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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2017

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aggiornamento al 30.09.2017 (ore 23,59)

aggiornamento al 20.09.2017

aggiornamento all'11.09.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2017 (ore 23,59)

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PARCO ADDA NORD: le indagini penali continuano...

ENTI LOCALI: Truffe, abusi e favori. Sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord. Perquisiti gli uffici. Indagati l’ex dg Minei, Bani e Moroni.
Sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord. Gli investigatori della Mobile di Milano, su disposizione del pm del pool Anticorruzione Giovanni Polizzi, hanno perquisito gli uffici che gestiscono i cinquemila e 650 ettari di verde lungo il fiume Adda, da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia industriale.
L’indagine riguarda l’ex direttore generale
Giuseppe Luigi Minei (indagato per turbativa d’asta, truffa, abuso d’ufficio e soppressione di documenti pubblici); il suo vice Alex Giovanni Bani (truffa) e la funzionaria 34 enne Francesca Moroni (concorso in turbativa d’asta). Richiesta un’esibizione di atti anche ai Comuni di Basiglio e Trezzano Rosa e alla Provincia di Bergamo.
La vicenda, su cui ora indaga la Procura, è stata ricostruita a metà luglio dal Corriere della Sera. L’indagine è partita dalle verifiche ispettive eseguite al Parco Adda dalla commissione d’inchiesta istituita da Regione Lombardia. Determinante per le indagini il lavoro dei due componenti dell’Agenzia regionale dell’Anticorruzione (Arac) Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri.
Tutto ruota intorno alla figura dell’architetto
Minei, 60 anni, nominato direttore del Parco Adda Nord il 15.02.2013 e in carica fino al marzo 2016. L’accusa di turbativa d’asta è legata all’assunzione della giovane amica Francesca Moroni, già sua collaboratrice al Comune di Truccazzano, dov’è stato direttore del servizio di gestione del territorio.
Il contratto arriva dopo il fallimento di un bando-lampo, pubblicato per 15 giorni e non 30 come previsto dalle norme in materia. Non solo,
Minei siede nella commissione d’esame che deve decidere a chi assegnare l’incarico. Eppure per obbligo di legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato e presente, con i partecipanti. L’ipotesi è anche che l’allora direttore generale abbia appositamente stipulato un accordo con il Comune di Treviglio per potere attingere alle graduatorie di un concorso indetto negli anni passati e che vede Moroni come seconda classificata.
La firma per potere pescare da Treviglio è del 29.01.2016, con il segretario generale del Comune
Antonio Sebastiano Purcaro (attualmente segretario generale della Provincia di Bergamo). Sempre Purcaro, il 18.03.2015, ha ricevuto una consulenza da seimila euro dal Parco, rinnovata lo stesso giorno della firma della convenzione, il 29 gennaio. Nel luglio 2016, Purcaro rinuncia a sorpresa al compenso.
Le presunte irregolarità su cui la Procura vuole fare luce riguardano anche un call center fantasma finanziato con 45 mila euro di fondi europei erogati da Regione Lombardia. Sulla carta deve essere un centralino per informazioni turistiche, in funzione dal luglio/agosto 2015 in concomitanza con Expo e attivo per 18 mesi, sei giorni la settimana. L’obiettivo è garantire un’infoline telefonica, la promozione di eventi culturali, sportivi e ambientali e la piattaforma web Visitadda.
Il progetto s’intitola: «Passaggio sull’Adda. Da Leonardo ad Expo: circuiti e itinerari sostenibili oltre il 2015». Ma la creazione e il funzionamento del call center non risultano documentati in alcun modo. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, il centralino era stato allestito soltanto per essere mostrato agli ispettori. Di qui l’ipotesi di truffa che riguarda sia il dg
Minei sia il vice Alex Giovanni Bani.
I controlli degli inquirenti riguardano anche la vittoria di
Minei in una gara dell’Ente regionale per i servizi all’Agricoltura e alle Foreste (Ersaf). L’incarico della durata di venti mesi è per la valorizzazione del Parco dello Stelvio. La busta paga è di 120mila euro. Secondo gli investigatori Minei è già a conoscenza dell’esito del bando prima dei risultati: per lo stesso periodo dell’incarico, ma a decisione non ancora ufficiale, affitta un appartamento a Bormio (23.09.2017 - tratto da e link a http://bergamo.corriere.it).

ENTI LOCALI: Un contratto all’amica e il call center fantasma: sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord.
Tre indagati, tra cui l’ex direttore generale
Minei. Al lavoro gli investigatori della Squadra mobile su disposizione del pm Anticorruzione Polizzi. Ipotesi di turbativa d’asta, truffa e soppressione di documenti.
Sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord. Gli investigatori della Squadra mobile di Milano, su disposizione del pm del pool Anticorruzione Giovanni Polizzi, stanno effettuando una serie di perquisizioni negli uffici che gestiscono i cinquemila 650 ettari di verde lungo il fiume Adda, da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia industriale. L’indagine riguarda l’ex direttore generale Giuseppe Luigi Minei (indagato per turbativa d’asta, truffa e soppressione di documenti pubblici); il suo vice Alex Giovanni Bani (accusato di truffa) e la funzionaria Francesca Moroni (indagata per concorso in turbativa d’asta).
La vicenda, su cui ora indaga la Procura, è stata ricostruita a metà luglio dal Corriere della Sera. L’architetto
Giuseppe Luigi Minei, nato a Matera ma di casa a Cassano D’Adda, viene nominato direttore del Parco Adda Nord il 15.02.2013, dopo avere lavorato dieci anni per il Comune di Truccazzano, dov’è stato direttore del servizio di gestione del territorio. Il primo dicembre 2014 la giovane collega Francesca Moroni, di cui Minei è stato superiore proprio a Truccazzano, vince un posto all’ufficio urbanistica del Parco: nella commissione d’esame che deve decidere a chi assegnare l’incarico siede lui, anche se per obbligo di legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato e presente, con i partecipanti al concorso. L’assunzione ora costa a Minei l’accusa di turbativa d’asta e a Moroni il concorso in turbativa d’asta.
Le presunte irregolarità su cui la Procura vuole fare luce riguardano anche un call center fantasma. Il centralino per informazioni turistiche —finanziato con 37.500 euro di fondi europei erogati da Regione Lombardia— doveva entrare in funzione nel luglio/agosto 2015 in concomitanza con Expo ed essere attivo per 18 mesi, sei giorni la settimana. Ai turisti doveva essere garantita un’infoline telefonica, la promozione di eventi culturali, sportivi e ambientali e la piattaforma web Visitadda. Il progetto s’intitolava: «Passaggio sull’Adda. Da Leonardo ad Expo: circuiti e itinerari sostenibili oltre il 2015». Ma i risultati delle verifiche, terminate lo scorso 21 giugno, portano a una conclusione sorprendente: «La creazione e il funzionamento del call center non risultano documentati in alcun modo». Di qui l’ipotesi di truffa.
L’inchiesta serve anche a chiarire perché i vertici del Parco non hanno mai incassato da una società, responsabile di scavi non autorizzati, una multa da un milione di euro, soldi che non sono mai entrati nelle casse pubbliche. L’indagine, condotta dalla sezione Anticorruzione della Squadra mobile, è partita dalle verifiche ispettive condotte al Parco Adda Nord dalla commissione d’inchiesta istituita da Regione Lombardia e coordinata da Maria Pia Readelli degli Uffici regionali dei controlli. Determinante per le indagini il lavoro dei due componenti dell’Agenzia regionale dell’Anticorruzione (Arac), Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri (22.09.2017 - tratto da e link a http://milano.corriere.it).

 
 

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigente tecnico del Comune responsabile del deposito incontrollato di rifiuti.
Il dirigente tecnico del Comune è responsabile per il deposito incontrollato di ramaglie posto in essere dall'operaio comunale nell'ambito delle relative mansioni, a nulla rilevando la circostanza che il dirigente non ne fosse a conoscenza.
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1. Il sig. Da.Gr. ha proposto appello avverso la sentenza del 31/03/2015 del Tribunale di Brindisi che lo ha condannato alla pena di 8.000,00 euro di ammenda per il reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, perché, nella sua qualità di dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Torchiarolo, aveva omesso di vigilare sulla destinazione dei rifiuti derivanti dalla potatura del "verde" comunale, abbandonati in modo incontrollato da un dipendente comunale all'interno del campo sportivo già illecitamente destinato alla ricezione di altri tipi di rifiuti.
Il fatto è contestato come commesso in Torchiarolo il 23/07/2012.
...
6. Si legge nella sentenza del Tribunale che il 23/07/2012 i CC di Torchiarolo, a seguito di segnalazione di un consigliere comunale, avevano effettuato un sopralluogo nel campo sportivo appurando che nell'area ad esso adiacente erano giacenti vari cumuli di rifiuti, anche ingombranti, composti da residui di potatura, sacchi di spazzatura, un frigorifero, materiale ferroso e plastica.
Nel corso del sopralluogo era sopraggiunto un autocarro del Comune (assegnato all'ufficio tecnico) i cui occupanti avevano iniziato a scaricare materiale derivante dalla potatura di alberi ed arbusti.
Il conducente del mezzo, operaio alle dipendenze del Comune, aveva riferito, nel corso del dibattimento, di essere stato informalmente indirizzato dal Sindaco, occasionalmente incontrato, a portare i residui di potatura presso il campo sportivo. Aveva altresì spiegato che normalmente della raccolta delle ramaglie si occupava l'impresa appositamente incaricata, tuttavia quel giorno la potatura era stata ultimata successivamente all'ora stabilita per il ritiro, sicché, per non lasciarle sul posto e creare un disservizio, aveva chiesto istruzioni al sindaco ottenendo in risposta l'indicazione di portarle allo stadio e di sentire l'impresa.
La circostanza era stata negata dal sindaco (imputato anch'egli) che aveva affermato di non essere a conoscenza dell'episodio; anche il tecnico comunale, odierno ricorrente, aveva affermato di non essere a conoscenza dello scarico delle ramaglie.
Esclusa la sussistenza del reato di gestione di discarica non autorizzata inizialmente contestata dal Pubblico Ministero, il Giudice ha inquadrato il fatto nella meno grave fattispecie di abbandono incontrollato di rifiuti di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. 152 del 2006, e ciò sul rilievo della natura occasionale della condotta che non aveva determinato un vero e proprio degrado dell'area interessata.
L'odierno ricorrente è stato ritenuto responsabile del reato perché, in quanto dirigente dell'ufficio tecnico comunale, non aveva impedito la destinazione dell'area a luogo di raccolta dei rifiuti vegetali; la consapevolezza di tale destinazione (e dell'abbandono) è stata desunta dal suo ruolo e dal fatto che il Comune di Torchiarolo è un piccolo centro di 5.000 abitanti.
Il sindaco è stato assolto perché le dichiarazioni del dipendente comunale erano apparse contraddittorie al Tribunale che ha ulteriormente evidenziato l'assenza, in capo al sindaco stesso, del dovere giuridico di impedire l'evento non rientrando tra i suoi doveri quello di vigilare sull'attività di smaltimento dei rifiuti.
6.1. Così sintetizzata la vicenda, occorre innanzitutto evidenziare che
la responsabilità dell'odierno imputato non si fonda sul fatto che il terreno adibito a luogo di abbandono delle ramaglie fosse di proprietà comunale. Non sono perciò pertinenti i richiami alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la mancanza di una posizione di garanzia del proprietario per l'abbandono incontrollato di rifiuti che altri faccia sul suo terreno (in questo senso, da ultimo, Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv. 266030, che ha ribadito il principio secondo il quale non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti).
Né, per lo stesso motivo, rileva il principio secondo il quale sul titolare dell'impresa o dell'ente non grava l'obbligo di attivarsi per eliminare le conseguenze dell'abbandono di rifiuti posto in essere da terzi sull'area di pertinenza aziendale o dell'ente (in questo senso, Sez. 3, n. 24477 del 15/05/2007, Pino, n.m.).
6.2. Il nucleo del ragionamento seguito dal Tribunale è altro ed è chiaro:
il dipendente comunale è tenuto a vigilare sul corretto adempimento dello smaltimento dei rifiuti che rientra nelle attribuzioni dell'ufficio da lui diretto. In senso analogo, questa Suprema Corte aveva già affermato il principio che risponde del reato di cui all'allora art. 51, comma terzo, del d.Lgs. n. 22 del 1997 (realizzazione o gestione di discarica non autorizzata) il dirigente dei servizi tecnici comunali, tra cui quello relativo alla nettezza urbana, che dispone, o non impedisce pur avendone l'obbligo giuridico, il deposito dei residui di potatura e pulitura degli alberi in zona adibita a discarica abusiva (Sez. 3, n. 12356 del 24/02/2005, Rizzo, Rv. 231071).
N
on si tratta ovviamente di responsabilità oggettiva da posizione ma di responsabilità colpevole, fondata, in caso di condotta posta in essere dal dipendente, sulla possibilità di evitarla (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 40530 del 11/06/2014, Mangone, Rv. 261383; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv. 250485, Sez. 3, n. 24736 del 22/06/2007, Sorce, Rv. 236882, secondo le quali il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono).
L'omessa vigilanza sull'operato altrui, dunque, costituisce elemento strutturale della fattispecie contravvenzionale che, essendo punita anche a titolo di colpa, individua nella titolarità dell'impresa (ovvero nella responsabilità dell'ente) il fondamento giuridico-fattuale dell'addebito omissivo.
6.3.
Non va dimenticato, infatti, che il reato previsto dall'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, ha natura di reato proprio del titolare dell'impresa o del responsabile dell'ente.
6.4.
La fattispecie descrive in termini chiaramente commissivi la condotta (sulla natura commissiva del reato, Sez. 3, n. 25429 del 01/07/2015, Gai, Rv. 267183; Sez. 3, n. 38662 del 20/05/2014, Convertino), ma ciò non significa che autore materiale della stessa possa essere esclusivamente il titolare dell'impresa o il responsabile dell'ente.
La norma non intende certamente riferirsi ad essi quali persone fisiche, bensì quali legali responsabili dell'impresa/ente cui deve essere ricondotta l'attività di abbandono/deposito incontrollato. Sicché è sufficiente che l'abbandono/deposito venga posto in essere anche tramite persone fisiche diverse dal titolare/legale rappresentante perché questi ne risponda, purché ciò avvenga nell'ambito delle attività riconducibili alle imprese e/o agli enti da loro rappresentati. In questo senso si può affermare che la "culpa in vigilando", quale necessario titolo di addebito per il fatto altrui, costituisce un baluardo verso forme di responsabilità oggettiva.
6.5. Ora
è indubbio, nel caso di specie, che la condotta di deposito incontrollato di ramaglie è stata posta in essere dall'operaio comunale nell'ambito delle mansioni da lui ordinariamente svolte e che il luogo nel quale esse sono state abbandonate era già stato interessato da precedenti abbandoni di materiale dello stesso tipo (residui di potatura), oltre che da rifiuti eterogenei. Il che depone per la non occasionalità o eccezionalità della condotta.
Ogni diversa allegazione, volta a sovvertire il fatto "raccontato" dal Giudice sostituendolo con quello ricostruibile "aliunde", non è ammessa in questa sede per le ragioni ampiamente illustrate in precedenza.
6.6.
Non è perciò manifestamente illogico trarre da questi dati di fatto, unitamente alla circostanza che il Comune di Torchiarolo è un centro di piccole dimensioni, la prova della consapevolezza, da parte del dirigente comunale, della destinazione impressa ai residui di potatura e comunque della violazione del dovere di attivarsi per impedire lo specifico evento a lui attribuito.
6.7. 5i aggiunga, quale ulteriore considerazione, che
la necessità, per l'operaio dipendente, di chiedere istruzioni sul come smaltire le ramaglie non raccolte dall'impresa incaricata del servizio dimostra l'assenza di direttive e/o modelli organizzativi volti a disciplinare evenienze certamente non eccezionali, né imprevedibili. Il che costituisce ulteriore argomento a sostegno della corretta attribuzione del fatto all'odierno imputato che, sul punto, nulla ha dedotto.
6.8. Ne consegue che il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (
Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 14.09.2017 n. 41794).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla differenza tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime.
La vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime
.
  
Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
  
Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un 'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
  
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti minori. In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi,
la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti leggere'.
In altri termini,
una volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione comunale, anche dopo la scadenza del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, rimane nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall'ordinamento e, più in generale, i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001 non prevede alcun termine decadenziale.
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In corso d'opera:
   - la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 e
   - la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile,

sono opere edilizie che non possono rientrare in una "
variante leggera", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001, poiché la variante ha avuto incidenza su superficie, volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le distanze tra edifici. Trattasi di affermazione, quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già questa Corte affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici
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Secondo l'attuale previsione normativa dell'art. 22, comma secondo, T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell'attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini dell'agibilità, tali segnalazioni certificate di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non rientrava, a giudizio della Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2. Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica sostanziale di parametri urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché di volumetria, ossia la volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile diruto.
Se può, invero, ritenersi in astratto condivisibile
l'affermazione per cui la volumetria e la cubatura del vano accessorio non può costituire variazione essenziale ai sensi dell'articolo 32 citato (posto che a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso variazioni essenziali quelle che incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile che la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla superficie e sui parametri urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici.
Tuttavia,
deve ritenersi configurabile la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), a fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante leggera in corso d'opera" autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati, ma non autorizzabile attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio di copertura di rilevante consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
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5. Al fine di inquadrare correttamente la questione, dev'essere premesso quanto segue.
La vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
Per quanto riguarda le c.d.
varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento -da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire- rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
Costituisce, poi, c.d.
variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un 'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti minori. In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi,
la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti leggere'.
In altri termini,
una volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione comunale, anche dopo la scadenza del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, rimane nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall'ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n. 3498; 12.09.2007 n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n. 781) e, più in generale, i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001 non prevede alcun termine decadenziale (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
6. Tanto premesso, nel caso in esame, l'intervento edilizio contestato era consistito nell'aver realizzato su un preesistente fabbricato ricadente in zona sottoposta a vincolo paesaggistico:
   a) la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali;
   b) la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo stesso solaio sub a).
Secondo quanto emerso in dibattimento, in occasione di un sopralluogo eseguito dalla PG in data 05.05.2010, erano stati riscontrati i predetti interventi non autorizzati, in quanto non previsti o in difformità dal p.d.c. rilasciato nel 2009 (p.d.c. n. 256/2009), il quale era stato preceduto dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 59/2009. Successivamente al sopralluogo era stata presentata richiesta di variante in corso d'opera, accolta dal Comune con il rilascio del p.d.c. n. 205 del 22/07/2011 avente ad oggetto la "esecuzione di lavori in variante a precedente titolo edilizio per lievi modifiche di prospetto e recupero fabbricato rurale esistente", titolo preceduto dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011 e dal parere favorevole della soprintendenza del 06/07/2011.
Come visto,
i giudici di appello hanno escluso che detta variante potesse rientrare in quelle "leggere", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001, affermando che la variante ha avuto incidenza su superficie, volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le distanze tra edifici. Trattasi di affermazione, quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già questa Corte affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e altro, Rv. 247686).
7. Orbene,
secondo l'attuale previsione normativa dell'art. 22, comma secondo, T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell'attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini dell'agibilità, tali segnalazioni certificate di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori". La formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non rientrava, a giudizio della Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2. Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica sostanziale di parametri urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché di volumetria, ossia la volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile diruto.
Non hanno pregio, sul punto, le osservazioni difensive secondo cui quanto affermato dalla Corte d'appello in realtà si porrebbe in contrasto con la normativa di riferimento e con le caratteristiche tecniche del progetto. Ed invero, la circostanza che in fase di progettazione era stato previsto un collegamento diretto tra i due immobili mediante la realizzazione di una struttura frangisole nonché una precisa destinazione d'uso al fabbricato rurale quale deposito per attrezzi agricoli e concimi, non escluderebbe la assoggettabilità degli interventi edilizi alla categoria delle variazioni essenziali di cui all'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001.
Se può invero ritenersi in astratto condivisibile (anche se la verifica di quanto affermato dalla difesa comporterebbe un apprezzamento in fatto, sottratto alla cognizione di questa Corte di legittimità), l'affermazione per cui la volumetria e la cubatura del vano accessorio non può costituire variazione essenziale ai sensi dell'articolo 32 citato (posto che a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso variazioni essenziali quelle che incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile che la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla superficie e sui parametri urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e altro, Rv. 247686).
Il permesso originario di costruire era stato rilasciato nell'agosto 2009 (n. 256/2009), previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica della competente Soprintendenza (n. 59/2009); il 05/05/2010, allorquando i lavori erano ancora in corso, erano infatti state accertate opere non previste nell'originario p.d.c. (la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali; la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo stesso solaio sub a).
Successivamente al sopralluogo era stata presentata domanda di variante al permesso di costruire e la variante, previo nuovo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011, era stata autorizzata con provvedimento comunale del 22/07/2011 n. 205.
Tuttavia, come correttamente affermato dalla Corte d'appello,
deve ritenersi configurabile la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), a fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante leggera in corso d'opera" autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati, ma non autorizzabile attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio di copertura di rilevante consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
Il primo motivo dovrebbe essere, dunque, rigettato, ma l'intervenuto decorso del termine di prescrizione massima alla data del 03/11/2015 impone a questa Corte l'annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di demolizione (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30194).

EDILIZIA PRIVATA: Esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4).
Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).

Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio
(rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
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8. Quanto al secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono del travisamento probatorio cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di cui all'art. 181, comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza impugnata che l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non sarebbe stata preceduta dall'imprescindibile parere vincolante della competente Soprintendenza, aggiungendosi anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia dell'autorizzazione comunale, avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la stessa autorizzazione comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata subordinatamente al rispetto di alcune prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore bianco; nelle aree libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a dimora piante ad alto fusto tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe essere stato verificato.
In definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio postumo di un qualsiasi diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai fini della tutela paesaggistica, ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di condono edilizio), non produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che effettivamente vi è stato travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la Corte d'appello risulta aver considerato e valutato solo l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dall'organo competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente al rilascio dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto conto del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà espresso con nota prot. 11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio dell'autorizzazione comunale intervenuta in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva, esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4). Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio (rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione (v., per una ipotesi analoga in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep. 09/10/1997, Marcelletti, Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di fatto,
la sentenza dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello. Tuttavia, l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine di prescrizione massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi anche per tale reato la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il reato paesaggistico estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di rimessione in pristino stato (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30194).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'esternalizzazione delle attività non priva il responsabile unico dell'incentivo
In caso di affidamento all’esterno di tutte le attività di progettazione, direzione dei lavori, collaudo e quant'altro, al responsabile unico del procedimento spetta comunque l’incentivo.
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FATTO
   a. Con atto di citazione depositato in data 06.10.2016, ritualmente notificato, la Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale ha chiesto la condanna dei convenuti al pagamento, a favore del Comune di San Vincenzo, della somma di € 21.706,54, o della diversa somma di € 9.009,99, più rivalutazione ed interessi legali, oltre alle spese di giudizio.
La Procura ha premesso di aver ricevuto una denuncia di danno erariale riferita ad indebiti emolumenti corrisposti al dirigente dell’Area 1 Servizi per il Territorio quali compensi incentivanti in relazione all’appalto di ristrutturazione ed ampliamento del porto turistico comunale Tali emolumenti erano stati corrisposti al geom. Fi., in qualità di Responsabile Unico del Procedimento.
La Procura delegava dunque le relative indagini alla Guardia di Finanza – Nucleo Polizia Tributaria di Livorno. All’esito, ravvisava, come esposto in citazione, profili di effettiva illegittimità nell’erogazione di detti compensi.
Più nello specifico, la Procura riteneva non dovuti i compensi corrisposti al geom. Fi. a titolo di incentivi alla progettazione in relazione alla circostanza che, come riportato dal Segretario dell’Ente, escusso dalla Guardia di Finanza, “tutti gli aspetti connessi alla progettazione, direzione dei lavori …, sono stati affidati a professionisti esterni, con onere a carico della società aggiudicataria”.
Aderendo dunque alla tesi secondo la quale, in caso di “esternalizzazione” dell’attività di progettazione, viene meno il titolo per l’attribuzione di compensi incentivanti, tra gli altri, anche nei confronti del Responsabile Unico del Procedimento, la Procura ha ritenuto la corresponsione di tali compensi come indebita, quindi integrante un’ipotesi di danno erariale.
In subordine, ha comunque ravvisato profili di illegittimità anche nel quantum della somma erogata (€ 21.706,54) sia in relazione al mutamento normativo intercorso nel tempo relativo alla percentuale massima liquidabile (1,5%-2% della base d’asta), per cui avrebbe dovuto ancorarsi tale quantificazione al momento di liquidazione della somma, sia in relazione alla circostanza che la percentuale liquidata era stata computata non sull’importo posto a base di gara, ma su un diverso, maggiore importo, derivante dalla successiva approvazione di una variante generale.
La Procura ha quantificato dunque, quale seconda possibile opzione di danno erariale, un diverso ammontare di € 9.009,99, pari alla differenza tra la somma eventualmente dovuta e quella effettivamente versata.
   b. Con deduzioni svolte dai convenuti in risposta all’invito a dedurre, contenute nella memoria datata 03.05.2016, veniva riportata giurisprudenza difforme da quella citata nell’atto introduttivo, dalla quale emergeva la legittimità dell’erogazione dei compensi incentivanti al R.U.P. anche in ipotesi di esternalizzazione dell’attività di progettazione; si chiariva, ad ogni buon conto, che non tutti i profili attinenti la progettazione, nel caso di specie, erano stati esternalizzati, avendo lo stesso geom. Fi., insieme ad altri, provveduto, ad esempio, alla redazione della parte progettuale relativa ai computi metrici estimativi delle infrastrutture.
Le esposte considerazioni non venivano ritenute dalla Procura idonee ad escludere la responsabilità contestata.
...
DIRITTO
1. La prima eccezione rassegnata dalla difesa, relativa all’improcedibilità dell’azione per mancanza di prova del danno, in relazione al fatto che risulta depositata esclusivamente la determinazione di liquidazione (n. 247/2011) e non i mandati di pagamento quietanzati, va rigettata. La circostanza dell’avvenuto pagamento al Fi. della somma di € 21.706,54 risulta non contestata ma, al contrario, confermata, sia dalle dichiarazioni dello stesso Fi., sentito in audizione personale dalla Guardia di Finanza in data 23.01.2014 (verbale agli atti del fascicolo di parte attrice), sia dall’attestazione del Comune, già citata, presente agli atti del fascicolo di parte convenuta.
2. Dell’esistenza di danno erariale, derivante dall’ipotizzato depauperamento dell’Amministrazione comunale a seguito di erogazione di compensi non dovuti, risulta fornita, invece, prova contraria. Essa è costituita dalla dimostrazione dell’avvenuto introito, a titolo -tra l’altro- di un rimborso spese per progettazione, dell’ammontare di € 700.000 ricevuto dal Comune da parte della società appaltatrice, e di cui parte convenuta ha depositato le reversali d’incasso.
Detta circostanza, era stata affermata dal Fi. nell’audizione personale (in occasione della quale lo stesso aveva consegnato alla Guardia di Finanza il prospetto analitico riepilogativo delle singole voci di spesa afferenti la progettazione ed i nominativi dei professionisti cui detta attività fu esternalizzata) ove aveva specificato che in tale somma rientravano anche i compensi da lui stesso ricevuti come risulta confermato dall’ attestazione del Vice Ragioniere comunale, vistata dal Segretario Generale. Nella predetta attestazione veniva espressamente riferito che “l’importo di € 21.706,54 previsto dalla determinazione n. 247/2011 è compreso all’interno dei 700.000 €, interamente versato dalla società concessionaria con le reversali di seguito indicate….”.
Di tale dichiarazione, sottoscritta da pubblico ufficiale e valida fino a querela di falso, non è stata contestata la veridicità. La circostanza ivi affermata, comprovante la mancanza di effettivo esborso da parte dell’Amministrazione comunale dei contributi incentivanti di cui è causa, vale ad escludere il danno erariale e la conseguente ascrivibilità. Si ritiene, in ogni caso, utile analizzare anche le ulteriori eccezioni rassegnate dalla difesa.
3. La circostanza dell’integrale esternalizzazione dell’attività di progettazione, alla base dell’asserita natura di indebito degli emolumenti versati, nella ricostruzione ipotizzata dalla Procura, risulta documentalmente smentita (all. 1 e 3 fascicolo dei convenuti); dal frontespizio del Progetto definitivo (all. 1A), del Disciplinare Prestazionale (1B) e del Computo Estimativo (1C) si evince infatti con chiarezza che i computi e disciplinari delle opere idrauliche e stradali sono stati effettuati dai componenti dell’Ufficio Tecnico Comunale, geomm. Fi. e Me.; nella delibera di giunta n. 89, inoltre, viene affermato espressamente, al punto d dei deliberata, di “incaricare i geomm. Fi. e Me. di redigere la parte progettuale relativa alla redazione dei computi metrici estimativi delle infrastrutture”; appare dunque palese che l’esternalizzazione della parte progettuale non riguardò tutti gli aspetti della progettazione, ma solo parte di tale attività, cui concorsero, secondo le rispettive specializzazioni, anche dipendenti comunali (tra cui Fi.) ai quali dunque, a buon diritto, fu corrisposta la relativa quota di compenso incentivante.
È proprio alla luce di questa circostanza, e della relativa valutazione giuridica in termini di legittimità o meno della erogazione degli incentivi in caso di progettazione svolta in parte all’interno dell’Ente ed in parte mediante affidamento a soggetti esterni, che va analizzata, congiuntamente alla presente, anche l’ulteriore eccezione, relativa all’elemento psicologico, nei termini di seguito esposti.
4. Parte convenuta (già in risposta all’invito a dedurre), assumendo la carenza di colpa grave, aveva sottolineato che il problema della correttezza dell’applicazione delle norme al momento della richiesta del Filippi era stato oggetto di attenta valutazione da parte degli Organi comunali, anche alla luce del fatto che, nella predetta richiesta, era stata citata giurisprudenza, sia dell’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici che di questa Corte, favorevole alla tesi della legittimità dei compensi incentivanti in fattispecie simili a quella in esame.
In effetti, diverse sono le occasioni nelle quali l’Autorità garante ha risolto positivamente il relativo quesito: (ex pluribus, cfr. deliberazione del 18/07/2000: “
Ai sensi dell'art. 18 della legge 11.02.1994, n. 109, così come modificato dalla L. 415/1998, il responsabile del procedimento ed il coordinatore unico e relativi collaboratori sono ricompresi fra i soggetti aventi diritto alla corresponsione del fondo anche nel caso di progettazione affidata all'esterno, considerato che l'inciso riportato nella norma ("qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani") si riferisce esclusivamente al personale degli uffici tecnici e non anche al responsabile del procedimento e al coordinatore unico e relativi collaboratori”.
Deliberazione del 13/06/2000: “
Il responsabile del procedimento ha diritto all’incentivo anche nell’ipotesi di affidamento esterno della progettazione, alla luce dell’art. 18, co. 1, della legge 11.02.1994 n. 109 e s.m., che stabilisce che costituiranno economie solo le quote del compenso incentivante per prestazioni affidate all’esterno”.
Determinazione n. 43 del 25/09/2000: “
il responsabile del procedimento, il coordinatore unico e relativi collaboratori sono stati ricompresi tra i soggetti aventi diritto alla corresponsione dell'incentivo, in seguito alle modifiche all'originario testo dell'articolo 18 della legge quadro apportate con la legge n. 216/1995. Occorre quindi distinguere il periodo intercorrente tra l'entrata in vigore di questa legge e l'entrata in vigore della legge n. 144/1999.
Per il primo periodo, nel caso di progettazione affidata all'esterno, l'inciso riportato nella norma "qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani" si riferisce esclusivamente al personale degli uffici tecnici e non anche al responsabile del procedimento ed al coordinatore unico e relativi collaboratori.
L'ulteriore modifica apportata dalla legge n. 144/1999, oltre alla abrogazione del riferimento al coordinatore unico, ribadisce l'intento del legislatore di prevedere in ogni caso a favore del responsabile del procedimento e dei suoi collaboratori il diritto alla corresponsione dell'incentivo, aggiungendo espressamente la previsione che, nel caso di progettazione esterna, le quote del compenso altrimenti spettante al personale degli uffici tecnici costituiranno economie.
Pertanto, nel periodo intercorrente tra l'entrata in vigore della legge n. 216/1995 e l'entrata in vigore della legge n. 144/1999, appare legittima la corresponsione della quota parte di incentivo per gli incarichi sia di responsabile del procedimento sia di coordinatore unico, anche nel caso di progettazione affidata a professionisti esterni. Successivamente all'entrata in vigore della legge n. 144/1999, invece, solo il responsabile del procedimento ha diritto alla quota di incentivo nell'ipotesi di ricorso alla progettazione esterna
”.
Con riferimento alla giurisprudenza di questa Corte, ex multis, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 247/2014,
ha espressamente ritenuto, quale requisito per la legittimità del pagamento di contributi incentivanti, che il regolamento interno dell’Ente preveda, “l’erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi)”.
Ha aggiunto, inoltre, la Sezione di controllo: “
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
Già le posizioni espresse nelle pronunce appena riportate, lette insieme alla giurisprudenza, di contrario avviso, citata dal Requirente nell’atto introduttivo, danno la misura dell’andamento “oscillante” avuto dalla giurisprudenza di settore in materia, non consentendo, di conseguenza, una ricostruzione in termini di colpa grave della condotta tenuta dagli odierni convenuti.
5. Da ultimo, in merito al quantum erogato, si ritiene di concordare con le conclusioni dell’informativa della Guardia di Finanza, ove afferma: “
Con riferimento alla presunta anomalia di cui al precedente punto, concernente l’applicazione della percentuale del 2% piuttosto che allo 0,5%, sembrerebbe non ravvisarsi alcun profilo di criticità in quanto sia l’inizio dei lavori (anno 2005) sia la liquidazione dell’incentivo (anno 2011) ricadono entrambi nei periodi di vigenza della percentuale del 2%”.
Non altrettanto condivisibili risultano, invece, le ulteriori conclusioni: “A ben vedere, l’unica irregolarità nel calcolo dell’incentivo potrebbe essere riconducibile all’errata applicazione della percentuale del 2% sull’importo definitivo dei lavori e non sul prezzo posto a base di gara. Di contro, però, le precisazioni fornite dal dr. Gu. (sentito a sommarie informazioni dalla Guardia di Finanza in qualità di Dirigente Finanziario del Comune) parrebbero sfumare parzialmente l’ipotesi di colpa in quanto, nel caso in esame, non si trattava di un appalto di tipo tradizionale bensì di una procedura di gara con conseguente licitazione privata legata non solo alla definizione esecutiva dell’intervento, ma anche alla successiva gestione.
Infatti l’importo indicato dal bando, 15.870.690,66 €, era una cifra non basata sul progetto definitivo dell’opera, bensì desunta da un progetto di massima, che la società aggiudicataria avrebbe dovuto sviluppare per poi provvedere alla stesura del progetto definitivo ed esecutivo. Si ritiene inoltre che i 700.000 € indicati nel bando quale cifra sostenuta dall’Ente per le spese tecniche e di cui la stessa Amministrazione chiese (ed ottenne) il rimborso sembrerebbero poter contribuire alla formazione dell’importo posto a base di gara
”.
In nessuno dei documenti depositati agli atti –né tanto meno nel relativo regolamento comunale approvato con deliberazione n. 160/2000- è prevista una quantificazione del compenso incentivante che preveda il relativo computo percentuale sul progetto definitivo, invece che sulla base d’asta; né avrebbe potuto essere altrimenti atteso che, com’è noto, quella sul compenso incentivante (art. 18 legge n. 109/1994 e ss.mm.) è una disposizione di “stretta interpretazione”, in quanto norma eccezionale, che deroga al principio generale di onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico. Per tale ragione, il Collegio ritiene che, di tale previsione, non si possano avanzare interpretazioni “estensive”.
In conclusione,
la prospettata ipotesi di responsabilità erariale va ritenuta non configurabile per mancanza di danno nonché per assenza dell’elemento psicologico.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Procuratore Regionale nei confronti dei sigg. An.Fi., Ro.Gu. e Vi.Me., respinta ogni contraria istanza ed eccezione,
assolve i predetti convenuti, con conseguente rimborso, da parte dell’Amministrazione comunale, delle spese legali, forfettariamente quantificate in euro 1.500,00, oltre IVA e c.p.a. (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 21.09.2017 n. 214).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale al segretario che conferisce l'«alta professionalità» in violazione delle regole contrattuali.
Risponde di danno erariale il segretario che ha conferito l'alta professionalità a un dipendente comunale, ancor prima che la giunta comunale, unico organo competente al riguardo, approvasse il nuovo regolamento degli uffici e dei servizi e, soprattutto, istituisse le posizioni di alta professionalità all'interno dell'organigramma del Comune. A questo si aggiunga che il segretario, in assenza del responsabile finanziario, aveva anche apposto il visto contabile all’atto di conferimento.
Così ha deciso la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la sentenza 11.09.2017 n. 241 con una condanna che si basa sul fatto che il conferimento sarebbe avvenuto in violazione delle disposizioni contrattuali.
La vicenda
Un segretario comunale aveva conferito la posizione di alta professionalità al capo segreteria tecnica del sindaco, con retribuzione massima prevista e una retribuzione di risultato pari a un massimo del 30% di quella di posizione. Tutto al di fuori di qualsiasi previsione contrattuale o regolamentare.
In assenza del dirigente finanziario che era in ferie, il segretario aveva anche apposto il visto contabile rendendo esecutiva la propria determinazione di conferimento dell'incarico. Sarebbe stato proprio il dirigente finanziario, successivamente, a inviare gli atti alla procura contabile, cui faceva seguito anche un riscontro degli ispettori del Mef. Si giungeva a una deliberazione di giunta comunale sull’istituzioni delle posizioni organizzative e di alta professionalità.
L'informativa veniva notificata alla procura contabile che, a fronte delle giustificazioni ritenuti insufficienti da parte del segretario, rinviava lo stesso in giudizio innanzi il collegio contabile, quantificando il danno erariale pari alle differenze tra la retribuzione massima di alta professionalità e quella di titolare di posizione organizzativa precedentemente rivestita dal capo di segretaria tecnica del sindaco.
La difesa del convenuto
Il segretario ha difeso la propria scelta in buona fede, tale da eliminare nel caso concreto la colpa grave, precisando come vi fosse una ragionevole convinzione che l'articolo 10 del contratto collettivo nazionale non introducesse un istituto ulteriore rispetto alle posizioni organizzative ma intervenisse nell'ambito della disciplina di tale istituto aggiungendo due varianti specifiche.
La responsabilità, inoltre, non poteva essere a lui attribuita sia perché aveva proceduto su indicazione del sindaco, sia perché la relativa retribuzione comunque era dovuta in attuazione del principio di cui all'articolo 2041 del codice civile.
Le motivazioni del collegio contabile
Il quadro normativo di riferimento è rappresentato in materia di alte professionalità dall'articolo 2, comma 1, del Dlgs 165/2001, dagli articoli 8 e seguenti del contratto collettivo nazionale del 31.03.1999 Regione—Autonomie Locali e dall'articolo 10 del contratto collettivo nazionale del 22.01.2004 del personale del comparto delle Regioni e delle autonomie locali.
Secondo questo insieme di disposizioni, per l'istituzione delle alte professionalità avrebbero dovuto essere effettuati i seguenti preliminari atti organizzativi:
   a) definizione dei criteri e delle condizioni per l'individuazione delle competenze e delle responsabilità connesse agli incarichi di alta professionalità;
   b) definizione dei criteri per l'affidamento degli incarichi di alta professionalità;
   c) definizione dei criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di posizione e di risultato;
   d) definizione dei criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione organizzativa (nel rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del contratto collettivo nazionale del 31.03.1999).
In questa cornice di riferimento, il segretario non ha rispettato nessuna delle regole contrattuali citate, assegnando la posizione di alta professionalità con relativa retribuzione, stabilita al massimo consentito dalla legge, ancor prima che la giunta comunale, unico organo competente al riguardo, approvasse il nuovo regolamento degli uffici e dei servizi e, soprattutto, istituisse le posizioni di alta professionalità all'interno dell'organigramma del Comune.
In considerazione della violazione della normativa contrattuale, il segretario va condannato al risarcimento del danno causato dal conferimento dell'incarico effettuato in modo illegittimo, pari alle differenze retributive quantificate dalla Procura cui vanno, tuttavia, sottratti il valore dell'Irpef e dei contributi previdenziali in quanto somme non effettivamente erogate al titolare dell'incarico conferito e, comunque, recuperate all'erario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2017).
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MASSIMA
1. La questione all'esame del Collegio concerne la domanda giudiziale promossa dalla Procura regionale, nei confronti del signor Po.Sa. (nella sua qualità Segretario Generale), con riguardo ad una ipotesi di danno erariale arrecato al comune di Anzio, dell'importo di euro 24.355,65 in favore del Comune di Anzio, oltre alla rivalutazione ed agli interessi, nonché alle spese di giudizio in favore dello Stato, determinato dall’assegnazione -ritenuta illegittima- della posizione di "alta professionalità" al Capo della Segreteria tecnica del Sindaco.
2. Preliminarmente, seguendo un ordine logico-giuridico delle questioni poste, va scrutinata la censura di insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.
2.1 L’eccezione è infondata.
Si premette che
l’art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994 n. 20 e successive modifiche, esclude l’ingerenza del giudice contabile nelle scelte discrezionali operate dall’Amministrazione tra diverse soluzioni possibili, ugualmente legittime e lecite, per il perseguimento nel caso concreto del fine pubblico individuato dalla legge, ma consente il sindacato sull’irragionevolezza, incongruità, illogicità ed irrazionalità della scelta dei mezzi rispetto ai fini (Cass. S.U. 08.03.2005, n. 4956; id. 29.01.2001, n. 33; id. 06.05.2003, n. 6851; id. n. 14488 del 29.09.2003; id. n. 7024 del 28.03.2006; id. n. 8097 del 02.04.2007; in termini, ex multis, Sez. II App. n. 367 del 24.09.2010).
La giurisprudenza consolidata ritiene che il Magistrato contabile possa sindacare la legittimità dell’operato amministrativo non solo alla luce di regole giuridiche ben individuate ma anche in ragione di parametri non giuridici permeabili il divenire dell’azione (cfr. ex plurimis Corte dei conti, Sez. 1° d’app. sent. n. 292/2005/A, del 23.09.2005, Sezione Veneto, sent. n. 166 del 18.02.2009). Cosicché, l’esame della scelta effettuata deve essere condotto alla stregua di taluni <<…parametri obiettivi valutabili ex ante e rilevabili anche dalla comune esperienza>> (cfr. Corte dei Conti, Sez. III, 21.01.2004, n. 30/A), quali l’incongruità, l’illogicità, l’irrazionalità, l’inefficacia, l’antieconomicità, la non ragionevolezza e la non proporzionalità, tutte espressioni della non coerenza della scelta rispetto ai fini di pubblico interesse che ne contrassegnavano la relativa funzione.
E tale maggiore penetrazione del sindacato di questa Corte ha trovato avallo giuridico interpretativo nella decisione n. 7024, del 28.03.2006, delle Sezioni Unite della Cassazione, il cui orientamento è stato ribadito dalle sentenze n. 4283, del 21.02.2013, e n. 10416, del 14.05.2014 (in termini, Terza Sezione Centrale di Appello, sentenza n. 282/2017).
Ciò posto il Collegio osserva che l’istituto richiamato dalla difesa del convenuto non viene in rilievo nella vicenda in esame, in quanto la contestazione formulata dall’organo requirente non afferisce ad una scelta discrezionale dell’amministratore, bensì ad una violazione delle norme procedimentali, quindi non il “merito” dell’atto ma la sua “legittimità” (cioè la sua conformità a legge) è oggetto di censura.
3. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente danneggiato.
4. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa condivisione in ordine all’an del danno erariale contestato dall’organo requirente e per le considerazioni dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è rappresentato in materia di alte professionalità dall'art. 2, 1° co., del D.Lgs. n. 165/2001, dagli artt. 8 e seguenti del C.C.N.L. del 31/03/1999 Regione — Autonomie Locali e dall'art. 10 del C.C.N.L. del 22.01.2004 del personale del Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali.
Dalla normativa di riferimento si evince che
l'effettiva attuazione della disciplina contrattuale delle alte professionalità presuppone la preventiva definizione, con atti organizzativi di diritto comune, da parte dell'ente, dei seguenti elementi:
   · i criteri e le condizioni per l'individuazione delle competenze e delle responsabilità connesse agli incarichi di alta professionalità;
   · i criteri per l'affidamento degli incarichi di alta professionalità;
   · i criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di posizione e di risultato;
   · i criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione organizzativa (nel rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell'art. 16, comma 2°, del C.C.N.L. del 31.03.1999).

