non sussiste la necessità di un bilanciamento con un controinteresse relativamente al nominativo dei sanitari presenti in sala parto, posto che, ai sensi del combinato dell’art. 22, comma 1, lettera c), l. n. 241/1990 e dell’art. 60 d.lgs. n. 196/2003 e contrariamente a quanto considerato dalla resistente, non viene in rilievo un diritto di costoro alla riservatezza, non trattandosi di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale degli interessati.
Quanto, poi, all’eccezione articolata dalla resistente in ordine al carattere “esplorativo” dell’istanza di accesso, implicando questa un’attività di elaborazione dell’amministrazione in quanto non esisterebbero documenti contenenti le informazioni richieste, occorre in primo luogo chiarire come la giurisprudenza costantemente affermi che dell'inesistenza del documento di cui è chiesta l'ostensione occorre dare conto a mezzo di certificazione della parte sostanziale (e non del difensore nelle memorie), evidenziando le ragioni per cui non è possibile consegnare la copia conforme all'originale delle cartelle richieste (ex multis Tar Campania, Napoli, VI, 24.05.2017, n. 2734, Tar Sicilia, Catania, I, 28.04.2016, n. 1179), incombente che, nella specie, non risulta assolto.
In secondo luogo, è anche opportuno puntualizzare come «l'onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di accesso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può ritenersi assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, così da mettere l'amministrazione in condizione di comprendere la portata e il contenuto della domanda» (Cd.S., VI, 25.08.2017, n. 4074) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 12.10.2017 n. 10313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAvendo l’apposizione del prescritto cartello di cantiere la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), è onere del vicino eventuale ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto.
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A prescindere dal rilievo che la stabile residenza in un edificio sito a una distanza di quasi 300 m dal sito della nuova costruzione –la quale ultima peraltro, secondo la documentazione fotografica prodotta dalla stessa ricorrente, è avvistabile, dall’edificio in cui essa risiede, limitatamente alla parte di una falda del tetto– appare di per sé inidonea a integrare l’elemento materiale della vicinitas, ritiene il Collegio che la tesi invocata dagli odierni appellanti muova da un ormai datato concetto di vicinitas, basato sul semplice collegamento del soggetto ricorrente con la zona oggetto di edificazione, e che, per contro, il mero criterio della vicinitas non possa ex se radicare la legittimazione (e l’interesse) al ricorso, dovendo la parte ricorrente pur sempre fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati a una propria situazione giuridica soggettiva (ad. es., sub specie di deprezzamento del valore di un bene in proprietà, o di concreta compromissione del diritto alla salute), non essendo sufficiente a integrare una situazione qualificata di legittimazione (e di interesse) a ricorrere la generica deduzione di una semplice riduzione del panorama dovuta all’intervento edilizio (nella specie, peraltro, comunque da escludere sulla base delle risultanze della documentazione fotografica in atti), radicante un interesse di mero fatto non azionabile in giudizio.
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3. RITENUTO, in reiezione del motivo d’appello dedotto avverso la declaratoria di irricevibilità del ricorso n. 65 del 2017, che:
   - alla luce delle acquisite risultanze istruttorie è rimasto comprovato che il cantiere, allestito nel mese di maggio 2016, sin dall’inizio era munito di un cartello di cantiere, sul quale risultava espressamente indicato, quale oggetto della costruzione, la «realizzazione di nuova sede di maso chiuso», e il quale riportava gli estremi della concessione edilizia n. 42/2016 del 10.05.2016 (v. doc. 25 del fascicolo di primo grado dell’originaria ricorrente) che a sua volta contemplava, quale oggetto del titolo edilizio, «l’esecuzione dei lavori di realizzazione di una nuova sede di maso chiuso (stalla/fienile e casa d’abitazione) sulle pp.ff. 4516/1 e 4517 C.C. Badia a San Cassiano»;
   - avendo l’apposizione del prescritto cartello di cantiere la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), era onere dell’originaria ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto, dal quale risultava in modo chiaro e univoco che sarebbero stati realizzati sia una nuova casa di abitazione sia un fabbricato rurale (con la precisazione, in linea di diritto, che la richiesta di accesso non è idonea ex se a differire sensibilmente i termini di proposizione del ricorso, qualora il vicino, asseritamente pregiudicato dalla costruzione, attraverso il cartello di cantiere sia stato reso edotto degli estremi del titolo edilizio: infatti, se per un verso deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, al fine di evitare la creazione di una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con il principio dell’affidamento; v. in tale senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3191);
   - peraltro, la specificazione sul cartello, quale oggetto della costruzione, della realizzazione di una «nuova sede del maso», rendeva evidente che sarebbero stati realizzati sia una casa di abitazione sia un fabbricato rurale (fienile-stalla), intendendosi, sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio giuridico, per sede del maso chiuso una casa di abitazione con relativi annessi rustici (v. art. 2 l. prov. n. 17/2001; art. 20 d.P.G.P. n. 5/1998; nel regime previgente, art. 2 d.P.G.P. n. 8/1962, di approvazione del testo unico delle leggi provinciali sull’ordinamento dei masi chiusi nella Provincia di Bolzano);
   - a ciò si aggiunge che, come correttamente rilevato nell’impugnata sentenza n. 265/2017, la natura dei lavori eseguiti sin dal mese di maggio 2016 era tale che chiunque vi poteva inferire, in modo univoco e secondo massime di comune esperienza, che i lavori erano vòlti alla costruzione anche di una casa di abitazione e non solo di un fabbricato rustico (infatti, l’esecuzione di uno scavo profondo finalizzato alla costruzione di garages o altri locali interrati era di per sé indicativa della costruzione di una casa di abitazione, essendo un fabbricato rurale costituito da stalla e fienile notoriamente privo di vani interrati);
   - come, poi, altrettanto puntualmente rilevato nell’impugnata sentenza, la notizia della costruzione di una nuova sede masale da parte degli originari controinteressati era stata riportata su tutti i locali mass media, sia in occasione della presentazione, in data 28.06.2016, di un ricorso in via amministrativa ex art. 105 l. urb. prov. da parte di altri vicini, sia in occasione della proposizione, a fine novembre 2016, del ricorso giudiziario n. 307 del 2016 da parte di Cr.Yl.;
   - alla luce degli evidenziati elementi probatori precisi, plurimi e concordanti, nonché tenuto conto della natura delle censure dedotte dall’originaria ricorrente –incentrate sull’asserita inammissibilità ab imis del rilascio di una concessione edilizia per la realizzazione di una casa di abitazione sul fondo in questione e dunque vòlte a contestare l’an e non solo il quomodo di siffatta costruzione–, deve ritenersi incontrovertibilmente comprovato che l’originaria ricorrente sin dal mese di maggio 2016 fosse stata a piena conoscenza dell’intervento progettato e in grado di valutarne l’eventuale incidenza lesiva sulla propria sfera giuridica, mentre il ricorso introduttivo di primo grado è stato notificato il 03.04.2017, e dunque ampiamente oltre il termine di decadenza di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., maturato a fine luglio 2016;
4. RITENUTA, altresì, l’infondatezza del motivo d’appello proposto avverso la statuizione di inammissibilità del ricorso n. 307 del 2016 per carenza di legittimazione e d’interesse in capo all’originaria ricorrente Cr.Yl., in quanto:
   - la stessa adduce a situazione legittimante la circostanza di risiedere stabilmente in un edificio (sito a San Cassiano nel Comune di Badia, via ... n. 17, come da certificato di residenza storico e auto-dichiarazione asseverata, in atti), a distanza di quasi 300 m dalla nuova costruzione (precisamente, di 283 m, giusta planimetria prodotta sub doc. 24 del fascicolo di primo grado), in posizione dominante –su un pendio sovrastante– rispetto al luogo di ubicazione della nuova costruzione (v. documentazione fotografica in atti), asseritamente integrante il requisito della vicinitas che radicherebbe la propria legittimazione e il proprio interesse a ricorrere;
   - a prescindere dal rilievo che la stabile residenza in un edificio sito a una distanza di quasi 300 m dal sito della nuova costruzione –la quale ultima peraltro, secondo la documentazione fotografica prodotta dalla stessa ricorrente, è avvistabile, dall’edificio in cui essa risiede, limitatamente alla parte di una falda del tetto– appare di per sé inidonea a integrare l’elemento materiale della vicinitas, ritiene il Collegio che la tesi invocata dagli odierni appellanti muova da un ormai datato concetto di vicinitas, basato sul semplice collegamento del soggetto ricorrente con la zona oggetto di edificazione, e che, per contro, il mero criterio della vicinitas non possa ex se radicare la legittimazione (e l’interesse) al ricorso, dovendo la parte ricorrente pur sempre fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati a una propria situazione giuridica soggettiva (ad. es., sub specie di deprezzamento del valore di un bene in proprietà, o di concreta compromissione del diritto alla salute), non essendo sufficiente a integrare una situazione qualificata di legittimazione (e di interesse) a ricorrere la generica deduzione di una semplice riduzione del panorama dovuta all’intervento edilizio (nella specie, peraltro, comunque da escludere sulla base delle risultanze della documentazione fotografica in atti), radicante un interesse di mero fatto non azionabile in giudizio (v. in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2016, n. 383, con ulteriori richiami);
   - il ricorso di primo grado appare dunque riconducibile più che all’esercizio di un’azione a tutela di una posizione giuridica soggettiva differenziata facente capo all’originaria ricorrente e sorretta da un interesse concreto, attuale e personale, a un’azione di tipo popolare a tutela del paesaggio e dell’assetto urbanistico-edilizio della frazione comunale (San Cassiano nel Comune di Badia) di residenza della ricorrente, come tale inammissibile, con conseguente corretta pronuncia di inammissibilità non scalfita, per le esposte ragioni, in modo dirimente dal motivo d’appello in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.10.2017 n. 4830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione di un fondo a zona "E agricola" è di ostacolo a qualsivoglia tipologia di costruzioni, atteso che la finalità e la ratio della previsione di una zona agricola riposa nella salvaguardia del consumo del territorio e della destinazione di un sito agli scopi tipici dell’agricoltura ed interdice, quindi, anche la realizzazione di una costruzione adibita ad edilizia commerciale o industriale.
Giova al riguardo segnalare che recente giurisprudenza d’appello ha sancito che “Le normative comunali, che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona agricola interventi edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio e comportano la sua deruralizzazione”.
Su tali condivisibili premesse il Consiglio ha enunciato il principio, calzante nel caso all’esame, secondo cui “La realizzazione del piazzale–deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce intervento di permanente trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio disciplinato dall’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d’uso funzionali consentite per la zona agricola”.
Anche l’orientamento del Tribunale muove negli stessi sensi, avendo addirittura escluso la compatibilità con una zona agricola di un parcheggio scoperto, statuendo che “La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola”.
Il giudice amministrativo relativamente al semplice deposito di materiale ferroso in area a destinazione agricola aveva già affermato che “È legittimo il diniego del permesso di costruire relativo ad un deposito a cielo aperto di materiale ferroso e non ferroso in zona agricola, nell’ipotesi in cui tale tipologia di costruzione non rientri tra quelle nominativamente previste dalle norme tecniche di attuazione del piano di fabbricazione".
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Di recente la Sezione ha sottoposto a meditata revisione l’’orientamento giurisprudenziale secondo cui la destinazione di un’area a zona agricola non preclude usi della stessa per finalità diverse dall’edilizia residenziale, osservando che “4.3. Il sempre più crescente fenomeno di incremento delle attività industriali, commerciali e, in genere, del settore terziario con la consequenziale relativa attività edificatoria, produce e concorre a causare sempre più, consumo del suolo, erosione del tessuto e del patrimonio naturale, della terra intesa come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e beni immateriali che possono essere riassunti nella vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio edilizio esistente mirano ad arginare. Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni immateriali non deve porre in ombra anche la considerazione, di rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola come sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente delle risorse alimentari che ne sono il portato, e l’esigenza di salvaguardarlo.”
Si è quindi concluso che “4.4. Orbene, la consumazione in generale del territorio che l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale, concorre a determinare, si pone, a parere del Collegio in palese contrasto con la ratio insita nella destinazione di una parte del territorio a zona agricola e relativa classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va individuata nella salvaguardia delle potenzialità immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è fatto cenno poc’anzi. E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non può non indurre a ritenere incompatibili con tale destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici, quali quello edificatorio ancorché per finalità non residenziali”.
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3. Con il secondo mezzo il ricorrente contesta l’assunto motivo espresso nel provvedimento gravato, secondo il quale la classificazione della zona ove ricade l’intervento come “E agricola” è ostativa alla realizzazione di nuovi volumi edilizi in ampliamento ai preesistenti.
Per il deducente la classificazione di un’area come agricola osta unicamente alla costruzione di nuove costruzioni adibite ad edilizia residenziale ma non inibisce la realizzazione di immobili adibiti ad usi diversi dall’abitazione invocandosi in particolare Cons. Stato, Sez. VI, n. 5886/2014.
3.1. Deve il Collegio dissentire da tale prospettazione poiché la destinazione di un fondo a zona "E agricola" è di ostacolo a qualsivoglia tipologia di costruzioni, atteso che la finalità e la ratio della previsione di una zona agricola riposa nella salvaguardia del consumo del territorio e della destinazione di un sito agli scopi tipici dell’agricoltura ed interdice, quindi, anche la realizzazione di una costruzione adibita ad edilizia commerciale o industriale.
Giova al riguardo segnalare che recente giurisprudenza d’appello ha sancito che “Le normative comunali, che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona agricola interventi edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio e comportano la sua deruralizzazione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.03.2014, n. 1099).
Su tali condivisibili premesse il Consiglio ha enunciato il principio, calzante nel caso all’esame, secondo cui “La realizzazione del piazzale–deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce intervento di permanente trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio disciplinato dall’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d’uso funzionali consentite per la zona agricola”.
Anche l’orientamento del Tribunale muove negli stessi sensi, avendo addirittura escluso la compatibilità con una zona agricola di un parcheggio scoperto, statuendo che “La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola” (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 10/03/2016, n. 1397).
Il giudice amministrativo relativamente al semplice deposito di materiale ferroso in area a destinazione agricola aveva già affermato che “È legittimo il diniego del permesso di costruire relativo ad un deposito a cielo aperto di materiale ferroso e non ferroso in zona agricola, nell’ipotesi in cui tale tipologia di costruzione non rientri tra quelle nominativamente previste dalle norme tecniche di attuazione del piano di fabbricazione" (TAR Puglia-Bari, Sez. III, 20.05.2008 n. 1197).
Segnala il Collegio che di recente la Sezione ha sottoposto a meditata revisione l’’orientamento giurisprudenziale secondo cui la destinazione di un’area a zona agricola non preclude usi della stessa per finalità diverse dall’edilizia residenziale, osservando che “4.3. Il sempre più crescente fenomeno di incremento delle attività industriali, commerciali e, in genere, del settore terziario con la consequenziale relativa attività edificatoria, produce e concorre a causare sempre più, consumo del suolo, erosione del tessuto e del patrimonio naturale, della terra intesa come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e beni immateriali che possono essere riassunti nella vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio edilizio esistente mirano ad arginare. Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni immateriali non deve porre in ombra anche la considerazione, di rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola come sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente delle risorse alimentari che ne sono il portato, e l’esigenza di salvaguardarlo.”
Si è quindi concluso che “4.4. Orbene, la consumazione in generale del territorio che l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale, concorre a determinare, si pone, a parere del Collegio in palese contrasto con la ratio insita nella destinazione di una parte del territorio a zona agricola e relativa classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va individuata nella salvaguardia delle potenzialità immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è fatto cenno poc’anzi. E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non può non indurre a ritenere incompatibili con tale destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici, quali quello edificatorio ancorché per finalità non residenziali” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 24.10.2016, n. 4869).
La Sezione ha più di recente confermato il riferito indirizzo: TAR Campania–Napoli, Sez. III, 01.12.2016 n. 5555
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.10.2017 n. 4770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza, in ipotesi di provvedimenti vincolati, nega che l'omissione del preavviso di diniego abbia attitudine invalidante il provvedimento finale, in forza della previsione di cui all’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990.
Si è invero puntualizzato che “la prevalente giurisprudenza infatti, nell'ottica di un'interpretazione non inutilmente formalistica delle garanzie partecipative, bene ha chiarito che “la violazione dell' art. 10-bis della L. n. 241 del 1990, non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata comunque -secondo l'indirizzo giurisprudenziale maggioritario- alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo”.

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6. Con il quinto ed ultimo mezzo il deducente lamenta che l’amministrazione non abbia tenuto conto delle osservazioni da lui prodotte in sede procedimentale ai sensi dell’art. 10–bis della L. n. 241 del 1990 non essendo stata presa alcuna posizione in controdeduzione alle stesse.
6.1. Anche tale ultima doglianza ad avviso del Collegio è infondata, stante la natura vincolata del provvedimento di diniego impugnato, che rende inutile la partecipazione procedimentale e induce a ritenere che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato malgrado le prodotte osservazioni.
La giurisprudenza, invero, in ipotesi di provvedimenti vincolati, nega che la stessa radicale omissione del preavviso di diniego di cui all’invocata norma abbia attitudine invalidante il provvedimento finale, in forza della previsione di cui all’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990.
Si è invero puntualizzato che “la prevalente giurisprudenza infatti, nell'ottica di un'interpretazione non inutilmente formalistica delle garanzie partecipative, bene ha chiarito che “la violazione dell' art. 10-bis della L. n. 241 del 1990, non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata comunque -secondo l'indirizzo giurisprudenziale maggioritario- alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo” (C.G.A.R.S. 16.04.2013, n. 409; cfr. anche Cons. Stato, VI, 02.02.2012, n. 585)” (Consiglio di Stato – Sez. VI, 07.05.2015, n. 2298)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.10.2017 n. 4770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui l'Amministrazione accerta che l’intervento non poteva essere realizzato mediante SCIA/DIA, occorrendo il permesso di costruire -preceduto dall’autorizzazione paesaggistica- non è espressione di autotutela, ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all'attività di vigilanza edilizia, tanto più che il dichiarante non può, per le ragioni anzidette, vantare un affidamento.
In proposito l’art. 19, co. 6-bis, della legge n. 241 del 1990 dispone espressamente che “restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380".
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E' stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere edilizie, non costituisce un intervento neutro sul piano edilizio e urbanistico, in quanto incide in maniera determinante sul carico urbanistico della zona.
Pertanto il cambio di destinazione comportante un passaggio di categoria urbanistica richiede il rilascio di un permesso di costruire.
Infatti l’art. 2 della legge regionale n. 19 del 2001 prevede che “il mutamento di destinazione d'uso, … con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale, è soggetto a permesso di costruire”.
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Secondo condivisibile giurisprudenza di questo stesso TAR, "all'esito delle modifiche alla l. n. 241 del 1990 apportate dalla l. n. 124 del 2015 (c.d. riforma Madia), l'art. 19, comma 3, conferma il potere dell'Amministrazione di inibire motivatamente l'attività intrapresa con SCIA e rimuoverne gli effetti dannosi in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1 del medesimo articolo, entro il termine di sessanta giorni (o trenta in materia edilizia) dalla presentazione”, ritenendo inoltre che, “nella nuova disciplina scompare il riferimento alla “autotutela”, e i poteri di intervento dell'Amministrazione, decorsi i trenta o sessanta giorni previsti dalla legge per l'inibitoria “ordinaria”, transitano nel comma 4, subendo un ampliamento del raggio di azione, che non è più limitato al pericolo di un danno per i cd. interessi sensibili, ma potendo essere esercitati solo “in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
L'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 -riscritto dalla l. n. 124 del 2015, e applicabile alla SCIA in forza del succitato richiamo di cui all'art. 19, comma 4- dispone per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici che entro un termine “non superiore a diciotto mesi” non è più consentito l'annullamento d'ufficio; detto termine, in forza del neo introdotto comma 2-bis del medesimo articolo, può essere derogato solo per “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
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2.3.- Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
2.3.1.- L'errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della SCIA/DIA, poiché frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore del soggetto che la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest'ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un'eventuale responsabilità amministrativa, non già la sanatoria della SCIA/DIA mancante di un requisito essenziale.
2.3.2.- Orbene, nel caso di specie, il provvedimento con cui l'Amministrazione accerta che l’intervento non poteva essere realizzato mediante SCIA/DIA, occorrendo il permesso di costruire -preceduto dall’autorizzazione paesaggistica (nella specie necessaria perché il comune ha rilevato un aumento volumetrico posto che, come sopra accennato, una porzione dell’immobile risulta avere sconfinato sulla particella 1117 senza che vi fosse alcun idoneo titolo edilizio che lo consentisse)- non è espressione di autotutela, ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all'attività di vigilanza edilizia, tanto più che il dichiarante non può, per le ragioni anzidette, vantare un affidamento (TAR Puglia, Bari, sez. II, 20.02.2017, n. 147).
In proposito l’art. 19, co. 6-bis, della legge n. 241 del 1990 dispone espressamente che “restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380".
Orbene, è stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere edilizie, non costituisce un intervento neutro sul piano edilizio e urbanistico, in quanto incide in maniera determinante sul carico urbanistico della zona (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 19/01/2016, n. 246).
Pertanto il cambio di destinazione comportante un passaggio di categoria urbanistica richiede il rilascio di un permesso di costruire (cfr. TAR Campania, sez. III, 22/06/2016, n. 3206; da ultimo Cons. St., sez. VI, 06/04/2017, n. 2295).
Infatti l’art. 2 della legge regionale n. 19 del 2001 prevede che “il mutamento di destinazione d'uso, … con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale, è soggetto a permesso di costruire”.
2.3.3.- Secondo condivisibile giurisprudenza di questo stesso TAR, (Sez. IV, 05.04.2016 n. 1658) “all'esito delle modifiche alla l. n. 241 del 1990 apportate dalla l. n. 124 del 2015 (c.d. riforma Madia), l'art. 19, comma 3, conferma il potere dell'Amministrazione di inibire motivatamente l'attività intrapresa con SCIA e rimuoverne gli effetti dannosi in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1 del medesimo articolo, entro il termine di sessanta giorni (o trenta in materia edilizia) dalla presentazione”, ritenendo inoltre che, “nella nuova disciplina scompare il riferimento alla “autotutela”, e i poteri di intervento dell'Amministrazione, decorsi i trenta o sessanta giorni previsti dalla legge per l'inibitoria “ordinaria”, transitano nel comma 4, subendo un ampliamento del raggio di azione, che non è più limitato al pericolo di un danno per i cd. interessi sensibili, ma potendo essere esercitati solo “in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
2.3.4.- L'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 -riscritto dalla l. n. 124 del 2015, e applicabile alla SCIA in forza del succitato richiamo di cui all'art. 19, comma 4- dispone per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici che entro un termine “non superiore a diciotto mesi” non è più consentito l'annullamento d'ufficio; detto termine, in forza del neo introdotto comma 2-bis del medesimo articolo, può essere derogato solo per “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.10.2017 n. 4769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione ma anche dall’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti.
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n. 241 del 1990 [come novellato dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69] conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”, ossia “ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente intenda poter supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con la conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa”, bensì è necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima”.

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Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto in parte con le precisazioni di seguito meglio esplicitate.
Giova, infatti, ricordare che con riguardo al diritto a conoscere i documenti individuati con l’istanza prodotta, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990 richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è stato osservato che “il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti” (Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569, sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n. 241 del 1990 [come novellato dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69] conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”, ossia “ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente intenda poter supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con la conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa” (cfr. Cons. Stato, n. 5111 del 2015, già cit.), bensì è necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima” (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 3941/2016; in conformità, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 28.01.2016, n. 521; TAR Lazio, Sez. II, 11.01.2016, n. 232; TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 4909/2015) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.10.2017 n. 4767 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce acquisizione pacifica che, in materia di pubblici concorsi, le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l’esigenza di riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l’essenza della valutazione.
Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera personale dei partecipanti che, peraltro, non assumono neppure la veste di controinteressati in senso tecnico nel giudizio proposto ex art. 25 della legge n. 241 del 1990.
Di talché l’omessa integrale intimazione in giudizio dei concorrenti cui si riferiscono gli atti fatti oggetto della richiesta ostensiva non arreca loro alcun significativo pregiudizio non potendo gli stessi, in ragione di quanto detto, opporsi all’ostensione dei documenti richiesti.
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Nel caso in esame l’istanza di accesso è supportata da un interesse differenziato, qualificato ed attuale.
L’istante quale partecipante alla procedura comparativa in esame ha titolo ad accedere ai documenti della procedura medesima, senza bisogno, cioè, che la lesione si faccia concreta e con essa l'interesse all'impugnazione diventi attuale, in quanto egli è comunque titolare di un interesse autonomo alla conoscenza dei predetti atti. Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo rispetto ad essa.
Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi consentito anche se l'interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l'autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio.
L’istanza di accesso in esame risulta motivata da parte ricorrente con l’intento di verificare la corretta attribuzione dei punteggi ai candidati inserti in graduatoria.

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Il ricorso resta inammissibile nella parte in cui la domanda di accesso riguardi ogni documento idoneo a rivelare dati super sensibili non ostensibili in assenza di contraddittorio con i potenziali controinteressati.
Ed invero, ai sensi dell’articolo 24, comma 7, i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale possono essere divulgati “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, vale a dire mediante un vaglio dell’autorità amministrativa chiamata a valutare “se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.
In buona sostanza, per tali dati –al contrario di quelli ordinari e/o “semplicemente” sensibili- deve riconoscersi, in capo ai soggetti che ne sono titolari, un controinteresse procedimentale e processuale alla loro divulgazione, anche in ambito concorsuale, fermo restando che occorre in questo caso una specifica richiesta alla PA di pronunciarsi discrezionalmente sulla delineata ponderazione delle posizioni in gioco.
Pertanto, la mancata notifica a tali controinteressati impedisce comunque al collegio di estendere il richiesto accesso ai dati cd. supersensibili, determinando sul punto una parziale inammissibilità del gravame.
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Tanto premesso, va riconosciuta in capo al ricorrente, quale docente che aveva presentato domanda di partecipazione al concorso di che trattasi, la sussistenza di una posizione di interesse legittimante la richiesta ostensione documentale, in ragione della dichiarata necessità di poter conoscere la propria posizione nella graduatoria stilata dall’amministrazione e verificare la corretta formazione della graduatoria medesima.
La mancata notifica ai soggetti partecipanti alla procedura concorsuale coinvolti nella richiesta di accesso non formalizza –ad avviso del Collegio- alcun deficit di contraddittorio per l’acquisizione di notizie diverse rispetto a dati cd. supersensibili inerenti (per quel che qui interessa) alla salute.
Costituisce, infatti, acquisizione pacifica che, in materia di pubblici concorsi, le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l’esigenza di riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l’essenza della valutazione. Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera personale dei partecipanti che, peraltro, non assumono neppure la veste di controinteressati in senso tecnico nel giudizio proposto ex art. 25 della legge n. 241 del 1990 (cfr. Tar Lazio, Sez. III, 08.07.2008 n. 6450); di talché l’omessa integrale intimazione in giudizio dei concorrenti cui si riferiscono gli atti fatti oggetto della richiesta ostensiva non arreca loro alcun significativo pregiudizio non potendo gli stessi, in ragione di quanto detto, opporsi all’ostensione dei documenti richiesti.
Tanto premesso è da rilevare che nel caso in esame l’istanza di accesso è supportata da un interesse differenziato, qualificato ed attuale.
L’istante quale partecipante alla procedura comparativa in esame ha titolo ad accedere ai documenti della procedura medesima, senza bisogno, cioè, che la lesione si faccia concreta e con essa l'interesse all'impugnazione diventi attuale, in quanto egli è comunque titolare di un interesse autonomo alla conoscenza dei predetti atti. Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo rispetto ad essa.
Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi consentito anche se l'interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l'autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio (C.d.S., sez. VI, 21.05.2009, n. 3147).
L’istanza di accesso in esame risulta motivata da parte ricorrente con l’intento di verificare la corretta attribuzione dei punteggi ai candidati inserti in graduatoria.
Peraltro si è già in precedenza anticipato che, seppur rispetto a tali atti non sono ravvisabili posizioni di controinteresse in senso sostanziale nei termini sopra chiariti, il ricorso resta inammissibile nella parte in cui la domanda di accesso riguardi ogni documento idoneo a rivelare dati super sensibili non ostensibili in assenza di contraddittorio con i potenziali controinteressati.
Ed invero, ai sensi dell’articolo 24, comma 7, i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale possono essere divulgati “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, vale a dire mediante un vaglio dell’autorità amministrativa chiamata a valutare “se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.
In buona sostanza, per tali dati –al contrario di quelli ordinari e/o “semplicemente” sensibili- deve riconoscersi, in capo ai soggetti che ne sono titolari, un controinteresse procedimentale e processuale alla loro divulgazione, anche in ambito concorsuale, fermo restando che occorre in questo caso una specifica richiesta alla PA di pronunciarsi discrezionalmente sulla delineata ponderazione delle posizioni in gioco.
Pertanto, la mancata notifica a tali controinteressati impedisce comunque al collegio di estendere il richiesto accesso ai dati cd. supersensibili, determinando sul punto una parziale inammissibilità del gravame.
In conclusione il ricorso deve essere accolto nei limiti sopra esposti, ricorrendo giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.10.2017 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Autovelox dinamici segnalati. Una sentenza del tribunale di Belluno.
L'autovelox deve essere segnalato bene anche se i controlli vengono effettuati dalla polizia municipale in modalità dinamica utilizzando un veicolo di servizio.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Belluno con la sentenza 12.10.2017 n. 535.
Un automobilista pizzicato per eccesso di velocità da una pattuglia della municipale munita di un dispositivo autovelox omologato per un uso dinamico del misuratore ha proposto con successo ricorso al giudice di pace evidenziando di essere incorso nell'infrazione, suo malgrado, senza avvertimenti.
Contro questa decisione il comune ha sollevato censure in sede di appello specificando che il dm 13.06.2017 esonera specificamente dalla preventiva segnalazione il controllo elettronico effettuato con strumenti omologati per funzionare a bordo dei veicoli, in modalità dinamica. Il tribunale ha rigettato queste doglianza confermando l'annullamento della multa.
L'articolo 142 del codice stradale non fa eccezioni, specifica la sentenza. Se deve essere data una corretta informativa all'utenza circa il controllo elettronico della velocità a parere del giudice non ci sono scuse. E un dm non può superare la legge (articolo ItaliaOggi del 21.10.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnche nello svolgimento della prova preselettiva deve trovare applicazione l’art. 13, comma 2, D.P.R. 09.05.1994, n. 487, che richiede che gli elaborati vengano scritti esclusivamente, a pena di nullità, su carta portante il timbro d'ufficio e la firma di un componente della commissione esaminatrice.
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Ritenuto che il ricorso presenti profili di fondatezza, laddove censura la modalità con cui è stata svolta la prova preselettiva, atteso che, anche per la predetta fase deve trovare applicazione l’art. 13, comma 2, D.P.R. 09.05.1994, n. 487, che richiede che gli elaborati vengano scritti esclusivamente, a pena di nullità, su carta portante il timbro d'ufficio e la firma di un componente della commissione esaminatrice (TAR Piemonte, Sez. I, ordinanza 12.10.2017 n. 441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPrincipi in materia di pianificazione urbanistica:
   - sul piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, si è ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e che le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
   - sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”;
   - quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”;
   - in particolare, si è affermato che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”;
   - infine, la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall’amministrazione comunale.

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2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
3. Questa Sezione ha già avuto modo di enunciare principi in materia di pianificazione urbanistica che ben possono essere applicati (e trovare conferma) in sede di decisione della presente controversia:
   - sul piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, si è ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e che le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
   - sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti” (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n. 2710);
   - quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478);
   - in particolare, si è affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; Id, 08.06.2011 n. 3497), che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”;
   - infine, la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall’amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2014 n. 1459) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.10.2017 n. 4707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune ha il potere di annullare in autotutela i titoli edilizi in precedenza rilasciati anche in sanatoria soprattutto se tale annullamento interviene, come nel caso di specie, dopo un breve lasso di tempo dall'emanazione del titolo edilizio e all’esito di una riscontrata mancanza dei presupposti, invece dichiarati, per il rilascio dello stesso.
In tal caso, le caratteristiche dell'istanza di condono edilizio e l'immediato avvio della procedura di riesame del titolo rilasciato costituiscono, per un verso, elementi significativi per escludere qualunque serio affidamento incolpevole in capo al concessionario e, per altro verso, presupposto che legittimamente esclude la necessità d'una puntuale motivazione sull'interesse pubblico all'autotutela.

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Stante, infatti, la straordinarietà del beneficio del condono edilizio, è onere del richiedente provare, in modo rigoroso l’epoca di realizzazione delle opere.
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14. Quanto poi alle conclusioni del Tar sui motivi aggiunti proposti contro il nuovo provvedimento di annullamento del condono, le stesse appaiono immuni da vizi.
15. Innanzitutto, il Comune ha il potere di annullare in autotutela i titoli edilizi in precedenza rilasciati anche in sanatoria soprattutto se tale annullamento interviene, come nel caso di specie, dopo un breve lasso di tempo dall'emanazione del titolo edilizio e all’esito di una riscontrata mancanza dei presupposti, invece dichiarati, per il rilascio dello stesso. In tal caso, le caratteristiche dell'istanza di condono edilizio e l'immediato avvio della procedura di riesame del titolo rilasciato costituiscono, per un verso, elementi significativi per escludere qualunque serio affidamento incolpevole in capo al concessionario e, per altro verso, presupposto che legittimamente esclude la necessità d'una puntuale motivazione sull'interesse pubblico all'autotutela (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.04.2000, n. 2544 e sez. V, 13.05.2014, n. 2541).
16. Stante, infatti, la straordinarietà del beneficio del condono edilizio, è onere del richiedente provare, in modo rigoroso l’epoca di realizzazione delle opere. Tuttavia, come rileva il Tar, la circostanza della non ultimazione dei lavori alla data del 23.12..2003 è stato oggetto dalla sentenza del Tribunale di Fermo n. 372/2006 confermata dalla sentenza 1409/2007 della Corte d’Appello d’Ancona e infine passata in giudicato a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione 25135/2008, definitiva il 20.02.2009, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione.
Tali sentenze penali sono basate sul sopralluogo dell’agente della Polizia municipale Co.Ge. del 23.12.2003, non immediatamente verbalizzato e riportato nel successivo verbale di sopralluogo del 29.12.2003 (in particolare, la sentenza della Corte di Appello di Ancona, nel confermare la sentenza di primo grado, fa riferimento alla sua testimonianza che, in sede sopralluogo, riscontrava l’inesistenza della copertura dell’edificio abusivo) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.10.2017 n. 4705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAREATI EDILIZI/ La Super Scia successiva non sana i vecchi abusi. Una sentenza della Corte di Cassazione.
Inutile invocare il decreto Scia 2 per far dissequestrare l'immobile a rischio abuso edilizio. E ciò perché c'è continuità normativa fra la vecchia Super Dia e le nuova Super Scia. Se dunque i locali sono stati ristrutturati con la sola segnalazione di inizio attività, è inutile presentare la domanda in base all'articolo 23 del testo unico dell'edilizia così come novellato dal decreto legislativo 222/2016 per tentare di sanare l'abuso: per gli interventi edilizi per i quali la Scia si pone come titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire la sanatoria può avvenire soltanto con la procedura di accertamento di conformità ex articolo 36 del dpr 380/2001.

È quanto emerge dalla sentenza 10.10.2017 n. 46480, pubblicata dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Contributo di costruzione.
Accolto il ricorso del pubblico ministero dopo il no al sequestro preventivo dell'immobile sul quale si procede per il reato ex articolo 44, comma primo, lettera b), del dpr 380/2001. C'è infatti piena continuità normativa fra Super Dia e Super Scia sia per la natura degli interventi sia sulle modalità procedurali.
E la questione della dell'entrata in vigore della riforma «è più complessa dell'applicazione che ne ha fatto il tribunale cautelare», spiegano i giudici di legittimità. Ha ragione l'accusa: la Scia prevista prima del dlgs 222/2016 e la Super Scia ex articolo 23 Tue post-riforma non sono sovrapponibili ma nettamente distinte. E ciò per una scelta precisa del legislatore che scaturisce dall'interpretazione degli articolo 3, 10, 22, 23. La Super Scia è alternativa al permesso di costruire e i lavori possono cominciare soltanto a trenta giorni dalla presentazione allo sportello unico. E la continuità con la Super Dia si rileva perché anche ora è richiesto un contributo di costruzione.
Insomma: la sanatoria ex articolo 37 del Tue è applicabile soltanto agli interventi edilizi realizzati in assenza o in difformità della Scia semplice. Mentre per la ristrutturazione pesante avvenuta con la mera Scia serve l'accertamento in conformità a regime per i fatti commessi prima del decreto legislativo 222/2016. La parola torna al tribunale del riesame (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2017).

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MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Non è controverso che l'intervento edilizio, come si evince anche dal testo del provvedimento impugnato, abbia riguardato "al piano terreno: modifiche della tramezzatura, rifacimento della pavimentazione interna, totale rifacimento del bagno, costruzione di nuova scala interna, apertura di porta interna di comunicazione con autorimessa, sostituzione di tutti gli infissi, rifacimento impianti elettrico e termo-idraulico; al piano primo: modifica della tramezzatura per formazione di unico locale soggiorno, di un ripostiglio/dispensa, di una cabina armadio e di un bagno; trasformazione del bagno esistente in antibagno e nuova formazione di locale bagno-lavanderia con tetto in legno a vista previa costruzione di orizzontamento di calpestio in latero-cemento; formazione di nuovo locale studio con tetto in legno a vista mediante recupero della volumetria esistente su cantina; rifacimento e realizzazione completa di impianto elettrico, termico ed idraulico; all'esterno: sostituzione del tetto e suo innalzamento; sistemazione della scala esterna; sistemazione della pavimentazione del terrazzo con installazione di parapetto e di ringhiera".
I Giudici del merito neppure contestano, nella sostanza, come fondatamente osserva il ricorrente, che detto intervento avrebbe comportato un aumento delle volumetrie esistenti, tramite la "sopraelevazione dell'imposta del tetto con riduzione della sua pendenza" (pag. 29 della consulenza del Ct del PM), con la conseguenza che lo stesso sarebbe definibile come "ristrutturazione edilizia comprendente ampliamento volumetrico esterno all'esistente sagoma del fabbricato con modifica dei prospetti".
Il tribunale cautelare, conformemente a quanto ritenuto dal giudice per le indagini preliminari, ha tuttavia sostenuto che l'interessato aveva giustificato l'intervento mediante la presentazione di una segnalazione certificata di inizio d'attività (Scia) e, se anche all'epoca della presentazione (01.12.2016) avesse dovuto richiedere il permesso di costruire, il decreto legislativo n. 222 del 2016 ha imposto, per tale tipo di intervento, in alternativa al permesso di costruire, proprio la Scia sicché, sulla base dello ius superveniens (applicabile dall'11.12.2016, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del 2016) in quanto normativa più favorevole, alcun rimprovero poteva essere mosso all'indagato, con conseguente insussistenza del fumus delicti.
3. L'opzione ermeneutica prescelta dal tribunale cautelare non è corretta.
3.1. L'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124 ha delegato il Governo ad individuare con esattezza, con uno o più decreti legislativi, i procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio d'attività o di silenzio-assenso nonché di quelli per i quali è necessaria l'autorizzazione espressa e di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva, sulla base dei principi e criteri direttivi desumibili dagli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, dei principi del diritto dell'Unione europea relativi all'accesso alle attività di servizi e, infine, dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, introducendo anche la disciplina generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione preventiva espressa, compresa la definizione delle modalità di presentazione e dei contenuti standard degli atti degli interessati e di svolgimento della procedura, anche telematica, nonché degli strumenti per documentare o attestare gli effetti prodotti dai predetti atti, e prevedendo altresì l'obbligo di comunicare ai soggetti interessati, all'atto della presentazione di un'istanza, i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda.
La delega è stata attuata con due decreti legislativi: il decreto legislativo 30.06.2016, n. 126 (Attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività), a norma dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124, cosiddetto decreto SCIA 1) e con il decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività, silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124, cosiddetto decreto SCIA 2).
Mentre il decreto legislativo n. 126 del 2016 detta la disciplina generale applicabile alle attività private non soggette ad autorizzazione espressa e soggette a segnalazione certificata di inizio attività (Scia), definendo inoltre le modalità di presentazione di segnalazioni o istanze alla pubblica amministrazione, il decreto legislativo n. 222 del 2016 individua in un'apposita tabella, che è parte integrante del decreto, le attività oggetto di comunicazione, di segnalazione certificata di inizio attività (Scia), di silenzio-assenso nonché quelle per cui è necessario un provvedimento espresso e contiene specifiche disposizioni normative di coordinamento.
In essa sono ricomprese 105 tipologie di intervento (attività) individuate nel campo dell'edilizia e sintetizzate nella tabella con l'indicazione della relativa attività, ossia dell'intervento da realizzare; del regime amministrativo, ossia del corretto titolo edilizio richiesto per ciascun intervento; delle concentrazioni di regimi amministrativi e ed infine dei relativi riferimenti normativi.
Per garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con specifico riferimento alla materia edilizia, è prevista l'adozione, con decreto ministeriale, di un glossario unico contenente le principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, secondo quanto indicato nella tabella A allegata al decreto legislativo n. 222 del 2016 (articolo 1, comma 2, d.lgs. n. 222 del 2016).
Inoltre le amministrazioni procedenti (i Comuni per la materia edilizia) sono chiamate a fornire gratuitamente agli interessati la necessaria attività di consulenza funzionale all'istruttoria delle attività indicate nella tabella A (articolo 1, comma 3, d.lgs. n. 222 del 2016).
In siffatto quadro, è il caso di precisare come, a causa della frequente connessione delle attività edilizie con i vincoli paesaggistici, vadano tenute in considerazione le norme del regolamento, in vigore dal 06.04.2017, di cui al d.p.r. 13.02.2017, n. 31 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22.03.2017, n. 68) recante l'individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, disposizioni sopravvenute al d.lgs. n. 222 del 2016.
3.2. La disciplina dei titoli abilitativi è stata negli ultimi anni oggetto di continui mutamenti realizzati attraverso plurimi interventi legislativi (decreto-legge 25.03.2010, n. 40 convertito nella legge 22.05.2010, n. 73; decreto-legge 31.05.2010, n. 78 convertito in legge 30.07.2010, n. 122; decreto-legge 13.05.2011, n. 70 convertito in legge 12.07.2011, n. 106; decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito nella legge 09.08.2013, n. 98; decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito nella legge 11.11.2014, n. 164; decreto legislativo 25.11.2016 n. 222 e, da ultimo, decreto-legge 24.04.2017, n. 50 (articolo 65-bis che modifica l'articolo 3, lettera c), del d.p.r. n. 380 del 2001) convertito in legge 21.06.2017, n. 96), i quali hanno ridisegnato la classificazione degli interventi edilizi ed il relativo regime normativo.
Da un sistema improntato su un doppio binario (permesso di costruire e denuncia di inizio attività) e su un'attività prettamente autorizzatoria della pubblica amministrazione, si è passati ad un regime di più estesa liberalizzazione degli interventi edilizi con l'introduzione di nuovi istituti giuridici come la CIL (comunicazione di inizio lavori), la CILA (comunicazione di inizio lavori asseverata), la SCIA (segnalazione certificata inizio d'attività) e l'abolizione di quelli prima esistenti, come la DIA (denuncia inizio di attività).
Per quanto qui interessa, il decreto legislativo n. 222 del 2016 -che, anche attraverso il richiamo all'allegata tabella e al varo di un glossario, di cui si è detto, opera un riordino complessivo dei titoli e degli atti legittimanti gli interventi edilizi nell'ottica di un ampliamento della categoria degli interventi edilizi soggetti ad attività completamente libera e di un (non sempre comprensibile) ridimensionamento del titolo autorizzatorio (permesso di costruire)- ha inciso sul d.p.r. n. 380 del 2001:
   1) con la modifica dell'articolo 6-bis (la cui nuova rubrica è intitolata "Interventi subordinati a comunicazione di inizio lavori asseverata"), introducendo espressamente il principio secondo il quale gli interventi non riconducibili all'elenco di cui agli articoli 6 (attività edilizia libera), 10 (interventi subordinati al permesso di costruire) e 22 (interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività), sono assoggettati a comunicazione di inizio lavori asseverata da tecnico abilitato (CILA) e, quindi, "realizzabili previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione competente, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42" (articolo 3, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 222 del 2016);
   2) con la modifica del comma 1 dell'articolo 22 secondo il quale: «1. Sono realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di attività di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nonché in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente:
a) gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio;
b) gli interventi di restauro e di risanamento conservativo di cui all'articolo 3, comma 1, lettera c), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), diversi da quelli indicati nell'articolo 10, comma 1, lettera c)
» (articolo 3, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 222 del 2016);
   3) con l'inserimento, prima del comma 1 dell'articolo 23, del comma 01 secondo il quale «01. In alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante segnalazione certificata di inizio di attività:
a) gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c);
b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge 21.12.2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate;
c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche. Gli interventi di cui alle lettere precedenti sono soggetti al contributo di costruzione ai sensi dell'articolo 16. Le regioni possono individuare con legge gli altri interventi soggetti a segnalazione certificata di inizio attività, diversi da quelli di cui alle lettere precedenti, assoggettati al contributo di costruzione definendo criteri e parametri per la relativa determinazione
» (articolo 3, comma 1, lettera g), del decreto legislativo n. 222 del 2016).
3.3. Queste modifiche normative, che è stato necessario richiamare, danno conto del fatto di come, proprio in conseguenza dell'entrata in vigore (a partire dal 11.12.2016) del decreto legislativo n. 222 del 2016, siano nettamente distinguibili nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia (d'ora in poi, TUE) due distinti regimi della segnalazione certificata di inizio d'attività, corrispondenti a due differenti tipologie: una Scia, cosiddetta "tipica" o "ordinaria", regolamentata dall'articolo, 22 comma 1, TUE ed una Scia, cosiddetta "atipica" o "speciale", alternativa al permesso di costruire, che trova la sua disciplina nell'articolo 23 del TUE e che rivela la sua atipicità nel fatto di costituire una variante procedurale di quella ordinaria in ragione della tipologia degli interventi per la quale è preordinata, che sono di contenuto diverso e urbanisticamente più rilevanti, tanto da essere assoggettata al contributo di costruzione (al pari della Super Dia per la quale il contributo di costruzione era previsto dall'abrogato comma 5 dell'articolo 22 TUE), nonché in considerazione del contenuto e delle condizioni cui essa è soggetta, espressamente delineate nei commi 01 e seguenti dell'articolo 23 TUE.
La Scia "ordinaria" (sostitutiva nella disciplina previgente al d.lgs. n. 222 del 2016, a condizioni esatte, all'abrogata Dia e giammai alla Super Dia) è invece congegnata quale titolo per l'esecuzione degli interventi di edilizia minore ed è soggetta al regime giuridico di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990, che l'articolo 22 espressamente richiama, tant'è che l'attività oggetto della Scia cd. tipica può essere iniziata, anche nei casi di cui all'articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione all'amministrazione competente (articolo 19, comma 2, legge n. 241 del 1990), laddove per la "Super-Scia" ossia per la Scia alternativa al permesso di costruire i lavori possono essere iniziati solo se decorsi trenta giorni dalla presentazione allo sportello unico (articolo 23, comma 1, TUE), trovando ciò spiegazione nel fatto che, entro il suddetto termine, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove riscontri l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza.
3.4. Non può essere pertanto condiviso l'approdo cui è giunto il tribunale cautelare perché, se anteriormente alla data del 11.12.2016 occorreva, come si evince dal testo del provvedimento impugnato (pagina 4), il permesso di costruire (o un titolo abilitativo equipollente, costituito prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del 2016, dalla Super Dia) per la ristrutturazione edilizia pesante, oggetto dell'intervento di cui si discute (ex articolo 10, comma 1, lettera c), TUE), non è certo il possesso di una Scia cd. tipica o ordinaria, quantunque presentata dieci giorni prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del 2016, a rendere legittimo l'intervento, posto che la "Super Dia", ratione temporis vigente, e la "Super Scia", successivamente introdotta, differiscono per struttura, contenuti e forme procedurali dalla Scia ordinaria (si pensi, ad esempio, al contributo di costruzione richiesto per la Super Scia, ex Super Dia, e non invece per la Scia).
Non è pertanto esatto il rilievo formulato dal tribunale cautelare secondo il quale l'affermazione del pubblico ministero -circa il fatto che la Scia prevista anteriormente al decreto legislativo n. 222 del 2016 e la Super Scia prevista dall'articolo 23 TUE, come modificato dal decreto legislativo n. 222 del 2016, non siano sovrapponibili per essere tra loro nettamente distinguibili- si risolverebbe in un'affermazione apodittica ed indimostrata, essendo invece essa la conseguenza di una precisa scelta legislativa derivante dall'interpretazione delle disposizioni di cui agli articoli 3, 10, 22 e 23 TUE.
4. Di ciò si è perfettamente reso conto l'indagato, il quale, con la memoria difensiva, ha prospettato di aver presentato, in data 11.05.2017, una nuova istanza al Comune in linea con il disposto di cui all'articolo 23 TUE.
Sul punto, è il caso di precisare come, nel giudizio di legittimità, non sia ammissibile la produzione di nuovi documenti attinenti al merito della regiudicanda, ad eccezione di quelli che l'interessato non sia stato in condizione di esibire nei precedenti gradi di giudizio e dai quali può derivare l'applicazione dello "ius superveniens", di cause estintive o di disposizioni più favorevoli, (Sez. 3, n. 27417 del 01/04/2014, C., Rv. 259188), sempreché non comportino un'attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito (Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Sanvitale, Rv. 266390).
Trattandosi di un principio di diritto valido anche nel caso, come nella specie, di impugnazione cautelare, il Collegio non può prendere in considerazione il documento prodotto, il cui esame comporta apprezzamenti di merito, compito spettante invece al tribunale cautelare in sede di giudizio di rinvio.
Fermo tale principio, resta tuttavia da precisare che la questione dello ius superveniens (ossia la possibilità che l'intervento edilizio de quo fosse consentito attraverso la Super Scia e, quindi, attraverso la procedura speciale di cui all'articolo 23 TUE, come modificato dal d.lgs. n. 222 del 2016) è più complessa rispetto all'applicazione che ne ha fatto il tribunale cautelare, il quale ha ritenuto che l'indagato avrebbe rispettato la norma, successivamente entrata in vigore, legittimante l'intervento, nel senso che la Scia presentata prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del 2016 contenesse tutti gli elementi costitutivi della Super Scia prevista dal novellato articolo 23 TUE, per cui, trattandosi di norma che ha sottratto le condotte del tipo di quella oggetto della provvisoria imputazione (ristrutturazione edilizia previa presentazione della sola S.C.I.A.) dall'area del penalmente rilevante, parteciperebbe alla categorie delle norme più favorevoli al reo, con la conseguenza della sua applicazione ai fatti pregressi avendo apportato modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa.
Allo stesso modo, la soluzione che sarebbe stata prescelta dall'indagato, fermi gli accertamenti di merito che esulano dalla cognizione del giudice di legittimità, quella cioè di "sanare" l'abuso ricorrendo alla presentazione della Super Scia in applicazione dell' articolo 23 TUE come novellato per effetto del d.lgs. n. 222 del 2016, non è idonea a produrre alcun effetto sanante, riservato al solo e tassativo verificarsi delle condizioni previste rispettivamente dagli articoli 36 e 37 TUE.
Vi è infatti piena continuità normativa tra la Super Dia, prevista dall'abrogato comma 3 dell'articolo 22 TUE, e la Super Scia, prevista dal nuovo comma 01 dell'articolo 23 TUE, quanto alla natura degli interventi (nel caso di specie quanto alla ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c), TUE) nonché continuità normativa quanto alle modalità procedurali: l'abrogato terzo comma dell'articolo 22 (Super Dia) è stato riprodotto nel comma 01 dell'articolo 23 (Super Scia); l'abrogato quinto comma dell'articolo 22 che prevedeva il contributo di costruzione per la Super Dia è stato riprodotto nell'ultima parte del comma 01 dell'articolo 23 per la Super Scia; le parole "denuncia" previste per la Super Dia nel secondo comma dell'articolo 23 sono state sostituite dalle parole "segnalazione" per indicare la Super Scia; la restante parte dell'articolo 23 è rimasta del tutto immutata.
Ne consegue che la sanatoria prevista dall'articolo 37 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non è applicabile, potendo essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.), previsti dall'articolo 22, commi primo e secondo, del d.P.R. citato e quindi non è estensibile anche agli interventi edilizi, di cui al comma 01 dell'articolo 23 TUE, per i quali la S.C.I.A. si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (c.d. Super Scia), applicandosi in tale ultima ipotesi la sanatoria mediante procedura di accertamento di conformità di cui all'articolo 36 del medesimo d.P.R., come espressamente previsto dal primo comma della predetta disposizione; ciò sia a regime e sia per i fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 222 del 2016 in ordine ai quali, per la realizzazione dell'intervento edilizio, era richiesto, come nel caso di specie, il permesso di costruire o la Super Dia, in alternativa a detto permesso, vuoi per la ricordata continuità normativa tra i predetti istituti e vuoi per la continuità normativa quanto alle procedure sananti di cui agli articoli 36 e 37 TUE.
5. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame ed il giudice del rinvio, nel riesaminare la regiudicanda cautelare, si atterrà ai principi di diritto in precedenza enunciati anche verificando se, in applicazione di essi, siano sopravvenuti fatti nuovi che abbiano potuto incidere sul fumus o sui pericula ipotizzati con l'originaria domanda cautelare, facendo venire meno, se del caso, la serietà degli indizi o le esigenze cautelari, e sempre che l'insussistenza dei requisiti della cautela reale emerga dagli atti acquisiti o prodotti dalle parti, essendo il Tribunale della libertà privo di poteri istruttori (Sez. 3, n. 43560 del 08/07/2016, B., Rv. 267929).