In senso conforme l'ARAN che ha ribadito come "
L'effettiva attuazione della disciplina contrattuale delle alte professionalità presuppone la preventiva definizione, con atti organizzativi di diritto comune, da parte dell'ente, dei seguenti elementi:
   - i criteri e le condizioni per l'individuazione delle competenze e delle responsabilità connesse agli incarichi di alta professionalità;
   - i criteri per l'affidamento degli incarichi di alta professionalità;
   - i criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di posizione e di risultato;
   - i criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione organizzativa (nel rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell'art. 16, comma 2°, del C.C.N.L. del 31.03.1999)
".
Tali precetti normativi non risultano osservati dal convenuto Sa., che, con propria Determinazione nr. 202 del 13/08/2013, assegnava al dott. Pa. la posizione di alta professionalità con relativa retribuzione, stabilita al massimo consentito dalla legge, ancor prima che la Giunta Comunale, unico organo competente al riguardo, approvasse il nuovo Regolamento degli Uffici e dei Servizi e, soprattutto, istituisse le posizioni di alta professionalità all'interno dell'organigramma del Comune di Anzio.
Solo quest'ultimo atto Giuntale, il nr. 95 del 10/12/2013, come anche rilevato dal M.E.F., andava a sanare la situazione sopra descritta, sebbene gli atti adottati erano comunque carenti rispetto sia alla individuazione dei criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di posizione e di risultato, sia per la valutazione periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione organizzativa.
Sono da ritenere, quindi, illegittimamente erogati al dott. Pa. i compensi (già decurtati dall’organo requirente degli emolumenti precedentemente percepiti) legati all'assegnazione dell'alta professionalità:
   · per il periodo che va dal 13/08/2013 sino al 10/12/2013 di €. 3.058,56,
in considerazione dell’attribuzione dell’incarico in totale assenza di base normativa;
   · per il periodo successivo 01.01.2014-31.12.2015 di €. 21.297,09,
in ragione dell’assenza di precisi parametri preventivamente stabiliti dalla Giunta Comunale, parametri, non delineati da nessuno degli atti giuntali adottati.
5. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in ordine alla quantificazione del danno erariale -operata dall’organo requirente in euro 24.355,65- che deve, invece, tener conto -e ciò in accoglimento delle argomentazioni difensive- di IRPEF e CPDEL e altre ritenute pari ad euro 7.549,52.
Si reputa che il danno non possa comprendere somme non effettivamente erogate al dott. Pa. e, comunque, recuperate all’erario. Ne consegue che il danno risarcibile va rideterminato in euro 16.806,13.
6.
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa si reputa che la condotta del convenuto sia stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione di disposizioni normative chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine all’attribuzione dell’incarico di alta professionalità.
6.1
La fattispecie, peraltro, non si reputa integri -contrariamente all’assunto difensivo- un errore scusabile, nella considerazione che la eventuale presenza di un precedente di contenuto identico (determina n. 111 del 16/12/2011), non si pone quale esimente per:
   · l’assenza di una situazione oggettiva di incertezza o di difficoltà interpretativa delle norme violate;
   · il livello apicale del convenuto che presuppone una elevata professionalità.

7. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in esame, anche gli altri elementi della responsabilità amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non contestato- e del nesso di causalità.
8.
Non meritevole di accoglimento si reputa, infine, la richiesta formulata dal patrono del convenuto di applicazione del disposto dell’articolo 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 (come modificata dal D.L. 543/1996 conv. in L. 639/1996), norma che, codificando con riguardo al settore della responsabilità amministrativa l’istituto civilistico-pretorio della compensatio lucri cum damno, prevede che il giudice contabile debba tener conto dei “vantaggi comunque conseguiti” sia dall'amministrazione di appartenenza e dalla comunità amministrata che “da altre amministrazioni, come da integrazione al testo della suddetta norma introdotta all’articolo 17, comma 30-quater, del d.l. n. 78/2009, come modificato dalla legge di conversione n. 102/2009.
Peraltro, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza contabile,
il riconoscimento giudiziale della compensatio risulta subordinato al riscontro della sussistenza di rigorosi presupposti, sostanzialmente in linea con quelli richiesti dall’istituto civilistico e conformati al contesto pubblicistico di riferimento, ovvero: l’effettività del vantaggio, la identità causale tra il fatto produttivo del danno e quello produttivo dell’utilitas e la corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali dell’amministrazione che se ne appropria (ex multis: Sez. I Centr. App., sent. n. 261 del 12.09.2001; Sez. II Centr. App.; SS.RR., sent. n. 5 del 24.01.1997; Cass. SS. UU., sent. n. 5 del 1997).
Sul terreno processuale, la giurisprudenza contabile ha altresì chiarito che i “Vantaggi” conseguiti costituiscono fatti, da accertare con criterio ex post, il cui onere probatorio, nell’an e nel quantum (pur potendo il giudice, per quest’ultimo aspetto, far uso del potere equitativo ex art. 1226 c.c.), incombe sul convenuto in base al tradizionale riparto previsto dall’art. 2697, co. 1, c.c., traducendosi in un’eccezione in senso proprio relativa a fatto di natura modificativa del diritto risarcitorio azionato in giudizio.
Con riguardo peraltro al caso di specie,
il Collegio ritiene, coerentemente con i principi di diritto richiamati, che i vantaggi conseguiti dall’amministrazione siano stati solo affermati e non concretamente provati.
9. In conclusione,
accertata l’esistenza di tutti i requisiti costitutivi della responsabilità amministrativa, la domanda della Procura va accolta per le ragioni da questa prospettate ma nella diversa misura dal Collegio determinata in euro 16.806,13, comprensive di rivalutazione monetaria, e interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette,
CONDANNA, per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui all’atto di citazione in epigrafe, il signor Po.Sa. al pagamento, in favore del comune di Anzio, per complessivi euro 16.806,13, comprensive di rivalutazione monetaria.
Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla pubblicazione della presente decisione all’effettivo soddisfo.

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Annullamento d’ufficio e revoca - Revoca - Interesse pubblico - Art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 - Individuazione - Fattispecie in tema di realizzazione di un progetto di pubblica utilità.
La sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica la revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies, l. 07.08.1990, n. 241 non deve necessariamente concretarsi nell’adozione di tutti gli atti prescritti per la realizzazione dei un progetto di pubblica utilità, occorrendo però che siano stati posti in essere gli atti idonei a determinare un sufficiente livello di concretizzazione dell’iniziativa che non può dunque essere limitato ad un mero auspicio dell’Amministrazione, ma deve consistere in una serie di iniziative che abbiano determinato un sufficiente grado di sviluppo della pubblica utilità sulla base della quale si dispone la revoca; così determinato l’interesse pubblico sopravvenuto, al Giudice amministrativo resta preclusa ogni ulteriore valutazione di merito (1).
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   (1) Il Tar ha chiarito che la revoca costituisce un provvedimento amministrativo, di secondo grado, che l’Amministrazione adotta per eliminare dal mondo giuridico, sia pure con effetto ex nunc, un proprio precedente atto.
La l. n. 15 del 2005, codificando l’istituto in parola mediante l’introduzione nel testo della l. n. 241 del 1990 dell’art. 21-quinquies, ha aggiunto due ulteriori tasselli alla ricostruzione giuridica di esso, prevedendo da un lato l’indennizzo in favore del destinatario del provvedimento di revoca e dall’altro la giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie afferenti la determinazione e la corresponsione dell’indennizzo stesso (ora, peraltro, sancita all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 4 dell’art. 133 c. pr. amm).
Il Tar ha dato atto che il citato art. 21-quinques ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti alternativi, che ne legittimano l’adozione: a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per mutamento della situazione di fatto; c) per nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, possibile non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi) (TAR Molise, sentenza 29.09.2017 n. 327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine di trenta giorni fissato dall'articolo 116 del c.p.a. per proporre ricorso contro il diniego di accesso ai documenti ha natura perentoria.
Inoltre, ai sensi dell’art. 87, commi 2 e 3, c.p.a., nei giudizi in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 116 c.p.a., i termini processuali (tranne quelli per la notifica del ricorso) sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, compreso quindi il termine per il deposito del ricorso presso il Tribunale.

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... per l'annullamento del verbale di accesso ed estrazione di atti amministrativi del 08/03/2017, protocollato al nr. 100/241 del Registro Generale con cui è stata consentito -solo parzialmente e con considerevoli limitazioni- l’esercizio del relativo diritto, a seguito di istanza avanzata dal ricorrente in data 26/01/2017,
- nonché, per l’accertamento e la declaratoria del diritto di accesso e l’emanazione dell’ordine di esibizione, senza alcuna limitazione, dei documenti richiesti ex art. 116, comma 4, C.P.A.;
...
Tanto premesso, deve essere rilevato che il termine di trenta giorni fissato dall'articolo 116 del c.p.a. per proporre ricorso contro il diniego di accesso ai documenti ha natura perentoria; inoltre, ai sensi dell’art. 87, commi 2 e 3, c.p.a., nei giudizi in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 116 c.p.a., i termini processuali (tranne quelli per la notifica del ricorso) sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, compreso quindi il termine per il deposito del ricorso presso il Tribunale.
Tanto precisato, rileva il Collegio che il ricorrente ha avuto contezza della parzialità dell’accesso in data 08.03.2017, mentre il ricorso in esame è stato notificato solo il 12.04.2017, oltre il termine di trenta giorni; inoltre, al deposito del ricorso si è proceduto solo il successivo 15.05.2017. Pertanto, è irricevibile, ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. a), c.p.a., il ricorso introduttivo dell’azione ex art. 116 c.p.a. notificato oltre il termine di trenta giorni e depositato oltre il termine dimidiato di 15 giorni decorrente dalla data di perfezionamento della notificazione per il destinatario.
Non si dà luogo a pronuncia sulle spese per la mancata costituzione in giudizio del Ministero intimato (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 27.09.2017 n. 9946 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi inizia a decorrere quando i lavori autorizzati rivelano in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica.
E in particolare ciò vale quando i ricorrenti contestino in radice la possibilità di edificare, poiché in questa ipotesi anche il mero inizio dei lavori risulta sufficiente ai fini della conoscenza dell'iniziativa in corso, rappresentando quell’attività materiale che, nei confronti dei terzi, è idonea a sostituire la conoscenza dell’atto e a integrare quelle circostanze concrete che univocamente manifestano la lesività dell’azione amministrativa.

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2. - Il ricorso introduttivo, in effetti, deve essere dichiarato irricevibile per tardività nella parte in cui impugna la concessione edilizia n. 3330 del 07.04.2006, avente ad oggetto la costruzione di una struttura turistico-alberghiera in località Valle dell'Erica, la concessione edilizia del 30.04.2008, n. 3533, avente ad oggetto la variante in corso d'opera dei lavori per la costruzione della struttura in questione e l’autorizzazione paesaggistica.
Secondo la costante giurisprudenza, il termine per l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi inizia a decorrere quando i lavori autorizzati rivelano in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica.
E in particolare ciò vale quando i ricorrenti contestino in radice la possibilità di edificare, poiché in questa ipotesi anche il mero inizio dei lavori risulta sufficiente ai fini della conoscenza dell'iniziativa in corso, rappresentando quell’attività materiale che, nei confronti dei terzi, è idonea a sostituire la conoscenza dell’atto e a integrare quelle circostanze concrete che univocamente manifestano la lesività dell’azione amministrativa (si veda, per tutte, Cons. St., IV, 08.07.2002, n. 3805) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 26.09.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Criterio di quantificazione del contributo di costruzione.
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Edilizia - Permesso di costruire – Contributo di costruzione – Determinazione del dovuto – Criterio - Riferimento alle tariffe vigenti al tempo dell’emanazione e non del rilascio.
Il contributo di costruzione dovuto si determina con riferimento alle tariffe vigenti al tempo dell’emanazione e non del rilascio (1)
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   (1) Ha chiarito il Tar che l'individuazione di quale sia il momento in cui si liquidano gli importi relativi agli oneri di urbanizzazione e al contributo di costruzione deve avvenire ai sensi dell’art. 16, commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui «il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione».
Il riferimento normativo al rilascio del permesso di costruire implica che l’adempimento dell’obbligo relativo al pagamento degli oneri non costituisce un elemento necessario perché si perfezioni l’atto amministrativo (permesso di costruire); piuttosto, l’atto del privato si colloca in un momento successivo, quello del rilascio (o della consegna) del provvedimento perfetto in tutti gli elementi richiesti dalla disciplina normativa. L’atto del privato (di adempimento degli obblighi di pagare il contributo di costruzione) si inserisce nel procedimento amministrativo avviato con la sua domanda di permesso di costruire, ma assume la funzione di atto integrativo dell’efficacia, non condizionante la fase di decisione e di adozione del provvedimento finale.
Il che si ricava non solo, sul piano letterale, da quanto previsto dall’art. 16 cit. ma anche dalla disciplina sul termine di inizio dei lavori autorizzati con il permesso di costruire, che l’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, fa decorrere «dal rilascio del titolo». Uno degli effetti essenziali del permesso di costruire (ossia, il termine per l’inizio dei lavori, il cui superamento comporta la decadenza dal titolo edilizio) è, quindi, espressamente subordinato al rilascio; rilascio che è, a sua volta, condizionato dal compimento di un atto del privato interessato (il pagamento del contributo di costruzione).
Il condizionamento dell’efficacia del permesso di costruire all’atto di adempimento del privato (o, in altri termini, la sospensione degli effetti del permesso, pur perfetto sotto ogni altro profilo giuridicamente rilevante, fino al compimento dell’atto del privato) rappresenta lo strumento per assicurare all’amministrazione l’adempimento degli obblighi e l’acquisizione del vantaggio patrimoniale che ne deriva. Né può ritenersi che l’eventuale ritardo del privato nell’adempiere rimanga senza sanzione, poiché il permesso (perfetto in tutti i suoi elementi e quindi emanato, ma non ancora rilasciato) rimane esposto alla decadenza per effetto dell’entrata in vigore di una nuova e contrastante disciplina urbanistica (arg. art. 15 cit., comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 26.09.2017 n. 597 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
6. - La questione giuridica centrale, sollevata con i motivi del ricorso, concerne essenzialmente l’individuazione di quale sia il momento in cui si liquidano gli importi relativi agli oneri di urbanizzazione e al contributo di costruzione.
Secondo l’art. 16, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 380/2011, «il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione».
Il riferimento normativo al rilascio del permesso di costruire implica che l’adempimento dell’obbligo relativo al pagamento degli oneri non costituisce un elemento necessario perché si perfezioni l’atto amministrativo (permesso di costruire); piuttosto, l’atto del privato si colloca in un momento successivo, quello del rilascio (o della consegna) del provvedimento perfetto in tutti gli elementi richiesti dalla disciplina normativa.
L’atto del privato (di adempimento degli obblighi di pagare il contributo di costruzione) si inserisce nel procedimento amministrativo avviato con la sua domanda di permesso di costruire, ma assume la funzione di atto integrativo dell’efficacia, non condizionante la fase di decisione e di adozione del provvedimento finale.

Il che si ricava non solo, sul piano letterale, da quanto previsto dall’art. 16 cit. ma anche dalla disciplina sul termine di inizio dei lavori autorizzati con il permesso di costruire, che l’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, fa decorrere «dal rilascio del titolo» (la Regione Sardegna con la legge 03.07.2017, n. 11, ha ora dettato, con l’articolo 1, comma 1, che ha introdotto il comma 2 dell’art. 3 della legge regionale 11.10.1985, n. 23, una puntuale disciplina sostitutiva di quella prevista dal T.U. dell’edilizia).
Uno degli effetti essenziali del permesso di costruire (ossia, il termine per l’inizio dei lavori, il cui superamento comporta la decadenza dal titolo edilizio) è, quindi, espressamente subordinato al rilascio; rilascio che è, a sua volta, condizionato dal compimento di un atto del privato interessato (il pagamento del contributo di costruzione).
Dalla disciplina sopra esposta, si possono ricavare alcune conclusioni di notevole rilievo.
Per un verso
,
si deve ritenere che l’atto del privato ha natura di mera operazione (o, in ogni caso, di atto privo di profili negoziali); per altro verso, il condizionamento dell’efficacia del permesso di costruire all’atto di adempimento del privato (o, in altri termini, la sospensione degli effetti del permesso, pur perfetto sotto ogni altro profilo giuridicamente rilevante, fino al compimento dell’atto del privato) rappresenta lo strumento per assicurare all’amministrazione l’adempimento degli obblighi e l’acquisizione del vantaggio patrimoniale che ne deriva.
Né può ritenersi che l’eventuale ritardo del privato nell’adempiere rimanga senza sanzione, poiché il permesso (perfetto in tutti i suoi elementi e quindi emanato, ma non ancora rilasciato) rimane esposto all’impossibilità del suo rilascio (con sostanziale decadenza) per effetto dell’entrata in vigore di una nuova e contrastante disciplina urbanistica (arg. art. 15 cit., comma 4).

7. – Passando al caso di specie, risulta dalla documentazione in atti che l’amministrazione comunale ha provveduto a comunicare alla sig.ra Pr. la determinazione del dovuto a titolo di contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e quota di incidenza sul costo di costruzione) con nota del 12.01.2009. Pertanto, all’epoca, la fase di decisone e di emanazione del permesso di costruire si era perfezionata.
Inoltre, il pagamento degli oneri da parte della ricorrente è stato comunque effettuato (come visto) il 24.02.2009 (data in cui la Sig.ra Pr. ha presentato la ricevuta di versamento del 50% degli oneri di urbanizzazione e la polizza fideiussoria); quindi, in data antecedente alla approvazione delle nuove tariffe per gli oneri e per il costo di costruzione (avvenuta con determinazioni del 04.03.2009).
8. - Ne deriva che la nota del 24.03.2009, n. 3800, con la quale il Comune ha proceduto al ricalcolo del contributo di costruzione, contiene una pretesa indebita (nella parte in cui determina il contributo in euro 8.888,58, in luogo di euro 2.813,64: cfr. doc. 6 della produzione della ricorrente), dovendosi –nella fattispecie– applicare le tariffe in vigore alla data del 12.01.2009.
Alla ricorrente, pertanto, spetta il rimborso delle somme indebitamente versate, con la conseguente condanna del Comune di Loiri Porto San Paolo al pagamento dell’importo di euro 6.074,94.
9. - Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto per le ragioni sopra esposte.

ATTI AMMINISTRATIVI: Nullità della notifica Pec ad una Pubblica amministrazione effettuata ad indirizzo di posta elettronica non inserito nel registro del Ministero della giustizia.
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Processo amministrativo – Notifica del ricorso – A mezzo posta elettronica certificata – A Pubblica amministrazione – Ad indirizzo di posta elettronica non inserito nel registro del Ministero della giustizia – Nullità.
E’ nulla la notifica del ricorso giurisdizionale effettuata ad una Pubblica amministrazione presso un indirizzo di posta elettronica non inserito nell’apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’art. 14, d.m. 16.02.2016, n. 40 (Regole operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico), stabilisce che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi pec di cui all’art. 16, comma 12, d.l. 18.10.2012, n. 179 convertito, con modificazioni, dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Ai sensi del successivo art. 16-ter, n. 1, si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 4 e 16, n. 12, dello stesso decreto, dall'articolo 16, comma 6, d.l. 29.11.2008, n. 185, dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia.
A sua volta, il n. 1-bis dell’art. 16-ter del medesimo d.l. n. 179 del 2012 estende alla giustizia amministrativa l’applicabilità del n. 1 dello stesso art. 16-ter, a tenore del quale ai fini della notificazione si intendono per pubblici elenchi “quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'art. 16, comma 6, d.l. 29.11.2008, n. 185, dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.
Non è più espressamente annoverato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi pec da utilizzare per le notificazioni e comunicazioni degli atti il registro IPA, disciplinato dall'art. 16, n. 8, d.l. n. 185 del 2008.
Ne discende che ai fini della notifica telematica di un atto processuale ad una amministrazione pubblica non potrà utilizzarsi qualunque indirizzo pec, ma solo quello inserito nell’apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia, al quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli entro il 30.11.2014.
In difetto di tale iscrizione, la notificazione degli atti processuali può essere validamente eseguita solo con le tradizionali modalità cartacee (Tar Palermo, sez. III, 13.07.2017 n. 1842) (TAR Basilicata, sentenza 21.09.2017 n. 607 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
4.2. Con una seconda eccezione, la controinteressata ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso per nullità della notificazione, in quanto il ricorso sarebbe stato «notificato ad un indirizzo di posta elettronica (...@cert.aci.it) intestata alla dott.ssa Di. che, pur essendo inserito nel registro Inipec, non è una posta certificata attiva».
In tal senso, «la presente costituzione deve intendersi avente valore meramente notiziale, in quanto è limitata a far conoscere all’Ecc.mo Collegio vizi di nullità della notificazione, diversamente non rilevabili».
4.2.1. L’eccezione va disattesa.
Sul punto è agevole richiamare l’art. 44, n. 3, cod. proc. amm., secondo cui la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso.
Nel caso di specie, si versa, appunto, in ipotesi di nullità e non di inesistenza della notificazione, in quanto ricorrono i requisiti che caratterizzano la fattispecie legale minima della notificazione, ovverosia la trasmissione da parte di un soggetto qualificato dalla legge, e il momento della consegna in senso lato, intesa come raggiungimento di un esito «qualsiasi» previsto dalla legge, esclusa soltanto la pura e semplice riconsegna al mittente sì da dover reputare la notificazione meramente tentata e non perfezionata (Cass., Sez. Un., 20.07.2016, n. 14917).
Invero, nel caso di specie vi è agli atti di causa la prova dell’accettazione da parte del sistema della notificazione telematica del ricorso e del suo successivo inoltro, mentre la stessa controinteressata riconosce che l’indirizzo di posta elettronica (...@cert.aci.it) intestata alla dott.ssa Di. è inserito nel registro Inipec.
4.2.2. Del pari, ricorre l’effetto sanante costituito dalla costituzione del destinatario della notificazione, che opera anche nel caso in cui la costituzione stessa sia stata fatta al solo fine di eccepire la nullità (Cass. Sez. Un. 14917 del 2016 cit.), e nella fattispecie la controinteressata non si è limitata a tale eccezione, ma ha svolto difese in rito e nel merito.
4.3. E’ stata ulteriormente eccepita la nullità della notificazione effettuata alla ASM, perché effettuata presso un indirizzo di posta elettronica non inserita nell’apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia.
4.3.1. La tesi va condivisa. Il d.m. 16.02.2016, n. 40, recante le regole operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, all’art. 14 stabilisce che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi pec di cui all’art. 16, n. 12, del d.l. n. 179 del 2012.
Ai sensi del successivo art. 16-ter, n. 1, si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, n. 12, del presente decreto, dall'articolo 16, n. 6, del decreto legge 29.11.2008, n. 185, dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia.
A sua volta, il n. 1-bis dell’art. 16-ter del medesimo d.l. n. 179 del 2012 estende alla giustizia amministrativa l’applicabilità del n. 1 dello stesso art. 16-ter, a tenore del quale ai fini della notificazione si intendono per pubblici elenchi “quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2, dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.
Non è più espressamente annoverato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi pec da utilizzare per le notificazioni e comunicazioni degli atti il registro IPA, disciplinato dall'art. 16, n. 8, d.l. 29.11.2008, n. 185.
Ne discende che
ai fini della notifica telematica di un atto processuale ad una amministrazione pubblica non potrà utilizzarsi qualunque indirizzo pec, ma solo quello inserito nell’apposito registro tenuto dal Ministero della Giustizia, al quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli entro il 30.11.2014. In difetto di tale iscrizione, la notificazione degli atti processuali può essere validamente eseguita solo con le tradizionali modalità cartacee (in termini, TAR Sicilia, Sez. III, 13.07.2017 n. 1842).
4.3.2. Nella presente questione la notificazione all’Azienda Sanitaria di Matera è avvenuta presso l’indirizzo di posta elettronica asmbasilicata@cert.ruparbasilicata.it estratto dal registro Indicepa.gov.it, mentre non è contestato che l’ASM di Matera non disponga di «un indirizzo pec in pubblico elenco utilizzabile ai fini della notificazione in via telematica ex art. 16, comma 12, D.L. n. 179/2012».
4.3.3. Il procuratore della ricorrente, in camera di consiglio, ha evidenziato che il sito dell’Azienda sanitaria intimata reca l’indicazione del recapito p.e.c. utilizzato ai fini della notificazione del ricorso, e ciò sarebbe idoneo a integrare il caso dell’errore scusabile.
In senso contrario il Collegio deve tuttavia osservare che, sebbene effettivamente il sito internet in questione rechi l’indicazione della casella p.e.c. asmbasilicata@cert.ruparbasilicata.it,
incombe sul ricorrente l’onere di verificare se tale recapito sia utile ai fini della notificazione dei ricorsi in vigenza del c.d. processo amministrativo telematico. Né si tratta di attività di speciale difficoltà, risolvendosi la stessa nella consultazione dei registri all’uopo individuati dalle disposizioni di riferimento, innanzi richiamate.
Inoltre, nel sito aziendale si legge, a tal riguardo, che «l'Azienda Sanitaria Locale di Matera ha attivato l'indirizzo di Posta Elettronica Certificata (PEC), come previsto dalla Legge n. 69 del 2009».
Ebbene, tale ultima disposizione, all’art. 34, si limita a sancire che «entro il 30.06.2009, le amministrazioni pubbliche già dotate di un sito internet sono tenute a pubblicare nella pagina iniziale del loro sito un indirizzo di posta elettronica certificata a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta, in adempimento alle norme del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82. Le amministrazioni devono altresì assicurare un servizio che renda noti al pubblico i tempi di risposta, le modalità di lavorazione delle pratiche e i servizi disponibili», senza nulla prevedere in relazione alla notificazione dei ricorsi giurisdizionali.
Infine, l’art. 37 cod. proc. amm. riconnette l’errore scusabile alla «presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto», nella specie non ravvisabili. Del resto, si tratta di istituto di carattere eccezionale, che introduce una deroga al principio cardine della perentorietà dei termini di impugnativa, sicché la disposizione è di stretta interpretazione.
5. Dalle considerazioni che precedono discende la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legittimità della pubblicazione dei redditi dei dirigenti sul sito web dell’Amministrazione.
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Pubblico impiego privatizzato – Dirigenti – Trasparenza – Pubblicazione reddito – Art 14, comma 1-bis e comma 1-ter, d.lgs. n. 33 del 2013 – Violazione artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis e comma 1-ter, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. c), d.lgs. 25.05.2016, n. 97, nella parte in cui prevedono che le Pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 Cost. (1).
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   (1) In punto di fatto, va rilevato che erano stati gravati, dinanzi al Tar Lazio, i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali che hanno dato applicazione nei loro confronti alla norma di cui all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, laddove prevede, in analogia con quanto già previsto per i titolari di incarichi politici di cui al comma 1, che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web, oltre che gli altri dati elencati nel comma 1 dell’art. 14, anche i dati dei titolari di incarichi dirigenziali di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) e f), dello stesso d.lgs. n. 33 del 2013, costituiti da:
c) "i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici";
f) "le dichiarazioni di cui all'art. 2, l. 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso.”.
In particolare, in attuazione della predetta norma, il Garante ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e precisamente: copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti, come previsto dalla Linee guida del Garante; dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo lo schema allegato alla richiesta; dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, pel caso si avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive situazioni patrimoniali, sempre secondo il modello allegato; dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Tale disposizione normativa sarebbe violativa degli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dell’art. 6 del Trattato UE, dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 6 della direttiva 95/46/CE, dell’art. 5 del Regolamento 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27.04.2016, da applicarsi negli Stati membri a decorrere dal 25.05.2018, nonché degli artt. 117, 3, 13, 2 Cost..
Il Tar ha ritenuto la questione non manifestamente infondata
Ha premesso che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza costituiscono il canone complessivo che governa l’equilibrio del rapporto tra esigenza, privata, di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza.
Ha ritenuto, quanto alla equiparazione dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici, originari destinatari della prescrizione di cui all’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, che i rapporti e le responsabilità che correlano, da un lato, i titolari di incarichi politici, dall’altro, i dirigenti pubblici, allo Stato e, indi, ai cittadini, si collocano su piani non comunicanti, in un insieme che rende del tutto implausibile la loro riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza, nell’ambito di un identico regime.
Ha aggiunto, quanto alla legittimità della prescrizione imposta ai dirigenti di pubblicare i dati in contestazione, invece che, a tutela della proporzionalità della misura, una loro ragionata elaborazione, atta a scongiurare incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni distorte. La disposizione di cui trattasi comporta la divulgazione online di dati reddituali e patrimoniali relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il secondo grado, ove essi acconsentano.
E’ prevista anche, pel caso di mancato consenso del coniuge o del parente entro il secondo grado, la menzione dello stesso. I dati in parola, essendo desunti dalla dichiarazione dei redditi, si collocano a un livello di notevole dettaglio. Le caratteristiche di una siffatta pubblicazione la rendono indubbiamente foriera di usi da parte del pubblico che possono trasmodare dalla finalità della trasparenza, sino a giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati.
Il Tar ha infine escluso che la disposizione cointestata sia suscettibile di essere disapplicata per contrasto con normative comunitarie, posto che non è individuabile una disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, ordinanza 19.09.2017 n. 9828 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il riconoscimento della qualifica di controinteressato in senso tecnico (ossia di litisconsorte necessario) è subordinato alla sussistenza di due elementi: uno di carattere formale quale, ai sensi dell’art. 41 c.p.a., la sua espressa menzione nel provvedimento impugnato; ed uno sostanziale, radicato nella titolarità di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato.
Con particolare riferimento all'impugnativa dei provvedimenti in materia edilizia, va considerato che di norma nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione o d’interdizione al proseguimento dei lavori non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
In altri termini, è controinteressato in senso tecnico (soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale) direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo o dall'attività repressiva dell'amministrazione.
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6. Gli appelli oggettivamente e soggettivamente connessi devono essere riuniti.
7. In limine sull’eccezione d’inammissibilità dei ricorso di prime cure per omessa notifica ai controinteressati.
7.1 L’eccezione è infondata.
7.2 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, a mente del quale il riconoscimento della qualifica di controinteressato in senso tecnico (ossia di litisconsorte necessario) è subordinato alla sussistenza di due elementi: uno di carattere formale quale, ai sensi dell’art. 41 c.p.a., la sua espressa menzione nel provvedimento impugnato; ed uno sostanziale, radicato nella titolarità di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato.
Con particolare riferimento all'impugnativa dei provvedimenti in materia edilizia, va considerato che di norma nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione o d’interdizione al proseguimento dei lavori non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011, n. 3380; Id., sez. V, 03.07.1995, n. 991).
In altri termini, è controinteressato in senso tecnico (soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale) direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo o dall'attività repressiva dell'amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.09.2017 n. 4381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Appare condiviso in giurisprudenza che l’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, debba intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi “iniziati” quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
Vero è che la mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n. 380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera assentita.
Nondimeno nel caso di specie non si trattava di “mera esecuzione di sbancamento” ma di concreti ed effettivi lavori “in corso di esecuzione” per il livellamento dei muri.

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Ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. cit. “La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.”.
Nel caso di specie, le varie denunce e contestazioni poste in essere dai vicini rappresentano dei “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, soprattutto nel caso di presentazione di una pluralità di esposti e di ricorsi avverso il soggetto titolare del permesso di costruire, il quale s’è visto costretto a dover assumere tutte le iniziative del caso per difendersi da questi eventi di forza maggiore che impediscono di portare a termine, nei tempi prestabiliti, i lavori.
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9. Nel dettaglio ai motivi di appello.
10. L’infondatezza nel merito dell’appello consente di prescindere dall’eccezione d’inammissibilità dell’appello (recte di parte dei motivi d’appello), proposta dalla società appellata, sul rilievo che gli intervenienti adesivi dipendenti, intervenuti ad oppenendum in primo grado, non sono titolari di una posizione che li legittimi ad impugnare autonomamente la sentenza.
10.1 Per restituire un minimo di organicità ai motivi d’appello, le censure vanno ricondotte a tre ordini di argomenti che fungono da comune denominatore: la legittimità del provvedimento di decadenza; la legittimità o meno del rilascio della proroga dell’inizio lavori; la supposta violazione dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 in combinato disposto con l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
10.2 Sul motivo che deduce la violazione dell’art. 15 e ss. d.P.R. 380/2001.
10.3 Va condiviso il capo di sentenza che ha affermato l’illegittimità del provvedimento di decadenza del permesso di costruire n. 73 del 28.06.2006 per mancato inizio e termine dei lavori nei tempi stabiliti dalla normativa edilizia di riferimento.
Il provvedimento è stato emesso sulla base di un’irragionevole interpretazione dell’art. 15 d.P.R. n. 380/2001, il quale prevede un termine massimo di un anno, decorrente dal rilascio del permesso di costruire, entro cui iniziare i lavori, nonché un termine di tre anni, dall’inizio dei lavori, per completare l’opera.
Appare condiviso in giurisprudenza che l’inizio lavori, ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, debba intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi “iniziati” quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
Vero è che la mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n. 380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera assentita.
10.4 Nondimeno nel caso di specie non si trattava di “mera esecuzione di sbancamento” ma di concreti ed effettivi lavori “in corso di esecuzione” per il livellamento dei muri.
Lo attesta, ai sensi del verbale di sopralluogo redatto dai Carabinieri, la presenza nei “vani ancora esistenti” del materiale oggetto di demolizione nonché la nota del 03.07.2007 dell’avv. Ce.Al., nella qualità di procuratore della confinante Sig.ra An.Zu., con la quale si chiedeva al Comune, Regione e Soprintendenza di far sospendere i lavori alla Sn.St. S.a.s.: l’atto dimostra che un inizio di lavori c’era effettivamente stato prima del verbale del 2009, in quanto la confinante Sig.ra An.Zu. non avrebbe avuto motivo di sollecitare l’intervento l’avv. Al. per delle mere pulizie del fondo e rimozione dei detriti.
10.5 Anche la concessione di proroga emessa dal Comune risulta legittima.
Infatti, ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. cit. “La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.”.
10.6 Le varie denunce e contestazioni poste in essere dai vicini rappresentano dei “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, soprattutto nel caso di presentazione di una pluralità di esposti e di ricorsi avverso il soggetto titolare del permesso di costruire, il quale s’è visto costretto a dover assumere tutte le iniziative del caso per difendersi da questi eventi di forza maggiore che impediscono di portare a termine, nei tempi prestabiliti, i lavori
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.09.2017 n. 4381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali: tutte le offerte caratterizzate dal medesimo valore vanno considerate “unica offerta”.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Offerta al prezzo più basso – Taglio delle ali – Calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali – Criterio – Art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 - Individuazione.
Ai fini del calcolo dell’anomalia dell’offerta nel caso in cui il criterio dell’aggiudicazione è quello del prezzo più basso:
   a) il comma 1 dell’art. 86, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 deve essere interpretato nel senso che, nel determinare il dieci per cento delle offerte con maggiore e con minore ribasso (da escludere ai fini dell’individuazione di quelle utilizzate per il computo delle medie di gara), la stazione appaltante deve considerare come ‘unica offerta’ tutte le offerte caratterizzate dal medesimo valore, e ciò sia se le offerte uguali si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse;
   b) il secondo periodo del comma 1 dell’art. 121, d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”) deve a propria volta essere interpretato nel senso che l’operazione di accantonamento deve essere effettuata considerando le offerte di eguale valore come ‘unica offerta’ sia nel caso in cui esse si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse (1).

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   (1) La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da Cons. St., sez. III, ord., 13.03.2017, n. 1151. Ad avviso dell’Adunanza plenaria, prevalenti ragioni testuali e sistematiche depongono nel senso dell’adesione al prevalente orientamento secondo il quale, ai fini del comma 1 dell’art. 86, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e del comma 1 dell’art 121, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, le offerte di identico ammontare devono essere accantonate sia nel caso in cui si collochino al margine delle ali, sia nel caso in cui si collochino all’interno di esse (si tratta della tesi che, sia pure con qualche inevitabile semplificazione, è stata ricondotta all’etichetta definitoria del ‘criterio relativo’ o del ‘blocco unitario’).
Militano, ad avviso dell’Alto consesso, in favore dell’adesione alla tesi del c.d. ‘blocco unitario’ elementi di carattere testuale e di carattere teleologico.
Un primo argomento di carattere testuale è desumibile dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 121, d.P.R. n. 207 del 2010 secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”. Tale disposizione sancisce il generalizzato obbligo di accantonare le offerte che presentino identico valore rispetto ad altre oggetto di accantonamento e non legittima (se non all’esito di complesse operazioni logiche che non rinvengono agevole conforto nella disposizione in questione) un’interpretazione volta a limitare l’accorpamento alla sola ipotesi di offerte collocate ‘al margine’ dell’ala e ad escluderlo nel caso di offerte collocate ‘all’interno’ dell’ala stessa.
Un secondo argomento di carattere testuale, che depone nel medesimo senso, è desumibile dalla comparazione fra il primo e il secondo periodo del più volte richiamato art. 121. Il primo periodo stabilisce che le offerte diverse da quelle interessate dal ‘taglio’ (e in relazione alle quali si opererà il computo delle medie di gara) vanno considerate in modo distinto e, per così dire, ‘atomistico’ ai fini di tale computo; il secondo periodo, invece, richiama in modo espresso l’applicazione del c.d. ‘criterio relativo’ in relazione al caso delle offerte ‘estreme’ (senza peraltro legittimare distinzioni di sorta fra il caso di offerte poste al margine e di offerte poste all’interno delle ali).
Occorre quindi riconoscere la diversità disciplinare che caratterizza le due richiamate ipotesi, astenendosi dall’operare vere e proprie commistioni quali quelle proposte dalla tesi ad oggi minoritaria (la quale, a ben vedere, postula il concomitante operare sia del criterio c.d. ‘assoluto’, sia del criterio c.d. ‘relativo’ all’interno di ipotesi sotto ogni aspetto omogenee, quali quelle relative alle offerte marginali interessate dal c.d. ‘taglio delle ali’).
A supporto della conclusione alla quale è pervenuta l’Adunanza plenaria militano anche motivazioni di carattere sistematico, quale l’idoneità a ostacolare condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso e a evitare che identici ribassi possano limitare l’utilità dell’accantonamento ed ampliare in modo eccessivo la base di calcolo delle medie di gara, in tal modo rendendo inaffidabili i relativi risultati (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 19.09.2017 n. 5 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' inammissibile il ricorso presentato dal direttore dei lavori, avverso l'annullamento in autotutela del rilasciato permesso di costruire, laddove il titolare del titolo edilizio (annullato) non risulta aver rilasciato una procura o altro idoneo atto di conferimento della rappresentanza che abbia attribuito al deducente il potere di stare in giudizio per suo conto.
Neppure risulta esplicitato in sede di ricorso un interesse autonomo proprio del ricorrente, sicché trova applicazione nel caso di specie l’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui, al di fuori dei casi previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un interesse altrui. Si tratta di disposizione pienamente applicabile nell’ambito del processo amministrativo in virtù del rinvio di cui all’art. 39 cod. proc. amm..

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... per l’annullamento, previa sospensiva, della determinazione dirigenziale n. 80 del 23.05.2017 del responsabile dell’Area tecnica del Comune di Rapolla, notificata il 30.05.2017;
...
1. Bi.Ac. è insorto avverso il provvedimento in epigrafe, con il quale il responsabile dell’Area tecnica del Comune intimato ha annullato in autotutela il permesso di costruire n. 6 dell’11.03.2015, rilasciato a Si.Ro., deducendo in diritto, per più profili, la violazione di legge e l’eccesso di potere.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Rapolla, eccependo in rito l’inammissibilità del ricorso, nonché, nel merito, la sua infondatezza.
3. Alla camera di consiglio del 13.09.2017 il Collegio ha dato avviso alle parti dell’intendimento di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.. Quindi, la causa è passata in decisione.
4. Il ricorso è inammissibile, alla stregua della motivazione che segue.
4.1. Il ricorrente risulta essere, dagli atti di causa, il direttore dei lavori oggetto del permesso di costruire. Tale titolo edilizio, infatti, è stato rilasciato a Ro.Si.. Quest’ultima non risulta aver rilasciato una procura o altro idoneo atto di conferimento della rappresentanza che abbia attribuito al deducente il potere di stare in giudizio per suo conto.
Neppure risulta esplicitato in sede di ricorso un interesse autonomo proprio del ricorrente, sicché trova applicazione nel caso di specie l’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui, al di fuori dei casi previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un interesse altrui. Si tratta di disposizione pienamente applicabile nell’ambito del processo amministrativo in virtù del rinvio di cui all’art. 39 cod. proc. amm..
5. Dalle considerazioni che precedono discende la declaratoria di inammissibilità del ricorso (TAR Basilicata, sentenza 18.09.2017 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La disposizione di cui all’art. 95, comma 10, d.lgs. 50/2016 è stata novellata in forza dell’art. 60, d.lgs. 19.04.2017, n. 56, nel senso di escludere dall’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali, le forniture senza posa in opera, i servizi di natura intellettuale e gli affidamenti ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a).
Con riferimento a tale novella la giurisprudenza si è anche espressa nel senso che ad essa deve attribuirsi natura ricognitiva del previgente “diritto vivente” giurisprudenziale, e non già natura innovativa con esclusiva efficacia ex nunc proiettata nel futuro.
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Nel caso di specie trattasi di una fornitura con posa in opera, ossia di un contratto per il quale né la giurisprudenza prima, né il legislatore ora hanno previsto l’esclusione dall’obbligo di indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza c.d. aziendali.
In merito a tale obbligo, rectius onere, va ricordato che con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata superata ogni incertezza interpretativa, nel senso dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10, in merito alla dichiarazione sugli oneri di sicurezza aziendale in sede di offerta economica.
Il legislatore con l’introduzione di detta disciplina ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo, richiamati in parte anche dalla ricorrente nel ricorso introduttivo.
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L’insegnamento giurisprudenziale prevalente chiarisce che a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95, comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni, comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso istruttorio.
È difatti acclarato che non è ammesso il soccorso istruttorio previsto dall’art. 83, comma nono, d.lgs. n. 50 del 2016 per la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica. Gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all’offerta economica -motivo per il quale sono anche soggetti al ribasso d’asta- e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale.
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Non convince la tesi della ricorrente che la mancata indicazione dei detti oneri debba essere equiparata ad un’indicazione pari a zero, in quanto nell’esecuzione delle prestazioni oggetto di gara non sorgerebbero nemmeno simili oneri. Infatti è la stessa ricorrente ad affermare nel proprio ricorso introduttivo di avere già sostenuto dei costi per la formazione ed istruzione del personale da impiegare per la fornitura in oggetto ammettendo, quindi, di aver effettivamente e concretamente sostenuto dei costi per la sicurezza dei lavoratori, che –in quanto tali-, ai sensi di legge, avrebbero dovuto, quantomeno pro quota, essere indicati nell’offerta economica.
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2. Va premesso che corrisponde al vero quanto rilevato dalla ricorrente in sede di discussione, ossia che successivamente all’indizione della presente gara la disposizione di cui all’art. 95, comma 10, d.lgs. 50/2016 è stata novellata in forza dell’art. 60, d.lgs. 19.04.2017, n. 56, nel senso di escludere dall’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali, le forniture senza posa in opera, i servizi di natura intellettuale e gli affidamenti ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a).
Con riferimento a tale novella la giurisprudenza si è anche espressa nel senso che ad essa deve attribuirsi natura ricognitiva del previgente “diritto vivente” giurisprudenziale, e non già natura innovativa con esclusiva efficacia ex nunc proiettata nel futuro (cfr. Cons. di Stato, sez. VI, 1.08.2017, n. 3857).
Sennonché tale novella non rileva per la decisone del caso in esame.
Dall’esame della documentazione di gara emerge che l’oggetto della presente fornitura, oltre al mero trasporto dei beni, comprende anche altri servizi, tra i quali -a mero titolo esemplificativo- si citano l’installazione completa ed il collegamento alla rete dati ed elettrica dei complessi sistemi audiovisivi, degli schermi motorizzati a parete ed a soffitto, nonché la messa in funzione ed il collaudo dei vari sistemi.
Non può, pertanto, essere revocato in dubbio che nel caso di specie trattasi di una fornitura con posa in opera, ossia di un contratto per il quale né la giurisprudenza prima, né il legislatore ora hanno previsto l’esclusione dall’obbligo di indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza c.d. aziendali.
3. In merito a tale obbligo, rectius onere, va ricordato che con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata superata ogni incertezza interpretativa, nel senso dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10, in merito alla dichiarazione sugli oneri di sicurezza aziendale in sede di offerta economica. Il legislatore con l’introduzione di detta disciplina ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo, richiamati in parte anche dalla ricorrente nel ricorso introduttivo.
4. Nemmeno può essere dato ingresso all’ulteriore censura della ricorrente che prima di disporre l’esclusione l’amministrazione avrebbe dovuto dare corso al c.d. soccorso istruttorio e invitare la ricorrente a regolarizzare la propria offerta in relazione ai costi di sicurezza aziendali.
L’insegnamento giurisprudenziale prevalente, dal quale il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, chiarisce che a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95, comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni, comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso istruttorio (TAR Campania–Napoli, sez. III, sentenza 03.05.2017, n. 2358).
È difatti acclarato che non è ammesso il soccorso istruttorio previsto dall’art. 83, comma nono, d.lgs. n. 50 del 2016 per la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica. Gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all’offerta economica -motivo per il quale sono anche soggetti al ribasso d’asta- e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale (cfr. TAR Campania, sez. I, Salerno, 05.01.2017, n. 34).