ATTI AMMINISTRATIVILa legittimità di un provvedimento amministrativo va accertata in base al principio tempus regit actum, secondo cui i provvedimenti dell'Amministrazione, in quanto espressione attuale dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di pubblici interessi, devono uniformarsi, per quanto concerne sia i requisiti di forma e procedimento sia il contenuto sostanziale delle statuizioni, alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui sono posti in essere, e ciò in applicazione del principio della immediata operatività delle norme di diritto pubblico.
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4.1.- Infondato è il primo motivo di ricorso.
L'Amministrazione comunale, nel negare l’autorizzazione, ha correttamente fatto riferimento al Regolamento Chioschi, di cui alla delibera di consiglio n. 70/2014, normativa generale applicabile al caso in esame in virtù del principio tempus regit acutm.
Ad avviso del Collegio, appare irrilevante il dato, valorizzato dalla società ricorrente, che la concessione per installare l’edicola sul suolo pubblico sia stata rilasciata nel 2012, e quindi in epoca antecedente al 2014, anno di approvazione del Regolamento Chioschi; è invece decisivo il fatto che l'istanza di autorizzazione sia stata presentata dalla società ricorrente nel 2017, quando era da tempo vigente la nuova normativa regolamentare.
Come chiarito da consolidata giurisprudenza amministrativa, la legittimità di un provvedimento amministrativo va accertata in base al principio tempus regit actum, secondo cui i provvedimenti dell'Amministrazione, in quanto espressione attuale dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di pubblici interessi, devono uniformarsi, per quanto concerne sia i requisiti di forma e procedimento sia il contenuto sostanziale delle statuizioni, alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui sono posti in essere, e ciò in applicazione del principio della immediata operatività delle norme di diritto pubblico (Consiglio di Stato, sez. IV, 12.04.2017, n. 1700; Idem, sez. V, 31.03.2017, n. 1499 che conferma TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 966 del 2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2017 n. 4747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio intende ribadire l’indirizzo manifestato a più riprese dalla Sezione secondo cui:
   a) lo svolgimento di una qualsiasi attività commerciale presuppone non solo la sussistenza, ma anche la permanenza della regolarità urbanistico-edilizia dei locali interessati (ovvero, nella specie, delle strutture a servizio dell’attività);
   b) nondimeno, la chiusura di un esercizio in attività non può essere considerata come una sanzione per la sopravvenuta rilevazione di abusi edilizi, i quali hanno per converso un sistema repressivo specifico che regola, per ciascuna tipologia di illecito, i presupposti, le modalità applicative, i destinatari, gli effetti ed anche, eventualmente, le possibilità di sanatoria;
   c) pertanto, l’ordine di cessazione di un’attività in corso esige che sia stata applicata una sanzione edilizia (quale ad esempio la demolizione), nella misura in cui la obbligatoria esecuzione della misura repressiva adottata risulti incompatibile con la continuazione dell’attività commerciale ed in generale con l’utilizzo delle opere abusive.
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Si palesa illegittimo il provvedimento di cessazione dell’attività che non si fondi su una precedente irrogazione della sanzione repressiva in materia edilizia (non valendo a “sanare” l’atto la successiva emanazione dell’ordine di demolizione, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va vagliata con riferimento ai presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua adozione).
Inoltre, si è affermato, altresì, l’ulteriore principio secondo cui deve ritenersi consentita la prosecuzione dell’attività, in ossequio ai “criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono sempre improntare l’azione amministrativa”, qualora la stessa possa continuare nei termini originari.
Altresì (in tema di domanda di condono pendente) si è statuito che “l’ordine di cessazione dell’attività deve essere limitato all’inibitoria dell’utilizzo delle opere abusive, di cui sia ordinata la demolizione, e non può estendersi di per sé all’intera attività aziendale, a meno che beninteso non risulti (dal provvedimento o dagli atti del procedimento, il che non è nella specie) che le opere abusive sono parte essenziale ed indispensabile per la conduzione dell’esercizio, che perderebbe altrimenti la possibilità stessa di operare …”.
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In ordine alla mancanza del titolo autorizzativo e al parziale contrasto con le previsioni urbanistiche della zona, è meritevole di accoglimento la censura con cui si fa valere la lesione dell’affidamento ingenerato.
In via generale, quest’ultimo non può ricevere una tutela tale da legittimare l’attività in contrasto con le disposizioni di legge o regolamentari, prevalendo l’interesse pubblico al rispetto delle norme, per il quale non può darsi eccessivo rilievo alla tutela di una situazione contra legem.
Pur tuttavia, va tutelato l’affidamento ingenerato dalla P.A., allorché siano ravvisabili specifiche e concordanti circostanze, in presenza delle quali non può giustificatamente sacrificarsi l’interesse del privato, che ha confidato senza colpa nella legittimità del suo agire.
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Quanto sopra argomentato sulla conservazione dell’attività economica non può valere a legittimare una nuova attività (ovvero, l’ampliamento di essa), che si voglia intraprendere utilizzando opere non conformi dal punto di vista urbanistico.
In altri termini, se la mancata adozione dei provvedimenti repressivi degli abusi edilizi preclude al momento di sanzionare con la cessazione l’attività già esercitata (e che, in ipotesi, può continuare nella restante parte), lo stesso non può dirsi per la nuova attività, che presuppone la legittimità urbanistica delle opere [come costantemente ribadito dalla giurisprudenza: “la regolarità urbanistico-edilizia dell'immobile è prescritta per ogni attività commerciale (compresa quella artigianale), stante l'interconnessione esistente tra le discipline. Cosicché l'attività del privato può essere intrapresa e continuata solo se l'immobile è regolare sotto il profilo urbanistico-edilizio, con conseguente potere-dovere della P.A. di inibire l'attività non conforme, secondo un consolidato e condiviso indirizzo giurisprudenziale"].
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2.1.1. Tanto precisato, il Collegio intende ribadire l’indirizzo manifestato a più riprese dalla Sezione (cfr. la sentenza del 29/01/2017 n. 548 e, da ultimo, del 05/09/2017 n. 4250), secondo cui:
   a) lo svolgimento di una qualsiasi attività commerciale presuppone non solo la sussistenza, ma anche la permanenza della regolarità urbanistico-edilizia dei locali interessati (ovvero, nella specie, delle strutture a servizio dell’attività);
   b) nondimeno, la chiusura di un esercizio in attività non può essere considerata come una sanzione per la sopravvenuta rilevazione di abusi edilizi, i quali hanno per converso un sistema repressivo specifico che regola, per ciascuna tipologia di illecito, i presupposti, le modalità applicative, i destinatari, gli effetti ed anche, eventualmente, le possibilità di sanatoria;
   c) pertanto, l’ordine di cessazione di un’attività in corso esige che sia stata applicata una sanzione edilizia (quale ad esempio la demolizione), nella misura in cui la obbligatoria esecuzione della misura repressiva adottata risulti incompatibile con la continuazione dell’attività commerciale ed in generale con l’utilizzo delle opere abusive.
Nella fattispecie in esame –e con riferimento all’abusività delle opere, assunta quale presupposto, anche se non esclusivo, dell’ordine di cessazione–, va osservato che il provvedimento non si riferisce alle opere abusive antecedenti (neppure sanzionate, come detto), ma solamente ai pergolati oggetto del richiamato accertamento del 16/01/2017, dei quali la demolizione è stata ingiunta solo dopo, con la suddetta ordinanza del 09/02/2017 n. 26.
In ragione di ciò, alla stregua della richiamata giurisprudenza della Sezione, si palesa illegittimo il provvedimento di cessazione dell’attività che non si fondi su una precedente irrogazione della sanzione repressiva in materia edilizia (non valendo a “sanare” l’atto la successiva emanazione dell’ordine di demolizione, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va vagliata con riferimento ai presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua adozione).
2.1.2. Inoltre, con la richiamata giurisprudenza della Sezione si è affermato, altresì, l’ulteriore principio secondo cui deve ritenersi consentita la prosecuzione dell’attività, in ossequio ai “criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono sempre improntare l’azione amministrativa” (sentenza del 05/09/2017 n. 4250, cit..), qualora la stessa possa continuare nei termini originari.
In detta sentenza (in tema di domanda di condono pendente), si è quindi statuito che “l’ordine di cessazione dell’attività deve essere limitato all’inibitoria dell’utilizzo delle opere abusive, di cui sia ordinata la demolizione, e non può estendersi di per sé all’intera attività aziendale, a meno che beninteso non risulti (dal provvedimento o dagli atti del procedimento, il che non è nella specie) che le opere abusive sono parte essenziale ed indispensabile per la conduzione dell’esercizio, che perderebbe altrimenti la possibilità stessa di operare …”.
In base allo stesso principio, oltre a quanto precisato al precedente p. 2.1.1., deve ritenersi sproporzionato l’ordine di cessazione dell’attività di parcheggio, che potrebbe continuare allo scoperto, eliminando i pergolati ombreggianti di cui è stata poi ordinata la demolizione.
2.2. Quanto detto concerne il profilo della rilevata abusività delle opere.
In ordine alla mancanza del titolo autorizzativo e al parziale contrasto con le previsioni urbanistiche della zona, è meritevole di accoglimento la censura con cui si fa valere la lesione dell’affidamento ingenerato.
In via generale, quest’ultimo non può ricevere una tutela tale da legittimare l’attività in contrasto con le disposizioni di legge o regolamentari, prevalendo l’interesse pubblico al rispetto delle norme, per il quale non può darsi eccessivo rilievo alla tutela di una situazione contra legem.
Pur tuttavia, va tutelato l’affidamento ingenerato dalla P.A., allorché siano ravvisabili specifiche e concordanti circostanze, in presenza delle quali non può giustificatamente sacrificarsi l’interesse del privato, che ha confidato senza colpa nella legittimità del suo agire.
2.2.1. Nella specie, come già ravvisato in sede cautelare, la decadenza al 31/12/2001 della licenza per l’esercizio di parcheggio non può fondare l’ordine di cessazione dell’attività.
Invero, nel considerevole lasso di tempo intercorso, il Comune di Pompei non ha mai obiettato alcunché alla prosecuzione della stessa, sulla base delle comunicazioni annuali del ricorrente, a fronte delle quali il Comune non poteva restare inerte, dovendo quanto meno significare che l’attività non poteva più ritenersi assentita, ovvero invitare alla regolarizzazione della dichiarazione di prosieguo.
2.2.2. Inoltre, con riferimento al parziale contrasto con la destinazione di zona, il ricorrente evidenzia che il certificato di destinazione urbanistica rilasciato all’epoca attestava che la particella 157 “ricade in spazi di sosta e parcheggio di urbanizzazione primaria P5” (doc. 9 della produzione allegata al ricorso).
L’indicazione attuale di un diverso regime urbanistico di parte delle aree se per un verso giustifica l’inibitoria della SCIA relativa all’ampliamento del numero di posti macchina, non può condurre alla cessazione dell’attività nel suo complesso, dovendosi anche in tal caso tenere in debito conto l’affidamento del privato (ingenerato dal lasso di tempo intercorso e dalla riconducibilità al Comune dell’originario errore di qualificazione delle aree), ed altresì il fatto che almeno per una parte del suolo interessato non emerge il motivo ostativo evidenziato dal Comune a sostegno della determinazione impugnata, per cui non si può escludere l’individuazione se del caso di soluzioni in grado di contemperare i contrapposti interessi (come, ad esempio, la concentrazione dell’attività nella parte urbanisticamente compatibile).
2.3. Per le conclusioni che precedono, è fondato il ricorso avverso il provvedimento impugnato, nella parte in cui è ordinata la cessazione dell’attività sinora esercitata.
3. Per la restante parte, concernente il diniego e la cessazione di effetti della s.c.i.a. n. 16/2017 del 18/01/2017, il ricorso va respinto perché infondato.
Quanto sopra argomentato sulla conservazione dell’attività non può valere a legittimare una nuova attività (ovvero, l’ampliamento di essa), che si voglia intraprendere utilizzando opere non conformi dal punto di vista urbanistico.
In altri termini, se la mancata adozione dei provvedimenti repressivi degli abusi edilizi preclude al momento di sanzionare con la cessazione l’attività già esercitata (e che, in ipotesi, può continuare nella restante parte), lo stesso non può dirsi per la nuova attività, che presuppone la legittimità urbanistica delle opere [come costantemente ribadito dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione; cfr., per tutte, la sentenza del 13/01/2016 n. 141: “la regolarità urbanistico-edilizia dell'immobile è prescritta per ogni attività commerciale (compresa quella artigianale), stante l'interconnessione esistente tra le discipline. Cosicché l'attività del privato può essere intrapresa e continuata solo se l'immobile è regolare sotto il profilo urbanistico-edilizio, con conseguente potere-dovere della P.A. di inibire l'attività non conforme, secondo un consolidato e condiviso indirizzo giurisprudenziale (cfr., per tutte, di recente Cons. Stato - Sez. VI, 23.10.2015 n. 4880)”].
Nella specie, è di ostacolo all’ampliamento dell’attività il carattere abusivo dei pergolati, considerati nella relazione allegata alla s.c.i.a. del 18/01/2017, quali “apparati vegetali” adottati per esigenze di ombreggiamento, protezione e sistemazione paesaggistica-ambientale (cfr. doc. 7 della produzione del ricorrente), la cui realizzazione è stata constatata nell’accertamento della P.M. del 16/01/2017 e che sono oggetto della ricordata ordinanza di demolizione n. 26 del 09/02/2017 (non sospesa né tanto meno annullata, avverso la quale pende ricorso R.G. n. 1613 del 2017) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2017 n. 4745 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSussiste il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, giusta la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui le procedure indette ai sensi dell'art. 110, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000 nella sua attuale versione: “L'art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato "previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico".
La procedura in questione, per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle "procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" utili a radicare la giurisdizione amministrativa, atteso che tale tipo di procedura selettiva non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare tramite criteri predeterminati attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi, ma è invece finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall'esterno dell'incarico dirigenziale.
Sicché, secondo i principi espressi in materia dalle Sezioni unite della Cassazione, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico invece costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi.
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... per la riforma della sentenza 06.07.2016 n. 3412 del TAR Campania-Napoli, Sez. V, resa tra le parti, concernente il mancato scorrimento della graduatoria concorsuale per il conferimento dell'incarico di istruttore direttivo;
...
- Vista l’istanza di Bi.Ca., collocato al secondo posto di una graduatoria concorsuale per un posto di istruttore direttivo di vigilanza nel Comune di Terzigno, istanza presentata per ottenere lo scorrimento nella graduatoria allorché la prima classificata aveva optato a far data dal 16.04.2014 per altro concorso rendendo vacante il relativo posto in organico e sulla quale l’Amministrazione comunale con la nota n. 10487 del 29.07.2014 aveva dapprima fornito riscontro negativo, provvedendo poi con atto del Segretario Generale n. 1 del 26.06.2014 ad approvare l’avviso pubblico per il conferimento dell’incarico di istruttore direttivo per l’assunzione a tempo determinato, ex art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, di un istruttore tecnico, con decreto n. 21 del 12.08.2014 ed individuando in seguito il soggetto cui conferire l’incarico;
- Visto il ricorso proposto dal Ca. dinanzi al TAR della Campania avverso il provvedimento di rigetto pronunciato dal Comune di Terzigno sulla sua diffida, unitamente agli atti presupposti e conseguenti riguardanti il successivo avviso pubblico;
- Vista la sentenza n. 3412 del 06.07.2016 con la quale il TAR, disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata della mancata censura della procedura concorsuale, ma solo quella successiva di gestione riservata alla giurisdizione del giudice ordinario, rilevando che la controversia aveva per oggetto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale sull'opzione alternativa scorrimento/nuovo concorso appartenente alla categoria degli interessi legittimi, ed accoglieva il ricorso, riscontrando la fondatezza del primo motivo per l’asserita violazione dell’art. 4, comma 3, della l. n. 125 del 2013, recante il favore del legislatore per l’utilizzo del meccanismo dello scorrimento delle graduatorie e la possibilità di indizione procedure concorsuali solo quale deroga accompagnata da specifica motivazione ed ancora la fondatezza del secondo motivo sullo sviamento di potere, nel senso che la copertura del posto divenuto disponibile per le dimissioni del precedente dirigente dell’Area della Polizia municipale sarebbe stata realizzata con l’assegnazione temporanea delle relative funzioni al dirigente dell’Area tecnica, già in servizio, e mettendo contestualmente a concorso -procedura selettiva ex art. 110, TUEL per l’incarico a tempo determinato- un’altra posizione di istruttore direttivo nella medesima Area tecnica, distraendo i medesimi fondi già messi a disposizione per il settore vigilanza, il tutto in spregio all’atto di programmazione triennale di assunzioni per gli anni 2014/2016, la quale aveva previsto un’unità da inquadrare nell’Area tecnica ed altra unità con la qualifica di responsabile della P.M.;
- Visto l’appello in Consiglio di Stato proposto il 19.08.2016 con il quale il Comune di Terzigno impugnava la sentenza in questione e deduceva nuovamente l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevato in primo grado, lo straripamento di potere del giudice di primo grado che aveva affermato l’obbligo di indizione del concorso in controversia, anche in contrasto con le norme riguardanti l’obbligo di riduzione della spesa personale, il divieto di assunzione a tempo indeterminato per consentire l’assorbimento del personale delle Province e la possibilità per gli enti locali di stipulare contratti temporanei per la polizia municipale, ribadiva la sussistenza di una mera selezione a tempo determinato ex art. 110 d.lgs. n. 267 del 2000 per un posto vacante il tipo D1 per l’area tecnica ed infine l’inammissibilità dell’impugnazione originaria per carenza di interesse di atti relativi all’organizzazione comunale che nulla avevano a che fare con le pretese del ricorrente di assunzione presso l’Area vigilanza;
- Vista la costituzione in giudizio del dott. Ca., il quale ha concluso per l’infondatezza dell’appello;
- Ritenuto che appare fondata la prima censura concernente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, giusta la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui le procedure indette ai sensi dell'art. 110, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000 nella sua attuale versione: “L'art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato "previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico".
- Considerato che la procedura in questione, per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle "procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" utili a radicare la giurisdizione amministrativa, atteso che tale tipo di procedura selettiva non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare tramite criteri predeterminati attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi, ma è invece finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall'esterno dell'incarico dirigenziale (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29.05.2017 n. 2526; id., 04.04.2017 n. 1549; id., 12.05.2016 n. 1888);
- Ritenuto che secondo i principi espressi in materia dalle Sezioni unite della Cassazione è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico invece costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (da ultimo: Cass., SS.UU., ord. 08.06.2016, n. 11711, 30.09.2014, n. 20571);
- Considerato perciò che l’appello deve essere accolto con la riforma integrale della sentenza e l’inammissibilità del ricorso di primo grado, mentre la natura della controversia giustifica l'integrale compensazione di spese e onorari di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.10.2017 n. 4684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a. digitale. Correttivo con il sì del Cds.
Il Consiglio di stato, in Commissione speciale, ha espresso parere favorevole, con osservazioni, sullo schema di decreto legislativo correttivo del Codice dell'amministrazione digitale.

Si tratta di una iniziativa normativa (Atto del Governo n. 452) che -secondo i magistrati di Palazzo Spada- ha il «condivisile obiettivo» di proseguire l'opera di modernizzazione e di razionalizzazione della pubblica amministrazione, attraverso la sua completa digitalizzazione per dotare cittadini, imprese e amministrazioni di strumenti e servizi idonei a rendere effettivi i diritti di cittadinanza digitale.
La Commissione speciale (Consiglio di Stato, commissione speciale, parere 10.10.2017 n. 2122 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, concernente “modifiche e integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’art. 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) ha però evidenziato come alcune problematiche di merito -che sono centrali per la corretta attuazione della riforma- siano state rinviate all'adozione di atti applicativi, quali i decreti del presidente del consiglio dei ministri (ad esempio per il completo transito al sistema di comunicazione tramite domicili digitali) e le linee guida tecniche che dovranno essere adottate dall'Agenzia per l'Italia digitale (Agid).
Il Consiglio di Stato ha, pertanto, invitato l'amministrazione a porre una particolare attenzione a tale profilo, sottolineando come i rilevanti compiti attribuiti all'Agid (ad esempio, l'adozione di pareri vincolanti e delle linee guida, l'istituzione dell'ufficio del difensore civico a livello centralizzato) richiedano un costante monitoraggio sul funzionamento dell'Agenzia al fine di assicurare che tale organo sia dotato delle risorse organiche e finanziarie necessarie al suo corretto funzionamento.
Infine, come spiega una nota di Palazzo Spada, sono stati formulati diversi rilievi di ordine tecnico sia a livello contenutistico (ad esempio, in tema di domicilio digitale, di documento informatico e di requisiti per l'accreditamento) sia sull'articolato, principalmente al fine di garantire una maggiore chiarezza del testo e una corretta applicazione delle innovazioni previste dal correttivo (articolo ItaliaOggi del 12.10.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIPresupposti indefettibili delle ordinanze sindacali contingibili ed urgenti sono costituiti:
   a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
   b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
   c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge.
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V.3. Con il secondo motivo di ricorso la parte lamenta la violazione dell’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000, T.U. sugli EE.LL. deducendo l’assenza dei presupposti per l’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente e, dunque, anche per l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla sua adozione.
Sostiene, altresì, che, quanto poi alla competenza, dovrebbe farsi applicazione del 5° comma del medesimo articolo 50, a norma del quale, atteso il carattere non esclusivamente locale della problematica attinente all’inquinamento da diossina, legittimata all’adozione del relativo provvedimento sarebbe l’autorità statale o la Regione in ragione delle dimensioni dell’emergenza e dell’interessamento di più ambiti territoriali.
A tal proposito, individua, quale autorità competente, il Direttore generale della A.S.L., unica Amministrazione titolare della potestà di ordinare l’abbattimento degli animali.
V.3.1. Le doglianze sono infondate.
V.3.2. Prioritariamente, quanto alla competenza legata alle dimensioni dell’emergenza, occorre precisare che la stessa ha, nel caso specifico, valenza strettamente locale, essendo circoscritta all’ambito territoriale del Comune di Nola e all’inquinamento ivi rilevato: la legittimazione all’adozione di ordinanze necessitate da imminenti pericoli di natura sanitaria e di igiene pubblica va quindi ascritta al Sindaco, quale rappresentante della comunità locale.
Conseguentemente, per quanto attiene, poi, all’attività istruttoria di natura sanitaria correlata, ovvero la segnalazione della riscontrata presenza di diossina oltre i valori soglia consentiti con rappresentazione della necessità di abbattimento degli animali risultati positivi, legittimo deve ritenersi l’intervento del dirigente del Servizio veterinario dipartimentale locale, designato, in relazione alla funzione espletata, dal Direttore Generale dell’Azienda sanitaria territorialmente competente.
Di contro il riferimento all’art. 12 dell’O.M. 14.11.2006 non è pertinente non attenendo alla contaminazione ambientale, quale quella derivante da presenza di diossina, ma a “Misure straordinarie di polizia veterinaria in materia di tubercolosi, brucellosi bovina e bufalina, brucellosi ovi–caprina, leucosi”.
V.3.3. Ciò posto, presupposti indefettibili delle ordinanze de quibus sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge
” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 24.03.2017 n. 621, 09.11.2016 n. 5162 e 17.02.2016 n. 860; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016 n. 69; Cons. di St., sez. V, 26.07.2016 n. 3369) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 09.10.2017 n. 4700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'illegittimità di una ordinanza sindacale contingibile ed urgente per l'istituzione di un'area pedonale permanente ad uso della cittadinanza.
Il ricorso è fondato e va accolto per l’assorbente rilievo del difetto, nell’ipotesi di specie, dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54, comma 4, T.U.E.L. e del connesso difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai medesimi, dovendo invero l’articolata censura di incompetenza intendersi ricompresa nella censura di difetto di presupposti, essendo innegabile che l’adozione dell’ordinanza ex art. 54, comma 4, T.U.E.L competa al sindaco, ma essendo del pari indubbio che solo la ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza giustifichi una deroga all’ordine della competenze, avuto riguardo alla competenza gestionale generalizzata in capo ai dirigenti ex art. 107 T.U.E.L., espressione del principio generale di divisione fra politica ed amministrazione.
Come è noto, l'ordinanza contingibile ed urgente prevista dalla citata norma del predetto decreto legislativo è espressione di un potere atipico e residuale, il cui presupposto per l'adozione "extra ordinem" è il pericolo per l'incolumità pubblica (e/o per la sicurezza urbana), dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
Inoltre, presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è la necessità di intervenire urgentemente con misure eccezionali e imprevedibili di carattere "provvisorio", non fronteggiabili con gli "ordinari" mezzi previsti dall'ordinamento giuridico e a condizione della "temporaneità dei loro effetti".
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Quanto al presupposto del pericolo per la pubblica incolumità, deve ricordarsi anche quanto costantemente ribadito dalla giurisprudenza amministrativa in materia secondo cui:
   ● “Presupposti per l'adozione da parte del Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità; aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale”.
   ● “In caso di ordinanza contingibile ed urgente, trattandosi di un provvedimento atipico di carattere "extra ordinem" non disciplinato in modo puntuale dalla legge, non può derogare alle norme costituzionali e comunitarie ed anche ai principi generali dell'ordinamento giuridico, come quello comunitario del rispetto del criterio della proporzionalità, nel senso che la tutela dell'interesse pubblico sotteso (incolumità pubblica e/o sicurezza urbana) deve essere perseguita, oltre che facendo uso dei precetti della logica e dell'imparzialità ai quali deve sempre ispirarsi tutta l'attività amministrativa, con strumenti idonei a realizzare gli obiettivi perseguiti (tutela dell'incolumità pubblica e/o della sicurezza urbana), senza eccedere, utilizzando misure non necessarie per la tutela dell'interesse pubblico, e perciò cercando di incidere sui soggetti privati nella misura strettamente necessaria, provocando così il minor sacrificio possibile dei contrapposti interessi privati”.
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... per l'annullamento, previa sospensiva, dell'ordinanza n. 8 emessa dal sindaco del comune di Cimitile in data 06/05/2016 adottata ai sensi dell'art. 54 del Tuel avente ad oggetto l'istituzione di un'area pedonale permanente ad uso della cittadinanza sulla base della considerazione che l'attuale situazione di generalizzato parcheggio in cui versa la piazza Conte Filo, con le relative manovre degli autoveicoli, costituisce un serio pericolo per i cittadini che transitano a piedi.
...
7. Il ricorso è fondato e va accolto per l’assorbente rilievo del difetto, nell’ipotesi di specie, dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54, comma 4, T.U.E.L. e del connesso difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai medesimi, dovendo invero l’articolata censura di incompetenza intendersi ricompresa nella censura di difetto di presupposti, essendo innegabile che l’adozione dell’ordinanza ex art. 54, comma 4, T.U.E.L competa al sindaco, ma essendo del pari indubbio che solo la ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza giustifichi una deroga all’ordine della competenze, avuto riguardo alla competenza gestionale generalizzata in capo ai dirigenti ex art. 107 T.U.E.L., espressione del principio generale di divisione fra politica ed amministrazione.
7.1. Come è noto, l'ordinanza contingibile ed urgente prevista dalla citata norma del predetto decreto legislativo è espressione di un potere atipico e residuale, il cui presupposto per l'adozione "extra ordinem" è il pericolo per l'incolumità pubblica (e/o per la sicurezza urbana), dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
7.2. Inoltre, presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è la necessità di intervenire urgentemente con misure eccezionali e imprevedibili di carattere "provvisorio", non fronteggiabili con gli "ordinari" mezzi previsti dall'ordinamento giuridico e a condizione della "temporaneità dei loro effetti" (Corte Cost., sentenze 07.04.2011 n.115 e 01.07.2009, n. 196).
Quanto al presupposto del pericolo per la pubblica incolumità, deve ricordarsi anche quanto costantemente ribadito dalla giurisprudenza amministrativa in materia, da ultimo anche con la recentissima sentenza Consiglio di Stato, sez. V, 21/02/2017, n. 774, secondo cui “Presupposti per l'adozione da parte del Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità; aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale”.
7.3. Si è inoltre precisato (ex multis TAR Genova, (Liguria), sez. I, 19/04/2013, n. 702) che “In caso di ordinanza contingibile ed urgente, trattandosi di un provvedimento atipico di carattere "extra ordinem" non disciplinato in modo puntuale dalla legge, non può derogare alle norme costituzionali e comunitarie ed anche ai principi generali dell'ordinamento giuridico, come quello comunitario del rispetto del criterio della proporzionalità, nel senso che la tutela dell'interesse pubblico sotteso (incolumità pubblica e/o sicurezza urbana) deve essere perseguita, oltre che facendo uso dei precetti della logica e dell'imparzialità ai quali deve sempre ispirarsi tutta l'attività amministrativa, con strumenti idonei a realizzare gli obiettivi perseguiti (tutela dell'incolumità pubblica e/o della sicurezza urbana), senza eccedere, utilizzando misure non necessarie per la tutela dell'interesse pubblico, e perciò cercando di incidere sui soggetti privati nella misura strettamente necessaria, provocando così il minor sacrificio possibile dei contrapposti interessi privati”.
7.4. In punto di diritto giova al riguardo notare come la Corte Costituzionale abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, solo nella parte in cui il disposto comprendeva la locuzione "anche" prima delle parole "contingibili e urgenti" e, quindi, perché non limitato unicamente a tali ultime circostanze, in violazione della riserva di legge relativa di cui all'art. 23 Costituzione (sentenza 07.04.2011 n. 115).
7.5. Il citato art. 54 del D.Lvo 267/2000, che nella sua versione originaria abilitava il Sindaco nella sua qualità di Ufficiale di governo ad emanare ordinanze contingibili ed urgenti per eliminare gravi pericoli a livello locale che minaccino l'incolumità pubblica, è stata oggetto di una incisiva riforma ad opera del D.L. 92/2008 convertito in legge 125/2008 ed esteso anche alla "sicurezza urbana", meglio definita dal decreto del Ministero dell'interno in data 05.08.2008 (come bene pubblico da tutelare, in ambito locale, attraverso attività poste a difesa del rispetto delle norme che regolano la convivenza civile al fine di migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale) ed intesa dalla Consulta come da riferire esclusivamente alla tutela della sicurezza pubblica ed in funzione delle relative attività di prevenzione e repressione dei reati (Corte Costituzionale, 01.07.2009, n. 196).
Infatti, la titolazione del decreto legge n. 92 del 2008 richiama in modo esplicito la "sicurezza pubblica" e, nelle premesse del citato decreto ministeriale, oltre a venire chiaramente esclusa dall'ambito normativo di riferimento la polizia amministrativa locale, si cita anche in maniera espressa, a suo fondamento giuridico, il secondo comma, lettera h), dell'art. 117 Costituzione il quale, secondo la giurisprudenza della Consulta, attiene appunto alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l'ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale (sentenze n. 237 e n. 222 del 2006, n. 383 del 2005) (Consiglio di Stato sez. VI, 31/10/2013 n. 5276 ).
7.6. Alla luce delle suddette premesse dalle quali non è dato evincere specifici e immediati pericoli per la sicurezza urbana, intesa nel senso indicato, o l’incolumità pubblica, e con riguardo alla esposta situazione di fatto, in assenza di adeguata motivazione in relazione a tali profili nell’ordinanza gravata ed in assenza di richiami in essa, anche per relationem, a specificai atti istruttori –tra l’altro non depositati dal Comune che non ha inteso costituirsi, rinunciando ad assolvere all’onere probatorio su di lui gravante- il provvedimento gravato si manifesta, non solo esorbitante ed eccessivo, ma anche sproporzionato in relazione al principio di realtà nel fronteggiare una vicenda non caratterizzata dalla temporaneità ed eccezionalità, con effetti durevoli nel tempo; ed invero in assenza dei citati presupposti normativi doveva ricorrersi agli ordinari strumenti amministrativi ad opera del competente settore municipale, onde regolamentare diversamente la viabilità ed i parcheggi della piazza de qua, nella considerazione peraltro dei contrapposti interessi in gioco, fra cui quelli degli operatori, come i ricorrenti, aventi esercizi commerciali nelle vicinanze, senza dubbio lesi dal gravato provvedimento.
8. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente annullamento dell’atto gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 09.10.2017 n. 4699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sospensione di diritto dalle cariche pubbliche a seguito di condanna.
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● Giurisdizione - Comuni - Assessore - Nomina - Da parte di Sindaco neo eletto condannato in primo grado per abuso d’ufficio - Impugnazione - Giurisdizione giudice amministrativo.
● Processo amministrativo - Riti - Cumulo rito ordinario e rito elettorale - Prevale il rito elettorale.
● Enti locali - Comuni - Amministratori – Sospensione dalla carica – Art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012 – Per condanna in primo grado per abuso d'ufficio – Notifica dell’atto di accertamento – Non occorre - Ratio.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l’impugnazione dell’atto di nomina di un assessore da parte del Sindaco neo eletto che, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, non poteva emettere alcun atto, in ragione della “sospensione di diritto”, trattandosi di atti autoritativi concernenti l’individuazione degli organi da investire di funzioni pubbliche, ai sensi dell’art. 7 c.p.a. (1).
In assenza, nel comma 1 dell’art. 32 c.p.a., della disciplina dell’ipotesi di cumulo, nello stesso giudizio, di rito ordinario e di rito elettorale prevale il rito elettorale, ispirato ad una logica di particolare rapidità dei giudizi (2).
La sospensione di diritto, prevista dall’art. 11, comma 5, d.lgs. 31.12.2012, n. 235 per coloro che abbiano riportato in primo grado una condanna per il delitto di abuso d’ufficio, non presuppone che l’atto di accertamento sia notificato a chi versa in tale situazione, producendo tale sospensione effetto nel momento stesso in cui vi è la proclamazione degli eletti e inibendo l’esercizio delle pubbliche funzioni a chi sia stato già condannato in sede penale (3).

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   (1) Ha ricordato il Tar che la giurisdizione del giudice ordinario si radica sulle controversie aventi ad oggetto il provvedimento con cui il Prefetto, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. 31.12.2012, n. 235 accerta la sussistenza dei presupposti della sospensione di diritto, nei confronti di chi sia stato condannato in primo grado per uno dei delitti che comportino la medesima sospensione (Cass. civ., S.U., n. 11131 del 2015).
   (2) Il comma 1 dell’art. 32 c.p.a. dispone che “1. È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”.
Ad avviso del Tar, nel silenzio della norma va infatti fatta applicazione del principio, affermato dal Consiglio di Stato (sez. V, 17 febbraio 2014, n. 755), secondo cui –quando una controversia comunque riguarda la materia elettorale- rileva la “necessità di definire rapidamente quali siano le autorità titolati di poteri pubblici nell’assetto costituzionale”: questo principio si applica anche quando sono stati contestualmente impugnati altri atti per illegittimità derivata, di cui si prospetti una sostanziale unicità procedimentale.
   (3) In altri termini, ad avviso del Tar, l’inibizione all’esercizio delle pubbliche funzioni non discende dall’atto del Prefetto (che accerta la sussistenza della causa di sospensione, al fine di renderlo noto “agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina”), tanto che neppure l’atto va notificato all’interessato, ma dipende dalla preclusione derivante di per sé dalla condanna di primo grado.
Diversamente opinando, e cioè se si ammettesse che, prima dell’emanazione dell’atto del Prefetto, il candidato risultato eletto possa porre in essere atti nella qualità conseguente alla proclamazione, si verificherebbe una elusione delle disposizioni dell’art. 11, d.lgs. n. 235 del 2012.
Si ammetterebbe cioè che il candidato risultato eletto, pur se sospeso di diritto dall’esercizio delle funzioni, potrebbe ugualmente disporre una nomina di carattere fiduciario, di per sé avente una decisiva incidenza sulla designazione di tutti gli assessori, ciò che urterebbe con le ragioni poste a base della sospensione di diritto (cioè la sussistenza di una ‘indegnità’ tale da comportare l’assenza di un requisito essenziale per ricoprire l’ufficio, sulla base di una valutazione del legislatore, considerata ragionevole dalla Corte cost. con la sentenza n. 236 del 2015) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.10.2017 n. 862 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAffidamenti in house, ok se c'è l'interesse generale. Sentenza della Corte di giustizia europea sulle ferrovie lituane.
L'esclusione dall'obbligo di gara per una società affidataria in house dipende dalle finalità perseguite (di interesse generale e non commerciali o industriali) e dal nesso funzionale delle attività rispetto alla società controllante; il fatto che operi in concorrenza e non per interessi generale deve essere valutato in concreto.

E' quanto ha chiarito la Corte di giustizia europea nell'importante sentenza 05.10.2017 - causa C-567/15 che analizza la disciplina in materia di «organismo di diritto pubblico» partendo da una fattispecie concreta insorta nella vigenza della direttiva 2004/18 che, sul punto, contiene peraltro una disciplina analoga a quella della 2014/24, trasfusa nel codice dei contratti pubblici all'articolo 3, comma 1, lettera d).
La questione oggetto di giudizio riguardava una società commerciale lituana (Vldr) costituita nel 2003 il cui oggetto sociale consiste nella fabbricazione e nella manutenzione di locomotive, vagoni nonché macchine motrici elettriche e veicoli a motore. La società è una controllata della società ferroviaria statale lituana (suo socio unico) che era, all'epoca dei fatti, il principale cliente della Vlrd, i cui ordini rappresentavano circa il 90% del fatturato di tale società.
Si trattava quindi di accertare se una società (come la Vldr) che, da un lato, è detenuta interamente da un'amministrazione aggiudicatrice la cui attività consiste nel soddisfare esigenze di interesse generale e che, dall'altro, effettua sia operazioni per tale amministrazione aggiudicatrice sia operazioni sul mercato concorrenziale, potesse essere qualificata come organismo di diritto pubblico.
I giudici, preso atto che l'attività della società controllante (prestazione dei servizi pubblici di trasporto di passeggeri) depone per la sua attrazione nella categoria degli organismi di diritto pubblico e, pertanto, operante come amministrazione aggiudicatrice, analizzano la natura giuridica della controllata Vldr.
A tale riguardo, accertato che il controllo è al 100%, la sentenza verifica se sussista anche il secondo elemento, cioè che sia un organismo istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale. Anche su questo punto la Corte evidenzia che effettivamente «le esigenze del cui soddisfacimento la Vlrd è stata investita costituiscono una condizione necessaria per l'esercizio delle attività di interesse generale di tale società controllante».
Il fatto poi che in futuro possa operare sul mercato, in concorrenza con altri operatori (quindi con uno scopo di lucro e subendo le perdite collegate all'esercizio di dette attività), è elemento non sufficiente per escludere la natura di amministrazione aggiudicatrice della società.
Per i giudici «l'esistenza di una concorrenza articolata non consentirebbe, di per sé, di concludere per la mancanza di un'esigenza di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale». Va verificato in concreto se la società «si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche» ed è irrilevante il fatto che il valore delle operazioni interne possa in futuro rappresentare meno del 90%, o una parte non essenziale, del fatturato totale della società (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
L’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30.11.2011, deve essere interpretato nel senso che una società che, da un lato, è detenuta interamente da un’amministrazione aggiudicatrice la cui attività consiste nel soddisfare esigenze di interesse generale e che, dall’altro, effettua sia operazioni per tale amministrazione aggiudicatrice sia operazioni sul mercato concorrenziale, deve essere qualificata come «organismo di diritto pubblico» ai sensi di tale disposizione, purché le attività di tale società siano necessarie affinché detta amministrazione aggiudicatrice possa esercitare la sua attività e, al fine di soddisfare esigenze di interesse generale, tale società si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.
Non incide, a tale riguardo, il fatto che il valore delle operazioni interne possa in futuro rappresentare meno del 90%, o una parte non essenziale, del fatturato totale della società.

INCARICHI PROGETTUALINo a pratiche al ribasso. Prestazioni professionali da salvaguardare. L'importanza dell'equo compenso anche alla luce della sentenza del Cds.
Sono giorni che nel mondo delle professioni si discute della sentenza 03.10.2017 n. 4614 emessa dal Consiglio di Stato. Questa pronuncia, che segna una discutibile svolta della giurisprudenza nell'ambito dei contratti d'appalto sottoscritti con la Pubblica amministrazione, interviene in un momento storico, forse decisivo per la riqualificazione delle professioni.
Da diversi mesi, infatti, è in atto l'iter parlamentare per l'approvazione della legge sull'equo compenso. Inizialmente pensato esclusivamente per le sole professioni legali, introducendo anche la nullità dell'accordo concluso tra avvocato e committente «forte» (ovvero banche, assicurazioni o imprese di grandi dimensioni) qualora il compenso pattuito non fosse stato proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e alle caratteristiche della prestazione legale, il disegno di legge è diventato oggetto d'interesse di tutte le categorie appartenenti al mondo della libera professione (consulenti del lavoro, commercialisti ecc.). Infatti, è noto che il ddl sull'equo compenso per la categoria degli avvocati è stato collegato nel dibattito parlamentare al ddl dedicato ad una remunerazione proporzionata di tutte le prestazioni professionali, comprese anche quelle non ordinistiche (cfr. legge n. 4/2013).
Se da una parte, dunque, il parlamento cerca di disegnare una nuova disciplina volta a consegnare delle regole ad un mercato, quello della libera professione, che è stato sempre dipinto come uno spazio privo di regolamentazione, dall'altra la giurisprudenza amministrativa rivisita le caratteristiche del «contratto a titolo oneroso» nell'ambito dell'appalto ex art. 3 dlgs 12.04.2016, n. 50, in una fase in cui anche il consulente del lavoro rincorre il mercato dei servizi per la pubblica amministrazione.
Per il Consiglio di stato, il contratto a titolo oneroso disciplinato dal dlgs n. 50/2016 «può assumere per il contratto pubblico un significato attenuato o in parte diverso rispetto all'accezione tradizionale» poiché il vincitore della gara d'appalto, nel momento realizzativo dell'oggetto del contratto rispetto al quale non riceve nessun compenso se non una somma a titolo di rimborso spese documentate, ne può ricavare «altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto».
Di conseguenza, la prestazione professionale «non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell'equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione», ovvero un «ritorno d'immagine» professionale. L'orientamento dei giudici fa leva anche sull'entrata nel mercato dei contratti pubblici del c.d. terzo settore, soggetti che perseguono scopi sociali e mutualistici ma non di lucro. A questi soggetti non è possibile estendere il c.d. principio dell'utile necessario.
Secondo i giudici, questa apertura interpretativa consente di ritenere che l'utile finanziario non è elemento indispensabile per la serietà e l'affidabilità dell'offerta, che non può essere –tornando al caso di specie– valutata solo ed esclusivamente in relazione al compenso economico del professionista. Questo orientamento sembra non aver risentito della modifica del dlgs n. 50/2016, che all'art. 24, comma 8, così come modificato dal dlgs n. 56/2017, introduce un equo compenso anche per i contratti pubblici quale «importo da porre a base di gara dell'affidamento».
In tale quadro, è possibile ipotizzare che la richiesta proveniente del mondo della rappresentanza delle professioni di intervenire sul tema dell'equo compenso sia stata generata non solo dall'esigenza di porre delle regole in un mercato tradizionalmente «libero» ma anche da un'avvertita responsabilità di arginare quelle pessime pratiche al ribasso che spesso il mondo professionale ha generato (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).

INCARICHI PROGETTUALIPer il Cds incarichi professionali gratis.
Con la recentissima sentenza 03.10.2017 n. 4614, la V Sez. del Consiglio di Stato, riformando la pronuncia di primo grado (Tar Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.12.2016 n. 2435), ha affermato un principio in virtù del quale la normativa europea e nazionale che disciplina gli appalti pubblici non osterebbe alla possibilità che una stazione appaltante metta a gara un servizio professionale, senza prevedere alcuna remunerazione in favore del prestatore del servizio.
Si tratta di un inaspettato arretramento delle soglie di garanzia che l'ordinamento giuridico, sia pure a fatica, aveva costruito negli ultimi anni a tutela della dignità e del decoro del libero professionista che, con questa sentenza si troverebbe a poter lavorare senza alcun compenso in denaro e le Amministrazioni Pubbliche sono legittimate a bandire gare per l'affidamento di incarichi tecnici da svolgere gratis, con un rimborso spese, sostenendo quindi che il mancato guadagno economico possa essere sufficientemente compensato da un ritorno di immagine.
Secondo i giudici del Consiglio di stato quindi è legittimo che il libero professionista possa essere chiamato a contribuire direttamente col proprio lavoro, oltre che fiscalmente, all'economia del Paese, dimenticando che per essere un libero professionista bisogna anche essere un professionista libero, libero da condizionamenti
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Zero compenso, qualità zero. Anche dai professionisti, remunerati, un aiuto alla ripresa. L'appello di architetti e ingegneri a riconoscere il diritto a una giusta retribuzione.
L'Italia è una penisola soggetta a grandi rischi naturali: terremoti, alluvioni, frane. Conviviamo con fenomeni atmosferici, dissesto idrogeologico ed eventi sismici sempre più frequenti e intensi che si manifestano con sempre maggiore continuità e gravità.
Fenomeni spesso imprevedibili e difficili da controllare, a cui si somma una crisi economica che ha colpito in modo particolare il comparto dell'edilizia.
Il nostro territorio, il patrimonio immobiliare e le infrastrutture pubbliche, di cui il 75% costruito prima del 1981 in assenza di normative antisismiche, hanno subito e ne subiscono pesantemente le conseguenze, molto spesso con un prezzo elevatissimo di perdita di vite umane.
Queste considerazioni di ampio respiro costringono tutti noi, cittadini, liberi professionisti, amministratori pubblici, classe politica e dirigente del Paese, a una serie di profonde riflessioni su come potere intervenire per evitare, o quantomeno minimizzare, gli effetti catastrofici delle calamità naturali, sia dal punto di vista economico che, soprattutto, per la sicurezza delle persone.
Dobbiamo uscire dagli schemi del passato con nuove progettualità, che possano aprire scenari produttivi capaci di mettere in sicurezza il Paese e ridare fiato all'economia nel rispetto del territorio e della sua vitalità. L'Italia è straordinaria per le sue peculiarità, merita un'attenzione totale in modo da garantirne contemporaneamente la sostenibilità economica e ambientale, la sicurezza e la qualità del costruire.
Un Paese, il nostro, che sul piano della qualità ha saputo far crescere e valorizzare personaggi che con le loro idee, le loro opere, il loro mestiere hanno fatto la storia dell'arte e dell'architettura, in modo unico e riconosciuto nel mondo.
Ora, purtroppo, quello spirito sembra essersi spento o almeno assopito, quello spirito artistico che ci ha consegnato un patrimonio di ineguagliabile valore storico e architettonico è stato sopraffatto in nome del valore economico e della concorrenza: massimo sfruttamento del territorio accompagnato dalla regola prevalente del maggior profitto per l'operatore privato, deboli controlli e gare al massimo ribasso, nell'ottica di un risparmio economico per il settore pubblico. Il tutto con poca attenzione all'ambiente, alla qualità delle opere, alla salute e alla sicurezza. A farne le spese è l'Italia intera, perdendo il riconoscimento e la credibilità costruite in decenni di lavoro nel passato; a pagare il prezzo maggiore è il nostro territorio, con le sue ricchezze e le sue fragilità.
Abbiamo opere architettoniche con secoli e secoli di storia che meravigliano il mondo intero, ma abbiamo anche moderni viadotti in cemento armato con 10-20 anni di vita che ci crollano addosso.
I prossimi anni saranno determinanti per il futuro del nostro Paese e della nostra professione.
Il territorio, con tutte le sue componenti, può essere il volano di nuove economie che, sull'esempio di realtà più virtuose, possono essere in grado di contrastare e superare questa difficile fase.
Per fare questo bisogna però ristabilire dei valori morali ed etici, oggi ampiamente assenti in gran parte degli operatori del settore, di ogni ordine e grado, privati e pubblici, che hanno influenzato e condizionato lo sviluppo del nostro territorio dagli anni 60 a oggi.
Sostenere e diffondere una nuova cultura degli interventi sul territorio significa passare necessariamente dal coinvolgimento e dalla sensibilizzazione di tutta la filiera produttiva, progettisti, imprenditori, piccole e grandi imprese, politici, amministratori e uffici tecnici locali, per arrivare ai cittadini. Questo è il nostro compito, la nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future.
Bisognerebbe ritornare al mecenatismo del passato, ove la grandezza dell'uomo si identificava con la grandezza degli interventi architettonici: abbiamo tanti esempi di ciò che sono giunti a noi dal passato e sono oggi ammirati e invidiati da tutto il mondo.
Ogni intervento sul territorio, ogni opera costruita, anche il più piccolo intervento privato, diventa alla fine un'opera di interesse pubblico, sotto gli occhi di tutti. Non dimentichiamo che quanto costruito, bene o male, sopravvivrà sul territorio per generazioni e generazioni, lasciando il segno dei nostri tempi e della nostra cultura a chi verrà dopo di noi. Proprio come i nostri antenati hanno saputo dimostrarci lasciando le tracce della loro storia nelle costruzioni che sono giunte a noi. La nostra architettura contemporanea deve essere pensata per parlare all'avvenire, al prossimo, deve essere cioè un testimone del nostro tempo, che diventerà per le generazioni future un momento di riflessione e di memoria.
Bisognerebbe ristabilire un patto tra le generazioni, quelle del passato che ci hanno trasmesso il patrimonio storico, la nostra con le architetture contemporanee che siamo in grado di esprimere, e quelle future che ci giudicheranno.
Questo patto che lega una generazione all'altra si manifesta a prima vista proprio nell'architettura e nella memoria che essa trasmette nel tempo. Ma perché questa memoria si possa conservare e il patto tra le generazioni possa essere mantenuto, occorre pensare a interventi di qualità che facciano della propria permanenza sul territorio, e nel tempo, un principio guida.
Oggi noi lavoriamo confrontandoci con opere del passato, anche del recente passato, tutelate e gravate da un vincolo storico o monumentale, ma c'è da domandarsi cosa avranno da tutelare coloro che verranno dopo di noi rispetto a quanto costruito negli ultimi 50-60 anni.
Serve quindi un'azione di responsabilità che deve portare in primo piano, insieme alla sostenibilità e alla sicurezza, la qualità del costruire in tutte le fasi, a partire dalla prima progettazione.
Sono temi di cui discutiamo, anche animatamente, dopo ogni evento catastrofico che causa morti e feriti e lascia senza casa intere famiglie. Ma sono argomenti che, purtroppo, ancora oggi sembra rimangano solo nei dibattiti pubblici, dato che i segnali che riceviamo sempre più spesso dalle istituzioni sembrano indicare tutt'altra direzione.
In un momento così particolare per il nostro Paese e per la nostra professione, in cui c'è bisogno di grande sicurezza e qualità del costruire, le istituzioni e i media spingono l'opinione pubblica verso l'idea che la liberalizzazione delle professioni porterebbe alla soluzione dei problemi economici dell'Italia. È quindi paradossale che oggi il dibattito non si concentri sulla qualità del costruire e in generale sulla qualità delle prestazioni professionali, ma privilegi il mero risparmio economico, con effetti (se davvero dovessero esserci) perlopiù solo nel breve periodo. Le conseguenze le pagheremo solo col tempo.
Di questa deleteria direzione ne è un esempio la recente sentenza del Consiglio di stato che ha ribaltato il pronunciamento del Tar Calabria dichiarando, quindi, legittima la gara bandita dal Comune di Catanzaro per la redazione del Piano Strutturale della città con un compenso simbolico di 1 euro.
Un incarico lungo, delicato, complesso e multidisciplinare dal quale scaturiscono le azioni di tutela e sviluppo di una intera comunità territoriale, e che mette in gioco grandi interessi pubblici e privati.
Come si fa anche solo a pensare che col lavoro gratuito, solo il nostro tra l'altro, ci possa essere un futuro per i nostri giovani colleghi, per noi e per i nostri figli, per il Paese intero?
Le prestazioni professionali tecniche, al pari di ogni altro lavoro, devono essere compensate per l'effettiva quantità e qualità del lavoro svolto. La nostra Carta Costituzionale, all'articolo 36, non potrebbe essere più chiara: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa».
Senza un adeguato compenso al lavoro professionale si aprono, tra l'altro, le porte al peggiore dei mali del nostro Paese: la corruzione. L'argine a tutto ciò potrebbe essere l'equo compenso, un tema che è terreno di numerose battaglie, anche parlamentari. Ma ancora prima di ciò si tratta di una questione di dignità e onestà.
Come Fondazione Inarcassa lo diciamo a gran voce non solo in tutela dei 170 mila architetti e ingegneri liberi professionisti che ogni giorno, nonostante le oggettive difficoltà e la burocrazia, si dedicano al proprio lavoro con grande professionalità, ma soprattutto per il futuro del nostro Paese: chiediamo ancora una volta alla classe politica, alla classe dirigente che ci governa un sistema che garantisca la qualità delle prestazioni, delle opere e della sicurezza dei nostri concittadini. Non intervenire a seguito di quanto sentenziato dal Consiglio di stato significherebbe dichiarare la definitiva condanna a morte delle libere professioni (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2017).

APPALTIOneri sicurezza interni e soccorso istruttorio. Restano in gara le offerte congrue.
E' illegittima l'esclusione automatica per mancata indicazione nell'offerta degli oneri di sicurezza interni; è possibile applicare il soccorso istruttorio se non sussiste incertezza sulla congruità dell'offerta.

E' quanto ha affermato la sentenza 03.10.2017 n. 4611 del TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, che si esprime su una questione che vede due orientamenti giurisprudenziali contrapposti. Il primo a favore della legittimità dell'automatismo espulsivo dell'offerta che non abbia rispettato l'obbligo di indicare gli oneri di sicurezza cosiddetti interni o aziendali prescritto dall'art. 95, comma 10, del nuovo codice degli appalti; il secondo contrario al meccanismo automaticamente espulsivo nel vigore del nuovo codice dei contratti pubblici.
Il collegio campano si è schierato a favore di questo secondo orientamento raccordandosi alle considerazioni svolte dall'Adunanza Plenaria nella decisione n. 19/2016 che ha distinto le ipotesi in cui si contesta al concorrente di avere formulato un'offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori (l'incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta determina l'esclusione), da quelle in cui si contesta soltanto che l'offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri (nessuna esclusione e possibilità di applicare il soccorso istruttorio).
Il punto che il Tar pone è se questa impostazione dell'Adunanza plenaria (relativa ad una gara precedente il decreto 50/2016) sia applicabile anche dopo il 19.042016 (data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici).
Il Collegio si esprime positivamente con la conseguenza che la mancata indicazione da parte del concorrente ad una gara d'appalto degli oneri di sicurezza interni alla propria offerta non consente l'esclusione automatica di quest'ultima, senza il previo soccorso istruttorio, tutte le volte in cui non sussista incertezza sulla congruità dell'offerta stessa, anche con riferimento specifico alla percentuale di incidenza degli oneri, ed il bando non preveda espressamente la sanzione dell'esclusione per il caso dell'omessa precisazione dei suddetti costi (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).
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MASSIMA
Il ricorso si presenta fondato nei termini appresso indicati e, in quanto tale, va accolto.
Premesso che in materia di appalti, secondo quanto disposto dall’art. 120, co. 6 e 10, c.p.a., “tutti gli atti di parte e i provvedimenti del giudice devono essere sintetici e la sentenza è redatta, ordinariamente, in forma semplificata”, e che la motivazione della sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., “può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”, devono ritenersi risolutive le censure dedotte dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso avverso la sua esclusione dalla procedura di gara per cui è causa.
Nel caso in esame con verbale n. 3 del 05.05.2017 la Commissione aveva disposto l’esclusione della Pu. s.r.l. in quanto dall’esame della documentazione contenuta nell’offerta economica aveva rilevato “l’insussistenza della dichiarazione degli oneri per la sicurezza aziendale interni” “trattandosi di indicazione richiesta obbligatoriamente ex art. 95, comma 10, del D.Lgs. 50/2016, non essendo ammissibile il soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, del D.Lgs. 50/2016”.
La questione centrale posta dall’odierno gravame concerne, pertanto, la questione della applicabilità, nelle gare bandite dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, dell’istituto del soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del predetto decreto legislativo in caso di omessa indicazione nell’offerta economica dei costi aziendali di sicurezza di cui all’art. 95, comma 10, al fine di stabilire se la stazione appaltante abbia legittimamente escluso immediatamente ed automaticamente dalla gara la società ricorrente.
Al riguardo, premesso che si sono registrati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti, uno a favore della legittimità dell’automatismo espulsivo dell’offerta che non abbia rispettato l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza c.d. ‘interni o aziendali’ prescritto dall’art. 95, comma 10, del nuovo codice degli appalti, ed uno contrario al meccanismo automaticamente espulsivo nel vigore del nuovo codice (cfr. sentenza TAR Lazio, Sezione I-bis, 15.06.2017, n. 7042 alla quale si rinvia per i richiami ad entrambi gli orientamenti giurisprudenziali),
il Collegio ritiene di aderire a tale secondo orientamento sulla base delle considerazioni svolte dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 19/2016, nonché della successiva sentenza della Corte di giustizia dell’UE 10.11.2016, C-140/16, C-697/15, C-162/16 - che ha ribadito i principi già sanciti dalle sentenze richiamate dall’Adunanza Plenaria.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale dell’Adunanza Plenaria n. 19/2016,
l’iniziale interpretazione, secondo cui “gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento essenziale dell'offerta, insuscettibile, come tale, di essere successivamente integrato” (Cons. St., AP n. 3 e 9 del 2015), è stata superata, operando un opportuno distinguo tra le ipotesi “in cui si contesta al concorrente di avere formulato un'offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del "prezzo" (perché andrebbe aggiunto l'importo corrispondente agli oneri di sicurezza inizialmente non computati)”.
Laddove, invece, non è in discussione l'adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell'offerta, ma si contesta soltanto che l'offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma solo formale. In questo caso il soccorso istruttorio, almeno nei casi in cui ricorre la situazione sopra descritta di affidamento ingenerato dalla stazione appaltante, è doveroso, perché esso non si traduce in una modifica sostanziale del contenuto dell'offerta, ma solo nella specificazione formale di una voce che, pur considerata nel prezzo finale, non è stata indicata dettagliatamente.
In questi termini, quindi, deve essere "chiarito" il principio di diritto indicato nella sentenza dell'Adunanza plenaria n. 9 del 2015, mitigando il rigore di un esito applicativo che, altrimenti, risulterebbe “sproporzionato ed iniquo
(Cons. St., AP n. 19 e 20 del 2016).
Ebbene,
il Collegio ritiene che il principio espresso dall’Adunanza Plenaria –riferito alle gare bandite prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016– sia applicabile anche con riferimento a gare, come quella di cui si discute, bandite in vigenza del nuovo codice dei contratti pubblici (cfr. TAR Brescia, Sez. II, 14.07.2017, n. 912, TAR Palermo, Sez. III, 15.05.2017, n. 1318).
Pertanto
la mancata indicazione da parte del concorrente ad una gara d’appalto degli oneri di sicurezza interni alla propria offerta non consente l’esclusione automatica di quest’ultima, senza il previo soccorso istruttorio, tutte le volte in cui non sussista incertezza sulla congruità dell’offerta stessa, anche con riferimento specifico alla percentuale di incidenza degli oneri, ed il bando non preveda espressamente la sanzione dell’esclusione per il caso dell’omessa precisazione dei suddetti costi (cfr. TAR Lazio, Sez. II-ter, 20.07.2017, n. 8819).
Infatti,
posta la natura formale dell’omissione nei termini considerati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19/2016, non essendo in contestazione la quantificazione effettiva dei costi che la concorrente ha indicato, né la sostenibilità del prezzo offerto, né la loro congruità, non può non venire in rilievo l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, del d.lgs. 50/2016 che consente il soccorso istruttorio con riferimento a qualsiasi “elemento formale” della domanda.
Vero è che la previsione di cui all’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 esclude la esperibilità del soccorso istruttorio nei casi di irregolarità afferente all’offerta economica: ma si tratta di irregolarità “essenziali” ovvero di quei medesimi elementi che introducono un elemento di incertezza sostanziale dell’offerta, ai quali si riferisce la motivazione della sentenza n. 19/2016 dell’Adunanza Plenaria nella parte sopra riportata.
A diversamente ritenere -laddove cioè si concludesse circa la radicale non sanabilità della irregolarità formale dell’offerta pure in assenza di contestazioni circa la sua congruità effettiva- si determinerebbe, per il tramite della sanzione dell’esclusione, una conseguenza manifestamente sproporzionata rispetto alla ratio di tutela della previsione in esame (che si propone di assicurare, tramite la esternazione della percentuale dei costi di sicurezza interni, la vincolatività di essi per l’operatore economico ed al contempo la possibilità di valutarne la congruenza prima dell’aggiudicazione dell’appalto); si tratterebbe di una applicazione del principio funzionale solamente alla introduzione di meri formalismi nel procedimento di gara, del tutto inidonei ad assicurare la verifica della sussistenza di effettive ricadute concrete sullo svolgimento del confronto concorrenziale, sulla par condicio dei concorrenti, nonché sull’effettività e regolarità del giudizio circa la migliore offerta cui aggiudicare l’incanto (cfr. TAR Lazio, Sez. II-ter, 20.07.2017, n. 8819 cit.).
Passando ad esaminare la fattispecie oggetto di gravame alla luce della sopra richiamata giurisprudenza, occorre rilevare che, come prospettato da parte ricorrente, la legge di gara non prevedeva espressamente la sanzione dell’esclusione per il caso dell’omessa precisazione dei costi della sicurezza nell’offerta, il modulo predisposto dalla stazione appaltante non contemplava alcuna indicazione in merito alla necessità di indicare i detti oneri, e non è stato contestato a parte ricorrente che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta non rispettasse i costi minimi di sicurezza aziendale, con la conseguenza che l’offerta presentata dalla società ricorrente non avrebbe potuto, sic et simpliciter, essere esclusa dalla procedura di gara per la mancata indicazione dei costi interni di sicurezza.
Conclusivamente, alla luce dei su illustrati motivi, il ricorso va accolto sulla base delle censure articolate con il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle restanti doglianze.
Per l'effetto va annullata l’esclusione disposta nei confronti della ricorrente Pu. s.r.l. e, quale effetto caducante per invalidità derivata, vanno annullati i successivi atti di gara, ivi compresa l'aggiudicazione disposta in favore della Mu. s.p.a., con conseguente declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente stipulato, da differirsi, però, soltanto al momento dell’eventuale esito favorevole alla ricorrente della rinnovazione in parte qua delle operazioni di gara, cui la stazione appaltante è obbligata quale effetto conformativo della presente sentenza.
Quanto, infine, alla domanda risarcitoria, parte ricorrente ha chiesto in via principale il subentro nell’esecuzione del servizio e fino alla scadenza dello stesso, oltre al risarcimento per equivalente monetario relativamente al periodo nel quale il servizio è stato svolto dall’odierna aggiudicataria.
Quanto al subentro, esso deve ritenersi possibile nel caso di specie (ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm.) in quanto la durata del servizio oggetto di gara è di anni due e non sono stati evidenziati particolari ostacoli al subentro nel rapporto, né questi emergono aliunde, considerata anche la natura del servizio da svolgere.
Al riguardo occorre precisare che il soddisfacimento della pretesa azionata passa necessariamente per la rinnovazione in parte qua delle operazioni di gara, posto che il subentro della ricorrente, quale aggiudicataria del servizio, si presenta subordinato all’espletamento del soccorso istruttorio a suo tempo omesso e alla positiva conclusione della gara, nonché ad ulteriori verifiche circa il possesso dei prescritti requisiti di legge in capo alla ditta, da operare evidentemente a cura dell'ente appaltante.
Deve inoltre ritenersi meritevole di accoglimento la richiesta di risarcimento per equivalente monetario relativamente al periodo nel quale il servizio è stato svolto dall’odierna aggiudicataria.
Ed invero
devono ritenersi sussistenti tutti gli elementi richiesti dall’articolo 2043 c.c. ai fini della configurazione della responsabilità extracontrattuale della stazione appaltante, tenuto conto che quanto all’elemento soggettivo in materia di appalti il regime della responsabilità presenta una significativa peculiarità, indotta da un principio enunciato dalla Corte di Giustizia a partire dalla sentenza 30.09.2010 nella causa C. 314/2009, recepito dalla giurisprudenza nazionale sia in ambito di gare soprasoglia che sottosoglia (cfr. TAR Piemonte, Sezione II, 06.06.2017, n. 702).
Ed invero,
in ordine al requisito della colpa dell’amministrazione, il costante orientamento giurisprudenziale in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto, affermatosi successivamente alla suddetta sentenza della Corte di Giustizia, e dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che non è necessario provare la colpa dell’amministrazione poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa comunitaria (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.02.2017, n. 731, TAR Campania, Napoli, Sez. I, 20.04.2017, n. 2168, TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 03.05.2017, n. 5182).
Venendo alla determinazione del quantum del risarcimento richiesto, si ritiene di poterlo commisurare, in via equitativa, nel 5% del valore del contratto (v. art. 5 del bando), al netto del ribasso offerto, da calcolarsi in proporzione al periodo in cui il servizio ha già avuto esecuzione.
Trattandosi di debito di valore, su tale importo sono dovuti la rivalutazione secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo (FOI) e gli interessi corrispettivi, da computarsi al saggio legale sulla somma rivalutata, con decorrenza dalla data di cristallizzazione del danno, da individuare nel giorno in cui è stata disposta l’esclusione di parte ricorrente dalla procedura concorsuale, sino alla data di pubblicazione della presente sentenza (cfr. TAR Catanzaro, Sez. II, 18.01.2017, n. 68), dovendo successivamente essere corrisposti i soli interessi legali –trattandosi di debito di valuta– fino all’effettivo soddisfo.
I contrastanti indirizzi giurisprudenziali formatisi in materia di oneri per la sicurezza integrano giusti motivi per disporre la compensazione delle spese della lite.

CONDOMINIO: Debiti, calcoli al condomino. Non spetta al fornitore indicare quanto dovuto dai singoli. Un vademecum operativo dalla suprema Corte per il recupero delle obbligazioni esterne.
Il condomino a cui sia ingiunto dal fornitore di pagare l'intero debito condominiale ha l'onere di attivarsi in giudizio per indicare la misura della sua partecipazione alle spese comuni e ottenere quindi la riduzione dell'importo richiesto. Infatti, ferma restando la natura parziaria delle c.d. obbligazioni condominiali esterne, non si può imporre al creditore l'onere di individuare e indicare nel precetto l'esatto importo dovuto dai singoli condomini in base ai rispettivi millesimi di proprietà.
Questa la singolare conclusione alla quale è pervenuta la III Sez. civile della Corte di Cassazione nella recentissima sentenza 29.09.2017 n. 22856, nella quale i supremi giudici hanno fornito una serie di ulteriori e dettagliate indicazioni operative per districarsi nel complicato ambito del recupero dei crediti vantati nei confronti del condominio.
Il caso in questione. Nella specie un'impresa edile che aveva eseguito dei lavori sulle parti comuni di un condominio e non aveva ricevuto il saldo di quanto pattuito aveva richiesto e ottenuto dal tribunale un decreto ingiuntivo nei confronti del predetto condominio. Il pagamento della somma era stato quindi preteso nei confronti di alcuni condomini, previa notifica ai medesimi del relativo atto di precetto.
Questi ultimi avevano allora presentato opposizione all'esecuzione dinanzi al medesimo tribunale, contestando sia il fatto che il titolo esecutivo ottenuto contro il condominio (ritenuto un soggetto terzo) venisse utilizzato contro di loro sia la circostanza che l'impresa pretendesse il pagamento dell'intero importo ingiunto, senza limitarsi alle rispettive quote di comproprietà. Sia in primo che in secondo grado l'opposizione era stata dichiarata fondata. Di qui il ricorso in Cassazione da parte dell'impresa.
La decisione della Suprema corte. Come si anticipava, con la decisione in questione la terza sezione della Cassazione ha fornito una sorta di vademecum operativo per il recupero dei crediti in ambito condominiale. Da un lato, infatti, i supremi giudici hanno confermato la precedente giurisprudenza di legittimità che pacificamente ammette che il fornitore possa agire in giudizio per l'intero credito contro il condominio, in persona del suo amministratore pro tempore, per poi procedere a esecuzione forzata nei confronti dei singoli condomini, previa notifica a ciascuno di essi del titolo esecutivo in tal modo ottenuto e del relativo precetto.
La Suprema corte, seguendo l'insegnamento delle sezioni unite, ha anche confermato la natura parziaria (e non solidale) delle obbligazioni condominiali gravanti sui singoli condomini (ragione per la quale ogni comproprietario è tenuto a rispondere verso i terzi limitatamente alla propria quota millesimale).
I giudici di legittimità, tuttavia, nel cassare la sentenza di appello, che, nel confermare a sua volta la decisione di primo grado, aveva giudicato fondata l'opposizione svolta dai condomini all'esecuzione forzata, hanno avuto modo di concludere che non sia onere del creditore specificare l'importo dovuto da ogni condomino in base ai rispettivi millesimi di proprietà.
In altri termini, secondo la decisione in questione, il creditore, una volta dimostrata la legittimazione passiva degli esecutati (ossia il fatto di rivestire la qualità di condomini), può limitarsi ad allegare (a richiedere) il pagamento dell'obbligazione gravante sul condominio. Per la Cassazione, infatti, dovrà essere il condomino cui sia stato eventualmente richiesto il pagamento di un importo eccedente quello della sua quota a proporre opposizione all'esecuzione, dimostrando l'esatto ammontare del dovuto.
Sul piano pratico, seguendo questa tesi, risulterebbe quindi indifferente il fatto che il creditore abbia intimato il pagamento dell'intera obbligazione a uno o più condomini sostenendo che gli stessi sono titolari della totalità delle quote condominiali o assumendone, al contrario, erroneamente, la responsabilità solidale. In ogni caso, infatti, come ritenuto dalla Suprema corte, le conseguenze sul piano del diritto di procedere all'esecuzione forzata sarebbero analoghe.
Ove il condomino debitore non si attivasse in sede giudiziale, opponendosi all'esecuzione e dimostrando la misura della propria quota millesimale di partecipazione alle spese comuni, il fornitore non incontrerebbe più alcun ostacolo nel pretendere da quest'ultimo il pagamento dell'intera obbligazione condominiale, quindi anche oltre la sua quota di comproprietà (e senza intaccare il principio della natura parziaria di essa).
Questa conclusione, secondo la terza sezione civile della Suprema corte, troverebbe conferma nel c.d. principio di riferibilità o vicinanza della prova, essendo palese la maggiore prossimità e la riferibilità al singolo condomino del fatto impeditivo/modificativo in questione, e cioè la misura della sua quota condominiale e, di converso, le difficoltà per il creditore di venire a conoscenza di esso.
Sul punto è interessante evidenziare come i giudici di legittimità, pur trattandosi di controversia insorta prima dell'entrata in vigore della legge n. 220/2012 di riforma del condominio, non abbiano ignorato il nuovo disposto di cui all'art. 63 disp. att. c.c., secondo il quale l'amministratore è obbligato a comunicare ai creditori che lo interpellino le generalità dei condomini morosi (ai quali in prima battuta deve essere richiesto il pagamento del debito gravante sul condominio, salvo poi eventualmente pretenderlo anche da tutti gli altri comproprietari.
Tuttavia, secondo i predetti giudici, tale novella attenuerebbe soltanto in parte le difficoltà in precedenza individuate. In effetti non è un mistero che detta disposizione, lungi dal risolvere la difficile questione del contemperamento dei confliggenti interessi dei creditori del condominio e dei condomini in regola con il pagamento delle spese comuni, abbia forse introdotto nuove difficoltà pratiche e interpretative.
È però evidente come il legislatore abbia almeno risolto il problema dell'asimmetria informativa tra creditore e compagine condominiale (si veda ItaliaOggi Sette del 29/07/2015 si è visto come per il tribunale di Monza il fornitore abbia addirittura diritto ad accedere integralmente all'anagrafe condominiale, quindi non solo ai nominativi dei morosi).
Appare quindi discutibile, per lo meno a partire dall'entrata in vigore della riforma del diritto condominiale, che si debba addossare ai condomini l'onere di eccepire in giudizio l'inefficacia del precetto relativamente alle somme eccedenti la propria quota millesimale (introducendo peraltro l'ennesimo procedimento giurisdizionale in vicende processuali già presumibilmente molto complesse e articolate). Per la terza sezione civile della Cassazione, invece, il condomino inerte sarà costretto a subire l'esecuzione per la quota allegata dal creditore e, laddove la stessa non sia specificata, per l'intero debito di cui risulti intimato il pagamento.
In questo caso, come si legge nella sentenza, nel vigore della nuova normativa occorrerà però tenere conto delle limitazioni di cui al secondo comma dell'art. 63 disp. att. c.c. in merito alla garanzia della preventiva escussione dei condomini morosi (articolo ItaliaOggi Sette del 09.10.2017).