5. Parimenti non convince la tesi della ricorrente che la mancata indicazione dei detti oneri debba essere equiparata ad un’indicazione pari a zero, in quanto nell’esecuzione delle prestazioni oggetto di gara non sorgerebbero nemmeno simili oneri. Infatti è la stessa ricorrente ad affermare nel proprio ricorso introduttivo di avere già sostenuto dei costi per la formazione ed istruzione del personale da impiegare per la fornitura in oggetto ammettendo, quindi, di aver effettivamente e concretamente sostenuto dei costi per la sicurezza dei lavoratori, che –in quanto tali-, ai sensi di legge, avrebbero dovuto, quantomeno pro quota, essere indicati nell’offerta economica.
6. Conclusivamente tenuto conto dell’evidenziato quadro normativo e giurisprudenziale il ricorso deve essere rigettato (TRGA, Trentino Alto Adige, sentenza 18.09.2017 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi - Demolizione sospensione o revocata in sede esecutiva - Incompatibilità con atti amministrativi o giurisdizionali - Art. 31, c. 9, D.P.r. n. 380/2001.
In sede esecutiva la demolizione potrà essere sospesa o revocata quando risulta assolutamente incompatibile con atti amministrativi o giurisdizionali che abbiano conferito all'immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria, quindi, in via generale, deve ritenersi che gli atti tipici della pubblica amministrazione idonei ad evitare la esecuzione della sentenza di condanna nella parte in cui impone la demolizione della opera abusiva sono la già intervenuta demolizione dell'immobile ad opera della stessa pubblica amministrazione o la intervenuta concessione in sanatoria e la delibera del consiglio comunale che abbia dichiarato la conformità del manufatto con gli interessi pubblici urbanistici ed ambientali.
Demolizione - Inottemperanza - Decorrenza dei 90 gg. - Effetti - Automatica acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Giurisprudenza.
In materia edilizia, l'ingiustificata inottemperanza, nel termine di legge di novanta giorni, all'ordine di demolizione di una costruzione abusiva emesso dall'autorità comunale comporta l'automatica acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune alla scadenza di detto termine, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza che ha solo funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà (Cass. Sez. 3, n. 2912 del 22/01/2010), il trasferimento al patrimonio comunale della proprietà dell'immobile abusivo non costituisce impedimento giuridico a che il privato responsabile esegua l'ordine di demolizione impartitogli dal giudice con la sentenza di condanna, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (Cass. Sez.3, n. 4962/2008 del 28/11/2007P.G. in proc. Mancini e altri; Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, P.M. n proc. Marche) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.09.2017 n. 41537 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' da escludere il carattere pertinenziale degli abusi in questione poiché “può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico” e tali non appaiono i due manufatti descritti, occupanti una superficie, limitatamente al solo corpo principale, di circa 54 mq l’uno e di 35 mq l’altro per un’altezza variabile dai mt. 3 ai mt. 4.
Rammenta il Collegio che il Consiglio di Stato ha più di recente precisato che “Gli elementi che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del territorio” sancendo inoltre che “Non può ritenersi meramente pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e paesaggistici), un'opera quando determini un nuovo volume di consistenti dimensioni su un'area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata dal preesistente edificio principale”.
Giova sottolineare in argomento che tra i due requisiti va predicato sussistente un rapporto di pregiudizialità a favore di quello strutturale avendo la Sezione di recente escluso che possa configurarsi una pertinenza edilizia in mancanza del pre-requisito di carattere strutturale, ossia la scarsa consistenza dimensionale dell'opera: "Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare l'esistenza dell'elemento funzionale, dovendosi in radice escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale".
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Quanto ai pergolati realizzati abusivamente si rammenta che la giurisprudenza, ove gli stessi siano di considerevoli dimensioni e stabilmente ancorati all’edificio palesando un’attitudine a durare nel tempo, richiede il permesso di costruire.
Si è invero condivisibilmente statuito che “La realizzazione mediante opere edilizie di un pergolato caratterizzato da una solida struttura -addirittura in cemento- di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev'essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia”.
Anche l’orientamento di questo Tribunale è nel senso tratteggiato, avendo precisato che “La realizzazione di un pergolato su un terrazzo di copertura di un immobile vincolato ex art. 157 d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio) deve ritenersi ineseguibile in assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica. Difatti va esclusa la natura precaria di tale manufatto, che escluderebbe la necessità della concessione edilizia, in quanto esso è destinato a recare un'utilità prolungata e perdurante nel tempo”.
Il che non può predicarsi invece per i semplici pergolati in legno inidonei a determinare trasformazione edilizia del territorio: “Non è necessaria alcuna concessione edilizia allorché l'opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territorio (nella specie, trattasi di pergolato costituito da una intelaiatura in legno che non è infissa né al pavimento né alla parete dell'immobile alla quale è semplicemente addossata, né risulta chiusa in alcun lato, nemmeno sulla copertura)”.
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1. A conferma della delibazione formulata in sede cautelare deve il Collegio accogliere il ricorso limitatamente all’impugnativa dell’ordinanza n. 23/2017 recante ordine di cessazione dell’attività agrituristica mentre va confermata la legittimità della presupposta ordinanza di demolizione n. 19 del 02.02.2017.
1.1. Con il primo motivo il ricorrente sostiene l’illegittimità della sanzione demolitoria irrogata stante la natura pertinenziale dei manufatti abusivi rilevati, che emergerebbe sia dalle ridotte dimensioni degli stessi che dalla loro non valutabilità ed utilizzabilità autonome nonché dall’assenza di una propria individualità fisica e di una propria conformazione strutturale. Si invoca al riguardo la giurisprudenza della Sezione di cui a TAR Napoli, Sez. III, 22.10.2015 n. 4968 e n. 1737/2014).
1.2. Ad avviso del Collegio la censura è infondata in fatto, atteso che fa difetto nei manufatti abusivi sopra illustrati sia il requisiti strutturale, consistente nella scarsa volumetria e superficie, sia quello della non individualità fisica e propria conformazione strutturale.
Dal corpo dell’ordinanza di demolizione gravata emerge infatti che gli abusi de quibus consistono in due manufatti terranei di apprezzabili dimensioni. Uno, posto ad est dell’area di pertinenza della sede agrituristica, è ultimato e completo nelle rifiniture come unità abitativa ed ha un corpo principale di mt 9 x 6 ed altezza variabile da mt 3 a mt 4; ha un corpo annesso di dimensioni di mt. 2 x 2 ed un altro copro annesso di mt. 1,50 x 2,50.
Il secondo manufatto terraneo è posto immediatamente a sud dell’illustrato manufatto ed è finito ed in uso come deposito e servizi; presenta dimensioni in pianta di mt. 8,50 x 4,50 ed altezza variabile da mt 3 a mt 3,50 ed ha un annesso forno di mt 2,50 x 1 e altezza di mt 2,50.
Di talché, sulla scorta della stessa sentenza della Sezione invocata in ricorso è da escludere il carattere pertinenziale degli abusi in questione poiché “può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico” e tali non appaiono i due manufatti descritti, occupanti una superficie, limitatamente al solo corpo principale, di circa 54 mq l’uno e di 35 mq l’altro per un’altezza variabile dai mt. 3 ai mt. 4.
Rammenta il Collegio che il Consiglio di Stato ha più di recente precisato che “Gli elementi che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del territorio” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04/01/2016, n. 19), sancendo inoltre che “Non può ritenersi meramente pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari titoli abilitativi edilizi (e paesaggistici), un'opera quando determini un nuovo volume di consistenti dimensioni su un'area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata dal preesistente edificio principale” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16.06.2016, n. 2658, confermativa di TAR Lazio-Latina, 13.02.2015, n. 155).
Mancando il requisito strutturale rappresentato dalla scarsa consistenza volumetrica e superficiale dell’opera abusiva e dalla non occupazione di superficie diversa ed ulteriore rispetto a quella occupata dall’edificio principale, non occorre acclarare il requisito funzionale dato dall’assenza di autonoma individualità ed utilizzabilità a prescindere dalla cosa principale.
Giova sottolineare in argomento che tra i due requisiti va predicato sussistente un rapporto di pregiudizialità a favore di quello strutturale avendo la Sezione di recente escluso che possa configurarsi una pertinenza edilizia in mancanza del pre-requisito di carattere strutturale, ossia la scarsa consistenza dimensionale dell'opera: "Se fa difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e se, quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha dimensioni consistenti, non occorre neanche appurare l'esistenza dell'elemento funzionale, dovendosi in radice escludere che il manufatto abbia natura pertinenziale" (TAR Campania-Napoli - Sez. III, 24.07.2014, n. 4230).
1.3. Quanto ai pergolati realizzati abusivamente si rammenta che la giurisprudenza, ove gli stessi siano di considerevoli dimensioni e stabilmente ancorati all’edificio palesando un’attitudine a durare nel tempo, richiede il permesso di costruire. Si è invero condivisibilmente statuito che “La realizzazione mediante opere edilizie di un pergolato caratterizzato da una solida struttura -addirittura in cemento- di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev'essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia” (TAR Liguria, Sez. I, 23.03.2012 n. 423).
Anche l’orientamento di questo Tribunale è nel senso tratteggiato, avendo precisato che “La realizzazione di un pergolato su un terrazzo di copertura di un immobile vincolato ex art. 157 d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio) deve ritenersi ineseguibile in assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica. Difatti va esclusa la natura precaria di tale manufatto, che escluderebbe la necessità della concessione edilizia, in quanto esso è destinato a recare un'utilità prolungata e perdurante nel tempo” (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 26.05.2006 n. 6182).
Il che non può predicarsi invece per i semplici pergolati in legno inidonei a determinare trasformazione edilizia del territorio: “Non è necessaria alcuna concessione edilizia allorché l'opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territorio (nella specie, trattasi di pergolato costituito da una intelaiatura in legno che non è infissa né al pavimento né alla parete dell'immobile alla quale è semplicemente addossata, né risulta chiusa in alcun lato, nemmeno sulla copertura)” (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.11.2005 n. 6193) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rispetto ad un immobile abusivo e fatto oggetto di istanza di condono inesitata, ogni ulteriore intervento (ivi compreso il mutamento di destinazione) risente dell’illegittimità urbanistica di quello originario.
Si è in tal senso precisato che “In presenza di manufatti abusivi, non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente”.
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2. Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta che illegittimamente il Comune ha adottato la sanzione demolitoria relativamente al cambio di destinazione d’uso della sala adibita a ristorazione, mutata rispetto alla destinazione dichiarata nell’istanza di condono edilizio quale deposito e servizi per l’agricoltura.
Per il deducente l’assenza di opere fisiche rende il cambio di destinazione insuscettibile di essere raggiunto da una sanzione reale di tipo demolitorio, come sancito da varia invocata giurisprudenza.
La doglianza è ulteriormente approfondita e svolta con il primo dei motivi aggiunti depositati il 13.03.2017, con il quale viene invocato anche il disposto dell’art. 3, co. 3, della L.Reg. n. 15/2008 secondo il quale lo svolgimento di attività agrituristiche “non costituisce distrazione della destinazione agricola del fondo e degli edifici interessati e non comporta cambio di destinazione d’uso degli edifici censiti come rurali”.
2.1. A parere del Collegio gli illustrati profili di doglianza non colgono nel segno e vanno disattesi.
Invero, se in linea generale è esatto l’avviso secondo il quale il mutamento di destinazione d’uso senza opere non soggiace alla sanzione demolitoria (fatto salvo il ripristino dello stato dei luoghi) e l’esercizio di attività agrituristica in particolare non comporta cambio di destinazione d’uso degli edifici rurali, è doveroso precisare che ciò è predicabile relativamente ad immobili connotati di legittimità urbanistica originaria.
Non può essere invece il cennato principio esteso ad interventi che accedano ad opere che siano già illegittime dal punto di vista urbanistico e per le quali penda ancora domanda di condono edilizio tuttora inesitata.
Si rammenta al riguardo il costrutto giurisprudenziale in ossequio al quale rispetto ad un immobile abusivo e fatto oggetto di istanza di condono inesitata, ogni ulteriore intervento (ivi compreso il mutamento di destinazione) risente dell’illegittimità urbanistica di quello originario. Si è in tal senso precisato che “In presenza di manufatti abusivi, non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente” (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 30.03.2015 n. 1851; TAR Piemonte, Sez. I, 11.12.2012 n. 1320).
Non può pertanto il deducente invocare la circostanza che il mutamento di destinazione d’uso della sala ristorazione rispetto alla destinazione a servizi per l’agricoltura dichiarata nella domanda di condono ex L. n. 724/1994 non è accompagnato dall’esecuzione di opere edili ed è pertanto neutro e conseguentemente insuscettibile di sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se da un lato seguita a sostenersi che “non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere, dall’altro e al tempo stesso si afferma che ”non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia assoggettata a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio”.
Si era infatti già in tal senso “giudicato illegittima la chiusura integrale di un’attività commerciale in conseguenza di un abuso edilizio che investa soltanto una parte dell’immobile".
Si è infatti precisato che “Il legittimo esercizio di un' attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere, ma al tempo stesso non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia soggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomatico di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un' attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un' attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio (non assumendo rilievo in questa sede la pur accertata carenza di autorizzazione condominiale per la realizzazione del vano-veranda in contestazione, insistente su area di proprietà condominiale)”.
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3. Con il terzo motivo del ricorso principale ed il secondo dell’atto per motivi aggiunti il ricorrente si duole che l’ordinanza di cessazione dell’attività agrituristica è illegittima poiché tale attività viene esercitata unicamente nei locali per i quali il Comun di Pompei ha rilasciato le relative autorizzazioni.
Ed infatti, come diffusamente evidenziato in narrativa, l'Amministrazione resistente ha autorizzato l'esercizio dell'attività agrituristica limitatamente al fabbricato rurale ed al manufatto oggetto della istanza di condono ex L. 724/1994 (comunicazione di inizio attività ai sensi della L.R. n. 15/2008 prot. n. 1033 del 25.03.2011; autorizzazione sanitaria prot. n. 20352 del 09.06.2011); mentre, i locali oggetto dell'accertamento del 04.01.2017 della Polizia Municipale, sono tutti ubicati all'esterno della struttura adibita ad agriturismo e sono funzionali all'esercizio dell'impresa agricola in titolarità del sig. Sa..
Tale circostanza è confermata dal sopralluogo compiuto dalla Polizia Municipale di Pompei del 14.11.2016 nel cui verbale i medesimi agenti affermano che “lo stato dei luoghi risultava conforme alla planimetria allegata alla nota assunta al prot. n. 23443 del 25.06.2012, ove veniva relazionato e specificato che nel corpo di fabbrica, edificato ante 1961, contrassegnato con la lettera A, corrispondevano i locali cucina con annessi servizi e dispense, l’attività di somministrazione avveniva nel locale contrassegnato con la lettera C, mentre il piccolo locale tra le due unità contrassegnato in pianta con la lettera B risultava essere ad uso privato” (cfr. documentazione allegata).
Ne consegue, pertanto, la sicura illegittimità dell'atto gravato atteso che, come chiarito, le opere abusive contestate dall'Amministrazione sono del tutto estranee all’esercizio dell’attività agrituristica.
Inoltre, per il deducente, quand’anche l’attività per cui è causa venisse esercitata anche al interno dei locali abusivi, la disposta chiusura dell’attività risulterebbe ugualmente illegittima poiché il Comune avrebbe dovuto limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio.
3.1. Ad avviso del Collegio le riassunte censure sono fondate e meritevoli di essere accolte.
Invero risulta per tabulas ed è incontestabile che gli abusi edilizi rilevati dalla Polizia municipale nel sopralluogo del 04.01.2017 consistono in pergolati e due manufatti esterni all’attività agrituristica, uno posto ad est dell’area pertinenziale alla sede agrituristica e l’altro posto a sud.
Tali manufatti non intersecano l’esercizio dell’agriturismo, ragion per cui appare fondato il dedotto eccesso di potere per carenza di presupposti.
3.2. Invero, denota il Collegio come le questione dell’estraneità dei manufatti rilevati come abusivi all’esercizio dell’attività agrituristica per cui si controverte, sia stata già dettagliatamente sviscerata dallo stesso ricorrente con le controdeduzioni ex art. 10-bis presentata al Comune di Pompei il 23.01.2017, prot. 3569/I (doc. 7 produzione ricorrente).
Con tale memoria il deducente rilevava infatti “che i manufatti indicati dai numeri 1) a 5), di cui in premessa, non sono destinati allo svolgimento dell'attività imprenditoriale, in quanto la stessa, già ormai dall'anno 2012, è eseguita solo su una modesta parte dell'area di proprietà dell'azienda agrituristica: tale parte è stata definita dall'istante proprio in accordo con l'amministrazione e comprende í soli immobili della cui regolarità in linea edilizia ed urbanistica non può dubitarsi. Invero, il perimetro dell'attività era definito con la dichiarazione del 09.06.2011, sottoscritta dal signor Sansone Francesco, con la quale lo stesso di impegnava ad utilizzare per l'esercizio delle attività di agriturismo denominata Vivi Natura esclusivamente i locali edificati prima dell'anno 1961 e quelli oggetti di condono edilizio ai sensi della legge 724/1994”.
Oltretutto l’esponente con la menzionata memoria riferiva che la stessa Polizia municipale aveva preso atto dalla dedotta estraneità. Rammentando che “il Dirigente Comandante Ga.Pe. del 14.08.2012 protocollo n. 29175, con la nota indirizzata al dirigente UTC, all'Asl Napoli 3, al Sindaco, al Segretario Generale e al legale rappresentante dell'azienda agricola "Vi." signor Sa.Fr., (allegato A), rappresentava che "al fine di consentire la conclusione del procedimento amministrativo teso alla cessazione dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande agriturismo Vi., sita in via ... n. 49 condotta dalla Sa.Fr. … al fine di suffragare quanto addotto dalla parte nelle memorie difensive assunta al protocollo generale dell'Ente in data 25.06.2012 al n. 23443, nelle quali si esplicita la volontà di voler limitare la registrazione sanitaria unicamente a corpi di fabbrica indicati in planimetria corpo A e C afferenti all'attività, producendo nuova planimetria con allegata relazione tecnica sfilata dall'architetto Gi.Va.. Tale circostanza inoltre è stata valutata con esito positivo dal dirigente del V Settore Tecnico, che con nota assunta al protocollo generale in data 20.07.2012 al n. 26843, ha sospeso il procedimento amministrativo teso al diniego della proposta di registrazione sanitaria a nome del signor Sa.Fr.”.
Ne consegue che risulta provata la circostanza, dedotta dal ricorrente con il motivo in trattazione, secondo cui gli abusi contestati non afferiscono all’attività agrituristica, apparendo pertanto illegittimo il provvedimento annonario inibitorio di essa, fondato sulla irregolarità urbanistica dei manufatti destinati a sede dell’attività di agriturismo.
4. Nel contempo è opportuno precisare che se per un verso l’attività economica del ricorrente non può essere comunque esercitata in alcuno dei locali abusivi, per i quali è stato disposto il ripristino dello stato dei luoghi, per altro verso risulta infranto il divieto di colpire con la sanzione della chiusura l’intero esercizio, come sancito dalla giurisprudenza ormai acquisita della Sezione.
Come esattamente ricordato dalla difesa del ricorrente, infatti, se da un lato seguita a sostenersi che “non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id. 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007)dall’altro e al tempo stesso si afferma che ”non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia assoggettata a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio” (TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.04.2015, n. 2196; 08.06.2010, n. 13015).
Si era infatti già in tal senso “giudicato illegittima la chiusura integrale di un’attività commerciale in conseguenza di un abuso edilizio che investa soltanto una parte dell’immobile".
Si è infatti precisato che “Il legittimo esercizio di un' attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere, ma al tempo stesso non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia soggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomatico di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un' attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un' attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio (non assumendo rilievo in questa sede la pur accertata carenza di autorizzazione condominiale per la realizzazione del vano-veranda in contestazione, insistente su area di proprietà condominiale)” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 08.06.2010, n. 13015)” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 05.12.2012 n. 4938).
Da quanto osservato discende l’illegittimità dell’ordinanza di chiusura dell’attività agrituristica esercitata dal ricorrente (ord. n. 23/2017).
In definitiva, il terzo motivo del ricorso principale ed il secondo dei motivi aggiunti sono fondati e vanno accolti, potendosi assorbire i motivi quarto e quinto del ricorso principale.
Per l’effetto il gravame va accolto parzialmente, ossia limitatamente all’annullamento dell’ordinanza n. 23 del 03.02.2017 del Comune di Pompei recante l’ordine immediato di chiusura dell’attività di agriturismo gestita dal sig. Sansone Francesco ferma restando la legittimità dell’ordinanza di demolizione n. 19/2017 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione ruderi in zona vincolata - Permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica - Necessità - Artt. 44, 65-72, 93-95 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 136, 146 e 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.l.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Cass. Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione, come nel caso in esame, di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
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2. Il primo motivo non ha giuridico fondamento.
Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità e, come tale, insuscettibile di essere sindacato in sede di giudizio di legittimità, i giudici del merito hanno verificato che l'immobile de quo, acquistato dalla ricorrente nell'anno 2007 come rudere di circa 39 mq, era stato pressoché triplicato come volume (pag. 3-5 sentenza di primo grado e pagg. 6 ss. sentenza di appello), con la conseguenza che, in sostituzione di un precedente corpo di fabbrica composto di due vani, di cui uno completamente diruto, era stato realizzato un fabbricato su due livelli della superficie complessiva di circa 140 mq.
La Corte di appello, che ha considerato tutte le obiezioni ed anche i rilievi tecnici della difesa disattendendoli motivatamente, ha dunque escluso l'applicabilità al caso di specie delle modifiche operate all'articolo 10 TUE dal D.L. 21.06.2013, n. 69 convertito in legge 09.08.2013, n. 98 e dal D.L 12.09.2014, n. 133 convertito in legge 11.11.2014, n. 164.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto fissato da questa Sezione secondo il quale
integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione, come nel caso in esame, di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552).
La ricorrente sussume, del tutto impropriamente, l'intervento come se lo stesso avesse riguardato una ristrutturazione in zona paesaggisticamente non vincolata dove l'art. 30 D.L. 21.06.2013, n. 69 (conv. in legge 09.08.2013, n. 98), consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.); con la conseguenza che
la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, cit., Rv. 260551; Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo, Rv. 265444), ulteriori circostanze comunque del tutto non sussistenti nel caso di specie (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Nozione di edificio ultimato - Possesso dei requisiti di agibilità o abitabilità.
In tema di reati edilizi, deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere in conglomerato cementizio armato - Omessa denuncia - Natura di reato omissivo proprio - Configurabilità in capo al costruttore - Responsabilità in concorso del committente dell'opera - Giurisprudenza.
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia (Sez. 3, n. 17539 del 24/03/2010, Musso).
Da ciò consegue che va esclusa la responsabilità del committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in qualità di "extraneus", nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il committente possa concorrere nel reato, circostanza questa che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori (Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Ronga) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia.
Da ciò consegue che
va esclusa la responsabilità del committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in qualità di "extraneus", nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il committente possa concorrere nel reato, circostanza questa che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori.
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6. E' invece fondato il secondo motivo di ricorso.
Sul punto, occorre dare continuità all'indirizzo secondo il quale
il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia (Sez. 3, n. 17539 del 24/03/2010, Musso, Rv. 247168).
Da ciò consegue che
va esclusa la responsabilità del committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in qualità di "extraneus", nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il committente possa concorrere nel reato, circostanza questa che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori (Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Ronga, Rv. 250377).
Nel caso in esame, la contestazione non ipotizza neppure lontanamente un concorso tra la committente e il costruttore ponendo, sic et simpliciter, a carico della prima l'infrazione, né le sentenze di merito motivano al riguardo su eventuali attività ausiliatrici della committente, con la conseguenza che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, in ordine all'imputazione di cui al capo c) della rubrica, per non avere la ricorrente commesso il fatto e la relativa pena (di mesi uno di arresto ed euro 1.000 di ammenda) va eliminata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475).

ATTI AMMINISTRATIVI: DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge - Effetti retroattivi e futuri - Esclusione dei cosiddetti rapporti esauriti - Pubblicazione della sentenza di illegittimità costituzionale - Presunzione legale di conoscenza - Obbligo del giudice di non applicare la norma dichiarata incostituzionale.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale esplica la sua efficacia non solo nel procedimento in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata ma, stante l'efficacia "erga omnes" della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, anche in ogni altro giudizio in cui la norma debba o possa essere assunta a canone di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, anche se venuto in essere anteriormente alla pubblicazione della suddetta sentenza sulla Gazzetta ufficiale, con esclusione dei cosiddetti rapporti esauriti.
La pubblicazione introduce, poi, una presunzione legale di conoscenza delle pronunce dichiarative dell'illegittimità costituzionale di una norma di legge, la quale esplica i suoi effetti non solo per il futuro ma, a condizioni esatte, anche retroattivamente nei confronti di fatti e di rapporti risalenti al periodo in cui la norma era vigente.
Ne consegue pertanto l'obbligo del giudice di non applicare la norma dichiarata incostituzionale, senza distinzione fra norme di diritto sostanziale e norme di diritto processuale, d'ufficio ed anche contro una richiesta di parte (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2017 n. 39475 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica dei prospetti - Permesso a costruire - Necessità - Ristrutturazioni edilizie "minori" - Esclusione - C.d. super D.I.A. - Fattispecie: aperture, chiusura modifica di ingressi esterni, finestre balconi - Giurisprudenza - Artt. 22, 23, 24, 27 d.p.r. 380/2001.
L'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti, non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non essendo sufficiente il mero rilascio della denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, dep. 11/07/2014, Limongi; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, dep. 18/09/2013, Cataldo; Sez. 3, n. 834/2009 del 04/12/2008 dep. 13/01/2009, P.M. in proc. Della Monica; Sez. 3, n. 1893/2007 del 14/12/2006, dep. 23/01/2007, Cristiano).
Nella specie, il rilascio del permesso di costruire si imponeva, anche alla luce dell'art. 10 lett. h) del regolamento edilizio comunale, a mente del quale dovevano ritenersi assoggettate a licenza di costruzione le opere seguenti: "aperture, chiusura modifica di ingressi esterni, finestre balconi" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio - Dirigente - Rilascio del certificato agibilità - Abusi edilizi e verifica dei requisiti - Opere sottoposte a permesso di costruire - Giurisprudenza.
In ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza e altri; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013, Baria e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza, l’art. 15, comma 2, del T.U. 380/2001, che si riferisce ad una decadenza “di diritto”, esclude qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga.
Richiede invece a tal fine che in ogni caso sia presentata un’istanza di proroga, sulla quale l’amministrazione deve pronunciarsi con un provvedimento espresso, nel quale accerti che i presupposti per accogliere l’istanza effettivamente sussistono.

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La necessità prevista dall’art. 15 del T.U. 380/2001 che l’interessato si attivi con un proprio atto rende, comunque, irrilevante la conoscenza della presunta causa di forza maggiore (in forza della quale si chiede la proroga) da parte dell’amministrazione, conoscenza che in ogni caso dovrebbe risultare da atti ufficiali, e non potrebbe esser fatta derivare da informazioni private di cui un funzionario fosse in possesso per ragioni sue personali.
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Il più volte citato art. 15 del T.U. 380/2001, per il caso di infruttuosa scadenza del termine di ultimazione dei lavori, prevede al comma 3 che “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire”.
In tal senso, non è richiesto che le opere di completamento rivestano una particolare natura intrinseca: occorre soltanto che si tratti delle opere necessarie, secondo il progetto originario, a completare l’intervento.
Ciò però non è sufficiente a consentirne la realizzazione, che passa per il rilascio di un nuovo permesso di costruire e presuppone quindi che esse, nel momento in cui esso viene richiesto, siano compatibili con la disciplina urbanistico edilizia del momento.
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1. L’appello è infondato e va respinto nel merito, per le ragioni di seguito precisate, che rendono superfluo esaminare le eccezioni preliminari dedotte dal Comune.
2. E’infondato il primo motivo, fondato sulla presunta possibilità di ritenere un permesso di costruire automaticamente prorogato in presenza di un asserita causa di forza maggiore che impedisca di completare i lavori relativi nel termine previsto.
L’art. 15, comma 2, del T.U. 380/2001, che qui rileva, dispone in generale, per quanto qui interessa, “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori…”.
Per costante giurisprudenza -così per tutte C.d.S. sez. IV 22.10.2015 n. 4823, 23.02.2012 n. 974 e 10.08.2007 n. 4423- la norma suddetta, che si riferisce ad una decadenza “di diritto”, esclude qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga. Richiede invece a tal fine che in ogni caso sia presentata un’istanza di proroga, sulla quale l’amministrazione deve pronunciarsi con un provvedimento espresso, nel quale accerti che i presupposti per accogliere l’istanza effettivamente sussistono.
...
12. Il quarto motivo di ricorso è volto anch’esso, secondo logica, a superare il disposto dell’art. 18 del regolamento, poiché presuppone che la proroga, anche se disposta successivamente ad una prima, fosse in qualche modo dovuta trattandosi di una causa di forza maggiore.
Esso però risulta a sua volta infondato: la necessità prevista dall’art. 15 del T.U. 380/2001 che l’interessato si attivi con un proprio atto rende comunque irrilevante la conoscenza della presunta causa di forza maggiore in questione da parte dell’amministrazione, conoscenza che in ogni caso dovrebbe risultare da atti ufficiali, e non potrebbe esser fatta derivare da informazioni private di cui un funzionario fosse in possesso per ragioni sue personali.
...
16. Il nono e il decimo motivo vanno esaminati congiuntamente perché connessi fra loro, e vanno a loro volta respinti.
Il più volte citato art. 15 del T.U. 380/2001, per il caso di infruttuosa scadenza del termine di ultimazione dei lavori, prevede al comma 3 che “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire”.
In tal senso, non è richiesto, contrariamente a quanto ritiene il Comune nelle proprie difese, che le opere di completamento rivestano una particolare natura intrinseca: occorre soltanto che si tratti delle opere necessarie, secondo il progetto originario, a completare l’intervento.
Ciò però non è sufficiente a consentirne la realizzazione, che passa per il rilascio di un nuovo permesso di costruire e presuppone quindi che esse, nel momento in cui esso viene richiesto, siano compatibili con la disciplina urbanistico edilizia del momento.
17. Nel caso di specie, però, tale requisito necessario è venuto a mancare.
Nel momento in cui i lavori non sono stati effettivamente completati nel termine previsto dal permesso, l’effetto di ripristino previsto dalle convenzioni nei termini ampiamente illustrati si è verificato, e il terreno è ritornato alla sua destinazione originaria, che l’edificazione non consente.
In proposito, va osservato che le convenzioni stesse qualificano tale effetto come automatico, del resto in conformità al modo in cui opera una clausola risolutiva espressa, cui la clausola in esame è assimilabile.
Il provvedimento del dirigente comunale che ha denegato il rilascio del permesso per il completamento è quindi del tutto estraneo al prodursi di tale effetto, di cui si limita a prender atto, sì che una questione di incompetenza in merito non ha ragione di porsi.
Ne consegue che il permesso di costruire in parola è stato legittimamente rifiutato, trattandosi di opere non più assentibili in base alla destinazione dell’area (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.08.2017 n. 3887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Confermata al G.A. la giurisdizione in caso di controversie relative all’approvazione, collocazione e conseguente realizzazione di un parco eolico.
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Energia elettrica – Impianto produzione fonti rinnovabili - Costruzione ed esercizio – Controversia – Giurisdizione amministrativa esclusiva.
Le controversie concernenti la costruzione e l'esercizio di un impianto eolico -anche quando involgono l’accertamento della disciplina delle distanze- implicano l’accertamento della legittimità dei provvedimenti autorizzatori e, essendo riferibili alla materia delle infrastrutture energetiche e dell’uso del territorio, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, lett. f) ed o), del codice del processo amministrativo. (1).
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(1) I.- Con la sentenza in epigrafe le Sezioni unite della Cassazione concludono nel senso della sussistenza della giurisdizione amministrativa in merito ad una controversia avente ad oggetto la domanda di immediata rimozione (ovvero di riposizionamento a distanza non pregiudizievole o di inibizione o regolamentazione del relativo funzionamento, oltre al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguentemente lamentati) di una centrale eolica realizzata mediante l’installazione di 5 aereogeneratori collegati alla rete di trasmissione nazionale di energia elettrica.
La fattispecie.
Le domande proposte davanti al giudice civile erano le seguenti:
   a) accertare che gli aereogeneratori sono stati apposti a distanza non regolamentare e provocano immissioni intollerabili (rumore, vibrazioni, onde elettromagnetiche, oscuramento di luce solare) e nocive alla salute;
   b) ordinare l’immediata rimozione degli stessi ovvero il relativo riposizionamento a distanza non pregiudizievole, ovvero l’inibitoria del relativo funzionamento o, in ogni caso, la regolamentazione del funzionamento dell’impianto;
   c) condannare al risarcimento dei lamentati danni patrimoniali (in particolare da diminuzione di valore della proprietà) e non patrimoniali (da «insonnia e disturbi del sonno, cefalea, palpitazione, agitazione, rischi di infarto, nervosismo, ansia, stress, irritabilità, repentini sbalzi di umore, difficoltà di concentrazione»).
II.- Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni unite.
Dopo aver tratteggiato i criteri generali di riparto, a partire dal concetto di petitum sostanziale, la Corte ha preso le mosse dall’indirizzo ormai prevalente nella giurisprudenza di legittimità secondo cui va escluso che alla costruzione di un'opera pubblica da parte della P.A. possano applicarsi la disciplina delle distanze di cui all'art. 873 c.c. e le sanzioni per la relativa inosservanza, potendo il confinante leso reagire nella sola sede indennitaria in base all'originaria previsione di cui all’art. 46 l. n. 2359 del 1865 (ora confluita nell’art. 44 d.p.r. n. 327 del 2001, t.u. espr.).
Analogo richiamo viene effettuato con riferimento alla inammissibilità di azione petitoria o possessoria in capo al proprietario confinante con l'opera pubblica per inosservanza delle distanze legali, stante l'idoneità delle scelte della autorità amministrativa circa l'ubicazione dell'opera a comprimere le sue posizioni soggettive, con divieto per il giudice ordinario di interferire sull'atto amministrativo.
Passando poi alla peculiare tipologia di opera pubblica, oggetto della controversia, la decisione in esame richiama i propri precedenti che hanno sottolineato come il relativo esercizio attenga alla produzione di energia e al suo trasporto nella rete elettrica nazionale gestita dallo Stato e per esso dalla concessionaria. In tale ottica, essendo il trasporto dell'energia elettrica servizio di pubblica utilità, la realizzazione di un parco eolico costituisce senz'altro intervento di interesse pubblico (cfr. Sez. un., 21.11.2011, n. 24410), con la conseguenza che gli atti del gestore di tale servizio, funzionali alla sua costruzione ed alla determinazione delle modalità di esercizio, sono devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Al riguardo vengono richiamate sia le norme settoriali, con particolare riferimento all'art. 41 della legge n. 99 del 2009 (ove si attribuisce alla competenza esclusiva del Tar per il Lazio le controversie afferenti procedure e provvedimenti attingenti le infrastrutture di trasporto di energia elettrica comprese nella rete di trasmissione nazionale), sia la norma attributiva di giurisdizione esclusiva contenuta nell'art. 133, lett. o), del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) a mente del quale spettano alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutte le controversie, anche risarcitorie, concernenti atti e procedimenti della P.A. relativi, tra l'altro, alla rete di trasmissione nazionale.
In termini di delimitazione della giurisdizione, vengono richiamati i precedenti secondo cui il diritto del proprietario di un fondo, gravato da servitù di elettrodotto, di ottenere, ai sensi dell'art. 122 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la rimozione da parte dell'esercente dell'elettrodotto ovvero che il medesimo collochi "
diversamente le condutture e gli appoggi", può essere fatto valere avanti all'A.G.O. solo se il preteso spostamento non comporti di necessità l'adozione di provvedimenti di diversa modulazione della rete elettrica; al riguardo, l'esecuzione dell'opera di pubblica utilità, rappresentante elemento di esercizio di un servizio pubblico, non può essere ricondotta ad attività realizzata iure privatorum, così da poter essere suscettibile di riduzione in pristino, con la conseguenza che la pretesa del privato deve essere circoscritta alla sola indennità prevista dall'art. 46 L. n. 2359 del 1865.
Passando all’analisi della fattispecie, le Sezioni unite evidenziano come le domande proposte implichino necessariamente l'esame della legittimità dei provvedimenti autorizzatori, anche sul piano della compatibilità ambientale. Non vengono, pertanto, prospettate conseguenze negative discendenti da meri comportamenti materiali (concernenti le modalità di esecuzione dei lavori di costruzione e messa in esercizio delle pale eoliche) posti in essere dalla P.A. o dalla concessionaria al di fuori dell'esercizio di un'attività autoritativa, (là dove viene domandata l'immediata rimozione, ovvero il riposizionamento a distanza non pregiudizievole o di inibizione o regolamentazione del relativo funzionamento, delle pale eoliche); al contrario, si rinviene nella causa petendi, la sostanziale contestazione delle scelte discrezionali della P.A. nell'individuazione e determinazione dell'opera pubblica sul territorio, e cioè delle valutazioni operate per la tutela dell'interesse pubblico perseguito mediante l'adozione dei provvedimenti che hanno autorizzato la costruzione e l'esercizio dell’impianto.
In definitiva, si finisce per sollecitare il controllo delle scelte funzionali-discrezionali operate dalla P.A. in particolare avuto riguardo alla valutazione:
   d) delle distanze di sicurezza del fondo della parte ricorrente dalle pale eoliche;
   e) del corretto inserimento dell’impianto nel paesaggio e nel territorio.
Pertanto, la controversia avente ad oggetto i danni lamentati, in quanto asseritamente derivanti non già da una mera attività materiale posta in essere dalla P.A. o dalla concessionaria al di fuori dell'esercizio di un'attività autoritativa, bensì da attività costituente esecuzione dei provvedimenti amministrativi adottati per la cura degli interessi pubblici di settore, rientra nella giurisdizione amministrativa ai sensi dell’art. 133, lett. f) ed o), cod. proc. amm..
III.- Per completezza si segnala quanto segue:
   f) in tema di giurisdizione sulle controversie relative a impianti eolici e infrastrutture energetiche:
      I) Cass. civ., Sez. un., ordinanza 15.05.2017, n. 11989, in Diritto & Giustizia 2017 (16 maggio), secondo cui <<rientra nella giurisdizione del giudice ordinario il ricorso avverso la cartella di pagamento emessa a seguito del decreto con cui il Ministero dello Sviluppo Economico ha disposto la revoca delle agevolazioni concesse ai sensi della legge 19.12.1992, n. 488, per un piano di investimento comprensivo della realizzazione di un impianto eolico ed il recupero del contributo erogato. Con tale ricorso, infatti, si contesta, sotto diversi aspetti, l’efficacia esecutiva del titolo; d’altra parte, presupposto del processo di esecuzione civile è l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori di accertamento dell’obbligazione, sicché, in punto di giurisdizione, non può individuarsi altro giudice competente sulla materia che non sia il giudice civile>>;
      II) Cass. civ., sez. un., ordinanza 13.06.2017, n. 14653, in Foro it.Massimario 2017, secondo cui <<in materia di incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile, la controversia concernente il provvedimento di decadenza, adottato dal gestore pubblico nell’esercizio dei poteri di sua competenza, dal diritto della società produttrice alla tariffa incentivante e la consequenziale richiesta di restituzione alla società cessionaria del credito dei contributi percetti riguarda la «produzione di energia», essendo la previsione di contributi tariffari un efficace strumento di indirizzo della produzione energetica nazionale, ed appartiene, pertanto, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, 1º comma, lett. o), dell’allegato I al d.leg. n. 104 del 2010; invero, sebbene il cessionario non è produttore di energia pulita, il credito ceduto non può essere considerato al di fuori del rapporto da cui trae origine, non essendo ipotizzabile un differente atteggiarsi del provvedimento di decadenza, e della giurisdizione che su di esso si innesta, a seconda dei destinatari dei suoi effetti giuridici>>;
   g) in tema di risarcimento danni derivanti dalla costruzione di opere pubbliche, cfr. Cass. civ., Sez. un., ordinanza 03.02.2016, n. 2052, in Foro Amministrativo (Il) 2016, 2, 266, secondo cui <<la domanda di risarcimento del danno del proprietario di area contigua a quella in cui è realizzata l’opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell’alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione dell’attore, fonte del danno non siano né il «se» né il «come» dell’opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della p.a. (o del suo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all’oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire>>; in termini analoghi si è recentemente espressa Cass. civ., Sez. un., 21.09.2017, n. 21976 in fattispecie in cui gli attori hanno fatto valere solo l’illiceità della condotta della pubblica amministrazione ex art. 2043 cod. civ., lamentando il danno patito a causa della negligente esecuzione dell’opera pubblica, senza riferimento ad atti e provvedimenti amministrativi cui la condotta dell’amministrazione possa avere dato esecuzione.
   h) in tema di distanze di un parco eolico cfr. (per un più risalente precedente che ha concluso nel senso della giurisdizione ordinaria elaborando un principio in astratto compatibile con quello formulato dalla sentenza in commento che ad esso si richiama espressamente), Cass. civ., Sez. un., 21.11.2011, n. 24410, in Giust. civ., Mass. 2011, 11, 1644, secondo cui <<la controversia, instaurata dal proprietario di un fondo nei confronti di una società privata concessionaria dell’amministrazione comunale per la costruzione di una pala eolica, la quale abbia ad oggetto la pretesa di ripristino delle distanze legali tra il fondo ed il manufatto sito nell’area confinante, oltre al risarcimento dei danni, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché detta società è convenuta in giudizio non già come amministrazione o concessionaria che svolge il pubblico servizio di pubblica utilità di produzione di energia e suo trasporto nella rete elettrica nazionale, ma in quanto impresa costruttrice e proprietaria del manufatto, come tale responsabile del pregiudizio che il manufatto stesso, «staticamente», venga ad arrecare al terzo confinante; tuttavia, l’esecuzione dell’opera di pubblica utilità anzidetta, rappresentante elemento di esercizio di un servizio pubblico (quale la rete elettrica nazionale), non può essere ricondotta ad attività realizzata iure privatorum, così da poter essere suscettibile di riduzione in pristino, con la conseguenza che la pretesa del privato deve essere circoscritta alla sola indennità prevista dall’art. 46 l. 25.06.1865 n. 2359 (e successivamente dall’art. 44 d.p.r. 08.06.2001 n. 327)>>;
   i) in termini analoghi alla decisione in commento, rispetto alla natura pubblica dei servizi energetici, cfr. Cass. civ., Sez. un., ordinanza 24.02.2014, n. 4326, in Foro it., 2015, I, 1066, secondo cui:
      I) <<posto che: a) la società gestore dei servizi energetici svolge funzioni di natura pubblicistica nel settore elettrico; b) nell’attribuzione di benefici per impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili essa esercita potestà amministrative e valuta un pubblico interesse, il privato nei confronti di tali atti è titolare di un interesse legittimo, rispetto al quale sussiste la giurisdizione amministrativa>>;
      II) <<posto che rispetto alla sospensione, da parte della società Gestore dei servizi energetici, dei pagamenti di incentivazioni per impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili, che derivi dall’esercizio di poteri di autotutela rispetto a precedenti provvedimenti di ammissione ai benefici, il privato è titolare di un interesse legittimo, la relativa controversia è devoluta al giudice amministrativo>>;
   j) in proposito, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che sono devolute al giudice amministrativo le vertenze insorte con il Gse - Gestore dei servizi energetici s.p.a., in tema di diniego, revoca o decadenza, delle tariffe incentivanti (cfr. Tar per Lazio, sez. III-ter, 04.12.2014, nn. 12232 e 12236); in tema di qualificazione per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili (c.d. qualificazione Iafr; cfr. Tar per il Lazio, sez. III-ter, 17.11.2014, nn. 11477, 11478, 11479, 11481, 11483); in tema di controllo sugli impianti fotovoltaici (cfr. Tar Lazio, sez. III-ter, 15.07.2013, nn. 6992, 6993, 6994, 7002, 7036);
   k) una volta riconosciuta la natura pubblicistica delle funzioni svolte dal Gestore dei servizi energetici s.p.a. in materia di incentivazioni per le fonti rinnovabili, trovano applicazione, per le vertenze relative a interventi successivi alla concessione dell’incentivazione, i criteri di riparto elaborati rispetto alle analoghe vertenze con pubbliche amministrazioni; in particolare, riconosce la giurisdizione amministrativa per le vertenze conseguenti a provvedimenti con cui il Gse abbia esercitato poteri di autotutela, Cass. civ., Sez. un., ord. 11.07.2014, n. 15941, in Foro it., 2015, I, 246; 07.05.2014, n. 9826, id., 2014, I, 3536; Cons. Stato, ad. plen., 29.01.2014, n. 6, ibid., III, 518, con nota di TRAVI (cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza); nonché Cass. civ., Sez. un., 21.01.2014, n. 1132, in Le banche dati, archivio Cassazione civile;
   l) sulla individuazione del giudice amministrativo competente, cfr. Cons. Stato, sez. V, ord. 21.09.2011, n. 5319, Foro it., Rep. 2011, voce Giustizia amministrativa, n. 355, secondo cui <<la competenza territoriale per queste vertenze spetta al Tar Lazio, dato che gli strumenti incentivanti, nonostante siano riferibili ad un determinato impianto, hanno effetti sull’intero sistema nazionale di produzione dell’energia elettrica, costituendo strumenti per il raggiungimento degli scopi —evidentemente non localizzabili— di incentivazione all’uso delle energie rinnovabili, al risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica>>;
   m) in dottrina, sul regime di incentivazione per le fonti rinnovabili e sul ruolo del Gse, cfr. COCCONI, Poteri pubblici e mercato dell’energia (fonti rinnovabili e sostenibilità dell’ambiente), Milano, 2014; MARZANATI, Semplificazione delle procedure e incentivi pubblici per le energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 2012, 499 ss.; QUADRI, Energia sostenibile - Diritto internazionale, dell’Unione europea e interno, Torino, 2012; AMMANNATI, L’incertezza del diritto - A proposito della politica per le energie rinnovabili, in <www.rqda.eu>, 2011;
   n) infine, in tema di giurisdizione in materia di comportamenti materiali e sulle azioni possessorie, si rinvia a Cass. civ., Sez. un., 16.12.2016 n. 25978 (oggetto della News US in data 09.01.2017), nonché 20.07.2015, n. 15155 (in Foro it., 2016, I, 962 con nota di CARDINALE, cui si rinvia per ogni approfondimento) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 24.07.2017 n. 18165 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Abbandono di rifiuti - Responsabile titolare/legale dell’impresa/ente - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
Il titolare dell'impresa/legale rappresentante dell'ente non è garante delle condotte di abbandono/deposito incontrollato poste in essere dai dipendenti altre imprese; la norma non lo prevede, né sono possibili applicazioni 'in malam partem' dell'art. 40, cpv., cod. pen..
Quando il rifiuto è abbandonato dall'impresa/ente che lo ha prodotto, perché ne risponda il titolare/legale rappresentante della diversa impresa/ente che ha commissionato i lavori, è necessario che questi si sia ingerito a qualsiasi titolo nell'attività di produzione o gestione del rifiuto.
RIFIUTI - Abbandono di rifiuti e proprietà del sito - Responsabilità del terzo proprietario - Limiti - Giurisprudenza.
Nemmeno la proprietà del sito sul quale altri abbiano abbandonato i rifiuti costituisce di per sé titolo per affermare la responsabilità del terzo proprietario. Sicché, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, che ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità di possessore dell'area di deposito, ma per avere questi consapevolmente partecipato all'attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per lo smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso commissionati; Sez. 3, n. 2477 del 09/10/2007, Marcianò, che ha escluso la responsabilità di chi abbia la disponibilità di un'area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti per non essersi questi attivato per la loro rimozione; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2003, Merlet; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014, Cantoni).
APPALTI - RIFIUTI - Gestione del rifiuto - Appaltatore e rapporto contrattuale - Obblighi del committente sull'attività dell'appaltatore.
In tema di rifiuti, l'appaltatore per la natura del rapporto contrattuale che lo vincola al compimento di un'opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio dell'intera attività, riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto e su di lui gravano gli obblighi di corretto smaltimento, salvi i casi in cui, per ingerenza o controllo diretto del committente sull'attività dell'appaltatore, i relativi doveri si estendono anche a tale soggetto (Sez. 3, n. 11029 del 05/02/2015, D'Andrea; Sez. 3, n. 25041 del 25/05/2011, Spagnuolo, che ha affermato il principio in un caso di deposito incontrollato di materiali di risulta edile, provenienti dai lavori di recupero abitativo del sottotetto di un immobile, in violazione delle disposizioni sul deposito temporaneo; Sez. 3, n. 15165 del 28/01/2003, Capecchi, che ha espressamente escluso l'esistenza, in capo al committente, di un dovere di garanzia dell'esatta osservanza delle norma in materia di smaltimento dei rifiuti, non essendo derivabile da alcuna fonte giuridica-legge, atto amministrativo o contratto).
RIFIUTI - Reato di deposito incontrollato di rifiuti - Natura di reato commissivo eventualmente permanente.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti è reato commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità cessa con il conseguimento della necessaria autorizzazione ovvero con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con un provvedimento cautelare di natura reale ovvero con la sentenza di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.07.2017 n. 35569 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Pur non essendo tenuta l’Amministrazione, in linea generale, ad una analitica e puntuale confutazione delle specifiche osservazioni formulate dalla parte privata, è necessario comunque che si dimostri, almeno da un punto di vista sostanziale, che le stesse siano state prese in considerazione, soprattutto laddove vi siano elementi, anche di natura fattuale, che possono risultare rilevanti in vista dell’adozione del provvedimento finale.
In assenza di un riscontro, seppure implicito o sintetico, in sede provvedimentale amministrativa alle osservazioni formulate dalla ricorrente nel corso del procedimento deve essere ritenuto illegittimo il comportamento comunale.
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3. Con la prima censura del ricorso si assume il mancato esame delle osservazioni formulate dalla ricorrente in sede procedimentale in risposta al preavviso di rigetto comunale.
3.1. La doglianza è fondata.
L’Amministrazione comunale, nel provvedimento impugnato, dopo aver dato atto di aver comunicato, in data 15.06.2016, il preavviso di rigetto, non ha effettuato alcun cenno alla memoria, depositata al protocollo comunale dalla ricorrente in data 24.06.2016 e ritualmente acquisita dagli Uffici, come risultante dalla comunicazione di riscontro nella quale è stato altresì indicato il numero di protocollo della pratica (n. 14842 del 24/06/2016: all. 15 al ricorso).
Oltre alla assenza di un riscontro di tipo formale all’avvenuta ricezione della memoria procedimentale, emerge anche un’assenza di riscontro di tipo sostanziale, atteso che nel provvedimento impugnato non si prende alcuna posizione sulle ragioni indicate dalla ricorrente al fine di ritenere assentibile l’intervento di installazione del montapersone: nulla ha evidenziato l’Amministrazione né con riferimento al titolo di proprietà su una parte dell’immobile esibito dalla ricorrente, né con riguardo all’esistenza di una normativa di favore da applicare nel caso di abbattimento di barriere architettoniche nei condomini di edifici.
Di conseguenza, “pur non essendo tenuta l’Amministrazione, in linea generale, ad una analitica e puntuale confutazione delle specifiche osservazioni formulate dalla parte privata, è necessario comunque che si dimostri, almeno da un punto di vista sostanziale, che le stesse siano state prese in considerazione, soprattutto laddove vi siano elementi, anche di natura fattuale, che possono risultare rilevanti in vista dell’adozione del provvedimento finale” (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 760; cfr., altresì, TAR Lazio, Roma, II, 10.07.2014, n. 7343).
In assenza di un riscontro, seppure implicito o sintetico, in sede provvedimentale amministrativa alle osservazioni formulate dalla ricorrente nel corso del procedimento deve essere ritenuto illegittimo il comportamento comunale.
3.2. Ciò determina l’accoglimento della suesposta doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato di essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore.
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c..
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220)”.
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
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Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile rimovibilità si deve altresì sottolineare come l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle disposizioni in materia di abbattimento delle barriere architettoniche.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati”.
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non di una costruzione strettamente intesa.
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4. Con la seconda censura si assume l’illegittimità del diniego comunale, in quanto la ricorrente avrebbe dimostrato la sussistenza di un idoneo titolo giuridico per procedere all’installazione del manufatto, peraltro caratterizzato da un limitato impatto strutturale e dalla sua facile rimovibilità.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile
”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato –senza smentita sul punto né da parte comunale né dai controinteressati, che hanno però sostenuto di essere proprietari di due terzi del giardino comune (cfr. pag. 2 della memoria difensiva)– di essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore (sull’applicabilità della disciplina condominiale anche al c.d. condominio minimo, cfr. Cass. civ., II, 02.03.2017 n. 5329; VI, 03.04.2012, n. 5288).
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220)
” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV, 06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017, n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dalla parte ricorrente in sede procedimentale non poteva che determinare l’Amministrazione a rilasciare il richiesto di permesso di costruire.
4.2. Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile rimovibilità, oltre a ciò che è stato evidenziato nella Relazione tecnica allegata al ricorso –in cui si è specificato che il posizionamento e la sua struttura ne rendono agevole la rimozione e non determinano un rilevante sull’immobile (all. 23 al ricorso)– si deve altresì sottolineare come l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 10.05.1999).
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle disposizioni in materia di abbattimento delle barriere architettoniche (TAR Lombardia, Milano, II, 03.07.2015, n. 1541).
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334 del 25/10/2012)
” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
4.3. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta censura.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, con il conseguente annullamento del diniego comunale del 27.06.2016, prot. n. 14981U (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio.
Pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda (…), conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.

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6.5. Quanto alla domanda di risarcimento del danno, la stessa è infondata, in ragione della mancata di dimostrazione dei suoi elementi costitutivi, ivi compresa quella riguardante la sussistenza del nesso di causalità tra il danno asseritamente subito e il comportamento dell’Amministrazione, non essendo sufficiente una mera e apodittica quantificazione dell’ipotizzata lesione patrimoniale.
Di conseguenza, va fatta applicazione dell’orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo il quale “nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda (…), conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato” (Consiglio di Stato, IV, 22.10.2015, n. 4823; altresì, TAR Lombardia, Milano, II, 26.01.2017, n. 200) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.06.2017 n. 1471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Varianti essenziali al permesso di costruire.
Le istanze per la realizzazione di varianti essenziali al permesso di costruire sono da considerarsi sostanzialmente quali richieste di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e sono soggette, quindi, alle disposizioni vigenti nel momento in cui viene chiesto al Comune di modificare il progetto originario, in quanto non si tratta solo di modificarlo, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
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Il Collegio ritiene che il ricorso non meriti accoglimento.
Ed invero, con la prima censura gli istanti hanno dedotto la violazione dell’allora vigente articolo 23 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto l’Amministrazione comunale, avendo prima sospeso il decorso del termine per l’inizio dei lavori e richiesto documentazione integrativa e poi respinto l’istanza, avrebbe gestito in modo contraddittorio l’istruttoria relativa alla DIA presentata.
Al riguardo, al Collegio preme sin da subito precisare come l’istanza avanzata dai ricorrenti sia stata erroneamente qualificata come DIA in variante all’originario permesso di costruire, difettando palesemente di alcuni presupposti imprescindibili.
Per completezza, si evidenzia che il d.P.R. n. 380/2001 disciplina due differenti categorie di varianti: quelle “essenziali”, ai sensi degli articoli 31 e 32, e quelle “leggere”, ai sensi dell’articolo 22, comma 2; mentre le prime riguardano interventi che incidono su parametri urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, alterano la sagoma dell'edificio e violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire, le seconde sono inerenti ad interventi di minore entità.
Per quanto qui d’interesse, si rileva altresì che le istanze per la realizzazione di varianti essenziali (tra le quali rientrano senza dubbio le opere di demolizione e ristrutturazione eseguite nel caso di specie) sono da considerarsi sostanzialmente quali richieste di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e sono soggette, quindi, alle disposizioni vigenti nel momento in cui viene chiesto al Comune di modificare il progetto originario, perché in effetti non si tratta solo di modificarlo, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
Ne consegue che necessariamente le suddette istanze debbano essere presentate prima della realizzazione dei lavori oggetto delle stesse, data l’incisività delle opere da eseguire.
Ebbene, con riferimento al caso di specie, se, da una parte, come già precisato, le opere di demolizione e ricostruzione realizzate rientrano senza dubbio nel novero delle c.d. “varianti essenziali”, integrando appieno tutti i profili sopra elencati, dall’altra, non si può non rilevare come l’istanza sia stata inoltrata all’Amministrazione comunale dopo aver già eseguito parte delle opere per le quali era stata appositamente presentata.
Alla luce di quanto sino ad ora affermato, dunque, il Collegio ritiene che nulla possa essere contestato all’operato dell’Amministrazione comunale, in quanto effettivamente i ricorrenti hanno dapprima realizzato le opere di demolizione e ricostruzione senza un valido titolo a supporto e poi hanno presentato una DIA “in variante” all’originario permesso di costruire, in realtà attinente ad opere in parte già eseguite e, nonostante ciò, non corredata da alcuna istanza di sanatoria. A ciò si aggiunga altresì la mancata compatibilità urbanistica delle opere, come necessariamente verificato dal Comune intimato.
Ne discende dunque l’infondatezza del primo motivo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancata comunicazione dei motivi ostativi non avrebbe potuto comportare ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto “la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno censurato la legittimità del provvedimento di diniego impugnato in quanto l’Amministrazione comunale avrebbe omesso di comunicare agli stessi i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata.
La censura è infondata, avendo il comune di Seregno comunicato più volte ai ricorrenti i profili di criticità attinenti agli interventi edilizi oggetto della DIA, rappresentati dal contrasto degli stessi rispetto alla disciplina relativa al Piano Particolareggiato del PLIS Brianza Centrale, ciò appositamente attraverso il telegramma del 23.12.2004, le richieste di integrazioni documentali e il richiamo all’istruttoria non conclusa in tutti i provvedimenti adottati successivamente.
Ne discende, dunque, che i ricorrenti fossero a conoscenza dei motivi ostativi ben prima dell’adozione del provvedimento di diniego.
Inoltre, prescindendo dalle suesposte considerazioni, al Collegio preme precisare che, in ogni caso, la mancata comunicazione dei motivi ostativi non avrebbe potuto comportare ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto “la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2017, n. 1001).
Ed invero, alla luce della citata giurisprudenza, la suddetta censura di natura procedimentale, anche se accolta, non avrebbe potuto incidere sul contenuto dispositivo del provvedimento stesso, determinandone l’illegittimità, avendo il Collegio sopra confermato la legittimità delle motivazioni che sono state poste a sostegno del diniego dell’istanza (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti indefettibili affinché una DIA possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
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Non coglie nel segno nemmeno il terzo motivo di ricorso, a mente del quale i ricorrenti ritengono che l’Amministrazione comunale abbia errato nella scelta del provvedimento conclusivo adottato al termine dell’istruttoria, che avrebbe dovuto consistere in un annullamento della DIA e non in un provvedimento di diniego.
Al riguardo, se da una parte la legge effettivamente non specifica il tipo di provvedimento che l’Amministrazione comunale deve adottare per l’esercizio del potere inibitorio rispetto ad una DIA, dall’altra, entrando nel merito della natura del provvedimento, il Collegio non comprende come possa essere adottato un provvedimento di annullamento nei confronti di un’istanza che, erroneamente qualificata come una DIA in variante al permesso di costruire e riguardante opere già eseguite (denunciate come da realizzare ex novo), non ha mai dato origine ad un permesso edilizio produttivo di effetti, potendo essere annullato un provvedimento solo qualora risulti illegittimo ma produttivo di effetti.
Infatti, presupposti indefettibili affinché una DIA possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, requisiti non compiutamente soddisfatti nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non rientrano i lavori di demolizione e ricostruzione della muratura perimetrale (insieme all’inserimento di una rampa di accesso) nella categoria di interventi ammissibili in relazione alle costruzioni esistenti, ossia “manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo”.
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Infine, con il quarto motivo di ricorso, gli istanti sostengono che l’inizio dei lavori non avrebbe dovuto essere inibito dall’Amministrazione comunale, in quanto gli stessi non sarebbero stati incompatibili con le NTA del PLIS.
A parere del Collegio, anche tale censura è infondata, non rientrando i lavori di demolizione e ricostruzione della muratura perimetrale (insieme all’inserimento di una rampa di accesso) nella categoria di interventi ammissibili in relazione alle costruzioni esistenti, ossia “manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo”, così come espressamente previsto dalle NTA del PLIS (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione costituisce provvedimento che non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, ed i cui presupposti sono costituti unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 e 10-bis della legge n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
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Con riferimento al ricorso per motivi aggiunti, il Collegio ritiene che il rigetto del ricorso principale assorba in via derivata l’esame delle successive censure dedotte avverso il consequenziale ordine di ingiunzione di demolizione delle opere abusive, frutto di un nuovo sopraluogo della Pubblica Amministrazione che ha rilevato la permanenza dei profili di abusività con riferimento all’immobile in questione.
Ciò nonostante, il Collegio non si esime dal rilevare come, oltre all’infondatezza derivata di tutti i profili di illegittimità già denunciati con il ricorso principale, debba essere altresì esclusa qualsiasi violazione delle norme procedurali di cui alla legge n. 241/1990.
Infatti, in generale, l'ordine di demolizione costituisce provvedimento che non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, ed i cui presupposti sono costituti unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo (Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3834, nonché TAR Campania, sez. VIII, 04.09.2015, n. 4322); né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 e 10-bis della legge n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Né in ogni caso, con riferimento al caso di specie, può essere contestata la genericità del suddetto ordine di demolizione, essendo lo stesso chiaro nell’indicare le opere da demolire, facendo espresso riferimento all’immobile “posto in via Milano a Seregno, distinto in catasto con il mapp. n. 67 del fg. 50, ricadente in zona “CSP8” del P.R.G.” e motivando sulla base del fatto che le opere sono rimaste “invariate rispetto ai precedenti sopralluoghi e completate dalle finiture (parapetto in ferro, portone di ingresso)”.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto, unitamente al ricorso per motivi aggiunti (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Premesso che in tema di violazioni urbanistico-edilizie la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima, deve tuttavia rilevarsi che la più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, quali la presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi.
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Orbene, deve evidenziarsi come, nel caso di specie, l'abuso risulta essere stato commesso su alloggio di edilizia residenziale pubblica concesso in locazione alla Pa. ed al suo nucleo familiare; solo la Pa. risultava essere destinataria dell'ingiunzione a demolire disposta dal responsabile dell'UTC, notificata a mani del Ru. in data 13/07/2009; solo la Pa. risulta essere committente della sanatoria edilizia presentata al Comune di Tocco Claudio; sia l'autorizzazione paesaggistica rilasciata il 14/12/2012 che il permesso di costruire in sanatoria per i lavori di ampliamento hanno infine come destinataria la Pa..
Orbene,
premesso che in tema di violazioni urbanistico-edilizie la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016 - dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291), deve tuttavia rilevarsi che la più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del proprietario non committente (e, nella specie, che non si tratti di committente risulta pacificamente dai documenti allegati) delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, quali la presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016 - dep. 16/09/2016, Avanzato, Rv. 268014).
Nella specie, i giudici di appello hanno sostanzialmente ritenuto che la responsabilità del Ru. conseguisse allo status di coniuge della Pa., unica committente, e del fatto che lo stesso fosse interessato dalla illecita trasformazione, attribuendogli erroneamente la qualifica di committente dei lavori. In applicazione della giurisprudenza più recente, dunque, quanto affermato dalla Corte territoriale è effettivamente insufficiente al fine di attribuire al Ru. una corresponsabilità in relazione agli abusi contestati, difettando, al di là della mera qualifica di coniuge della Pa., ulteriori elementi (non essendo sufficiente, come affermato dalla più recente giurisprudenza, la esistenza di un generico interesse all'edificazione abusiva) a sostegno del coinvolgimento di quest'ultimo nell'esecuzione dei lavori abusivi.
Quanto sopra giustificherebbe l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza per porre rimedio al deficit motivazionale che inficia la sentenza impugnata in ordine alla individuazione di ulteriori elementi idonei a sorreggere il giudizio di correità del Ru.. Tale rinvio è tuttavia precluso dall'intervenuta estinzione del reato paesaggistico il cui termine di prescrizione, considerati i periodi di sospensione del termine per complessivi gg. 300, è interamente decorso alla data del 15/09/2015, antecedente allo stesso pervenimento degli atti a questa Corte (05/01/2016). Ed invero, questa Corte, a Sezioni Unite, ha autorevolmente affermato che in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 - dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244275).
Quanto sopra determina, dunque, l'annullamento senza rinvio per essere il reato paesaggistico estinto per prescrizione quanto alla posizione Ru., con conseguente revoca dell'ordine di rimessione in pristino.
5. Osserva, peraltro, il Collegio che risulta essere parzialmente fondato il motivo comune a tutti i ricorrenti, con cui gli stessi si dolgono della violazione del disposto dell'art. 181, co. 1-ter, d.Lgs. n. 42 del 2004, nei limiti e per le ragioni di seguito esposte.
Ed invero -in disparte le questioni (invero generiche) sollevate in ordine al presunto vizio di mancanza della motivazione non avendo i ricorrenti sollevato alcuna critica specifica alla motivazione della sentenza, se non dolersi con modalità puramente contestative delle mancate risposte che la stessa avrebbe omesso di fornire ad alcune doglianze sollevate con alcuni motivi di appello-, osserva il Collegio come priva di pregio si palesi la censura secondo cui l'intervenuto parere di compatibilità paesaggistica avrebbe determinato anche l'estinzione del reato di cui all'art. 181, d.Lgs. n. 42 del 2004.
Le censure dei ricorrenti, infatti, non tengono conto della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui
in tema di protezione delle bellezze naturali, l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, al di fuori dei casi previsti dall'art. 167, commi quarto e quinto, D.Lgs. n. 42 del 2004, non può essere rilasciata successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, e, non avendo equipollenti, produce l'estinzione del reato previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 solo se rilasciata all'esito della procedura prevista dal comma 1-quater della medesima norma (in applicazione di tale principio la Corte ha escluso l'efficacia sanante del parere favorevole espresso dal soprintendente nell'ambito del separato procedimento per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, o in sede di conferenza di servizi, ex art. 14, comma 3-bis, l. n. 241 del 1990: Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016 - dep. 13/06/2016, Pezzuto e altro, Rv. 267191).
Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, posto che il parere risulta essere stato rilasciato nell'ambito del separato procedimento per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, donde è da escludersi l'estensione dell'effetto estintivo del p.d.c. in sanatoria anche al reato paesaggistico (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30195).

ENTI LOCALI: Vige l'obbligo per i comuni di affidare le infrastrutture idriche al gestore del servizio idrico integrato.
Il servizio idrico, in quanto servizio pubblico, può essere svolto adeguatamente solo se il gestore ha la dotazione infrastrutturale di cui alle norme di settore (art. 153, c. 1, d.lgs. 03.04. 2006, n. 152). Peraltro, poiché l'ATO è una forma di cooperazione volontaria, basata sulla convenzione, sussiste l'obbligo dei comuni di affidare le infrastrutture idriche al gestore del servizio idrico integrato anche per un ulteriore titolo, che si pone sul piano non normativo, ma negoziale, consistente nella convenzione di cooperazione che i Comuni appellanti hanno sottoscritto, nella parte in cui gli stessi si impegnano, in vista del trasferimento al gestore, alla ricognizione delle opere e degli impianti.
Il diritto dell'Unione europea non sottrae agli stati membri la competenza a decidere quale sia l'ambito organizzativo ottimale, anche in termini dimensionali, per lo svolgimento dei servizi di interesse economico generale, né quali siano le forme di gestione più adeguate. Pretendere, di fondare sul diritto europeo una esasperata frammentazione nella gestione del servizio idrico, tale per cui ad ogni comune dovrebbe corrispondere una propria gestione, risulta contrastante con gli stessi scopi della direttiva 2000/60/CE (Direttiva Quadro sulle Acque) che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque.
L'approccio innovativo nella legislazione europea in materia di acque, tanto dal punto di vista ambientale, quanto amministrativo-gestionale persegue gli obiettivi di prevenire il deterioramento qualitativo e quantitativo, migliorare lo stato delle acque e assicurare un utilizzo sostenibile, basato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili. Frammentare la gestione della risorsa acqua contrasta con tali obiettivi
(commento tratto dalla newsletter Ancitel 18.07.2017 - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.06.2017 n. 2913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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2. Oggetto del giudizio è l’atto dell'Amministrazione regionale che ha diffidato i Comuni appellanti, facenti parte dell'Ambito Territoriale convenuto, a trasferire le infrastrutture e gli impianti idrici al gestore unico del Servizio Idrico Integrato, società Talete, ai sensi dell'art. 153, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), con l'avvertimento che, in difetto, avrebbe avviato le procedure per l'applicazione dei poteri sostitutivi ai sensi dell'art. 172, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
L'Amministrazione regionale ha adottato tale atto poiché dalla ricognizione effettuata alla fine del 2014 dalla segreteria tecnica operativa dell’ATO, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 14.11.2014, n. 164 agli articoli da 147 a 153 del d.lgs. n. 152 del 2006, è risultato che alcuni dei Comuni ricadenti nell'ATO stessa non avevano ancora provveduto a conferire le reti nel sistema idrico integrato.
3. Secondo il Collegio si può prescindere dalle preliminari eccezioni di inammissibilità dell’appello, formulate dalla difesa di Talete, atteso che l’appello è infondato nel merito.
Infatti, l’obbligo oggetto dell’atto impugnato discende da quanto espressamente previsto dalla l. 05.01.1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), dalla l.r. Lazio 22.01.1996 n. 6 (Individuazione degli ambiti territoriali ottimali e organizzazione del servizio idrico integrato in attuazione della legge 05.01.1994, n. 36) e dall’art. 153 (Dotazioni dei soggetti gestori del servizio idrico integrato) d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l’art. 12 (Dotazioni dei soggetti gestori del servizio idrico integrato), comma 1, della citata l. n. 36 del 1994 già prevedeva che «Le opere, gli impianti e le canalizzazioni relativi ai servizi di cui all'articolo 4, comma 1, lettera f), di proprietà degli enti locali o affidati in dotazione o in esercizio ad aziende speciali e a consorzi, salvo diverse disposizioni della convenzione, sono affidati in concessione al soggetto gestore del servizio idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla convenzione e dal relativo disciplinare».
L’obbligo è rimasto immutato anche dopo le modifiche apportate al predetto art. 153 del Codice dell’Ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006) dal d.l. 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive) come convertito dalla l. 11.11.2014, n. 164.
L’attuale versione dell’art. 153 è, infatti, del seguente tenore: «1. Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell'articolo 143 sono affidate in concessione d'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla convenzione e dal relativo disciplinare. Gli enti locali proprietari provvedono in tal senso entro il termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, salvo eventuali quote residue di ammortamento relative anche ad interventi di manutenzione. Nelle ipotesi di cui all'articolo 172, comma 1, gli enti locali provvedono alla data di decorrenza dell'affidamento del servizio idrico integrato. Qualora gli enti locali non provvedano entro i termini prescritti, si applica quanto previsto dal comma 4, dell'articolo 172. La violazione della presente disposizione comporta responsabilità erariale.
Le immobilizzazioni, le attività e le passività relative al servizio idrico integrato, ivi compresi gli oneri connessi all'ammortamento dei mutui oppure i mutui stessi, al netto degli eventuali contributi a fondo perduto in conto capitale e/o in conto interessi, sono trasferite al soggetto gestore, che subentra nei relativi obblighi. Di Tale trasferimento si tiene conto nella determinazione della tariffa, al fine di garantire l'invarianza degli oneri per la finanza pubblica. Il gestore è tenuto a subentrare nelle garanzie e nelle obbligazioni relative ai contratti di finanziamento in essere o ad estinguerli, ed a corrispondere al gestore uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri stabiliti dall'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico

4. La legge, sin dal 1994 aveva previsto a favore del concessionario la necessaria attribuzione in uso gratuito delle infrastrutture da parte dei Comuni proprietari delle reti.
Nel caso in esame, i Comuni ricadenti nel perimetro dell'ATO, che fu istituito sulla base della legge regionale del Lazio n. 6 del 1996, organizzato in forma di convenzione di cooperazione ai sensi del relativo art. 4, in esecuzione del quale il 22.07.1999 è stata sottoscritta e deliberata la costituzione dell’Autorità d’Ambito ATO 1 – Lazio Nord Viterbo.
In specifico, la concessionaria Talete s.p.a. è un società a integrale partecipazione pubblica, come appare dall'atto di costituzione deliberato dalla stessa Autorità di Ambito; ed è la concessionaria del servizio idrico in forza dell'affidamento deliberato dall'Autorità d'ambito ATO 1 – Lazio Nord Viterbo.
I Comuni appellanti sono tutti componenti dell'Autorità d'ambito ATO 1, avendo sottoscritto la Convenzione di cooperazione con cui tale Autorità fu istituita, con conseguente obbligo, ai sensi della normativa predetta, di conferimento delle infrastrutture, in ragione del principio per cui gli enti locali titolari devono trasferire le infrastrutture di servizio in concessione d'uso gratuita al concessionario del servizio.
5. La disciplina nazionale di cui all’art. 2, comma 186-bis, l. 23.12.2009, n. 191 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)], cui fanno riferimento le appellanti, ha abrogato solo le autorità d'ambito in forma di persona giuridica, perché incompatibili con le esigenze di razionalizzazione organizzativa e di riduzione della spesa pubblica; ma non ha inciso su altre forme volontarie di cooperazioni tra enti locali, cui la successiva normativa, sia statale che regionale, dà il compito di garantire l'ordinata ed efficiente gestione del servizio idrico integrato.
Infatti, l’abrogazione dell'art. 148 d.lgs. n. 152 del 2006, che prevedeva autorità d'ambito dotate di personalità giuridica, implica soltanto, ai presenti fini, che il trasferimento delle competenze organizzative e gestionali avvenga nei confronti di un soggetto privo di personalità giuridica, ovvero l'attuale Ente d'Ambito Territoriale Ottimale 2 Lazio Centrale.
Tuttavia, le forme di cooperazione basate su convenzioni, stipulate sulla base della l.r. n. 6 del 2006, come nella specie, appaiono valide: sicché permane l'obbligo dei Comuni stipulanti di affidare le infrastrutture idriche al gestore del servizio.
Peraltro, la revisione su base geografica dell'ambito territoriale non rappresenta un impedimento al conferimento delle reti, poiché detto obbligo sussiste da quando il perimetro dell'Ambito Territoriale venne individuato su base amministrativo-provinciale, senza differenziazioni in ragione della circostanza che il territorio sia delimitato in modo particolare, ovvero se coincide con quelle della provincia.
Infatti, ai fini dell'obiettivo della gestione unitaria del servizio, non rileva il criterio formale di delimitazione del territorio, ma la finalità sostanziale di assicurare adeguatamente l’approvvigionamento idrico.
6. In attuazione dei principi sopra indicati, la Regione nella specie ha intimato alle Amministrazioni qui appellanti di conferire le infrastrutture al gestore del servizio perché il servizio idrico, in quanto servizio pubblico, può essere svolto adeguatamente solo se il gestore ha la dotazione infrastrutturale di cui alle norme di settore.
Peraltro, come bene ha evidenziato la sentenza impugnata, poiché l’ATO è una forma di cooperazione volontaria, basata sulla convenzione perfezionata, come già detto, ai sensi della l.r. n. 6 del 1996, sussiste l'obbligo dei comuni di affidare le infrastrutture idriche al gestore del servizio idrico integrato anche per un ulteriore titolo, che si pone sul piano non normativo ma negoziale, consistente nella convenzione di cooperazione che i Comuni appellanti hanno sottoscritto, nella parte in cui gli stessi si impegnano, in vista del trasferimento al gestore, alla ricognizione delle opere e degli impianti.
7. La legge regionale del Lazio 28.10.2015, n. 13 (Modifiche alla legge regionale 04.04.2014, n. 5 (Tutela, governo e gestione pubblica delle acque) e successive modifiche), agli artt. 6 e 7, nel ribadire i principi di unitarietà e qualità del servizio idrico integrato di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, ha soppresso le disposizioni di salvaguardia relativamente alla transitoria ultrattività delle gestioni provvisorie del servizio idrico non rientranti nelle convenzioni di cooperazione, vale a dire la tipologia di gestione che i Comuni appellanti pretenderebbero in sostanza di mantenere e che non trovano più alcuna base giuridica nemmeno nella legislazione regionale.
8. Si deve, inoltre, rilevare che:
   - l'affidamento in house a Talete s.p.a., di cui si è detto, è stato adottato anche dagli odierni appellanti e non è mai stato oggetto di contestazione, né è stato mai impugnato;
   - la considerazione che Talete s.p.a. verserebbe in una situazione di disequilibrio economico finanziario, con conseguente venir meno, in tesi, dell'obbligo di affidamento delle infrastrutture imposto ai Comuni dall'art. 153 d.lgs. n. 152 del 2006, poiché in contrasto con l'art. 14, comma 2, del medesimo decreto legislativo, appare non suffragata da adeguata dimostrazione e comunque non concludente sul punto.