ATTI AMMINISTRATIVINotificazione secondo il rito. Inesistenza giuridica se non si rispettano le regole. Sentenze del Tar e del Consiglio di stato affrontano diversi aspetti procedurali.
La giustizia amministrativa è terreno fertile per rilevanti novità giurisprudenziali, particolarmente utili per la quotidiana attività dell'avvocato, anche e soprattutto in termini di procedura.
Ebbene, recentemente, tre sentenze di Tar e Consiglio di stato hanno affrontato temi tra loro sostanzialmente collegati: la notificazione inesistente, la notifica eseguita personalmente e infine il decreto ingiuntivo e il ricorso per ottemperanza. Momenti procedurali con i quali il legale si trova quotidianamente a fare i conti.
Quando la notificazione è inesistente
L'inesistenza giuridica della notificazione sussiste non solo quando questa manchi del tutto, ma anche quando sia effettuata in modo assolutamente non previsto dal codice di rito.
A ribadirlo sono stati i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 29.09.2017 n. 1887.
Quindi nel caso in cui la notificazione avviene in modo tale da non consentirne l'assunzione nell'atto tipico di notificazione delineato dalla legge, allorquando, per esempio, sia fatta in un luogo diverso da quello previsto dalla legge e che non presenti alcun riferimento o attinenza al destinatario della notificazione stessa.
Inoltre sempre nella stessa sentenza i giudici amministrativi milanesi hanno evidenziato che la scelta del luogo ove effettuare la notificazione ricade infatti esclusivamente sul ricorrente (si veda: Consiglio di stato, sez. VI, 11/09/2013, n. 4495) e non sussistono le condizioni di non imputabilità dell'esito negativo della notifica.
Il thema decidendum vedeva che con ricorso il ricorrente, assistente scelto della polizia locale del comune, ha impugnato il provvedimento con cui il comandante della polizia locale ha disposto il ritiro cautelare dell'arma d'ordinanza assegnata fino alla definizione del procedimento penale a carico del ricorrente stesso per il reato di cui all'art. 612-bis, comma 2 c.p.
Di tale provvedimento l'interessato ha chiesto l'annullamento, previa tutela cautelare.
Il comune non si è costituito in giudizio.
Alla camera di consiglio la causa, chiamata per l'esame della domanda cautelare, è stata trattenuta in decisione per essere risolta nel merito con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell'art. 60 c.p.a., previe le ammonizioni di rito alle parti presenti.
Come rilevato dal collegio nel corso della camera di consiglio, il ricorso è stato dichiarato inammissibile, essendo stato notificato al comune presso l'Avvocatura distrettuale dello stato.
Il comune, infatti, non è ente soggetto al patrocinio dell'Avvocatura dello stato e, pertanto, la notifica effettuata presso quest'ultima risulta inesistente.
Decreto ingiuntivo e ricorso per ottemperanza davanti al g.a.
Il decreto ingiuntivo non opposto definisce la lite al pari della sentenza passata in giudicato, sicché nessun dubbio può porsi sulla proponibilità del ricorso per ottemperanza davanti al giudice amministrativo per la sua esecuzione.
Lo hanno affermato sempre i giudici del TAR Lombardia-Milano (Sez. III, sentenza 29.09.2017 n. 1889).
La questione sottoposta all'attenzione dei giudici di Milano vedeva che con decreto ingiuntivo il tribunale ha ingiunto all'Azienda sanitaria regionale di pagare alla ricorrente la somma in conto capitale ivi indicata, nonché gli interessi di mora dalla data di deposito del ricorso al saldo, oltre alle spese del procedimento monitorio, liquidate contestualmente.
L'Azienda sanitaria non ha eseguito gli ordini. Da qui il ricorso per ottemperanza indicato ritualmente proposto. L'Azienda intimata non si è costituita in giudizio.
Il ricorso, secondo il Tar è fondato.
Nel caso di specie il decreto ingiuntivo di cui la ricorrente chiede l'adempimento non sono stati opposti (come da attestazione della competente cancelleria del tribunale, agli atti del giudizio) e sono divenuti esecutivi. Sono stati infine notificati muniti di formula esecutiva, ma l'Azienda non vi ha adempiuto. Sussistono pertanto tutti i presupposti per l'accoglimento del ricorso.
È stato pertanto dichiarato l'obbligo dell'Azienda sanitaria intimata di dare completa esecuzione al decreto ingiuntivo, ivi compresa la liquidazione delle spese legali nella misura indicate nel decreto ingiuntivo, nonché quelle liquidate nel ricorso di ottemperanza, detratte le somme eventualmente già corrisposte (parte ricorrente afferma di essere stato pagato per il solo capitale).
Sono dovute, in caso di anticipazione da parte della società ricorrente, le spese di registrazione dei decreti ingiuntivi, atteso che, in caso di condanna della parte soccombente alle spese di giudizio anche occorrende, le spese di registrazione spettano alla parte vittoriosa che le abbia anticipate (si vedano: ex plurimis, Cass. civ., Sez. VI, 29.07.2010, n. 17698).
Il caso della notifica eseguita personalmente
La notifica «eseguita personalmente» deve essere espressamente prescritta dall'autorità giudiziaria, in quanto eccezione a forme «generali» di notifica, quali sono quella effettuata direttamente dall'avvocato avvalendosi del servizio postale, ovvero quella eseguita a mezzo di posta elettronica certificata.
È quanto affermato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 19.09.2017 n. 6.
Nella sentenza in commento i supremi giudici amministrativi hanno evidenziato che l'art. 1 della legge 21.01.1994 n. 53 (recante «Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali»), prevedeva, nel suo testo originario, che «1. L'avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell'art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell'ordine nel cui albo è iscritto a norma dell'art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20.11.1982, n. 890, salvo che l'autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente».
Successivamente, il testo dell'art. 1, veniva integrato (per effetto dell'art. 25, c. 3, lett. a), legge 12.11.2011, n. 183, e a decorrere dal 01.01.2012), con l'introduzione, dopo le parole «legge 20.11.1982 n. 890», delle parole «ovvero a mezzo della posta elettronica certificata...».
Nel suo testo attualmente vigente (a decorrere dal 25.06.2014, dopo le ulteriori modificazioni introdotte dall'art. 46, lett. a) dl 14.06.2014 n. 90, conv. in legge 11.08.2014 n. 114), l'art. 1 legge n. 53/1994 dispone «1. L'avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell'art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell'ordine nel cui albo è iscritto a norma dell'art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20.11.1982, n. 890, salvo che l'autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente. Quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente, fatta eccezione per l'autorizzazione del consiglio dell'ordine, la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata».
Dalla lettura delle successive versioni dell'art. 1 legge n. 53/1994, appare possibile affermare che il legislatore considera, almeno dal 01.01.2012, la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, come un mezzo ordinario di notificazione, che, in quanto tale, non necessita di particolari autorizzazioni da parte del giudice (articolo ItaliaOggi Sette del 16.10.2017).

VARI: Sinistri, non compie reato chi si ferma e poi riparte.
Non risponde del reato di fuga dal sinistro l'automobilista che dopo aver tamponato un veicolo si ferma a discutere con l'altro conducente. In particolare se non risultano feriti e la polizia stradale appositamente contattata non è in grado di intervenire.

Lo dice la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con sentenza 27.09.2017 n. 44616.
Un conducente frettoloso ha tamponato e si è arrestato qualche decina di metri dopo, fermandosi a parlare con l'altro autista. Dopo aver verificato la mancanza di feriti e aver contattato telefonicamente la Stradale il trasgressore ripartiva senza fornire generalità al soggetto tamponato.
Contro la conseguente condanna per fuga dal sinistro ha proposto ricorso in Cassazione. Non è penalmente rilevante la condotta dell'autista che si è fermato dopo l'urto per verificare l'accaduto. L'art. 189 Cds sanziona infatti solo con misure amministrative il conducente che riparte dopo il sinistro senza agevolare lo scambio dei dati, in assenza di feriti (articolo ItaliaOggi Sette del 16.10.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sentenze, compensazione ko. La singolarità della causa non esonera dalle spese. La Corte di cassazione: decisione giustificata solo da gravi ed eccezionali ragioni.
La condanna alle spese processuali deve essere pronunciata se c'è la responsabilità di una delle parti che ha posto in essere le condizioni per instaurare un contenzioso del tutto evitabile. Ciascuno, infatti, è tenuto a sopportare i costi del giudizio al quale ha dato luogo con un comportamento contra ius.
Dunque, non ha alcun fondamento la decisione del giudice tributario di compensare le spese per la «singolarità della vicenda» che è stata sottoposta al suo esame. Non è questa la ratio della norma, che giustifica la compensazione delle spese solo per gravi e eccezionali ragioni.

È questo l'importante principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI, con l'ordinanza 27.09.2017 n. 22679.
I giudici di piazza Cavour non condividono affatto la sentenza emanata dal giudice d'appello, che «si è limitata ad affermare, quale ragione giustificativa della disposta compensazione delle spese di lite, la singolarità della vicenda». Mentre, per esercitare la facoltà di compensazione delle spese, avrebbe dovuto «valutare la ricorrenza nella fattispecie in esame di gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione». Secondo la Cassazione, la deroga al generale criterio della soccombenza, «trova la sua ragione giustificativa nel principio di causalità, in forza del quale è tenuto a sopportare il carico delle spese del giudizio chi vi abbia dato luogo con il proprio comportamento contra ius».
Anche con questa pronuncia la Cassazione sollecita i giudici tributari ad applicare correttamente la regola che la parte soccombente deve rimborsare le spese giudiziali alla controparte. Con l'ultimo intervento normativo di riforma (decreto legislativo 156/2015) della disciplina processuale tributaria, in effetti, il legislatore ha limitato ancor di più il potere del giudice di compensare le spese processuali. Il nuovo articolo 15 del decreto legislativo 546/1992, quasi interamente riscritto dalla legge di riforma, impone un maggior rigore in caso di soccombenza.
Le spese processuali possono essere compensate solo per gravi e eccezionali ragioni e per soccombenza reciproca, ed è imposto al giudice di indicare le motivazioni nella pronuncia. Inoltre, nell'ambito delle spese devono essere conteggiati il contributo unificato, l'Iva, il contributo previdenziale, nonché gli onorari, i diritti del difensore e tutti gli esborsi sostenuti.
Quindi, chi dà luogo a una controversia che poteva essere evitata usando l'ordinaria diligenza deve sopportarne i costi. La compensazione, al di là delle situazioni in cui sussiste una soccombenza reciproca, può essere dichiarata solo per «gravi ed eccezionali ragioni», che devono essere adeguatamente motivate. Per esempio, la causa riguarda una questione nuova o complessa oppure si verifica un cambiamento di orientamento della giurisprudenza sull'argomento che forma oggetto del contendere.
Di recente, i giudici di legittimità (ordinanza 20261/2017) hanno giudicato infondata la pronuncia d'appello che ha ritenuto di non condannare la parte che aveva perso la causa al pagamento delle spese, solo perché c'era stata una soccombenza reciproca nei due gradi del giudizio di merito (articolo ItaliaOggi Sette del 16.10.2017).

LAVORI PUBBLICIQualificazione, i requisiti solo per la competizione. VINCOLANTI FINO ALL’AGGIUDICAZIONE.
Una volta aggiudicata la gara, gli altri concorrenti non devono assicurare la permanenza dei requisiti di qualificazione; in caso di scorrimento della graduatoria, l’eventuale aggiudicazione al secondo comporta la richiesta di conferma dell’offerta.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza del 25.09.2017, n. 4470 rispetto a un caso in cui si discuteva se fosse legittimo aggiudicare al secondo classificato in graduatoria che, dopo l’aggiudicazione, risultava carente di un requisito. Il collegio giudicante in primo luogo ha chiarito che il principio di continuità nel possesso dei requisiti di ammissione si impone non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile.
Emerge quindi un interesse per la stazione appaltante all’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fi no alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la p.a.
Diverso è il caso giudicato dove la gara è aggiudicata: per l’aggiudicatario il momento contrattuale impone il mantenimento dei requisiti richiesti e dichiarati in sede di partecipazione, per gli altri concorrenti la procedura è da considerarsi terminata e quindi l’offerta formulata non è più vincolante nei confronti dell’amministrazione, interrompendosi quel rapporto che si era instaurato con la domanda di partecipazione.
Per quanto lo scorrimento della graduatoria, tra l’evento terminale della procedura di evidenza pubblica (l’aggiudicazione), e la riapertura a seguito dell’interpello per lo scorrimento, «c’è una netta cesura, determinata dall’efficacia temporale delle offerte (che la legge limita nel tempo), tant’è che la stesse devono essere confermate in sede di interpello». Diversamente sarebbe irragionevole pretendere la continuità del possesso per un periodo indefinito, durante il quale non c’è alcuna competizione, alcuna attività valutativa dell’amministrazione e, per giunta, alcun impegno vincolante nei confronti dell’amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 29.09.2017).
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MASSIMA
La statuizione del Tribunale amministrativo regionale è corretta.
2.1.‒ Dalla documentazione in atti risulta che l’anzidetta impresa ausiliaria era in possesso di una prima attestazione SOA, rilasciata dalla Bentley SOA in data 15.10.2012 con scadenza triennale 14.10.2015; successivamente, ha ottenuto una seconda attestazione SOA, per la medesima categoria, rilasciata dallo stesso organismo in data 09.02.2016.
Ne consegue che, alla data del 14.10.2015 ‒quando è stata espletata la verifica dei requisiti‒ il certificato era pienamente efficace e, quindi, legittimamente la commissione ha accertato la sussistenza del requisito di qualificazione in capo alla concorrente A.T.I. Lu.Al.Co. S.r.l. In capo alla stazione appaltante non sussisteva l’onere istruttorio di acquisire (per il periodo successivo) l’eventuale contratto di rinnovo stipulato con la SOA (ovvero, per il rilascio di nuova attestazione), in quanto l’A.T.I. si era (a quella data) classificata soltanto seconda in graduatoria. Ogni verifica ulteriore andava rimandata nell’eventualità di uno scorrimento della graduatoria.
2.2.‒ Avuto riguardo alle circostanze del caso di specie, il principio statuito dall’Adunanza Plenaria ‒secondo cui le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell’appalto, senza soluzione di continuità (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 8/2015)‒ non è correttamente invocato dall’appellante.
È dirimente sul punto richiamare un recentissimo precedente di questo Consiglio di Stato (Sez. III, 06.03.2017 n. 1050), il quale ha ritenuto che
l’avvenuta conclusione del procedimento di gara con l’aggiudicazione in favore della prima classificata dispensa le altre imprese partecipanti dall’onere di conservare i requisiti di partecipazione alla procedura selettiva in vista di un possibile scorrimento.
Nella motivazione di tale sentenza ‒che il Collegio condivide‒
viene, in primo luogo, chiarito che il principio di continuità nel possesso dei requisiti di ammissione si impone «non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.».
Sennonché,
quando «la gara è aggiudicata ed il contratto stipulato, deve differenziarsi la posizione dell’aggiudicatario da quella delle imprese concorrenti collocatesi in posizione non utile. Mentre per il primo, il momento contrattuale costituisce l’appendice negoziale e realizzativa della procedura ed impone il mantenimento, giusto quanto chiarito dalla Plenaria, dei requisiti richiesti e dichiarati in sede di partecipazione, per le seconde la procedura è da considerarsi terminata: l’offerta formulata non è più vincolante nei confronti dell’amministrazione e cessa quel rapporto che si era instaurato con la domanda di partecipazione».
La sentenza prosegue affermando che,
per quanto lo scorrimento della graduatoria non dia luogo alla indizione di una nuova selezione concorsuale, «ciò non vale ad elidere l’oggettiva circostanza che tra l’evento terminale della procedura di evidenza pubblica, i.e. l’aggiudicazione, e la riapertura a seguito dell’interpello per lo scorrimento, c’è una netta cesura, determinata dall’efficacia temporale delle offerte (che la legge limita nel tempo), tant’è che la stesse devono essere “confermate” in sede di interpello».
Del resto, si conclude, «
sarebbe irragionevole pretendere (non già il possesso dei requisiti, ma) la continuità del possesso per un periodo indefinito, durante il quale non c’è alcuna competizione, alcuna attività valutativa dell’amministrazione e, per giunta, alcun impegno vincolante nei confronti dell’amministrazione».
2.3.‒ Ebbene, al momento dello scorrimento della graduatoria è incontestato il possesso del requisito di qualificazione in capo all’A.T.I. appellata, in virtù di nuova attestazione SOA (cert. N. 20179AL/35/00), peraltro con incremento della classifica della categoria OG3 (dalla I alla II).
Peraltro, il rilascio di una nuova attestazione SOA certifica non solo la sussistenza dei requisiti di capacità da una data ad un’altra, ma anche che l’impresa non ha mai perso quei requisiti in passato già valutati e certificati positivamente e che li ha mantenuti anche nel periodo intercorrente tra la domanda di rinnovo e quella di rilascio della nuova certificazione, senza alcuna soluzione di continuità (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.07.2016 n. 3270).
3.‒ Anche il secondo motivo di ricorso incidentale ‒con il quale si deduceva la violazione dell’art. 48 d.lgs. 163/2006, in relazione all’art. 263 d.P.R. 207/2010, in quanto, la Lu.Al.Co. s.r.l., in sede di verifica a campione, non avrebbe dimostrato il possesso dei requisiti di progettazione in capo ai professionisti indicati, in quanto diversi certificati prodotti dai progettisti sarebbero mere attestazioni di soggetti privati, come tali inidonei a dimostrare il possesso del requisito‒ è destituito di fondamento.
3.1.‒
L’art. 263, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, recita: «[…] Sono valutabili anche i servizi svolti per committenti privati documentati attraverso certificati di buona e regolare esecuzione rilasciati dai committenti privati o dichiarati dall’operatore economico che fornisce, su richiesta della stazione appaltante, prova dell’avvenuta esecuzione attraverso gli atti autorizzativi o concessori, ovvero il certificato di collaudo, inerenti il lavoro per il quale è stata svolta la prestazione, ovvero tramite copia del contratto e delle fatture relative alla prestazione medesima».
Per quanto concerne la disciplina prevista per i progetti svolti per committenti privati, è dunque precisato che l’operatore economico può di regola limitarsi a dichiarare la buona e regolare esecuzione dei servizi prestati, salvo l’onere di fornire ‒«su richiesta della stazione appaltante»‒ la prova dell’avvenuta esecuzione degli stessi servizi attraverso modalità di prova tra di loro alternative.

3.2.‒ Nel caso in esame, i pregressi servizi di progettazione svolti per un committente privato, sono stati legittimamente documentati dalla controinteressata mediante certificati di regolare esecuzione. Come emerge dall’esame dei verbali n. 4 del 15.9.2015 e n. 5 del 14.10.2015, la commissione ha verificato tali requisiti, richiedendo integrazioni alle ditte e anche provvedendo a verificare presso le Amministrazioni –pubbliche e private– la conferma delle prestazioni (con note trasmesse, a conferma, dall’Azienda Ospedaliera San Giuseppe Moscati di Avellino, dalla R.B.M. di Colleretto Giocosa, dall’Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza, dalla SIAD Bulgaria EOOD, dal Comune di Catanzaro, dal Comune di Palizzi).
3.3.‒ In questo contesto, il ricorrente incidentale non afferma (né tantomeno dimostra) la mancanza del predetto requisito in capo alla controparte, bensì si limita ad affermare del tutto genericamente che esso non sarebbe stato adeguatamente documentato. È dunque corretta la valutazione del TAR secondo cui è mancata «la dimostrazione che i certificati oggetto di contestazione siano da ritenersi indispensabili ai fini dell’accertamento del requisiti richiesti per la progettazione».
4.‒ Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere respinto.

APPALTIRup, Cantone aggiorna le linee guida vincolanti. Cds su nomine e ruolo del responsabile unico del procedimento.
Via libera all’aggiornamento delle linee guida Anac 3/2016 sul responsabile del procedimento (Rup), che avranno natura vincolante; da valutare se il Rup debba sempre essere un dirigente per gli interventi al di sotto dei 150 mila euro; riduttivo che abbia esperienza soltanto di appalti e concessioni.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato nel parere 25.09.2017 n. 2040 sulla proposta di aggiornamento delle linee guida Anac in tema di nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento.
L’aggiornamento del testo delle linee guida (n. 3-2016) si è reso necessario non soltanto alla luce delle modifiche apportate al testo dell’articolo 31 del Codice dei contratti pubblici (il quale, al comma 5, demanda all’Anac guidata da Raffaele Cantone l’adozione di tali linee guida) ad opera dell’articolo 21 del dlgs 56/2017, ma anche per rispondere all’esigenza di fornire risposta a osservazioni e richieste di chiarimenti pervenute da parte di numerose stazioni appaltanti.
Dopo avere segnalato che il recente intervento correttivo «ha apportato in tema di disciplina del ruolo e delle funzioni del Rup (art. 31) un numero limitato di modifiche, di contenuto, però, piuttosto significativo», il parere entra nel merito di alcuni punti, primo fra tutti la natura delle linee guida che adesso, in base al comma 5 dell’articolo 31 sono vincolanti, «a decorrere dall’entrata in vigore dell’aggiornamento in esame».
Il Consiglio di stato suggerisce poi di integrare le previsioni relative alla nomina del Rup attraverso specifici riferimenti a tali presupposti e modalità, in particolare con riferimento alla nozione di «necessario livello di inquadramento giuridico». Come ci si deve infatti comportare se il dipendente occupa una posizione elevata ma non riferita alla professionalità tecnica posseduta, o se viceversa può vantare una rilevante professionalità tecnica pur se inquadrato in una posizione non elevatissima?
Per quanto riguarda gli appalti e le concessioni di lavori di importo inferiore a 150 mila euro lo schema dell’Anac consente, in caso di carenza in organico di un tecnico, che l’incarico di Rup sia affidato «a un dirigente laureato in materie giuridiche»: il parere rimette all’Autorità la valutazione se tale requisito risulti sproporzionato per eccesso, con particolare riguardo alla necessità della qualifica dirigenziale, considerato che la figura del dirigente potrebbe non essere presente negli enti di minori dimensioni e considerato il modesto importo dell’appalto.
Da chiarire, per i giudici di Palazzo Spada, anche il rapporto fra due norme: l’articolo 31, comma 1, penultimo periodo del codice (secondo cui, in caso di carenza in organico di adeguate professionalità, l’incarico di Rup viene assegnato «tra gli altri dipendenti in servizio») e il successivo comma 6 secondo cui, in caso di assenza in organico di un tecnico, le funzioni di Rup per i servizi di ingegneria e di architettura sono attribuite «al responsabile del servizio al quale attiene il lavoro da realizzare».
Infine, sembra riduttivo e comunque da chiarire, visto l’ampio spettro di attività rimesse dalla legge al Rup, la previsione per cui l’esperienza specifica richiesta al Rup risulti limitata al solo «affidamento di appalti e concessioni» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIAllegati alla Pec con il bollino. La posta certificata garantisce che non siano alterati. La Corte di cassazione è recentemente intervenuta con una serie di decisioni sul tema.
La Pec (Posta elettronica certificata) è oggi tema quotidiano per l'attività legale e vista la indeterminazione nell'uso degli strumenti informatici, che in molti casi sono ancora troppo recenti per avere una taratura consolidata, l'uso ed il valore che le si da è sovente motivo di pronunce della Cassazione, la quale recentemente ha affrontato il tema degli allegati alla Pec e del valore della Pec nel suo complesso.
Pec, processo e la questione degli allegati. La Pec garantisce che durante la trasmissione di un messaggio gli allegati non vengano alterati, ma non ne certifica il contenuto verso terzi.
È quanto affermato dai giudici della Corte di Cassazione (Sez. IV penale) con la sentenza 21.09.2017 n. 43498.
I giudici di piazza Cavour hanno, altresì, aggiunto che da un punto di vista tecnico-informatico, la Pec può contenere file allegati. Tuttavia, da un punto di vista legale, il gestore Pec non offre la garanzia della genuinità degli stessi. In buona sostanza il gestore Pec non certifica affatto il contenuto del messaggio.
In altri termini il ricorrente allega una mera certificazione Pec di invio e ricezione, ma non l'allegato contenuto dalla mail; una trasmissione Pec certifica che una certa trasmissione è avvenuta tra due indirizzi e-mail Pec, ma non certifica (giuridicamente) quello che la «busta elettronica» conteneva.
Nel caso, infatti, in cui si voglia inviare, insieme al testo dell'e-mail, un file, conferendo allo stesso il valore di originale, sarà necessario utilizzare il sistema di firma digitale sul documento (si veda anche circolare del 20.01.2014, n. 3 della Ragioneria gen. Stato).
Il thema decidendum sottoposto all'attenzione degli Ermellini vedeva che con sentenza il gup dichiarava: Tizio responsabile dei reati a lui ascritti e relativi a violazioni della normativa sugli stupefacenti e lo condannava alla pena di anni 10 di reclusione; Caio responsabile del reato a lui ascritto, con la recidiva aggravata, e relativo a violazioni della normativa sugli stupefacenti e lo condannava alla pena di anni 8 di reclusione; e così anche per altri imputati con pene logicamente diverse in base ai casi.
Con sentenza la Corte di appello, adita dagli imputati, all'esito dell'udienza camerale, preso atto della rinuncia di tutti i ricorrenti ai motivi di appello relativi all'accertamento della penale responsabilità, limitandoli alla determinazione della pena, in parziale modifica della sentenza di primo grado, rideterminava le pene in melius. Poi, il ricorso per Cassazione.
Se l'atto è portato a conoscenza, la notifica via Pec non è nulla. Secondo i giudici della Corte di Cassazione (Sez. VI civile, ordinanza 21.09.2017 n. 22007) non meriterebbe censura una sentenza impugnata, nella parte in cui escluderebbe che l'effettuazione presso la cancelleria, anziché presso l'indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore costituito nel giudizio di primo grado, comportasse l'inesistenza della notificazione dell'atto di appello, e quindi l'inammissibilità dell'impugnazione: nonostante l'errata individuazione da parte dell'appellante delle modalità di notificazione applicabili alla fattispecie, l'avvenuta consegna dell'atto ad opera dell'ufficiale giudiziario competente in forme corrispondenti a quelle consentite da disposizioni tuttora in vigore, sia pure in via sussidiaria rispetto a quelle concretamente applicabili, assicura infatti la riconducibilità del procedimento notificatorio ad uno degli schemi astrattamente prefigurati dal legislatore; risulta pertanto giustificata l'affermazione della mera nullità della notifica e dell'intervenuta sanatoria della stessa, con efficacia retroattiva, per effetto della costituzione dell'appellato, con la conseguente esclusione dell'inammissibilità del gravame.
I giudici di piazza Cavour si sono rifatti a un recente quanto consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza, hanno dichiarato non necessario, in quanto estraneo al modello legale della notificazione, il requisito del collegamento tra il luogo in cui è stata effettuata ed il destinatario, attribuendo invece rilievo alla sussistenza degli elementi strutturali idonei a rendere riconoscibile l'atto come notificazione.
È stato così affermato che, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, l'inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che nel caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui non ricorrano: a) l'attività di trasmissione svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) la fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi ex lege eseguita).
Ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale ricade invece nella categoria della nullità, sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 20/07/2016, n. 14916; v. anche Cass., Sez. VI, 27/01/2017, n. 2174).
Sul valore della Pec. E infine i giudici sempre della Corte di Cassazione (Sez. VI civile, ordinanza 15.09.2017 n. 21375) si sono soffermati con una articolata pronuncia sul valore della Pec, asserendo che la comunicazione della dichiarazione dell'evento interruttivo del giudizio effettuata a mezzo Pec (dal difensore della parte interessata dall'evento al difensore della controparte), essendo equivalente a notificazione effettuata per mezzo del servizio postale, deve ritenersi idonea a dimostrarne la conoscenza legale da parte del destinatario, almeno in mancanza di prova contraria.
La questione vedeva la Corte di appello che aveva ritenuto tardiva la riassunzione del giudizio, in quanto l'evento interruttivo, e cioè il fallimento della società opposta, era stato portato a conoscenza del procuratore della società opponente attraverso una specifica dichiarazione effettuata dal procuratore della stessa società opposta, comunicata a mezzo Pec.
Secondo la società ricorrente, tale comunicazione non sarebbe idonea a determinare la conoscenza legale dell'evento, e il termine per la riassunzione dovrebbe farsi decorrere dalla data in cui il giudice aveva dichiarato l'interruzione del processo (con conseguente tempestività della sua riassunzione).
Inoltre nella sentenza in commento è stato osservato che occorre tener conto che ai sensi degli artt. 4 e 6 del dpr 68/2005, «la posta elettronica certificata consente l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli effetti di legge» (art. 4, comma 1), e «la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione» (art. 6, comma 3) (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).

PUBBLICO IMPIEGOAbuso di ufficio e dolo intenzionale - Responsabile dell'U.T.C. - Fattispecie - Rilascio di concessione edilizia illegittima e successivo rilascio in sanatoria del permesso di costruire - Crollo del fabbricato - Tutela del pubblico interesse e pericolo oggettivo per la staticità degli immobili adiacenti - Ridimensionamento sostanziale dell'intervento edilizio - Art. 323 cod. pen. - Artt. 12, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, non deve necessariamente essere desunta dall'accertamento di un accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ma anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente nonché l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge, giacché l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa (tra le altre, da ultimo, Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta). Fattispecie: rilascio di concessione edilizia per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione che non erano consentiti e successivo rilascio in sanatoria del permesso di costruire.
Dirigenti e responsabili uffici comunali - Abuso di ufficio - Irrilevanza della compresenza di una finalità pubblicistica.
In tema di abuso di ufficio, non può rilevare al fine di escludere il dolo intenzionale, la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente (tra le altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, dep. 29/05/2015, Adamo).
Nella specie, tutta la condotta dell'imputato, sin dal rilascio dell'originaria concessione edilizia, è apparsa strumentalmente indirizzata a favorire l'Unione coop. di consumo, restando evidentemente recessivo e, dunque, non significativo dell'assenza del dolo richiesto, il fine, pur eventualmente legittimo, di sanare la situazione urbanistica pregiudicata dal crollo del fabbricato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43160 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire - Conformità delle opere - Soggetti responsabili - Committente, costruttore, progettista e direttore dei lavori - Artt. 29, 32, 44, 64, 65, 71, 72 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
L'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, rubricato "responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività", prevede un meccanismo di responsabilità concorrente del titolare del permesso di costruire, del committente e, per quanto qui rileva, anche del costruttore e del direttore dei lavori, per quanto concerne la conformità delle opere a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo; sicché la presenza del direttore dei lavori non può certo valere ad elidere, in alcun modo, gli obblighi gravanti sulle altre figure qualificate previste dal d.P.R. n. 380/2001 art. 29 e, tra queste, l'amministratore della società costruttrice (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43153 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAInterventi edilizi in una zona paesaggisticamente vincolata - Qualificazione giuridica.
In presenza di interventi edilizi che siano stati eseguiti in una zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica, è del tutto indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali, come tali riconducibili alla fattispecie di cui all'art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, non essendovi spazio per l'applicazione dell'ipotesi contravvenzionale contemplata dalla lett. a) della richiamata disposizione (Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014, Longo; Sez. 3, n. 1486 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014, P.M. in proc. Aragosa e altri; Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, dep. 27/04/2010, Santonicola e altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43153 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di esclusione della punibilità - Reato continuato - Comportamento abituale - Configurabilità - Art. 131-bis cod. pen..
La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, infatti, non può essere applicata, ai sensi del terzo comma dell'art. 131-bis cod. pen., qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole, ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio puniendi.
In particolare, essa non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di "comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 43816 del 01/07/2015, dep. 30/10/2015, Amadeo; Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015, dep. 13/07/2015, Gau) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43153 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Registri, responsabile il notaio distratto.
Professionalmente responsabile è il notaio che, richiesto della stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, non provvede a controllare i registri al fine di verificare se il bene, oggetto di compravendita, sia o meno assoggettato a pignoramento e ciò anche nell'ipotesi in cui, come nel caso di specie, il pagamento del prezzo avvenga prima del rogito: lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza 21.09.2017 n. 21953.
Intervenuta sul ricorso di un pubblico ufficiale avverso la sentenza di merito che lo vedeva condannare, sia in primo che secondo grado, per responsabilità professionale e risarcimento dei danni, la Corte ha avuto modo di precisare che esisteva una chiara responsabilità per negligenza del professionista legata al fatto che non avesse prima verificato e, di conseguenza reso edotti i clienti, dell'esistenza non solo di un'iscrizione ipotecaria sui beni oggetto di alienazione, ma anche di un pignoramento sui medesimi, costringendo di conseguenza le parti lese a pagare una certa somma al creditore procedente: «Per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare», spiegano sul punto i giudici della VI-3 sezione civile, «la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, poiché l'opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia assicurata la serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto medesimo».
Ne deriva che l'inosservanza dei suddetti obblighi «accessori» configura un'ipotesi di responsabilità ex contractu «per inadempimento dell'obbligazione di prestazione d'opera intellettuale» (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).
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MASSIMA
Quanto al secondo motivo,
essendo stato accertato nel giudizio di merito che una responsabilità per negligenza del notaio esistesse, e che fosse relativa al non aver preventivamente verificato, e reso edotti i clienti, dell'esistenza non solo di una iscrizione ipotecaria ma anche di un pignoramento sui tre terreni oggetto di acquisto contestuale da unico proprietario, ed accertato che gli stessi, per liberare i terreni acquistati dal vincolo del pignoramento, hanno pagato un determinato importo al creditore procedente, la condanna del professionista al risarcimento del danno non viola i principi più volte affermati da questa Corte, in quanto essa è volta a porre i danneggiati nella situazione nella quale si sarebbero trovati se effettivamente, come erroneamente detto loro, avessero acquistato l'immobile libero da pesi e vincoli, ovvero volta a reintegrarli della somma della quale si sono dovuti privare -a parte il prezzo della vendita- per liberare dal vincolo l'immobile che era stato garantito loro come libero.
Vale cioè il principio secondo il quale
per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, poiché l'opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia assicurata la serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto medesimo.
Conseguentemente,
l'inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio dà luogo a responsabilità "ex contractu" per inadempimento dell'obbligazione di prestazione d'opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità (Cass. n. 24733 del 2007).

TRIBUTI: Smaltimento rifiuti, prescrizione in 5 anni.
La tassa comunale per il servizio di smaltimento dei rifiuti, comunque denominata, si prescrive in cinque anni, trattandosi di somme che hanno a oggetto prestazioni periodiche, da inquadrare nell'ambito dell'articolo 2948, n. 4, del codice civile. Il contribuente può ricorrere contro l'intimazione di pagamento ed eccepire tale vizio, se tra la stessa e la notifica della pregressa cartella sono trascorsi più di cinque anni: la mancata impugnazione della cartella, infatti, non ha effetti sulla prescrizione, il cui termine quinquennale inizia a decorrere nuovamente dalla notifica di ogni atto interruttivo.

Sono i principi riassunti nella sentenza 11.09.2017 n. 5304/03/2017 della Ctp di Milano.
La vertenza prende le mosse dall'impugnazione di una intimazione di pagamento notificata dall'agente della riscossione, con richiamo a cinque pregresse cartelle esattoriali relative alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti. Tra la notifica dell'intimazione e quella delle precedenti cartelle, esponeva il contribuente nel proprio ricorso, erano trascorsi più di cinque anni, essendo quindi decorso il termine della prescrizione breve.
La Ctp meneghina ha accolto il ricorso, osservando che la tassa comunale che si paga per il servizio di smaltimento dei rifiuti rientra certamente nell'ambito di applicazione dell'articolo 2948 del codice civile («Prescrizione di cinque anni») e, precisamente, nell'ipotesi delineata al numero 4): «Si prescrivono in cinque anni gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi». Il corrispettivo per lo smaltimento dei rifiuti, si legge in sentenza, ha a oggetto delle prestazioni periodiche e, dunque, indipendentemente dalla denominazione assunta dalle varie tasse succedutesi nel tempo, rientra nella prescrizione breve.
La Ctp ha poi richiamato l'orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 23397/2016) sugli effetti della c.d. «definitività amministrativa» degli atti di riscossione, ovvero l'effetto che consegue alla mancata impugnazione degli stessi entro i termini previsti, ai fini della prescrizione: la mancata impugnazione della cartella non determina l'effetto di allungamento del termine di prescrizione, da breve a ordinario, cosi che il termine breve inizia nuovamente a decorrere dalla notifica di ogni atto interruttivo.
Nel caso di specie, erano trascorsi più di cinque anni tra la cartella e l'intimazione, per cui la decisione, alla luce dei principi di diritto enunciati, si è sviluppata in senso favorevole al contribuente.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con il ricorso in esame, notificato (oltre che tramite Pec anche) per mezzo del servizio postale in data 31.10.2016, viene impugnata l'intimazione di pagamento n. ( ) emessa da Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. in data 22.07.2016, nella parte in cui si riferisce a quattro precedenti cartelle di pagamento ( ), a loro volta relative alla tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani pretesa dal Comune di ( ), per un ammontare complessivo pari a euro 684,75.
Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. non si è costituita in giudizio.
Tenutasi la pubblica udienza in data 10.07.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato in quanto meritevole di accoglimento l'eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente.
Va difatti osservato che, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, il termine prescrizionale relativo ai crediti derivanti dalla tassa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani è pari a cinque anni, trattandosi di crediti che hanno a oggetto prestazioni periodiche ed essendo, quindi, a essi applicabile il termine breve di cui all'art. 2948, n. 4), cod. civ. (cfr. Cass. Civ. sez. trib. 23.02.2010 n. 4283).
Il termine breve, precisa sempre la giurisprudenza, si applica anche quando la relativa pretesa si fondi su una cartella di pagamento la quale, in quanto atto amministrativo, non beneficia della norma di favore contenuta nell'art. 2953 cod. civ., applicabile esclusivamente agli atti giurisdizionali (cfr. Cass. Civ. sez. un., 18.11.2016, n. 23397).
Ciò premesso, si deve osservare che, nel caso di specie, emerge dagli atti che fra la notifica al contribuente delle suddette cartelle di pagamento e la notifica dell'intimazione di pagamento impugnata è trascorso un periodo superiore al quinquennio.
Ne discende che, come anticipato, i diritti relativi a tali cartelle di pagamento sono prescritti e che, quindi, il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento dell'atto impugnato nella parte relativa alle suindicate quattro cartelle di pagamento.
Sussistono giustificate ragioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
PQM
La Commissione, in accoglimento del ricorso, annulla l'atto impugnato. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).

TRIBUTITari senza discriminazioni. I non residenti non vanno penalizzati con tariffe più alte. Una sentenza con cui il Consiglio di stato rimarca il principio di proporzionalità. Tia-
I comuni non possono penalizzare i non residenti rispetto ai residenti, imponendo tariffe più alte per il pagamento della tassa rifiuti, violando il principio di proporzionalità. La tassa ha la finalità di coprire i costi del servizio svolto in regime di privativa dall'amministrazione comunale, ma non può gravare il prelievo in misura eccessiva e irrazionale su coloro che producono meno rifiuti.

Il principio è stato affermato dal Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 06.09.2017 n. 4223.
Per i giudici di Palazzo Spada, il principio di proporzionalità, cui si deve conformare la discrezionalità amministrativa nell'individuazione delle tariffe Tia, ma le stesse regole valgono oggi per la Tari, porta a ritenere non legittimo un criterio di determinazione che risulti «più gravoso per le abitazioni dei non residenti rispetto a quelle di coloro che dimorano abitualmente nel comune».
Secondo i giudici amministrativi, la ratio del tributo è quella di coprire i costi complessivi del servizio erogato, «ripartendone ragionevolmente gli oneri in coerenza con la natura di tassa e con la quantità di rifiuti potenzialmente producibili dalle varie tipologie di beni e della rispettiva capacità inquinante». Ed è evidente che abitando i residenti con continuità nel territorio comunale, gli stessi vi producano ben più rifiuti di coloro che invece, a parità di condizioni abitative, vi ci soggiornano solo per periodi di tempo limitati o saltuari». «Ciò vale, a maggior ragione, in una località turistica (qual è Jesolo) a vocazione balneare, prettamente stagionale». Mentre i non residenti sono «mediamente assenti per la maggior parte dell'anno».
In realtà, la questione del trattamento fiscale dei contribuenti non residenti ha formato oggetto di dibattito in passato, a proposito del pagamento della tassa che è rapportata anche al numero di coloro che occupano l'immobile. Al riguardo, la Cassazione (sentenza 8383/2013) ha ritenuto legittima la determinazione della quota variabile della Tia (la stessa disciplina si applica alla Tari) per le seconde case in base al numero degli occupanti desunto dalla superficie dell'immobile. Questa presunzione, secondo la Cassazione, è ammessa qualora non sia possibile conoscere il numero dei soggetti che di fatto lo utilizzano.
Dunque, non è irragionevole il ricorso al metodo proporzionale basato sulla superficie del bene: più ampia è la superficie, maggiore è il numero di coloro che si presume occupano l'immobile. Spetta al contribuente fornire gli elementi di prova idonei a dimostrare l'infondatezza della presunzione.
In senso contrario, invece, si è espresso il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna (sentenza 551/2012), che ha giudicato ingiustificabile la suddetta presunzione, adottata solo perché il dato reale è difficile da accertare attraverso le risultanze anagrafiche. Può accadere, infatti, che un immobile di notevole ampiezza sia utilizzato da un numero ristretto di occupanti. Questo criterio crea solo una discriminazione tra residenti e non residenti. Per i primi la tariffa è correttamente ancorata a un elemento concreto, quello cioè del numero degli occupanti desunto dalle risultanze anagrafiche.
Motivazione tariffe. Le tariffe adottate dalle amministrazioni locali formano spesso oggetto di contestazioni da parte dei contribuenti, soprattutto per quanto concerne la mancanza di motivazione delle delibere che ne fissano la misura per le varie categorie di attività. Anche i giudici hanno preso posizione sulla questione in ordine sparso.
Per esempio il Tar Latina (sentenza 486/2016), contrariamente a quanto sostenuto da altri giudici amministrativi, ha stabilito che le tariffe Tari non richiedono la motivazione se i comuni applicano i coefficienti fissati dal regolamento statale per la determinazione della quota fissa e di quella variabile del tributo. Il contrasto di posizioni era già emerso negli anni scorsi anche per la Tarsu e la Tares e non è venuto meno neppure per la Tari, istituita a partire dal 2014. In primo luogo, secondo il Tar Latina, la delibera che fissa le tariffe Tari non richiede «una particolare o specifica motivazione dato che si tratta di un atto generale».
Inoltre, i ricorrenti laddove lamentano che la tariffa stabilita per gli stabilimenti balneari non tiene conto della diversa attitudine alla produzione di rifiuti dell'arenile rispetto al chiosco e del carattere stagionale delle attività svolte, dimenticano «che la valutazione di questi elementi è per così dire insita nel metodo normalizzato, nel senso che i coefficienti previsti dalle tabelle allegate al dpr 158 per la determinazione della quota fissa e della quota variabile per gli stabilimenti balneari già tengono conto delle caratteristiche dell'attività». E non a caso i coefficienti previsti per gli stabilimenti balneari sono diversi e soprattutto notevolmente più bassi rispetto a quelli previsti per es. per bar, pasticcerie e ristoranti o campeggi e alberghi.
Quello che la legge impone all'ente è che nello scegliere il coefficiente per l'applicazione del metodo normalizzato «si mantenga all'interno del range previsto dalle tabelle» allegate al citato dpr. Pertanto, nel caso di specie «poiché i coefficienti scelti si collocano in un ambito intermedio, la tariffa non sarebbe sindacabile trattandosi di scelte rientranti nel merito della discrezionalità amministrativa».
In effetti, nonostante in alcuni casi e per particolari attività coefficienti di produzione dei rifiuti e tariffe deliberate possano sembrare eccessive, non è sindacabile la scelta comunale che fissi delle tariffe in linea con i parametri stabiliti dal citato regolamento statale sul metodo normalizzato. Ancorché l'ente abbia il potere di aumentarle o diminuirle in modo consistente per alcune tipologie di attività in relazione alla loro tendenziale maggiore o minore produzione di rifiuti.
In realtà, il contrasto giurisprudenziale sull'obbligo o meno di motivare le delibere tariffarie era già emerso prepotentemente in regime di Tarsu, anche se per il vecchio tributo i comuni non avevano vincoli ad hoc nella scelta delle tariffe da applicare. L'unico limite era rappresentato dal raggiungimento dell'obbiettivo primario di copertura dei costi del servizio di smaltimento rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).

TRIBUTI COMUNALI: Perizia ad hoc batte delibera comunale.
Il valore venale delle aree fabbricabili calcolato dagli enti comunali e attuato in apposite delibere si pone come una presunzione semplice, per stimare la base imponibile ai fini del versamento dell'Imu; tale valore, dunque, è superabile attraverso una specifica perizia di stima, che tenga conto delle caratteristiche effettive dell'immobile.

È quanto afferma la Ctp di Bergamo nella sentenza 04.09.2017 n. 445/02/2017.
Il caso riguarda l'impugnazione di un avviso di accertamento Imu, notificato da un comune della provincia bergamasca a un contribuente, proprietario di alcuni terreni edificabili. Il comune lamentava l'omessa dichiarazione ai fini Imu, con consequenziale omesso versamento dell'imposta, che accertava facendo riferimento al valore venale individuato in apposite delibere comunali. Il contribuente eccepiva, sotto il profilo del merito, l'eccessiva valutazione dell'area e depositava, in allegato al proprio ricorso, una perizia di stima giurata, condotta specificamente sul bene in questione, da cui emergeva un valore ampiamente inferiore rispetto a quello calcolato dall'ente comunale.
La Ctp di Bergamo ha parzialmente accolto il ricorso, rideterminando la misura dell'Imu, utilizzando come base imponibile il valore individuato nella perizia, confermando però la debenza delle sanzioni, a causa dell'omissione dichiarativa comunque posta in essere.
L'ente comunale, spiega il collegio, può determinare il valore venale delle aree fabbricabili con apposite delibere: tale valore, tuttavia, si pone come una presunzione semplice, in maniera simile a quanto avviene con gli studi di settore. Da ciò deriva la possibilità, per il contribuente, di superare quella presunzione, per esempio con la produzione di una perizia di stima, circostanziata e che tenga in considerazione le caratteristiche dell'immobile. La stima specifica del bene, ove ritenuta attendibile e ben corredata di tutti gli elementi necessari, supera il valore presuntivo calcolato dal Comune nelle proprie delibere.
Nel caso di specie, la Ctp ha valutato gli elementi evidenziati nella perizia, volti a evidenziare le ragioni per cui il terreno doveva ritenersi penalizzato rispetto agli standard, ritenendoli fondati. Su tale valore, dunque, va ricalcolata l'Imu. Per quanto riguarda le sanzioni, invece, le stesse sono dovute poiché il contribuente ha comunque omesso di dichiarare alcun valore e di versare alcunché.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Così sommariamente ricostruite le rispettive allegazioni delle parti, la Commissione giudica che la pretesa dell'Ente resistente sia solo parzialmente fondata. A sostegno di questa conclusione, valgono le concorrenti ragioni che seguono.
Quanto alle contestazioni della contribuente sul valore attribuito alle sue proprietà, il Collegio osserva che ai comuni è consentito di determinare periodicamente i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili per zone omogenee; e che detta estimazione, oltre a limitare il potere di accertamento del comune, può essere legittimamente utilizzata al fine di acquisire elementi di giudizio sull'effettivo valore delle aree. Detti regolamenti, pur non avendo natura propriamente imperativa, svolgono infatti funzione analoga a quella dei cosiddetti studi di settore, e integrano una fonte di presunzione idonea a costituire, anche con portata retroattiva, un indice di valutazione sia per l'Amministrazione comunale, sia per lo stesso giudice tributario.
Ebbene, la natura presuntiva che connota la delibera comunale richiamata nell'atto d'accertamento avrebbe imposto al contribuente di vincerla, con argomentazioni plausibili e convincenti. Come in effetti è stato nella fattispecie, giacché la perizia prodotta agli atti (cfr. allegato 2 della parte ricorrente) consente al Collegio di prendere atto, anche attraverso la documentazione fotografica allegata, dell'effettiva consistenza dei fondi oggetto d'estimazione, obiettivamente caratterizzati da difficoltà di commercializzazione per l'elevata pendenza che li connota, per l'accertata presenza nell'immediato sottosuolo di strati rocciosi e stante la limitrofa allogazione di un sito industriale deputato alla produzione della gomma.
Le suddette caratteristiche dei compendi in esame fanno dunque ritenere che la loro corretta valutazione in base al metodo sintetico comparativo debba essere pari a complessivi euro 250.000,00. Cosicché, la pretesa dell'Amministrazione comunale resistente deve essere parametrata a detto valore.
Quanto invece alle sanzioni irrogate con l'atto d'accertamento, esse sono affatto legittime, essendo pacifico che la contribuente ha mancato di denunziare ai fini Imu i mappali edificabili di sua proprietà.
Conclusivamente, il ricorso del contribuente deve essere, per le ragioni sopra esposte, parzialmente accolto, nei termini indicati in dispositivo.
Mentre la reciproca soccombenza comporta che le spese di lite debbano essere tra le parti integralmente compensate.
PQM la Commissione, in parziale accoglimento del ricorso, determina il valore venale in comune commercio dei fondi della ricorrente in complessivi euro 250.000,00 conferma l'avviso impugnato nella parte riferita alle sanzioni. Compensa tra le parti le spese di lite (articolo ItaliaOggi Sette del 16.10.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARICase, fideiussioni per gli acconti. O preliminare di compravendita nullo.
Il contratto preliminare per l'acquisto di immobili è nullo se il venditore non stipula una fideiussione a garanzia dell'acconto.

Lo ha affermato il TRIBUNALE di Parma, sentenza 18.07.2017 n. 1116, dichiarando la nullità di un contratto preliminare stipulato da due ragazzi in previsione delle nozze, avente ad oggetto un immobile da costruire nella provincia di Parma e condannato il costruttore alla restituzione in favore di ciascuno dei promissari della somma da loro versata a titolo d'acconto, ossia 65.731,50 euro.
Il giudice ha ritenuto il preliminare nullo a causa dell'inosservanza da parte della società promittente dell'art. 2, comma 1, dlgs 20.06.2005 n. 122, ai sensi del quale «All'atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall'acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all'acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall'articolo 1938 del codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall'acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento».
Il venditore non aveva concesso una fideiussione di importo pari alla somma versata a titolo di acconto a quella che i due ragazzi avrebbero dovuto corrispondere a saldo. Sulla base di tali circostanze il tribunale ha, poi, ritenuto irrilevante il fatto che i due ragazzi si siano resi inadempienti alla stipula del definitivo.
Secondo l'avvocato Giovanni Franchi di Parma, il legale dei due promissari, si tratta di una sentenza «che potrà essere utilizzata da tutti coloro che, in occasione della stipula di un contratto preliminare per l'acquisto di un'abitazione, non ricevono dal venditore una fideiussione a garanzia della restituzione dell'acconto versato» (articolo ItaliaOggi del 12.10.2017).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAVariante urbanistica: sì al danno per la mancata tempestiva approvazione.
Nell’ambito del variegato panorama delle decisioni amministrative aventi ad oggetto la tutela risarcitoria del privato leso da atti e comportamenti della P.a., riconosciuti illegittimi dal Giudice Amministrativo, si inserisce una recente sentenza del TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.07.2017 n. 1223, la quale merita di essere segnalata per l’applicazione del giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita in materia edilizia ed, in particolare, in tema di varianti urbanistiche.
Nello specifico, si discute del diniego di variante urbanistica per un insediamento produttivo (ex art. 5, D.P.R.. 447/1998, oggi, art. 8, D.P.R. 160/2010) determinato da sopravvenuta incompatibile normativa e del conseguente danno subito dal privato a causa del ritardo nella definizione del procedimento urbanistico.
Limitando l’analisi della sentenza al solo an del risarcimento (il quantum, o meglio i criteri indicati dal TAR per definire il quantum, meriterebbe una apposita trattazione), il Giudice Amministrativo, dopo aver ricostruito i fatto l’imputabilità del ritardo ai comportamenti illegittimi dalla P.a., ha statuito che “
può ritenersi, in base ad un giudizio prognostico di tipo probabilistico, che il bene della vita auspicato dai ricorrenti, ossia il rilascio dell’autorizzazione richiesta, sarebbe stato da questi conseguito se il procedimento fosse stato condotto con modalità ordinarie e si fosse concluso in un termine ragionevole, e può dunque inferirsi che sia stata la condotta complessivamente tenuta dalla P.A. a precludere (definitivamente) il conseguimento del risultato utile perseguito e a determinare i danni lamentati, qualificandosi come antecedente causale necessario.
Ciò rende conto, ad avviso del Collegio, della ricorrenza dell’elemento oggettivo della pretesa risarcitoria azionata col presente gravame in quanto, come detto, è ragionevole ritenere, come più sopra spiegato, che, ove non fosse intervenuto il ritardo nell’azione amministrativa, gli aventi diritto avrebbero conseguito l’autorizzazione richiesta
.”.
Ora,
tale sillogismo, che esatto nei procedimenti ad esito vincolato (es. permesso di costruire) o il cui esito è determinato da parametri vincolanti (es. gare pubbliche), non si ritiene possa trovare ingresso nell’ambito urbanistico, ivi incluso nel procedimento di variante semplificata per gli insediamenti produttivi.
Il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse, cioè all’esistenza di un legittimo affidamento alla conclusione positiva del procedimento.
La Giurisprudenza ha da tempo evidenziato che
l’art. 5, D.P.R. 20.10.1998, n. 447 prevede una procedura semplificata per la variazione di strumenti urbanistici preordinati all’autorizzazione di insediamenti produttivi contrastanti con il vigente strumento urbanistico che si conclude con una Conferenza di servizi la cui determinazione costituisce proposta di variante urbanistica sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate, il Consiglio comunale si pronuncia entro sessanta giorni. La proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla Conferenza di servizi, da considerare alla stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio comunale, che conserva le proprie attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi (cfr. ex multis Cons. di Stato, IV Sez. n. 4151 del 2013).
La determinazione della conferenza dei servizi, nell’ambito del particolare procedimento di cui al ricordato articolo 5, del D.P.R. 447 del 1998, rappresenta un peculiare atto di impulso (proposta) dell’autonomo procedimento (di natura esclusivamente urbanistica) volto alla variazione del vigente piano regolatore, rientrante nelle normali ed esclusive attribuzioni dell’ente locale.
In altri termini, diversamente da come sembra sostenere il TAR Campano,
il ricorso alla procedura semplificata in questione –pur ovviamente ispirata nel disegno legislativo a facilitare ed accelerare la realizzazione di iniziative produttive- non comporta l’abdicazione da parte del Consiglio comunale alla sua fisiologica capacità pianificatoria (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 01.03.2017, n. 940).
In conseguenza,
non è possibile ritenere che la conclusione positiva della conferenza di servizi possa far ritenere l’approvazione della variante pressoché obbligatoria, restando al contrario integra per l’organo consiliare la possibilità di discostarsi motivatamente dalla determinazione finale assunta dalla conferenza di servizi (TAR Puglia Lecce, Sezione I, 29.06.2011, n. 1217).
Al consiglio Comunale, che conserva le sue normali attribuzioni, compete infatti una valutazione ulteriore –nonché autonoma e largamente discrezionale– necessaria a giustificare sul piano urbanistico la deroga, per il caso singolo, alle regole poste dallo strumento vigente (TAR Lombardia-Milano, sez. II, 11.11.2010, n. 7244; TAR Puglia Bari, sez. III, 03.09.2008, n. 2015).
In altre parole “
la proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla Conferenza dei servizi non è vincolante per il consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno a tale proposta” (Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2007, n. 3772; TAR Abruzzo-Pescara, sez. I, 07.11.2007, n. 875; Cons. Stato, sez. IV, 03.09.2008, n. 4110; Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2006, n. 2170), “anche con una eventuale determinazione negativa adeguatamente motivata” (Cons. Stato, sez. VI, 25.06.2007, n. 3593).
Ora, riportando tali principi alla fattispecie in esame e ricordando che l’entrata in vigore dell’art. 2-bis, L. 07.08.1990, n. 241 non ha elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il procedimento stesso è finalizzato (come peraltro riconosciuto dallo stessa TAR; cfr. Consiglio di Stato, IV, 02/11/2016, n. 4580; TAR Lazio, Latina, I, 26/09/2016, n. 579; TAR Trentino-Alto Adige, Trento, I, 06/09/2016, n. 327),
è da escludere possa trovare accoglimento una domanda risarcitoria incentrata su una presunta aspettativa in diritto alla approvazione della variante da parte del Consiglio Comunale, aspettativa che, va ribadito, a prescindere dalla legittimità degli atti, è e resta aspettativa di fatto non tutelabile e non risarcibile.
Se infatti da una parte è comprensibile che i privati abbiano “sperato” nell’approvazione della variante, ciò non di meno non è possibile affermare che tale attuazione fosse “dovuta”, “certa” o “doverosa”.
In conclusione, salvo taluni casi in cui sarebbe possibile scorgere un affidamento qualificato, e ciò, in sostanza, nell’ipotesi in cui la pubblica Amministrazione abbia adottato atti o posto in essere comportamenti suscettibili di generare nel privato un’aspettativa, o meglio una “fiducia” qualificata, nella conseguente attività provvedimentale (es. reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio dopo aver approvato un variante per rendere edificabile la zona con vincolo scaduto),
in ambito urbanistico, si ritiene che non sia possibile individuare un criterio generale ed astratto che consenta di prognosticare l’esito del procedimento di pianificazione, poiché la discrezionalità urbanistica impinge in valutazioni ed interessi differenti ed ulteriori rispetto agli esiti procedimentali ed alle risultanze istruttorie, legati, spesso, alle “idee” di sviluppo e gestione del territorio del governo del momento.
La mancanza di tale certezza (o meglio di tale aspettativa qualificata), rende non risarcibile il danno derivante dalla ritardata approvazione delle varianti urbanistiche (12.10.2017 - commento tratto da e link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONEDeve affermarsi il difetto di giurisdizione di questo Tribunale a conoscere di tutte le censure riguardanti la misura dell’indennità di reiterazione del vincolo espropriativo, nonché la misura dell’indennità provvisoria di esproprio, trattandosi di doglianze di ordine patrimoniale, la cui cognizione è devoluta al giudice ordinario.
Invero, le doglianze proposte attengano alla determinazione del quantum, rispettivamente, dell’indennità prevista dall’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001 per la reiterazione del vincolo espropriativo e dell’indennità provvisoria di esproprio. Si tratta, quindi, di doglianze a contenuto patrimoniale circa la misura delle suddette indennità, la cui cognizione è attribuita al giudice ordinario dal comma 3 del medesimo art. 39 per la prima delle indennità sopra elencate e dall’art. 53 del d.P.R. n. 327 cit., nonché dall’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. per l’indennità di esproprio.
Ed invero, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 7 del 24.05.2007, il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio (introdotto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999) non ha rilevanza per la verifica della legittimità dei provvedimenti di primo grado, che hanno disposto l’approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione del vincolo: i profili attinenti alla spettanza o meno dell’indennizzo e al suo pagamento non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione, devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Dal canto loro, le questioni attinenti alla determinazione ed alla corresponsione dell’indennità di espropriazione in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa, esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo espressamente attribuite al giudice ordinario in base al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a..
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Non innovando rispetto al passato, anche l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano urbanistico generale.
L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che la medesima funzione urbanistica possa essere svolta anche dall’approvazione del progetto preliminare o definitivo, che, una volta deliberata dal Consiglio Comunale, costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico. A ciò consegue che il vincolo preordinato all’esproprio è parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con lo strumento di pianificazione territoriale.
Quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19, comma 2, cit., l’adozione della variante allo strumento urbanistico può ben discendere dall’approvazione del progetto preliminare ad opera del Consiglio Comunale.
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Secondo la giurisprudenza, all’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa fino al reperimento degli specifici fondi.
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La fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare, inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione implicita di pubblica utilità.
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Il Collegio ritiene in via preliminare di dover precisare l’ambito della propria indagine, sgombrando il campo da taluni equivoci insiti nella ricostruzione dei fatti e nella prospettazione delle doglianze offerte dalla parte ricorrente.
In primo luogo, deve affermarsi –in accoglimento dell’apposita eccezione della difesa comunale– il difetto di giurisdizione di questo Tribunale a conoscere di tutte le censure riguardanti la misura dell’indennità di reiterazione del vincolo espropriativo, nonché la misura dell’indennità provvisoria di esproprio, trattandosi di doglianze di ordine patrimoniale, la cui cognizione è devoluta al giudice ordinario.
In particolare, per quanto concerne l’indennità per la reiterazione del vincolo espropriativo, la sig.ra Pa. contesta:
   a) nel ricorso originario, la misura simbolica di tale indennità, prevista nell’impugnata deliberazione consiliare n. 68/2000 nella misura di £. 15.000.000 (terzo motivo);
   b) nei primi motivi aggiunti, la riproposizione, da parte della P.A., a titolo di indennità, della stessa somma già offerta con la citata deliberazione n. 68/2000 (€ 8.000,00), senza alcuna considerazione del tempo trascorso (terzo motivo). La ricorrente reitera, altresì, la doglianza formulata con il terzo motivo del ricorso originario;
   c) nei secondi motivi aggiunti, la mancata previsione, negli atti ivi impugnati, compreso il decreto di esproprio, di una qualunque somma a titolo di indennità per la reiterazione del vincolo (secondo motivo aggiunto). La ricorrente reitera, altresì, le censure proposte con il terzo motivo del ricorso originario e del primo ricorso per motivi aggiunti.
Con riguardo, invece, all’indennità provvisoria di esproprio, la ricorrente lamenta, nel terzo motivo del primo ricorso e del secondo ricorso per motivi aggiunti, che per la determinazione della stessa la P.A. abbia considerato l’area di sua proprietà come avente destinazione agricola.
Lamenta, inoltre, che detta indennità sia stata calcolata sulla base della superficie catastale dell’area in esame, mentre l’espropriazione avrebbe riguardato la superficie effettiva di siffatta area, che sarebbe maggiore, per mq. 178, di quella catastale (sesto motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti).
Orbene, non è chi non veda come tutte le doglianze ora riportate attengano alla determinazione del quantum, rispettivamente, dell’indennità prevista dall’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001 per la reiterazione del vincolo espropriativo e dell’indennità provvisoria di esproprio. Si tratta, quindi, di doglianze a contenuto patrimoniale circa la misura delle suddette indennità, la cui cognizione è attribuita al giudice ordinario dal comma 3 del medesimo art. 39 per la prima delle indennità sopra elencate (cfr. C.d.S., Sez. IV, 06.05.2010, n. 2627; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 20.12.2013, n. 3100) e dall’art. 53 del d.P.R. n. 327 cit., nonché dall’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. per l’indennità di esproprio (cfr. C.d.S., Sez. IV, 14.03.2016, n. 987).
Ed invero, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 7 del 24.05.2007, il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio (introdotto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999) non ha rilevanza per la verifica della legittimità dei provvedimenti di primo grado, che hanno disposto l’approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione del vincolo: i profili attinenti alla spettanza o meno dell’indennizzo e al suo pagamento non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione, devolute alla cognizione della giurisdizione civile (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, n. 2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n. 1214; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 02.03.2015, n. 595; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 09.10.2007, n. 1631).
Dal canto loro, le questioni attinenti alla determinazione ed alla corresponsione dell’indennità di espropriazione in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa, esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo espressamente attribuite al giudice ordinario in base al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. (cfr., tra le ultime, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 04.11.2016, n. 5069).
Da quanto detto discende, in definitiva, che va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo giudice amministrativo a conoscere delle censure poc’anzi elencate, contenute nel terzo motivo del ricorso originario, nel terzo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti, nonché nel secondo, terzo e sesto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti.
Sempre in via preliminare, va, poi, rimosso l’equivoco in cui è incorsa la ricorrente con l’assumere che la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68 del 29.12.2000 –impugnata con il ricorso originario– recasse la dichiarazione di p.u. dell’opera per cui è causa (completamento degli impianti sportivi comunali), sebbene in tale sede fosse stato approvato il progetto preliminare dell’opera e non già quello definitivo.
Tale assunto è sviluppato nei dettagli dalla ricorrente nel quarto motivo del primo ricorso per motivi aggiunti e nel quinto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti, con i quali, rispettivamente, si deducono:
   a) l’illegittimità della deliberazione n. 32/2006, poiché la stessa recherebbe una proroga oltre i limiti di legge della dichiarazione di p.u., che –nella prospettiva della sig.ra Pa.– sarebbe già stata emessa con la deliberazione n. 68/2000;
   b) la tardività del decreto di esproprio rispetto alla medesima deliberazione n. 68/2000, in base all’argomentazione per cui quest’ultima, contenendo l’adozione di una variante parziale al P.R.G., non potrebbe che configurarsi quale dichiarazione di p.u. dell’opera.
Il suddetto assunto è, peraltro, sotteso anche ad altre censure della ricorrente, ed in specie alle censure che non tengono conto della natura di semplice progetto preliminare del progetto approvato con la deliberazione n. 68 cit..
Ad avviso del Collegio, l’assunto in questione è del tutto privo di fondamento.
In particolare, la circostanza che la deliberazione n. 68/2000 cit. recasse l’adozione di una variante urbanistica non significa per nulla –come pretende la ricorrente– che la stessa contenesse, altresì, la dichiarazione di p.u. dell’opera, né tantomeno significa che il progetto ivi approvato avesse solo la denominazione –ma non il contenuto– di un progetto preliminare, come parimenti adombra la ricorrente.
Al riguardo si osserva che, non innovando rispetto al passato, anche l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano urbanistico generale. L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che la medesima funzione urbanistica possa essere svolta anche dall’approvazione del progetto preliminare o definitivo, che, una volta deliberata dal Consiglio Comunale, costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico. A ciò consegue che il vincolo preordinato all’esproprio è parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con lo strumento di pianificazione territoriale (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 10.03.2015, n. 816).
Anzitutto, quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19, comma 2, cit., l’adozione della variante allo strumento urbanistico può ben discendere dall’approvazione del progetto preliminare ad opera del Consiglio Comunale (e nello stesso senso deponeva pure l’art. 1, quinto comma, della l. n. 1/1978, non a caso richiamato nella proposta di deliberazione approvata con la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68/2000).
In secondo luogo, l’approvazione del progetto definitivo dell’opera de qua è testualmente avvenuta con la deliberazione della Giunta Comunale n. 32/2006, impugnata con il primo gruppo di motivi aggiunti, la quale, nel dispositivo, dà atto che l’approvazione del progetto definitivo stesso, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 327/2001, equivale a dichiarazione di p.u. dell’opera.
In terzo luogo, i documenti allegati alla deliberazione n. 68/2000, depositati dalla difesa comunale il 26.03.2001 (docc. 2 e 3: relazione tecnica e quadro economico di spesa), confermano che quello approvato con la deliberazione n. 68 cit. era solo il progetto preliminare dell’opera pubblica.
In altre parole, da tutti i documenti in atti si evince che la qualificazione formale del progetto approvato con la deliberazione de qua è quella di “progetto preliminare”; peraltro, anche sul piano dei contenuti è solo con la deliberazione n. 32/2006 che è stato approvato un progetto avente le caratteristiche del progetto definitivo, recando esso in allegato, tra l’altro, il piano particellare d’esproprio (cfr. TAR Lazio, Latina, 04.03.2004, n. 92).
Del resto, in nessuna parte della deliberazione n. 68 cit. si rinviene la dichiarazione di p.u.: donde, in ultima analisi, l’infondatezza delle argomentazioni della ricorrente.
Da quanto appena esposto discende:
   - l’infondatezza del quarto motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, in quanto la deliberazione n. 32/2006 reca per la prima volta la dichiarazione di p.u. dell’opera, e non la proroga di una pregressa dichiarazione che sarebbe stata contenuta nella deliberazione n. 68/2000;
   - l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, attesa la tempestività del decreto di esproprio, emesso il 28.06.2006, quindi entro il termine di cinque anni dall’acquisto di efficacia della dichiarazione di p.u. dell’opera ex art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 327/2001, tenuto conto che, come appena visto, la citata dichiarazione di p.u. è intervenuta con la deliberazione della Giunta Comunale n. 32 del 19.01.2006;
   - l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario, poiché, secondo la giurisprudenza (TAR Puglia, Bari, Sez. II, 16.06.2005, n. 2919), all’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa fino al reperimento degli specifici fondi;
   - l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario, giacché la fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare, inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione implicita di pubblica utilità (C.d.S., Sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; id., 14.12.2002, n. 6917; TAR Calabria, Reggio Calabria, 03.10.2005, n. 1745) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria, lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura.
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che, proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata, pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale copertura finanziaria del progetto approvato.
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la relativa attestazione non costituiscono requisito di validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone, semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri finanziari da esso rivenienti.
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Infine, va sgombrato il campo dall’ulteriore equivoco, per cui l’asserita assenza e/o insufficienza della copertura finanziaria per il progetto in esame avrebbero inciso sulla legittimità e, quindi, sulla validità dei provvedimenti di approvazione del progetto stesso.
Il punto richiede una precisazione.
Ad avviso del Collegio, la ricorrente è legittimata a sollevare la questione ora riportata, nella misura in cui lamenta come l’asserita carenza di mezzi finanziari precluderebbe al Comune di versarle le somme che le spettano a titolo indennitario; tuttavia, va escluso che la presenza di adeguati mezzi finanziari costituisca requisito di legittimità degli atti impugnati ed in specie delle deliberazioni nn. 68/2000 e 32/2006, nonché della determinazione n. 29/2006.
Ed invero, il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria, lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 25.05.2005, n. 2718; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 06.05.2015, n. 2503; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 02.12.2014, n. 3029).
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che, proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata, pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale copertura finanziaria del progetto approvato (C.d.S., Sez. IV, 29.08.2013, n. 4315).
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la relativa attestazione non costituiscono requisito di validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone, semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri finanziari da esso rivenienti (cfr. C.d.S., Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; TAR Toscana, Sez. I, 27.01.2017, n. 147).
Ne discende l’infondatezza:
   - del quarto motivo del ricorso introduttivo (di cui già si è sottolineata l’infondatezza sotto distinto e concorrente profilo);
   - dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita carenza di mezzi finanziari non è sufficiente, di per sé, a provare lo sviamento di potere lamentato dalla ricorrente (secondo cui essa indicherebbe che il vero fine avuto di mira dalla P.A. fosse quello di “prenotare” l’area di sua proprietà attraverso il vincolo espropriativo).
In argomento si rammenta che, secondo la giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 08.01.2013, n. 32; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 07.06.2013, n. 524), lo sviamento di potere –consistente nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica– deve essere supportato da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non bastando mere supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dalla P.A.;
   - del primo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti;
   - del secondo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, a mezzo del quale si censura il mancato inserimento dell’opera nell’elenco annuale degli interventi per l’anno 2006, tenuto conto che la deliberazione di approvazione del progetto definitivo (n. 32) è stata assunta dalla Giunta Comunale il 19.01.2006, cosicché a nulla varrebbe che l’opera sia inserita nel programma triennale per il 2005/2007 e nell’elenco annuale degli interventi per il 2005.
Al riguardo, peraltro, si evidenzia che la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 2 del 03.02.2006, di approvazione del bilancio di previsione per il 2006, ha impegnato la spese per la realizzazione dell’opera pubblica, e che l’opera è prevista alle pagg. 29 e 93 della relazione previsionale e programmatica del Comune, anch’essa approvata con la ricordata deliberazione n. 2/2006 (cfr. docc. 5 e 6 depositati dalla difesa comunale il 04.05.2006);
   - del terzo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, nella parte in cui si lamenta con esso non già l’insufficienza dell’indennità per la reiterazione del vincolo (questione che, come detto, è devoluta al G.O.), ma l’illogicità della spesa prevista per la realizzazione dell’opera pubblica;
   - del terzo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, anche qui nella parte in cui si sostiene che l’inadeguatezza della somma offerta a titolo di indennità provvisoria di esproprio –unitamente alla pretesa insufficienza dei mezzi finanziari complessivamente previsti– costituirebbero indizi dello sviamento di potere poc’anzi ricordato (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Niente Tarsu? Non basta l'inutilizzabilità di fatto.
In tema di rifiuti, per essere esclusi dalla tassazione di un immobile per «inutilizzabilità» dello stesso, non è sufficiente la situazione «di fatto» ma soltanto ove questa sia indicata dal contribuente nella denuncia originaria o di variazione.