EDILIZIA PRIVATA: Questione che sarà trattata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato all’udienza del 11.10.2017.
Il prossimo 11 ottobre l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato tratterà la questione: "
se, a mente del combinato disposto degli artt. 140, 141 e 157, comma 2, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l’adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto".
La questione è stata rimessa dalla sez. IV del Consiglio di Stato con ordinanza 12.06.2017, n. 2838.
L’ordinanza ha dato atto di un contrasto giurisprudenziale insorto in ordine agli effetti della proposta di vincolo formulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 si sono formati due orientamenti.
Un primo, prevalente orientamento (Cons. St., sez. VI, 27.07.2015 n. 3663), ha ritenuto che le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi, non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. 26.03.2008 n. 63, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, comma 1, del Codice.
A sostegno di tale orientamento si è sostenuto:
   - che il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, comma 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157 del 2006 e 63 del 2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004;
   - che, al contrario, il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del tempus regit actum;
   - che la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe (come sostenuto dalla sentenza impugnata) “una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141, d.lgs. n. 42 del 2004”.
Un secondo orientamento (Cons. St., sez. VI, 16.11.2016, n. 4746), ha affermato come non può sussistere una categoria di “proposte di vincolo”, alle quali non si applica il uovo regime decadenziale.
Infatti quando l’art. 345, comma 2, c.p.c. e l’art. 104 c.p.a. vietano di proporre in appello eccezioni nuove rispetto a quelle versate in primo grado il riferimento è alle eccezioni c.d. in senso proprio e stretto, e cioè alle eccezioni (tra l’altro, di merito) che possono essere proposte solo dalle parti al fine di contrastare la domanda avversaria mediante l’allegazione di fatti impeditivi modificativi o estintivi (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Circa l'invocazione della sussistenza di “cause di forza maggiore, del tutto indipendenti dalla volontà della Lottizzante, idonei a determinare la sospensione dei termini della lottizzazione” e quindi la sussistenza dell’“oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis”, che “pacificamente, impedisce la decadenza del piano di lottizzazione”, ritiene il collegio di dovere ribadire i principi giurisprudenziali in materia affermati da questo Tribunale e confermati dal Consiglio di Stato, secondo cui:
   - “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo strumento attuativo perde efficacia”.
   - “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante”.
   - “La declaratoria di decadenza del piano di lottizzazione, per la mancata esecuzione nel decennio decorrente dalla stipula della convenzione delle opere di urbanizzazione, ha natura vincolata, configurandosi come atto ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del termine di efficacia della convenzione con effetto automatico contemplato dalla legge”.
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Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d. factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire l’indirizzo giurisprudenziale affermato dal CdS -principio affermato in materia di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in esame di sospensione del termine di validità della lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
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La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1, lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga.
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis, di attivarsi nel termine di validità o del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti (eventuale provvedimento di proroga) di competenza dell’amministrazione medesima.
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Il ricorso è infondato.
Il provvedimento impugnato si fonda -tra l’altro- sull’intervenuta “perdita di efficacia della lottizzazione convenzionata per scadenza del termine decennale”.
Ritiene il collegio che tale rilievo dell’Amministrazione comunale risulti fondato.
Considerato che il piano di lottizzazione in questione è stato convenzionato in data 27.04.1989, si rileva che l’istanza della ricorrente oggetto del provvedimento impugnato, risulta essere stata proposta in data 28.11.2014 e cioè a distanza di oltre 15 anni e mezzo dalla data di scadenza -in via normale- del piano di lottizzazione medesimo, da individuarsi -si ribadisce in via normale- nel 10º anno dalla data in cui la lottizzazione è stata convenzionata (nel caso di specie 27.04.1989).
La ricorrente, a tale riguardo, invoca la sussistenza di “cause di forza maggiore, del tutto indipendenti dalla volontà della Lottizzante, idonei a determinare la sospensione dei termini della lottizzazione” e quindi la sussistenza dell’“oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis”, che “pacificamente, impedisce la decadenza del piano di lottizzazione”.
Relativamente al sopra esposto assunto della ricorrente, ritiene il collegio di dovere ribadire i principi giurisprudenziali in materia affermati da questo Tribunale e confermati dal Consiglio di Stato, secondo cui:
- “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo strumento attuativo perde efficacia” (Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, sez. II, n. 553 del 2013).
- “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante” (Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
- “La declaratoria di decadenza del piano di lottizzazione, per la mancata esecuzione nel decennio decorrente dalla stipula della convenzione delle opere di urbanizzazione, ha natura vincolata, configurandosi come atto ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del termine di efficacia della convenzione con effetto automatico contemplato dalla legge” (Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d. factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire l’indirizzo giurisprudenziale affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 04/04/2013 n. 1870, recepito e ribadito da questo tribunale con la sentenza TAR Sardegna, sez. II, 08.11.2016 n. 848 -principio affermato in materia di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in esame di sospensione del termine di validità della lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)”.
Si confronti altresì al riguardo: Consiglio di Stato sez. IV 18.05.2012 n. 2915; TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Liguria sez. I, 31.08.2016 n. 922; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 04.08.2016 n. 1564.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1, lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga (TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Veneto n. 375 del 2016).
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per factum principis, di attivarsi nel termine di validità o del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti (eventuale provvedimento di proroga) di competenza dell’amministrazione medesima.
Non risultando essere stati adottati formali provvedimenti di proroga del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione (risulta prodotta in giudizio solamente un’istanza del 15.04.1999 di proroga della convenzione stipulata in data 27.04.1989, non firmata e priva di protocollo di ricevimento del Comune, alla quale non risulta avere fatto seguito un provvedimento di proroga da parte dell’Amministrazione comunale), non può che prendersi atto che il termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione in questione risultava ampiamente scaduto di oltre 15 anni al momento della presentazione dell’istanza in questione concernente il nuovo progetto di rimodulazione dell’intervento collocato oltre i 300 m dalla linea di battigia.
Infondata risulta infine la censura, avanzata in via subordinata, secondo cui l’articolo 13 della legge regionale n. 4/2009 (norma regionale in forza della quale è stata presentata l’istanza in esame) non richiederebbe, quale presupposto di assentibilità, la sussistenza di una convenzione efficace, limitandosi a prevedere che “possono essere realizzati gli interventi previsti dagli strumenti attuativi già approvati e convenzionati, a condizione che le relative opere di urbanizzazione siano state legittimamente avviate prima dell’approvazione del Piano paesaggistico regionale”.
Non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui la formulazione della norma in questione consentirebbe l’esame e l’accoglimento delle istanze presentate ai sensi della suddetta disposizione regionale “anche indipendentemente dalla sussistenza di una lottizzazione ancora efficace”.
Deve infatti ritenersi che il disposto della norma in questione secondo cui “possono essere realizzati gli interventi previsti dagli strumenti attuativi già approvati e convenzionati….. omissis…”, debba essere ragionevolmente interpretato -contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente- nel senso della sussistenza di una lottizzazione ancora efficace.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza delle censure avanzate, il ricorso deve essere respinto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.05.2017 n. 352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo concessorio (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
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E’ stato rilevato (seppure sotto il differente profilo dell’aggiornamento dell’incidenza del costo di costruzione) che, ai sensi dell'art. 16 del DPR 380/2001, il contributo afferente al permesso di costruire è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi (tra l’altro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una clausola che ne riservi la rideterminazione) che l'amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio.
E’ però salva la legittima ri-liquidazione quando sia rilasciato un nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento –con mutamento di destinazione d'uso– delle opere assentite in origine.
Sulla base degli stessi precedenti, si può procedere alla ri-liquidazione con ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione –in precedenza decaduta– nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso, ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma: in tale ultimo caso il ricalcolo degli oneri dovuti si giustifica col maggiore carico urbanistico conseguente.

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E’ evidente che il contributo di costruzione, già versato in prima battuta per un fabbricato completo e ultimato, non può essere duplicato per il solo fatto della scadenza del titolo (e la necessità di una sua riedizione), poiché colpirebbe due volte, indebitamente, lo stesso valore presupposto.
Un caso simile è stato esaminato da TAR Sicilia-Palermo, sez. II – 01/03/2013 n. 487, che ha statuito che <<Sul punto il Collegio ritiene che non possa addivenirsi ad alcuna duplicazione degli oneri concessori, non essendo possibile accollare all'istante per due volte gli oneri relativi alle medesime opere. Infatti, aderendo ad una recente pronunzia del Consiglio di Stato, il Collegio ritiene che “Nel caso di rilascio, in successione di tempo, di due permessi di costruire, il secondo dei quali richiesto dall'interessato per il completamento dei lavori relativi allo stesso fabbricato e non ultimati nel periodo di vigenza del primo, il ricalcolo degli oneri concessori già corrisposti per la prima concessione applicando anche ad essi la nuova disciplina medio tempore intervenuta, ma fermo restando lo scomputo delle somme già corrisposte è legittimo solo nell'ipotesi che le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d'uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto”).
Dunque, soltanto nelle ipotesi sopra prospettate, il Comune potrà procedere -anche in applicazione del principio tempus regit actum– al ricalcolo degli oneri dovuti applicando la normativa e i parametri vigenti al momento in cui il titolo viene rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della disciplina in vigore all'epoca del rilascio del titolo originario (poi decaduto), ma ciò pur sempre scomputando l’importo degli oneri a suo tempo versati.
Tuttavia, nel caso di specie, l’istanza volta ad ottenere il secondo permesso di costruire non contempla una variazione della destinazione d’uso delle cinque villette unifamiliari, ovvero una variazione essenziale delle stesse con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma e, pertanto, non si verifica quel maggior carico urbanistico che solo possa giustificare il conseguente ricalcolo degli oneri dovuti, in quanto la nuova concessione edilizia concerne unicamente opere interne e di finitura, essendo stati gli immobili interamente realizzati nella loro struttura portante>>.

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Nel caso di indebita duplicazione del versamento del contributo di costruzione, il Comune va condannato alla restituzione dell’importo (duplicato) con gli interessi legali dalla domanda giudiziale fino al soddisfo.
Non spetta invece, in base ai principi, la rivalutazione monetaria dato che il pagamento di somme non dovute da parte della ricorrente rientra nell’ipotesi normativa di indebito oggettivo di cui all’art. 2033 codice civile, che prevede unicamente la corresponsione degli interessi legali sulla somma erroneamente versata.
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La Società ricorrente, che ha ottenuto un titolo abilitativo per l’ultimazione dei lavori di costruzione di un edificio unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare (a suo avviso duplicandolo indebitamente) il contributo sul costo di costruzione.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono nell’art. 16 del DPR 380/2001 (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), il quale dispone al comma 1 “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”. Ai sensi del comma 10, “Nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire”.
2. A questo punto il Collegio richiama i principi giurisprudenziali dettati in materia e cioè che il contributo concessorio (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (Consiglio di Stato, sez. IV, 29/10/2015 n. 4950).
3. E’ stato poi nello specifico osservato che la manutenzione straordinaria si connota rispetto alla ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, elementi questi incompatibili con il concetto di manutenzione straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1561, che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 14/04/2016 n. 1510 e altri precedenti).
4. E’ stato rilevato (seppure sotto il differente profilo dell’aggiornamento dell’incidenza del costo di costruzione) che, ai sensi dell'art. 16 del DPR 380/2001, il contributo afferente al permesso di costruire è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi (tra l’altro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruire di una clausola che ne riservi la rideterminazione) che l'amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio. E’ però salva la legittima ri-liquidazione quando sia rilasciato un nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento –con mutamento di destinazione d'uso– delle opere assentite in origine (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 19/03/2015 n. 1504 che richiama i propri precedenti sez. IV – 30/07/2012 n. 4320 e 27/04/2012 n. 2471).
Sulla base degli stessi precedenti, secondo TAR Puglia Lecce, sez. III – 18/04/2016 n. 660, si può procedere alla ri-liquidazione con ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione –in precedenza decaduta– nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso, ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma: in tale ultimo caso il ricalcolo degli oneri dovuti si giustifica col maggiore carico urbanistico conseguente.
5. Nella fattispecie all’esame del Collegio, è pacifico che i nuovi interventi sia ascrivibili alla manutenzione straordinaria, e siano necessari per l’ultimazione di un fabbricato al rustico. In buona sostanza, con il precedente titolo abilitativo del 2007 la nuova villa unifamiliare è stata solo parzialmente realizzata “al grezzo”, mentre per le opere di completamento (impianti e finiture) è stata richiesta l’emissione di un nuovo permesso di costruire poiché quello precedente era scaduto.
La ricorrente ha certamente esibito, al fine di ottenere un nuovo titolo autorizzatorio, un computo metrico dell’intervento (pari a 126.249,21 € - cfr. memoria del Comune) e tuttavia già con il titolo abilitativo del 05/09/2007 era stato assentito un intervento completo consistente nella costruzione di una nuova villa unifamiliare: è dunque assolutamente verosimile che il valore del fabbricato all’epoca dichiarato nell’istanza di permesso fosse complessivo, comprendente sia la prima fase di realizzazione del manufatto al rustico, sia il successivo completamento con impianti e finiture.
E’ evidente che il contributo di costruzione, già versato in prima battuta per un fabbricato completo e ultimato, non può essere duplicato per il solo fatto della scadenza del titolo (e la necessità di una sua riedizione), poiché colpirebbe due volte, indebitamente, lo stesso valore presupposto.
6. Un caso simile è stato esaminato da TAR Sicilia Palermo, sez. II – 01/03/2013 n. 487, che ha statuito che <<Sul punto il Collegio ritiene che non possa addivenirsi ad alcuna duplicazione degli oneri concessori, non essendo possibile accollare all'istante per due volte gli oneri relativi alle medesime opere. Infatti, aderendo ad una recente pronunzia del Consiglio di Stato, il Collegio ritiene che “Nel caso di rilascio, in successione di tempo, di due permessi di costruire, il secondo dei quali richiesto dall'interessato per il completamento dei lavori relativi allo stesso fabbricato e non ultimati nel periodo di vigenza del primo, il ricalcolo degli oneri concessori già corrisposti per la prima concessione applicando anche ad essi la nuova disciplina medio tempore intervenuta, ma fermo restando lo scomputo delle somme già corrisposte è legittimo solo nell'ipotesi che le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d'uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27/04/2012 n. 2471).
Dunque, soltanto nelle ipotesi sopra prospettate, il Comune potrà procedere -anche in applicazione del principio tempus regit actum– al ricalcolo degli oneri dovuti applicando la normativa e i parametri vigenti al momento in cui il titolo viene rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della disciplina in vigore all'epoca del rilascio del titolo originario (poi decaduto), ma ciò pur sempre scomputando l’importo degli oneri a suo tempo versati.
Tuttavia, nel caso di specie, l’istanza volta ad ottenere il secondo permesso di costruire non contempla una variazione della destinazione d’uso delle cinque villette unifamiliari, ovvero una variazione essenziale delle stesse con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma e, pertanto, non si verifica quel maggior carico urbanistico che solo possa giustificare il conseguente ricalcolo degli oneri dovuti, in quanto la nuova concessione edilizia concerne unicamente opere interne e di finitura, essendo stati gli immobili interamente realizzati nella loro struttura portante
>>.
7. In conclusione, la pretesa avanzata è fondata e merita accoglimento. Il Comune va quindi condannato alla restituzione dell’importo di 22.724,86 €, con gli interessi legali dalla domanda giudiziale fino al soddisfo (TAR Puglia Lecce, sez. III – 24/03/2016 n. 557; sentenza di questa Sezione I – 13/10/2015 n. 1309, che risulta appellata).
Non spetta invece, in base ai principi, la rivalutazione monetaria, dato che il pagamento di somme non dovute da parte della ricorrente rientra nell’ipotesi normativa di indebito oggettivo di cui all’art. 2033 codice civile, che prevede unicamente la corresponsione degli interessi legali sulla somma erroneamente versata (TAR Lombardia Milano, sez. II – 01/03/2017 n. 496; Consiglio di Stato, sez. IV – 06/04/2016 n. 1342) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.04.2017 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ stato poi nello specifico osservato che la manutenzione straordinaria si connota rispetto alla ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, elementi questi incompatibili con il concetto di manutenzione straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
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La Società ricorrente, che ha ottenuto un titolo abilitativo per l’ultimazione dei lavori di costruzione di un edificio unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare (a suo avviso duplicandolo indebitamente) il contributo sul costo di costruzione.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
...
3. E’ stato poi nello specifico osservato che la manutenzione straordinaria si connota rispetto alla ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, elementi questi incompatibili con il concetto di manutenzione straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1561, che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 14/04/2016 n. 1510 e altri precedenti) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.04.2017 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAÈ vero che l’art. 17, comma 3, lett. b) del DPR n. 380 del 2001 prevede che il contributo di costruzione non è dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Tuttavia la giurisprudenza ha chiarito che la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
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11 – Con il secondo mezzo parte ricorrente evidenzia che in relazione alle pratiche edilizie nn. 166/2012 e 259/2013 non sono dovuti i contributi connessi al costo di costruzione, avendo le dette pratiche interessato l’edificio A con interventi di ristrutturazione su edificio unifamiliare.
La censura è infondata.
È vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001 prevede che il contributo di costruzione non è dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” e che analoga previsione è contenuta nell’art. 124 della legge regionale n. 1 del 2005; tuttavia la giurisprudenza ha chiarito che la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (TAR Milano, sez. 2^, 10.10.1996, n. 1480); ne consegue che la suddetta esenzione non può trovare applicazione nella presente fattispecie, relativa a villa di 19 vani e superficie di mq 638,41 (cfr. nota comunale depositata il 31.01.2017) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.04.2017 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche dopo il rilascio della concessione edilizia ed entro il termine di prescrizione decennale, l’Amministrazione comunale ben può effettuare la rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, il che può avvenire ogni qual volta la p.a. stessa si renda conto di essere incorsa in errore, per qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio.
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12 – Con il terzo mezzo parte ricorrente censura la rideterminazione retroattiva del costo di costruzione a distanza di anni dalla realizzazione dell’intervento.
La censura è infondata.
Come la Sezione ha già chiarito (sentenza n. 866 del 2015), anche dopo il rilascio della concessione edilizia ed entro il termine di prescrizione decennale, l’Amministrazione comunale ben può effettuare la rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, il che può avvenire ogni qual volta la p.a. stessa si renda conto di essere incorsa in errore, per qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio (Cons. Stato, V 06/05/1997 n. 458) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.04.2017 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: In relazione alle procedure di affidamento di servizi ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 50/2016, definite “semplificate”, l'orientamento pressoché unanime della giurisprudenza anche di questo Tribunale, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, è nel senso del riconoscimento dell'ampia discrezionalità dell'Amministrazione anche nella fase dell'individuazione delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla procedura.
Né può ritenersi che sussistesse un obbligo da parte del Comune di rispondere all’istanza prodotta da parte ricorrente, volta ad essere invitata alla procedura di gara, istanza peraltro anche successiva all’invio delle lettere di invito nei confronti delle tre ditte invitate a partecipare alla gara stessa.
Avendo riscontrato la legittimità della mancata convocazione della ricorrente, devono ritenersi inammissibili per carenza di legittimazione attiva le ulteriori censure dedotte con il primo e terzo motivo di ricorso.
Ed invero, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, condiviso dal Collegio, il soggetto legittimamente escluso da una procedura selettiva risulta privo di legittimazione ad impugnare i successivi atti della procedura di gara; la definitiva esclusione (o l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara) impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare le ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi è rimasto estraneo alla gara.
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Il Collegio deve esaminare in via prioritaria il secondo motivo di ricorso con il quale parte ricorrente lamenta il suo mancato invito alla selezione di gara per cui è causa da parte del Comune di Limatola.
La Cooperativa Sociale ricorrente deduce le seguenti censure: violazione dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, rotazione, non discriminazione, eccesso di potere, carenza di motivazione, violazione del principio di correttezza, violazione dell'art. 97 Cost.. Ad avviso di parte ricorrente gli atti della procedura di gara oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in ragione del mancato invito della ricorrente a presentare l’offerta, nonostante essa, con nota del 23.12.2016, dopo poche ore dalla pubblicazione della determina contrarre, avesse chiesto di essere invitata alla procedura di gara stessa.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, in relazione alle procedure di affidamento di servizi ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 50/2016, definite “semplificate”, quale quella per cui è causa, l'orientamento pressoché unanime della giurisprudenza anche di questo Tribunale, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, è nel senso del riconoscimento dell'ampia discrezionalità dell'Amministrazione anche nella fase dell'individuazione delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla procedura (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 08.03.2017, n. 1336).
Né può ritenersi che sussistesse un obbligo da parte del Comune di Limatola di rispondere all’istanza prodotta da parte ricorrente, volta ad essere invitata alla procedura di gara, istanza peraltro anche successiva all’invio delle lettere di invito nei confronti delle tre ditte invitate a partecipare alla gara stessa.
Avendo riscontrato la legittimità della mancata convocazione della ricorrente, devono ritenersi inammissibili per carenza di legittimazione attiva le ulteriori censure dedotte con il primo e terzo motivo di ricorso.
Ed invero, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, condiviso dal Collegio, il soggetto legittimamente escluso da una procedura selettiva risulta privo di legittimazione ad impugnare i successivi atti della procedura di gara; la definitiva esclusione (o l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara) impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare le ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi è rimasto estraneo alla gara (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 29.04.2016, n. 1650, 03.02.2016, n. 424, 07.07.2015, n. 3339, 09.06.2015, n. 2839 e 21.05.2013, n. 2765, Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.03.2014, n. 1308 e 05.09.2011, n. 4999, Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n. 4, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.07.2016, n. 3973, TAR Campania, Napoli, sez. I, 31.10.2012, n. 4344 e 06.11.2013, n. 4916).
Conclusivamente, per i su esposti motivi, la domanda di annullamento del ricorso deve essere in parte respinta ed in parte dichiarata inammissibile. Tale esito della domanda demolitoria comporta il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.04.2017 n. 2230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La conferenza di servizi è pacificamente ritenuta solo un modulo organizzativo volto all'acquisizione della volontà di tutte le amministrazioni preposte alla cura dei diversi interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici coinvolti, non anche un nuovo organo separato dalle singole amministrazioni partecipanti.
Ne consegue, sul piano processuale, che il ricorso avverso gli atti di una conferenza di servizi deve essere notificato a tutte le amministrazioni che, nell'ambito della medesima conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare autonomamente se fossero stati adottati al di fuori della conferenza.

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5. Preliminarmente va esaminata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva avanzata dalla difesa della Regione Toscana che lamenta di essere stata erroneamente evocata in giudizio esclusivamente in ragione della sua partecipazione alla conferenza di servizi.
L’eccezione è infondata.
La conferenza di servizi è pacificamente ritenuta solo un modulo organizzativo volto all'acquisizione della volontà di tutte le amministrazioni preposte alla cura dei diversi interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici coinvolti, non anche un nuovo organo separato dalle singole amministrazioni partecipanti; ne consegue, sul piano processuale, che il ricorso avverso gli atti di una conferenza di servizi deve essere notificato a tutte le amministrazioni che, nell'ambito della medesima conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare autonomamente se fossero stati adottati al di fuori della conferenza (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 516; id., sez. VI, 03.03.2010, n. 1248).
Come risulta dal verbale della conferenza di servizi del 03.07.2013 la Regione non ha inteso discostare il proprio parere da quello della Soprintendenza, espressasi in senso negativo sul progetto di piano, conseguendone che, attesa la natura vincolante della determinazione assunta in tale sede, correttamente il ricorrente ha provveduto a notificare il ricorso anche alla Regione (TAR Toscana, Sez. I; sentenza 09.03.2017 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Sicché, la semplice iscrizione catastale nella categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio abbbia uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza, valenza meramente sussidiaria.
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5.) Nondimeno il ricorso proposto in primo grado è infondato e deve essere rigettato, all’esito dell’esame delle riproposte censure.
L’art. 17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Nel caso di specie la semplice iscrizione catastale nella categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza, valenza meramente sussidiaria (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 05.06.2015, n. 27595 e 05.01.2015, n. 5, nonché Sez. IV, 18.04.2014, n. 1994 e 21.10.2013, n. 5109; nel senso che non siano decisive nemmeno quanto alla effettiva consistenza dell’immobile vedi Sez. IV, 06.08.2014, n. 4208).
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio di via ... n. 6 come avente “destinazione rurale”, l’appellante doveva suffragare con altri elementi probatori l’asserita destinazione residenziale, non potendo assumere alcun rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente ai relativi lavori (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.02.2017 n. 425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se in linea di fatto è incontestato come gli immobili siano distanti solo pochi metri, oltre ad essere collocati nel medesimo contesto urbanistico territoriale e ai lati della medesima strada, in linea di diritto costituisce jus receptum, ribadito dalla sezione e dalla prevalente giurisprudenza, che i proprietari di immobili posti in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un titolo di costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, né è necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia.
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1. La presente controversia ha ad oggetto la contestazione dell’intervento edilizio di sopraelevazione di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione paesaggistica e gli effetti della d.i.a. di cui in epigrafe.
2. Preliminarmente, parte resistente ha eccepito l’assenza di interesse al ricorso in capo alla ricorrente.
In relazione al concetto di vicinitas ed alla sussistenza o meno in ordine ad un pregiudizio per i ricorrenti, l’eccezione appare all’evidenza infondata: se in linea di fatto è incontestato come gli immobili siano distanti solo pochi metri, oltre ad essere collocati nel medesimo contesto urbanistico territoriale e ai lati della medesima strada, in linea di diritto costituisce jus receptum, ribadito dalla sezione e dalla prevalente giurisprudenza, che i proprietari di immobili posti in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un titolo di costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, né è necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 3055/2013 e 2488/2013, Tar Liguria n. 34/2013).
Nel caso di specie la vicinanza e l’identità del contesto territoriale ed urbanistico è indiscutibile, come emerge dalla documentazione cartografica, fotografica ed anche progettuale versata in atti, da cui emerge che, fra l’altro (e ciò vale comunque come danno concreto), la sopraelevazione limita la pregevole vista dell’immobile di parte ricorrente (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.11.2013 n. 1406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quale che sia la qualificazione regionale come ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la sopralevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini delle distanze.
Inoltre, relativamente ad analoghi (in termini di concreta rilevanza ed impatto) interventi la prevalente giurisprudenza anche della sezione ha statuito il principio seguente: il recupero del sottotetto designa genericamente l'utilizzazione di spazi tecnici che può essere concretamente realizzato con diverse e peculiari modalità progettuali ed esecutive ciascuna delle quali integra un determinato tipo di intervento edilizio: si va dal risanamento conservativo fino alla nuova costruzione; qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968.

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In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio.
Ancora di recente la Consulta ha avuto modo di intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale, laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto delle distanze minime, vìola la competenza legislativa statale in materia "ordinamento civile".
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1. La presente controversia ha ad oggetto la contestazione dell’intervento edilizio di sopraelevazione di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione paesaggistica e gli effetti della d.i.a. di cui in epigrafe.
...
6.3 A diverse conclusioni deve giungersi rispetto alla residua censura (denominata in ricorso 2.4) concernente la violazione delle distanze.
Nella specie appaiono pacifici i dati di fatto: l’intervento comporta un nuovo volume (con parete finestrata) in altezza del preesistente edificio, rispetto al quale il limite dei dieci metri non viene rispettato in confronto al muro di contenimento frontistante del fabbricato di via privata ... n. 6 e per una porzione nei confronti dell’edificio della stessa via privata nn. 3a e 3b posto in posizione latistante.
In diritto, quale che sia la qualificazione regionale come ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la sopralevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini delle distanze. Come già sopra evidenziato, la formale qualificazione regionale di ristrutturazione è irrilevante ai fini in esame. Inoltre, relativamente ad analoghi (in termini di concreta rilevanza ed impatto) interventi la prevalente giurisprudenza anche della sezione ha statuito il principio seguente: il recupero del sottotetto designa genericamente l'utilizzazione di spazi tecnici che può essere concretamente realizzato con diverse e peculiari modalità progettuali ed esecutive ciascuna delle quali integra un determinato tipo di intervento edilizio: si va dal risanamento conservativo fino alla nuova costruzione; qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
Incidentalmente va evidenziato come nella specie non possa assumere rilievo la nuova definizione normativa di ristrutturazione di cui all’art. 30 d.l. 69/2013: sia ratione temporis, in quanto all’epoca del rilascio degli assensi in contestazione vigeva altra normativa; sia in quanto nella specie non viene in rilievo una mera modifica della sagoma, trattandosi di nuovo volume, sia –soprattutto- per la rilevanza ex se ed autonoma del medesimo nuovo volume rispetto ai principi in tema di distanze. Analoghe considerazioni vanno svolte per la parte innovativa di cui al predetto art. 30 in tema di distanze: non applicato né applicabile alla fattispecie ratione temporis, sia per l’assenza della necessaria legislazione regionale espressamente derogatoria sul punto, cui rinvia la sopravvenuta norma statale.
A quest’ultimo proposito, si pone peraltro l’obbligo di esaminare il dato normativo speciale (valido come detto ai meri fini del piano casa fino al 31.12.2013, quindi non rilevante ai fini generali dettati dal nuovo contesto di cui all’art. 30 cit.) di cui all’art. 3, comma 2, l.r. 49 cit., applicato nella specie.
Preliminarmente, rispetto all’esame della norma, vanno comunque evidenziati due elementi: per un verso la natura eccezionale ne impone un’interpretazione restrittiva, ovvero non estensiva rispetto a quanto espressamente consentito; per un altro verso, il farraginoso dato letterale ne rende non agevole l’attuazione, cosicché anche per tale via mantiene rilevanza primaria il parametro contenuto nei principi generali di cui all’art. 9 d.m. 1444 invocato da parte ricorrente, il cui valore è stato costantemente ribadito in giurisprudenza (cfr. ad es. Corte Cost. n. 114/2012, Consiglio Stato, sez. IV, n. 6909/2005 e 7731/2010 ovvero Tar Palermo n. 2049/2012).
In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n 476/2013 e giurisprudenza ivi richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio. Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite ai connessi fini in esame.
Ancora di recente (sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo di intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale, laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto delle distanze minime, viola la competenza legislativa statale in materia "ordinamento civile" (sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.11.2013 n. 1406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull’osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.
Sotto il primo profilo, in tema di legittimazione, va ribadito che il criterio della vicinitas e il danno risentito per la realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute.
In tale ottica, con particolare riferimento alla materia in questione, va altresì precisato che in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo profilo, si richiamano i precedenti secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela; quindi nella specie si conferma la rilevanza dell’edifico posto in posizione latistante.
In proposito, inoltre, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza.
Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo.
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento quale quello in questione.
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.
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1. La presente controversia ha ad oggetto la contestazione dell’intervento edilizio di sopraelevazione di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione paesaggistica e gli effetti della d.i.a. di cui in epigrafe.
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Passando all’analisi del dato normativo regionale in questione, in tema di distanze l’art. 3, comma 2, consente gli ampliamenti “fermo restando il rispetto delle distanze da pareti finestrate degli edifici ove si tratti di ampliamenti in senso orizzontale laddove gli ampliamenti in senso verticale comportino la realizzazione di un nuovo piano”.
Pur nelle difficoltà ermeneutiche date dal tenore letterale della norma, l’unica opzione interpretativa conforme ai principi anche costituzionali predetti impone di reputare la norma come limitativa, nel senso che la stessa impone e conferma il rispetto delle distanze da pareti finestrate sia laddove gli ampliamenti siano in orizzontale (e ciò è logico) sia laddove siano in verticale e comportanti (come nella specie) la realizzazione di un nuovo piano abitabile (e ciò è parimenti logico e coerente con quanto già statuito dalla sezione circa gli effetti delle sopraelevazioni).
Peraltro, parte resistente contesta l’applicazione delle invocate distanze sia in termini di difetto di legittimazione dei ricorrenti, che non sarebbero i proprietari dei beni immobili posti a minire distanza, sia di rilevanza dei beni immobili stessi.
Entrambe le contestazioni sono smentite dai principi già espressi dalla sezione e dalla migliore giurisprudenza condivisa dal Collegio (l’unica conforme alla qualificazione delle norme sulle distanze nei predetti termini di principio), con conseguente conferma della fondatezza della censura in esame.
Sotto il primo profilo, in tema di legittimazione, va ribadito che il criterio della vicinitas e il danno risentito per la realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute (cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012 e Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
In tale ottica, con particolare riferimento alla materia in questione, va altresì precisato (cfr. ad es. Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria 476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e 5759/2011) che in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo profilo, si richiamano i precedenti secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. ad es. Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909); quindi nella specie si conferma la rilevanza dell’edifico posto in posizione latistante.
In proposito, inoltre, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento quale quello in questione (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010).
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.
Infine, del tutto irrilevante è l’argomento speso da parte resistente in ordine alla deroga alle distanze che sarebbe consentita dallo stesso art. 9, in specie attraverso un piano attuativo.
Nella specie infatti non esiste un tale piano, né può estendersi tale eccezionale facoltà alla legge regionale: sia in quanto la legge regionale, nella specie applicata, se correttamente intesa questo non prevede; sia in quanto la legge ha valenza generale ed astratta, mentre è ben diversa la finalità sottesa ad un piano attuativo che, nei termini di cui all’art. 9 invocato, si giustifica proprio per una specifica ratio.
A quest’ultimo riguardo, è noto il fondamento della deroga la quale, al fine di agevolare l’evoluzione anche di tecnologia costruttiva nell’utilizzo del territorio, presuppone che un piano attuativo di tale natura e consistenza abbia autonomamente ed innovativamente considerato e tutelato, fino a prova contraria, le finalità perseguite in tema di distanze (cfr. ad es. Tar Liguria sent 719/2013).
Orbene, è evidente che analoga speciale finalità non può automaticamente estendersi ad una dato legislativo, generale ed astratto (oltre che non esistente, nei termini auspicati, nel caso de quo); né nel caso de quo vi è un piano attuativo di tali termini.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso: va respinto, per ciò che concerne l’autorizzazione paesaggistica; va invece accolto per quanto concerne gli atti relativi alla d.i.a., con conseguente annullamento degli atti ed accertamento dell’insussistenza dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio in questione nei termini sopra indicati in tema di distanze (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.11.2013 n. 1406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.09.2017

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Inosservanza dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente.
Non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (articolo 650 c.p.) l’inottemperanza dell’ordinanza contingibile e urgente del sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse.
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1. Con sentenza del 13/03/2015 il Tribunale di Palermo condannava Sp.An. alla pena di euro mille in ordine al reato di cui all'art. 650 cod. pen. (fatto commesso in Palermo il 10/12/2010).
La condotta incriminata era costituita dall'inottemperanza ad ordinanza sindacale di divieto nei luoghi pubblici del territorio comunale di predisporre bivacchi o accampamenti di fortuna consistenti in situazioni di grave alterazione del decoro urbano o intralcio alla pubblica viabilità.
Nella fattispecie, era contestato allo Sp. di bivaccare su di un marciapiede unitamente a dei cani in una baracca precaria costituita da cartoni e pedane in legno, situazione che creava ostacolo al passaggio, turbando l'utilizzazione dello spazio pedonale, con conseguente pregiudizio per la sicurezza pubblica.
3. Il ricorso è fondato.
4. Il comportamento posto in essere dallo Sp. non integra il reato in esame, perché l'ordinanza sindacale è dettata in via preventiva ed è indirizzata ad una generalità di soggetti.
Ebbene, non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell'autorità (art. 650 cod. pen.) l'inottemperanza dell'ordinanza contingibile e urgente del sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l'indicazione di mere finalità di pubblico interesse (Sez. F, n. 44238 del 01/08/2013, Zakrani, Rv. 257890, relativa a fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza, che aveva ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 650 cod. pen. per violazione dell'ordinanza del sindaco di divieto di somministrazione e consumo per strada di bevande in vetro e lattina nelle ore notturne; Sez. 1, n. 15936 del 19/03/2013, Sroiva, Rv. 255636) (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 28.07.2017 n. 37787).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti non possono coltivare alcun interesse nell'impugnare gli atti di assenso relativi all’apertura del nuovo accesso carraio servente la proprietà limitrofa.
Essi non hanno indicato, nei propri atti difensivi, quale specifico loro interesse e/o posizione giuridica viene pregiudicata dall’apertura dell’accesso carraio nell’ambito della proprietà del loro vicino confinante.
E’ del resto evidente, in proposito, che nessuna posizione legittimante, per questa parte del gravame, può discendere dalla loro posizione di vicinitas (quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati) rispetto al fondo confinante: se tale posizione può, invero, radicare l’interesse all’impugnazione nei confronti degli atti di assenso di un’opera edilizia realizzata nel fondo confinante, senza necessità di offrire neanche un principio di prova in ordine al pregiudizio paventato (ciò, in linea con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario dare dimostrazione di uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”), analogamente non può dirsi allorché si contesti non la realizzazione di un’opera edilizia ma, più largamente, l’ampliamento della sfera giuridica soggettiva del confinante quale derivante da altri e diversi atti di assenso dell’amministrazione.
Se infatti può ben dirsi che la realizzazione di interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio possa risultare pregiudizievole per il vicino anche “in re ipsa” (in quanto consegue necessariamente dalla maggiore tropizzazione, dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e/o dalla possibile diminuzione di valore dell’immobile), altrettanto non può con certezza dirsi –in assenza di un’apposita dimostrazione dell’effettivo pregiudizio che ne deriva– quando si tratta di provvedimenti amministrativi che, di per sé, non determinano un diverso assetto edilizio della zona, come nell’ipotesi (che viene qui in considerazione) dell’autorizzazione all’apertura di un nuovo accesso carraio presso il fondo del vicino.
In tali circostanze, quindi, la semplice prossimità non può, di per sé, essere considerata elemento sufficiente a fondare l'interesse al ricorso, ma ad essa dovrà aggiungersi un elemento ulteriore, costituito dal fatto che dal provvedimento ampliativo in favore del vicino possa derivare un peggioramento della situazione patrimoniale o personale del ricorrente; ciò, anche per evitare che lo strumento del ricorso giurisdizionale possa impropriamente assumere risvolti unicamente emulativi.
Occorrerà, pertanto, l'allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti impugnati dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente. Ma nel caso di specie, come detto, i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio che loro deriverebbe dall’apertura del passo carrabile presso la proprietà del loro vicino, così lasciando nell’ombra, in parte qua, il pregiudiziale aspetto della loro legittimazione ad agire.