Lo ha stabilito la Sez. V civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 16.06.2017 n. 15044.
La vertenza trae origine dall'impugnazione degli avvisi di accertamento per Tarsu relativa agli anni ricompresi tra il 2003 e il 2007. Il giudice regionale della Puglia aveva escluso la tassazione dell'immobile posseduto dal contribuente per l'inutilizzabilità dello stesso, malgrado questa inutilizzabilità non fosse mai stata denunciata dal contribuente, che anzi aveva ottenuto per la medesima unità la deduzione Ici «prima casa».
La cassazione ha ribaltato la decisione di giudici regionali e rinviato la causa per un nuovo esame. «In base alla norma generale dell'articolo 62, comma 1, dlgs. n. 507/1993», spiegano gli Ermellini, «La Tarsu è dovuta per il solo fatto della detenzione immobiliare, sicché le deroghe ammesse dall'articolo 62, comma 2, non operano per la mera situazione di fatto, ma soltanto ove questa sia indicata dal contribuente nella denuncia originaria o di variazione (cassazione n. 3772/2013)».
Al di là di ogni disputa interpretativa quindi, l'articolo 62, comma 1, del dlgs. n. 507/1993 non lascia alcun dubbio: la tassa è dovuta in ragione dell'occupazione o del possesso del locale, indipendentemente da quella che in realtà sia la situazione di fatto per il diverso uso che se ne possa fare. Quindi il contribuente che voglia ottenere l'esclusione dal tributo, ne dovrà informare il comune con una variazione adeguata che gli possa consentire l'esonero in presenza di unità immobiliari che non producono rifiuti.
Secondo la Corte di cassazione, infatti, al contribuente non sarà consentito recuperare successivamente alla mancata variazione così come aveva, invece, stabilito il Ministero nella C.M. 22.06.1994, n. 95/E/5/2806, paragrafo III. La parola passa adesso ai giudici di rinvio che dovranno conformarsi con quanto stabilito da Piazza Cavour (articolo ItaliaOggi del 21.10.2017).

APPALTI SERVIZIGare outside alla Corte Ue.
Chiarire i limiti temporali entro i quali una società che gestisce servizi pubblici locali può partecipare a gare per l'affidamento di servizi pubblici anche al di fuori del proprio ambito territoriale.

È uno dei punti che il Consiglio di Stato -Sez. V, ordinanza 29.05.2017 n. 2555- ha posto alla Corte di giustizia con una domanda pregiudiziale (12.06.2017, pubblicata sulla gazzetta europea di ieri) su una vicenda che coinvolge le Autolinee toscane (causa C-351/17) e che ha ad oggetto il regolamento (Ce) n. 1370/2007 e la sua applicazione nel nostro ordinamento.
In particolare i giudici di Palazzo Spada chiedono, in rapporto al divieto per un operatore interno, di partecipare a gare «extra moenia» (di cui alle lettere b e d dell'articolo 5 del regolamento Ce) se esso sia applicabile anche agli affidamenti aggiudicati in epoca precedente all'entrata in vigore del medesimo regolamento.
Un secondo punto posto all'attenzione della Corte europea è se sia astrattamente riconducibile alla qualifica di «operatore interno», ai sensi del medesimo regolamento e in eventuale analogia di ratio con la giurisprudenza formatasi sull'istituto dell'in house providing, una persona giuridica di diritto pubblico titolare di affidamento diretto del servizio di trasporto locale ad opera di una amministrazione statale, laddove la prima sia direttamente collegata alla seconda sotto il profilo organizzativo e di controllo ed il cui capitale sociale sia detenuto dallo Stato medesimo (integralmente o pro quota, in tal caso unitamente ad altri enti pubblici).
Un terzo elemento attiene invece alla possibilità che non sia applicabile il regolamento europeo nel caso in cui, a fronte di un affidamento diretto di servizi ricadenti nell'ambito di disciplina del regolamento (Ce) n. 1370/2007, successivamente all'affidamento, l'amministrazione istituisca un ente pubblico amministrativo dotato di poteri organizzativi sui servizi in questione (rimanendo peraltro in capo allo Stato l'esclusivo potere di disporre del titolo concessorio) che non esercita alcun «controllo analogo» sull'affidatario diretto dei servizi.
Infine il Consiglio di stato chiede alla Corte se l'originaria scadenza di un affidamento diretto oltre il termine trentennale del 03.12.2039 (termine decorrente dalla data di entrata in vigore del regolamento (Ce) 1370/2007) comporti comunque la non conformità dell'affidamento ai principi del regolamento, oppure se l'irregolarità debba considerarsi automaticamente sanata per implicita riduzione al termine trentennale (articolo ItaliaOggi del 04.10.2017).

TRIBUTIDelibere illegittime senza un piano finanziario ad hoc.
Sono illegittime le delibere tariffarie se l'amministrazione comunale non predispone un piano finanziario dettagliato.

In questi termini si è espresso il TAR Lazio-Latina con la sentenza 04.01.2017 n. 1.
Per i giudici amministrativi, il piano finanziario Tari deve contenere tutte le indicazioni previste dalla legge, altrimenti rende illegittima la delibera che fissa le tariffe. Il piano finanziario non può tradursi in una tabella riassuntiva dei costi del servizio, distinti in fissi e variabili. E non è sufficiente che gli elementi richiesti dalla legge siano indicati in una relazione allegata alla delibera comunale.
Nel caso esaminato il piano approvato dall'amministrazione comunale, secondo il Tar, «non è un documento di tipo pianificatorio ma una semplice tabella riassuntiva dei costi del servizio, distinti in costi fissi e costi variabili, e con finale indicazione della incidenza percentuale di questi ultimi sul costo complessivo». Mancano, infatti, nella tabella gli elementi richiesti dall'articolo 8 del dpr 158/1999 per il piano e la relazione. E non sono state rispettate le regole stabilite dal regolamento sul metodo normalizzato. Ancorché possano essere sintetici gli atti suddetti, devono tuttavia contenere i requisiti essenziali.
Dunque, il comune non può invocare la circostanza che essi sono rinvenibili in una relazione che «non fa parte del piano approvato, come del resto si ammette in memoria, e costituisce quindi un semplice atto istruttorio». In particolare, il citato articolo 8 prescrive che il piano finanziario deve comprendere il programma degli interventi necessari; il piano finanziario degli investimenti e la specifica dei beni, delle strutture e dei servizi disponibili.
Inoltre, occorre specificare se si fa ricorso all'utilizzo di beni e strutture di terzi o si affida il servizio a terzi. Al piano, poi, va allegata una relazione dalla quale deve emergere il modello gestionale ed organizzativo, i livelli di qualità del servizio ai quali deve essere commisurata la tariffa e l'elencazione degli impianti esistenti per l'anno precedente. Infine, devono essere posti in evidenza gli scostamenti che si siano eventualmente verificati e le relative motivazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).

AGGIORNAMENTO AL 10.10.2017

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Commissariato il PARCO ADDA NORD!!

ENTI LOCALI: Parco Adda Nord: Giovanni Bolis nominato commissario regionale.
"Giovanni Bolis è il Commissario regionale del Parco Adda Nord". Lo fa sapere l'assessore all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile della Lombardia, annunciando il provvedimento, approvato dalla Giunta (deliberazione G.R. 09.10.2017 n. 7188), che stabilisce anche la decadenza dall'incarico dell'attuale presidente e lo scioglimento del Consiglio di Gestione dell'Ente Parco Adda Nord.
LE MOTIVAZIONI - "Un provvedimento doveroso -sottolinea l'assessore regionale- che ho dovuto prendere a seguito dei risultati della verifica ispettiva, avviata grazie a una serie di segnalazioni che ho ricevuto, dalla quale sono emerse gravi irregolarità, trasmesse anche alle autorità competenti: Procura della Repubblica, Corte dei Conti, Autorità nazionale anticorruzione e Inps".
L'ISPEZIONE - In seguito a segnalazioni da parte di alcuni componenti del comitato di gestione del Parco, pervenute agli uffici dell'assessore all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile in merito a presunti comportamenti di dubbia legittimità nell'ambito dell'attività dell'ente Parco Adda Nord, la direzione di funzione specialistica sistema dei controlli della presidenza regionale, in collaborazione con la Direzione generale Ambiente, ha avviato una verifica ispettiva sull'Ente. L'attività di ispezione si è svolta anche in contraddittorio con l'ente gestore del Parco, e ha abbracciato un lasso di tempo che va dal mese di ottobre 2016 al 21.06.2017. Ha partecipato all'attività di verifica ispettiva anche l'Arac, l'Agenzia regionale anticorruzione.
IRREGOLARITÀ ACCERTATE - Gli accertamenti svolti hanno rilevato molteplici irregolarità, sia amministrative, sia contabili riconducibili all'attività dell'Ente negli ultimi anni. In particolare, le violazioni riscontrate si riferiscono, soprattutto, alla violazione delle procedure di acquisizione del personale, all'affidamento di incarichi e di aggiudicazione di appalti di servizi e forniture; alla carente motivazione nei provvedimenti amministrativi e all'omessa redazione dei contratti in forma scritta.
IL COMMISSARIO - Giovanni Bolis eserciterà i compiti e le funzioni del presidente e del Consiglio di Gestione per porre in essere tutte le misure utili anche di natura organizzativa per la regolarizzazione e il miglioramento delle attività del Parco, tenendo conto delle indicazioni contenute nella relazione conclusiva della verifica ispettiva. La durata della nomina è di 12 mesi e l'indennità è pari a 1.500 euro lordi, mensili, con oneri a carico del parco Adda Nord. "Non posso tollerare -conclude l'assessore regionale- che accadano episodi simili. Come amministratori seri abbiamo il dovere di vigilare e in questo caso non potevamo soprassedere. La situazione era oramai compromessa e occorreva un deciso cambio di rotta" (09.10.2017 - tratto da e link a www.regione.lombardia.it).

 
 

Sulla rettifica (in più) della misura del contributo di costruzione erroneamente quantificato tempo addietro, quale attività -purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo legittima ma anzi doverosa per la Pubblica Amministrazione.
In primis il TAR dà ragione al cittadino ricorrente...

EDILIZIA PRIVATA: E’ evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale di addossare al titolare di un permesso edilizio, rilasciato oltre cinque anni prima, l’ulteriore carico finanziario derivante (a ben vedere) dal meccanismo di aggiornamento del contributo di costruzione.
Nella fattispecie, effettivamente, il provvedimento comunale impugnato -recante in oggetto “Recupero delle somme non versate a titolo di contributo di costruzione relativamente al permesso di costruire n. 09 del 16.04.2009 P.E. 65/2007”- accolla ex post alla ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato oltre cinque anni prima, ulteriori oneri concessori.
Il Tribunale ritiene di escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere meri errori di determinazione o calcolo compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire.
A ben vedere, l’attività comunale appare -invece- orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori (e, in particolare, della componente costituita dal costo di costruzione).
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che i provvedimenti comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori (sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla voce inerente al costo di costruzione) possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo (avente carattere regolamentare), e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Questo Tribunale ritiene, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri concessori debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo.

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Né può condividersi la tesi del Comune resistente secondo cui, nel particolare caso di specie, si tratterebbe della rettifica di un mero errore di calcolo nella determinazione del quantum della voce relativa al costo di costruzione compiuto dagli Uffici comunali al momento della liquidazione, in quanto non corrispondente alle determinazioni regionali direttamente vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009.
E’ agevole, infatti, rilevare in proposito che le previsioni normative vigenti in “subiecta materia” (art. 16, sesto e nono comma, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 2, secondo comma, della Legge Regionale Pugliese 01.02.2007 n. 1, statuente che: “I Comuni hanno facoltà di applicare al costo base per l’edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i criteri per il calcolo del contributo relativo al costo di costruzione di cui all’Allegato A della presente legge, motivando adeguatamente le eventuali riduzioni o incrementi sia in relazione alle situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai costi di costruzione effettivamente praticati in loco”) contemplano espressamente ed inequivocabilmente il necessario esercizio di un potere regolamentare/tariffario da parte dell’Ente Comune (in ordine alla quantificazione della misura dei contributi concessori, vuoi per la componente relativa agli oneri di urbanizzazione, vuoi per la componente inerente il costo di costruzione), che -con ogni evidenza- non può avere effetto retroattivo ed impedisce (prima della sua concreta esplicazione) la diretta applicabilità delle determinazioni regionali modificative degli importi del costo di costruzione dovuto per le nuove edificazioni.
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... per l'annullamento della nota prot. n. 7259 del 23.09.2014 a firma del Responsabile del Settore Servizi Tecnici, notificata in data 01.10.2014, con la quale il Comune di Arnesano, in rettifica dell’ammontare del contributo correlato al costo costruzione a suo tempo richiesto per il rilascio del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009, ha intimato alla Società ricorrente il pagamento della somma di € 9.948,60;
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La Società ricorrente impugna la nota prot. n. 7259 del 23.09.2014 a firma del Responsabile del Settore Servizi Tecnici, notificata in data 01.10.2014, con la quale il Comune di Arnesano, in rettifica dell’ammontare del contributo correlato al costo costruzione a suo tempo richiesto per il rilascio del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009 (impianto carburanti), le ha intimato il pagamento (entro il termine di sessanta giorni) della somma di € 9.948,60, nonché ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale tra cui in particolare la nota del Responsabile del Settore Servizi Tecnici prot. n. 5428 dell’08.07.2014.
Chiede, altresì, l’accertamento e la declaratoria dell’inesistenza del credito vantato dal Comune di Arnesano a mezzo degli atti sopra indicati.
...
Il ricorso è fondato nel merito e va accolto.
Con la presente impugnativa la Società ricorrente assume (essenzialmente) che il Comune di Arnesano abbia (illegittimamente) rideterminato retroattivamente l’importo del contributo correlato al costo di costruzione, a distanza di oltre cinque anni dal rilascio del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009, ultimata l’opera edilizia e saldati il pagamento degli oneri richiesti.
La doglianza merita di essere condivisa.
Osserva il Collegio che, effettivamente, il provvedimento comunale impugnato -recante in oggetto “Recupero delle somme non versate a titolo di contributo di costruzione relativamente al permesso di costruire n. 09 del 16.04.2009 P.E. 65/2007”- accolla ex post alla ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato oltre cinque anni prima, ulteriori oneri concessori.
Il Tribunale, in seguito alla lettura del provvedimento contestato, ritiene di escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere meri errori di determinazione o calcolo compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire.
A ben vedere, l’attività comunale appare -invece- orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori (e, in particolare, della componente costituita dal costo di costruzione).
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT” (cfr. art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (Cfr. “ex multis”: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che i provvedimenti comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori (sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla voce inerente al costo di costruzione) possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo (avente carattere regolamentare), e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Questo Tribunale ritiene, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri concessori debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo (Cfr. “ex multis”: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
E’, pertanto, evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione Comunale di Arnesano di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato oltre cinque anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante (a ben vedere) dal meccanismo di aggiornamento.
Né può condividersi la tesi del Comune resistente secondo cui, nel particolare caso di specie, si tratterebbe della rettifica di un mero errore di calcolo nella determinazione del quantum della voce relativa al costo di costruzione compiuto dagli Uffici comunali al momento della liquidazione, in quanto non corrispondente alle determinazioni regionali direttamente vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire n. 9 del 16.04.2009.
E’ agevole, infatti, rilevare in proposito che le previsioni normative vigenti in “subiecta materia” (art. 16, sesto e nono comma, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 2, secondo comma, della Legge Regionale Pugliese 01.02.2007 n. 1, statuente che: “I Comuni hanno facoltà di applicare al costo base per l’edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i criteri per il calcolo del contributo relativo al costo di costruzione di cui all’Allegato A della presente legge, motivando adeguatamente le eventuali riduzioni o incrementi sia in relazione alle situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai costi di costruzione effettivamente praticati in loco”) contemplano espressamente ed inequivocabilmente il necessario esercizio di un potere regolamentare/tariffario da parte dell’Ente Comune (in ordine alla quantificazione della misura dei contributi concessori, vuoi per la componente relativa agli oneri di urbanizzazione, vuoi per la componente inerente il costo di costruzione), che -con ogni evidenza- non può avere effetto retroattivo ed impedisce (prima della sua concreta esplicazione) la diretta applicabilità delle determinazioni regionali modificative degli importi del costo di costruzione dovuto per le nuove edificazioni.
In conclusione, per le ragioni esposte, vista l’illegittimità del provvedimento impugnato, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 01.03.2016 n. 404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

...ma l'adito Consiglio di Stato, censurando il TAR, dà ragione al comune:

EDILIZIA PRIVATA: Sulla rettifica (in più) della misura del contributo di costruzione erroneamente quantificato, quale attività –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo legittima ma anzi doverosa per la Pubblica Amministrazione.
Sul piano normativo, occorre ricordare che le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione.
Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa, ha già avuto modo di affrontare la questione della rideterminazione degli oneri concessori da parte dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
   a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più risalente determinazione degli oneri adottata dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri concessori da parte dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
   b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa”;
   c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito). La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
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Nel caso di specie, il Comune, rilevato di aver provveduto a calcolare l’importo dovuto quale contributo per il costo di costruzione per il permesso di costruire “senza tener conto della normativa regionale in vigore al momento del rilascio del titolo abilitativo” ha provveduto a rideterminare l’importo dovuto, facendo applicazione della normativa innanzi citata.
Sicché, nella fattispecie non vi è stata alcuna attività di adeguamento/integrazione del contributo in momento successivo al rilascio del titolo (il che integrerebbe, ove fosse, una violazione dell’art. 16 DPR n. 380/2001), ma solo una rettifica della misura del contributo, riportandolo a quanto effettivamente dovuto sulla base di già adottate e vigenti disposizioni regionali.
E tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica Amministrazione.
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... per la riforma della sentenza 01.03.2016 n. 404 del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZ. III, resa tra le parti, concernente rettifica ammontare del contributo a titolo di costo di costruzione per il rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, il Comune di Arnesano impugna la sentenza 01.03.2016 n. 404, con la quale il TAR per la Puglia, Sez. III della sede di Lecce ha accolto il ricorso proposto dalla società Me. s.r.l. ed ha annullato la nota del Responsabile Settore servizi tecnici 23.02.2014 n. 7259, recante la rettifica dell’ammontare del contributo correlato al costo di costruzione a suo tempo richiesto per il rilascio del permesso di costruire n. 9/2009 e la conseguente intimazione a pagare la ulteriore somma di Euro 9948,60.
La sentenza impugnata –rilevato che la società ricorrente assume (essenzialmente) che il Comune di Arnesano abbia (illegittimamente) rideterminato retroattivamente l’importo del contributo correlato al costo di costruzione, a distanza di oltre cinque anni dal rilascio del permesso di costruire– afferma, in particolare:
   - escluso che “si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere meri errori di determinazione o calcolo compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire ... l’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori (e, in particolare, della componente costituita dal costo di costruzione”;
   - “i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del titolo edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione dell’entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio”;
   - “i provvedimenti comunali che dispongono l’adeguamento degli oneri concessori (sia con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, sia in relazione alla voce inerente al costo di costruzione) possono trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo (avente carattere regolamentare), e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore”;
   - ne consegue che è “illegittima la pretesa dell’amministrazione comunale di Arnesano di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato oltre cinque anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante ... dal meccanismo di aggiornamento”.
...
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, nei limiti di cui in motivazione, con conseguente parziale riforma della sentenza impugnata.
2.1. L’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Quanto a quest’ultimo, il comma 9 prevede: “Il costo di costruzione per i nuovi edifici è determinato periodicamente dalle regioni con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata, definiti dalle stesse regioni a norma della lettera g) del primo comma dell'articolo 4 della legge 05.08.1978, n. 457. Con lo stesso provvedimento le regioni identificano classi di edifici con caratteristiche superiori a quelle considerate nelle vigenti disposizioni di legge per l'edilizia agevolata, per le quali sono determinate maggiorazioni del detto costo di costruzione in misura non superiore al 50 per cento. Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Il contributo afferente al permesso di costruire comprende una quota di detto costo, variabile dal 5 per cento al 20 per cento, che viene determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione”.
A fronte di ciò, l’art. 2 l.reg. Puglia 01.02. 2007 n. 1, prevede: “
1. Il costo di costruzione per la nuova edificazione viene confermato, fino a nuovo aggiornamento, in misura pari al costo base di nuova costruzione stabilito, con riferimento ai limiti massimi ammissibili per l'edilizia residenziale agevolata, a norma della lettera g) del primo comma dell'articolo 4 della legge 05.08.1978, n. 457 (Norme per l'edilizia residenziale), con Delib. G.R. 04.04.2006, n. 449 (Aggiornamento dei limiti massimi di costo per gli interventi di Edilizia residenziale sovvenzionata e di Edilizia residenziale agevolata), ossia pari a euro 594,00/mq.
2. I comuni hanno facoltà di applicare al costo base per l'edilizia agevolata, come determinato al comma 1, i "Criteri per il calcolo del contributo relativo al costo di costruzione" di cui all'allegato A della presente legge, motivando adeguatamente le eventuali riduzioni o incrementi sia in relazione alle situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai costi di costruzione effettivamente praticati in loco.
3. In assenza di apposite deliberazioni della Giunta regionale che provvedano ad adeguare il costo di costruzione, il costo medesimo, così come determinato dalla presente legge, è adeguato annualmente dai comuni in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT).
4. Il primo adeguamento annuale si applica ai permessi di costruire e/o alla Denuncia inizio attività (DIA) la cui domanda sia pervenuta al comune, completa, in data successiva al 31.12.2006; analogamente, per gli anni a seguire, l'adeguamento annuale si applica ai permessi di costruire e/o alla DIA la cui domanda sia pervenuta al Comune, completa, in data successiva al 31 dicembre di ogni anno
”.
Dalle disposizioni innanzi riportate si evince che il potere di determinazione del costo di costruzione per i nuovi edifici è attribuito alle Regioni e che, qualora queste ultime non vi provvedano ovvero nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, “il costo di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT)”.
Nella Regione Puglia, inoltre, al costo di costruzione, ragguagliato a quello previsto per l’edilizia residenziale pubblica, i Comuni “hanno facoltà” di applicare, in aggiunta al costo base determinato dalla Regione, “eventuali riduzioni o incrementi sia in relazione alle situazioni di bilancio comunale sia in relazione ai costi di costruzione effettivamente praticati in loco”.
Ovviamente, qualora i Comuni non esercitino tale “facoltà” (e non obbligo) –in data antecedente a quella del rilascio del titolo edilizio, e senza possibilità di applicazione retroattiva- il contributo dovuto per costo di costruzione resta commisurato a quello definito dalla Regione, eventualmente incrementato, sussistendone i presupposti, mediante applicazione dell’indicato indice ISTAT.
2.2. Tanto precisato sul piano normativo, occorre ricordare che le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. Stato , sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V, 04.05.1992, n. 360).
Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; sez. V, 17.09.2010 n. 6950), ha già avuto modo di affrontare la questione della rideterminazione degli oneri concessori da parte dell’amministrazione, con considerazioni che si intendono ribadire nella presente sede.
Si è, infatti, affermato:
   a) è infondata la tesi secondo la quale “(a pretesa tutela della buona fede e dell'affidamento riposto dal privato nella più risalente determinazione degli oneri adottata dall'amministrazione appellata) sarebbe preclusa la rideterminazione degli oneri concessori da parte dell'amministrazione comunale se non nella ipotesi di meri errori di calcolo ictu oculi percepibili, a tutela dell'affidamento in buona fede riposto dal privato nella quantificazione operata in sede di prima determinazione”;
   b) “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che l'Amministrazione possa apportarvi rettifiche (sia in favore del privato che in senso contrario), purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione del relativo diritto di credito” e ciò in quanto “il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti, nel caso di specie, di una determinazione che "obbedisce" a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, (conseguentemente per la stessa rivestenti natura cogente) laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa”;
   c) “la pariteticità dell'atto e l'assenza di discrezionalità ne legittima o addirittura ne impone la revisione ove affetta da errore, con il solo limite della maturata prescrizione del credito). La originaria determinazione, pertanto, può essere sempre rivisitata, ove la si assuma affetta da errore (e fermo restando la necessità che detta originaria erroneità della determinazione iniziale sussista effettivamente), e ciò sia laddove essa abbia indicato un importo inferiore al dovuto, che laddove abbia quantificato un importo superiore e, pertanto, non dovuto”.
3.1.
Nel caso di specie, il Comune di Arnesano, rilevato di aver provveduto a calcolare l’importo dovuto quale contributo per il costo di costruzione per il permesso di costruire 18.04.2009 n. 9 “senza tener conto della normativa regionale in vigore al momento del rilascio del titolo abilitativo” –e precisamente le delibere di Giunta Regionale n. 449/2006, n. 2268/2008 e n. 766/2010, nonché l’art. 2 l.reg. n. 1/2007– ha provveduto a rideterminare l’importo dovuto, facendo applicazione della normativa innanzi citata (ad eccezione della delibera di Giunta regionale n. 766/2010).
Nel caso di specie, dunque, così come sostenuto dal Comune appellante non vi è stata alcuna attività di adeguamento/integrazione del contributo in momento successivo al rilascio del titolo (il che integrerebbe, ove fosse, una violazione dell’art. 16 DPR n. 380/2001), ma solo una rettifica della misura del contributo, riportandolo a quanto effettivamente dovuto sulla base di già adottate e vigenti disposizioni regionali.
E tale attività, alla luce di quanto innanzi esposto –purché svolta entro il termine di prescrizione decennale- non solo è legittima, ma è, anzi, doverosa per la Pubblica Amministrazione.
Di conseguenza,
non può consentirsi con la sentenza impugnata:
   - né laddove essa afferma che “l’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori (e, in particolare, della componente costituita dal costo di costruzione”,
poiché, come si è detto, trattasi di attività doverosa di rettifica della misura del contributo in base a delibere regionali già in precedenza emanate;
   - né laddove sostiene che “l’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori (e, in particolare, della componente costituita dal costo di costruzione”,
poiché, se l’adozione del nuovo atto da parte del Comune è certamente successivo al rilascio del permesso di costruire, non lo sono, invece, le disposizioni regionali delle quali si fa applicazione in sede di rettifica.
3.2. Tuttavia, proprio alla luce di quanto sin qui esposto,
la rideterminazione del costo di costruzione, operata dal Comune di Arnesano, non può fare applicazione né della delibera di Giunta Regionale n. 755/2010 (richiamata nel preambolo ma poi non citata tra quelle considerate), né della delibera 03.11.2009 n. 2081 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Puglia 17.11.2009 n. 183, che risulta invece considerata), in quanto ambedue successive alla data di rilascio del permesso di costruire n. 9 (16.04.2009).
3.3. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, nei limiti ora precisati, con conseguente parziale riforma della sentenza impugnata e corrispondente accoglimento, in parte, del ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.09.2017 n. 4515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

   E adesso si chiedono lumi (riparatori ... inutilmente) al M.I.T. poiché "a seguito di indagini della Guardia di finanza, nella sola provincia di Lecce, la quasi totalità dei comuni (97 comuni) è incorsa in indagini per danno erariale a carico esclusivamente di circa 200 tecnici comunali per gli anni dal 2008 al 2012, cui è stato imputato di non aver esercitato la propria iniziativa nei confronti degli organi politici degli enti locali per l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione. In sostanza, è stata imputata ai tecnici una responsabilità che invece fa capo alle attribuzioni, in generale, degli organi politici istituzionali dei comuni"...

EDILIZIA PRIVATA: Interrogazione a risposta scritta 4-18002 del 03.10.2017 presentata dall'On. Sergio PIZZOLANTE (link a http://aic.camera.it).
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PIZZOLANTE. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. —
Per sapere –premesso che:
  
il contributo di costruzione costituisce un'obbligazione contributiva; tale obbligazione si compone degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione;
  
l'incidenza degli oneri di urbanizzazione deve essere stabilita dai comuni in base a tabelle parametriche definite da ciascuna regione. Ogni cinque anni i comuni devono provvedere ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione, in conformità alle disposizioni regionali. Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, il costo di costruzione deve essere adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istat;
  
l'ultimo provvedimento in merito della regione Puglia è rappresentato dalla deliberazione della giunta regionale n. 2081 del 2009. In tale regione, malgrado l'elevazione degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione operati dal 2007 in poi, diversi comuni hanno continuato a prescindere da tali determinazioni regionali (auto-operative), continuando ad applicare il precedente inferiore parametro di fonte ministeriale, sostanzialmente per non gravare sullo sviluppo del settore edilizio in chiara funzione anti crisi;
  
tuttavia, i medesimi comuni pugliesi stanno inoltrando in questi anni a cittadini e imprese, richieste di rettifica verso l'alto dell'ammontare del contributo correlato al costo di costruzione, in applicazione tardiva delle norme regionali. Questo ha prodotto un contenzioso giunto sino al Consiglio di Stato (IV sezione, sentenza 15.06.2017 su ricorso n. 07053/2016) che ha ribaltato quanto stabilito dal Tar Puglia, riconoscendo ai comuni il potere-dovere di ricalcolare successivamente e recuperare, nei termini di prescrizione decennale, gli oneri intervenuti medio tempore;
  
a seguito di indagini della Guardia di finanza, nella sola provincia di Lecce la quasi totalità dei comuni (97 comuni) è incorsa in indagini per danno erariale a carico esclusivamente di circa 200 tecnici comunali per gli anni dal 2008 al 2012, cui è stato imputato di non aver esercitato la propria iniziativa nei confronti degli organi politici degli enti locali per l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione. In sostanza, è stata imputata ai tecnici una responsabilità che invece fa capo alle attribuzioni in generale degli organi politici istituzionali dei comuni;
  
il Consiglio regionale della Puglia ha approvato un ordine del giorno riguardante le competenze dei comuni in materia di oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, nel quale si è impegnato il presidente della giunta regionale «ad assumere un'iniziativa affinché si induca il Governo ad affermare con un provvedimento legislativo, anche in via di interpretazione autentica, la discrezionalità dei comuni in materia di adeguamento dei contributi di costruzione e che tale potere discrezionale resti di esclusiva competenza del consigli comunali»;
  
un analogo ordine del giorno (9/3926-A-R/33) è stato pienamente accolto dalla Camera nella seduta del 21.07.2016 (
ndr: si legga a pag. 31). In esso si impegna il Governo «(...) ad emanare disposizioni interpretative dei commi 5, 6, 7 e 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 nelle quali si chiarisca che spetta al consiglio comunale la competenza esclusiva per quel che riguarda l'aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione (...)» e che «(...) qualora il Consiglio, non si pronunci o non ritenga di pronunciarsi, non sono addebitabili responsabilità agli organi gestionali dell'ente»–:
se non ritenga di assumere le iniziative di competenza, in linea con quanto indicato nell'Ordine del giorno 9/3926-A-R/33 citato in premessa, al fine di chiarire la corretta interpretazione delle disposizioni sopra richiamate fissando in capo ai comuni la competenza esclusiva di aggiornamento degli oneri di urbanizzazione ed escludendo qualsiasi responsabilità degli organi tecnici e gestionali.
(4-18002)

...quando già con l'AGGIORNAMENTO AL 26.01.2012 davamo conto (nella fattispecie ivi rappresentata) di come l'annuale adeguamento ISTAT del costo (base) di costruzione fosse "attività vincolata" (e non politicamente discrezionale) sicché di competenza del Dirigente e non dell'Organo politico (Giunta), diversamente da quanto risulta on-line (qua e là) laddove -ancora oggi- alcuni amministratori illegittimamente vogliono "deliberare" a tutti i costi.
   Non solo, davamo anche conto -con l'AGGIORNAMENTO AL 17.01.2017- di come
«Si rischia grosso a "disturbare" la Corte dei Conti con interrogativi impertinenti...».

 
 

Il privato (confinante) non può impugnare la d.i.a. ovvero s.c.i.a. che dir si voglia.

EDILIZIA PRIVATA: E’ inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata.
L’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall'art. 6, co. 1, lett. c), del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione:
   a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata;
   b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a quella dell’atto impugnato;
   c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal citato art. 19, co. 6-ter;
   d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura privatistica della d.i.a.);
   e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado, la signora Ri., oltre a impugnare direttamente la d.i.a., abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a una specifica diffida del confinante, deriva solo la possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in vista della nomina di un commissario che prenda in esame la diffida e provveda su di essa.
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15. Così detto, in parte, del primo motivo dell’appello, appare più liquido -secondo le coordinate interpretative dettate dall’Adunanza plenaria 27.04.2015, n. 5- il secondo motivo di censura incentrato sull’inammissibilità dell’impugnativa diretta della d.i.a. del 2009 da parte della signora Ri..
15.1. Il Tar non ha valutato l’eccezione in quanto ha erroneamente ritenuto che la caducazione dei due permessi di costruire si ripercuotesse inevitabilmente pure sulla d.i.a. In questo non può essere seguito perché, come detto prima, la d.i.a. è l’unico titolo edilizio efficace e oggetto del giudizio.
15.2. Il motivo è fondato.
15.3. L’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall'art. 6, co. 1, lett. c), del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
15.4. Secondo l’orientamento della Sezione (28.04.2017, n. 1967; 09.05.2017, n. 2120; 05.07.2017, n. 3281):
   a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2008, n. 4513; sez. IV, 12.03.2009, n. 1474; sez. IV, 13.05.2010, n. 2919);
   b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a quella dell’atto impugnato;
   c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal citato art. 19, co. 6-ter;
   d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte appellata nella memoria del 28 luglio scorso;
   e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado, la signora Ri., oltre a impugnare direttamente la d.i.a., abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a una specifica diffida del confinante, deriva solo la possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in vista della nomina di un commissario che prenda in esame la diffida e provveda su di essa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.10.2017 n. 4659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di d.i.a e s.c.i.a., non è configurabile sia la formazione di un provvedimento silenzioso ad opera dell’Amministrazione, sia, conseguentemente, l’impugnativa diretta di atti schiettamente privatistici.
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10. Il Comune, con il primo e secondo motivo di gravame, ha eccepito l’inammissibilità e l’irricevibilità del ricorso di primo grado avverso la nota del 14.02.2007 e la seconda DIA, in collegamento con l’implicito provvedimento di assenso del Comune.
Sostiene la titolarità in capo al terzo che si assume leso solo di un’azione di accertamento, non potendosi configurare la DIA come un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma come mero atto privato. Argomenta, inoltre, in ordine alla tardività dell’impugnazione proposta, atteso che il mutamento di destinazione d’uso era stato oggetto della prima DIA, conosciuta e non impugnata, e che la seconda DIA costituiva solo una variante non essenziale della prima.
10.1. Ritiene il Collegio che, in ossequio al criterio della ragione più liquida (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del 2015), possa prescindersi dall’esame di tali eccezioni essendo il ricorso impugnatorio di primo grado infondato nel merito.
In limine è appena il caso di rilevare –come ribadito di recente dalla Sezione (cfr. sentenze nn. 2120 e 1967 del 2017)– che, in materia di d.i.a e s.c.i.a., non è configurabile sia la formazione di un provvedimento silenzioso ad opera dell’Amministrazione, sia, conseguentemente, l’impugnativa diretta di atti schiettamente privatistici (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.07.2017 n. 3281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una DIA, atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata;
   b) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal più volte menzionato art. 19, comma 6-ter.
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10. A prescindere dalla fondatezza dell’eccezione formulata dalla parte appellante di violazione dell’art. 276 c.p.c., conseguente all’omessa pronuncia del Tar di Genova in ordine alla mancata notifica del ricorso al condominio interessato all’installazione dell’ascensore, va preliminarmente rilevato che appare più liquida –secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015– la ragione fondativa del motivo di appello incentrato sull’inammissibilità dell’impugnativa diretta delle due DIA presentate dalla signora Be..
11. Il Tar non ha accolto l’eccezione in quanto non ha ritenuto che la disposizione di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241 -che ha stabilito la non impugnabilità diretta della D.I.A.- trovasse applicazione ratione temporis alle controversie che, come nel caso di specie, fossero state instaurate in data anteriore alla sua entrata in vigore.
12. Tuttavia, sul punto va rilevato che:
   a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una DIA, atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (cfr. Cons. St., sez. IV, 13.05.2010, n. 2919; 12.03.2009, n. 1474; 19.09.2008, n. 4513);
   b) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal più volte menzionato art. 19, comma 6-ter.
13. Tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a quella degli atti impugnati (DIA del 04.04.2008 e DIA del 25.03.2010) e comunque precedente alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 15 del 29.07.2011 (che pure ha confermato la natura privatistica della DIA), richiamata dal Tar nella motivazione della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.04.2017 n. 1967 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

10.10.2017 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Comune di Tremezzina - Interventi di pianificazione attuativa in ambiti vincolati sotto il profilo paesaggistico - parere ex articolo 16 della legge n. 1150 del 1942 (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 03.04.2015 n. 7899 di prot.).

APPALTI SERVIZI: Linee guida n. 7 di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 recanti «Linee Guida per l’iscrizione nell’Elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016». Approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 235 del 15.02.2017 - Aggiornate al D.lgs. 19.04.2017, n. 56 con deliberazione del Consiglio n. 951 del 20.09.2017 (determinazione 20.09.2017 n. 951 - link a www.anticorruzione.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Questa Sezione ha già avuto modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042 continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del principio di “autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942. A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto che la legge urbanistica statale costituisce ancora normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
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... per l’annullamento della nota della Soprintendenza belle arti e paesaggio di Milano, prot. 4672 datata 03.08.2015, avente ad oggetto “Tremezzina loc. Mezzegra (Co) – piano attuativo di iniziativa privata ATR 1. Richiedente Ca.Al., De Ma. Ca., De Ma. Al., Ra.Gi., Bo.Ma0. Parere ai sensi dell’art. 16, commi 3 e 4, della L. 1150/1942 – osservazioni al piano per gli aspetti di impianto paesaggistico”;
...
FATTO
I ricorrenti, premettendo di essere proprietari di immobili siti in territorio di Mezzegra, situati in un unico comparto, soggetto a vincolo paesaggistico e per il quale –ai fini di nuova edificazione– è obbligatorio un piano attuativo, piano attuativo richiesto il 03.02.2011 ed approvato con deliberazione consiliare del Consiglio del Comune di Mezzegra n. 19 del 05.08.2011, impugnano il parere in epigrafe.
Affidano il ricorso ai seguenti motivi:
   1. Violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990, del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, delle disposizioni comunitarie in materia di partecipazione e giusto procedimento amministrativo. Il parere definitivo sarebbe stato espresso senza essere preceduto dal preavviso di rigetto.
   2. Violazione degli artt. 14-ter e 14-quater della L. 241/1990, del principio di leale collaborazione tra Enti e del principio del giusto procedimento. La Soprintendenza, convocata alle conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe partecipato, ciò da cui deriverebbe, nella prospettazione di parte ricorrente, l’inammissibilità del parere.
   3. Violazione dell’art. 14 LR 12/2005, dell’art. 159 d.lgs. 42/2004, e del principio di legalità; incompetenza; violazione dell’art. 1 L. 241/1990, dell’art. 97 Cost. e del principio di buona amministrazione. Parte ricorrente, premettendo l’inapplicabilità dell’art. 16 della L. 1150/1942, in quanto “cedevole” rispetto all’art. 14 della LR 12/2005, che disciplina il procedimento di approvazione dei piani attuativi, afferma l’insussistenza di qualsivoglia obbligo di sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT.
   4. Violazione dell’art. 146, n. 8, d.lgs. 42/2004, degli artt. da 8 a 13 LR 12/2005; eccesso di potere; incompetenza; violazione degli artt. 117 e 118 Cost., dell’art. 42 Cost., dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Soprintendenza, anziché rimanere nell’ambito delle proprie attribuzioni a tutela del vincolo paesaggistico di inedificabilità relativa, ne avrebbe esorbitato, imponendo, di fatto, un vincolo di inedificabilità assoluta e sine die sul comparto, così trasformando il contenuto conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di nuova edificazione.
La Soprintendenza si è costituita, spiegando difese nel merito.
Con ordinanza 05.02.2016, n. 143, questa Sezione III ha rigettato la domanda cautelare.
All’udienza del 09.05.2017 la causa è stata trattata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso non è fondato.
L’impugnato parere della Soprintendenza risulta essere stato richiesto –a sanatoria– con nota del Comune di Tremezzina n. 4937 del 13.05.2015 (depositata dall’Avvocatura dello Stato in data 29.03.2017 sub 2) ai sensi dell’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942, sul presupposto che «…durante l’iter di adozione ed approvazione del piano attuativo, non è stato recepito il parere previsto dall’art. 16 della L. n. 1150/1942. Considerato che con nota 03.04.2015 n. 7899 di prot., l’Ufficio Legislativo del Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo ha indicato allo scrivente ufficio la possibilità di chiedere, a sanatoria del piano attuativo, il formale parere della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 16 della legge 1150 del 1942…».
Il parere si inserisce quindi nel procedimento di approvazione del piano attuativo quale atto istruttorio endoprocedimentale; non è quindi l’atto conclusivo del procedimento, in relazione al quale dovrebbe essere emanato il preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della legge 241/1990.
Il secondo motivo, con cui parte ricorrente deduce l’illegittimità del parere perché la Soprintendenza, pur convocata alle conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe partecipato, ed il terzo motivo, con cui viene dedotto che non vi sarebbe obbligo di sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT, possono essere trattati congiuntamente.
Entrambi presuppongono infatti la questione se sia applicabile ai piani attuativi regolati dalla LR 12/2005 la previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, secondo cui «I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente soprintendenza…».
Entrambi i motivi sono infondati.
Questa Sezione III, con motivazioni dalle quali questo Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, ha già avuto modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042 continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del principio di “autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942. A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto che la legge urbanistica statale costituisce ancora normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
Tale applicabilità risulta poi confermata dalla sentenza di questa Sezione III del 12.02.2016, n. 288.
Ciò determina il rigetto sia del terzo motivo di ricorso, sia, attesa la diversità fra il procedimento VAS per il PGT ed il procedimento per il piano attuativo, del secondo motivo di ricorso.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Con l’impugnato parere non è stata imposta l’inedificabilità dei suoli, ma espresso parere contrario alla soluzione proposta invitando i richiedenti e l’Amministrazione comunale a rivedere il posizionamento e il peso edificatorio delle previsioni insediative.
Si legge infatti nel parere: «…La soluzione proposta riguarda la realizzazione di sei corpi di fabbrica (per complessivi 2.500 mc) oltre alle relative opere esterne e infrastrutturali d’accesso disposti lungo una fascia attualmente ad uso agricolo, segnata da ampi terrazzi a prato sostenuti da muretti a secco, in posizione centrale rispetto ad un sistema ancora inalterato, che ne snaturerebbe gravemente le valenze, compromettendo irrimediabilmente e in via definitiva la qualità dei luoghi, con perdita dei caratteri identitari del territorio e per gli effetti intrusivi e occlusivi determinati dai nuovi insediamenti. Le opere previste sembrano pertanto determinare, rispetto alle valenze sopra evidenziate, rilevanti criticità in merito ai seguenti rischi:
   - rischio di completa occlusione dello spazio inedificato con perdita dei residui elementi di equilibrio percettivo di questo brano del paesaggio agrario storico di elevata visibilità da lago, dalla sponda opposta nonché dai luoghi panoramici circumvicini;
   - rischio di perdita dell’attuale assetto del paesaggio sotto il profilo culturale e naturalistico a seguito di opere di infrastrutturazione che darebbero il via alla saturazione di questa straordinaria fascia di territorio mantenuta ancora nei sui assetti storici, come espressamente riconosciuti dal vincolo.
Tutto ciò richiamato e premesso, questa Soprintendenza esprime parere contrario alla soluzione proposta, e invita i richiedenti e l’Amministrazione comunale a rivedere sostanzialmente il posizionamento e il peso edificatorio delle previsioni insediative, anche mediante azioni perequative che portino ad individuare altri ambiti suscettibili di trasformazione, o ancor meglio privilegiando operazioni di recupero e di contenuto aumento volumetrico del patrimonio edilizio esistente…
».
Tali valutazioni, oltre a non imporre un vincolo di inedificabilità assoluta e sine die sul comparto, costituiscono espressione di potere tecnico–discrezionale della Soprintendenza, che può formare oggetto di sindacato del giudice amministrativo solo sotto i profili di illogicità, irragionevolezza od errore nei presupposti, profili che non appaiono sussistere.
Il ricorso deve quindi essere rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.05.2017 n. 1207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il dato di fatto che l'area di trasformazione sia inclusa nell’area di notevole interesse culturale determina l’applicazione, alla fattispecie in esame, del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza.
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Deve rilevarsi che l’esistenza di insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di trasformazione del territorio.
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Se è vero che il piano attuativo non deve essere sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già stato vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere della Soprintendenza (ex art.
16, comma 3, della L. n. 1150/1942) in casi di area dichiarata di notevole interesse pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
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FATTO
Con deliberazione del consiglio comunale n. 3 del 17.02.2010, il Comune di Vizzolo Predabissi ha approvato il Piano di Governo del Territorio, che ha individuato, tra le altre, l'area di trasformazione denominata AT6.
Il comparto, che ha una superficie territoriale di circa mq 20.000, si sviluppa ad occidente della Strada Provinciale n. 39 (detta anche Strada Provinciale della Cerca) e si estende sino al confine ovest del Comune di Vizzolo Predabissi. A settentrione, l'ambito confina con il distributore di benzina posto in fregio alla SP39 e con l'area di proprietà Ku.It., attiva nell'ambito della produzione e commercializzazione di macchine agricole.
Il Documento di Piano stabilisce che "l'area di trasformazione AT 6 ha vocazione terziaria. Sono ammissibili attività ricettive e commerciali nella misura non superiore al 40% della potenzialità edificatoria di mq 6.000 di Slp consentita alla iniziativa privata. Il 50% dell'area o un area che consenta un insediamento pari a quello della iniziativa privata con un It < 0,6 mq/mq di Slp deve essere ceduto al Comune per la realizzazione della sede ASL ed ARPA o altro servizio di interesse pubblico. Lo strumento esecutivo è il Programma Integrato di Intervento. Le aree per servizi devono essere pari al 100% della Slp di cui almeno il 50% destinati a parcheggi e realizzato anche nel sottosuolo".
La scheda di approfondimento n. 6 della VAS indica che l’area AT6 si inserisce in un contesto di pregio paesaggistico, vincolato ai sensi del D.lgs. 42/2004 come “bellezze d’insieme”, pur precisando, quanto alla sensibilità paesistica del comparto, che "secondo la classificazione comunale, l'area AT6 è in classe MOLTO BASSA".
Invero l’area è inclusa, in forza del decreto del Presidente della Regione Lombardia n. 1351 del 28.03.1984 nell’elenco delle località da sottoporre a tutela paesistica, in quanto avente notevole interesse pubblico, ai sensi della L. 1497/1939.
Con istanza del 23.04.2013, l'Impresa Za. s.r.l. ha richiesto all'Amministrazione comunale un parere preventivo circa l'assentibilità del Piano Integrato di Intervento relativo all'area di trasformazione AT6, precisando che "si andranno ad edificare tre corpi di fabbrica a destinazione prettamente commerciale. Le superfici edificatorie previste dal vigente piano non vengono saturate nella globalità e di conseguenza anche le cessioni delle aree e degli standard saranno in rapporto all'edificato".
Il Progetto prevede infatti la realizzazione di tre corpi di fabbrica collocati parallelamente alla strada provinciale SP39. Il primo lotto, posto più a Nord, a confine con il distributore di carburanti esistente e con il capannone Ku., è destinato ad essere ceduto all'Amministrazione affinché vi insedi i servizi previsti dalla scheda d'ambito. Gli altri due lotti sono destinati ad ospitare attività commerciali.
Il prospettato insediamento potrà sviluppare una volumetria sino a mc 25.000 ed un'altezza massima di 4 piani fuori terra.
Ad occidente del comparto di riferimento (tra il fiume Lambro ed il comparto stesso) si trova il Cimitero di Melegnano, che è circondato da un muro in cemento armato alto otto metri, che si frappone tra il fiume Lambro e le strutture progettate dall’impresa.
Con nota del 19.07.2013, il Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale ha comunicato che "la soluzione progettuale risulta in linea di massima ammissibile in relazione al vigente PGT, in quanto la destinazione commerciale è compatibile con la vocazione terziaria che connota l'AT6".
Avendo ottenuto preliminare parere favorevole al progetto, la ricorrente si è attivata per acquistare il terreno oggetto di trasformazione e ha stipulato il relativo contratto di compravendita in data 13.09.2013.
Inoltre ha stipulato un contratto preliminare di compravendita relativamente al lotto 2 di intervento e un contratto preliminare di locazione ad uso commerciale, registrato in data 16.05.2014, per il lotto 3.
L'impianto progettuale ha imposto la realizzazione di una rotatoria sulla SP39 e contempla altresì una pista ciclopedonale lungo la strada provinciale che in parte interessano l'area di competenza del Parco Agricolo Sud Milano.
Per tale ragione in data 31.07.2014 l’impresa ricorrente ha richiesto l'autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma 9, d.lgs. 42/2004, alla Regione Lombardia, che l'ha accordata con decreto n. 8469 del 16.09.2014, ai sensi dell’art. 4, comma 6, del DPR n. 139/2010, non avendo la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici rilasciato il parere di competenza entro i termini previsti.
Anche l'Ente Parco, con deliberazione n. 34 del 21.10.2014, ha espresso parere di conformità del progetto viabilistico.
A parziale scomputo degli oneri di urbanizzazione, l'operatore si è reso disponibile ad effettuare le opere di pavimentazione del sagrato della Abbazia di Santa Maria in Calvenzano, edificio religioso sottoposto a tutela.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano, in data 01.12.2014, ha espresso parere favorevole sul progetto di pavimentazione, precisando che "essendo l'area interessata dal Piano Attuativo AT6 interna alla citata area dichiarata di interesse culturale con DPGR 28/03/1984 - il suddetto piano attuativo deve essere sottoposto a questa soprintendenza ai sensi dell'art. 16 della L. 1150/1942".
Il Comune di Vizzolo Predabissi ha chiesto chiarimenti su tale posizione, evidenziando che "il piano di lottizzazione, quale piano attuativo del PGT approvato, è [...] conforme al vigente PGT, quindi si tratta di un piano che attua quanto riportato nel PGT - non si tratta quindi di variante al PGT" (cfr. mail del 09.12.2014).
La Soprintendenza, con mail dell’11.12.2014, ha ribadito di ritenere applicabile l'art. 16 della L. n. 1150/1942, per quanto attiene all’impostazione planivolumetrica, trattandosi di piano attuativo interessante un’area con vincolo paesaggistico, oltre all’ulteriore parere ai sensi dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004 per quanto riguarda gli aspetti più strettamente architettonici.
Avendo ottenuto i necessari atti di assenso in ordine alle opere collocate all'interno del Parco, con istanza protocollata in data 04.12.2014, la ricorrente ha chiesto l'approvazione definitiva da parte del Consiglio Comunale di Vizzolo Predabissi del Piano Attuativo di Lottizzazione AT6.
In data 12.12.2014 l'Amministrazione Comunale ha trasmesso tutta la documentazione progettuale alla Soprintendenza.
Successivamente, in data 15.12.2014 l'Amministrazione comunale ha comunicato che “la Commissione per il paesaggio nella seduta del giorno 15.12.2014 ha espresso parere FAVOREVOLE” con riguardo al prospettato intervento edilizio.
Diversamente la Soprintendenza ha emesso il parere prot. n. 247 del 06.03.2015 con il quale, dopo aver premesso che l’ambito interessato “risulta ricompreso nel territorio del Parco Agricolo Sud Milano nonché nell’area dichiarata di notevole interesse culturale con DPGR 29/03/1984 riguardante il contesto dell’antica Abbazia di Santa Maria in Calvenzano” e che “l’area in oggetto risulta di particolare importanza per mantenere il residuale rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”, ha espresso parere favorevole –limitatamente all’impostazione complessiva planivolumetrica– condizionato al rispetto delle seguenti prescrizioni “volte ad assicurare il mantenimento a verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”:
   - “sia conservata libera da costruzioni almeno la metà dell’ambito –letto nella direzione parallela alla strada– con la conseguente concentrazione dell’edificato nella sola porzione settentrionale posta in adiacenza all’area industriale-commerciale già esistente (“proprietà Khum” e distributore) individuata negli elaborati grafici come lotto 1;
   - il volume da edificarsi sia di altezza massima pari a 6 metri (come quello rappresentato nella tav. n. 15);
   - in corrispondenza del volume da edificarsi sia realizzata una fascia di mitigazione verde con alberi ad alto fusto a Est (lato strada) e a Sud
”.
Tale atto è stato trasmesso dall'Amministrazione Comunale all’impresa ricorrente in data 16.03.2015.
Con nota del 14.04.2015 la ricorrente ha svolto osservazioni in relazione al parere. Con nota di pari data il Comune ha trasmesso tali osservazioni alla Soprintendenza, precisando che l’Amministrazione ha investito il massimo impegno nel salvaguardare l’area su cui sorge la Basilica di S. Maria in Calvenzano e osservando, però, che il fiume Lambro è situato circa 7 metri sotto all’ubicazione della basilica e che il cono ottico è in gran parte già occluso dalla presenza del muro di cinta del cimitero del comune di Melegnano.
Avverso il parere della Soprintendenza la società ha proposto il ricorso indicato in epigrafe, chiedendone l’annullamento, previa tutela cautelare, e formulando altresì domanda risarcitoria.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, con memoria di mera forma.
Si sono altresì costituiti in giudizio il Comune di Vizzolo Predabissi e la Regione Lombardia, resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto, spiegando difese nel merito.
Alla camera di consiglio del 25.06.2015 la ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare.
In vista della trattazione nel merito del ricorso le parti hanno scambiato memorie e repliche insistendo nelle rispettive conclusioni.
Indi all’udienza pubblica del 17.12.2015 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
I) Con l’atto introduttivo del giudizio l’impresa ricorrente ha impugnato il parere reso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Lombardia, ai sensi dell’art. 16 della L. 1150/1942, richiesto dal Comune nell’ambito del procedimento per l’approvazione del Piano Attuativo di Lottizzazione AT6 presentato dalla ricorrente.
II) Il ricorso è affidato ai motivi di gravame di seguito sintetizzati:
   1) violazione e falsa applicazione dell'art. 16, della L. 1150/1942; travisamento dei presupposti di fatto; erroneità; difetto di competenza: l’applicazione dell'art. 16 della L. n. 1150/1942, laddove si richiede il parere preventivo della Soprintendenza, sarebbe limitata ai piani rientranti in aree tutelate paesaggisticamente. Poiché l'Area di Trasformazione AT6 non sarebbe ricompresa all'interno del Parco Agricolo Sud Milano (il cui confine occidentale è costituito proprio dalla Strada Provinciale della Cerca -SP39, oltre la quale è collocato l'ambito in esame), il parere della Soprintendenza sarebbe illegittimo, muovendo dall’errato presupposto dell’inclusione dell’ambito AT6, oggetto del PII, nel Parco predetto;
   2) violazione e falsa applicazione della Parte I, Titolo II, Capo II della L.r. n. 12/2005; violazione e falsa applicazione degli artt. 14-ter, 14-quater e 21-nonies, L. 241/1990; violazione e falsa applicazione dell'art. 16, comma 12, l. 1150/1942; contraddittorietà del parere della Soprintendenza con le previsioni del PGT del Comune di Vizzolo Predabissi e della relativa VAS; difetto di competenza della Soprintendenza; violazione dell'affidamento ingenerato nell'operatore dalle previsioni del PGT approvato; violazione e falsa applicazione dell'art. 97 Cost.; ingiustizia manifesta:
      a) Il progetto di Piano Integrato di Intervento presentato dalla ricorrente è conforme al PGT e rispetta le prescrizioni della scheda di approfondimento n. 6 della VAS, come rilevato dal Comune in sede procedimentale (si veda il parere favorevole della Commissione per il paesaggio). La Soprintendenza di Milano, pur invitata alla conferenza di servizi prodromica all'approvazione dei documenti facenti parte della valutazione ambientale strategica, ivi compresa la scheda di approfondimento relativa all'ambito AT6, non vi ha partecipato, né ha rilasciato pareri in ordine al PGT sottoposto a valutazione, di fatto prestando acquiescenza alla favorevole conclusione del procedimento.
A distanza di cinque anni dall'approvazione del PGT, la Soprintendenza ha assunto un parere che contrasterebbe palesemente con le prescrizioni della VAS, di fatto integrando e modificando le previsioni della valutazione ambientale strategica. L’istituto della conferenza di servizi imporrebbe infatti la partecipazione necessaria delle Amministrazioni per l’espressione del parere, al fine di rendere effettivo tale modulo procedimentale. Il parere gravato, che di fatto si contrappone alla VAS legittimamente approvata a seguito della conferenza di servizi, dovrebbe essere considerato tamquam non esset o comunque illegittimo.
      b) L'art. 16, comma 12, della L. n. 1150/1942, prevede che "lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale strategica non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste".
Nel caso di specie, il PGT del Comune disciplina dettagliatamente l'Area di Trasformazione AT6 sia sul piano locatizzativo, sia su quello dell'edificabilità, degli usi ammessi, delle volumetrie e delle dotazioni territoriali. Sotto tale profilo, ulteriori verifiche ambientali in ordine al progetto conforme ai parametri della Scheda AT6 non sarebbero dovuti.
Difetterebbe, pertanto, la competenza della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano in ordine al progetto in esame, posto che un nuovo parere al riguardo equivarrebbe a rimettere in discussione le risultanze istruttorie emerse in fase di VAS e confluite nel provvedimento che l'ha definitivamente approvata.
   3) violazione e falsa applicazione del D.lgs. 42/2004; palese travisamento dei presupposti di fatto; eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza, contraddittorietà e ingiustizia manifesta: la Soprintendenza muove dal presupposto di fatto che l'area di trasformazione AT6 sia imprescindibile al fine di mantenere il "rapporto tra l'Abbazia ed il fiume Lambro" e che debba essere finalizzata ad "assicurare il mantenimento del verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro".
A detta della ricorrente tali presupposti sarebbero errati, posto che dall'Abbazia di Santa Maria in Calvenzano sarebbe impossibile anche solo percepire il fiume Lambro, che si trova ad una quota di ben sette metri al di sotto di quella dell'Abbazia ed a più di un chilometro di distanza dall'edificio (circa 1,2 Km).
Inoltre, il cono ottico orientato verso il fiume Lambro che origina dal fabbricato in esame si scontrerebbe con l'edificato esistente (cimitero di Melegnano, distributore di carburante, capannoni industriali di proprietà Ku., capannone industriale in uso a concessionario di auto usate), che non consentirebbe di avere percezione dell'area fluviale.
Il nuovo intervento infatti si frapporrebbe non tra l'Abbazia e le sponde fluviali, ma tra l'Abbazia ed il muro perimetrale del Cimitero di Melegnano. Inoltre il parere della Soprintendenza sarebbe carente su un piano istruttorio, omettendo di considerare nel suo complesso l’area interessata dall’intervento, posto che il PGT di Melegnao ha conferito vocazione residenziale all’area, oggi libera, immediatamente attigua all’ambito di trasformazione AT6.
Ancora, il parere sarebbe contraddittorio rispetto ad altri provvedimenti del Comune di Vizzolo Predabissi che hanno inciso sulla zona di tutela dell'Abbazia di Santa Maria in Calvenzano (in particolare sarebbe stata autorizzata sin dalla fine degli anni ottanta la costruzione di un intero nuovo quartiere residenziale, ossia del quartiere Saramazzano).
Infine, in via subordinata, a detta della ricorrente l’irragionevolezza del parere della Soprintendenza si rifletterebbe anche sul DPGR n. 1351 del 28.03.1984 che ha dichiarato di notevole interesse pubblico la zona dell’Abbazia, posto che già all’epoca del provvedimento regionale l’area sarebbe stata interessata da insediamenti di tipo terziario.
III) Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Invero il parere della Soprintendenza muove da un duplice presupposto di fatto, ovvero l’inclusione dell’ambito in questione sia nel territorio del Parco Agricolo Sud Milano, sia nell’area dichiarata di notevole interesse culturale con DPGR del 28.03.1984. Se il primo presupposto di fatto risulta errato, non altrettanto può dirsi quanto all’inclusione dell’AT6 nell’area di notevole interesse culturale ai sensi del decreto regionale del 1984.
Tale indiscutibile dato di fatto –noto anche alla ricorrente che, seppur in via subordinata, ha impugnato il decreto– determina l’applicazione, alla fattispecie in esame del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza.
III.1) A tale proposito, per logica espositiva, il Collegio ritiene di scrutinare anche la censura formulata, seppure in via subordinata (si veda pag. 17 del ricorso), con il terzo motivo di gravame e diretta verso il predetto DPGR n. 1351/1984.
A prescindere dalla genericità della censura, e dai profili di inammissibilità della stessa sollevati dalla difesa della Regione, deve rilevarsi che l’esistenza di insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di trasformazione del territorio.
Sotto tale profilo deve rilevarsi il difetto di interesse a gravare tale provvedimento, posto che, appunto, dallo stesso non deriva un vincolo assoluto all’utilizzo dell’area.
IV) Considerato che, per quanto precede, deve ritenersi corretta l’applicazione del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, anche il secondo mezzo di gravame non è meritevole di accoglimento.
Il parere della Soprintendenza infatti si colloca nell’ambito della disposizione sopra richiamata, quale effetto della dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area in questione. Ne consegue che la prospettazione della ricorrente secondo cui la Soprintendenza non avrebbe competenza ad intervenire, trattandosi di progetto conforme al PGT e alle relative prescrizioni della VAS non pare cogliere il punto centrale della questione. Invero si tratta di ambiti di disciplina differenti.
La dichiarazione di area di notevole interesse pubblico impone, ai sensi del comma 3 dell’art. 16 sopra richiamato, l’espressione del parere da parte della Soprintendenza. La disposizione di cui al comma 12 dell’art. 16, richiamato dalla parte ricorrente a sostegno del proprio assunto, esclude la sottoposizione a VAS di piani attuativi di strumenti urbanistici già sottoposti a VAS (qualora non comportino variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste).
La presenza di due disposizioni (comma 3 e comma 12) aventi ambiti oggettivi di disciplina differenti, porta a ritenere che se è vero che il piano attuativo non deve essere sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già stato vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere della Soprintendenza in casi di area dichiarata di notevole interesse pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
Tale ricostruzione interpretativa priva di rilevanza gli ulteriori profili di censura dedotti con il secondo mezzo di gravame, che, come detto, non è meritevole di accoglimento.
V) Risulta invece fondato il terzo motivo di ricorso, con il quale, in sintesi, la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione del parere impugnato.
La Soprintendenza, nell’indicare le prescrizioni da rispettare in sede di sviluppo del progetto, dichiara come obiettivo “il mantenimento a verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”, nell’ambito di quello che, nello stesso parere, è definito come il “rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”.
Ora, la sussistenza di un cannocchiale percettivo e paesaggistico dall’Abbazia al fiume Lambro è contestata sia dalla ricorrente sia dal Comune, tanto in sede difensiva quanto in sede procedimentale.
La ricorrente ha prodotto (sub doc. 18) la vista del predetto cannocchiale prospettico dall’Abbazia alle sponde fluviali secondo due diverse angolature, la prima della quali vede frapporsi interamente il muro del cimitero di Melegnano, la seconda le già esistenti costruzioni insistenti sull’area.
Il Comune, per parte sua, già in sede procedimentale (cfr. nota del 14 aprile indirizzata alla Soprintendenza) ha sostenuto che “il cono ottico è in gran parte già occluso dalla presenza del muro di cinta del cimitero del comune di Melegnano” e ha sottolineato che il fiume Lambro è situato circa sette metri sotto all’ubicazione della basilica.
La Soprintendenza, costituitasi in giudizio per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha spiegato difese di mera forma, quindi non prendendo posizione sulla sopra riferita circostanza, che risulta contestata in fatto. Il Collegio ritiene di valutare tale elemento ai sensi dell’art. 64 c.p.a..
Alla luce dei profili evidenziati sia dalla ricorrente sia dal Comune, la circostanza di fatto da cui la Soprintendenza muove per dettare le prescrizioni nella realizzazione del progetto non risulta supportata da un’indiscutibile evidenza. Ciò si riverbera sul contenuto prescrittivo del parere stesso, che risulta perciò privo di idonea motivazione.
Va inoltre rilevato che il parere considera l’area in questione come ricompresa nel Parco Agricolo Sud Milano, circostanza che risulta essere errata, come si ricava chiaramente dalla scheda di approfondimento n. 6 allegata alla VAS (e come già anticipato al precedente punto III). Ora, se tale circostanza non fa venir meno l’applicabilità al caso di specie dell’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, in forza del DPGR del 28.03.1984, costituisce comunque un evidente indizio di un’istruttoria condotta in modo approssimativo e non puntuale, neppure nei suoi elementi essenziali ed oggettivi.
Per le ragioni esposte, in accoglimento del motivo esaminato e assorbiti gli ulteriori profili dedotti, va disposto l’annullamento del parere della Soprintendenza che è tenuta a ripronunciarsi tenendo conto della concreta conformazione dei luoghi e dell’esistenza di fabbricati che si frappongono tra il fiume e l’edificio religioso, all’interno del cono ottico, anche tenuto conto dei vigenti strumenti urbanistici del Comune di Vizzolo Predabissi e del Comune di Melegnano (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.02.2016 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGONiente aumenti retroattivi.
Illegittimo aumentare i fondi per il salario accessorio in modo retroattivo, anche se si utilizzano risorse finanziarie di enti terzi per esercitare funzioni da essi delegate.