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4. Il ricorso introduttivo, nonché i motivi aggiunti, devono invece essere dichiarati inammissibili nella parte in cui hanno impugnato gli atti di assenso relativi all’apertura del nuovo accesso carraio servente la proprietà Ga..
Come segnalato dal Collegio nel corso della pubblica udienza di discussione del 29.09.2015, infatti, i ricorrenti non possono coltivare alcun interesse per simile contestazione. Essi non hanno indicato, nei propri atti difensivi, quale specifico loro interesse e/o posizione giuridica viene pregiudicata dall’apertura dell’accesso carraio nell’ambito della proprietà del loro vicino confinante.
E’ del resto evidente, in proposito, che nessuna posizione legittimante, per questa parte del gravame, può discendere dalla loro posizione di vicinitas (quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati) rispetto al fondo confinante: se tale posizione può, invero, radicare l’interesse all’impugnazione nei confronti degli atti di assenso di un’opera edilizia realizzata nel fondo confinante, senza necessità di offrire neanche un principio di prova in ordine al pregiudizio paventato (ciò, in linea con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario dare dimostrazione di uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”: così, tra le tante, di recente, TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I, sent. n. 699 del 2015; Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 4764 del 2014), analogamente non può dirsi allorché si contesti non la realizzazione di un’opera edilizia ma, più largamente, l’ampliamento della sfera giuridica soggettiva del confinante quale derivante da altri e diversi atti di assenso dell’amministrazione.
Se infatti può ben dirsi che la realizzazione di interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio possa risultare pregiudizievole per il vicino anche “in re ipsa” (in quanto consegue necessariamente dalla maggiore tropizzazione, dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e/o dalla possibile diminuzione di valore dell’immobile), altrettanto non può con certezza dirsi –in assenza di un’apposita dimostrazione dell’effettivo pregiudizio che ne deriva– quando si tratta di provvedimenti amministrativi che, di per sé, non determinano un diverso assetto edilizio della zona, come nell’ipotesi (che viene qui in considerazione) dell’autorizzazione all’apertura di un nuovo accesso carraio presso il fondo del vicino.
In tali circostanze, quindi, la semplice prossimità non può, di per sé, essere considerata elemento sufficiente a fondare l'interesse al ricorso, ma ad essa dovrà aggiungersi un elemento ulteriore, costituito dal fatto che dal provvedimento ampliativo in favore del vicino possa derivare un peggioramento della situazione patrimoniale o personale del ricorrente; ciò, anche per evitare che lo strumento del ricorso giurisdizionale possa impropriamente assumere risvolti unicamente emulativi.
Occorrerà, pertanto, l'allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti impugnati dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente. Ma nel caso di specie, come detto, i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio che loro deriverebbe dall’apertura del passo carrabile presso la proprietà del loro vicino, così lasciando nell’ombra, in parte qua, il pregiudiziale aspetto della loro legittimazione ad agire
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.11.2015 n. 1557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVICome da consolidata giurisprudenza, l'accesso deve essere motivato (ex art. 25 l. n. 241 del 1990) con una richiesta rivolta all'ente che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente, indicando i presupposti di fatto e l'interesse specifico, concreto ed attuale che lega il documento alla situazione giuridicamente rilevante.
Il diritto all’accesso documentale di cui trattasi, infatti, pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale, non si configura come un'azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione differenziata giuridicamente.
Ne consegue che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove questi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante.
L’onere, per il richiedente, di fornire adeguata motivazione dell’istanza –dalla quale devono emergere senza ambiguità ed incertezze i presupposti di cui si è detto– si giustifica quindi con la necessità di consentire all’amministrazione di verificare l’effettiva sussistenza delle condizioni legge per l’ostensione: non può quindi pretendere, il richiedente, che sia l’amministrazione richiesta a doversi fare parte diligente per individuare, con apposita istruttoria, le eventuali ragioni fondanti l’istanza medesima.
Alla luce di tali premesse, correttamente il primo giudice ha rilevato che “l’istanza di accesso della ricorrente in data 11.11.2015, non è stata motivata e che, quindi, il ricorso deve essere respinto in quanto non è stato esplicitato il fondamentale requisito dell’interesse che, ai sensi della richiamata norma di legge, non può trarsi implicitamente dalla richiesta, ma deve essere espressamente indicato dal richiedente”.
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... per la riforma della sentenza 06.04.2016 n. 4163 del TAR LAZIO–ROMA, SEZ. II, resa tra le parti, concernente diniego di accesso agli atti, in relazione ad alloggi di edilizia residenziale pubblica
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Ad un complessivo esame degli atti di causa, l’appello non appare fondato.
Invero, come da consolidata giurisprudenza, l'accesso deve essere motivato (ex art. 25 l. n. 241 del 1990) con una richiesta rivolta all'ente che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente, indicando i presupposti di fatto e l'interesse specifico, concreto ed attuale che lega il documento alla situazione giuridicamente rilevante (ex multis, Cons. Stato, V, 04.08.2010, n. 5226; V, 25.05.2010, n. 3309; IV, 03.08.2010, n. 5173).
Il diritto all’accesso documentale di cui trattasi (cfr. Cons. Stato, IV, 15.09.2010, n. 6899), infatti, pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale, non si configura come un'azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione differenziata giuridicamente.
Ne consegue che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove questi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante.
L’onere, per il richiedente, di fornire adeguata motivazione dell’istanza –dalla quale devono emergere senza ambiguità ed incertezze i presupposti di cui si è detto– si giustifica quindi con la necessità di consentire all’amministrazione di verificare l’effettiva sussistenza delle condizioni legge per l’ostensione: non può quindi pretendere, il richiedente, che sia l’amministrazione richiesta a doversi fare parte diligente per individuare, con apposita istruttoria, le eventuali ragioni fondanti l’istanza medesima.
Alla luce di tali premesse, correttamente il primo giudice ha rilevato che “l’istanza di accesso della ricorrente in data 11.11.2015, non è stata motivata e che, quindi, il ricorso deve essere respinto in quanto non è stato esplicitato il fondamentale requisito dell’interesse che, ai sensi della richiamata norma di legge, non può trarsi implicitamente dalla richiesta, ma deve essere espressamente indicato dal richiedente”.
In effetti, dalla lettura del suddetto documento non emerge in alcun modo (neppure implicitamente) l’interesse sotteso all’ostensione degli atti richiesti, men che mai la specifica ratio di carattere tributario di cui si è detto, che la società appellante risulta aver esplicitato solo nell’introduttivo ricorso.
Né l’istanza suddetta (in realtà una delega al ritiro degli atti, dal tenore estremamente succinto) fa alcun esplicito riferimento alla “fitta corrispondenza intercorsa tra le parti” di cui l’appellante fa generico richiamo nei proprio atto di gravame, corrispondenza dalla quale l’amministrazione capitolina avrebbe dovuto implicitamente dedurre quale fosse lo specifico interesse perseguito dal richiedente ed i suoi rapporti con i documenti richiesti.
Il predetto documento, infatti, contiene semplicemente la delega ad un terzo “ad effettuare un accesso agli atti rivolto a richiedere e ritirare, presso gli uffici comunali competenti, in forza del contratto di locazione che lega la scrivente al Comune di Roma, copia dei contratti a campione di sublocazione che il Comune di Roma ha stipulato con gli occupanti dei suddetti immobili”.
Ora, anche a prescindere che quanto sopra possa effettivamente integrare gli estremi di un’istanza al Comune di Roma ai fini dell’accesso di cui trattasi, è di palmare evidenza che nulla dice circa le ragioni che giustificherebbero tale specifica richiesta.
La questione, in quanto relativa agli stessi presupposti legali di presentazione dell’istanza, è assorbente di ogni altra questione di merito dedotta dall’appellante.
L’appello va quindi respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2017 n. 4346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC On Line (DOL) - FAQ ANCE (ANCE di Bergamo, circolare 15.09.2017 n. 166).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Circolare applicativa del d.P.R. n. 31 del 2017, "Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio, circolare 21.07.2017 n. 42).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Approvazione schema d’intesa tra Regione Lombardia e i comuni in attuazione dell’articolo 1, comma 4 del decreto legislativo del 25.11.2016, n. 222 e dell’art. 145, comma 1 della l.r. 02.02.2010 n. 6" (deliberazione G.R. 18.09.2017 n. 7088).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Approvazione dello schema di convenzione tra Regione Lombardia e gli operatori della rete distributiva carburanti per l’erogazione del prodotto metano per autotrazione e per dotarsi di infrastrutture di ricarica elettrica in attuazione dell’art. 18 del d.lgs. 257/2016 e dell’art. 89-bis della l.r. 6/2010" (deliberazione G.R. 18.09.2017 n. 7087).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi a favore dei comuni, in forma singola o associata, e delle unioni di comuni, dotati di corpo o servizio di polizia locale, per l’incremento delle dotazioni di piccola entità (d.g.r. 7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e modulistica" (decreto D.U.O. 15.09.2017 n. 11167).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi a favore degli enti locali per l’incremento delle dotazioni di piccola entità per la protezione civile (d.g.r. 7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e modulistica" (decreto D.U.O. 15.09.2017 n. 11138).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 18.09.2017, "Disposizioni integrative, in materia di parametri e valori limite da considerare per i fanghi idonei all’utilizzo in agricoltura, alla d.g.r. 2031/2014 recante disposizioni regionali per il trattamento e l’utilizzo, a beneficio dell’agricoltura, dei fanghi di depurazione delle acque reflue di impianti civili ed industriali in attuazione dell’art. 8, comma 8, della legge regionale 12.07.2007, n. 12" (deliberazione G.R. 11.09.2017 n. 7076).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 15.09.2017, "Approvazione, ai sensi degli articoli 84 e 85 della l.r. 12/2005, della modulistica utile alla predisposizione degli atti e delle determinazioni che gli enti locali lombardi debbono assumere nei procedimenti paesaggistici di loro competenza" (decreto D.G. 12.09.2017 n. 10892).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 14.09.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.08.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.09.2017 n. 139).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 14.09.2017, "Pubblicazione dell’ elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte b, punto 2. Aggiornamento al 31.08.2017" (comunicato regionale 05.09.2017 n. 138).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'11.09.2017, "Sesto aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 04.09.2017 n. 10538).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali: Il sistema degli incarichi è incostituzionale? 20 anni per capirlo (17.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Rotazione appalti: linee guida in cerca di bussola (14.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana: fondamento, applicazioni e profili critici dopo il decreto legge n. 14 del 2017 (13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. Il potere di ordinanza del Sindaco. 3. Sicurezza pubblica e sicurezza urbana. 4. Sicurezza pubblica e polizia amministrativa locale. 5. Le ordinanze del Sindaco quale capo dell'amministrazione locale. 6. Le ordinanze del Sindaco quale ufficiale di governo.7. Le ordinanze a tutela della quiete. 8. Il regime sanzionatorio. 9. L'esecutorietà delle ordinanze sindacali. 10. Qualche riflessione conclusiva.

ATTI AMMINISTRATI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Scalia, Il sistema dei controlli interni in sanità e nel sistema degli Enti Locali. Interferenza e integrazione del “Piano triennale/annuale della performance” con il “Piano triennale/annuale per la lotta alle illegalità e per la trasparenza (13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il richiamo dell’ANAC, nel 2016, alla specificità del sistema sanitario regionale e del sistema degli Enti Locali; 1.1. I beneficiari dello “stato confusionale” in cui versa il sistema dei controlli interni; 2. La funzionalità del sistema dei controlli interni: come darne una corretta valutazione? Dal sistema organizzativo regionale al sistema organizzativo degli Enti Locali; 3. Alla riscoperta dei concetti fondamentali: la responsabilità di dirigere uomini (e donne) e di chiedere ad essi di esprimersi al meglio delle loro capacità professionali; 4. Il d.lgs. n. 74/2017 è un intervento normativo di restyling del d.lgs. n. 150/2009 (legge Brunetta)?; 4.1 La necessaria responsabilizzazione dei vertici politici. Il mito della separazione tra decisore politico e burocrazie quali gestori delle risorse umane, strumentali e finanziarie; 4.2 L’obbligo finale di relazionare sulla esecuzione del Piano triennale/annuale della performance; 5. I tempi di adeguamento dell’ordinamento delle Regioni e degli Enti Locali ai principi del d.lgs. n. 74/2017.

PUBBLICO IMPIEGO: C. Pepe, Lo “strano caso” dell’art. 53, c. 16-ter, del D.Lgs. 165/2001: criticità tra anticorruzione ed efficienza delle gare (13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1) Premessa e contesto normativo: tra prevenzione della corruzione e affidamento dei contratti. 2) Alcune criticità interpretative nell’applicazione della norma: quali sanzioni e quali rapporti? 2.1.) (segue) Il divieto a contrattare in caso di violazioni. Con tutte le pubbliche amministrazioni o solo quella di provenienza dell’ex dipendente? 2.2.) (segue) I “dipendenti” e i soggetti equiparati. 2.3) (segue) le attività rilevanti. 3) Le modalità di comprova nelle gare d’appalto. 4) La norma e la disciplina ‘nel tempo’. Una svista del legislatore? 5) Le applicazioni giurisprudenziali. 6) Conclusioni.

APPALTI: R. Spagnuolo Vigorita, Contratti pubblici e fenomeni anticoncorrenziali: il nuovo codice e le linee guida ANAC. Quale tutela? (13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1). Introduzione – 2) La vicenda giudiziaria – 3) Il nuovo perimetro della discrezionalità della stazione appaltante nella valutazione della condotta dell’operatore economico ai fini dell’esclusione – 4) Il ruolo delle linee guida ANAC – 5) Illeciti antitrust e mercato delle commesse pubbliche – 6) Segue: Gli illeciti antitrust nel codice e nella prospettiva indicata dalle linee guida ANAC – 7) Forma e sostanza: la struttura del codice e delle norme attuative nel rapporto tra diritto ed economia. Il ruolo del giudice (cenni).

SEGRETARI COMUNALI: Rimesso alla Corte Costituzionale lo spoil system dei segretari comunali (12.09.2017 - link a www.segretaricomunalivighenzi.it).

APPALTI: Opere aggiuntive alterano l’offerta economicamente più vantaggiosa (11.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Morgantini, Il soggetto destinatario dell’ordine di ripristino ambientale (11.09.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Guzzo e E. Del Greco, LA TUTELA DEL PAESAGGIO NELL’ATTUALE CODIFICAZIONE LEGISLATIVA: DIRITTO FONDAMENTALE O DIRITTO CEDEVOLE? (10.09.2017 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: Premessa. 1. Edilizia e paesaggio: le rispettive discipline. 2. La legge n. 1497/1939 e la tutela delle bellezze naturali. 3. La legge n. 431/1985 e la previsione dei vincoli paesaggistici. 4. Il d.lgs. n. 490/1999: il testo unico delle disposizioni legislative in materia culturale e ambientale. 5. L’autorizzazione ambientale. 6. Il d.lgs. n. 42/2004 e s.m. e integrazioni. 7. I piani paesistici. 8. Il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. 8.1. I termini fissati dall’articolo 146 per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica come novellato dalla legge n. 164/2014 (art. 6, co. 4, e 25, co. 3). 8.2. I rimedi di giustizia azionabili nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica. 8.3. Il d.P.R. n. 139/2010 e il d.P.R. n. 31/2017. 9. L’articolo 167, commi 4, 5 e 6 del d.lgs. n. 42/2004: l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. 10. L’autorizzazione per le infrastrutture di comunicazione elettronica dopo la legge n. 36/2001 (art. 8) e il d.lgs. n. 259/2003 (art. 87) e s.m. ed int. 11. Considerazioni finali.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dotazioni organiche: la riforma Madia le cristallizza a quelle di fatto (10.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il mistero dei termini di durata dei procedimenti disciplinari (07.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Rotazione appalti: limite alla discrezionalità negli inviti (02.09.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Come gli incarichi dirigenziali sono influenzati dalla politica (01.08.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto, il curriculum deve essere eccellente (21.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Chiarimenti in ordine all’applicabilità delle disposizioni normative in materia di incentivi per le funzioni tecniche.
Sono pervenute a questa Autorità alcune richieste di chiarimenti in ordine all’applicabilità temporale della disciplina dell’incentivo per le attività professionali svolte da personale interno ex art. 113 del d.lgs. 50/2016. Attesa la rilevanza di carattere generale delle questioni poste, il Consiglio dell’Autorità ha ritenuto di predisporre il presente comunicato.
In linea generale, nel settore degli appalti pubblici vige il principio, riprodotto anche all’art. 216, comma 1, del d.lgs. 50/2016, secondo il quale l’applicabilità di una disposizione normativa è valutata sulla base dell’entrata in vigore della stessa al momento della pubblicazione del bando di gara o dell’invio della lettera di invito.
Tuttavia, con specifico riferimento alle attività oggetto di incentivazione, non può non rilevarsi come alcune di esse, quali la programmazione della spesa, la valutazione preventiva dei progetti, la predisposizione della procedura di gara, espressamente enunciate dall’art. 113 del d.lgs. 50/2016, intervengano in una fase precedente all’avvio della procedura di selezione dell’aggiudicatario.
Sulla base di tale presupposto e tenuto conto delle numerose pronunce della Corte dei Conti in merito all’efficacia temporale delle disposizioni normative inerenti la disciplina degli incentivi per funzioni tecniche succedutesi nel tempo, deve ritenersi che
per gli incentivi inerenti le funzioni tecniche ciò che rileva ai fini dell’individuazione della disciplina normativa applicabile è il compimento delle attività oggetto di incentivazione. Ne consegue che le disposizioni di cui all’art. 113 del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività incentivate svolte successivamente all’entrata in vigore del Codice.
Per quanto concerne la corresponsione dell’incentivo, la formulazione della norma (art. 113, co. 3, d.lgs. 50/2016) che richiede l’accertamento delle attività svolte dal dipendente a cura del dirigente o del responsabile del servizio,
non consente di ritenere ammissibili forme di “anticipazione” dell’incentivo; analogamente forme di corresponsione diluite nel tempo (es. cadenza annuale) possono ritenersi ammissibili solo per le attività configurabili quali prestazioni di durata, ossia quelle prestazioni che per loro natura si esplicano in un determinato arco di tempo, sempre però in relazione all’attività effettivamente svolta. Corresponsione che potrà intervenire solo a seguito dell’approvazione del regolamento di recepimento delle modalità e dei criteri di ripartizione del fondo definiti in sede di contrattazione decentrata integrativa (comunicato del Presidente 06.09.2017 - link a www.anticorruzione.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Partecipazione comunale a società di gestione albergo diffuso.
Competenti ad esprimersi sull'interpretazione e applicazione delle norme contenute nel D.Lgs. n. 175/2016 -(in particolare, il caso di specie attiene alla partecipazione del Comune alla locale società di gestione dell'albergo diffuso)  sono gli Organi statali, stante la competenza dello Stato nelle materie su cui interviene il D.Lgs. n. 175/2016, quali la tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché la razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.
Ed invero, l'art. 15 del D.Lgs. n. 175/2016 ha previsto l'individuazione, nell'ambito del Ministero dell'economia e delle finanze, di una struttura competente per l'indirizzo, il controllo ed il monitoraggio sull'attuazione del decreto, deputata espressamente a fornire orientamenti ed indicazioni in merito all'applicazione della normativa in questione (Divisione VIII del Dipartimento del Tesoro).

Il Comune, considerato l'obbligo di effettuare la ricognizione straordinaria delle partecipazioni societarie entro il 30.09.2017, ai sensi del D.Lgs. n. 175/2016, chiede se la propria partecipazione alla locale società di gestione dell'albergo diffuso possa essere mantenuta o vada liquidata. Al riguardo, il Comune precisa che detta società di gestione possiede i requisiti di cui all'art. 4, c. 1 e 3, del D.Lgs. n. 175/2016, ma non possiede alcuni dei requisiti di cui all'art. 20, comma 2, del decreto medesimo.
In relazione alla forma societaria dell'organismo di gestione dell'albergo diffuso, viene in considerazione l'applicazione del D.Lgs. n. 175/2016 e dunque delle norme ivi contenute in tema di razionalizzazione delle partecipazioni societarie pubbliche.
In particolare, il D.Lgs. n. 175/2016:
   - pone il divieto di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, nonché quello di acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società (art. 4, D.Lgs. n. 175/2016);
   - prevede che le pp.aa. effettuino annualmente una revisione dell'assetto complessivo delle società partecipate e adottino piani di razionalizzazione delle partecipazioni detenute, ove rilevino nelle società interessate una o più delle condizioni che impongono la dismissione delle partecipazioni societarie pubbliche (art. 20, c. 1 e 2, D.Lgs. n. 150/2016
[1]);
   - prevede che le pp.aa. predispongano entro il 30.09.2017 un piano di revisione straordinaria delle partecipazioni detenute alla data di e.v. del D.Lgs. n. 175/2016, individuando quelle che devono essere alienate (24, c. 1, D.Lgs. n. 175/2016, fatto salvo dal precedente art. 20 richiamato), in quanto non rispettano le condizioni ivi previste, tra cui quelle di cui all'art. 20, comma 2, D.Lgs. n. 175/2016.
Un tanto premesso in generale, la questione posta dal Comune investe le sorti della partecipazione detenuta sulla società di gestione dell'albergo diffuso, se la stessa possa essere mantenuta o debba essere liquidata per il fatto che la società in questione presenta alcune delle condizioni di cui all'art. 20, c. 2, D.Lgs. n. 175/2016, che impongono la dismissione delle partecipazioni pubbliche.
Il D.Lgs. n. 175/2016 interviene su materie di competenza statale, quali la tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché la razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica (art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 150/2016).
Ed invero, l'art. 15 del D.Lgs. n. 150/2016 ha previsto l'individuazione, nell'ambito del Ministero dell'economia e delle finanze, di una struttura competente per l'indirizzo, il controllo ed il monitoraggio sull'attuazione del decreto, deputata espressamente a fornire orientamenti ed indicazioni in merito all'applicazione della normativa in questione
[2].
A tale struttura e alla Sezione regionale della Corte dei conti va, inoltre, trasmesso, ai sensi dell'art. 24, c. 3, D.Lgs. n. 175/2016, il provvedimento di ricognizione straordinaria delle partecipazioni da approvare entro il 30.09.2017. Tale invio è funzionale alla verifica del 'puntuale adempimento degli obblighi' di cui al citato art. 24.
Alla luce di un tanto e nelle more di un eventuale intervento normativo dello Stato in tema di ambito di applicazione delle misure di razionalizzazione contenute nel D.Lgs. n. 175/2016, si ritiene doveroso rinviare la questione posta dal Comune alle indicazioni che potranno essere espresse dai competenti uffici statali, qualora interpellati da codesto Ente.
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[1] Ai sensi del comma 2 dell'art. 20 in commento, si impongono i piani di razionalizzazione delle partecipazioni societarie, in caso di: a) partecipazioni societarie che non rientrano in alcuna delle categorie di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 175/2016; b) società che risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti; c) partecipazioni in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali; d) partecipazioni in società che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro (500.000 euro, per il triennio precedente l'entrata in vigore del d.lgs. 175/2016, ai sensi dell'art. 26, c. 12-quinquies, del decreto stesso); e) partecipazioni in società diverse da quelle costituite per la gestione di un servizio d'interesse generale che abbiano prodotto un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti; f) necessità di contenimento dei costi di funzionamento; g) necessità di aggregazione di società aventi ad oggetto le attività consentite all'articolo 4.
[2] Si tratta della Divisione VIII del Dipartimento del Tesoro
(06.09.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A seguito dell'analisi di un conto consuntivo di un Comune, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, ha accertato -nel merito- squilibrio di cassa e irregolarità contabili dovute: - all’assunzione di impegni di spesa senza atto dirigenziale; - all’emissione di mandati di pagamento in conto residui di importo superiore al residuo stesso; - all’emissione di mandati di pagamento per importo superiore allo stanziamento (assestato con successiva variazione di bilancio); - all’emissione di mandati S.F. (spesa fissa) in mancanza delle previste condizioni; - a vari mandati emessi a favore dell’ufficio ragioneria per acquisti e pagamenti vari; - ai criteri di imputazione di alcune specifiche spese.
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Il comune deve rispettare la corretta procedura di spesa, nelle fasi dell'
impegno, della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento (art. 182 T.U.E.L.). Segnatamente:
  
● l'impegno costituisce la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di un'obbligazione giuridicamente perfezionata, viene determinata la somma da pagare, è determinato il soggetto creditore, viene indicata la ragione e la relativa scadenza dell'obbligazione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio, nell'ambito della disponibilità finanziaria accertata (art. 183, commi 1 e 6, T.U.E.L.). Non è dunque ammissibile, seppur rispondente ad immediate necessità dell'Ente, il superamento, in qualunque modo ottenuto, delle disponibilità finanziarie a bilancio per la singola spesa, ovvero la costituzione di un meccanismo sostanzialmente volto all'individuazione di beneficiari “indiretti” della spesa medesima.
Parimenti, non è possibile individuare cc.dd. “spese fisse”, ovvero spese non associate nel sistema di contabilità a specifico impegno, al di fuori dei casi previsti dalla legge (art. 182, comma 2, T.U.E.L., nel testo ratione temporis applicabile alla fattispecie), ovvero nella sostanza:
a) per il trattamento economico tabellare già attribuito al personale dipendente e per i relativi oneri riflessi;
b) per le rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti, interessi di preammortamento ed ulteriori oneri accessori;
c) per le spese dovute nell'esercizio in base a contratti o disposizioni di legge;
   ● la fase della
liquidazione (ex art. 184, primo comma, T.U.E.L.) costituisce la successiva fase del procedimento di spesa attraverso cui in base ai documenti ed ai titoli atti a comprovare il diritto acquisito del creditore si determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto;
  
● analoghe esigenze emergono nell'emissione degli
ordinativi di pagamento (art. 185, comma 1, T.U.E.L.): questi consistono infatti nella disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese (e sono oggi disposti nei limiti dei rispettivi stanziamenti di cassa, salvo i pagamenti riguardanti il rimborso delle anticipazioni di tesoreria, i servizi per conto terzi e le partite di giro);
  
il mandato di pagamento
(nella disciplina vigente ante armonizzazione, applicabile alla fattispecie) deve poi contenere almeno i seguenti elementi:
a) il numero progressivo del mandato per esercizio finanziario;
b) la data di emissione;
c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui;
d) la codifica;
e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa, del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA;
f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con il creditore;
g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo, che legittima l'erogazione della spesa;
h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal creditore;
i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
Tale disciplina costituisce espressione di un valore strumentale di per sé volto alla garanzia di quei principi giuspubblicistici di corretta rappresentazione della gestione essenziali nell'ottica di una corretta azione programmatoria di destinazione delle risorse pubbliche.
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2.2.- Quanto alle irregolarità contabili, riscontrate in istruttoria, complessivamente dovute: all’assunzione di impegni di spesa senza atto dirigenziale; all’emissione di mandati di pagamento in conto residui di importo superiore al residuo stesso; all’emissione di mandati di pagamento per importo superiore allo stanziamento (assestato con successiva variazione di bilancio); all’emissione di mandati per spesa fissa, in mancanza delle previste condizioni; a vari mandati emessi a favore dell’ufficio ragioneria per acquisti e pagamenti vari; ai criteri di imputazione di alcune specifiche spese, si deve rilevare, nel complesso, quanto segue.
L'ente, nella redazione dei documenti contabili, deve ispirarsi costantemente al principio della «veridicità», ora allegato al decreto legislativo n. 118 del 2011, il quale ricerca nei dati contabili di bilancio la rappresentazione delle reali condizioni delle operazioni di gestione di natura economica, patrimoniale e finanziaria di esercizio. Tale aspetto è essenziale ai fini della corretta realizzazione della funzione programmatoria sottesa alla contabilità finanziaria.
In tal senso, è altresì necessario che l'ente rispetti la corretta procedura di spesa, nelle fasi dell'
impegno, della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento (art. 182 T.U.E.L.).
L'
impegno, in particolare, costituisce la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di un'obbligazione giuridicamente perfezionata, viene determinata la somma da pagare, è determinato il soggetto creditore, viene indicata la ragione e la relativa scadenza dell'obbligazione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio, nell'ambito della disponibilità finanziaria accertata (art. 183, commi 1 e 6, T.U.E.L.). Non è dunque ammissibile, seppur rispondente ad immediate necessità dell'Ente, il superamento, in qualunque modo ottenuto, delle disponibilità finanziarie a bilancio per la singola spesa, ovvero la costituzione di un meccanismo sostanzialmente volto all'individuazione di beneficiari “indiretti” della spesa medesima.
Parimenti, non è possibile individuare cc.dd. “spese fisse”, ovvero spese non associate nel sistema di contabilità a specifico impegno, al di fuori dei casi previsti dalla legge (art. 182, comma 2, T.U.E.L., nel testo ratione temporis applicabile alla fattispecie), ovvero nella sostanza:
   a) per il trattamento economico tabellare già attribuito al personale dipendente e per i relativi oneri riflessi;
   b) per le rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti, interessi di preammortamento ed ulteriori oneri accessori;
   c) per le spese dovute nell'esercizio in base a contratti o disposizioni di legge.
Superata la fase della
liquidazione (la quale, ex art. 184, primo comma, T.U.E.L., costituisce la successiva fase del procedimento di spesa attraverso cui in base ai documenti ed ai titoli atti a comprovare il diritto acquisito del creditore, si determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare dell'impegno definitivo assunto), analoghe esigenze emergono nell'emissione degli ordinativi di pagamento (art. 185, comma 1, T.U.E.L.): questi consistono infatti nella disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese (e sono oggi disposti nei limiti dei rispettivi stanziamenti di cassa, salvo i pagamenti riguardanti il rimborso delle anticipazioni di tesoreria, i servizi per conto terzi e le partite di giro).
Il
mandato di pagamento (nella disciplina vigente ante armonizzazione, applicabile alla fattispecie) deve poi contenere almeno i seguenti elementi:
   a) il numero progressivo del mandato per esercizio finanziario;
   b) la data di emissione;
   c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui;
   d) la codifica;
   e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa, del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA;
   f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con il creditore;
   g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo, che legittima l'erogazione della spesa;
   h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal creditore;
   i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
Tale disciplina costituisce espressione di un valore strumentale di per sé volto alla garanzia di quei principi giuspubblicistici di corretta rappresentazione della gestione essenziali nell'ottica di una corretta azione programmatoria di destinazione delle risorse pubbliche.
Quanto poi all'impegno operato con atto di Giunta, sulla base di esigenze, prospettate dall'ente, di economicità degli atti, si deve rilevare che questa Sezione, già con il parere 18.12.2009 n. 1125, ha avuto modo di chiarire che l’art. 107, comma 1, T.U.E.L. afferma, con forza cogente, il tendenziale principio della distinzione dei poteri di indirizzo e di controllo politico–amministrativo, che spettano agli organi di Governo, dalla gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuita direttamente ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
In particolare, l’assunzione degli impegni di spesa rientra negli atti di gestione finanziaria di competenza dei dirigenti (art. 107, comma 3, lett. d, T.U.E.L., confermato peraltro, con portata generale, dall’art. 4, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001), salvi eventuali effetti “prenotativi” diretti, laddove ammissibili, degli atti degli organi politici.
Al riguardo
la Sezione, preso atto di quanto riferito dall'Ente, trasmette la presente decisione e gli atti acquisiti nel corso dell'istruttoria, ex art. 52, comma 4, del decreto legislativo n. 174 del 2016, alla Procura regionale per la Lombardia ed all’Ispettorato Generale di Finanza, per le determinazioni di competenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 27.07.2017 n. 226).