La Corte dei Conti, Sez. autonomie, con la deliberazione 28.09.2017 n. 23 ritorna su una questione da sempre molto delicata e irta di rischi di danno erariale per gli enti locali.
La sezione, rispondendo negativamente al quesito posto dalla Conferenza delle regioni, ha chiarito che «la corresponsione del salario accessorio, nelle varie forme in cui questo è previsto, deve essere correlata ad una programmazione basata su criteri predeterminati, misurabili ex ante e misurati ex post in sede di consuntivazione. Una ricostruzione a posteriori, quando ormai una gestione annuale è conclusa, non sembra coerente né con le norme giuscontabili, né con i principi di sana gestione finanziaria».
Indirettamente il parere della sezione autonomie evidenzia i rischi connessi alla prassi sin troppo diffusa negli enti locali di stipulare i contratti decentrati con grave ritardo, tanto da finire l'anno o gli anni successivi a quello di riferimento. Il principio contabile 4/2, punto 5.2, lettera a), ha ingenerato la convinzione che bastando la costituzione del fondo delle risorse decentrate per vincolare definitivamente le risorse, risulti possibile senza problemi anche sottoscrivere il contratto decentrato in ritardo, anche l'anno successivo.
Ci si dimentica, però, che se l'ente non dispone di un sistema permanente di valutazione e rimette (erroneamente) alla contrattazione decentrata la fissazione dei criteri di valutazione e la definizione degli obiettivi, interpretando in maniera impropria quanto prevede l'articolo 18 del Ccnl 01.04.1999, come modificato dall'articolo 367 del Ccnl 22.01.2004, si determina effettivamente un incremento delle risorse (a valere sull'articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 01.04.1999) e la fissazione di obiettivi quando la gestione si è conclusa e non al suo inizio. Dunque, sebbene contabilmente l'impegno di spesa si possa anche assumere l'anno successivo, la parte di risorse destinata al premio di risultato, per la maggior parte derivante dalle risorse variabili, risulterebbe definita a posteriori rispetto alla gestione.
È per questa ragione che appare comunque necessario stipulare i contratti per tempo, ben entro l'anno di riferimento. È opportuno, quindi, definire ad inizio anno gli obiettivi col piano esecutivo di gestione, connettere ad essi le risorse variabili e stipulare il contratto a inizio anno, per non incorrere in rischi di danno erariale (articolo ItaliaOggi del 04.10.2017).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI SERVIZIAffidamenti in house solo se iscritti all'elenco. Obbligo dal 30/10 per amministrazioni ed enti aggiudicatori.
Sarà operativo dal 30 ottobre l'elenco Anac delle società in house; l'iscrizione sarà elemento necessario per procedere legittimamente ad affidamenti in house alle società controllate.

È stato approvato in via definitiva l'aggiornamento delle linee guida Anac n. 7 (approvato con la determinazione 20.09.2017 n. 951) che riguardano l'iscrizione nell'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall'art. 192 del dlgs 50/2016. Le linee guida si applicano alle amministrazioni aggiudicatrici e agli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di propri organismi in house di cui all'art. 5 del Codice dei contratti pubblici e hanno carattere vincolante.
L'aggiornamento è stato necessario per tener conto delle modifiche normative apportate dal dlgs 56/2017 (correttivo del codice dei contratti), nonché delle modifiche procedurali necessarie ai fini del miglior funzionamento del sistema di gestione dell'elenco.
Un elemento che ha determinato l'aggiornamento delle linee guida n.7 concerne l'abrogazione della disciplina del potere di raccomandazione vincolante di cui all' articolo 123, comma 1, lett. b), del decreto correttivo dlgs 56/2017 che ha abrogato il potere di raccomandazione vincolante attribuito all'Autorità dall'art. 211, comma 2, da 1-bis a 1-quater.
A questa disciplina è subentrata una nuova regolamentazione fondata sull'impugnazione da parte di Anac dell'atto ritenuto viziato, in caso di inosservanza al precedente parere reso dall'Autorità alla stazione appaltante.
La principale novità riguarda i punti 5.7 e 8.8 delle linee guida che disciplinano gli affidamenti pregressi per i casi in cui l'Autorità, accertata l'assenza dei requisiti di legge che devono essere posseduti per l'in-house, dispone la mancata iscrizione o la cancellazione dall'Elenco. A seguito delle modifiche introdotte all'art. 211 del Codice, l'Autorità ha previsto, in luogo dell'esercizio del potere di raccomandazione vincolante, l'esercizio dei poteri di cui all'art. 211, commi 1-bis e 1-ter, del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, al punto 4.1 delle Linee guida è previsto che il soggetto avente titolo alla presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco è la persona fisica deputata ad esprimere all'esterno la volontà del soggetto richiedente, ovvero il responsabile dell'anagrafe delle stazioni appaltanti (Rasa), su delega delle persone fisiche deputate ad esprimere all'esterno la volontà del soggetto richiedente.
Il punto 7.1 delle linee guida è stato integrato con la seguente previsione: «In caso di inerzia e ritardo dell'ente istante a comunicare le variazioni circa la composizione del controllo analogo congiunto, l'Ufficio può procedere alle variazioni anche su iniziativa degli altri enti partecipanti alla compagine che esercita il controllo analogo congiunto sull'organismo in house».
Il termine per l'avvio della presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco è stato posticipato al 30.102017, come già preannunciato nel comunicato del presidente 05.07.2017 (articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente super partes. Revocabile solo per inadempienze istituzionali. Il numero uno del consiglio non può essere rimosso per ragioni politiche.
Il presidente del consiglio comunale può essere destinatario di una mozione di sfiducia da parte dello stesso organo che presiede?

L'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto».
In merito alla fattispecie in esame, assume particolare rilievo la modalità con cui la mozione di sfiducia, prevista dallo statuto nei confronti del presidente del consiglio, può conciliarsi con la disposizione regolamentare; questa, infatti, limita la possibilità di un voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo dell'amministrazione».
Inoltre la norma regolamentare che disciplina le adunanze affida addirittura al sindaco la presidenza del consiglio e non contiene alcuna norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti.
Nel caso di specie il consiglio ha dunque utilizzato, nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di dettaglio, la normativa statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; pertanto, la richiesta applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del presidente del consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (v., tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n. 2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme, Tar Puglia-Lecce, sentenza n. 528/2014, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata sentenza (richiamando anche Tar Sicilia-Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696; Tar Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n. 1181), ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'Assemblea consiliare»
Infine, il Tar Campania-Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (v. anche, Consiglio di stato, sez. V, 18/01/2006, n. 114) (articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).

APPALTI: Quesito: In una procedura negoziata previa pubblicazione di manifestazione di interesse per l'affidamento di un appalto di servizi di pulizia, posso aggiudicare la gara alla ditta uscente se è l'unica ad aver presentato offerta valida alla luce del recente orientamento del Consiglio di Stato sul principio di rotazione?
Risposta. La sentenza del Consiglio di Stato n. 4125 del 31.08.2017, sancisce il divieto per la S.A. di invitare nelle procedure negoziate l'aggiudicatario dell'appalto uscente «nel primo affidamento successivo» prevedendo, in caso di deroga, che l'amministrazione aggiudicatrice motivi tale scelta.
Va precisato che tale sentenza si riferisce ai casi in cui la SA promuova una procedura negoziata senza pubblicazione del bando/avviso, ossia a quei casi in cui gli operatori economici vengono individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi.
Tuttavia, pur introducendo un divieto generale anche in per tali procedure, il CDS non esclude tassativamente la possibilità di invitare l'aggiudicatario uscente, prevedendo la possibilità per la SA di derogare, attraverso un'adeguata motivazione, detto divieto.
Dunque, nulla di diverso da quanto già indicato nelle Linee guida ANAC n. 4 (delibera n. 1097/2016 ): "ai sensi dell'art. 36, comma 2, lett. b), del Codice la stazione appaltante è tenuta al rispetto del principio di rotazione degli inviti, al fine di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei e di evitare il consolidarsi di rapporti esclusivi con alcune imprese".
Pertanto, "l'invito all'affidatario uscente ha carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola d'arte, nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti) ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento)".
Nel caso di specie, si ritiene che nessuna contestazione potrebbe essere sollevata per l'affidamento del servizio all'aggiudicatario uscente, in quanto:
   1. la SA ha proceduto a dare pubblicità alla gara attraverso manifestazione di interesse;
   2. il solo aggiudicatario uscente ha risposto alla manifestazione di interesse;
   3. nel bando era prevista la possibilità di affidare anche in presenza di un'unica offerta.
Si ritiene possibile procedere all'aggiudicazione dell'appalto, motivando in ogni caso la scelta effettuata dalla SA (tratto dalla newsletter 04.10.2017 n. 189 di http://asmecomm.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi tecnici.
DOMANDA:
Esistono ancora gli incentivi per l'ufficio tecnico previsti dall'art. 92 comma 5, D.Lgs. n. 163/2006 - in pratica quelli finanziati dalle spese in conto capitale, nel quadro economico dell'opera, per progettazione, direzione lavori ...?
Se esistono ancora, sono da calcolare ai fini del controllo della spesa fondo contrattazione decentrata 2017 o sono al di fuori dell'invarianza in quanto finanziati da conto capitale?
Se non esistono, gli incentivi attuali vigenti sono finanziati all'interno delle spese in conto capitale opere o sono finanziati da spese correnti?
Anche perché ai fini contabili se sono finanziati all'interno dell'opera spesa in conto capitale poi si deve fare ancora il giro per imputazioni di tali spese a parte corrente?
RISPOSTA:
Allo stato attuale le norme che trattano degli “incentivi per funzioni tecniche” sono state definite dall’articolo 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016.
Circa le modalità applicative di queste disposizioni, si è pronunciata la Sezione autonomie della Corte dei conti con la delibera n. 7/2017; questa delibera stabilisce che, diversamente da quanto era stato stabilito per l’applicazione degli incentivi per le “progettazioni interne” stabilite dall’articolo 92 e successivamente dall’articolo 93 del D.lgs. n. 163 /2006, i quali erano considerati esclusi dai limiti del trattamento accessorio (vedi delibera 51/2011 della Corte dei conti sezioni riunite) gli “incentivi per funzioni tecniche” debbono essere incluse nei limiti del trattamento accessorio.
Le indicazioni fornite dalla Corte dei conti con la delibera n. 7/2017, creano problemi agli enti; infatti, gli enti sulla base di quanto stabilito dall’articolo 1, comma 236, della legge 208/2015, nel stabilire l’ammontare del trattamento accessorio debbono tenere conto che esso non poteva essere superiore a quello dell’anno 2010. E quindi, ora, gli incentivi per le progettazioni interne debbono rispettare i limiti massimi stabiliti per il trattamento accessorio, mentre in precedenza erano esclusi.
I problemi posti in precedenza, potrebbero essere superati rendendo omogenei i dati, per cui il tetto massimo in vigore precedentemente andrebbe ricalcolato aggiungendo gli incentivi sulle progettazioni e ciò al fine di rendere omogeneo il dato con quello derivante dalla applicazione di quanto stabilito dalla delibera n. 7/2017 della Corte dei conti. Ma per potere applicare questa soluzione occorrerebbe una modifica normativa o quanto meno un nuovo pronunciamento della Corte dei conti.
Inoltre si mette in evidenza che per dare applicazione alle disposizioni normativa in materia di incentivi per le funzioni tecniche occorre anche attenersi a quanto stabilito dall’ANAC con il comunicato del Presidente del 06/09/2017. Questo comunicato, tra l’altro, precisa che questi compensi non possono essere erogati prima della adozione dello specifico regolamento che stabilisce le modalità ed i criteri di ripartizione del fondo in sede di contrattazione decentrata integrativa.
Si deve anche rilevare che nella citata deliberazione n. 7/2017, della sezione Autonomie, si legge: “va affermato che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)”. Pertanto sulla base di queste considerazioni sembra che si debba dedurre che queste spese non sono più da considerarsi come spese di investimento, ma come spese correnti e nello specifico spese di personale.
E’ evidente che questa interpretazione crea nuovi problemi, in particolare sulle modalità con le quali dare copertura finanziaria a queste spese: Anche in questo caso si ritiene necessario ed opportuno che vengano meglio definite queste norme con la finalità di non creare ulteriori problemi agli enti (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Il regolamento per le aree verdi.
DOMANDA:
Si chiede se un regolamento comunale possa disciplinare le attività connesse alla potatura, all'abbattimento e alla manutenzione di alberi e filari su aree di proprietà privata non sottoposti ad alcun vincolo paesaggistico, con connessa previsione nel regolamento comunale di un apparato sanzionatorio a carico del proprietario trasgressore per violazioni quali irregolare potatura o taglio non autorizzato ed altro.
Si chiede quale norma legittimi l'assunzione di un tale potere regolamentare di incidere sulle modalità di esercizio della proprietà privata relativa al patrimonio arboreo privato, ponendo gravami e sanzioni che non risultano previsti dall'ordinamento giuridico.
Inoltre, si dubita che con una norma regolamentare comunale si possano prevede forme di autorizzazione comunale relativamente alla posa ed all'abbattimento di essenze arboree in aree non soggette ad alcun vincolo paesaggistico, in connessione con l'esercizio della attività edilizia, aggravando, in tal modo, il procedimento edilizio con la richiesta di presentare un progetto di “ristrutturazione ambientale” e di “perizia tecnica per le essenze arboree” in assenza di alcuna disposizione neppure negli strumenti urbanistici comunali.
Il ricorso ad un sistema autorizzatorio per tali interventi si pone in contrasto con la normativa vigente in materia edilizia che prevede ampio ricorso allo strumento della SCIA (con l'indubbia contraddizione di poter vedere realizzata una nuova costruzione previa presentazione di una SCIA, mentre se è prevista la posa/abbattimento di alberi non sottoposti a vincolo paesaggistico occorre acquisire una autorizzazione comunale).
Si chiede il vostro cortese avviso al riguardo con riferimento a quanto sopra, soprattutto per capire entro quali limiti possa espandersi la potestà regolamentare e sanzionatoria comunale nei riguardi di beni (piante ed essenze arboree) di proprietà privata.
RISPOSTA:
In effetti la necessità di dettare una particolare disciplina del verde e degli alberi presenti nel territorio comunale non costituisce nella prassi una novità, poiché si deve dare atto che molti comuni si sono dotati di una siffatta regolamentazione che può trovare, in genere, il suo fondamento nei principi generali di tutela del paesaggio che la stessa Costituzione prevede all’art. 9 tra i suoi principi fondamentali.
Ed infatti nella cura del verde, pubblico o privato che sia, possono individuarsi le esigenze di perseguimento insite nell'interesse pubblico al miglioramento ambientale e microclimatico locale, oltre che nella salvaguardia della biodiversità. Ed in questa prospettiva la definizione in via regolamentare, e salvo comunque il rispetto di tutte le eventuali disposizioni nazionali e regionali vigenti in materia, di modalità di intervento sulle aree verdi, di come si debbano attuare le più consone operazioni di potatura per il mantenimento e lo sviluppo complessivo della vegetazione esistente e per favorire l’incremento delle presenze arboree non può non ricondursi a tali principi ed obiettivi generali che non riguardano di per sé l’attività costruttiva o edilizia ma risultano essenziali affinché questa si sviluppi nei modi migliori per una migliore vivibilità dei luoghi per la comunità in armonia con lo sviluppo edilizio dei territori.
Al tempo stesso una tale regolamentazione può essere vista anche in funzione di avere una disciplina di tutela preventiva dei luoghi finalizzata ad impedire per esempio danneggiamenti irreversibili, o a vietare scavi, impermeabilizzazioni di terreni o ammassi di materiali in prossimità di apparati radicali, garantendo quindi una salvaguardia che interessa sia le alberature di proprietà privata che quelle di proprietà pubblica. Allo stesso modo si possono ritenere legittime previsioni regolamentari tese a prevedere per esempio che in caso di eliminazione di un albero protetto, si renda obbligatoria la messa a dimora di un nuovo albero, scelto in funzione dello sviluppo raggiungibile a maturità e posto ad una distanza corretta da fabbricati, strade e fondi confinanti secondo le norme vigenti.
E’ chiaro peraltro che tutte queste previsioni devono appunto essere contenute in un ambito di esclusiva disciplina del verde in quanto tale e per gli obiettivi e finalità anzidette e non possono tradursi di per sé in una sovrapponibile disciplina della attività urbanistica che trova in genere sede nei piani regolatori e negli altri strumenti urbanistici di cui dispongono i comuni in conformità alle normative regionali e statali vigenti.
E per quanto dunque anche nel rilascio dei vari titoli abilitativi all’edilizia possa talvolta essere contenuta quale specifica prescrizione avente ad oggetto tali aspetti ambientali in considerazione della natura dei luoghi, si ritiene che essa non possa tradursi in adempimenti ed oneri e/o condizioni eccessivamente onerosi e/o vincolanti tali da condizionare, in assenza di specifica legislativa, l’attività edilizia consentita dalla normativa urbanistica vigente (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI: Quesito: Posso autorizzare il subappalto sulla base di un contratto che, in merito alle lavorazioni, si limita ad indicare la quota del subappalto e nulla più?
Risposta. Si rende parere negativo sul quesito proposto.
L'art. 105, comma 7, del Codice degli Appalti detta chiare regole in merito al rapporto tra aggiudicatario e subappaltatore: "il contratto di subappalto, corredato della documentazione tecnica, amministrativa e grafica direttamente derivata dagli atti del contratto affidato, indica puntualmente l'ambito operativo del subappalto sia in termini prestazionali che economici".
Il subappalto è oggetto di particolare attenzione nella più recente normativa comunitaria perché la fase dell'esecuzione dei lavori pubblici risulta particolarmente sensibile a potenziali attività illegali. Nel Considerando 105 della direttiva 2014/24/UE viene esplicitato che è "necessario garantire una certa trasparenza nella catena dei subappalti, in quanto ciò fornisce alle amministrazioni aggiudicatrici informazioni su chi è presente nei cantieri edili nei quali si stanno eseguendo i lavori per loro conto".
Nel caso di specie, al momento dell'autorizzazione al subappalto la stazione appaltante deve accertare che il relativo contratto contenga l'indicazione puntuale delle lavorazioni e, a fianco di ogni prestazione, riportare il prezzo praticato.
Inoltre il Legislatore ha previsto che detto contratto deve essere corredato della documentazione tecnica, amministrativa e grafica. In tal modo tutelando la stazione appaltante e mettendola al riparo da generici affidamenti a soggetti esterni al contratto principale tra PA e aggiudicatario che renderebbero impossibile effettuare controlli in fase di esecuzione delle lavorazioni (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 15.09.2017 n. 188 di http://asmecomm.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale di verificarne la sanabilità, ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001, prima di emanare l'ordinanza di demolizione.
Al riguardo, per un verso, gli artt. 27 e 31 d.p.r. 380 del 2001 obbligano il responsabile del competente ufficio comunale ad adottare i provvedimenti repressivi e sanzionatori di contrasto immediato alle opere considerate abusive per il solo fatto di essere prive del prescritto titolo abilitativo, senza alcuna valutazione circa la loro eventuale sanabilità; per altro verso, l’art. 36 d.p.r. 380/2001 rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
Secondo consolidata giurisprudenza, l’efficacia dell’ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un’istanza di accertamento di conformità, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Nel sistema non è infatti individuabile una previsione dalla quale possa desumersi simile effetto; pertanto, se da un lato la presentazione di siffatta istanza determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ciò all’evidente scopo di evitare, nell’ipotesi di accoglimento, l’abbattimento di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente; dall’altro, l’efficacia dell’atto sanzionatorio è soltanto sospesa, essendo cioè posto in uno stato di temporanea quiescenza.
A conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’abuso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui si forma il diniego tacito ovvero la reiezione della sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui infatti non può risultare pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà riconosciutagli dalla legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata sua esecuzione.
Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione dovrebbe riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
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Come chiarito da consolidata e condivisibile giurisprudenza, il silenzio dell'Amministrazione protratto oltre il termine di sessanta giorni, a fronte di un'istanza di accertamento di conformità urbanistica presentata ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001, costituisce un'ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto tacito dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe nell’ipotesi di provvedimento espresso di diniego, impugnabile per il contenuto reiettivo dell'atto.
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1.- Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3, 6, 9, 22, 31, 36 e 37 d.p.r. 380/2001; degli artt. 1 e 19 L. n. 241/1990; dell’art. 5 d.p.r. 412/1993; eccesso di potere per violazione del giusto procedimento; inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto; erroneità dell’istruttoria, travisamento, sproporzione.
1.1.- Il Comune di San Giuseppe Vesuviano ha ordinato la demolizione dell’opera oggetto del provvedimento impugnato senza valutare la possibilità di sanatoria, peraltro richiesta dal ricorrente.
1.2.- Il motivo non è fondato.
1.2.1.- In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale di verificarne la sanabilità, ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001, prima di emanare l'ordinanza di demolizione. Al riguardo, per un verso, gli artt. 27 e 31 d.p.r. 380 del 2001 obbligano il responsabile del competente ufficio comunale ad adottare i provvedimenti repressivi e sanzionatori di contrasto immediato alle opere considerate abusive per il solo fatto di essere prive del prescritto titolo abilitativo, senza alcuna valutazione circa la loro eventuale sanabilità; per altro verso, l’art. 36 d.p.r. 380/2001 rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; Idem, sez. VI, 13.02.2015, n. 1068).
1.2.2.- Secondo consolidata giurisprudenza, alla quale questa Sezione ha in più occasioni aderito, l’efficacia dell’ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione di un’istanza di accertamento di conformità, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Nel sistema non è infatti individuabile una previsione dalla quale possa desumersi simile effetto; pertanto, se da un lato la presentazione di siffatta istanza determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ciò all’evidente scopo di evitare, nell’ipotesi di accoglimento, l’abbattimento di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente; dall’altro, l’efficacia dell’atto sanzionatorio è soltanto sospesa, essendo cioè posto in uno stato di temporanea quiescenza.
A conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’abuso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui si forma il diniego tacito ovvero la reiezione della sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui infatti non può risultare pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà riconosciutagli dalla legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata sua esecuzione (cfr. in questo senso, Tar Campania Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n. 4961 e Cd.S., Sez. IV, ord. 19.02.2008, n. 849).
Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione dovrebbe riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
1.2.3.- Facendo applicazione di questi principi, si osserva che, nel caso di specie, l’istanza di accertamento di conformità, presentata in data 13.03.2017, è stata definita, sessanta giorni dopo il suo ricevimento al protocollo dell’amministrazione, con provvedimento tacito di rigetto, come previsto dal menzionato art. 36, comma 3, secondo cui: “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Come chiarito da consolidata e condivisibile giurisprudenza, il silenzio dell'Amministrazione protratto oltre il termine di sessanta giorni, a fronte di un'istanza di accertamento di conformità urbanistica presentata ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001, costituisce un'ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto tacito dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe nell’ipotesi di provvedimento espresso di diniego, impugnabile per il contenuto reiettivo dell'atto (TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.06.2016, n. 7354; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 02.10.2015, n. 4681).
1.2.4.- E’ importante rilevare che l’edificio sul quale sono state compiute le opere abusive, ricade nell’ambito del Piano Territoriale Paesistico dei Comuni vesuviani, approvato con d.m. 04.07.2002, e rientra nella "perimetrazione Zona Rossa”, all’interno della quale -ai sensi della Legge regionale Campania 10.12.2003, n. 21- è vietato il rilascio di titoli edilizi abilitanti la realizzazione di interventi finalizzati all'incremento dell'edilizia residenziale, il che preclude in radice la condonabilità dell’opera (cfr. questa Sezione 22.10.2015, n. 4972).
Pertanto, ad oggi, anche tenendo conto del fatto che non risulta alcuna iniziativa processuale del ricorrente avverso il diniego tacito, il provvedimento ripristinatorio e sanzionatorio dispiega di nuovo e per intero i suoi effetti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di quella definita dall'art. 817 c.c.; rivestendo peculiarità sue proprie che la differenziano da quella civilistica, dal momento che il manufatto dev’essere non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico.
Invero, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad una opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche manufatti che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che risulti non configurabile una diversa utilizzazione economica.
Ne consegue che, ove le opere realizzate, pur se astrattamente possano ritenersi accessorie a quella principale, finiscano per incidere sull'assetto edilizio preesistente, con aggravio del carico urbanistico, per le stesse si rende necessario richiedere il permesso di costruire.

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2.- Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10, 22, 31, 32, 36 e 37 d.p.r. 380/2001; dell’art. 167 del d.lgs. 42/2004; degli artt. 1, 2, 3 e 4 nonché nn. 1 e 4 dell'allegato 1 di cui all'art. 1, comma 1, del d.p.r. 139 del 09.07.2010; violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 6, dell’art. 9, comma 1, lett. a), dell’art. 13, commi 1 e 6 del Piano Paesistico del Vesuvio; violazione e falsa applicazione art. 5 d.p.r. 412 del 26.08.1993; violazione e falsa applicazione dell'art. 3 L. n. 241/1990; eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto, erroneità dell’istruttoria, travisamento, illogicità ed irrazionalità manifesta, eccesso di potere, sviamento.
2.1.- L’Ente comunale, con il provvedimento impugnato, non ha considerato che l’opera compiuta sarebbe compatibile con gli strumenti urbanistici vigenti nel Comune di San Giuseppe Vesuviano. La stessa avrebbe prodotto un contenuto aumento di volumetria senza minimamente trasformare in unità residenziale la destinazione del locale adibito a sottotetto, avendo peraltro natura pertinenziale.
Ne conseguirebbe il suo inquadramento nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. 380/2001, come modificato da ultimo dalla L. n. 164/2014, per i quali -anche in presenza della modifica della sagoma o dei prospetti degli immobili sottoposti a vincolo- sarebbe sufficiente la denuncia di inizio attività, ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.p.r. 380/2001.
L’intervento sarebbe peraltro conforme all’art. 13, comma 6, PTP dei comuni vesuviani e, pertanto, sanabile ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004, per di più a mezzo di procedura semplificata di cui al d.p.r. 139/2010.
2.2.- Il motivo non è condivisibile e va respinto.
2.2.1- Secondo la relazione dell’Ufficio tecnico comunale, prot. n. 1391 del 12.01.2017, svolta a seguito del sopralluogo condotto dalla Polizia Municipale e da un funzionario tecnico del comune, risultano essere state realizzati i seguenti interventi edilizi:
   - "demolizione del solaio di copertura di un vecchio sottotetto a falda inclinata, sito al secondo piano”;
   - incremento dell’“altezza delle pareti perimetrali”;
   - “nuovo solaio di copertura” con inversione del “senso di inclinazione” e conseguente “aumento di volume”.
Per quanto descritto, l’opera compiuta ha prodotto non solo un evidente cambio di prospetto ma anche un aumento significativo del volume preesistente (mq 30 circa per un’altezza media di m. 2,80 circa, collegato al piano sottostante previo una scala interna metallica), tramite la demolizione del solaio di copertura del vecchio sottotetto a falda inclinata, allungamento delle pareti perimetrali e realizzazione di un nuovo solaio di copertura con inversione del senso di inclinazione.
L’intervento edilizio effettuato –a fronte dell’aumento di volume e della sovrastruttura creata sul lastrico solare- ha quindi tutte le caratteristiche per essere annoverato come nuova costruzione, per la quale- ai sensi dell’art. 10, lett. a), d.p.r. n. 380/2001 - sarebbe occorso il permesso di costruire e la preventiva autorizzazione paesaggistico-ambientale, ai sensi dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, non rilasciabile in via postuma ex art. 165, co. 4 e 5, dello stesso d.lgs..
L’opera abusivamente compiuta ricade, infatti, in virtù dei decreti ministeriali 06.10.1961, in area vincolata ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (ex R.D. 1497/1939, sostituito dal d.lgs. 490/1990), ed, ai sensi della L.R. 10.12.2003, n. 21, nella “perimetrazione della Zona Rossa”, all’interno della quale è vietato il rilascio di titoli edilizi che autorizzino la realizzazione di interventi comportanti incremento dell'edilizia a fini residenziale; è quindi preclusa in radice la possibilità di condonare l’opera contestata" (cfr. questa Sezione 22.10.2015, n. 4972).
2.2.2.- Né poi appare sostenibile la tesi del ricorrente circa la natura pertinenziale dell’opera realizzata.
La stessa, infatti, per consistenza, tipologia e dimensioni è in grado di incidere sul preesistente assetto urbanistico, senza che vi siano margini, in relazione alla sua destinazione funzionale, per considerarla pertinenza dell’immobile principale.
Il Collegio rammenta al riguardo che, in materia urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di quella definita dall'art. 817 c.c.; rivestendo peculiarità sue proprie che la differenziano da quella civilistica, dal momento che il manufatto dev’essere non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico.
Invero, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad una opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche manufatti che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che risulti non configurabile una diversa utilizzazione economica (Tar Napoli, sez. VIII, 30.05.2017, n. 2870).
Ne consegue che, ove le opere realizzate, pur se astrattamente possano ritenersi accessorie a quella principale, finiscano per incidere sull'assetto edilizio preesistente, con aggravio del carico urbanistico, per le stesse si rende necessario richiedere il permesso di costruire (Cons. Stato, sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Id, 24.07.2014, n. 3952, Id., 12.02.2013, n. 817).
2.2.3.- Nel caso di specie, l’opera compiuta, per natura, funzione e dimensioni, appare preordinata a costituire una nuova unità abitativa a fini residenziali, con consistente aumento di volume ed alterazione dello stato preesistente dei luoghi, plasticamente evidenziato dall’inversione dell’originaria inclinazione del sottotetto, in un’area per giunta soggetta ai noti vincoli paesaggistico- ambientali (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), della legge n. 164 del 2014– affida all’autorità competente il compito di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria, allo scopo di attribuire un ulteriore strumento punitivo per un più efficace contrasto al fenomeno dell'abusivismo.
In questo caso, l’amministrazione è obbligata ad irrogare la sanzione, salvo il suo potere discrezionale nel determinarne l’importo, compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro.
Nella fattispecie in esame occorre, tuttavia, considerare la presenza di vincoli ambientali e paesaggistici vigenti sul territorio del comune, perché, per siffatte ipotesi, il menzionato comma 4-bis, ultimo periodo, dell’art. 31 è categorico nel disporre che: “La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.”.
E’ quindi evidente che, nel caso specifico, la presenza dei vincoli paesaggistici ed ambientali priva l’amministrazione comunale del potere discrezionale di valutare l’importo della sanzione da irrogare, la quale va disposta sempre nella misura massima, tanto più che, aggiunge il citato comma 4-bis: “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
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3.- Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto:
Violazione e falsa applicazione artt. 1, 3, 6, 9, 22, 31, 36 e 37 d.p.r. 380/2001; violazione e falsa applicazione artt. 1, 2, 3 L. n. 241/1990; eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto, erroneità dell’istruttoria, travisamento, sproporzione.
3.1.- Con l'ordinanza di demolizione impugnata, il Comune di San Giuseppe Vesuviano ha disposto l'irrogazione di una sanzione pecuniaria nel massimo edittale, pari ad € 20.000,00, omettendo la benché minima motivazione sulla sua quantificazione e senza tenere in considerazione la modesta entità del manufatto, a suo avviso realizzato in sintonia con la strumentazione urbanistica della zona.
3.2.- Il motivo è infondato, prima ancora che inammissibile in quanto si riferisce al mero avviso, privo di una immediata attitudine lesiva, della sanzione che verrà successivamente applicata in caso d’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Infatti, l'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dall'art. 17, comma 1, lettera q-bis), della legge n. 164 del 2014– affida all’autorità competente il compito di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria, allo scopo di attribuire un ulteriore strumento punitivo per un più efficace contrasto al fenomeno dell'abusivismo.
In questo caso, l’amministrazione è obbligata ad irrogare la sanzione, salvo il suo potere discrezionale nel determinarne l’importo, compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro.
Nella fattispecie in esame occorre, tuttavia, considerare la presenza dei menzionati vincoli ambientali e paesaggistici vigenti sul territorio del comune di San Giuseppe Vesuviano, perché, per siffatte ipotesi, il menzionato comma 4-bis, ultimo periodo, dell’art. 31 è categorico nel disporre che: “La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.”.
E’ quindi evidente che, nel caso specifico, la presenza dei vincoli paesaggistici ed ambientali priva l’amministrazione comunale del potere discrezionale di valutare l’importo della sanzione da irrogare, la quale va disposta sempre nella misura massima, tanto più che, aggiunge il citato comma 4-bis: “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.”.
4.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.10.2017 n. 4670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Giurisdizione nelle controversie in materia di sanzioni pecuniarie per inosservanza prescrizioni canoni Peep.
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Giurisdizione – Sanzioni - Sanzioni pecuniarie - per inosservanza prescrizioni canoni Peep – Giurisdizione Ago.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la comminata per la violazione del Regolamento comunale in materia di canoni e condizioni per la concessione del diritto di superficie e vendita dei terreni Peep, avendo le medesime ceduto l’alloggio di cui erano titolari ad un prezzo superiore a quello risultante dalla convenzione a suo tempo stipulata tra il comune e la cooperativa (1)
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   (1) Ha ricordato il Tar che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo nel settore delle sanzioni non penali avviene distinguendo tra sanzioni punitive e sanzioni ripristinatorie; nel primo caso, trattandosi di sanzioni che hanno carattere meramente afflittivo, ricollegate al verificarsi concreto della fattispecie legale, restando esclusa ogni discrezionalità in ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla contestazione della lesione del diritto soggettivo; nel secondo caso, poiché le misure ripristinatorie tendono a realizzare direttamente l'interesse pubblico leso dall'atto illecito, riconoscendosi all'amministrazione la scelta della misura più idonea a realizzare tale interesse, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo a tutela di interessi legittimi (Tar Veneto, sez. II, 18.01.2007, n. 98).
Più recentemente il Giudice del riparto ha ribadito in proposito che, in materia di edilizia, le controversie aventi ad oggetto l'irrogazione di sanzioni sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che la relativa opposizione non genera una controversia nascente da atti e provvedimenti della p.a. relativi alla gestione del territorio, bensì l'esercizio di una posizione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo da parte di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge (Cass. civ., sez. un., 27.01.2014, n. 1528; id. 06.03.2009, n. 5455) (TAR  Toscana, Sez. I, sentenza 05.10.2017 n. 1158 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Viene in decisione il ricorso proposto dalle signore Gr. e Gi.Ta. avverso l’atto, in epigrafe precisato, con cui il Comune di Orbetello ha ingiunto alle medesime il pagamento della sanzione di € 560.031,21 a motivo della violazione dell’art. 20 del Regolamento comunale in materia di canoni e condizioni per la concessione del diritto di superficie e vendita dei terreni P.E.E.P., avendo le medesime ceduto l’alloggio di cui erano titolari ad un prezzo superiore a quello risultante dalla convenzione a suo tempo stipulata tra lo stesso comune e la coop. Se., dante causa delle ricorrenti.
Le ricorrenti invocano, con il primo motivo, l’intervenuta prescrizione del diritto dell’Amministrazione a sanzionare l’illecito applicandosi alla fattispecie l’art. 28 della l. n. 689/1981.
La censura, non delibabile nel merito, introduce, tuttavia, il tema del giudice competente a conoscere della controversia.
Come è noto, "
il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo nel settore delle sanzioni non penali avviene distinguendo tra sanzioni punitive e sanzioni ripristinatorie; nel primo caso, trattandosi di sanzioni che hanno carattere meramente afflittivo, ricollegate al verificarsi concreto della fattispecie legale, restando esclusa ogni discrezionalità in ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla contestazione della lesione del diritto soggettivo; nel secondo caso, poiché le misure ripristinatorie tendono a realizzare direttamente l'interesse pubblico leso dall'atto illecito, riconoscendosi all'amministrazione la scelta della misura più idonea a realizzare tale interesse, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo a tutela di interessi legittimi (C.d.S., IV, 04.02.1999, n. 112; conf. id., 23.01.1992, n. 92)" (TAR Veneto, sez. II, 18.01.2007, n. 98).
Più recentemente il Giudice del riparto ha ribadito in proposito che,
in materia di edilizia, le controversie aventi ad oggetto l'irrogazione di sanzioni sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che la relativa opposizione non genera una controversia nascente da atti e provvedimenti della p.a. relativi alla gestione del territorio, bensì l'esercizio di una posizione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo da parte di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge (Cass. civ., sez. un., 27.01.2014 n. 1528; id. 06.03.2009 n. 5455).
Nel caso di specie non può esservi dubbio in ordine alla natura meramente sanzionatoria del provvedimento impugnato seguendone, perciò, che il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, fatti salvi gli effetti della domanda, ex art. 11, co. 2, c.p.a..

APPALTI: Facoltà di immediata impugnazione degli ammessi alla gara se non è stato pubblicato il relativo elenco.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato – Omessa pubblicazione elenco concorrenti ammessi – Onere di immediata impugnazione – Esclusione – Facoltà di impugnazione degli ammessi prima dell’aggiudicazione – Permane.
L’omessa formale pubblicazione dei provvedimenti di ammissione delle imprese concorrenti ad una gara pubblica, ai sensi dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, se da un lato fa venir meno l’onere di immediata impugnazione, dall’altro non preclude la facoltà di impugnazione di tali provvedimenti prima dell’aggiudicazione della gara; la norma in questione, infatti, in deroga alla disciplina generale sull’interesse all’impugnazione degli atti di gara, ha inteso qualificare tali atti come immediatamente lesivi e come tali suscettibili di immediata contestazione (1).
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   (1) Sull’onere di immediata impugnazione v. Tar Molise 21.08.2017, n. 280 (TAR Molise, sentenza 04.10.2017 n. 332 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIProgetti anche a compenso zero. Ritorno di immagine equiparato al pagamento in denaro. Il Consiglio di Stato avalla la gratuità del contratto se il committente è la Pa.
Non è illegittimo l'affidamento di un servizio di progettazione di un piano regolatore per il prezzo simbolico di un euro.
La
sentenza 03.10.2017 n. 4614 del Consiglio di Stato, Sez. V, suggerisce una lettura particolare del concetto di «onerosità» dei contratti che i privati stipulano con la pubblica amministrazione. L'onerosità, infatti, può essere «attenuata», cioè non necessariamente ricondotta al pagamento di un corrispettivo in denaro. Palazzo Spada spiega che il prezzo non costituisce elemento indefettibile del contratto, perché «la ratio di mercato [...] di garanzia della serietà dell'offerta e di affidabilità dell'offerente, può essere ragionevolmente assicurata da altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto».
Insomma, si possono ammettere altri generi di «utilità» per l'imprenditore, comunque sempre economicamente apprezzabili, tipo il ritorno di immagine. Ciò, spiega la sentenza, avviene in generale con le «figure del c.d. Terzo settore, per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguano scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il principio del c.d. «utile necessario» fondato sull'innaturalità e inaffidabilità, per un operatore del mercato, di un'offerta in pareggio, perché contro il naturale scopo di lucro». E accade anche quando ci si avvalga del contratto di sponsorizzazione.
La sentenza ravvisa «la preferenza, nell'ordinamento, dei contratti pubblici, per un'accezione ampia e particolare (rispetto al diritto comune) dell'espressione «contratti a titolo oneroso», tale da dare spazio all'ammissibilità di un bando che preveda le offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese), ogniqualvolta dall'effettuazione della prestazione contrattuale il contraente possa figurare di trarre un'utilità economica lecita e autonoma, quand'anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall'Amministrazione appaltante».
Nel caso di specie, la gratuità dell'incarico non ha vulnerato la concorrenza, perché si è pur sempre dato vita ad una procedura di gara, che ha valutato in maniera adeguata gli aspetti tecnici della progettazione, assegnando loro un punteggio molto rilevante e congruo. Altri progettisti, insomma, avrebbero potuto concorrere a parità di condizioni.
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Le reazioni dei rappresentanti delle professioni. Sentenza aberrante. Ora tutto sull'equo compenso.
«Una sentenza criminogena». «Aberrante, avalla il caporalato intellettuale e professionale». «Il Consiglio di stato vuole inspiegabilmente distruggere l'ingegneria e l'architettura italiana». «L'equo compenso non può più aspettare».
Sono solo alcune delle reazioni provenienti dal mondo delle professioni in merito alla sentenza del Consiglio di stato relativa alla progettazione del piano regolatore di Catanzaro al prezzo di un euro (si vedano articoli in pagina). Oltre alla sorpresa e allo sdegno, i rappresentanti dei professionisti esprimono la necessità di procedere con urgenza per l'approvazione, entro la fine della legislatura, della legge sui compensi minimi ai professionisti.
Cup. Più che criticare la sentenza, il commento alla sentenza della presidente del Comitato unitario delle professioni (Cup) Marina Calderone ha voluto porre l'accento sulla necessità di approvare in fretta una legge sull'equo compenso per i professionisti «quella dell'equo compenso è una battaglia di civiltà giuridica, in particolare per i giovani, affinché il loro lavoro non continui ad essere mortificato da quei committenti che sempre più spesso chiedono prestazioni consulenziali a titolo gratuito», ha affermato la Calderone, che nel merito della sentenza ha poi aggiunto: «L'interpretazione dei giudizi di Palazzo Spada del contratto a titolo oneroso non è condivisibile in quanto troppo ampia».
Confprofessioni. Sulla stessa lunghezza d'onda il commento di Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, che però pone l'accento sulla necessità di evitare confusione nell'emanazione della norma: «È necessario approvare nel minor tempo possibile la legge sull'equo compenso, ma è altrettanto necessario produrre una legge chiara, che non lasci spazio a contenziosi. È fondamentale avere la maggiore chiarezza possibile, non siamo disposti ad accettare un consentito che stabilisca un compenso equo ma lasci la strada aperta a libere interpretazioni della disposizione».
Cni. «La sentenza è abnorme, oserei dire criminogena, perché potrebbe aprire la strada a comportamenti scorretti della p.a. Siamo arrivati al punto in cui un organo giudiziario amministrativo del Paese legittima l'affidamento di appalti a titolo gratuito». Questo il commento di Armando Zambrano, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri. Secondo il Cni la sentenza afferma «l'incredibile principio secondo il quale il corrispettivo del professionista risiederebbe nel ritenersi lusingato dall'eseguire un piano urbanistico per il comune di Catanzaro».
Cna. «Credevamo che, dopo la bocciatura del bando da parte del Tar, finalmente la giustizia sarebbe riuscita a fermare un'iniziativa immorale e scandalosa, come quella del bando».
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L'analisi. Così Palazzo Spada va contro il codice dei contratti.
I servizi di ingegneria e di progettazione non possono essere gratuiti. Lo afferma con assoluta chiarezza l'articolo 24, comma 8-ter, del dlgs 50/2016 (codice dei contratti), ai sensi del quale «Nei contratti aventi ad oggetto servizi di ingegneria e architettura la stazione appaltante non può prevedere quale corrispettivo forme di sponsorizzazione o di rimborso, ad eccezione dei contratti relativi ai beni culturali, secondo quanto previsto dall'articolo 151».
Letta sotto la luce dell'espressa previsione normativa, la
sentenza 03.10.2017 n. 4614 del Consiglio di Stato, Sez. V, che ha considerato legittimo l'affidamento dell'incarico gratuito e con solo rimborso spese del servizio di progettazione del piano regolatore della città di Catanzaro, appare ancora più criticabile di quanto non sia apparsa ai primi commentatori. Palazzo Spada, tra le varie argomentazioni utilizzate per riconoscere la legittimità dell'incarico gratuito, afferma espressamente che nei rapporti contrattuali tra privati e amministrazione pubblica l'accezione di contratto oneroso può essere attenuata e non connessa necessariamente alla controprestazione di un pagamento in denaro, visto che lo stesso codice dei contratti regola e ammette i contratti di sponsorizzazione.
Secondo il Consiglio di stato «la circostanza che vi sia verso lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell'equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale a dire della dazione dello sponsor. Con la sponsorizzazione si ha dunque lo scambio di denaro contro un'utilità immateriale, costituita dal ritorno di immagine».
Che la sponsorizzazione sia a titolo oneroso, è certo. Non è, però, un caso che il correttivo al codice dei contratti la consenta, per i servizi di progettazione, solo nel caso degli interventi sui beni culturali: infatti, il ritorno di immagine e, dunque, l'utilità economica della sponsorizzazione è molto più evidenziabile, che non rispetto alla realizzazione di un piano regolatore, il quale difficilmente crea utilità immateriali troppo diverse dal contatto privilegiato con l'ente affidante. Sulla base dell'espressa previsione normativa, anche se intervenuta successivamente alla pubblicazione del bando del comune calabrese, il Consiglio di stato avrebbe dovuto meglio ponderare le proprie considerazioni.
Per altro, ai sensi dell'articolo 19, comma 1, del codice dei contratti, la sponsorizzazione consiste nella «dazione di danaro o accollo del debito, o altre modalità di assunzione del pagamento dei corrispettivi dovuti». Non è, quindi, un contratto che elide il pagamento del corrispettivo, ma lo regola in altro modo. Nel caso del comune di Catanzaro, non si è sicuramente trattato di sponsorizzazione, perché non c'è uno sponsor che paga il progettista al posto del comune, mediante finanziamento o accollo di debito, o uno sponsor che addirittura si accolli la realizzazione del servizio spese comprese: infatti, è previsto un rimborso spese anche piuttosto sostanzioso (250 mila euro) e il corrispettivo è qualificato chiaramente come simbolico per 1 euro, trasformandolo, dunque, in una sorta di erogazione liberale, da corrispettivo quale deve essere anche nel caso di sponsorizzazione.
L'applicazione del principio di concorrenzialità imposto dal codice e, soprattutto, dalle direttive Ue dalle quali discende, ma anche gli obblighi vari in tema di verifica dell'anomalia dei ribassi, convincono che non vi sia alcuna particolare attenuazione dell'onerosità dei contratti con la p.a., per quanto con la sponsorizzazione l'utilità possa anche non derivare da un pagamento in denaro. Al contrario, il codice dei contratti ha previsto espressamente che addirittura con l'offerta economicamente più vantaggiosa non si chieda ribasso alcuno e non si attribuisca punteggio al prezzo, da considerare fisso; mentre per appalti «riservati» finalizzati all'inserimento lavorativo di categorie svantaggiate, è espressamente consentito un valore contrattuale anche non di mercato.
Oggettivamente, le norme coordinate del codice dei contratti depongono per l'obbligatoria onerosità dei rapporti con la p.a., posto che ribassi eccessivi, che giungano fino all'azzeramento dei corrispettivi possono essere causa di esclusione e posto che la salvaguardia dei rapporti economici e l'utilità sociale dei contratti (nota anche come «causa») sono principi enunciati anche dalla Costituzione (articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROGETTUALI: Legittimo l’appalto gratis ai professionisti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalti a titolo gratuito – Onerosità - Possibilità – Conseguenza – Applicazione disciplina del Codice dei contratti pubblici.
Anche un affidamento concernente servizi a titolo gratuito configura un contratto a titolo oneroso, soggetto alla disciplina del Codice dei contratti pubblici; la garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca alla ragione economica a contrarre, infatti, non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale, che resti comunque a carico dell’Amministrazione appaltante, ma può avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca alla ragione economica a contrarre, non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale, che resta comunque a carico della Amministrazione appaltante; può, infatti, avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto.
A supporto delle conclusioni cui è pervenuta, la Sezione ha ricordato che assume ormai particolare pregnanza nell’ordinamento, evidenziando il rilievo dell’economia dell’immateriale, la pratica dei contratti di sponsorizzazione. La sponsorizzazione non è un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è l’utilità costituita ex novo dall’opportunità di spendita dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene immateriale.
Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa –cioè passiva: non comporta un’uscita finanziaria- ma comunque genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo vantaggio. In altri termini, la circostanza che vi sia verso lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell’equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale a dire della dazione dello sponsor. Con la sponsorizzazione si ha dunque lo scambio di denaro contro un’utilità immateriale, costituita dal ritorno di immagine.
In conclusione, non vi è estraneità sostanziale alla logica concorrenziale che presidia, per la matrice eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.10.2017 n. 4614 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1.- Il Comune di Catanzaro ha interposto appello avverso la sentenza 13.12.2016 n. 2435 del TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, che ha accolto il ricorso dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggistici e Conservatori, dell’Ordine degli Ingegneri, dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Catanzaro, dell’Ordine dei Geologi della Calabria, del Collegio dei Geometri e del Collegio dei Periti Industriali della Provincia di Catanzaro avverso i provvedimenti dirigenziali comunali dell’ottobre 2016 di approvazione del bando e del disciplinare di gara della “procedura aperta per l’affidamento dell’incarico per la redazione del piano strutturale del Comune di Catanzaro e relativo regolamento urbanistico”, nonché del capitolato speciale, ed ancora avverso la presupposta delibera di Giunta comunale del 17.02.2016 con cui è stata condivisa la possibilità di formulare un bando contemplante incarichi professionali a titolo gratuito.
La delibera di Giunta, dando attuazione alla deliberazione consiliare n. 25 del 13.05.2015 disponente la predisposizione di un nuovo strumento urbanistico generale, rilevava l’assenza di copertura finanziaria per una spesa stimata in circa euro 800.000,00; e stabiliva, previo parere favorevole della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, del 29.01.2016, di formulare un bando che prevedesse incarichi professionali da affidare a titolo gratuito, delegando il dirigente del Settore Pianificazione Territoriale all’approvazione dello stesso.
Tali atti sono stati impugnati dagli indicati ordini professionali con il ricorso in primo grado, articolato in censure incentrate sull’illegittimità del bando di gara nella parte in cui ha previsto la natura gratuita del contratto di appalto di servizi, indicando, al punto 2.1 del bando, un corrispettivo pari ad euro uno, laddove l’appalto si caratterizza come contratto a titolo oneroso, sia nella disciplina del Codice civile, sia in quella dei contratti pubblici.
2. - La sentenza qui appellata ha accolto il ricorso, nell’assunto che si verta di un appalto di servizi (avente ad oggetto la “elaborazione, stesura e redazione integrale del piano strutturale del Comune di Catanzaro” in forma imprenditoriale) e che non è configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016.
...
3. - Il secondo e terzo, tematicamente centrali, motivi di appello censurano, con argomenti complementari, la sentenza che ha ritenuto non configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito (finalizzato alla pianificazione urbanistica, e con rimborso delle sole spese previamente autorizzate dal RUP), e dunque (ha ritenuto) illegittima la relativa gara, in quanto non conforme al paradigma normativo dell’art. 3, comma 1, lett. ii), d.lgs. n. 50 del 2016, e inoltre perché inidonea a garantire la qualità dell’offerta e, ancora prima, a consentire una sua effettiva valutazione.
Per l’appello, l’ordinamento in generale in realtà non vieta una prestazione d’opera professionale a titolo gratuito a vantaggio di una pubblica Amministrazione, e neppure con riguardo al sistema dei contratti pubblici (nel cui ambito, del resto, è ammessa la sponsorizzazione). L’Amministrazione appellante aggiunge che la valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa dei professionisti è qui -necessariamente- avvenuta con la sola esclusione dell’elemento prezzo (pari a zero in tutte le offerte), che rappresenta il parametro proprio dell’offerta economica: vale a dire, è avvenuta circoscrivendo preventivamente lo spazio della valutazione all’offerta tecnica, e secondo i criteri comunque a tale scopo fissati dal disciplinare di gara alla pagina 16.
I motivi d’appello, ritiene il Collegio, sono fondati.
Il bando di gara qualifica l’”affidamento dell’incarico per la redazione del piano strutturale comunale del Comune di Catanzaro e relativo R.E.U.” alla stregua di un appalto di servizi, e, tra le “informazioni complementari” (punto VI.3), precisa che «l’appalto è a titolo gratuito. E’ prevista una somma totale di €. 250.000,00 comprensiva di IVA a solo titolo di rimborso spese per come indicato nel disciplinare di gara».
Il capitolato speciale, all’art. 4, conferma: «si precisa che l’incarico è a titolo gratuito e che l’importo del rimborso di tutte le spese documentate e preventivamente autorizzate dal RUP, di qualunque genere ed in ogni caso dovute relative alle prestazioni da effettuare, sostenute dai professionisti costituenti il Gruppo di progettazione incaricato e dai propri consulenti e collaboratori per lo svolgimento dell’incarico affidato ammonta ad € 250.000,00, finanziati con fondi del bilancio comunale».
Analogo contenuto si desume dal disciplinare di gara, il quale precisa che l’importo dell’appalto posto a base di gara è [con evidente significato] di euro 1,00, e che il costo della polizza assicurativa, riferita all’incarico professionale, rientra nel rimborso spese.
Il Collegio rileva che
si tratta, anzitutto, di verificare se la legge consente la gratuità di un siffatto contratto: cioè se un contratto di prestazione di servizi (professionali), che preveda il solo (seppure ampio) rimborso delle spese contrasti o non contrasti con il paradigma normativo dell’appalto pubblico (di servizi), posto che l’art. 3 (definizioni), lett. ii), del d.lgs. 12.04.2016, n. 50 definisce gli “appalti pubblici” come «contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi», derivando queste connotazioni di onerosità dal diritto europeo.
In particolare, per gli appalti nei settori ordinari, la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, afferma:
   - considerando (4): «La normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici non intende coprire tutte le forme di esborsi di fondi pubblici, ma solo quelle rivolte all’acquisizione di lavori, forniture o prestazioni di servizi a titolo oneroso per mezzo di un appalto pubblico».
   - art. 2 (definizioni) n. 5): ««appalti pubblici»: contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi».
Occorre dunque chiarire la portata ed il significato, nei particolari contesti detti, dell’espressione «a titolo oneroso».
Va considerato che la nozione è replicata anche per le contestuali direttive 2014/23/UE e 2014/25/UE. L’intero settore degli appalti pubblici e delle concessioni è dunque caratterizzato da questa necessaria connotazione.
Ciò rilevato, si deve considerare che il fondamento della disciplina sui contratti pubblici riposa in principi generali del diritto dell’Unione Europea: il divieto di discriminazione in base alla nazionalità (art. 18 T.F.U.E.), le libertà di circolazione delle merci, di prestazione dei servizi, di stabilimento, e di circolazione dei servizi, le regole di concorrenza enucleate dall’art. 101 del T.F.U.E.. I contratti pubblici debbono perciò formarsi in un mercato concorrenziale e la loro disciplina è improntata alla concorrenza.
La caratterizzazione di “onerosità” appare da riferire a questa contestualizzazione al mercato di matrice europea; sembra muovere dal presupposto che il prezzo corrispettivo dell’appalto costituisca un elemento strumentale e indefettibile per la serietà dell’offerta, e l’inerente affidabilità dell’offerente nell’esecuzione della prestazione contrattuale. Al fondamento pare esservi il concetto che un potenziale contraente che si proponga a titolo gratuito, dunque senza curare il proprio interesse economico nell’affare che va a costosamente sostenere, celi inevitabilmente un cattivo e sospettabile contraente per una pubblica Amministrazione.
Il tema ha naturalmente diverse declinazioni, a seconda che riguardi contratti “attivi” (comportanti per l’Amministrazione un’entrata) o contratti “passivi” (comportanti per l’Amministrazione una spesa). Per quanto riguarda gli appalti pubblici, si verte in principio di contratti passivi e su questi occorre concentrare l’attenzione.
La par condicio tra partecipanti alla gara, presidio della concorrenzialità, è necessaria nel presupposto che la tutela della concorrenza rechi con sé la garanzia di efficienza del mercato.
In una tale prospettiva -osserva il Collegio- una lettura sistematica delle previsioni ricordate, con considerazione degli interessi pubblici immanenti al contratto pubblico e alle esigenze che lo muovono, induce a ritenere che l’espressione “contratti a titolo oneroso” può assumere per il contratto pubblico un significato attenuato o in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale e propria del mondo interprivato. In realtà, la ratio di mercato cui si è accennato, di garanzia della serietà dell’offerta e di affidabilità dell’offerente, può essere ragionevolmente assicurata da altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto.
La garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca alla ragione economica a contrarre, infatti, non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale, che resti comunque a carico della Amministrazione appaltante: ma può avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto.
Del resto,
quanto alla ragione economica del contraente, la giurisprudenza da tempo ammette l’abilitazione a partecipare alle gare pubbliche in capo a figure del c.d. “terzo settore”, per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguano scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il principio del c.d. “utile necessario” fondato sull’innaturalità ed inaffidabilità, per un operatore del mercato, di un’offerta in pareggio, perché contro il naturale scopo di lucro (Cons. Stato, V, 20.02.2009, n. 1018 e n. 1030; VI, 16.06.2009, n. 3897; V, 10.09.2010, n. 6528; V, 13.07.2010, n. 4539; V, 26.08.2010, n. 5956; III, 09.08.2011, n. 4720; III, 20.11.2012, n. 5882; VI, 23.01.2013, n. 387; III, 15.04.2013, n. 2056; V, 16.01.2015, n. 84; III, 17.11.2015, n. 5249; III, 27.07.2015, n. 3685; V, 13.09.2016, n. 3855). Il fatto stesso della presenza di questa consolidata giurisprudenza dimostra che l’utile finanziario in realtà non è considerato elemento indispensabile dal diritto vivente dei contratti pubblici: e conferma l’assunto qui testé enunciato.
La circostanza che l’offerta senza prefissione di utile presentata da un siffatto tipo di soggetto non sia presunta, solo per questo, anomala o inaffidabile, e non impedisca il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio stricto sensu economico, dimostra che le finalità ultime per cui un soggetto può essere ammesso a essere parte di un contratto pubblico possono prescindere da una stretta utilità economica.
E’ proprio per questo riguardo che è stato rilevato come non contrasti con la definizione di operatore economico contenuta nelle direttive europee la detta connotazione propria delle associazioni di volontariato.
A maggiore ragione, dunque, può esservi ammesso l’aspirante contraente cui si chiede di prescindere non già da un’utilità economica, ma solo da un’utilità finanziaria: perché l’utilità economica si sposta su leciti elementi immateriali inerenti il fatto stesso del divenire ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della prestazione richiesta dall’Amministrazione.
Conseguenza di una tale considerazione è la preferenza, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare (rispetto al diritto comune) dell’espressione «contratti a titolo oneroso», tale da dare spazio all’ammissibilità di un bando che preveda le offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese), ogniqualvolta dall’effettuazione della prestazione contrattuale il contraente possa figurare di trarre un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante.

L’assunto trova del resto conforto nella giurisprudenza europea, per la quale vale ricordare Corte Giust. U.E., 12.07.2011, in causa C-399/98 (Bicocca), a tenore della quale la direttiva 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, osta ad una normativa nazionale in materia urbanistica (art. 28 legge n. 1150 del 1942 e art. 12 legge reg. Lombardia n. 60 del 1977) che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla stessa direttiva.
Detta sentenza, per quanto qui rileva, ha affermato (§§ 76 e ss.) che se si ha riguardo all’obiettivo della direttiva 93/37/CEE sugli appalti pubblici di lavori, la sua previsione secondo cui «gli appalti pubblici di lavori sono contratti a titolo oneroso» va interpretata “in modo da assicurare l'effetto utile della direttiva medesima”: infatti per attribuire a un contratto pubblico il carattere di oneroso non è necessario un esborso pecuniario, perché ad analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione secondaria.
Quel ragionamento incentrato sul principio dell’effetto utile, che vuole che le disposizioni siano lette, di preferenza, nel senso di favorire il raggiungimento dell’obiettivo da esse prefissato, avvalora le considerazioni qui sopra svolte.
Del resto,
non è inconferente rilevare che assume ormai particolare pregnanza nell’ordinamento, evidenziando il rilievo dell’economia dell’immateriale, la pratica dei contratti di sponsorizzazione, che ha per gli stessi contratti pubblici la disciplina generale nell’art. 19 del d.lgs. n. 50 del 2016 (cfr. art. 199-bis d.lgs. n. 163 del 2006), e una particolare applicazione nel settore dei beni culturali (art. 120 d.lgs. 22.01.2004, n. 42).
La sponsorizzazione non è un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è l’utilità costituita ex novo dall’opportunità di spendita dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene immateriale.
Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa –cioè passiva: non comporta un’uscita finanziaria- ma comunque genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo vantaggio. In altri termini: la circostanza che vi sia verso lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell’equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale a dire della dazione dello sponsor.

Con la sponsorizzazione si ha dunque lo scambio di denaro contro un’utilità immateriale, costituita dal ritorno di immagine.
L’utilità costituita dal potenziale ritorno di immagine per il professionista può essere insita anche nell’appalto di servizi contemplato dal bando qui gravato: il che rappresenta un interesse economico, seppure mediato, che appare superare -alla luce della ricordata speciale ratio- il divieto di non onerosità dell’appalto pubblico, e consente una rilettura critica dell’asserita natura gratuita del contratto di redazione del piano strutturale del Comune di Catanzaro.
L’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori.
Non vi è dunque estraneità sostanziale alla logica concorrenziale che presidia, per la ricordata matrice eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale.
Il mercato non ne è vulnerato. Al tempo stesso, non si vede per quale ragione le dette considerazioni di economia dell’immateriale non possano essere prese in considerazione quando giovano, come qui patentemente avviene, all’esigenza generale di contenimento della spesa pubblica.
4. - Resta comunque l’esigenza della garanzia della par condicio dei potenziali contraenti, che va assicurata dalla metodologia di scelta tra le offerte.
E’ infatti il caso di rilevare che è per questa essenziale ragione che un tale contratto pubblico, per quanto “gratuito” in senso finanziario (ma non economico), non può che rimanere nel sistema selettivo del d.lgs. n. 50 del 2016: altrimenti, se ne fosse fuori, portando alle conseguenze un diverso ragionamento, l’Amministrazione appaltante potrebbe scegliere il contraente a piacimento, con ciò ingenerando un’evidente lesione della par condicio dei potenziali interessati al contratto proprio per quell’utile immateriale e ledendo gli stessi principi di derivazione eurounitaria del mercato concorrenziale che sono alla base delle commesse pubbliche.
La gratuità finanziaria, anche se non economica, del contratto si riflette infatti sulla procedura di selezione, che non può non esservi in concreto adattata.
La descritta concezione “debole” di «contratto a titolo oneroso» va dunque ulteriormente valutata in compatibilità con il d.lgs. n. 50 del 2016 anche per ciò che riguarda la procedura di scelta del contraente, improntata al criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che, di suo, si baserebbe sul miglior rapporto tra qualità e prezzo.
Ma la caratterizzazione che si è finora esaminata corrisponde fatalmente a una lex specialis del tutto particolare, che non può che riservare punti zero alla componente economica. Sicché il vaglio della domanda si esaurisce nella valutazione dell’offerta tecnica, in ipotetica criticità con la configurazione di tale criterio ad opera dell’art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016.
Occorre dunque valutare la compatibilità di una siffatta tipologia contrattuale con le regole dell’evidenza pubblica ed i principi eurounitari, in particolare sotto il profilo della suscettibilità di adeguata valutazione delle offerte prive di un contenuto economico. Si tratta di una valutazione da svolgere in concreto ed ex ante.
A questo riguardo, osserva il Collegio che i criteri di aggiudicazione enucleati alle pagg. 16 e seguenti del disciplinare di gara, basati sulla componente tecnica (professionalità, adeguatezza dell’offerta, caratteristiche metodologiche dell’offerta), cui sono attribuiti novanta punti, e residualmente sul tempo, al quale sono riservati dieci punti, appaiono comunque sufficientemente oggettivi per una valutazione dell’offerta e non contrastano dunque con il rammentato art. 83. E’ questo, del resto, il solo modo in cui può essere inteso in un tal caso il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Un tale carattere sintetico e sincopato del criterio di aggiudicazione in concreto stabilito è infatti coerente con la delineata nozione di onerosità del concreto contratto, che impone un’applicazione adattata della disciplina del Codice degli appalti pubblici sui criteri di aggiudicazione.
4.1.- Occorre aggiungere, vista anche la riproposizione dei motivi assorbiti in primo grado da parte del Consiglio Nazionale degli Ingegneri e da parte dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, dell’Ordine degli Ingegneri ed altri della Provincia di Catanzaro, che nel caso di specie la scelta di questo contratto risulta presidiata, per l’assoluta particolarità della fattispecie, da un’attenta valutazione a monte in ordine alla necessarietà di pervenire al nuovo piano strutturale, oltre che della non (integrale) copertura in bilancio del costo stimato, anche nella misura minima, del compenso professionale.
Al contempo, il valore dell’appalto è stato parametrato al valore della prestazione, ad evitare l’elusione delle regole dell’evidenza pubblica.
Il ricorso ad un siffatto contratto è stato sottoposto al parere della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, che, con atto 10.02.2016, ha ritenuto, seppure con ragionamento diverso, che
l’Amministrazione comunale può «procedere alla indizione di un bando pubblico per il conferimento di incarico gratuito di redazione del nuovo piano di sviluppo comunale, con la previsione del mero rimborso delle spese sostenute. Tuttavia, il bando dovrà integrare tutti gli elementi necessari per l’esatta individuazione del contenuto della prestazione richiesta, onde consentire la valutazione oggettiva degli elaborati tecnici che vengono così prodotti, senza pretesa di corrispettivo, dai tecnici interessati a prestare appunto gratuitamente la propria opera professionale».
5. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, l’appello va accolto, e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va respinto il ricorso di primo grado.

EDILIZIA PRIVATA: E' inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo l'impugnata ordinanza di demolizione motivata in relazione all'abusiva costruzione di centralina idroelettrica con captazione delle acque del torrente ....
La giurisdizione appartiene infatti al tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 143, lettera a), del r.d. n. 1775 del 1933 e dell'art. 133, lettera f), del codice del processo amministrativo.
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... per l'annullamento del provvedimento di diffida a demolire e ripristinare lo stato dei luoghi datata 10.05.2017, prot. n. 3266, adottata dal Responsabile del Procedimento- Ufficio Tecnico del Comune di Taibon Agordino (BL), P.e. Co.Fu., notificata a mani dei ricorrenti in data 11.05.2017;
...
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
La giurisdizione appartiene infatti al tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775 del 1933 e dell’art. 133, lettera f), del codice del processo amministrativo.
L'impugnata ordinanza di demolizione è motivata in relazione all'abusiva costruzione di centralina idroelettrica con captazione delle acque del torrente Foram.
Trattasi dunque di provvedimento che rientra nella materia delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 143, lettera a), del r.d. n. 1775 del 1933 e dell'art. 133, lettera f), del codice del processo amministrativo e dunque è devoluta alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche (così Tar Veneto II n. 257 del 2016, II n. 774 del 2015, Consiglio di Stato V n. 3055 del 2016).
Le oscillazioni giurisprudenziali sul punto consentono di compensare le spese tra le parti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.10.2017 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe offerte collegate sono escluse dalla gara. Imprese con unico centro decisionale.
Vanno escluse le offerte presentate da due imprese imputabili a un unico centro decisionale; fra gli indici del controllo di fatto i rapporti di parentela fra gli amministratori e le circostanze di luogo e di tempo di presentazione delle offerte.

È quanto ha spiegato il TAR Basilicata nella sentenza 28.09.2017 n. 614 che interpreta l'art. 80 del codice dei contratti pubblici (esclusione per situazione di controllo fra due imprese che partecipano alla stessa gara). La previsione serve a evitare che talune relazioni tra imprese partecipanti allo stesso appalto possano condizionare i rispettivi comportamenti e precludere il rapporto concorrenziale che costituisce la stessa ragion d'essere delle procedure di gara.
In altri termini, dice la sentenza, va assicurata l'effettiva ed efficace tutela della regolarità della gara e, in particolare, la par condicio fra tutti i concorrenti, nonché la serietà, compiutezza, completezza ed indipendenza delle offerte, evitando che, attraverso meccanismi di influenza societari, pur non integranti collegamenti o controlli di cui all'art. 2359 cod. civ., possa essere alterata la competizione, mettendo in pericolo l'interesse pubblico alla scelta del giusto contraente.
Per i giudici, ad esempio, costituiscono indici presuntivi della sussistenza di un collegamento di fatto i rapporti di parentela fra amministratori delle società, nonché le circostanze di tempo e di luogo di spedizione delle domande di partecipazione e gli elementi formali connotanti i documenti di gara (quindi, fra gli altri: i tempi di presentazione delle domande di partecipazione, le significative similitudini e peculiarità dei documenti di gara).
In particolare, nel caso di specie i giudici hanno evidenziato che le buste contenenti le offerte recavano numeri di protocollo di ricezione immediatamente consecutivi e che le offerte erano contraddistinte dalla stessa data di sottoscrizione. Inoltre, le domande di partecipazione riportavano la stessa data e nell'intestazione di entrambe le offerte vi era l'identico errore nell'indicazione della centrale unica di committenza. E risultavano sovrapponibili le «proposte migliorative» di entrambe le imprese, su alcuni paragrafi dell'offerta (articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).
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MASSIMA
7. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua della motivazione che segue.
7.1. E’ stata in primo luogo dedotta la violazione dell’art. 80, n. 5, lett. m), del d.lgs. n. 50 del 2016, sussistendo nella presente questione una situazione di controllo sostanziale “anche di fatto” tra le società Ta. s.n.c. e Ca. s.a.s. «riscontrabile agevolmente dall’analisi di molteplici elementi».
7.1.1. La censura coglie nel segno.
L’art. 80 del codice dei contratti pubblici sanziona con l’esclusione dalla partecipazione alla procedura d’appalto, tra l’altro, gli operatori economici che versino in una situazione di controllo, di cui all’art. 2359 del codice civile, o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, tale da comportare l’imputabilità delle offerte a un unico centro decisionale. Tale previsione è volta a evitare che talune relazioni tra imprese partecipanti allo stesso appalto possano condizionare i rispettivi comportamenti e precludere il rapporto concorrenziale che costituisce la stessa ragion d’essere delle procedure di gara.
In altri termini, va assicurata l’effettiva ed efficace tutela della regolarità della gara e, in particolare, la par condicio fra tutti i concorrenti, nonché la serietà, compiutezza, completezza ed indipendenza delle offerte, evitando che, attraverso meccanismi di influenza societari, pur non integranti collegamenti o controlli di cui all’art. 2359 cod. civ., possa essere alterata la competizione, mettendo in pericolo l’interesse pubblico alla scelta del giusto contraente.

7.1.2. Nel caso di specie, ritiene il Collegio che sussistano indizi plurimi, precisi e concordanti che inducono a considerare sussistente un collegamento sostanziale tra le imprese di cui innanzi.
7.1.2.1. In primo luogo non forma oggetto di contestazione che le legali rappresentanti delle cennate società siano avvinte da vincolo di parentela, in quanto tra loro sorelle.
7.1.2.2. Al medesimo approdo conducono poi i tempi di presentazione delle domande di partecipazione e talune significative similitudini e peculiarità dei documenti di gara. In particolare:
   - le buste contenenti le offerte recano numeri di protocollo di ricezione immediatamente consecutivi (nn. 7211 e 7212 del 12.12.2016);
   - le offerte sono contraddistinte dalla medesima data di sottoscrizione del 05.12.2016;
   - le domande di partecipazione riportano la stessa data del 30.01.2016;
   - nell’intestazione di entrambe le offerte vi è l’identico errore nell’indicazione della centrale unica di committenza, costituito dall’utilizzo della denominazione “Canastra” anziché quella corretta “Camastra”;
   - nella domanda di partecipazione della Ca. s.a.s, alla lettera j), riferita all’indicazione dell’indirizzo p.e.c. da utilizzare per le comunicazioni di rito, è stato indicato il recapito dell’altra concorrente, ovvero della società Ta. s.n.c..
7.1.2.3. Va pure rilevato come i contenuti delle offerte tecniche delle imprese in questione siano speculari relativamente al capo rubricato per entrambe “organizzazione del servizio” (pagine da 2 a 7 dell’offerta della Ta. s.n.c. e da 5 a 12 dell’offerta della Ca. s.a.s.).
7.1.2.4. Ancora, risultano del tutto sovrapponibili le “proposte migliorative” di entrambe le imprese, con riguardo ai medesimi paragrafi della “organizzazione, a proprie spese, di specifici menù in occasione di particolari ricorrenze” e “organizzazione e assistenza aggiuntiva con piani predisposti da dietologi per casi particolari – obesità, celiachia, diabete e religione” (pagine 10 e 11 dell’offerta della Ta. s.n.c. e 18 e 19 dell’offerta della Ca. s.a.s.).
7.1.3. Secondo la stazione appaltante tali “elementi indiziari” avrebbero una valenza prettamente formale e sarebbero inidonei a supportare la tesi del collegamento sostanziale, e, tra l’altro, «la loro presenza ben potrebbe essere plausibilmente riconducibile alla circostanza che le dette concorrenti abbiano affidato la predisposizione degli atti di gara ad una stessa agenzia, che, nell’espletamento del mandato ricevuto, abbia commesso» i predetti errori.
In senso contrario, tuttavia, va evidenziato come tale argomento costituisca mera congettura, e che di tale supposizione non vi è comunque traccia negli atti di gara. Inoltre, tale teorizzato affidamento implicherebbe comunque la violazione dei principi di trasparenza e di segretezza e serietà delle offerte.
7.1.4. Ritiene dunque il Collegio che i cennati elementi, anche considerati nella loro complessiva valenza, inducano a ritenere la riferibilità a un unico centro decisionale delle offerte formalmente presentate da distinte imprese collettive. Sul punto, va richiamato il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui
ben possono costituire indici presuntivi della sussistenza di un collegamento di fatto i rapporti di parentela fra amministratori delle società, nonché le circostanze di tempo e di luogo di spedizione delle domande di partecipazione e gli elementi formali connotanti i documenti di gara (Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2013, n. 1091).
8. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento dell’azione impugnatoria, con assorbimento di ogni ulteriore censura e, per l’effetto, l’annullamento degli atti in epigrafe.
8.1. Non vi è luogo a disporre in ordine alla richiesta declaratoria di inefficacia del contratto, non risultando dagli atti e dalle deduzioni delle parti che esso sia stato stipulato, né in ordine all’istanza risarcitoria, risultando l’interesse sostanziale di parte ricorrente soddisfatto per effetto della aggiudicazione in suo favore dell’appalto in questione, conseguente all’annullamento di quella disposta a favore dell’impresa controinteressata, sebbene subordinatamente all’esito positivo del previo accertamento della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge di gara.

EDILIZIA PRIVATATitoli edilizi Ok esplicito.
Non si applica l'istituto del silenzio assenso alle istanze che hanno lo scopo di ottenere titoli edilizi per immobili nel centro storico (zona A) di un comune.

A fornire i chiarimenti è la
sentenza 27.09.2017 n. 4516 del Consiglio di Stato, Sez. IV.
I giudici ricordano che l'art. 20, 8° comma, del dpr n. 380/2001, nel prevedere che «decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio assenso», esclude espressamente «i casi in cui sussistono vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali».
Tale disposizione, peraltro, è coerente con quanto previsto, in linea generale, dall'articolo 20 della legge n. 241/1990, che esclude l'applicazione dell'istituto del silenzio-assenso, tra l'altro, agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico. In sostanza, l'art. 20, comma 8, del dpr 380/2001 e, più in generale, l'art. 20, comma 4, legge n. 241/1990, nell'escludere dalla formazione del silenzio assenso gli atti ed i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, non intendono riferirsi ai soli casi in cui sussistano vincoli specifici, riguardanti un determinato immobile ovvero una parte di territorio, puntualmente individuati per il loro valore storico, artistico o paesaggistico con puntuali atti della pubblica amministrazione, ma si riferiscono, più in generale, a tutte le ipotesi in cui siano presenti, nell'ordinamento realtà accertate come riconducibili, anche in via generale, al patrimonio culturale e/o paesaggistico.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei casi per i quali è esclusa la formazione del silenzio assenso, le domande volte ad ottenere titoli edilizi relativi ad immobili situati in zona A del territorio comunale, posto che tale zona, ai sensi dell'articolo 2 dm n. 1444/1968 è quella costituente parte del territorio interessata «da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2017).
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MASSIMA
2. L’appello è fondato, in relazione al secondo motivo proposto, concernente, in sostanza, il lamentato vizio di difetto di istruttoria nel procedimento conclusosi con il diniego di permesso di costruire.
2.1. Occorre, innanzi tutto, osservare che è invece infondato, e deve essere pertanto respinto, il primo motivo di appello, riferito alla presunta, intervenuta formazione del silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire.
Come è noto,
l’art. 20 DPR n. 380/2001, nel prevedere (co. 8) che “decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso”, esclude espressamente “i casi in cui sussistono vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali”.
Tale disposizione, peraltro, è coerente con quanto previsto, in linea generale, dall’art. 20 della l. n. 241/1990, che esclude l’applicazione dell’istituto del silenzio assenso, tra l’altro e per quel che interessa nella presente sede, agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico.
In sostanza,
l’art. 20, co. 8, DPR n. 380/2001 e, più in generale, l’art. 20, co. 4, l. n. 241/1990, nell’escludere dalla formazione del silenzio-assenso gli atti ed i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, ovvero ove sussistano vincoli (tra gli altri) culturali e/o paesaggistici, non intendono riferirsi ai soli casi in cui sussistano vincoli specifici, riguardanti un determinato immobile ovvero una parte di territorio, puntualmente individuati per il loro valore storico, artistico o paesaggistico con puntuali atti della pubblica amministrazione, ma si riferiscono, più in generale, a tutte le ipotesi in cui siano presenti, nell’ordinamento realtà accertate come riconducibili, anche in via generale, al patrimonio culturale e/o paesaggistico.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei casi per i quali è esclusa la formazione del silenzio-assenso, le domande volte ad ottenere titoli edilizi relativi ad immobili situati in zona A del territorio comunale, posto che tale zona, ai sensi dell’art. 2 D.M. n. 1444/1968 è quella costituente parte del territorio interessata “da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”.
Nel caso di specie, l’immobile oggetto di domanda di permesso di costruire, per dichiarazione degli stessi appellanti (v. pag. 2 appello) è situato nel centro storico (zona A) del Comune di Francavilla Fontana e risale all’inizio del 1900.
Da ciò consegue che, in relazione alle istanze volte al rilascio di titolo autorizzatorio edilizio concernenti lo stesso, non può formarsi il silenzio-assenso, attesa la tutela cui l’immobile è sottoposto, anche ai sensi dell’art. 136, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 42/2004.
2.2. Come si è detto, risulta fondato il secondo motivo di appello, posto che il Comune avrebbe dovuto più approfonditamente considerare la documentazione fornita dagli appellanti (comprensiva di planimetrie e di documentazione fotografica), al fine di stabilire la consistenza del fabbricato in ordine al quale era stato richiesto il titolo edilizio.
Ciò non significa che incombe sulla Pubblica Amministrazione l’onere di comprovare detta consistenza (ponendosi tale onere, come è evidente, a carico dell’istante), ma, al tempo stesso, non risulta coerente con la tutela delle facultates agendi del proprietario e con le disposizioni in tema di ristrutturazione edilizia [art. 3, lett. c), DPR n. 380/2001], il diniego di una istanza volta ad ottenere il permesso di costruire per ristrutturazione edilizia attesa la “impossibilità” di definire la preesistente consistenza del manufatto.
E ciò in presenza, come nel caso di specie, di riscontro dell’esistenza del fabbricato in catasto, di atti di compravendita del medesimo e di una pluralità di rilievi fotografici, che possono condurre, anche in via deduttiva, a stabilire la più volte citata consistenza (anche in misura inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo).
Nel caso di specie, dunque, a fronte della documentazione prodotta dagli interessati (in atti, ed esibita anche nel giudizio di I grado: v. attestazione del 14.03.2017), non può condividersi la sentenza impugnata, laddove essa assume un difetto di allegazione probatoria, anche in giudizio, da parte dei ricorrenti.
Al contrario, deve concludersi per la sussistenza del vizio di difetto di istruttoria nel quale è incorsa l’amministrazione e che rende illegittimo il diniego del permesso di costruire.
2.3. Alla luce di quanto esposto, l’appello deve essere accolto, con riferimento al secondo motivo di impugnazione (sub lett. b) dell’esposizione in fatto), il che dispensa il Collegio dall’esame dell’ulteriore motivo di appello proposto.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
Resta fermo il potere dell’amministrazione di esaminare compiutamente la domanda di permesso di costruire a suo tempo presentata, onde verificare l’effettiva e preesistente consistenza dell’immobile oggetto della domanda di permesso di costruire, nonché ogni potere della medesima in ordine alle determinazioni da assumere nel caso di specie, alla luce delle disposizioni urbanistiche ed edilizie ad esso applicabili (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.09.2017 n. 4516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 20 del DPR n. 380 del 2001 non si applica ai casi in cui sussistono vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientale, paesaggistico o culturale.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame si esprime ancora in coerenza con quanto stabilito dall'art. 20 della l. n. 241/1990, che esclude l'applicazione dell'istituto del silenzio assenso, agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico.
Con l'appello in esame, gli interessati impugnano la sentenza 09.03.2017 n. 393, con la quale il TAR per la Puglia, sez. I della sezione staccata di Lecce, ha rigettato il ricorso proposto avverso il provvedimento 11.05.2016, con il quale il Dirigente dell'Ufficio tecnico comunale ha negato il rilascio del permesso di costruire per una ristrutturazione edilizia.
In particolare il motivo dell'impugnazione è che sull'immobile oggetto di istanza di permesso a costruire grava il vincolo ex art. 136 co. 1, lett. c), d.lgs. n. 42/2004, il che esclude che sulla istanza possa formarsi il silenzio-assenso.
Devono, dunque, ritenersi ricomprese nei casi per i quali è esclusa la formazione del silenzio assenso, le domande volte ad ottenere titoli edilizi relativi ad immobili situati in zona A del territorio comunale, posto che tale zona, ai sensi dell'art. 2 D.M. n. 1444/1968 è quella costituente parte del territorio interessata "da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi" (commento tratto dalla newsletter Ancitel 05.10.2017 - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.09.2017 n. 4516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Ristorante emissione di fumi e vapori maleodoranti - Molestie olfattive promananti da impianto munito di autorizzazione - Emissioni in atmosfera - Criteri della normale tollerabilità e stretta tollerabilità - Cortile condominale - Art. 674 cod. pen. - Art. 844 cod. civ. - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 674 cod. pen. (Getto pericoloso di cose) è configurabile anche in presenza di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti, come nel caso di specie), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche -e, quindi, valori soglia- in materia di odori; con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 cod. civ. in un'ottica strettamente individualistica.
Sicché, nella fattispecie,
trovano applicazione i seguenti principi giurisprudenziali:
   a) l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità;
   b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti.
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1. Con sentenza del 09.02.2016, il Tribunale di Roma dichiarava Gi.Pa. colpevole della contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. e, per l'effetto, lo condannava alla pena di 500,00 euro di ammenda; allo stesso, quale titolare del ristorante "La Ba.", era contestato di aver provocato l'emissione di fumi e vapori maleodoranti nel cortile condominale, atti a molestare i soggetti indicati nel capo di imputazione.
...
5. Quanto precede, peraltro, con l'annotazione che la sentenza in esame ha fatto buon governo del principio -costantemente affermato in questa sede di legittimità- a mente del quale
il reato di cui all'art. 674 cod. pen. (Getto pericoloso di cose) è configurabile anche in presenza di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti, come nel caso di specie), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche -e, quindi, valori soglia- in materia di odori (Sez. 3, n. 37037 del 29/05/2012, Guzzo, Rv. 253675); con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 cod. civ. in un'ottica strettamente individualistica (Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, Alghisi, Rv. 238447).
Da quanto precede, dunque, deriva che, nel caso in esame,
trovano applicazione i seguenti principi, enunciati dalla giurisprudenza sopra richiamata:
   a) l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità;
   b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti
(per tutte, Sez. 3, n. 19206 del 27/03/2008, Crupi, Rv. 239874; in termini, anche Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi, non massimata) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 26.09.2017 n. 44257).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: I camini (ma ciò vale anche per gli impianti di riscaldamento per uso domestico alimentati a nafta) sono assoggettati alla disciplina posta dall'art. 890 cod. civ., che pone una presunzione legale di nocività e pericolosità che è solo "relativa", ed è quindi superabile con la prova che non esiste danno o pericolo per il fondo vicino, quando, come nella specie, non esiste una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una determinata distanza.
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 Rilevato che:
   - la vicenda oggetto del giudizio trae origine dalle asserite immissioni di fumo provenienti dal camino di Ar.Ri.Pa. e patite dal fondo viciniore di proprietà di Di Tu.Do.;
   - a conclusione dei giudizi di merito, il Tribunale di Trani (Sezione distaccata di Canosa di Puglia), riformando la sentenza del locale Giudice di pace, rigettò la domanda con la quale il Di Tu. aveva chiesto la condanna dell'Ar. ad innalzare la canna fumaria sino al filo superiore dell'apertura più alta dell'abitazione dell'attore e a sostituire il comignolo con altro a norma del d.lgs. n. 153/2006;
   - avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione Di Tu.Do. sulla base di un unico motivo;
   - Ar.Ri.Pa. ha resistito con controricorso;
Considerato che:
   - l'unico motivo di ricorso (proposto ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., per avere il Tribunale ritenuto che la canna fumaria non fosse nociva o pericolosa per il fondo del vicino ai sensi dell'art. 890 cod. civ.) è inammissibile, in quanto -premesso che i camini (ma ciò vale anche per gli impianti di riscaldamento per uso domestico alimentati a nafta) sono assoggettati alla disciplina posta dall'art. 890 cod. civ., che pone una presunzione legale di nocività e pericolosità che è solo "relativa", ed è quindi superabile con la prova che non esiste danno o pericolo per il fondo vicino, quando, come nella specie, non esiste una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una determinata distanza (Cass., Sez. 2, n. 10607 del 23/05/2016; Sez. 2, n. 4286 del 22/02/2011; Sez. 2, n. 22389 del 22/10/2009)- la doglianza, per un verso, si riduce ad una censura di merito in ordine alla valutazione delle risultanze della esperita C.T.U., e, per altro verso, risulta non specifica per difetto di autosufficienza, laddove si lamenta che non siano state valutate le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale e di escussione dei testimoni, senza trascriverle per intero nel ricorso, in modo da consentire a questa Corte di vagliarne la decisività;
   - il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.09.2017 n. 22367).

CONSIGLIERI COMUNALI: La decadenza, intesa quale misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato astensionismo di un consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica politica.
Nella fattispecie in esame l'organo giudicante ha disposto l'annullamento di una delibera del consiglio che dichiarava decaduti alcuni consiglieri ai sensi dello statuto comunale, in quanto non intervenuti, alle sedute del consiglio per un lungo periodo. Il periodo di assenza infatti, risultava deliberato e preannunciato dagli stessi consiglieri dichiarati decaduti, in conformità ad una decisione assunta dai gruppi consiliari di appartenenza, adeguatamente motivata in relazione ad un atteggiamento della maggioranza che li aveva esclusi dalle scelte amministrative più significative.
L'art. 43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone che «lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative», rimettendo dunque all'autonomia riconosciuta all'ente locale di disciplinare le ipotesi di decadenza, ma anche garantendo la possibilità del consigliere comunale di esprimere le proprie giustificazioni.
La Sezione ha recentemente ribadito il proprio indirizzo secondo cui le circostanze da cui consegue la decadenza del consigliere comunale vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all'esercizio di un munus publicum, considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto dell'istituto come strumento di discriminazione delle minoranze (Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743) (commento tratto dalla newsletter Ancitel 05.10.2017 - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.09.2017 n. 4433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1.- Principiando dalla disamina dell’appello incidentale, concernente il capo della sentenza con cui è stata dichiarata l’illegittimità della delibera di decadenza dei consiglieri appellanti principali, e dunque con carattere preliminare od assorbente, va rilevato che lo stesso, ad avviso del Collegio, è infondato, e deve pertanto essere disatteso.
In particolare, deduce il Comune di Caprino Bergamasco la violazione degli artt. 12, comma 5, dello statuto comunale e 43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, censurando la sentenza dei prime cure laddove ha ritenuto giustificato, come strumento di lotta politica, l’astensionismo deliberato e preannunciato, ancorché superiore al periodo di maturazione della decadenza, in quanto la carica di consigliere comunale non attribuisce uno status, ma una funzione, che deve essere svolta attraverso l’esercizio del diritto di voto, sia pure di dissenso.
L’assunto non è condivisibile, in quanto
la decadenza, intesa quale misura sanzionatoria, non può riguardare il deliberato astensionismo di un consigliere comunale che viene esercitato in un contesto di dialettica politica tra maggioranza ed opposizione di documentata conflittualità, come si evince anche dalla relazione del Ministero dell’Interno in data 17.07.2003 (acuita dal fatto che nel giugno 2002 è stato modificato il regolamento consiliare, con l’introduzione di una disposizione relativa alla decadenza dalla carica di consigliere al verificarsi di almeno tre assenze).
L’art. 43, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone che «lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative», rimettendo dunque all’autonomia riconosciuta all’ente locale di disciplinare le ipotesi di decadenza, ma anche garantendo la possibilità del consigliere comunale di esprimere le proprie giustificazioni.
La Sezione ha recentemente ribadito il proprio indirizzo secondo cui
le circostanze da cui consegue la decadenza del consigliere comunale vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum, considerando dunque che gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati attentamente, anche al fine di evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione delle minoranze (Cons. Stato, V, 20.02.2017, n. 743).
Ne consegue che
le assenze danno luogo a decadenza dalla carica qualora la giustificazione addotta dall’interessato sia relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce, sì da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi (Cons. Stato, V, 29.11.2004, n. 7761), ovvero, più in generale, quando dimostrano con ragionevole evidenza un atteggiamento di disinteresse per motivi futili od inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo (Cons. Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
Nel caso di specie l’astensionismo degli appellanti principali, ancorché superiore al periodo previsto, risulta deliberato e preannunciato, in conformità ad una decisione assunta dai gruppi consiliari di appartenenza ed adeguatamente motivata in relazione ad un asserito atteggiamento della maggioranza che li ha esclusi dalle scelte amministrative più significative, come è dato desumere dalla seduta consiliare del 15.05.2003, conclusasi con la pronunzia di decadenza.
Per tali ragioni merita conferma la sentenza appellata nella parte in cui ha accolto l’azione impugnatoria.

EDILIZIA PRIVATA: Come chiarito dall’univoco orientamento della giurisprudenza, i muri di contenimento possiedono una struttura idonea, per consistenza e modalità costruttive, a sorreggere le spinte del terreno medesimo e dunque, pur potendo avere concomitante funzione di confine, quest’ultima è solo accessoria ed eventuale, mentre quella principale ne rappresenta un’utilità specifica per il proprietario, autonomamente valutabile e comunque comportante un’alterazione significativa dello stato dei luoghi, con conseguente soggezione al regime del permesso a costruire.
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Il ricorso è privo di fondamento.
Con il primo motivo parte ricorrente adduce che le rilevate difformità nell’altezza dei muri di contenimento realizzati sarebbero di scarsa entità rispetto all’opera complessivamente intesa; esse sarebbero fisiologiche nell’ambito dell’esecuzione delle opere, in quanto derivanti dalla particolare conformazione del terreno che ha imposto l’innalzamento dell’altezza dei muti progettati.
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Deve anzitutto rilevarsi la non contestazione nell’an e nel quantum delle violazioni rilevate dall’Amministrazione con riferimento alla maggiore altezza dei muri di contenimento rispetto a quella autorizzata nei provvedimenti abilitativi.
Deve altresì rilevarsi che la maggiore altezza realizzata non è affatto di trascurabile entità, come pretenderebbe parte ricorrente, incidendo per oltre un metro rispetto a quella assentita (rispettivamente metri 2 e 3), con la conseguenza che anche da un punto di vista paesaggistico, tenuto conto che la zona è sottoposta al relativo vincolo, la variazione non può non avere riflessi apprezzabili, alterando sostanzialmente la configurazione originaria dell’opera assentita.
Parte ricorrente nega poi la contestata traslazione di due parti dei muri di contenimento, ma si limita sul punto a sovrapporre la propria diversa valutazione a quella operata dall’Amministrazione.
Sempre in via preliminare deve precisarsi che, come chiarito dall’univoco orientamento della giurisprudenza da cui il Tribunale non ha motivo per discostarsi, i muri di contenimento possiedono una struttura idonea, per consistenza e modalità costruttive, a sorreggere le spinte del terreno medesimo e dunque, pur potendo avere concomitante funzione di confine, quest’ultima è solo accessoria ed eventuale, mentre quella principale ne rappresenta un’utilità specifica per il proprietario, autonomamente valutabile e comunque comportante un’alterazione significativa dello stato dei luoghi, con conseguente soggezione al regime del permesso a costruire (cfr. TAR Calabria, sez. dist. Reggio Calabria, 16.04.2014, n. 186; TAR Napoli, sez. IV, 26.10.2012, n. 4275; cfr. anche TAR Piemonte, 18.12.2013, n. 1368; TAR l’Aquila, 14.02.2013, nr. 145; TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.02.2013, nr. 1210; TAR Milano, sez. II, 08.11.2012, nr. 2687 ed altre).
Del resto ciò è quanto la stessa parte ricorrente ha mostrato di intendere nel momento in cui ha proposto istanza per il conseguimento del Permesso di costruire e per l’autorizzazione paesaggistica per le opere oggetto di causa.
Ciò posto, le variazioni introdotte rispetto a quanto assentito nei titoli abilitativi non possono imputarsi alle difficoltà riscontrate in sede di esecuzione, come pretenderebbe parte ricorrente, atteso che come rilevato dalla resistente Amministrazione sia l’addotto avvallamento della strada comunale che il palo dell’Enel e la scala dell’abitazione del confinante, erano circostanze in fatto preesistenti, per cui non possono essere valide a legittimare, in via successiva, le difformità contestate con l’ordinanza de qua.
Peraltro, pure a prescindere da siffatta considerazione in fatto, e si viene così allo scrutinio anche del secondo motivo di ricorso, non può ritenersi che l’aumento dell’altezza dei muri di contenimento possa essere considerata alla stregua di una minima variazione (di tipo esecutivo) non incidente sui parametri edilizi e sottoposta pertanto a mera segnalazione, secondo quanto previsto all’art. 22 del d.P.R.
Deve infatti rammentarsi che l’area sulla quale insistono le opere in questione è soggetta a vincolo paesaggistico, tanto è vero che il progetto originario è stato oggetto del provvedimento abilitativo della relativa Amministrazione, con la conseguenza che ogni variazione di esso avrebbe dovuto essere sottoposta al medesimo iter autorizzativo, come confermato dall’articolo 32, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001.
Ne consegue che parte ricorrente, prima di apportare le modifiche rilevate e non contestate, avrebbe dovuto riattivare l’iter autorizzativo e ottenere l’assenso delle autorità competenti, in assenza del quale le modifiche devono ritenersi abusivamente realizzate (TAR Molise, sentenza 22.09.2017 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La granitica giurisprudenza sul tema afferma che per gli atti sanzionatori di abusi edilizi, qual è l’ordinanza di demolizione, l’Amministrazione non sarebbe nemmeno tenuta a comunicare l’avvio del procedimento, trattandosi di atto vincolato e dovuto.
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Con il terzo motivo parte ricorrente deduce la violazione dell’obbligo di motivazione in quanto nel provvedimento gravato non si sarebbe tenuto conto del contributo fornito con le deduzioni prodotte in sede contraddittorio procedimentale con le osservazioni proposte dal direttore dei lavori.
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Occorre ricordare che la granitica giurisprudenza sul tema afferma che per gli atti sanzionatori di abusi edilizi, qual è l’ordinanza di demolizione, l’Amministrazione non sarebbe nemmeno tenuta a comunicare l’avvio del procedimento, trattandosi di atto vincolato e dovuto (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.03.2013, n.1268).
Ciò nonostante, nel caso di specie, non è contestato che parte ricorrente abbia comunicato scritti difensivi (in data 26.08.2016) instaurando un contraddittorio senza contestare il dato fattuale della variazione delle altezze dei muri di contenimento, confermando nella sostanza le violazioni rilevate nell’ordine di demolizione (TAR Molise, sentenza 22.09.2017 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: E’ legittimo l’esercizio dell’esercizio del diritto di critica che, nel denunciare la condotta tenuta da un altro funzionario e ritenuta scorretta, utilizzi un linguaggio contenuto, limitandosi a prefigurare che il funzionario non avesse rispettato il suo dovere di imparzialità.
I cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano irregolari o illegali.
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RITENUTO IN FATTO
1 - Con sentenza del 03.02.2017 il Tribunale di Catania confermava la sentenza del Giudice di pace di Adrano che aveva ritenuto Ni.Me. colpevole del delitto di diffamazione aggravata, per avere offeso la reputazione di Sa.Co., dirigente del Comune di Adrano, inviando una lettera al sindaco del medesimo comune ed al segretario della Corte dei conti in cui aveva affermato che la mancata definizione di una pratica di suo interesse era derivata dal comportamento doloso e colposo del Co..
Il Tribunale confermava il giudizio di condanna considerando che le ragioni del Me. non avevano trovato accoglimento nel procedimento giurisdizionale amministrativo che questi aveva intentato e che le espressioni contenute nella missiva non erano contenute, erano lesive della professionalità del Co. ed erano destituite di ogni fondamento.
2 - Propone ricorso l'imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.
2-1 - Con il primo motivo deduce il difetto di motivazione avendo il Tribunale ignorato le censure mosse in ordine alla nullità della sentenza di primo grado in riferimento alla mancata notifica dall'imputato ed al suo difensore dell'atto di citazione a giudizio davanti al Giudice di pace.
Si era eccepito che, nella data indicata nel decreto di citazione, l'08.11.2014, il Giudice di pace di Adrano non aveva tenuto alcuna udienza. Dopo alcuni rinvii generici, per tutti i procedimenti fissati in quei determinati giorni, il Giudice aveva fissato, all'udienza del 18.07.2015, il rinvio del processo all'udienza del 07.11.2015, nel corso della quale il difensore aveva eccepito la nullità del decreto di citazione perché relativo ad udienza non tenuta.
Con ordinanza del 21.11.2015 il Giudice aveva rigettato l'eccezione sulla scorta del fatto che i decreti di spostamento delle date di udienza, emessi il 05.09.2014 ed il 23.04.2015, erano stati correttamente comunicati all'imputato ed al suo difensore. Ciò, però, almeno in riferimento al decreto del 05.09.2014, non rispondeva al vero.
2-2 - Con il secondo motivo lamenta il difetto di motivazione in ordine alle censure mosse con il secondo motivo di appello.
La motivazione sul punto del Tribunale era meramente apparente.
Non si era tenuto conto del fatto che Co. aveva illegittimamente disposto la sospensione della procedura amministrativa e che, comunque, le critiche mosse al suo operato dal Messina, con espressioni contenute, erano la mera espressione del suo diritto di critica.
Al tempo, infatti, Co. non era neppure il responsabile del procedimento ed aveva agito nonostante l'avvenuta approvazione del competente organo collegiale, la giunta comunale. Ne aveva disposto la sospensione, assumendo di volerne verificare la regolarità, nonostante fosse del tutto carente di tale potere, senza neppure individuare alcun concreto profilo di illegittimità della delibera.
La giustizia amministrativa poi non aveva affermato la legittimità di tale operato ma aveva solo respinto la richiesta di risarcimento avanzata dal privato. Negando vi fosse responsabilità contrattuale ma affermando invece la sussistenza della responsabilità precontrattuale, condannando l'ente a rifondere le spese sostenute dalla società dell'imputato.
I rilievi mossi dal medesimo ricorrente dovevano essere pertanto valutati alla luce di tale conclusione e considerando che la sua azione doveva esser valutata al momento di cui questa si era consumata e non alla luce di successivi approfondimenti giurisdizionali.
Né poteva considerarsi legittima la successiva astensione del Co. dall'occuparsi della procedura e doveva considerarsi il fatto che ciò aveva comunque determinato la definitiva stasi della stessa. Circostanza questa che legittimava il diritto di critica del Me..
Critica esercitata senza trascendere in espressioni di per sé offensive e che si erano appuntate sui fatti accaduti che l'imputato riteneva illegittimi tanto da interessarne il giudice amministrativo davanti al quale aveva lamentato che si fosse giunti alla ingiustificata paralisi del procedimento.
La nota era stata poi inviata a destinatari che comunque potevano esercitare un'attività di controllo sull'operato del funzionario.
Tutte questioni non realmente esaminate dal giudice dell'appello.
2-3 - Con il terzo motivo lamenta il mancato proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., in quanto l'autore materiale della nota era stato il legale dell'imputato e questi l'aveva sottoscritta solo per rendere operativo il recesso della società, uno dei contenuti espressi della stessa.
Il ricorrente non aveva pertanto consumato il reato o ne era comunque assente quantomeno il dolo. In ogni caso, come si è detto, le espressioni usate nella nota non erano offensive o diffamatorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il secondo motivo di ricorso è fondato, per le ragioni che si illustreranno, e tale accoglimento assorbe le ulteriori doglianze.
1 - Deve comunque precisarsi, trattandosi di eccezione di natura processuale e quindi preliminare, che è infondata la censura mossa nel primo motivo, posto che le osservazioni spese dal ricorrente non colgono nel segno.
Il decreto di citazione, infatti, non era nullo perché in esso era stata regolarmente e correttamente indicata la data della prima udienza della fase dibattimentale.
Vero è che tale udienza non si era poi tenuta ma ciò non aveva determinato alcuna nullità dell'atto introduttivo del giudizio ma solo la necessaria verifica che la successiva udienza fosse stata regolarmente ed adeguatamente comunicata all'imputato ed al suo difensore. Comunicazione che, non avvenuta compiutamente con i primi rinvii, si era invece avuta, con la necessaria completezza, quando, all'udienza del 18.07.2015, il Giudice aveva disposto la notifica agli aventi diritto del decreto di citazione integrato da copia del verbale di udienza ove si fissava la data di prima comparizione al 07.11.2015, decreto e verbale regolarmente comunicati all'imputato ed al suo difensore che così erano venuti a perfetta conoscenza del giorno in cui si sarebbe celebrato il processo (per quella imputazione).
Corretta era stata pertanto la decisione del Giudice di pace di rigetto dell'eccezione di nullità della citazione a giudizio.
2 - Quanto al merito si è detto che il ricorso è fondato.
Sa.Co., infatti,
con la lettera inviata al sindaco ed al magistrato della Corte dei Conti, aveva inteso denunciare una condotta, che aveva ritenuto scorretta, tenuta da un funzionario del Comune in una pratica di suo interesse.
Aveva utilizzato un linguaggio contenuto, limitandosi a prefigurare che il funzionario non avesse rispettato il suo dovere di imparzialità. Del resto lo stesso si era prima interessato della pratica per poi dichiarare che intendeva astenersene.
Se è vero che, ex post, il Tribunale amministrativo regionale aveva affermato che Me. non aveva diritto ad essere risarcito, lo stesso giudice aveva, nel contempo, affermato che l'ente era incorso in una responsabilità di tipo precontrattuale.
Ne discende che,
ferma rimanendo la contenutezza del linguaggio utilizzato nella missiva (peraltro indirizzata proprio agli organi di controllo dell'operato del funzionario la cui condotto si era sottoposta a critica), nella stessa non si erano superati i limiti della pertinenza dell'argomentazione e della verità dei fatti esposti, almeno in relazione alla posizione soggettiva del ricorrente e all'andamento della pratica di suo interesse.
Si conclude così per la non punibilità del Me. avendo egli esercitato un suo diritto di denuncia dell'operato del pubblico funzionario (agli organi preposti) e di critica del medesimo.
In relazione al diritto di denuncia della condotta, ritenuta scorretta, del pubblico funzionario, giova citare l'arresto della Corte EDU n. 14881/2003 Zakharov c. Russia, in riferimento alla denunciata violazione dell'art. 10 della convenzione (sulla "libertà di espressione" ed i suoi limiti), in cui si è affermato che
i cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano irregolari o illegali.
Un principio di diritto che si attaglia perfettamente al caso di specie ove il cittadino Co. aveva denunciato agli organi preposti al controllo dell'azione del funzionario Me. la condotta che questi aveva tenuto, nel trattare una pratica di suo interesse, che appariva, nella fase in cui era stata sporta la denuncia, irregolare, come aveva ex post dimostrato la ritenuta responsabilità dell'ente pur sotto il solo profilo della responsabilità precontrattuale.
La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio non essendo l'imputato punibile per avere esercitato il suo diritto di denuncia e di critica e non prospettandosi l'utilità ai fini del decidere di alcun ulteriore approfondimento in fatto (Corte di Cassazione, Sez. feriale civile, sentenza 21.09.2017 n. 43139).

EDILIZIA PRIVATA: Com’è noto, la falsa o inesatta rappresentazione dello stato di luoghi in base al quale un soggetto chieda di effettuare (e, in concreto, effettui) un intervento di trasformazione del territorio, ben legittima la P.A. a far venire meno, mediante autotutela, il titolo così illegittimamente formato, tuttavia non consente affatto di ritenere tamquam non esset il titolo comunque formato e tuttora consolidato in capo al beneficiario e/o aventi causa.
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L’opera realizzata rispettando la concessione edilizia, ma in contrasto con la norma urbanistica, non può essere oggetto di sanzione amministrativa in quanto la concessione stessa funge da titolo legittimante e la licenza edilizia illegittima può essere solo oggetto di annullamento e non di sanzione amministrativa, la quale riguarda opere edilizie eseguite senza concessione o in contrasto con la concessione.
E' illegittima l’ordinanza con cui il Comune, senza previamente annullare la licenza edilizia, ha irrogato una sanzione pecuniaria al proprietario di un edificio, realizzato in conformità a detto titolo e all’atto d’obbligo gravante sul terreno, sebbene con fondamenta inadeguate al rilascio del titolo previsto in quella zona del piano particolareggiato.
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Il ricorso all’esame ha ad oggetto l’ordinanza di demolizione contestata all’odierna parte ricorrente con riferimento ad opere asseritamente realizzate in assenza di titoli edilizi
Segnatamente, le opere contestate consistono in: opere di contenimento in c.a.; terrazzamenti ed opere di viabilità, modifica delle scale di accesso ai terrazzi; bacino artificiale di raccolta delle acque, denominato nel permesso di costruire n. 10/11 vasca per riserva idrica, sistemazione delle aree pertinenziali dei due fabbricati; locale tecnico di forma irregolare, posto in aderenza al fabbricato avente superficie di metri quadrati 5,93 con altezza variabile da 2, 15 a 2.50; locale tecnico a servizio del bacino artificiale, delle dimensioni di mq. 12 circa, altezza di ml. 2.10.
Con i primi due motivi dedotti che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, la parte ricorrente lamenta che la sanzione demolitoria sarebbe illegittima per essere intervenuta in pendenza di un procedimento sanzionatorio non ancora concluso e, soprattutto, per interventi assentiti in forza dei predetti titoli (in pratica i ricorrenti sostengono che le opere realizzate non sono qualificabili come interamente abusive perché corrispondono al progetto autorizzato dal comune che essi hanno in parte eseguito e aggiungono che le modifiche al progetto risultano “riduttive” rispetto a quanto illo tempore assentito).
Le doglianze sono fondate.
Osserva, in proposito, il Collegio che il sistema disegnato dal T.U. Edilizia consente la comminazione di sanzioni, ripristinatorie e/o pecuniarie avuto riguardo ad opere edilizie che siano state realizzate in assenza o in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia ovvero, ove l’attività sia stata permessa all’esito di procedimento, concessorio e/o autorizzatorio, ove le opere non siano rispettose di quanto prescritto nel titolo, che funge, pertanto, da parametro –interposto- di conformità dell’opera.
Il caso di specie è caratterizzato appunto dalla circostanza, peraltro denunciata dal ricorrente, della copertura e della sostanziale aderenza degli interventi contestati (ad eccezione per gli allegati lavori in variante per i quali pendono istanze di accertamento di compatibilità), con quanto assentito dai sopra richiamati titoli edili a suo tempo dal Comune rilasciati (e da ultimo con permesso di costruire n. 10/11).
Né rileva, come osservato, che il titolo sia stato rilasciato sul presupposto di non completa, o addirittura inesatta o fuorviante, rappresentazione dei luoghi, giacché il titolo abilitativo si forma e si consolida sulla base di quanto in esso -e nei suoi allegati, grafici e progettuali- previsto.
Del resto, com’è noto, la falsa o inesatta rappresentazione dello stato di luoghi in base al quale un soggetto chieda di effettuare (e, in concreto, effettui) un intervento di trasformazione del territorio, ben legittima la P.A. a far venire meno, mediante autotutela, il titolo così illegittimamente formato, tuttavia non consente affatto di ritenere tamquam non esset il titolo comunque formato e tuttora consolidato in capo al beneficiario e/o aventi causa.
In estrema sintesi, ciò che il Comune ha inteso tardivamente contestare sono i titoli in precedenza rilasciati, in pendenza peraltro di un procedimento in autotutela ex art. 21-nonies della L. 241/1990, avviato ma non ancora concluso.
Sul piano giuridico, soccorre allora la giurisprudenza formatasi in fattispecie analoga, secondo cui “l’opera realizzata rispettando la concessione edilizia, ma in contrasto con la norma urbanistica, non può essere oggetto di sanzione amministrativa in quanto la concessione stessa funge da titolo legittimante e la licenza edilizia illegittima può essere solo oggetto di annullamento e non di sanzione amministrativa, la quale riguarda opere edilizie eseguite senza concessione o in contrasto con la concessione” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, n. 842/2002) ed “è illegittima l’ordinanza con cui il Comune, senza previamente annullare la licenza edilizia, ha irrogato una sanzione pecuniaria al proprietario di un edificio, realizzato in conformità a detto titolo e all’atto d’obbligo gravante sul terreno, sebbene con fondamenta inadeguate al rilascio del titolo previsto in quella zona del piano particolareggiato” (cfr. Cons. di Stato, n. 1113/1995).
Le considerazioni che precedono consentono di accogliere il ricorso, potendo restare assorbiti gli ulteriori profili di censura dedotti (TAR Lazio-Latina, sentenza 20.09.2017 n. 463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non ritiene il Collegio che con il pagamento, da parte della società ricorrente, della somma richiesta a titolo di oneri concessori, sia stata integrata un’ipotesi di acquiescenza idonea ad incidere sul diritto di azione.
Invero, l’acquiescenza postula atti e comportamenti univoci posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto che dimostrino la sua chiara ed irrevocabile volontà di accettarne gli effetti.
In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l’accertamento in ordine all’avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato e volto a ricostruire tutti gli elementi che caratterizzano la dichiarazione negoziale, da cui deve risultare senza margini di incertezza la presenza di una chiara e definitiva intenzione di non rimettere in discussione l’assetto impresso dall’atto lesivo.
E’, peraltro, pacifico in giurisprudenza che la mera esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è dunque comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell’univoca e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell’esigenza di evitare le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza.
I medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento, al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi, escludendo che ricorra il requisito della univoca manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo, e quindi a rinunciare all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di diritto soggettivo.

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1 - Espone in fatto la società odierna ricorrente di aver presentato, in data 01.03.1995, istanza di sanatoria per il cambio di destinazione d’uso di un immobile, di sua proprietà, da industriale a commerciale.
Tale istanza è stata accolta, con rilascio della concessione in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, la quale è stata oggetto di istanza di riesame con riferimento all’errore materiale nell’indicazione della relativa superficie, pari a 1 mq.
A seguito dell’accoglimento di tale istanza di riesame, il Comune ha proceduto alla quantificazione degli oneri concessori, nella misura di € 136.469,60, somma pagata dalla ricorrente e della quale, in questa sede giurisdizionale, viene chiesta la restituzione nell’asserito presupposto della non debenza di oneri concessori.
A sostegno dell’assunto, rappresenta parte ricorrente che, venendo in rilievo un cambio di destinazione d’uso da industriale a commerciale, ed essendo il cambio di destinazione d’uso soggetto, ai sensi dell’art. 25 della legge n. 47 del 1985, alla semplice autorizzazione, la stessa sarebbe sottratta al pagamento degli oneri concessori.
Lamenta, inoltre, parte ricorrente l’illegittimità della richiesta in quanto conseguente al riesame della concessione in sanatoria nella parte in cui veniva indicata la superficie di 1 mq.
Chiede, quindi, parte ricorrente, previo annullamento della gravata nota, la condanna dell’intimata Amministrazione alla restituzione delle somme versate a titolo di oneri concessori, oltre interessi dalla data del versamento o, in subordine, dalla data della domanda.
Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione Comunale sostenendo, con articolate argomentazioni, l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispondente pronuncia.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insistendo nella proprie deduzioni ed ulteriormente argomentando.
Alla pubblica udienza del 10.07.2017 la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti, trattenuta per la decisione, come da verbale.
2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del presente giudizio, ne ritiene il Collegio l’infondatezza.
La controversia, riconducibile tra le materie di giurisdizione esclusiva, concerne l’accertamento della debenza degli oneri concessori a seguito del rilascio, in data 12.07.2000, della concessione in sanatoria –come poi integrata in sede di correzione di errore materiale, rettificando la superficie da 1 mq a 1.218,18 mq– per l’avvenuto cambio di destinazione d’uso di un immobile da industriale a commerciale.
In via preliminare, deve essere rigettata l’eccezione, sollevata dalla resistente Amministrazione, di intervenuta acquiescenza, da parte della ricorrente, all’assetto impresso dalla nota –anch’essa gravata con il ricorso in esame– con la quale è stata determinata e richiesta la somma di € 136.469,60, per oneri concessori, stante l’intervenuto pagamento di tale somma da parte della società ricorrente senza riserva alcuna.
Non ritiene, invero, il Collegio, che con il pagamento, da parte della società ricorrente, della somma richiesta a titolo di oneri concessori, sia stata integrata un’ipotesi di acquiescenza idonea ad incidere sul diritto di azione.
Invero, l’acquiescenza postula atti e comportamenti univoci posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto che dimostrino la sua chiara ed irrevocabile volontà di accettarne gli effetti.
In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l’accertamento in ordine all’avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato e volto a ricostruire tutti gli elementi che caratterizzano la dichiarazione negoziale, da cui deve risultare senza margini di incertezza la presenza di una chiara e definitiva intenzione di non rimettere in discussione l’assetto impresso dall’atto lesivo.
E’, peraltro, pacifico in giurisprudenza che la mera esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è dunque comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell’univoca e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell’esigenza di evitare le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza.
I medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento, al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi, escludendo che ricorra il requisito della univoca manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo, e quindi a rinunciare all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di diritto soggettivo (Cons. di Stato, V, nn. 296/1996 e 108/1991; TAR Firenze, 11.03.2004, n. 671).
Disattesa l’eccezione di acquiescenza sollevata dalla resistente Amministrazione, con conseguente ammissibilità della proposta azione, ne rileva tuttavia il Collegio l’infondatezza.
Destituita di fondamento deve ritenersi, innanzitutto, la tesi di parte ricorrente –meglio esplicitata nelle memorie difensive– in base alla quale non sarebbero dovuti gli oneri concessori per i mutamenti di destinazione d’uso avvenuti in epoca antecedente al 1985, e quindi prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, allorquando il titolo edilizio era costituito dalla licenza edilizia gratuita.
La disciplina edilizia applicabile va invero rinvenuta in quella in vigore all’epoca –non della realizzazione dell’abuso– ma del rilascio della concessione in sanatoria, con conseguente doverosa applicazione dei parametri previsti per il rilascio della concessione relativamente ad opere soggette a permesso a costruire.
Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale, integra un mutamento tra categorie funzionali distinte e non omogenee che determina un incremento del carico urbanistico, soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione del vantaggio economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
In conclusione, alla luce delle considerazioni sopra illustrate, accertato l’obbligo di pagamento degli oneri concessori in relazione al rilascio della concessione in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, va rigettata la proposta azione volta ad ottenere l’accertamento della non debenza di tali oneri e la restituzione delle somme già versate a tale titolo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 19.09.2017 n. 9818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale comporta un incremento del carico urbanistico e conseguente aggravio degli oneri concessori.
Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale, integra un mutamento tra categorie funzionali distinte e non omogenee che determina un incremento del carico urbanistico, soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione del vantaggio economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
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1 - Espone in fatto la società odierna ricorrente di aver presentato, in data 01.03.1995, istanza di sanatoria per il cambio di destinazione d’uso di un immobile, di sua proprietà, da industriale a commerciale.
Tale istanza è stata accolta, con rilascio della concessione in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, la quale è stata oggetto di istanza di riesame con riferimento all’errore materiale nell’indicazione della relativa superficie, pari a 1 mq.
A seguito dell’accoglimento di tale istanza di riesame, il Comune ha proceduto alla quantificazione degli oneri concessori, nella misura di € 136.469,60, somma pagata dalla ricorrente e della quale, in questa sede giurisdizionale, viene chiesta la restituzione nell’asserito presupposto della non debenza di oneri concessori.
A sostegno dell’assunto, rappresenta parte ricorrente che, venendo in rilievo un cambio di destinazione d’uso da industriale a commerciale, ed essendo il cambio di destinazione d’uso soggetto, ai sensi dell’art. 25 della legge n. 47 del 1985, alla semplice autorizzazione, la stessa sarebbe sottratta al pagamento degli oneri concessori.
Lamenta, inoltre, parte ricorrente l’illegittimità della richiesta in quanto conseguente al riesame della concessione in sanatoria nella parte in cui veniva indicata la superficie di 1 mq.
Chiede, quindi, parte ricorrente, previo annullamento della gravata nota, la condanna dell’intimata Amministrazione alla restituzione delle somme versate a titolo di oneri concessori, oltre interessi dalla data del versamento o, in subordine, dalla data della domanda.
Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione Comunale sostenendo, con articolate argomentazioni, l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispondente pronuncia.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insistendo nella proprie deduzioni ed ulteriormente argomentando.
Alla pubblica udienza del 10.07.2017 la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti, trattenuta per la decisione, come da verbale.
2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del presente giudizio, ne ritiene il Collegio l’infondatezza.
La controversia, riconducibile tra le materie di giurisdizione esclusiva, concerne l’accertamento della debenza degli oneri concessori a seguito del rilascio, in data 12.07.2000, della concessione in sanatoria –come poi integrata in sede di correzione di errore materiale, rettificando la superficie da 1 mq a 1.218,18 mq– per l’avvenuto cambio di destinazione d’uso di un immobile da industriale a commerciale.
...
Destituita di fondamento deve ritenersi, innanzitutto, la tesi di parte ricorrente –meglio esplicitata nelle memorie difensive– in base alla quale non sarebbero dovuti gli oneri concessori per i mutamenti di destinazione d’uso avvenuti in epoca antecedente al 1985, e quindi prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, allorquando il titolo edilizio era costituito dalla licenza edilizia gratuita.
La disciplina edilizia applicabile va invero rinvenuta in quella in vigore all’epoca –non della realizzazione dell’abuso– ma del rilascio della concessione in sanatoria, con conseguente doverosa applicazione dei parametri previsti per il rilascio della concessione relativamente ad opere soggette a permesso a costruire.
Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale, integra un mutamento tra categorie funzionali distinte e non omogenee che determina un incremento del carico urbanistico, soggiacendo, pertanto, all’onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all’aggravio del carico urbanistico.
L’incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d’uso senza opere, è dunque presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione del vantaggio economico che ritrae il richiedente e l’aggravio urbanistico in relazione all’incremento dei flussi di traffico e di clientela che la destinazione commerciale (rispetto alla iniziale destinazione industriale) necessariamente implica.
In conclusione, alla luce delle considerazioni sopra illustrate, accertato l’obbligo di pagamento degli oneri concessori in relazione al rilascio della concessione in sanatoria n. 236986 del 12.07.2000, va rigettata la proposta azione volta ad ottenere l’accertamento della non debenza di tali oneri e la restituzione delle somme già versate a tale titolo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 19.09.2017 n. 9818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Condominio, Tar Lombardia: ok allo scarico a parete se la canna fumaria collettiva non è idonea. Accolto il ricorso di un condòmino cui era stato vietato lo scarico a parete.
Cna Installazione e Impianti segnala una recente sentenza del Tar Lombardia –n. 1808/2017 pubblicata il 13 settembre- di estrema importanza per gli installatori e particolarmente utile per dirimere e chiarire ogni problema qualora si dovessero trovare a sostituire un apparecchio a gas in un condominio con scarico in canna collettiva (ramificata o meno) non idonea.
Come è noto, in questi casi la legge (art. 5, commi 9 e 9-bis, D.P.R. 412/1993 modificato dal D.Lgs. 102/2014) consente lo scarico a parete nel rispetto della norma UNI 7129 circa le distanze dello scarico fumi, ma sono altrettanto note le difficoltà ed i problemi pratici che sorgono in queste occasioni.
Nel caso in oggetto, un condòmino che doveva sostituire una caldaia installata su una canna fumaria collettiva, verificato che la stessa non era idonea ne chiedeva l’adeguamento al condominio che però non agiva. Il condòmino in questione, allora, si scollegava dalla canna fumaria e, nel rispetto della normativa, andava a scaricare a parete con una caldaia tipo C a condensazione ed a bassa emissione di NOx.
A seguito delle contestazioni avanzate da un altro condòmino che abitava al piano di sopra, il Comune di Gallarate emetteva un’ordinanza con la quale, richiamando la circolare 8/San del 1995 della Regione Lombardia che, va ricordato, è un “mero atto di indirizzo”, vietava al condòmino lo scarico a parete e obbligava il condominio all’adeguamento della canna fumaria.
A questo punto il condòmino cui era stato vietato lo scarico a parete si rivolgeva al TAR che accoglieva il ricorso per “Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DPR n. 412 del 26.08.1993” e per “Eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto e per motivazione illogica, carente e contraddittoria” ed emetteva una sentenza con cui annullava l’ordinanza del Comune e condannava il Comune stesso (per aver emesso l'ordinanza) ed il condominio (per non aver adeguato la canna fumaria e condiviso l'ordinanza del Comune) al pagamento delle spese processuali e accessorie
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Per una migliore intelligenza delle questioni devolute alla cognizione del Collegio, giova preliminarmente precisare che il condominio controinteressato non ha impugnato l’ordinanza comunale di cui si tratta; l’oggetto del giudizio è quindi riferito alla sola posizione della società ricorrente, da esso esulando le questioni inerenti l’adempimento o meno da parte del condominio all’impugnata ordinanza.
A seguire, il primo motivo di ricorso è fondato.
L’impugnata ordinanza risulta fondata sul presupposto che lo scarico dei fumi della caldaia di cui si tratta dovrebbe essere adeguato «…in quanto non conforme all’art. 3.4.46 del Regolamento Comunale di Igiene (R.C.I.)…».
Tale art. 3.4.46 del regolamento comunale di igiene del Comune (da ora innanzi RCI) è stato versato in atti sia quale allegato al ricorso sub 6, sia dal Comune resistente in data 20.05.2016, sub 5.
Secondo il punto o di tale articolo 3.4.46, i comignoli degli impianti termici devono essere collocati oltre il colmo del tetto.
Dispone l’art. 5, ai commi 9 e 9-bis, del DPR 412/1993, per quanto di interesse: «9. Gli impianti termici installati successivamente al 31.08.2013 devono essere collegati ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione, con sbocco sopra il tetto dell’edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente.
9-bis. E’ possibile derogare a quanto stabilito dal comma 9 nei casi in cui:
   a) si procede, anche nell’ambito di una riqualificazione energetica dell’impianto termico, alla sostituzione di generatori di calore individuali che risultano installati in data antecedente a quella di cui al comma 9, con scarico a parete o in canna collettiva ramificata;
   b) l’adempimento dell’obbligo di cui al comma 9 risulta incompatibile con norme di tutela degli edifici oggetto dell’intervento, adottate a livello nazionale, regionale o comunale;
   c) il progettista attesta e assevera l’impossibilità tecnica a realizzare lo sbocco sopra il colmo del tetto;
   d) si procede alle ristrutturazioni di impianti termici individuali già esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella versione iniziale non dispongano già di camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio, funzionali e idonei o comunque adeguabili alla applicazione di apparecchi a condensazione…
».
Il comma 9 del citato art. 5 prevede quindi l’obbligo di espellere al di sopra del tetto i prodotti della combustione di impianti termici realizzati dopo il 31.08.2013; l’art. 3.4.46 del RCI risulta quindi coerente con il disposto di tale comma 9.
Il successivo comma 9-bis del citato art. 5 prevede però ipotesi di deroga a tale obbligo; tale comma è stato introdotto dall’art. 17-bis, comma 1, del DL 04.06.2013, n. 63, convertito, con modificazioni, dalla Legge 03.08.2013, n. 90, che ha sostituito l’originario comma 9 con gli attuali commi da 9 a 9-quater, e successivamente è stato modificato ad opera dell’art. 14, comma 8, del D.Lgs. 04.07.2014, n. 102, che ha aggiunto due lettere al comma 9-bis.
Il successivo comma 9-quater prevede l’obbligo a carico dei comuni di adeguare i propri regolamenti alle disposizioni di cui ai commi 9, 9-bis e 9-ter.
Risulta dalla documentazione versata in atti che:
   a)
la relazione dei tecnici incaricati dal condominio controinteressato ha precisato che: «…In generale, nelle canne fumarie collettive ramificate non possono coesistere caldaie di tipo B e C, ma possono essere collegate solo caldaie di tipo B. Per quanto detto la canna fumaria ispezionata non è a norma, ed è necessario intervenire con opere di risanamento…» (allegato al ricorso sub 2, pag. 2);
   b)
il condominio controinteressato ha ritenuto «…necessario che chi ha collegato caldaie di tipo C le scolleghi immediatamente dalla canna fumaria…» (verbale dell’assemblea di condominio del 27.05.2013, allegato al ricorso sub 3), ciò imponendo alla società controinteressata di intervenire;
   c)
la società ricorrente ha installato la caldaia in data 30.05.2014, successivamente quindi alla data del 31.08.2013, in sostituzione di altra precedentemente installata (ciò risultando dalla dichiarazione di conformità dell’impianto, allegato al ricorso sub 5).
Risulta quindi che la società ricorrente ben poteva, ai sensi dell’art. 5, comma 9-bis, lett. a), derogare all’obbligo di espellere al di sopra del tetto i prodotti della combustione.
Né a diversa decisione può indurre la circostanza che la società ricorrente non ha impugnato il citato art. 3.4.46 del RCI.
Tale art. 3.4.46 del RCI, non prevedendo le ipotesi di deroga di cui al citato comma 9-bis dell’art. 5 del DPR 412/1993, risulta in contrasto con tale comma 9-bis, ciò da cui discende l’obbligo della sua disapplicazione (in tema di disapplicazione dei regolamenti si rinvia, ex plurimis, a Cons. Stato, Sez. VI, 14.07.2014, n. 3623), trattandosi di norma regolamentare comunale contrastante con norma di legge (essendo stato il comma 9-bis del DPR 412/1993 introdotto dall’art. 17-bis del DL 63/2013, inserito dalla legge di conversione 90/2013, e quindi modificato ad opera dell’art. 14, comma 8, del D.Lgs. 04.07.2014, n. 102).
Il ricorso –assorbito il secondo motivo sul presupposto dell’accoglimento del primo motivo, con cui è stata dedotta una più radicale illegittimità del provvedimento impugnato (sul punto, Cons. Stato, AP, 27.04.2015, n. 5)– va quindi accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 13.09.2017 n. 1808).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha più volte chiarito che “in materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato e non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge”.
Tale onere poi, può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto.
Più di recente la Sezione ha ribadito che “l'autorità urbanistica, pur dovendo sempre espletare un'istruttoria adeguata anche relativamente all'epoca di edificazione (onde individuare il regime giuridico di riferimento), non deve fornire, quale condizione di legittimità per l'irrogazione della sanzione, anche la prova certa dell'epoca di realizzazione dell'abuso, atteso che è posto in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso), ingiunto della demolizione l'onere di provare la risalenza dell'immobile ad epoca anteriore alla legge ponte n. 765 del 1967, che estese l'obbligo di previa licenza edilizia anche alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano”.
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L'01.09.1967 è la data di entrata in vigore della L. n. 765/1967 che estese a tutto il territorio comunale l’obbligo della concessione edilizia prima circoscritto al solo centro urbano.
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I. Sul ricorso principale.
2.1. Con il primo mezzo la ricorrente si duole che il Comune non ha tenuto conto della legittimità delle due costruzioni siccome realizzate anteriormente al 1967 su un’area demaniale posta al di fuori del centro urbano per cui le stesse, in forza dell’art. 31 della L. n. 1150/1942 non erano soggette ad alcun titolo autorizzatorio. L’ordinanza avversata fa riferimento in modo del tutto generico ad un’epoca di costruzione collocabile tra il luglio 1968 e l’aprile 1977 in un caso e nell’altro tra il 31.11.1982 e il 03.10.1988 determinando perplessità sugli adempimenti istruttori effettuati.
2.2. La doglianza non persuade il Collegio e va disattesa, avendo la giurisprudenza più volte chiarito che “in materia edilizia, l'onere della prova in ordine all'epoca di realizzazione di un abuso edilizio grava sull'interessato che intende dimostrare la legittimità del proprio operato e non sul Comune che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge” (TAR Piemonte, Sez. I, 05.06.2009, n. 1564; TAR Sicilia-Palermo, sez. III, 26.10.2005, n. 4099; in tal senso anche TAR Umbria, 10.07.2003, n. 589; TAR Basilicata, 29.04.2003, n. 370).
Tale onere poi, può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. TAR Umbria, 10.07.2003, n. 589).
Più di recente la Sezione ha ribadito che “l'autorità urbanistica, pur dovendo sempre espletare un'istruttoria adeguata anche relativamente all'epoca di edificazione (onde individuare il regime giuridico di riferimento), non deve fornire, quale condizione di legittimità per l'irrogazione della sanzione, anche la prova certa dell'epoca di realizzazione dell'abuso, atteso che è posto in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso), ingiunto della demolizione l'onere di provare la risalenza dell'immobile ad epoca anteriore alla legge ponte n. 765 del 1967, che estese l'obbligo di previa licenza edilizia anche alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 20.04.2016 n. 1957).
Per converso la ricorrente non ha fornito prova idonea dell’avvenuta realizzazione dei due manufatti specifici colpiti dalla gravata ordinanza di demolizione in epoca antecedente il 01.09.1967, a nulla valendo le generiche concessioni demaniali invocate, che non attestano l’avvenuta costruzione dei due manufatti.
Non deve infatti sfuggire la diversa funzione dei due provvedimenti amministrativi in questione, la concessione demaniale assolvendo alla funzione di creare in capo al concessionario la facoltà di godere a titolo esclusivo del bene demaniale che ne forma oggetto e quella edilizia alla funzione di rendere legittima l’attività edificatoria costituendone il titolo giuridico abilitante.
Più in dettaglio rileva il Collegio che la richiesta prova dell’anteriorità dei manufatti al 01.09.1967 non è raggiunta nemmeno attraverso il testimoniale di Stato prodotto il 06.12.2016 in quanto tale atto prova soltanto l’esistenza dei manufatti ivi descritti, tra i quali nell’allegata planimetria figura l’infermeria, alla data della sua redazione ossia al 04.06.1977.
Si precisa infatti in detto documento che con atto stipulato in forma pubblica amministrativa l’11.04.1967 registrato a Torre del Greco il 6.12.1967 venne concessa alla signora Maria Imperato per quindici anni “una zona demaniale marittima, situata sulla spiaggia Gabella del Pesce al confine tra il Comune si Portici e quello di Ercolano, della superficie di mq. 2.030 allo scopo di costruirvi e mantenervi uno stabilimento balneare”.
Non viene tuttavia specificato quando fu costruito detto stabilimento ed in particolare il manufatto adibito a medicheria.
Né, per le ragioni già esposte, la concessione marittima del 11.04.1967 può tenere luogo della allora concessione edilizia.
3. Del pari infondato è il secondo motivo, con il quale la deducente lamenta che il Comune non ha tenuto conto del testimoniale di Stato redatto il 04.06.1977 per la acquisizione al demanio pubblico di tutte le cabine in muratura realizzate su zona demaniale in località Gabella del Pesce del Comune di Portici, non menzionando siffatto testimoniale, i due manufatti adibiti a deposito e medicheria raggiunti dall’ordinanza demolitoria impugnata.
Valga inoltre richiamare le considerazioni testé svolte in ordine alla mancata prova della avvenuta costruzione dei due manufatti de quibus tra l’11.04.1967 e il 01.09.1967, data di entrata in vigore della L. n. 765/1967 che estese a tutto il territorio comunale l’obbligo della concessione edilizia prima circoscritto al solo centro urbano (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' infondata la dedotta illegittimità dell’ordinanza di demolizione laddove non ha valutato che la demolizione pregiudicherebbe l’utilizzabilità di quelle assentite.
Invero, l’invocata valutazione attiene alla seconda fase del procedimento demolitorio che fa seguito all’inesecuzione dell’ordine demolitorio da parte del destinatario, laddove nella prima fase l’emissione dell’ingiunzione di ripristino è atto dovuto che prescinde dall’espressione di ogni giudizio in ordine alla fattibilità tecnica della demolizione.
Si è infatti condivisibilmente sancito che “Il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria”.
Anche il Tribunale segue il riportato indirizzo affermando che “L'art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001, concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, individua, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale le medesime sono subordinate, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza, tuttavia, rileva solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di demolizione (come per l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino”.

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5. Con il quarto motivo la deducente sostiene l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione al vaglio della Sezione per non aver valutato la peculiarità delle opere, la cui demolizione pregiudicherebbe l’utilizzabilità di quelle assentite.
5.1. La censura è infondata, avendo la giurisprudenza precisato che l’invocata valutazione attiene alla seconda fase del procedimento demolitorio che fa seguito all’inesecuzione dell’ordine demolitorio da parte del destinatario, laddove nella prima fase l’emissione dell’ingiunzione di ripristino è atto dovuto che prescinde dall’espressione di ogni giudizio in ordine alla fattibilità tecnica della demolizione.
Si è infatti condivisibilmente sancito che “Il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III , 23.01.2015 n. 211).
Anche il Tribunale segue il riportato indirizzo affermando che “L'art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001, concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, individua, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale le medesime sono subordinate, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza, tuttavia, rileva solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di demolizione (come per l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 12.03.2015 n. 1521) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza pacificamente afferma l’estraneità ai provvedimenti repressivi di abusi edilizi di motivazione in ordine al pubblico interesse, che va ravvisato in re ipsa.
La Sezione ha enunciato, sulla scorta di precedenti arresti, siffatta interpretazione che è stata ribadita più di recente da questo TAR, che ha sancito che
   - “E' ben motivata l'ordinanza demolitoria che richiami la circostanza della mancanza del permesso di costruire (nonché della reiezione della sanatoria successivamente chiesta), non occorrendo alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati”  e che
   - “L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento "in loco" della res, ed è adeguatamente e sufficientemente motivata attraverso la compiuta descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio”.
Anche il Consiglio di Stato ha di recente riaffermato che “L'ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi, oltre che di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di una sua particolare motivazione, essendo in tal senso sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né una previa espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione”.

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6. Con il quinto mezzo la ricorrente lamenta omessa valutazione dell’interesse pubblico alla demolizione.
6.1. La censura è infondata al lume della giurisprudenza che pacificamente afferma l’estraneità ai provvedimenti repressivi di abusi edilizi, di motivazione in ordine al pubblico interesse, che va ravvisato in re ipsa.
La Sezione ha enunciato, sulla scorta di precedenti arresti, siffatta interpretazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 09.10.2014 n. 5254), che è stata ribadita più di recente da questo TAR, che ha sancito che “E' ben motivata l'ordinanza demolitoria che richiami la circostanza della mancanza del permesso di costruire (nonché della reiezione della sanatoria successivamente chiesta), non occorrendo alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati” (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, 29.08.2016 n. 4114) e che “L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento "in loco" della res, ed è adeguatamente e sufficientemente motivata attraverso la compiuta descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 12.01.2016, n. 118).
Anche il Consiglio di Stato ha di recente riaffermato che “L'ordinanza di demolizione e rimozione di abusi edilizi, oltre che di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall'accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d'illecito previste dalla legge, che esclude la necessità di una sua particolare motivazione, essendo in tal senso sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né una previa espressa comparazione tra l'interesse pubblico alla rimozione dell'opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2014, n. 4926) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le difformità da una d.i.a., oggi s.c.i.a., ovvero la loro assenza, se in linea di massima sfuggono alla sanzione demolitoria, ciò non è predicabile allorché trattisi di interventi eseguiti in zone vincolate, quali quelle all’esame.
Nella fattispecie, il territorio del Comune è infatti sottoposto ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ex L. n. 1497/1939) ragion per cui trova applicazione il disposto di cui all’art. 167, comma 1, d.lgs. n. 22 del 2004 a norma del quale in caso di violazione delle disposizioni di cui al Titolo I della Parte Terza del codice, tra le quali quella dell’art. 146 che impone il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di qualunque tipologia di opere, la riduzione in pristino è sempre ingiunta.
La giurisprudenza ha infatti elaborato un principio di indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere soggette a mera d.i.a..
Si è infatti sancito che “L'art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione paesaggistica”.
Opzione seguita dall’orientamento del Tribunale che ha più di recente ribadito che “L'art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A., prive di autorizzazioni paesaggistiche”.

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Il provvedimento che dispone la demolizione di opera abusiva realizzata in zona soggetta a vincolo, non deve essere preceduto dal parere della autorità preposta alla tutela di detto vincolo, stante la obbligatorietà dell'ordine di demolizione.
Il provvedimento che ordina la demolizione dell'opera abusiva è, quando sia stato preceduto dal diniego di concessione in sanatoria, provvedimento dovuto, sicché, non residuando alcun margine di discrezionalità, è superflua l'acquisizione di qualsiasi parere.
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7. Con il sesto e il settimo mezzo la deducente sostiene l’assentibilità delle opere realizzate, sulla base di una semplice d.i.a. anziché del permesso di costruire ma non offre al Collegio alcun elemento di prova in tal senso, ragion per cui le censure sono da respingere.
7.1. Nemmeno persuade l’assunto difensivo secondo il quale i manufatti costruiti integrano delle pertinenze edilizie da ciò discendendo l’illegittimità della sanzione ripristinatoria ingiunta, non comminabile relativamente ad opere assoggettate a d.i.a..
7.2. Tale opzione è invero infondata e va disattesa.
Evidenzia in proposito il Collegio che le difformità da una d.i.a., oggi s.c.i.a., ovvero la loro assenza, se in linea di massima sfuggono alla sanzione demolitoria, ciò non è predicabile allorché trattisi di interventi eseguiti in zone vincolate, quali quelle all’esame.
Il territorio del Comune, come pure attesta il provvedimento, è infatti sottoposto ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (ex L. n. 1497/1939) ragion per cui trova applicazione il disposto di cui all’art. 167, comma 1, d.lgs. n. 22 del 2004 a norma del quale in caso di violazione delle disposizioni di cui al Titolo I della Parte Terza del codice, tra le quali quella dell’art. 146 che impone il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di qualunque tipologia di opere, la riduzione in pristino è sempre ingiunta.
La giurisprudenza ha infatti elaborato un principio di indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere soggette a mera d.i.a..
Si è infatti sancito che “L'art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con d.i.a., prive di autorizzazione paesaggistica” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.01.2013 n. 62).
Opzione seguita dall’orientamento del Tribunale che ha più di recente ribadito che “L'art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A., prive di autorizzazioni paesaggistiche” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 08.01.2016 n. 17; in terminis, TAR Campania-Napoli sez. IV, 28.04.2016 n. 2155; TAR Campania–Napoli, Sez. VI, 11.10.2016 n. 4659).
8. Con l’ottavo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata perché, insistendo le opere su aree sottoposte a vincoli, occorrerebbe la previa acquisizione del parere dell’autorità proposta alla sua gestione.
8.1. Anche tale ultima censura è infondata poiché l’ordinanza di demolizione è atto dovuto che non involge valutazioni tecnico discrezionali per le quali sia richiesto il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Si è invero condivisibilmente precisato in tal senso che “Il provvedimento che dispone la demolizione di opera abusiva realizzata in zona soggetta a vincolo, non deve essere preceduto dal parere della autorità preposta alla tutela di detto vincolo, stante la obbligatorietà dell'ordine di demolizione (cfr.: TAR Molise 10.12.2002 n. 944)” (TAR Molise, 02.04.2008, n. 111) e che “Il provvedimento che ordina la demolizione dell'opera abusiva è, quando sia stato preceduto dal diniego di concessione in sanatoria, provvedimento dovuto (da ultimo, CdS, IV, 08.03.2005 n. 1662), sicché, non residuando alcun margine di discrezionalità, è superflua l'acquisizione di qualsiasi parere” (TAR Veneto, Sez. II, 07.03.2006, n. 534).
In definitiva, alla luce delle svolte considerazioni il ricorso si profila infondato e va conseguentemente respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 31, comma 2, d.P.R. 380/2001, prevede espressamente che, una volta accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ne viene ingiunta la rimozione o demolizione “al proprietario e al responsabile dell'abuso”; parallelamente, la legge regionale del Lazio n. 15 del 2008, prevede all’art. 15 che l’ingiunzione di demolizione è rivolta al responsabile dell'abuso, nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo.
Sicché, l’obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva anche nei confronti di chi risulti essere il proprietario, per come sancito a livello normativo, sussiste indipendentemente dall’essere anche responsabile delle opere abusive, essendo il proprietario individuato dalla norma tra i soggetti che sono comunque in grado di porre fine alla situazione antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione della natura non meramente sanzionatoria, ma ripristinatoria dell’ordine di demolizione.
Tuttavia, nel caso in esame, il provvedimento impugnato è illegittimo nella parte in cui dispone, altresì, l’acquisizione gratuita delle opere e dell’area di sedime nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, tenuto conto che il sopra richiamato art. 15, l.r. n. 15/2008 chiarisce che la sanzione dell’acquisizione gratuita al patrimonio pubblico dell'area di sedime colpisce il solo "responsabile dell’abuso", ovviamente quando questi è al contempo proprietario, mentre quest’ultimo, ove estraneo ai fatti, è soggetto al solo ordine di demolizione, ai sensi del comma 1, in conformità a quanto statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 345 del 1991, con la quale si è escluso che la sanzione della perdita del lotto possa raggiungere il proprietario incolpevole.
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... per l'annullamento dell'ordinanza 18.02.2014, n. 3/14, relativa alla demolizione di opere edilizie eseguite in assenza di permesso di costruire;
...
- CONSIDERATO che la società Unicredit Leasing s.p.a. espone di essere proprietaria di un immobile sito in Cerveteri, concesso in locazione finanziaria, in forza di contratto di leasing del 2010, alla società Az. s.a.s. di Da.To. & C., poi risolto per inadempimento in data 27.08.2012, e di avere ottenuto la restituzione dell’immobile solo dal 15.03.2014;
- CONSIDERATO che impugna, pertanto, il provvedimento del 18.02.2014 con cui il Comune di Cerveteri, nel contestare la realizzazione di una serie di opere in assenza di idoneo titolo abilitativo, ha ingiunto la demolizione di tali opere con l’avvertimento che, in difetto, si sarebbe proceduto alla acquisizione di diritto a titolo gratuito del bene e dell’area pertinenziale, e che deduce, al riguardo, la violazione dell’art. 31, comma 2, d.P.R. 380/2001, art. 15, L.R. n. 15/2008, eccesso di potere sotto il profilo della carenza di istruttoria, erroneità dei presupposti, illogicità manifesta, carenza di motivazione, erroneità dei presupposti;
- CONSIDERATO che lamenta, in sostanza, l’omessa identificazione dell’autore degli abusi contestati con illegittimo coinvolgimento della società ricorrente, estranea all’esecuzione degli illeciti edilizi, anche perché priva della detenzione dell’immobile; l’illegittimità del procedimento sanzionatorio attivato ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001, previsto, invece, per l’esecuzione di una diversa tipologia di lavori in cui nessuno delle opere elencate nel provvedimento impugnato rientrerebbe; l’illegittimità del provvedimento nella parte in cui si prevede l’automatica acquisizione di diritto a titolo gratuito, senza che sia stato tenuto in conto che il proprietario è incolpevole in quanto del tutto ignaro delle modifiche apportate dall’utilizzatore e nonostante che si sia attivato nei confronti del soggetto detentore con intimazione a rimuovere gli interventi realizzati abusivamente; in subordine, la sproporzione tra l’entità delle difformità contestate e la pretesa di acquisizione della proprietà dell’intero immobile nonché della relativa area pertinenziale;
- CONSIDERATO che, con motivi aggiunti, la parte ricorrente, avendo conosciuto in data 06.05.2014 tutti gli atti del procedimento da cui è emersa l’identità del soggetto autore delle opere illecite, ha ulteriormente dedotto avverso l’atto già impugnato, sia sotto il profilo della illegittima individuazione della medesima quale destinataria del provvedimento impugnato, pure essendo l’Amministrazione a conoscenza del fatto che la medesima non si è resa autrice delle opere da rimuovere, né è in grado di accedere all’immobile di cui altro soggetto è detentore, sia sotto il profilo della illegittima previsione della acquisizione gratuita del bene per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione;
- CONSIDERATO che si è costituito in giudizio il Comune di Cerveteri eccependo l’infondatezza dei motivi dedotti con il ricorso introduttivo e l’inammissibilità dei motivi aggiunti con cui non sono impugnati nuovi atti e, nel merito, l’infondatezza degli stessi;
RILEVATO, in via pregiudiziale, che il ricorso è da considerarsi tempestivo in quanto, ancorché appaia affidato per la notifica solo il 61° giorno dalla data di notifica del provvedimento impugnato, lo stesso è stato, invece, consegnato nel termine decadenziale all’Ufficiale giudiziario, giusta documentazione versata in atti dalla parte ricorrente;
- RILEVATO, sempre in via pregiudiziale, che anche i motivi aggiunti sono da ritenersi ammissibili, siccome volti a dedurre ulteriori profili di due delle censure (prima e terza) già avanzate avverso l’atto impugnato con il ricorso introduttivo a seguito dell’accesso agli atti del procedimento che ha reso note alla parte ricorrente fatti e atti prima non conosciuti;
- RILEVATO che, ai sensi dell’art. 31, comma 2, d.P.R. 380/2001, prevede espressamente che, una volta accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ne viene ingiunta la rimozione o demolizione “al proprietario e al responsabile dell'abuso”; parallelamente, la legge regionale del Lazio n. 15 del 2008, prevede all’art. 15 che l’ingiunzione di demolizione è rivolta al responsabile dell'abuso, nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo;
- RITENUTO che l’obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva anche nei confronti di chi risulti essere il proprietario, per come sancito a livello normativo, sussiste indipendentemente dall’essere anche responsabile delle opere abusive, essendo il proprietario individuato dalla norma tra i soggetti che sono comunque in grado di porre fine alla situazione antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione della natura non meramente sanzionatoria, ma ripristinatoria dell’ordine di demolizione;
- RITENUTO, peraltro, che nel caso in esame, il provvedimento impugnato è illegittimo nella parte in cui dispone, altresì, l’acquisizione gratuita delle opere e dell’area di sedime nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, tenuto conto che il sopra richiamato art. 15, l.r. n. 15/2008 chiarisce che la sanzione dell’acquisizione gratuita al patrimonio pubblico dell'area di sedime colpisce il solo "responsabile dell’abuso", ovviamente quando questi è al contempo proprietario, mentre quest’ultimo, ove estraneo ai fatti, è soggetto al solo ordine di demolizione, ai sensi del comma 1, in conformità a quanto statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 345 del 1991, con la quale si è escluso che la sanzione della perdita del lotto possa raggiungere il proprietario incolpevole;
- RILEVATO, con riferimento al caso che ne occupa, che il Comune resistente non contesta che altri soggetti siano gli autori degli abusi, essendo parte ricorrente chiamata in causa esclusivamente in ragione del titolo proprietario;
RITENUTO, giusta quanto dedotto e depositato in atti dalla parte ricorrente che non sussistono elementi tali da far ritenere questa in qualche modo responsabile;
CONSIDERATO che le superiori considerazioni inducono il Collegio a ritenere manifestamente fondata la censura dedotta con il terzo motivo di ricorso ed il secondo motivo dell’atto aggiunto, con assorbimento delle restanti censure, per cui il ricorso ed i motivi aggiunti sono meritevoli di accoglimento, con annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone, per il caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, l’acquisizione di diritto a titolo gratuito al patrimonio comunale del bene e dell’area necessaria ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. 380/2001, quantificata in mq 940 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 09.09.2014 n. 9537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Accesso a sistema informatico da parte di un soggetto abilitato ma per finalità non istituzionali.
Integra il delitto previsto dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l'accesso (nella specie, Registro delle notizie di reato: Re.Ge.), acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali, soltanto, la facoltà di accesso gli è attribuita.
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1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni unite è la seguente: "Se il delitto previsto dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen., sia integrato anche nella ipotesi in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, formalmente autorizzato all'accesso ad un sistema informatico o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative".
2. L'art. 615-ter cod. pen. sanziona, al primo comma, il comportamento di chiunque «abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo». Il secondo comma prevede: «La pena è della reclusione da uno a cinque anni: - 1) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema».
L'accesso, quindi, è abusivo qualora avvenga mediante superamento e violazione delle chiavi fisiche ed informatiche di accesso o delle altre esplicite disposizioni su accesso e mantenimento date dal titolare del sistema.
3. Con la sentenza Casani le Sezioni Unite avevano affrontato la questione se integrasse la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema da parte di soggetto abilitato all'accesso, perché dotato di password, ma attuata per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che la questione di diritto controversa non dovesse essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza dell'agente in esso, dovendosi verificare la contraria volontà del titolare del sistema solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi.
Avevano ritenuto, quindi, che rilevante dovesse considerarsi il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto non autorizzato ad accedervi ed a permanervi, sia quando violasse i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro), sia quando ponesse in essere operazioni di natura "ontologicamente diversa" da quelle di cui sarebbe stato incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito, con ciò venendo meno il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel sistema.
4. La Sezione rimettente ha dato atto dello svilupparsi nella giurisprudenza successiva alla sentenza Casani di diverse posizioni, dettate dalla ritenuta necessità di precisazioni e specificazioni, in funzione eminentemente estensiva, della portata del principio di diritto espresso dalla citata sentenza, tanto da considerare idonea ad integrare la tipicità della fattispecie incriminatrice la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che si traduca in un abuso o sviamento dei poteri conferitigli.
È stato, in particolare, evidenziato il contrasto manifestatosi con le sentenze, entrambe della Quinta Sezione, n. 22024 del 24/04/2013, Carnevale, Rv. 255387, e n. 44390 del 20/06/2014, Mecca, Rv. 260763, che, seppure fondate sulla espressa adesione all'identica premessa costituita dal decisum delle Sezioni Unite Casani, avevano fornito risposte antitetiche circa la possibilità di ravvisare l'abusività dell'accesso nella violazione dei principi che presiedono allo svolgimento dell'attività amministrativa, quali sinteticamente enunciate dall'art. 1 legge 07.08.1990, n. 241.
Secondo la prima decisione,
nel caso in cui l'agente sia un pubblico dipendente «non può non trovare applicazione il principio di cui alla L. 07.08.1990 n. 241, art. 1, in base al quale l'attività amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario». Di qui deriverebbe la "ontologica incompatibilità" di un utilizzo del sistema informatico senza il rispetto di tali principi, in quanto «fuoriuscente dalla ratio del conferimento del relativo potere».
Con la seconda delle citate decisioni
era stata, all'opposto, esclusa la possibilità di identificare il carattere di abusività della condotta di accesso al sistema, o di mantenimento al suo interno, nella violazione delle predette regole di imparzialità e trasparenza enunciate dall'art. 1 legge. n. 241 del 1990, se non a prezzo di frustrare la ratio della stessa norma incriminatrice come interpretata dalle Sezioni Unite, dilatando inammissibilmente la nozione di "accesso abusivo" oltre i limiti imposti dalla necessità di tutelare i diritti del titolare del sistema.
Viene, di conseguenza, sottoposta ora alle Sezioni Unite
la valutazione del non infrequente caso del soggetto, in specie pubblico ufficiale o equiparato, che, abilitato e senza precisazione di limiti espressi alle possibilità di accesso e trattenimento nel sistema pubblico, acquisisca da questo notizie e dati, in violazione dei doveri insiti nello statuto del pubblico dipendente, nel complesso degli obblighi e dei doveri di lealtà a lui incombenti.
5. Ritiene il Collegio che lo spunto fornito dalla vicenda processuale debba indurre a puntualizzare alcuni dei passaggi della precedente decisione delle Sezioni Unite Casani.
La vicenda oggetto del procedimento in corso contempla un accesso con credenziali al sistema Re.Ge., nonché specifiche letture di dati relativi a procedimento in carico a un pubblico ministero diverso da quello presso cui l'agente prestava servizio: accesso che, secondo le prospettazioni del ricorso, non sarebbe stato abusivo in virtù delle diposizioni organizzative interne del Procuratore aggiunto della Repubblica, dettate dall'esigenza di buona amministrazione di rendere disponibili i dati predetti per tutte le situazioni nelle quali i diretti titolari non potessero per un qualsiasi motivo accedervi.
La particolarità del caso e la precisa indicazione del quesito sviluppato dalla Sezione rimettente, centrato sulle condizioni per il ricorrere o meno dell'ipotesi aggravata prevista dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen., inducono il Collegio a concentrare il proprio esame sulla specifica previsione che descrive la condotta criminosa in quanto posta in essere dal pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.
6. In sintonia con le conclusioni della sentenza Casani, il Collegio rileva che quella prevista dal secondo comma, n. 1, della norma incriminatrice è qualificabile come circostanza aggravante esclusivamente soggettiva, nel senso che descrive la condotta punibile in quanto posta in essere da determinati soggetti. Il pubblico ufficiale, l'incaricato di pubblico servizio, l'investigatore privato e l'operatore del sistema possono rispondere del reato solo in forza della previsione del secondo comma Per tali soggetti il reato è sempre aggravato, proprio perché la circostanza è inscindibilmente collegata a quella qualità soggettiva ed in tutti i casi la configurata aggravante comporta un abuso, che ben può connotarsi delle caratteristiche dell'esecuzione di "operazioni ontologicamente estranee" rispetto a quelle consentite.
Invero la norma si riferisce a soggetti che accedono al sistema e vi si trattengono abusando della propria qualità soggettiva, che rende più agevole la realizzazione della condotta tipica, oppure che connota l'accesso in sé quale comportamento di speciale gravità.
Così, nel caso dell'investigatore privato, la cui attività professionale di indagine comporta limitazioni, essendo soggetta alla regolamentazione dell'art. 134 del TULPS ed al possesso della licenza prefettizia, che consente di eseguire investigazioni o ricerche o di raccogliere informazioni per conto di privati, con divieto di operazioni che importano una menomazione della libertà individuale, esercitando quindi un'attività sottoposta a controllo pubblico preventivo e successivo circa il rispetto delle attività di indagine che, secondo le relative norme, devono essere preventivamente pubblicizzate dai responsabili. Ugualmente, abuso di speciale rilievo è quello dell'operatore di sistema che, abilitato all'accesso al sistema proprio per la natura di manutenzione ed aggiornamento del sistema a lui affidato, oltrepassi i limiti connaturali allo svolgimento di quegli specifici compiti.
Altro abuso qualificato, per il quale si giustifica il più rigoroso trattamento sanzionatorio e la procedibilità di ufficio, è quello commesso dal pubblico ufficiale e dall'incaricato di pubblico servizio che, dotato di credenziali di accesso al sistema in uso presso l'ufficio di appartenenza, vi acceda o vi si trattenga in violazione dei doveri o con abuso dei poteri inerenti alla funzione o al servizio.
7. Nella giurisprudenza della Corte ripetuti sono gli esempi di violazione da parte di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio delle disposizioni del titolare del sistema concernenti le modalità di accesso, o più frequentemente di trattenimento e di utilizzo del sistema. Negli specifici casi viene in evidenza l'abuso del pubblico ufficiale in termini di violazione del dovere di rispetto delle norme che espressamente ne disciplinano l'azione, quali poste dai titolari del sistema.
Ad avviso del Collegio non esce dall'area di applicazione della norma la situazione nella quale l'accesso o il mantenimento nel sistema informatico dell'ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell'agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all'accesso ai dati, si connoti, tuttavia, dall'abuso delle proprie funzioni da parte dell'agente, rappresenti cioè uno sviamento di potere, un uso del potere in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l'azione nell'assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati.
Si è autorevolmente chiarito da parte della dottrina che «sotto lo schema dell'eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità amministrativa, che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato».
Lo sviamento di potere è una delle tipiche manifestazioni di un tale vizio dell'azione amministrativa e ricorre quando l'atto non persegue un interesse pubblico, ma un interesse diverso (di un privato, del funzionario responsabile, ecc.). Si ha quindi "sviamento di potere" quando nella sua attività concreta il pubblico funzionario persegue una finalità diversa da quella che gli assegna in astratto la legge sul procedimento amministrativo (art. 1, legge n. 241 del 1990).
In tal senso il Collegio ritiene di dover privilegiare l'interpretazione proposta da una delle sentenze (Sez. 5, n. 22024 del 2013, Carnevale) in cui si era concretizzato il contrasto di giurisprudenza segnalato dalla Sezione rimettente e, in sostanza, fatto proprio dall'ordinanza di rimessione, laddove è stato evidenziato il principio di cui all'art. 1 della legge n. 241 del 1990, in base al quale «l'attività amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario».
8. I principi di cui alla legge n. 241 del 1990 hanno trovato progressive specificazioni nelle disposizioni emanate in tema di organizzazione del pubblico impiego fra le quali assume speciale rilievo la definizione legislativa del "Codice di comportamento" dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad opera dell'art. 54 d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (Testo unico sul pubblico impiego), come sostituito dall'art. 1, comma 44, legge 06.11.2012, n. 190, e del successivo d.P.R. 16.04.2013, n. 62, Regolamento contenente, in attuazione del citato art. 54 del T.U. sul pubblico impiego, il vigente Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
9. I principi cui si è fatto riferimento trovano la loro genesi nelle norme di cui agli artt. 54, 97 e 98 della Costituzione: disposizioni, queste, che chiedono l'adesione del dipendente ai "principi dell'etica pubblica", intesa come locuzione di sintesi dei valori propri della deontologia dell'impiego pubblico, al fine di porre il funzionario nella condizione di servire gli amministrati imparzialmente e con «disciplina ed onore».
La violazione dei doveri d'ufficio, attraverso le varie tipologie di condotta idonee a produrre uno sviamento della prestazione lavorativa dai canoni segnati dalla legislazione di attuazione dei principi di fedeltà ed esclusività del servizio, è stata ripetutamente oggetto della giurisprudenza penale, amministrativa e contabile, che ha posto al centro la prossimità teleologica tra i quei principi, considerati nelle sentenze come espressivi di valori cardine del pubblico impiego, proiezioni del legame tra funzionario e pubblica amministrazione, e tra questa e la comunità degli amministrati.
Si è ritenuto (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, dep. 2012, Rv. 251498) che «
ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
10. Con particolare riferimento all'oggetto specifico della presente decisione vengono in evidenza le norme che regolano la gestione e l'utilizzo dei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia, e, fra questi, il programma Re.Ge. (Registro delle notizie dì reato mod. 21), diffuso negli uffici giudiziari, con le conseguenti problematiche di tenuta e sicurezza dei dati.
Il programma Re.Ge., operativo presso ogni Procura della Repubblica, prevede, fino al provvedimento di chiusura dell'indagine preliminare, la sua diretta gestione dalla segreteria del pubblico ministero, cui spetta l'esecuzione dell'iscrizione, disposta dal magistrato ai sensi dell'art. 335 cod. proc. pen., di ogni notizia di reato pervenuta o acquisita di iniziativa «nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito» e dei successivi aggiornamenti, oltre al rilascio delle certificazioni sulle iscrizioni.
Queste, non essendo di libera fruibilità per il pubblico, sono circondate dalle limitazioni previste sia dal citato art. 335 (commi 3 e 3-bis) sia dall'art. 110-bis disp. att. cod. proc. pen., secondo il quale: «Quando vi è richiesta di comunicazione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato a norma dell'articolo 335, comma 3, del codice, la segreteria della procura della Repubblica, se la risposta è positiva, e non sussistono gli impedimenti a rispondere di cui all'articolo 335, commi 3 e 3-bis del codice, fornisce le informazioni richieste precedute dalla formula: "Risultano le seguenti iscrizioni suscettibili di comunicazione". In caso contrario, risponde con la formula: "Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione"».
L'importanza e la delicatezza dell'insieme di iscrizioni nel Re.Ge., delle relative certificazioni e dell'inserimento dei riferimenti ad atti di indagine per ciascun procedimento giustificano la necessità che il sistema informatico, in quanto registro di cancelleria, sia posto sotto il diretto controllo del procuratore della Repubblica, capo dell'ufficio, nella qualità di responsabile del trattamento e sicurezza dei dati, ai sensi del d.lgs. 30.06.2003, n. 196, e di titolare del potere di opporre, se del caso, il segreto investigativo, negando l'accesso ad atti, anche in sede di ispezione o inchiesta dell'Ispettorato Generale del Ministero della giustizia.
11. In ogni caso, l'amministratore dei servizi informatici (ADSI) garantisce che il capo dell'ufficio giudiziario, o un suo delegato, possa accedere alla infrastruttura logistica condivisa per verificare il rispetto degli standard di sicurezza e della normativa sulla tenuta informatizzata dei registri.
Nella materia della tenuta dei registri informatizzati è intervenuto, in sostituzione del d.m. 24.05.2001, il d.m. 27.04.2009, il quale prevede l'organizzazione centrale e periferica del sistema informatico del Ministero della giustizia, in particolare la D.G.S.I.A. con a capo il Responsabile S.I.A., le strutture interdistrettuali, distrettuali e locali.
All'art. 8 dell'allegato è previsto che venga definita e gestita dal Responsabile S.I.A., con aggiornamenti periodici, la individuazione delle procedure di autenticazione, consistente in generale nella conoscenza di una coppia di informazioni (username e password) per l'accesso, così che ogni utente ottiene, tramite la procedura di autorizzazione, uno specifico insieme di privilegi di accesso ed utilizzo, denominato "profilo di autorizzazione", rispetto alle risorse del sistema informatico. Ogni profilo viene definito in modo tale da assegnare a ciascun utente solo ed esclusivamente i privilegi strettamente necessari per l'espletamento delle attività di propria competenza.
Sono poi stabilite, all'art. 10, le procedure di controllo sulle attività relative all'utilizzo e alla gestione del sistema informatico, sottoposte ad un processo continuo di controllo e verifica a garanzia della autenticità e della integrità dei dati, prevedendosi, come misura minima di monitoraggio, la registrazione di tutti gli accessi, anche di carattere tecnico, ivi compresi quelli non riusciti o falliti, e di tutte le operazioni effettuate sui dati. Controllo che, in virtù del d.lgs. 25.07.2006, n. 240, come modificato con legge 22.02.2010, n. 24, compete anche al magistrato capo dell'ufficio giudiziario, per il quale l'art. 1-bis prevede il dovere di assicurare la tempestiva adozione dei programmi per l'informatizzazione predisposti dal Ministero della giustizia per l'organizzazione dei servizi giudiziari, in modo da garantire l'uniformità delle procedure di gestione nonché le attività di monitoraggio e di verifica della qualità e dell'efficienza del servizio.
Il capo dell'ufficio giudiziario è, in definitiva, il responsabile della concreta gestione e del controllo dell'utilizzo dei registri informatizzati secondo i programmi concretamente messi a disposizione dal Ministero della giustizia, che, con le sue strutture, ne garantisce la gestione specificamente tecnica di accesso, controllo e aggiornamento.
12. Le disposizioni normative, di vario livello, sopra esaminate delineano lo status della persona dotata di funzioni pubbliche, il cui agire deve essere indirizzato alle finalità istituzionali in vista delle quali il rapporto funzionale è instaurato: doveri a cui sono correlati i necessari poteri e l'utilizzo di pubbliche risorse, traducendosi in abuso della funzione, nell'eccesso e nello sviamento di potere la condotta che si ponga in contrasto con le predette finalità istituzionali.
Condizioni e doveri che, se connotano in primo luogo la figura del pubblico ufficiale, sia o meno legato all'amministrazione da rapporto organico, ma dotato di poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, considerati anche disgiuntamente tra loro, contraddistinguono anche quella dell'incaricato di pubblico servizio, la cui figura è connessa allo svolgimento di un servizio di pubblica utilità presso soggetti pubblici.
E tanto vale anche in riferimento alla gestione dei registri di cancelleria.
Ai pubblici dipendenti che, nella loro qualità, debbono operare su registri informatizzati è imposta l'osservanza sia delle diposizioni di accesso, secondo i diversi profili per ciascuno di essi configurati, sia delle disposizioni del capo dell'ufficio sulla gestione dei registri, sia il rispetto del dovere loro imposto dallo statuto personale di eseguire sui sistemi attività che siano in diretta connessione con l'assolvimento della propria funzione. Con la conseguente illiceità ed abusività di qualsiasi comportamento che con tale obiettivo si ponga in contrasto, manifestandosi in tal modo la "ontologica incompatibilità" dell'accesso al sistema informatico, connaturata ad un utilizzo dello stesso estraneo alla ratio del conferimento del relativo potere.
Per converso,
il pubblico dipendente, addetto a mansioni d'ordine, cui non possano attribuirsi le qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, che violi le disposizioni del titolare del sistema ed abbia accesso al medesimo al di fuori delle sue mansioni, commette in ogni caso, a prescindere dalle finalità perseguite, il reato di cui al primo comma dell'art. 615-ter cod. pen.
13. Conclusivamente, a fronte del quesito proposto dalla Sezione rimettente, può essere formulato il seguente principio di diritto: "
Integra il delitto previsto dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l'accesso (nella specie, Registro delle notizie di reato: Re. Ge.), acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali, soltanto, la facoltà di accesso gli è attribuita" (Corte di Cassazione, Sezz. unite penali, sentenza 08.09.2017 n. 41210).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune può ordinare la demolizione di un’opera abusiva anche a distanza di molti anni?
L’ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall’abuso edilizio.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 06.09.2017 n. 4243 , ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di abusi edilizi e termini per l’emissione dell’ordinanza di demolizione (art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001).
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, un soggetto, nel 1966, aveva realizzato una veranda sul proprio terrazzo e aveva provveduto anche ad accatastarla.
Alla morte di tale soggetto, gli eredi avevano proceduto alla divisione dell’asse ereditario e l’appartamento del defunto era stato assegnato alla figlia.
Successivamente, su segnalazione dei vicini di casa, era intervenuta la Polizia Municipale, la quale aveva accertato al sussistenza di un abuso edilizio, in quanto la veranda risultava essere stata coperta con dei vetri.
La figlia, attuale proprietaria dell’appartamento, aveva rilasciato ai Vigili una dichiarazione, nella quale spiegava che il suddetto abuso edilizio risaliva ancora al 1966 ed era stato realizzato dal padre, all’epoca ancora in vita.
Il Comune, tuttavia, aveva ordinato alla proprietaria dell’appartamento in questione di rimuovere le opere abusivamente realizzate.
La donna, dunque, decideva di impugnare davanti al TAR tale provvedimento, evidenziando come il Comune avesse erroneamente ritenuto che fosse lei la responsabile dell’abuso, senza tener presente che la veranda era stata realizzata dal defunto padre.
Secondo la ricorrente, inoltre, il diritto del Comune di ordinare la demolizione si sarebbe prescritto, essendo trascorsi ben 44 anni dalla costruzione del manufatto.
La ricorrente rilevava, infine, che la demolizione dell’opera avrebbe comportato un grave ed irreparabile pregiudizio per il figlio, che abitava l’appartamento in questione assieme alla propria famiglia, in quanto tale demolizione avrebbe sconvolto “in maniera irreversibile, l’assetto attuale della casa” ed avrebbe inciso “pesantemente sulle abitudini di vita dell’intero nucleo famigliare”.
Il TAR, pronunciatosi in primo grado, riteneva che fosse del tutto irrilevante il tempo trascorso dalla costruzione del manufatto e i danni che ne sarebbero potuti derivare al figlio, precisando che “per costante giurisprudenza (…) l’attività di repressione degli abusi edilizi non costituisce attività discrezionale, ma del tutto vincolata che non abbisogna di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all’accertata abusività delle opere che si ingiunge di demolire”.
Di conseguenza, secondo il TAR, “l’ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall’abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei suoi presupposti”.
Ritenendo la decisione ingiusta, la proprietaria dell’appartamento in questione decideva di rivolgersi al Consiglio di Stato, nella speranza che questo riformasse la sentenza a lei sfavorevole.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, riteneva di dover confermare quanto evidenziato dal TAR in primo grado, ribadendo che l’attività sanzionatoria della Pubblica Amministrazione ha carattere vincolato e non discrezionale e che, pertanto, “l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”.
Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato rigettava l’impugnazione proposta dalla proprietaria dell’appartamento, confermando integralmente la sentenza resa in primo grado dal TAR (commento tratto da www.brocardi.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deruralizzazione di un'area agricola: necessario il permesso di costruire.
L’area destinata al deposito di inerti è stata previamente livellata e ricoperta di “mista”, ossia da ghiaia, ciottoli e sabbia.
Si tratta, quindi, di opere che hanno determinato la deruralizzazione del terreno agricolo, per destinarlo allo svolgimento dell’attività produttiva e, come tali, comportanti una trasformazione che, pur in assenza di opere edilizie, assume rilevanza dal punto di vista urbanistico, in ossequio ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza.
L’intervento è, perciò, ascrivibile alla fattispecie di cui all’articolo 3, comma 1, lett. e.7), del d.P.R. n. 380 del 2001 e, conseguentemente, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, come –del resto– già affermato dalla Sezione proprio con riferimento a un caso analogo di realizzazione di un deposito di materiali inerti in area agricola.

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9.2 Quanto, poi, alla ritenuta compatibilità delle opere con la destinazione dell’area, è da rilevare anzitutto, in punto di fatto, che –secondo quanto allegato dalla difesa comunale, che ha rinviato al materiale fotografico depositato in atti– l’area destinata al deposito di inerti è stata previamente livellata e ricoperta di “mista”, ossia da ghiaia, ciottoli e sabbia.
La circostanza, non specificamente contestata dalla parte ricorrente, è da ritenersi provata, anche ai sensi dell’articolo 64, comma 2, cod. proc. amm..
Si tratta, quindi, di opere che hanno determinato la deruralizzazione del terreno agricolo, per destinarlo allo svolgimento dell’attività produttiva e, come tali, comportanti una trasformazione che, pur in assenza di opere edilizie, assume rilevanza dal punto di vista urbanistico, in ossequio ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2012, n. 4204).
L’intervento è, perciò, ascrivibile alla fattispecie di cui all’articolo 3, comma 1, lett. e.7), del d.P.R. n. 380 del 2001 e, conseguentemente, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, come –del resto– già affermato dalla Sezione proprio con riferimento a un caso analogo di realizzazione di un deposito di materiali inerti in area agricola (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 29.01.2014, n. 303; cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 27.08.2014, n. 4342).
Anche sotto questo profilo, le doglianze delle ricorrenti vanno dunque rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.09.2017 n. 1789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti. Segnatamente, tale rimedio non si sostanzia in un’azione popolare e neppure può tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, ma deve essere strumentale alla tutela di un interesse personale di chi lo richiede.
La posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa.

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Nel caso di specie, si tratta di una richiesta massiva di atti, di cui non è plausibilmente dimostrata l’idoneità a spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell’istante, la quale si limita ad affermare genericamente che l’ottenimento di tale documentazione avrebbe permesso una ricostruzione più precisa delle circostanze di fatto, consentendole di meglio tutelare i propri diritti avanti alle competenti sedi.
Se deve escludersi che la titolarità del diritto d’accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all’esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale, la richiesta di accesso deve pur tuttavia sempre basarsi su un interesse percepibile concreto ed attuale.
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L’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di accesso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda.
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9.1.– Occorre ricordare che il diritto di accesso non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti. Segnatamente, tale rimedio non si sostanzia in un’azione popolare e neppure può tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, ma deve essere strumentale alla tutela di un interesse personale di chi lo richiede.
La posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa.
Nel caso di specie, si tratta di una richiesta massiva di atti, di cui non è plausibilmente dimostrata l’idoneità a spiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell’istante, la quale si limita ad affermare genericamente che l’ottenimento di tale documentazione avrebbe permesso una ricostruzione più precisa delle circostanze di fatto, consentendole di meglio tutelare i propri diritti avanti alle competenti sedi.
Se deve escludersi che la titolarità del diritto d’accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all’esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale, la richiesta di accesso deve pur tuttavia sempre basarsi su un interesse percepibile concreto ed attuale.
10.– La sentenza del TAR deve invece essere riformata nella parte in cui ha rigettato anche le domande di accesso di cui ai punti 1, 2, 3 e 4 dell’istanza presentata il 21.01.2016, aventi ad oggetto:
   - tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella comunicazione di avvio di procedimento disciplinare e contestazione di addebito prot. 1647/C1-RIS.30 del 11/02/2015;
   - tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella comunicazione di chiusura di procedimento disciplinare prot. 4165/C1.-RIS95 del 10/04/2015;
   - tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella comunicazione di avvio di procedimento disciplinare - contestazione di addebito Prot. n. 4221/C1-RIS.97 del 11/04/2015;
   - tutti gli atti, i documenti e le dichiarazioni depositate agli atti richiamati nella comunicazione di chiusura procedimento disciplinare Prot. n. 6665/C1-RIS 140 del 08/06/2015, compresa nota Prot. 3618/C1-RIS 84.
10.1.– Tali richieste ostensive si riferiscono a documenti adeguatamente individuati in relazione al procedimento cui afferiscono. L’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di accesso non comporta infatti la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda.
10.2.– L’interesse dell’appellante all’accesso non è meramente esplorativo in quanto si tratta della documentazione posta a base del primo e secondo procedimento disciplinare instaurato nei confronti dell’appellante (la signora PO. è stata sanzionata una prima volta per la mancata pubblicazione entro il termine perentorio del 31.01.2015 dell’apposito file XML contenente i riferimenti dei contratti conclusi dall’Istituto nel corso dell’esercizio finanziario 2014, ai fini del controllo dell’Autorità Anticorruzione; una seconda volta per ingiustificato abbandono del servizio in orario di lavoro).
Nella richiesta del 21.01.2016, viene enunciato espressamente il dichiarato fine di «poter tutelare i propri interessi e diritti avanti le competenti sedi».
10.3.– Il diniego formulato dall’Amministrazione scolastica era quindi in parte qua illegittimo.
11.‒ In definitiva, l’appello deve essere accolto in parte (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.08.2017 n. 4074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla legittimità dell’ordinanza del Sindaco con la quale è stato disposto l’allontanamento di gatti e di un cane, nonché un intervento di sanificazione di casa adibita a civile abitazione e parti comuni.
L’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000 attribuisce al sindaco, quale ufficiale del Governo, il potere di adottare “con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Tale potere è riconosciuto sulla base di presupposti ben individuati dalla giurisprudenza: necessità di intervenire in determinate materie quali la sanità e l’igiene; attualità o imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza; preventivo accertamento da parte di organi competenti della situazione di pericolo e di danno; la mancanza di strumenti alternativi previsti dall’ordinamento, stante il carattere extra ordinem del potere sindacale.
Inoltre il giudice amministrativo, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto legittima l’ordinanza contingibile e urgente adottata per ragioni igienico-sanitarie, ai sensi dell’art. 38 della legge n. 142/1990 (oggi sostituito dall’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000), al fine di provvedere allo spostamento di animali (nella specie cani) tenuti presso la residenza del proprietario in altro luogo idoneo.

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Secondo la giurisprudenza, il provvedimento amministrativo può ritenersi sufficientemente motivato se la motivazione risulta espressa per relationem, ossia facendo riferimento ad atti del procedimento, non essendo neppure necessario che tali siano allegati al provvedimento essendo sufficiente che esso possa essere acquisito con i mezzi previsti dalla legge.
Né giova alla ricorrente dedurre che nella motivazione dell’impugnata ordinanza non viene indicata la norma violata, perché le ordinanze contingibili ed urgenti non sono provvedimenti sanzionatori, essendo finalizzate a prevenire ed eliminare “gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
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... per l’annullamento dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Volano n. 66/2016 in data 19.12.2016, prot. 7008, notificata in pari data, con la quale è stato disposto l’allontanamento di gatti e di un cane, nonché un intervento di sanificazione di casa adibita a civile abitazione e parti comuni, e di qualsiasi altro atto presupposto connesso o conseguente;
...
1. Il Collegio ritiene che la decisone assunta nella sede cautelare vada confermata alla luce delle seguenti considerazioni.
2. Innanzi tutto giova rammentare che l’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000 attribuisce al sindaco, quale ufficiale del Governo, il potere di adottare “con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Tale potere è riconosciuto sulla base di presupposti ben individuati dalla giurisprudenza: necessità di intervenire in determinate materie quali la sanità e l’igiene; attualità o imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza; preventivo accertamento da parte di organi competenti della situazione di pericolo e di danno; la mancanza di strumenti alternativi previsti dall’ordinamento, stante il carattere extra ordinem del potere sindacale.
Inoltre il giudice amministrativo (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2005, n. 16477), con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto legittima l’ordinanza contingibile e urgente adottata per ragioni igienico-sanitarie, ai sensi dell’art. 38 della legge n. 142/1990 (oggi sostituito dall’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000), al fine di provvedere allo spostamento di animali (nella specie cani) tenuti presso la residenza del proprietario in altro luogo idoneo.
3. Tenuto conto di quanto precede, il primo ed il quarto motivo, suscettibili di esame congiunto, non possono essere accolti.
Innanzi tutto, sebbene l’impugnata ordinanza effettivamente non contenga un espresso riferimento alla disposizione dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, tuttavia il Collegio ritiene che -conseguendo l’adozione di tale provvedimento sindacale al verbale di sopralluogo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari in data 15.06.2016 ed alla successiva relazione di sopralluogo del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in data 30.11.2016, ove sono stati inequivocabilmente evidenziati lo stato di degrado dell’immobile di cui è parte l’unità abitativa di proprietà della ricorrente, nonché il conseguente pericolo la sanità e l’igiene pubblica- il provvedimento stesso vada senz’altro qualificato come un’ordinanza contingibile e urgente e, quindi, nessun rilievo possa assumere il mancato richiamo dei presupposti normativi in base ai quali è stato adottato.
Giova poi rammentare che, secondo la giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.03.2017, n. 1299), il provvedimento amministrativo può ritenersi sufficientemente motivato se la motivazione risulta espressa per relationem, ossia facendo riferimento ad atti del procedimento, non essendo neppure necessario che tali siano allegati al provvedimento essendo sufficiente che esso possa essere acquisito con i mezzi previsti dalla legge. Pertanto la ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che non siano stati resi disponibili il verbale di sopralluogo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari in data 15.06.2016 e la successiva relazione di sopralluogo del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in data 30.11.2016, perché tali atti sono stati prodotti in giudizio dal Comune di Volano unitamente ai verbali del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in data 02.05.2016, 07.05.2016 e 09.05.2016.
Né giova alla ricorrente dedurre che nella motivazione dell’impugnata ordinanza non viene indicata la norma violata, perché le ordinanze contingibili ed urgenti non sono provvedimenti sanzionatori, essendo finalizzate a prevenire ed eliminare “gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Quanto poi alle ulteriori carenze motivazionali evidenziate dalla ricorrente, consistenti nella mancata specificazione degli animali presenti nell’edificio e nella mancata allegazione di elementi di valutazione in ordine al pregiudizio per la salute pubblica, è sufficiente leggere i suddetti verbali ed esaminare la documentazione fotografica agli stessi allegata per verificare che il pericolo per la salute delle persone che abitano l’edificio in questione è stato determinato dalla mancata cura degli animali che la ricorrente detiene presso la propria abitazione (particolarmente eloquenti appaiono le descrizioni dello stato dei luoghi contenute nei predetti verbali e le fotografie che documentano la presenza di escrementi di animali nelle parti comuni dell’edificio).
4. Analoghe considerazioni valgono per le ulteriori censure incentrate sul difetto di istruttoria. A tal riguardo non può sottacersi la contraddittorietà delle affermazioni della ricorrente in quanto la stessa, dapprima ammette che «all’interno dell’immobile, costituito da più appartamenti, sono effettivamente presenti degli animali domestici che peraltro non sono di proprietà della ricorrente» (pag. 5) e subito dopo sostiene che i suoi animali «sono ben curati, nutriti e tenuti in stato di benessere» (pag. 6), come sarebbe provato dalla documentazione medica allegata al ricorso.
Ciò posto comunque non giova alla ricorrente lamentare che non è stato effettuato alcun sopralluogo all’interno della sua abitazione, che i luoghi ritenuti insalubri non costituiscono una proprietà esclusiva, essendo parti comuni dell’edificio e che, in definitiva, non sono provate né l’esistenza di una situazione di pericolo, né che tale situazione sia causata dagli animali presenti all’interno della sua abitazione.
Difatti -premesso che la ricorrente non ha indicato quali sarebbero gli altri animali presenti nell’edificio- è sufficiente osservare che:
   A) i verbali di sopralluogo costituiscono atti pubblici, sicché fanno piena prova fino a querela di falso di quanto negli stessi attestato dai pubblici ufficiali che hanno eseguito i sopralluoghi;
   B) come già evidenziato, i suddetti verbali di sopralluogo e la documentazione fotografica agli stessi allegata comprovano una palese situazione di pericolo per la salute di tutti coloro che abitano all’interno dell’edificio;
   C) sebbene dal verbale di sopralluogo dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari in data 15.06.2016 effettivamente si evinca che non è stato possibile accedere all’abitazione della ricorrente, tuttavia dal verbale del Corpo di Polizia Locale Alta Vallagarina in data 09.05.2016 si desume inequivocabilmente che la situazione di pericolo è causata dagli animali presenti all’interno dell’abitazione di proprietà della ricorrente.
In definitiva -tenuto conto dell’istruttoria svolta dall’Amministrazione e del fatto che, come evidenziato dal Comune nelle sue difese, l’adozione dell’impugnata ordinanza è stata preceduta da tentativi di sensibilizzazione, che non hanno però trovato alcun riscontro neppure parziale da parte della ricorrente, che «evidentemente rivendica il diritto di poter trattenere presso la propria abitazione degli animali trascurando il fatto che tale presenza se non è accompagnata dall’adozione di minime operazioni di igienizzazione può provocare situazioni di vero e proprio pericolo per la salubrità»- risulta palese l’interesse pubblico all’allontanamento degli animali in questione.
Del resto, a fronte delle inequivocabili risultanze dell’istruttoria, nessun rilievo assume la circostanza che il regolamento del Comune di Volano per la detenzione e la circolazione di animali non preveda alcun limite numerico alla detenzione di animali, anche perché la stessa ricorrente evidenzia che tale regolamento impone ai proprietari di garantire il benessere degli animali.
5. Risultano poi palesemente infondate le censure dedotte con il terzo motivo, incentrate sulla violazione delle disposizioni di cui all’art. 1 della legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo (legge n. 281/1991) e all’art. 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia. Difatti il Collegio ritiene che anche lasciar vivere animali da compagnia in precarie condizioni igienico-sanitarie configuri una forma di maltrattamenti e, quindi, che sia la condotta della ricorrente -e non il provvedimento impugnato- a porsi in contrasto con le predette disposizioni.
6. Infine, quanto all’asserita violazione delle norme sul procedimento amministrativo, il Collegio osserva che la ricorrente non ha replicato alle difese svolte dall’Amministrazione, ove è stato evidenziato che è stata trasmessa, a mezzo raccomandata, la nota del 04.10.2016 recante la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’emissione di una «ordinanza di allontanamento dall’immobile ... della colonia felina e del cane e di prescrizione di un intervento di sanificazione», ma la raccomandata non è stata ritirata dalla ricorrente ed è stata, quindi, restituita al Comune per compiuta giacenza.
Inoltre, assume rilevanza decisiva la circostanza che l’Amministrazione abbia ampiamente dimostrato in giudizio come la partecipazione della ricorrente al procedimento non avrebbe comunque potuto incidere sul contenuto del provvedimento finale, stante l’acclarata esigenza di «intervenire sia al fine di tutelare l’igiene e la sanità pubblica, che le condizioni degli animali detenuti dalla signora Al.To.».
Ne consegue -alla luce della disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, seconda parte, della legge n. 241/1990, secondo la quale “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”- la ricorrente non ha motivo di dolersi del fatto che non sarebbe stata posta in condizione di partecipare al procedimento.
7. In definitiva il ricorso deve essere respinto perché infondato (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 16.08.2017 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E’ dovere di chi conferisce ad altri soggetti i propri rifiuti per il recupero o lo smaltimento accertarsi che questi siano autorizzati allo svolgimento di tali operazioni. Si tratta di una regola di cautela imprenditoriale, la cui inosservanza è idonea a determinare in capo al soggetto conferente la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo.
Colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo.
Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del produttore dei rifiuti che aveva fatto colpevole affidamento sulle sole rassicurazioni verbali del trasportatore di avere regolare autorizzazione allo svolgimento dell'attività.

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1. Con sentenza in data 04.04.2016, il Tribunale di Alessandria ha assolto Ku.Ol. dal reato ascrittogli -art. 110 e 256 lett. a), d.Lgs. 152/2006, perché in qualità di titolare della carrozzeria aveva effettuato attività di smaltimento e trasporto di rifiuti ferrosi (paraurti, elettrodomestici, cofani), senza essere in possesso di idonea autorizzazione, abbandonandoli all'aperto in località "Regione Fornace/Rosso" del Comune di Strevi, in Strevi accertato il 17.03.2013- per particolare tenuità del fatto.
...
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente ha omesso di considerare che l'imputazione ascrittagli è in concorso con altro soggetto non indicato nel capo d'imputazione ma che, si intuisce dalla motivazione, essere certamente il Pa. che ha definito la sua posizione con il decreto penale di condanna.
Quindi corretta è la qualificazione penale del reato contestato, giacché dall'istruttoria dibattimentale, è emerso che il ricorrente aveva "regalato" due paraurti di plastica al Pa., il che equivale ad averli conferiti a soggetti terzi, che li aveva smaltiti abusivamente. Il Giudice ha accertato che l'imputato aveva dei registri di carico e scarico e che i due paraurti non risultavano registrati.
Come correttamente rilevato nella sentenza impugnata è pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo; fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del produttore dei rifiuti che aveva fatto colpevole affidamento sulle sole rassicurazioni verbali del trasportatore di avere regolare autorizzazione allo svolgimento dell'attività (Cass., n. 29727/2013, Rv 255876) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.08.2017 n. 38981).

EDILIZIA PRIVATAData la natura giuridica della segnalazione certificata di inizio attività -che non è istanza di parte per l'avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, ma è dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge- è da escludersi che l'autorità procedente debba comunicare al segnalante l'avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 prima dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori.
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Il ricorso è infondato e, in quanto tale, va respinto.
Con il primo motivo di ricorso sono state dedotte le seguenti censure:
I violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, omessa comunicazione avvio del procedimento. Parte ricorrente lamenta che non le sarebbe stata inviata la comunicazione di avvio del procedimento relativamente al provvedimento oggetto di impugnazione.
Il motivo è infondato.
Ed invero, data la natura giuridica della segnalazione certificata di inizio attività -che non è istanza di parte per l'avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, ma è dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge- è da escludersi che l'autorità procedente debba comunicare al segnalante l'avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 prima dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori (cfr. TAR Catanzaro (Calabria), sez. II, 05.03.2015, n. 478, Consiglio di Stato, sez. IV, 19.06.2014, n. 3112, 14.04.2014, n. 1800 e 25.01.2013, n. 489) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento eseguito concerne edifici esistenti che all’attualità sono destinati alla conservazione, valorizzazione e trasformazione di prodotti agricoli e, quindi, aventi destinazione sostanzialmente agricola/produttiva; l’intervento comporta, quindi, come rappresentato dall’ente locale resistente, il cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante dell’intervento da agricolo/produttivo a commerciale, ai sensi dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Considerato che, nel caso di specie, l’intervento per cui è causa si sostanzia in una modifica di destinazione d'uso, peraltro anche mediante opere, esso necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire.
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La giurisprudenza ha chiarito che la destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che ne fa in concreto il soggetto che lo utilizza (mutamento d'uso di fatto), ma con quella impressa dal titolo abilitativo, assumendo una connotazione oggettiva che vale ad individuare in modo inconfutabile ed evidente un determinato bene.
In altri termini, si afferma che la destinazione d’uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto. Tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica dell’immobile.
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente.
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Con ulteriori quattro motivi di ricorso, che si ritiene di poter affrontare unitariamente, sono state dedotte le seguenti censure:
   II Violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere per totale erroneità di valutazione dei presupposti di fatto, per travisamento, per motivazione illogica e contraddittoria, per sviamento e per falsità dei presupposti.
Ad avviso di parte ricorrente non occorrerebbe il piano attuativo in quanto non si tratterebbe di una nuova edificazione ma di una ristrutturazione; inoltre, diversamente da quanto rappresentato nel provvedimento impugnato, l’intervento non si sostanzierebbe in un cambio di destinazione d’uso in quanto l’attività rientrerebbe nelle attività commerciali previste dal PRG per la zona G (commerciale) ovvero attrezzature mercantili al dettaglio pubblico o privato e alla grande distribuzione e, pertanto, all’interno della stessa categoria funzionale “commerciale”.
   III Eccesso di potere per sviamento, per falsità dei presupposti, per totale erroneità di valutazione dei presupposti di fatto, per travisamento, per motivazione illogica e contraddittoria, omessa valutazione. Parte ricorrente lamenta che il Comune di Santa Maria Capua Vetere non avrebbe valutato che con l’intervento richiesto il carico urbanistico verrebbe ridotto in quanto la volumetria esistente verrebbe decrementata con l’abbattimento del fabbricato e l’ampliamento dell’area destinata a parcheggio.
   IV Erronea applicazione dell'art. 24 delle NTA del Comune di Santa Maria Capua Vetere, eccesso di potere per totale erroneità di valutazione dei presupposti di fatto, per travisamento, per motivazione illogica e contraddittoria, omessa valutazione, per sviamento per falsità dei presupposti. Parte ricorrente contesta la necessità del piano urbanistico esecutivo. Lamenta che non avrebbe richiesto una autorizzazione ad edificare su una superficie di 11.000 mq, non urbanizzata e fuori dal tessuto urbano, ma la ristrutturazione di un immobile di sua proprietà già ricadente in zona commerciale e pertanto già autorizzato, assentito e nel quale sarebbe stata svolta l'attività di vendita per circa cinquant’anni. Trattandosi, quindi, di ristrutturazione l’intervento richiesto non necessiterebbe del piano attuativo.
   V Violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 2, e dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere per totale erroneità di valutazione dei presupposti di fatto, per travisamento, per motivazione illogica e contraddittoria, omessa valutazione, per sviamento, per falsità dei presupposti. Ad avviso di parte ricorrente l’intervento edilizio diretto sarebbe consentito in quanto la situazione di fatto sarebbe perfettamente corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo; in particolare il piano attuativo non sarebbe necessario in quanto l’area sarebbe già totalmente urbanizzata.
I motivi sono infondati.
Occorre premettere che l’amministrazione comunale resistente ha rappresentato nel provvedimento impugnato che “In data 11.05.2016 l’Ufficio ha concluso l’istruttoria della SCIA in parola riscontrando quanto segue:
   - “L’intervento proposto concerne vari corpi di fabbrica costituenti il Consorzio Agrario Provinciale Caserta, incluso nell’ambito della Zona G (commerciale) “dove è consentita una edificazione con densità edilizia fondiaria totale 1,5 mc/mq ed una altezza massima di 10 m e riservata esclusivamente per costruzioni adibite ad attrezzature mercantili al dettaglio pubblico o privato e alla grande distribuzione, autorizzabili anche con singola concessione per una superficie inferiore a 8.000 mq. Per una superficie maggiore, invece, è obbligatorio il preventivo piano urbanistico esecutivo (P.P.E. o P.L.)”;
   - Considerato che l’intervento consiste nel cambio di destinazione d’uso di edifici già esistenti destinate alla conservazione, valorizzazione trasformazione di prodotti agricoli e che dunque urbanisticamente rilevante in quanto richiede diversi standards urbanistici”.
   - Considerato che l’area di intervento si articola su di una superficie pari a circa 11.000 mq., dunque maggiore di 8000 mq
;”
ed ha “RITENUTO quindi necessario il preventivo piano urbanistico esecutivo (P.P.E. o P.L.);”.
Dall’esame del provvedimento impugnato emerge che l’intervento concerne vari corpi di fabbrica costituenti il Consorzio Agrario Provinciale Caserta, circostanza questa non contestata da Su.An.Ge.Im. s.r.l. e peraltro risultante anche dal certificato di destinazione urbanistica prodotta in atti dalla stessa parte ricorrente.
L’intervento, secondo quanto rappresentato nel provvedimento impugnato, concerne edifici esistenti che all’attualità sono destinati alla conservazione, valorizzazione e trasformazione di prodotti agricoli e, quindi, aventi destinazione sostanzialmente agricola/produttiva; l’intervento comporta, quindi, come rappresentato dall’ente locale resistente, il cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante dell’intervento da agricolo/produttivo a commerciale, ai sensi dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Ed invero la predetta disposizione normativa espressamente prevede che “costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale
.”.
Considerato che, nel caso di specie, l’intervento per cui è causa si sostanzia in una modifica di destinazione d'uso, peraltro anche mediante opere, esso necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Napoli, Sez. VIII, 19.01.2016, n. 246, Sez. VIII, 31.03.2014, n. 1881, Sez. VII, 22.02.2012, n. 885, Cass. Pen. Sez. III, 28.01.2015, n. 3953).
Al riguardo, a fronte del contestato cambio di destinazione, la società ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente nel ricorso che l’attività svolta nei fabbricati oggetto di intervento era commerciale ma non ha provato tale circostanza, come era suo onere, trattandosi di prova rientrante nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a.. Né elementi utili che avvalorino la prospettazione di parte ricorrente possono trarsi dalla relazione di consulenza tecnica, depositata in giudizio.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che la destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che ne fa in concreto il soggetto che lo utilizza (mutamento d'uso di fatto), ma con quella impressa dal titolo abilitativo, assumendo una connotazione oggettiva che vale ad individuare in modo inconfutabile ed evidente un determinato bene.
In altri termini, si afferma che la destinazione d’uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto. Tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica dell’immobile (cfr. Consiglio di Stato, sez. 26.03.2013, n. 1712).
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente (cfr. Consiglio Stato sez. V 11.06.2003 n. 3295) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La giurisprudenza ha riconosciuto l’ampio potere discrezionale del Comune, nell'esercizio della propria potestà di pianificazione del territorio, relativamente alla previsione della necessità del piano attuativo, anche nelle aree urbanizzate.
Al riguardo occorre preliminarmente rilevare che la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto in quanto occorre verificare le concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità o ultroneità della predisposizione di uno strumento urbanistico attuativo.
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Occorre altresì richiamare il consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale lo strumento attuativo può riguardare anche zone urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
L'esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone, infatti, anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia, e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
In particolare, la necessità di un piano attuativo può rendersi indispensabile nelle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi quando debba essere completato il sistema di viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue già asservite all'edificazione.
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Quanto alla necessità del preventivo piano urbanistico esecutivo, occorre rilevare che nella stessa relazione di consulenza tecnica è rappresentato che il complesso immobiliare insiste su un’area di circa 11.000 mq e, pertanto, su un’area maggiore di 8.000 mq, limite previsto dalle NTA del Comune di Santa Maria Capua Vetere ai fini del rilascio del permesso di costruire diretto. Deve ritenersi che, pertanto, legittimamente il suddetto Comune abbia ritenuto necessario il preventivo piano urbanistico esecutivo previsto dalla normativa urbanistica comunale, peraltro riportata nel certificato di destinazione urbanistica prodotto da parte ricorrente.
Ciò in disparte la questione, non rilevante a tali fini, della qualificazione dell’intervento per cui è causa, tenuto conto, peraltro, che, alla luce del ritenuto mutamento di destinazione d’uso, l’intervento edilizio non può sicuramente qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, come rappresentato nella suddetta relazione di consulenza tecnica di parte (cfr. Cass. Pen. Sez. III, 28.01.2015, n. 3953 cit.); né il Collegio ha elementi sufficienti al fine di inquadrare l’intervento stesso tra quelli di ristrutturazione edilizia, come prospettato nel ricorso, o di nuova costruzione, non avendo parte ricorrente prodotto la scia ed il relativo progetto da essa presentato.
Ed invero la giurisprudenza ha riconosciuto l’ampio potere discrezionale del Comune, nell'esercizio della propria potestà di pianificazione del territorio, relativamente alla previsione della necessità del piano attuativo, anche nelle aree urbanizzate. Né parte ricorrente ha impugnato, neppure in questa sede, la disposizione normativa comunale che prevede la necessità del suddetto piano.
Al riguardo occorre preliminarmente rilevare che la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto (Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016 cit.) in quanto occorre verificare le concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità o ultroneità della predisposizione di uno strumento urbanistico attuativo (TAR Campania, Napoli, sez VIII, 03.09.2010, n. 17298).
Tuttavia, se è pur vero quanto sopra, occorre tuttavia evidenziare che nella fattispecie oggetto di gravame parte ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente la totale urbanizzazione dell’area oggetto di intervento mentre nella relazione di consulenza tecnica di parte il tecnico incaricato si è limitata ad indicare che la zona è completamente urbanizzata in quanto “servita da luce, gas, fognature, e servizi comunali”, ma non ha indicato in modo puntuale le opere di urbanizzazione primaria e secondaria presenti nell’area oggetto dell’intervento per cui è causa in modo da provare la superfluità dello strumento attuativo richiesto dalla normativa comunale.
Peraltro occorre altresì richiamare il consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale lo strumento attuativo può riguardare anche zone urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
L'esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone, infatti, anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia, e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (Consiglio di Stato n. 1177 del 2012).
In particolare, la necessità di un piano attuativo può rendersi indispensabile nelle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi quando debba essere completato il sistema di viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue già asservite all'edificazione (TAR Roma, (Lazio), sez. II, 04.01.2016, n. 25 e la giurisprudenza ivi richiamata, TAR Napoli, (Campania), sez. II, 23.02.2016, n. 965).
Alla luce di quanto sopra esposto devono, pertanto, ritenersi infondati il secondo terzo, quarto e quinto motivo di ricorso.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.07.2017 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICiò posto in ordine all’accesso civico in senso proprio, che ex art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 33/2013 ha riguardo ai soli dati, documenti e informazioni “soggetti a pubblicazione obbligatoria” e soccorre solo nel caso della omessa pubblicazione on-line di essi, nessun diniego tacito dell’Ente Locale è ravvisabile in relazione all’istanza di accesso civico libero, generalizzato o aperto presentata ai sensi dell’art. 5, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 33/2013 e relativa a dati e documenti per i quali non sussiste l’obbligo di pubblicazione.
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Ritiene il Tribunale che il Comune abbia correttamente assolto agli obblighi di pubblicità, trasparenza e ostensione documentale sullo stesso gravante, atteso che:
   - anche l’accesso civico, pur segnando il passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere (from need to right to know, nella definizione inglese F.O.I.A), come ogni altra posizione giuridica attiva, non può essere esercitata dal suo titolare con finalità emulative o con modalità distorte e abusive;
   - possono formare oggetto della richiesta di accesso civico solo i documenti e i dati già in possesso della P.A., che non è tenuta a raccogliere informazioni che non siano in suo possesso né a rielaborare le informazioni che detiene, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato;
   - il Comune, che ha trasmesso all’istante la relazione conclusiva, rendicontazione e richiesta liquidazione saldo contributo per la manifestazione di cui trattasi, non era tenuto a fornire al ricorrente anche i singoli documenti giustificativi (cd. pezze giustificative) delle entrate e delle uscite relative alla rendicontazione dell’AVIS per il semplice e decisivo motivo che essi non sono stati specificamente richiesti nell’istanza di accesso civico del 15.01.2017 sulla quale l’Ente Civico è stato chiamato a pronunciarsi (il cittadino non può integrare in giudizio l’istanza di accesso civico e chiedere per la prima volta al G.A. di condannare il Comune a ostendere documenti, dati o informazioni mai richiesti in precedenza alla P.A.: arg. ex art. 34, comma 2, c.p.a.): nessun diniego tacito può, dunque, dirsi formato sul punto.
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 Con il ricorso all’esame il Sig. D’Ag. sostiene che il Comune ha assolto solo parzialmente agli obblighi sullo stesso gravanti e impugna il prospettato (parziale) diniego tacito, invocando la corretta osservanza delle norme in tema di pubblicità, trasparenza e accesso civico.
Si è costituito in giudizio il Comune di Dolo, premettendo che il D’Ag. è persona nota alle amministrazioni locali e agli organi di stampa per la solerzia e lo scrupolo con cui è solito presentare plurime e meticolose istanze di accesso civico volte a conoscere, in ogni dettaglio, le modalità di allocazione delle risorse pubbliche in relazione alle più disparate iniziative o manifestazioni.
Ciò posto, l’Ente Civico censura l’uso eccessivo e distorto, talvolta esasperato, dell’accesso civico fatto dal D’Ag., rimarcando come l’esercizio distorto di tale istituto rischi di compromettere il buon andamento dell’amministrazione locale, chiamata ad evadere continue richieste di accesso civico, sino quasi a paralizzarne l’attività; nel merito contrasta analiticamente le avverse pretese e chiede il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio in epigrafe indicata la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso non merita accoglimento.
Risulta dagli atti che l’Ente Civico ha correttamente adempiuto agli obblighi di pubblicità sullo stesso gravanti ex art. 23 del D.Lgs. 33/2013, come modificato del D.Lgs. 97/2016, pubblicando nella sottosezione “Provvedimenti organi indirizzo politico” della Sezione Amministrazione trasparente del sito istituzionale del Comune di Dolo, il verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 314 del 22.11.2016 e i relativi pareri di regolarità contabile e tecnica.
Dal verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 314/2016, pubblicato sul sito istituzionale del Comune, si evincono tutti i dati rilevanti dell’iniziativa e in particolare:
   - l’oggetto del provvedimento (“indirizzi in merito alla manifestazione “I DOLO VE CHRISTMAS” in programma a Dolo nei mesi di novembre/dicembre e al relativo contributo”);
   - il beneficiario (“AVIS Riviera del Brenta di Dolo”), l’importo del contributo erogato (“€ 13.500,00”);
   - il motivo dell’erogazione della predetta somma (“realizzazione della manifestazione”);
   - l’indicazione della normativa vigente in materia di contributi delle P.A..
Il Comune non era tenuto a pubblicare sul proprio sito istituzionale documenti o dati ulteriori (e in particolare la proposta di collaborazione dell’AVIS, quale atto richiamato dalla Delibera n. 314/2016: proposta che, peraltro, è stata messa a disposizione del ricorrente unitamente a tutta la documentazione dallo stesso richiesta con l’istanza del 15.01.2017) rispetto a quelli sopra indicati, considerato che l’art. 22 del D.Lgs. n. 97/2016 ha abrogato la previsione, originariamente contenuta nell’art. 23 del D.Lgs. n. 33/2013, che imponeva alla P.A. di pubblicare, oltre al provvedimento finale, anche i principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
Ciò posto in ordine all’accesso civico in senso proprio, che ex art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 33/2013 ha riguardo ai soli dati, documenti e informazioni “soggetti a pubblicazione obbligatoria” e soccorre solo nel caso della omessa pubblicazione on-line di essi, nessun diniego tacito dell’Ente Locale è ravvisabile in relazione all’istanza di accesso civico libero, generalizzato o aperto presentata dal Dr. D’Ag. il 15.01.2017 ai sensi dell’art. 5, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 33/2013 e relativa a dati e documenti per i quali non sussiste l’obbligo di pubblicazione.
Tale istanza è stata correttamente evasa dal Comune, con nota Prot. n. 3991 datata 14.02.2017, con cui il Responsabile della Trasparenza ha trasmesso via mail al ricorrente i seguenti documenti e dati informativi:
   - “proposta del Presidente dell’AVIS Riviera del Brenta, Giuseppe Polo, datata 22.11.2016, protocollata al n. 31366/7.6 in data 22.11.2016;
   - relazione conclusiva, rendicontazione e richiesta liquidazione saldo contributo per manifestazione “I DOLO VE Christmas 2016” dell’AVIS Riviera del Brenta, pervenuta al Comune in data 31.01.2017 e protocollata al n. 2644/2017, con in allegato il prospetto rendicontazione al 30.1.2017, in cui sono indicate le liberalità raccolte destinate alla ricostruzione terremoto Centro Italia, pari ad € 3.440,00;
   - copia del dettaglio del bonifico effettuato dall’AVIS Riviera del Brenta a favore dell’AVIS Provinciale di Ascoli Piceno, con causale “raccolta fondi serata del 01.12.2016- Fuori dalla macerie”, di € 3.440,00;
   - copia del bollettino postale relativo al versamento in favore di ABACO della somma di € 192,00 per le pubbliche affissioni;
   - copia della nota datata 13.02.2017 del Responsabile del Settore Tributi del Comune di Dolo, Dr. Ro.Vo., il quale evidenzia che il provvedimento in relazione all’occupazione del suolo pubblico per la manifestazione natalizia non è stato emesso, in quanto l’evento è stato organizzato dal Comune di Dolo in collaborazione con AVIS Riviera del Brenta in forza della delibera di Giunta Comunale n. 314 del 22.11.2016;
   - copia della nota datata 13.02.2017 del Responsabile del Settore Urbanistica ed Edilizia privata, Arch. Ri.To., nella quale è indicata la normativa statale e i regolamenti comunali di riferimento, relativi all’autorizzazione all’installazione di striscioni pubblicitari lungo le strade
”.
Alla luce delle suesposte considerazioni, ritiene il Tribunale che il Comune di Dolo abbia correttamente assolto agli obblighi di pubblicità, trasparenza e ostensione documentale sullo stesso gravante, atteso che:
   - anche l’accesso civico, pur segnando il passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere (from need to right to know, nella definizione inglese F.O.I.A), come ogni altra posizione giuridica attiva, non può essere esercitata dal suo titolare con finalità emulative o con modalità distorte e abusive;
   - nel caso di specie tutti i dati e le informazioni rilevanti della manifestazione natalizia in possesso del Comune sono stati pubblicati sul sito istituzionale dell’Ente e/o comunicati personalmente al ricorrente;
   - possono formare oggetto della richiesta di accesso civico solo i documenti e i dati già in possesso della P.A., che non è tenuta a raccogliere informazioni che non siano in suo possesso né a rielaborare le informazioni che detiene, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato (il Comune non era pertanto tenuto a richiedere all’Associazione Commercianti dati e notizie in merito ai fondi raccolti, di propria iniziativa, dai commercianti e a comunicarli al ricorrente);
   - il Comune, che ha trasmesso all’istante la relazione conclusiva, rendicontazione e richiesta liquidazione saldo contributo per la manifestazione di cui trattasi, non era tenuto a fornire al ricorrente anche i singoli documenti giustificativi (cd. pezze giustificative) delle entrate e delle uscite relative alla rendicontazione dell’AVIS per il semplice e decisivo motivo che essi non sono stati specificamente richiesti nell’istanza di accesso civico del 15.01.2017 sulla quale l’Ente Civico è stato chiamato a pronunciarsi (il cittadino non può integrare in giudizio l’istanza di accesso civico e chiedere per la prima volta al G.A. di condannare il Comune a ostendere documenti, dati o informazioni mai richiesti in precedenza alla P.A.: arg. ex art. 34, comma 2, c.p.a.): nessun diniego tacito può, dunque, dirsi formato sul punto.
Per quanto sin qui esposto il ricorso in materia di accesso civico proposto dal Signor D’Ag. deve essere respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 29.06.2017 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur dopo la scadenza del termine procedimentale, e anche in casi di c.d. silenzio rigetto, l'Amministrazione non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio rigetto esplicitamente previsto solo per consentire all'interessato di adire il giudice; in particolare, la ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U. dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce all'Amministrazione di pronunciarsi tardivamente.
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Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente deduce ulteriormente la violazione dell’art. 36, ultimo comma, del d.P.R. n. 380/2001 ove prevede che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
In ossequio alla disposizione richiamata, afferma parte ricorrente, sull’Amministrazione che intenda concedere la sanatoria richiesta dopo lo spirare del citato termine e la conseguente formazione implicita del rigetto, graverebbe l’onere di agire in via preventiva in autotutela annullando il silenzio formatosi.
La doglianza è infondata.
Sul punto la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che “pur dopo la scadenza del termine procedimentale, e anche in casi di c.d. silenzio rigetto, l'Amministrazione non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio rigetto esplicitamente previsto solo per consentire all'interessato di adire il giudice; in particolare, la ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U. dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce all'Amministrazione di pronunciarsi tardivamente (cfr. sent. nn. 713/2013 del 04/03/2013 e 1055/2013 del 12/04/2013)” TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 11.07.2013, n. 2059)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 04.04.2017 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che “i vicini controinteressati rispetto al rilascio della concessione edilizia non sono annoverabili tra i soggetti destinatari, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, della comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio (anche in sanatoria) poiché l'invocata estensione ad essi della predetta comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa.
Secondo un orientamento "anche qualora si tratti di soggetti in precedenza oppostisi all'attività edilizia del proprietario confinante".
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Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento teso al rilascio della concessione in sanatoria.
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che “i vicini controinteressati rispetto al rilascio della concessione edilizia non sono annoverabili tra i soggetti destinatari, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, della comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio (anche in sanatoria) poiché l'invocata estensione ad essi della predetta comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa (Consiglio Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847; TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 14.10.2010, n. 194; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918; TAR Campania Salerno, sez. II, 16.12.2009, n. 7921), secondo un orientamento "anche qualora si tratti di soggetti in precedenza oppostisi all'attività edilizia del proprietario confinante" (così TAR Campania Napoli, sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918)” (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 13.01.2012, n. 187)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 04.04.2017 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Come chiarito dalla giurisprudenza, l'art. 192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
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Come è noto, nella disciplina comunitaria in materia di ambiente costituisce un principio cardine il principio “chi inquina paga” (cfr. art. 191, comma 2, del Trattato) e l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel declinare tale principio, reca innanzitutto il divieto ad abbandonare i rifiuti, disponendo che alla loro rimozione, recupero e smaltimento sono tenuti l’autore dell’abbandono e i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Alla luce di tale quadro normativo, l’ordinanza impugnata risulta illegittima:
   - nella parte in cui dispone la rimozione dei rifiuti a carico del fallimento della Società Op. Srl, perché questa non è l’autrice dell’abbandono;
   - nella parte in cui pone a carico di Hy.Al.Ad.Ba. Spa l’obbligo di rimozione, perché è da escludere, tenuto conto delle circostanze concrete, che quest’ultima abbia concorso a titolo di dolo o colpa, per una condotta omissiva o per culpa in vigilando, all’abbandono dei rifiuti;
   - nella parte in cui pone l’obbligo di rimozione al fallimento della Società Qu. perché, ferma restando la responsabilità della Società nell’abbandono dei rifiuti, nessun addebito può essere mosso al fallimento.
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La giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico, perché altrimenti gli effetti economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente estranei, fino a prova contraria, alla condotta dell’abbandono dei rifiuti.
Da quanto esposto, nel contesto fattuale così delineato, e applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che il Comune è tenuto a procedere all'esecuzione d'ufficio, recuperando le somme anticipate mediante insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare del fallimento della Società Qu. Srl, mentre nessuna pretesa può essere vantata nei confronti del fallimento della Società Op. Srl, in quanto quest’ultima Società, come sopra precisato, non è responsabile dell’abbandono dei rifiuti, e nessuna pretesa può essere vantata neppure nei confronti di Hy.Al.Ad.Ba. Spa, proprietaria dell’immobile, alla quale l’abbandono dei rifiuti non può essere addebitato a titolo di dolo o colpa.
Per completezza va tuttavia sottolineato che, qualora dallo svolgimento delle indagini ambientali dovesse essere accertata la necessità di bonificare l’area a causa del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione, Hy.Al.Ad.Ba. Spa potrà essere chiamata a rispondere degli oneri di bonifica nei limiti del valore dell’immobile, in ragione dell’onere reale gravante sul sito ai sensi dell’art. 253 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.

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I ricorsi, di cui va disposta la riunione in quanto soggettivamente ed oggettivamente connessi, sono fondati e devono essere accolti.
In primo luogo sono fondate le censure di incompetenza del responsabile del servizio ecologia ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. V, 25.08.2008, n. 4061; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 26.01.2011, n. 61) anche di questo Tribunale (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 20.10.2009, n. 2623; id. 14.01.2009, n. 40) l'art. 192, comma 3, Dlgs. 03.04.2006, n. 152, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, Dlgs. 18.08.2000, n. 267, attribuisce espressamente al sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio specialistico e criterio cronologico), prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, Dlgs. n. 267 del 2000.
Tale rilievo comporta pertanto di per sé l’annullamento dell’ordinanza impugnata, fermo restando che la questione andrà rimessa al Sindaco, che è l’organo individuato come competente dalla norma ad adottare le ordinanze di rimozione dei rifiuti.
Nel caso di specie, atteso che si è di fronte ad un vizio di incompetenza di tipo infrasoggettivo, che è quello che si verifica nell'ambito dello stesso ente, poiché l'Amministrazione è evocata in giudizio nella sua unitarietà indipendentemente dallo specifico riferimento soggettivo all'organo che ha emanato l'atto impugnato, non vi è pericolo che una pronuncia di merito sugli altri motivi di ricorso possa, in violazione del principio del contraddittorio, dettare regole di condotta nei confronti di soggetti rimasti estranei al giudizio, e pertanto il rilevato vizio di incompetenza non assume carattere assorbente delle ulteriori censure (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 28.04.2008, n. 1136; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2001, n. 398) e possono pertanto essere esaminati gli ulteriori motivi di ricorso al fine di orientare la successiva attività dell'Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2004, n. 5654).
Come è noto nella disciplina comunitaria in materia di ambiente costituisce un principio cardine il principio “chi inquina paga” (cfr. art. 191, comma 2, del Trattato) e l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, nel declinare tale principio, reca innanzitutto il divieto ad abbandonare i rifiuti, disponendo che alla loro rimozione, recupero e smaltimento sono tenuti l’autore dell’abbandono e i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Alla luce di tale quadro normativo, l’ordinanza impugnata risulta illegittima:
   - nella parte in cui dispone la rimozione dei rifiuti a carico del fallimento della Società Op. Srl, perché questa non è l’autrice dell’abbandono;
   - nella parte in cui pone a carico di Hy.Al.Ad.Ba. Spa l’obbligo di rimozione, perché è da escludere, tenuto conto delle circostanze concrete, che quest’ultima abbia concorso a titolo di dolo o colpa, per una condotta omissiva o per culpa in vigilando, all’abbandono dei rifiuti;
   - nella parte in cui pone l’obbligo di rimozione al fallimento della Società Qu. perché, ferma restando la responsabilità della Società nell’abbandono dei rifiuti, nessun addebito può essere mosso al fallimento.
Più in dettaglio, per quanto riguarda il ricorso r.g. 1512 del 2011 proposto dal fallimento Op. Srl, va accolto il secondo motivo, con il quale si lamenta la mancata considerazione che il periodo nel corso del quale tale Società ha avuto la disponibilità dell’immobile è talmente breve da escludere che i rifiuti possano essere stati prodotti ed abbandonati dalla stessa, e pertanto nessun addebito può esserle mosso.
Infatti è la stessa ordinanza impugnata ad affermare che “la Società Op. Srl, sulla base del contratto d’affitto di ramo d’azienda e su quanto sopra specificato, non può aver prodotto le quantità di rifiuti riportate nella perizia di stima visto il breve periodo intercorso dalla data di stipula del contratto di affitto (14.11.2008) e la data di risoluzione del contratto stesso (30.01.2009)” e nella motivazione reca anche l’indicazione che il curatore del fallimento della Società Op. Srl, con nota del 06.12.2010 ha precisato che la predetta Società, in forza del contrato di affitto del ramo d’azienda, come ricordato stipulato il 14.11.2008, ha poi cessato effettivamente l’attività a fine novembre 2008, ben prima della stessa data di risoluzione del contratto.
La circostanza che il contratto di affitto prevedesse l’obbligo della Società Op. Srl di smaltire i rifiuti non può rilevare nel senso di attribuire a questa la responsabilità nella rimozione dei rifiuti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, perché questo è un obbligo contrattuale intervenuto tra le parti interessate, che non produce effetti nei confronti di terzi, e che quindi può al limite rilevare, nei rapporti tra le curatele fallimentari, come inadempimento dell’obbligazione pattiziamente assunta.
Per quanto riguarda il ricorso r.g. 1512 del 2011 è fondato il primo motivo, con il quale si lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato per aver posto gli oneri conseguenti all’abbandono dei rifiuti a carico della Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa.
Dalla documentazione versata in atti risulta infatti che la Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa ha acquistato l’immobile su incarico della Società Qu. Srl, che lo ha scelto, al solo scopo di concederlo alla stessa in locazione finanziaria, e pertanto nell’esercizio dell’attività creditizia dato che il contratto assolve solamente lo scopo di soddisfare i bisogni finanziari dell’utilizzatore, e Hy.Al.Ad.Ba. Spa non ha mai avuto la detenzione dell’immobile, in quanto questo è stato consegnato dal venditore direttamente all’utilizzatore del contratto di leasing.
Risulta inoltre che i rifiuti presenti nell’immobile non sono estranei all’esercizio dell’attività imprenditoriale che vi si svolgeva, di realizzazione di componenti di mobili, atteso che i rifiuti sono costituiti da vernici scadute, polveri di essicazione, acetone di distillazione, necessari alla laccatura degli elementi scomposti dei mobili, ed inoltre, dalla concatenazione degli eventi -la Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa ha risolto il contratto di leasing per il mancato pagamento dei canoni, ha ottenuto la dichiarazione di fallimento della Società Qu. Spa, ed ha appreso dalla curatela fallimentare dell’esistenza di materiali qualificabili come rifiuti- si desume che la Società Hy.Al.Ad.Ba. Spa non ha avuto conoscenza diretta della presenza di materiali qualificabili come rifiuto (e tali solo in quanto non più commerciabili).
Ritiene pertanto il Collegio che il Comune non abbia assolto all’onere, sullo stesso incombente, al fine di poter legittimamente emettere l’ordine di rimozione a carico del proprietario dell’immobile Hy.Al.Ad.Ba. Spa, di provare che l’abbandono dei rifiuti sia addebitabile ad un suo comportamento doloso o colposo, anche solamente omissivo consistente in culpa in vigilando, tenuto conto della condotta concretamente esigibile nel caso di specie, e tali conclusioni non possono fondatamente essere contrastate citando l’esistenza di una clausola, contenuta nel contratto di leasing, secondo cui il proprietario dell’immobile si sarebbe riservato la facoltà di svolgere accertamenti e controlli, perché una tale previsione di per sé nulla prova circa una effettiva responsabilità nell’abbandono dei rifiuti.
Per quanto riguarda il ricorso r.g. 1153 del 2011 proposto dal fallimento della Società Qu. Srl, poiché l’abbandono dei rifiuti è addebitabile all’attività di impresa svolta dalla predetta Società prima del fallimento, e non al fallimento, è fondato e deve essere accolto il terzo motivo.
Infatti l’impresa non è stata ammessa all’esercizio provvisorio, l’immobile non era neppure nella materiale detenzione del fallimento perché nella disponibilità della Società Op. Srl, e il curatore ha appreso dell’esistenza di materiali qualificabili come rifiuti solo a seguito del sopralluogo svolto con il curatore del fallimento della Società Op. Srl.
Sotto tale profilo va rilevato che la giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, ha chiarito che nei confronti del curatore fallimentare non è configurabile alcun obbligo ripristinatorio in ordine all'abbandono dei rifiuti in assenza dell’accertamento univoco di un’autonoma responsabilità del medesimo, conseguente alla presupposta ricognizione di comportamenti commissivi, ovvero meramente omissivi, che abbiano dato luogo al fatto antigiuridico (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 19.03.2010, n. 700; Tar Campania, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.09.2010, n. 2556; Tar Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 663; Consiglio di Stato, Sez. V, 25.01.2005, n. 136; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 10.05.2005, n. 1159; Tar Lazio, Latina, 12.03.2005, n. 304; Consiglio di Stato, Sez. V, 29.07.2003, n. 4328; Tar Toscana, Sezione II, 01.08.2001, n. 1318), perché altrimenti gli effetti economici della rimozione dei rifiuti verrebbero posti a carico dei creditori del fallimento, soggetti sicuramente estranei, fino a prova contraria, alla condotta dell’abbandono dei rifiuti.
Da quanto esposto, nel contesto fattuale così delineato, e applicando le disposizioni contenute nell’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, discende che il Comune è tenuto a procedere all'esecuzione d'ufficio, recuperando le somme anticipate mediante insinuazione del relativo credito nel passivo fallimentare del fallimento della Società Qu. Srl, mentre nessuna pretesa può essere vantata nei confronti del fallimento della Società Op. Srl, in quanto quest’ultima Società, come sopra precisato, non è responsabile dell’abbandono dei rifiuti, e nessuna pretesa può essere vantata neppure nei confronti di Hy.Al.Ad.Ba. Spa, proprietaria dell’immobile, alla quale l’abbandono dei rifiuti non può essere addebitato a titolo di dolo o colpa.
Per completezza va tuttavia sottolineato che, qualora dallo svolgimento delle indagini ambientali dovesse essere accertata la necessità di bonificare l’area a causa del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione, Hy.Al.Ad.Ba. Spa potrà essere chiamata a rispondere degli oneri di bonifica nei limiti del valore dell’immobile, in ragione dell’onere reale gravante sul sito ai sensi dell’art. 253 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152.
I ricorsi indicati in epigrafe vanno pertanto accolti nel senso sopra precisato, e deve ritenersi assorbita ogni ulteriore censura non espressamente esaminata (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 19.11.2012 n. 1398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la conclusione dei lavori, riferendosi soltanto alle modalità cronologiche di esercizio di una facoltà del destinatario, non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento eventuale della decadenza dall'autorizzazione edilizia.
Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale che il collegio ritiene di condividere, la decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a "factum principis", forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo, deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione.
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Il collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il sequestro penale di immobili oggetto di un provvedimento di assenso all’edificazione, costituendo "factum principis", determina la sospensione dei termini di validità del provvedimento medesimo. Di conseguenza, ai fini della dichiarazione di decadenza del provvedimento per mancata ultimazione dei lavori nel termine in esso previsto, non deve essere computato il periodo di tempo in cui è rimasto di fatto efficace il sequestro giudiziario.
Più specificamente, l'istituto giuridico della decadenza dalla concessione edilizia, per mancato completamento dei lavori entro il termine assegnato, assume sì carattere esclusivamente oggettivo, giacché si fonda sul mero decorso del tempo previsto, ma va fatta eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a “factum principis”, forza maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla legge, non riferibili alla condotta del titolare della concessione e assolutamente ostative dei lavori , le quali producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l'esecuzione delle opere.
Non può condividersi la tesi dell’amministrazione, che sostiene che la proroga avrebbe necessariamente dovuto essere richiesta dalla ricorrente prima della scadenza del termine in parola, giacché nel caso in cui l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione.
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Il ricorso è fondato.
La scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la conclusione dei lavori, riferendosi soltanto alle modalità cronologiche di esercizio di una facoltà del destinatario, non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento eventuale della decadenza dall'autorizzazione edilizia (cfr. C.S., V, 18.09.2008, n. 4498).
Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale che il collegio ritiene di condividere, la decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a "factum principis", forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo, deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione (v. C.S., V, 15.061998, n. 834; TAR Abruzzo, Pescara, 28.06.2002, n. 595; TAR Sardegna, II, 15.11.2005, n. 2126; TAR Lazio, II, 24.11.2004, n. 13996).
Nella fattispecie in esame, il Comune di Siderno non ha proceduto, prima di adottare gli impugnati provvedimenti di sospensione dei lavori e di demolizione delle opere realizzate, ad accertare l’intervenuta decadenza dell’autorizzazione edilizia che li assentiva, con conseguente illegittimità dei provvedimenti medesimi.
D’altronde, questi ultimi sono illegittimi anche perché l’asserita decadenza della predetta autorizzazione, sulla quale essi si fondano, non può in realtà considerarsi intervenuta, non potendo in proposito computarsi il periodo (dall’01.10.2003 all’08.10.2004) nel quale il cantiere “de quo” è stato sottoposto a sequestro penale.
Il collegio condivide, sul punto, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il sequestro penale di immobili oggetto di un provvedimento di assenso all’edificazione, costituendo "factum principis", determina la sospensione dei termini di validità del provvedimento medesimo. Di conseguenza, ai fini della dichiarazione di decadenza del provvedimento per mancata ultimazione dei lavori nel termine in esso previsto, non deve essere computato il periodo di tempo in cui è rimasto di fatto efficace il sequestro giudiziario (cfr. C.S., V, 26.04.2005, n. 1895).
Più specificamente, l'istituto giuridico della decadenza dalla concessione edilizia, per mancato completamento dei lavori entro il termine assegnato, assume sì carattere esclusivamente oggettivo, giacché si fonda sul mero decorso del tempo previsto, ma va fatta eccezione per i casi di sospensione o proroga connessi a “factum principis”, forza maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla legge, non riferibili alla condotta del titolare della concessione e assolutamente ostative dei lavori , le quali producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l'esecuzione delle opere (cfr. TAR Lazio, Sez. II, 15.04.2004, n. 3297; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 29.04.2004, n. 7513; TAR Toscana, Sez. III, 25.09.2003, n. 5124; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 02.10.2003, n.1494; Cons. Stato, Sez. V, 03.02.2000, n. 597).
Non può condividersi la tesi dell’amministrazione, che sostiene che la proroga avrebbe necessariamente dovuto essere richiesta dalla ricorrente prima della scadenza del termine in parola, giacché nel caso in cui l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione (TAR Sicilia, III, 19.02.2007, n. 560).
Né possono avere rilievo, come pure eccepito dal Comune, eventuali abusi commessi dal proprietario del lastrico solare sul quale la ricorrente ha installato la sua stazione radio base –dei quali non si fa peraltro cenno nei provvedimenti impugnati- che vanno evidentemente contestati e sanzionati separatamente, nei confronti di chi li ha posti in essere.
In relazione a quanto precede, il ricorso in esame si appalesa fondato –rimanendo assorbite le censure formali non esaminate- e va quindi accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 20.04.2010 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l’art. 31, comma 11, della legge n. 1150 del 1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto volte –per definizione– ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la violazione della normativa sugli standard) se fossero edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4, del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, che si ha quando i lavori precedentemente assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore– possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti ex tunc.
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Ritiene la Sezione che del tutto legittimamente, nella fattispecie, l’Amministrazione comunale ha dichiarato la decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992.
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001 (riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di compimento dei lavori “possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che possono consistere nel factum principis o in altri casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l’interessato proponga una domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in primo grado il Comune non poteva che prendere atto della circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori, risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
Del resto, neppure in concreto tale riconoscimento può essere effettuato in questa sede, poiché:
   - il sequestro giudiziario (che ha riguardato le “pratiche relative a richieste di concessioni edilizie” e i “pareri espressi dalle commissioni edilizie tenutesi nelle sedute del 03.02.1992 e seguenti”) non ha riguardato il cantiere o il luogo dell’erigendo fabbricato (sicché non è tale da impedire la pronuncia di decadenza della concessione edilizia) e comunque è venuto meno con l’ordinanza della Sez. VII della Corte d’appello di Napoli depositata in data 26.03.2001, in epoca di gran lunga antecedente alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado (10.02.2006);
   - la nota sindacale n. 22771 del 2000 non ha precluso lo svolgimento dei lavori e comunque ha perso rilievo a seguito dell’ordinanza di dissequestro;
   - anche la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del 2002 (annullata dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004) non ha materialmente impedito la realizzazione dei lavori ed è stata comunque a sua volta seguita dal mancato inizio dei lavori, sino alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado.
Pertanto, nel loro complesso vanno respinte le censure con cui l’appellante ha dedotto che il mancato inizio dei lavori sarebbe dipeso da circostanze qualificabili come factum principis.
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Per quanto riguarda il notevole decorso del tempo intercorso tra il rilascio della concessione edilizia e la pronuncia di decadenza e la sussistenza di un legittimo affidamento, rilevano le precedenti considerazioni sull’ambito di applicazione dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano regolatore comporta la pronuncia di decadenza del titolo edilizio basato sul piano precedente, quando i relativi lavori non siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi presupposti oggettivi.
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1. Nel presente giudizio, è controversa la legittimità della nota n. 4148 del 10.02.2006, con cui il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Quarto ha dichiarato la decadenza di una concessione edilizia (risultante da una nota sindacale n. 5063 del 12.03.1992, che comunicava il precedente parere favorevole della commissione edilizia), poiché i relativi lavori non sono cominciati né anteriormente, né successivamente all’approvazione del sopravvenuto piano regolatore (approvato con il decreto provinciale n. 291 del 18.11.1994), che ha destinato l’area a zone Fb e Ha (in parte ad attrezzature per spazi pubblici e in parte a zona di rispetto stradale).
Con la sentenza gravata n. 10044 del 2006, il TAR per la Campania ha respinto il ricorso di primo grado. Con l’appello in esame, l’appellante ha chiesto che, in riforma della medesima sentenza, il ricorso di primo grado sia accolto.
2. Per la comprensione dell’oggetto del presente giudizio, va premesso che il provvedimento di decadenza della concessione edilizia ha fatto seguito alla precedente sentenza del TAR n. 10860 del 2004 (che ha annullato l’atto n. 792 del 2002, con cui l’ufficio tecnico comunale ha escluso che la nota sindacale n. 5063 del 12.03.992 potesse essere qualificata come concessione edilizia, in quanto comunicativa di un parere), appellata dal Comune con il gravame ancora pendente n. 8017 del 2005.
Il presente giudizio può essere definito senza una preliminare sospensione, con l’esame delle censure di primo grado –e riproposte in questa sede- rivolte avverso la nota n. 4148 del 2006 che ha disposto la decadenza della concessione edilizia (anche se sulla esistenza di tale concessione non si è ancora formato il giudicato).
3. Dopo aver ricostruito le vicende che hanno condotto alla presente fase del giudizio, col primo motivo l’appellante ha dedotto che il provvedimento di decadenza impugnato in primo grado sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942, dell’art. 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, e dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, nonché per molteplici profili di eccesso di potere.
Ad avviso dell’appellante, dalla motivazione della sentenza n. 10860 del 2004 (che ha rilevato l ’esistenza della concessione edilizia) si evincerebbe che:
   - il Comune, oltre a dover ritenere sussistente la concessione edilizia, avrebbe dovuto qualificare quale factum principis le circostanze che non hanno consentito la realizzazione dei lavori (cioè l’emanazione dell’ordine di sequestro giudiziario da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli);
   - sarebbero irrilevanti le sopravvenute previsioni urbanistiche, anche perché la nota sindacale del 1992 avrebbe valutato tutti gli aspetti riguardanti la ‘compatibilità urbanistica’.
Inoltre, nella specie per diverse ragioni il mancato inizio dei lavori sarebbe dipeso da un factum principis, poiché:
   - il sequestro giudiziario del cantiere avrebbe disposto ‘una sorta di sospensione’ della concessione;
   - il mancato inizio dei lavori sarebbe dipeso dall’Amministrazione comunale (che ha subordinato il rilascio materiale della concessione al dissequestro, con la nota sindacale n. 22771 dell’08.09.2000, e non ha rilasciato materialmente la concessione, con la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del 2002, annullata dal TAR con la sentenza n. 10860 del 2004).
4. Ritiene la Sezione che le censure così riassunte vadano respinte, perché infondate.
4.1. Contrariamente a quanto ha dedotto l’appellante, la sentenza n. 10860 del 2004 si è limitata a rilevare l’illegittimità della nota n. 792 del 2002, con cui l’ufficio tecnico comunale aveva negato che il precedente atto sindacale del 12.03.1992 potesse essere qualificato come concessione edilizia in senso tecnico.
In considerazione dell’oggetto di quel giudizio, tale sentenza:
   - ha qualificato l’atto del 12.03.1992 come concessione edilizia per il suo contenuto adesivo al parere favorevole della commissione edilizia (anche se la sentenza ha constatato la mancata conclusione del procedimento, per l’assenza della determinazione degli oneri di urbanizzazione ed il mancato rilascio del titolo formale);
   - non ha precluso l’emanazione di ulteriori provvedimenti inerenti alla vicenda, facendo anzi espressamente salvo ogni potere dell’Amministrazione, anche in sede di autotutela.
Pertanto, la sentenza si è riferita alla ‘sospensione forzosa’ del procedimento (conseguente al sequestro degli atti in sede penale) solo per rilevare l’insussistenza di ragioni impeditive del rilascio formale della concessione (considerata ‘esistente e pienamente efficace’), ma non per precludere alla Amministrazione comunale la valutazione delle questioni riguardanti il rilievo del decorso del tempo, maturato successivamente al rilascio dell’atto del 12.03.1992.
Ugualmente infondata è la deduzione dell’appellante secondo cui la sentenza n. 10860 del 2004 avrebbe valutato tutti gli aspetti riguardanti la ‘compatibilità urbanistica’, con la conseguente irrilevanza delle previsioni del nuovo piano, approvato con il decreto provinciale n. 291 del 18.11.1994.
Infatti, dall’esame della medesima sentenza non emerge alcuna statuizione attinente all’ambito dei poteri dell’Amministrazione comunale, conseguenti all’approvazione del nuovo piano regolatore, proprio perché l’oggetto del giudizio riguardava unicamente la questione se fosse legittimo l’atto comunale che aveva disconosciuto l’esistenza di una concessione edilizia risalente al 12.03.1992.
4.2. Vanno altresì respinte le censure con cui l’appellante ha dedotto che il Comune avrebbe dovuto qualificare quale factum principis le circostanze verificatesi durante il periodo in cui i lavori non sono stati cominciati.
Va premesso che, per l’art. 31, comma 11, della legge n. 1150 del 1942, “l’entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disposizione è stata trasfusa nell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001 (vigente alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado), per il quale “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
La regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto volte –per definizione– ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la violazione della normativa sugli standard) se fossero edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo.
Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4, del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, che si ha quando i lavori precedentemente assentiti –pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore– possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell’inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti ex tunc (cfr. Sez. V, 09.09.1985, n. 288).
Ciò premesso, ritiene la Sezione che del tutto legittimamente l’Amministrazione comunale ha dichiarato la decadenza della concessione edilizia del 12.03.1992 (ritenuta sussistente dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004).
E’ decisivo considerare che l’interessato (ovvero la sua dante causa) –pur a seguito dell’entrata in vigore del nuovo piano regolatore- non ha mai formulato alcuna istanza di proroga, volta a far accertare dall’Amministrazione la sussistenza di circostanze tali da giustificare il mancato inizio dei lavori.
Per l’art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001 (riproduttivo di un principio desumibile dall’art. 31 della legge n. 1150 del 1942), il termine per l’inizio e quello di compimento dei lavori “possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Per il legislatore, tali “fatti sopravvenuti” (che possono consistere nel factum principis o in altri casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l’interessato proponga una domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia di decadenza.
Nella specie, non risulta che l’interessato abbia mai proposto una istanza di proroga del termine di inizio dei lavori, né prima né dopo l’entrata in vigore del nuovo piano regolatore e nemmeno dopo la pubblicazione della sentenza del TAR n. 18860 del 2004.
In assenza dell’atto di proroga, con l’atto impugnato in primo grado il Comune non poteva che prendere atto della circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori, risalente alla data di entrata in vigore del nuovo piano e successivamente perdurante.
Sono conseguentemente irrilevanti le circostanze che -ad avviso dell’appellante– avrebbero dovuto comportare il riconoscimento della sussistenza di un factum principis.
4.3. Del resto, neppure in concreto tale riconoscimento può essere effettuato in questa sede, poiché:
   - il sequestro giudiziario (che ha riguardato le “pratiche relative a richieste di concessioni edilizie” e i “pareri espressi dalle commissioni edilizie tenutesi nelle sedute del 03.02.1992 e seguenti”) non ha riguardato il cantiere o il luogo dell’erigendo fabbricato (sicché non è tale da impedire la pronuncia di decadenza della concessione edilizia: cfr. Cons. Giust. Amm., 28.12.1990, n. 444) e comunque è venuto meno con l’ordinanza della Sez. VII della Corte d’appello di Napoli depositata in data 26.03.2001, in epoca di gran lunga antecedente alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado (10.02.2006);
   - la nota sindacale n. 22771 del 2000 non ha precluso lo svolgimento dei lavori e comunque ha perso rilievo a seguito dell’ordinanza di dissequestro;
   - anche la nota dell’ufficio tecnico n. 792 del 2002 (annullata dalla sentenza del TAR n. 10860 del 2004) non ha materialmente impedito la realizzazione dei lavori ed è stata comunque a sua volta seguita dal mancato inizio dei lavori, sino alla data di emanazione dell’atto impugnato in primo grado.
Pertanto, nel loro complesso vanno respinte le censure con cui l’appellante ha dedotto che il mancato inizio dei lavori sarebbe dipeso da circostanze qualificabili come factum principis.
5. Col secondo motivo, l’appellante ha dedotto che il provvedimento di decadenza sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 97 Cost., dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché per vari profili di eccesso di potere, poiché esso è stato emesso a distanza di circa 14 anni dalla emanazione della concessione edilizia, dopo la formazione di un legittimo affidamento sui suoi effetti, senza alcuna motivazione sulla prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato.
6. Anche tale censura va respinta, perché infondata.
Per quanto riguarda il notevole decorso del tempo intercorso tra il rilascio della concessione edilizia e la pronuncia di decadenza e la sussistenza di un legittimo affidamento, rilevano le precedenti considerazioni sull’ambito di applicazione dell’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale l’entrata in vigore di un nuovo piano regolatore comporta la pronuncia di decadenza del titolo edilizio basato sul piano precedente, quando i relativi lavori non siano cominciati.
La pronuncia di decadenza è espressione di un potere vincolato, ha natura ricognitiva con effetti ex tunc e va emanata anche a notevole distanza di tempo, proprio perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano sopravvenuto.
Inoltre, non sussiste il dedotto difetto di motivazione sulla mancata indicazione della prevalenza degli interessi pubblici, poiché la pronuncia di decadenza –per il suo carattere di atto dovuto– deve basarsi su una motivazione che evidenzi l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti di fatto (cioè il mancato inizio dei lavori e l’entrata in vigore del piano regolatore incompatibile col titolo in precedenza rilasciato): la prevalenza dell’interesse pubblico alla attuazione del piano sopravvenuto è imposta dall’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, che determina la pronuncia di decadenza in presenza dei relativi presupposti oggettivi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.08.2007 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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