PUBBLICO IMPIEGOL’art. 53, comma 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001 recita: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La disposizione immessa con la c.d. “normativa anticorruzione” non introduce alcuna fattispecie nuova e tipizzata di responsabilità amministrativa, ma si limita a rafforzare quanto già in precedenza affermato da un solido orientamento giurisprudenziale in materia.
In altri termini il legislatore ha voluto ribadire un precetto già consolidato nell’ambito delle norme di comportamento del dipendente pubblico; ne consegue che, anche in assenza della precisazione contenuta nel comma 7-bis, la mancanza di autorizzazione nello svolgimento di un’attività extra lavorativa già costituiva condotta illecita con conseguente danno per l’erario.
La natura ricognitiva della norma dell’art. 53, comma 7-bis, d.lgs. n. 165/2001 trova conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che già anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 190/2012 ebbe a ribadire la giurisdizione contabile per l’ipotesi di responsabilità amministrativa di un dipendente pubblico per la violazione non solo dei doveri tipici delle funzioni svolte, ma anche delle funzioni strumentali e, necessariamente, anche nel caso di omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento d’incarichi extra lavorativi.
Ne consegue che
anche in assenza della precisazione contenuta nel comma così novellato, la Corte dei conti era legittimata, quale giudice naturale, alla cognizione della notitia damni contestata dalla Procura.
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Risulta incontroverso che il MA., percipiente i compensi contestati, costituisca il soggetto, espressamente individuato, chiamato a rispondere a titolo di responsabilità per il danno erariale da omesso versamento dei compensi predetti (art. 53, comma 7-bis, citato), avendo deliberatamente svolto le contestate prestazioni professionali senza la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza e dunque in modo indebito, in ciò integrando la fattispecie di cui al citato art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001
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Da quanto precede
ricorrono nella specie tutti i presupposti per ritenere la sussistenza dell’ipotesi di responsabilità erariale contestata dalla Procura regionale al convenuto MA. e cioè il dolo nell’omessa denuncia all’Amministrazione di appartenenza delle prestazioni professionali effettuate in carenza di autorizzazione, nonché il danno erariale configurato dalla legge pari al compenso percepito dal dipendente in regime di rapporto di impiego di esclusività con la Regione Emilia Romagna.
Sul punto va rimarcato che (contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto) non di responsabilità formale o sanzionatoria nella specie si tratti, bensì propriamente di responsabilità per danno erariale, attuale, concreto ed effettivo.
Invero,
la prevista “misura” del riversamento del compenso “nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti” (art. 53, comma 7, cit.) risponde, a ben vedere, all’esigenza di assicurare l’interesse dell’erario ad una piena esclusiva prestazione del proprio dipendente a garanzia del principio del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.); sicché l’importo del compenso indebitamente ottenuto dal dipendente quantifica, ragionevolmente, la minore efficienza ed efficacia sottratta all’Amministrazione di appartenenza da parte del dipendente non autorizzato allo svolgimento della prestazione; tant’è che secondo il vigente regime detto importo viene reimmesso tra le disponibilità finanziarie da destinare al recupero della produttività della pubblica amministrazione allo scopo, così, di neutralizzare il vulnus arrecato dalla dispersione verso l’esterno di prestazioni professionali esclusivamente riservate all’Amministrazione di appartenenza.
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1. Con atto del 25.06.2015, la Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per l’Emilia Romagna ha citato il signor MA.Ma.o per sentirlo condannare, a titolo di responsabilità amministrativa, al pagamento, a favore della Regione Emilia Romagna, della complessiva somma di euro 140.874,37 o comunque alla diversa somma ritenuta dalla Sezione.
2. Risulta dagli atti che la citazione origina dalla segnalazione della Regione Emilia-Romagna del 28.01.2014, secondo la quale il convenuto, dipendente regionale a tempo pieno dal 15.10.1985 al 31.05.2006, svolse prestazioni professionali per conto di diversi enti e società (B.It. s.r.l., periodo d’imposta 2001 per un compenso lordo di euro 11.888,84 e periodo d’imposta 2002 per un compenso lordo di euro 28.880,27; Ty.Va. & Co.It. s.r.l., periodo d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro 50.144,09 e periodo d’imposta 2002 per un compenso lordo di euro 30.140,00; Ku.Pe.It. s.p.a., periodo d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro 9.366,98 e periodo d’imposta 2001 per un compenso lordo di euro 1.717,00; Ca.So.Ca. soc. coop r.l., periodo d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro 5.380,19; Comune di San Pietro in Cerro, periodo d’imposta 2002 per un compenso lordo di euro 3.357,00; e dunque complessivamente per euro 140.874,37) senza l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza per un importo complessivo pari al danno per il quale lo stesso signor MA. risulta convenuto.
In ciò la Procura ravvisa violazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165/2001, con conseguente danno pari al mancato riversamento ad opera del dipendente regionale non autorizzato delle somme incassate nel conto dell’entrata del bilancio della Regione Emilia Romagna.
3. La difesa del convenuto chiedeva il rigetto della domanda attrice e in subordine la declaratoria che il danno cagionato all’amministrazione fosse dovuto a fatti colposi dell’amministrazione stessa, con riduzione, in via ulteriormente subordinata, del danno per concorso causale dell’amministrazione medesima.
In particolare, il convenuto ha opposto l’eccezione di intervenuta prescrizione in quanto l’Amministrazione sapeva degli incarichi svolti dal signor MA. sin dal 2004.
4. Nel corso dell’udienza pubblica del 20.04.2016 è stato rimarcato dalla difesa che, nel verbale di contestazione in atti, redatto dal Comando nucleo provinciale polizia tributaria di Piacenza, datato 12.05.2005, risulta che “il Servizio tecnico bacini di Trebbia e Nure di Piacenza della Direzione generale ambiente e difesa del suolo e della costa della Giunta della Regione Emilia Romagna con nota n. AMB/GPC/4/90588 dell’08.11.2004 e nota n. AMB/GPC/4/104609 del 22.12.2004 aveva riferito di non essere in possesso di alcuna autorizzazione amministrativa rilasciata dall’Amministrazione di appartenenza a MA.Ma. a fronte della prestazione professionale resa negli anni 2000, 2001 e 2002” (v. p. 5 del verbale di constatazione citato).
Tale occorrenza, ad avviso della difesa del convenuto, avrebbe costituito la prova, da parte dell’Amministrazione di appartenenza del MA., della conoscenza dei fatti contestati sin dal 2004, con evidente decorso del termine prescrizionale dell’azione di responsabilità, dato che l’intimazione dell’amministrazione risulta essere stata effettuata con raccomandata PG/10/2055500 del 12.08.2010, ricevuta il 14.08.2010, e cioè oltre i cinque anni previsti per l’esercizio dell’azione di responsabilità, che decorrono, appunto, dal momento in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza dei fatti contestati.
5. Il Collegio per valutare l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa, e avversata dalla Procura, ha ritenuto necessario acquisire, con l’ordinanza n. 39/16/R, le citate note n. AMB/GPC/4/90588, datata 08.11.2004, e n. AMB/GPC/4/104609, datata 22.12.2004, con le quali l’amministrazione medesima avrebbe riferito al Comando nucleo provinciale polizia tributaria di Piacenza di non essere in possesso di autorizzazioni rilasciate al MA., con ciò rendendo ostensiva, secondo la prospettazione della difesa del convenuto, la puntuale conoscenza dei fatti omissivi contestati al MA. (e cioè dell’omessa richiesta dell’autorizzazione per lo svolgimento incarichi retribuiti).
In ottemperanza a detta ordinanza, la Procura ha depositato le predette note avendole acquisite dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Piacenza.
6. Nell’odierna udienza pubblica di trattazione le parti si sono riportate agli atti.
In particolare, la difesa ha così ribadito la richiesta: a) di intervenuta prescrizione del diritto azionato dalla Procura; b) nel merito, l’assenza dell’illiceità del comportamento contestato al convenuto, l’assenza di elemento psicologico e di danno per l’Amministrazione di appartenenza; c) l’inapplicabilità dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 (entrato in vigore nel maggio 2001) alle prestazioni rese dal convenuto nel 2000; d) di illegittimità costituzionale dell’art. 53 citato in riferimento agli artt. 3, 24 e 97, trattandosi –asseritamente– di un’ipotesi di responsabilità formale o comunque di una tipologia di responsabilità sanzionatoria rigida e automatica, non graduabile in considerazione del fatto concreto, e dunque in contrasto con i citati parametri costituzionali; e) in subordine, dell’esercizio del potere riduttivo.
7. Devesi anzitutto rigettare l’eccezione portata dalla difesa del convenuto circa la prescrizione del diritto azionato dalla Procura.
7.1. Dalla lettura delle predette note si desume, invero, che l’Amministrazione di appartenenza del MA., a fronte di una specifica richiesta del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Piacenza, rappresentò, con le citate note n. AMB/GPC/4/90588, datata 08.11.2004, e n. AMB/GPC/4/104609, datata 22.12.2004, che il medesimo signor MA. fu autorizzato in data 05.02.2001, con provvedimento n. 835, ad espletare il solo incarico di docenza in favore di FOR.P.IN. con un compenso di euro 454,48; non invece, come adombrato dalla difesa del convenuto –argomentando dalla lettura dei verbali di contestazione del Nucleo provinciale di polizia tributaria di Piacenza–, che l’Amministrazione di appartenenza potesse dirsi indirettamente avveduta, sin dal 2004, dello svolgimento delle prestazioni contestate dalla Procura regionale.
In realtà, dalla documentazione in atti è dato rilevare, come risulta dalla citata nota del 28.01.2014, con la quale l’Amministrazione di appartenenza (Regione Emilia Romagna) segnalò la notitia damni alla Procura regionale, che, con nota DFP-IFP-RA0001206P del 23.07.2010, pervenuta il 02.08.2010 alla Regione Emilia Romagna (avente ad oggetto "Ma.Ma., dipendente del Servizio Bacini Trebbia e Nure di Piacenza — Giunta Regionale Emilia Romagna. Verifiche di cui all'art. 1, commi 56-65, della legge 23.12.1996, n. 662 e all'art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165"), il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ispettorato per la funzione pubblica aveva trasmesso alla Regione Emilia Romagna la relazione del Nucleo polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Piacenza su verifiche disposte dal Dipartimento nei confronti del menzionato dipendente, ai sensi dell'art. 1, commi 56-65, della legge n. 662 del 1996, ed eseguite dal predetto Nucleo di polizia Tributaria su delega del Nucleo Speciale Spesa Pubblica e repressione Frodi Comunitarie della stessa GdF; sicché, la Regione, venuta a conoscenza, nel 2010, degli incarichi eseguiti senza autorizzazione da parte del MA., al fine di procedere al recupero dei compensi percepiti per gli incarichi non autorizzati, comunicava tempestivamente all'arch. Ma.MA., con raccomandata prot. PG/10/205500 del 12.08.2010, ricevuta il 14.08.2010, l'esito degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza e chiedeva chiarimenti in merito. Avvertiva, inoltre, l'interessato che l'art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 dispone l'obbligatorio versamento del compenso percepito come conseguenza dell'inosservanza del divieto di svolgimento di incarichi retribuiti non autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
7.2. Stante quanto precede non può accogliersi l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno per responsabilità erariale sollevata dalla difesa del convenuto poiché, appunto, la notitia damni è stata tempestivamente contestata dall’Amministrazione di appartenenza –non appena venutane a conoscenza– al convenuto, e successivamente, dalla Procura regionale che, a seguito di denuncia della Regione Emilia-Romagna (cfr. nota del 28.01.2014), gli ha notificato l’invito a dedurre in data 10.04.2015.
7.3. Deve aggiungersi che il termine prescrizionale non può comunque ritenersi decorso anche alla luce del recente orientamento delle Sezioni riunite della Corte dei conti (sent. n. 2/2017/QM, punto 3 del Diritto), secondo il quale l’omessa denuncia ad opera del dipendente della pubblica amministrazione non fa decorre il termine prescrizionale anteriormente al disvelamento del fatto dannoso originario (id est: evento di danno), consistente, appunto, nella specifica, qui sussistente, condotta omissiva della denuncia delle prestazioni professionali svolte dal convenuto senza autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
8. Nel merito la domanda attorea è fondata e pertanto merita accoglimento.
8.1. Occorre premettere che
l’art. 53, comma 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001 recita: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La disposizione immessa con la c.d. “normativa anticorruzione” non introduce alcuna fattispecie nuova e tipizzata di responsabilità amministrativa, ma si limita a rafforzare quanto già in precedenza affermato da un solido orientamento giurisprudenziale in materia (tra le tante si segnalano, per fatti anteriori alla legge n. 190/2012, Corte conti, Sez. Lombardia, n. 216/2014; Sez. Puglia n. 230/2015).
In altri termini
il legislatore ha voluto ribadire un precetto già consolidato nell’ambito delle norme di comportamento del dipendente pubblico; ne consegue che, anche in assenza della precisazione contenuta nel comma 7-bis, la mancanza di autorizzazione nello svolgimento di un’attività extra lavorativa già costituiva condotta illecita con conseguente danno per l’erario (cfr. Corte conti, Sez. Emilia Romagna n. 61/2015).
La natura ricognitiva della norma dell’art. 53, comma 7-bis, d.lgs. n. 165/2001 trova conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che già anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 190/2012 ebbe a ribadire la giurisdizione contabile per l’ipotesi di responsabilità amministrativa di un dipendente pubblico per la violazione non solo dei doveri tipici delle funzioni svolte, ma anche delle funzioni strumentali e, necessariamente, anche nel caso di omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento d’incarichi extra lavorativi (Cass. SS.UU., n. 22688/2011).
Ne consegue che
anche in assenza della precisazione contenuta nel comma così novellato, la Corte dei conti era legittimata, quale giudice naturale, alla cognizione della notitia damni contestata dalla Procura.
8.2. Ebbene,
risulta incontroverso che il MA., percipiente i compensi contestati, costituisca il soggetto, espressamente individuato, chiamato a rispondere a titolo di responsabilità per il danno erariale da omesso versamento dei compensi predetti (art. 53, comma 7-bis, citato), avendo deliberatamente svolto le contestate prestazioni professionali senza la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza e dunque in modo indebito, in ciò integrando la fattispecie di cui al citato art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001; né ha pregio l’eccezione sollevata dalla difesa circa l’inapplicabilità della norma citata alle prestazioni rese prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 165/2001; e ciò per la semplice ragione che già l’art. 58, comma 7, del d.lgs. n. 29/1993 conteneva, su delega dell’art. 2, comma 1, della legge n. 421 del 1992 (Corte cost., sent. n. 98/2015, punto 2.2. del Considerato in diritto), una disposizione corrispondente a quella ora in vigore.
8.3. Da quanto precede
ricorrono nella specie tutti i presupposti per ritenere la sussistenza dell’ipotesi di responsabilità erariale contestata dalla Procura regionale al convenuto MA. e cioè il dolo nell’omessa denuncia all’Amministrazione di appartenenza delle prestazioni professionali effettuate in carenza di autorizzazione, nonché il danno erariale configurato dalla legge pari al compenso percepito dal dipendente in regime di rapporto di impiego di esclusività con la Regione Emilia Romagna.
Sul punto va rimarcato, come anche ritenuto dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (cfr., citata sent. n. 2/2017/QM), che (contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto) non di responsabilità formale o sanzionatoria nella specie si tratti, bensì propriamente di responsabilità per danno erariale, attuale, concreto ed effettivo.
Invero,
la prevista “misura” del riversamento del compenso “nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti” (art. 53, comma 7, cit.) risponde, a ben vedere, all’esigenza di assicurare l’interesse dell’erario ad una piena esclusiva prestazione del proprio dipendente (art. 98 Cost.; Corte conti, Sez. I appello n. 121/2015; Sez. Emilia Romagna n. 818/2007) a garanzia del principio del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.); sicché l’importo del compenso indebitamente ottenuto dal dipendente quantifica, ragionevolmente, la minore efficienza ed efficacia sottratta all’Amministrazione di appartenenza da parte del dipendente non autorizzato allo svolgimento della prestazione; tant’è che secondo il vigente regime detto importo viene reimmesso tra le disponibilità finanziarie da destinare al recupero della produttività della pubblica amministrazione allo scopo, così, di neutralizzare il vulnus arrecato dalla dispersione verso l’esterno di prestazioni professionali esclusivamente riservate all’Amministrazione di appartenenza.
9. Da quanto precede va disattesa la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa del convenuto, che muove dall’errato presupposto che nella specie si versi in ipotesi di responsabilità formale oppure di mera, non graduabile, responsabilità sanzionatoria.
10. In considerazione di quanto precede, il Collegio ritiene dunque sussistenti le condizioni per la condanna del convenuto MA.Ma. al risarcimento del danno a favore della Regione Emilia Romagna pari alla somma di euro 140.874,37, come da motivazione.
11. La spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro 610,70 (seicentodieci/70).
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia Romagna, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda, eccezione, deduzione
ACCOGLIE
la domanda attorea come da motivazione.
Condanna il convenuto MA.Ma.o al risarcimento del danno a favore della Regione Emilia-Romagna pari alla somma di euro 140.874,37. Rivalutazione monetaria dall’anno del mancato riversamento (cfr. punto 2 per i periodi d’imposta 2000, 2001, e 2002) al deposito della sentenza secondo gli indici FOI. Interessi legali dal deposito della sentenza sino al soddisfo.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro 610,70 (seicentodieci/70)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna, sentenza 26.07.2017 n. 170).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2). Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo prevede che: “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi:) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
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Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune, laddove consente la realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
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Il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità dell’intervento con le disposizioni urbanistiche sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a permesso di costruire, non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto, non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato concreto della preesistenza di un immobile a distanza inferiore da quella prevista da detta norma.
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2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, per le ragioni di seguito esposte, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Ciò esime il Collegio dal doversi pronunciare in ordine alla inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado e, in correlazione, in ordine alla tempestività del motivo di impugnazione con il quale l’appellante ha prospettato la predetta inammissibilità, il quale risulta presente solo nelle memorie del 14.05.2013 e del 27.03.2017.
2.1. Come si è già avuto modo di esporre, la sentenza impugnata ha proceduto all’annullamento del permesso di costruire rilasciato all’attuale appellante, previa disapplicazione dell’art. 32-bis delle NTA del Comune di Sannicandro, in quanto la possibilità da tale norma prevista di realizzare nuovi edifici a filo strada, ove esista un prevalente allineamento in tal senso, costituisce una violazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 (norma inderogabile) e delle distanze tra fabbricati ivi prescritte.
Giova ricordare, in punto di fatto ed al fine di meglio definire il thema decidendum, che dagli atti di causa risulta:
   - la preesistenza di un fabbricato;
   - che la distanza tra il fabbricato oggetto del permesso di costruire (situato in zona B) e quello di proprietà dei ricorrenti in I grado e di m. 3;
   - che tale spazio è costituito da una strada adibita a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare.
Occorre, inoltre, precisare che, ai fini del presente giudizio di appello, non assumono rilievo –per le ragioni di seguito esposte- le argomentazioni relative alle cd. “schede della zona B”, di cui alla memoria del 14.05.2013, e/o quelle relative all’esistenza del Piano attuativo delle zone B (di cui alla memoria di replica depositata il 06.04.2017); il che esime il Collegio dal dover verificare la ricorrenza del divieto dei “nova” in appello (Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2016 n. 3509).
3.1. Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2). Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo prevede che: “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093 e 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Cass. civ., sez. II, 14.11.2016 n. 23136) che la disposizione contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi –così come condivisibilmente sostenuto dall’appellante- per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione (in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 03.03.2017 n. 74).
3.2.. Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune di Sannicandro di Bari, laddove consente la realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
4. Le precisazioni in tema di interpretazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 innanzi riportate non risultano contraddette dal fatto che la sentenza impugnata ha definito “nuova costruzione”, l’immobile oggetto del permesso di costruire impugnato.
In disparte ogni considerazione in ordine alla migliore riconducibilità dell’intervento alla ristrutturazione edilizia (secondo le norme per la stessa ratione temporis vigenti: v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443), tenuto conto che nel ricorso in appello non vi sono doglianze sul punto, appare evidente come il concetto di “nuova costruzione” utilizzato dalla sentenza impugnata non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968.
Ed infatti, la sentenza ricava la definizione di “nuova costruzione”, pur affermando espressamente la preesistenza di un immobile completamente demolito, dal fatto che si tratta di una costruzione “completamente diversa per tipologia e destinazione d’uso”.
Tuttavia, il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità dell’intervento con le disposizioni urbanistiche sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a permesso di costruire, non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto, non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato concreto della preesistenza di un immobile a distanza inferiore da quella prevista da detta norma.
4.1. Fermo quanto innanzi già esposto, il caso di specie appare coerente anche con gli articoli 873 ed 879 cod. civ. Ed infatti:
   - quanto alla distanza tra fabbricati, l’art. 873 dispone che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”, salvo diverse disposizioni dei regolamenti locali (e, nel caso di specie, la distanza è appunto di m. 3);
   - inoltre, la accertata utilizzazione pubblica della strada rende applicabile quanto previsto dall’art. 879, comma secondo, cod. civ., in base al quale “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” e, dunque, quanto previsto dal più volte menzionato art. 32-bis (Cass. civ., sez. II, 27.12.2011 n. 28938; Id, 24.06.2009 n. 14784, che estende l’applicazione del principio innanzi esposto alla distanza prescritta per le vedute dall’art. 907 c.c.; Id, 05.03.2008 n. 6006; secondo la quale, ai fini dell’applicazione della deroga occorre tener conto più che della proprietà pubblica del bene, dell’uso concreto di esso da parte della collettività); Id, 16.04.2007 n. 9077).
5. Le ragioni che sorreggono l’accoglimento dell’appello fondano anche il rigetto dei motivi non esaminati dalla sentenza impugnata e riproposti con memoria di costituzione, rendendo in tal modo superfluo esaminare l’ammissibilità dei medesimi, sia in relazione al rispetto del termine per la loro riproposizione, sia in quanto riproposti mediante mero rinvio al ricorso di I grado.
Ed infatti:
   - quanto al primo motivo, con il quale si lamenta la violazione dell’art. 79 del Regolamento edilizio di Sannicandro di Bari, occorre osservare che lo stesso si fonda sulla definizione dello spazio che separa i due fabbricati come “spazio interno”, laddove la verificazione disposta ha accertato, in modo convincente e non ulteriormente contestato, l’esistenza di una strada adibita a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare;
   - quanto al secondo motivo, con il quale si argomenta in ordine alla illegittimità dell’art. 32-bis delle NTA, in particolare rilevando che la norma, se pur applicabile, prevederebbe la costruzione a distanza di m. 5, occorre osservare che la norma dell’art. 32-bis rilevante per il caso di specie è quella che disciplina la costruzione in allineamento a filo di strada, in disparte gli effetti anche su questa norma invocata della diversa ipotesi di ricostruzione e non di prima costruzione;
   - quanto al terzo motivo, con il quale si assume la sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, è sufficiente riportarsi, onde rilevarne l’infondatezza, a quanto in precedenza affermato ai fini dell’accoglimento dell’appello.
6. Per tutte le ragioni innanzi esposte, l’appello deve essere accolto, mentre devono essere rigettati i motivi del ricorso instaurativo di I grado non esaminati dalla sentenza impugnata e riproposti nella presente sede.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2017 n. 4337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul termine di impugnazione della sentenza di I grado non notificata.
Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato, “Nel caso in cui la sentenza di primo grado non sia stata notificata, l'appello può essere proposto entro e non oltre il termine lungo divisato dall'art. 327 c.p.c., non potendo trovare applicazione l'art. 36, comma 1, t.u. Cons. St., che fa decorrere il termine per la notificazione dell'impugnazione, alternativamente dalla notificazione della decisione amministrativa ovvero dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza; tale disposizione, che in origine disciplinava le modalità di proposizione del ricorso al Consiglio di Stato quale giudice di unico grado, è superata da quella sancita dall'art. 28, comma 2, l. 06.12.1971 n. 1034, che fa riferimento espresso alla sola notificazione della sentenza di primo grado ed implicito, secondo l'unanime giurisprudenza, al decorso del termine lungo in base al richiamato art. 327 c.p.c.”.
In senso conforme, in epoca anche più risalente: “In mancanza della notificazione della sentenza di primo grado è applicabile al ricorso in appello al Consiglio di Stato il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza medesima di cui all'art. 327 c.p.c.”.
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1. La presente controversia riguarda l’impugnazione, da parte del signor Gr.Sa., del provvedimento n. 263 del 26.10.1993 con cui il Sindaco del comune di Bollate (ora comune di Baranzate) gli ha ingiunto la demolizione delle seguenti opere: due scale in metallo, la pavimentazione in piastrelle di un terrazzo e la pavimentazione in calcestruzzo di un piazzale in ghiaia.
2. Il Tar per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, con la sentenza n. 3226 del 05.07.2005 ha:
   a) dichiarato improcedibile il ricorso limitatamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione nella parte relativa alle scale per intervenuta concessione in sanatoria;
   b) respinto per il resto, nel merito, il ricorso;
   c) compensato tra le parti le spese di lite.
3. Il signor Gr.Sa. ha impugnato la sentenza limitatamente al capo d’interesse, ovvero nella parte in cui ha respinto il ricorso di primo grado avverso l’ingiunzione di demolizione delle opere di pavimentazione di cui in epigrafe.
4. Il Comune di Bollate, dapprincipio, non si è costituito.
5. All’udienza pubblica del 19.01.2017 la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.
6. Il Collegio, tuttavia, rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 73, comma 3, ultimo alinea, c.p.a. l’esistenza di una questione da porre a fondamento della decisione, ha riservato la stessa assegnando alle parti termine per il deposito di memorie (ordinanza n. 252/2017).
7. Il signor Gr.Sa. ha depositato la memoria difensiva in data 12.04.2017; il comune di Bollate (ora comune di Baranzate) nella medesima data del 16.02.2017 ha provveduto a depositare l’atto di costituzione in giudizio (chiedendo pronunciarsi l’irricevibilità o l’infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, vinte le spese di lite), la memoria difensiva autorizzata ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e alcuni documenti. Soltanto il comune di Bollate ha replicato con memoria del 20.04.2017.
8. Alla nuova udienza pubblica del 18.05.2017 la causa è stata discussa e trattenuta per la decisione.
9. Si impone al Collegio la declaratoria di irricevibilità dell’appello per la tardività della notificazione ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. a), c.p.a..
9.1. Il Tar per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, ha pronunciato la sentenza n. 3226 in data 05.07.2005.
9.2. La sentenza non risulta essere stata notificata, sicché l’impugnazione avrebbe dovuto essere proposta entro il termine di un anno dalla pubblicazione della medesima, oltre all’eventuale periodo di sospensione feriale dei termini di cui all’art. 1 della legge n. 742 del 1969 (all’epoca -prima della modifica intervenuta a far data dal 01.01.2015 ad opera dell’art. 16 della legge n. 162 del 2014- dal 01 agosto al 15 settembre, per un numero complessivo pari a giorni 46).
9.3. Nel caso di specie, l’atto di appello è stato portato alla notificazione soltanto in data 18.10.2006, oltre quindi il termine consentito, il quale veniva a scadere il giorno 05.10.2006.
9.4. La Difesa dell’appellante chiede la concessione dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a., con conseguente rimessione in termini, adducendo difficoltà di calcolo involgenti modalità di computo complesse e dubbi interpretativi circa il contenuto delle norme di riferimento, soprattutto quelle relative alla sospensione dei termini durante il periodo feriale.
9.5. L’assunto non può essere condiviso.
9.5.1. Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato, “Nel caso in cui la sentenza di primo grado non sia stata notificata, l'appello può essere proposto entro e non oltre il termine lungo divisato dall'art. 327 c.p.c., non potendo trovare applicazione l'art. 36, comma 1, t.u. Cons. St., che fa decorrere il termine per la notificazione dell'impugnazione, alternativamente dalla notificazione della decisione amministrativa ovvero dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza; tale disposizione, che in origine disciplinava le modalità di proposizione del ricorso al Consiglio di Stato quale giudice di unico grado, è superata da quella sancita dall'art. 28, comma 2, l. 06.12.1971 n. 1034, che fa riferimento espresso alla sola notificazione della sentenza di primo grado ed implicito, secondo l'unanime giurisprudenza, al decorso del termine lungo in base al richiamato art. 327 c.p.c.” (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.12.2001, n. 6192).
In senso conforme, in epoca anche più risalente, Consiglio di Stato, sez. IV, 02.06.1981, n. 430, secondo cui “In mancanza della notificazione della sentenza di primo grado è applicabile al ricorso in appello al Consiglio di Stato il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza medesima di cui all'art. 327 c.p.c.”.
9.5.2. Alla luce dei suddetti arresti giurisprudenziali, pertanto, non possono ravvisarsi le invocate oggettive ragioni di incertezza interpretativa: la questione di diritto è stata affrontata funditus da questo Consiglio di Stato, già in epoca risalente, e mantenuta costante, nella formulazione del principio di diritto, senza contrasti o revirement giurisprudenziali.
Né, del resto, risulta essere stata altrimenti addotta (e documentata), dalla parte istante, l’esistenza dell’altra (alternativa) ragione di concessione della rimessione in termini per errore scusabile, ovvero il grave impedimento di fatto.
10. L’appello, pertanto, va dichiarato irricevibile (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.09.2017 n. 4325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006, dopo aver disposto (comma 1) che “L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati”, al comma 3 prevede che “… chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge che: alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
   a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento della titolarità del diritto reale sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione normativa accomuna nello stesso trattamento sia il proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di diritto reale o personale;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo>>.
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art. 192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene”.
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi dall’“orientamento consolidato, secondo cui, in materia, il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati, nemmeno soggetto al temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale posta dall’art. 7 della stessa legge”.
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0. - Il ricorso è fondato e deve essere accolto, nei sensi di seguito indicati.
1. - Come già anticipato nella fase cautelare del presente giudizio, coglie nel segno la censura (formulata a sostegno della domanda di annullamento azionata) con la quale l’Acquedotto Pugliese s.p.a. lamenta, essenzialmente, la violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, il quale richiede, ai fini della corresponsabilità, che i necessari propedeutici accertamenti sulla sussistenza dei profili di responsabilità dolosa o colposa della violazione dell’obbligo di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti siano effettuati dai soggetti istituzionalmente preposti al controllo, in contraddittorio con i soggetti interessati, non essendo configurabile una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Osserva la Sezione che l’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006, dopo aver disposto (comma 1) che “L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati”, al comma 3 prevede che “… chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge che: alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
   a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento della titolarità del diritto reale sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione normativa accomuna nello stesso trattamento sia il proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di diritto reale o personale;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo
>> (Consiglio di Stato, V, 22.02.2016, n. 705).
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art. 192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene (in tal senso ex plurimis Tar Puglia, Lecce, n. 108/2015)” (ex multis, TAR Puglia, Lecce, I, 14.06.2016, n. 945; in termini, TAR Puglia Lecce, I, 02.12.2015, n. 3482; TAR Puglia, Lecce, I, 04.02.2015, n. 437).
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi dall’“orientamento consolidato (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061; sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; sez. V, 22.02.2016, n. 705; sez. IV, 01.04.2016, n. 1301), secondo cui, in materia, il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati, nemmeno soggetto al temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale posta dall’art. 7 della stessa legge” (Consiglio di Stato, IV, 15.07.2016, n. 3163; in termini, TAR Puglia, Bari, I, 30.08.2016, n. 1089; TAR Calabria, Catanzaro, I, 12.10.2016, n. 1962).
1.2 - Orbene, nel caso in esame: per un verso, dal tenore del gravato provvedimento si evince che l’Amministrazione Comunale resistente fa discendere gli obblighi di rimozione e bonifica in capo alla società ricorrente, dal mero accertamento della (presunta) proprietà del terreno per cui è causa, senza fornire, in concreto, alcuna dimostrazione dell’imputabilità soggettiva della condotta, ex art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006; per altro verso, alcuna partecipazione e contraddittorio procedimentale risulta essere stata, in concreto, attivata.
2. - Parimenti fondata (come pure già rilevato nella fase cautelare del giudizio) è l’ulteriore censura con cui la società Acquedotto Pugliese s.p.a., Ente gestore dell’Acquedotto, deduce, sostanzialmente, di non essere tenuta agli adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati da terzi sulle aree interessate dalle condutture idriche, per mancanza tanto del rapporto reale con le aree stesse che di un rapporto di natura obbligatoria (non essendo comprese negli obblighi da esso assunti convenzionalmente la vigilanza e la custodia delle infrastrutture per comportamenti di terzi estranei di natura patologica).
Ed invero, “Si deve ritenere che AQP sia il mero gestore delle condotte di acqua potabile e pertanto si trovi nella disponibilità dell’area interessata dalle infrastrutture idriche” (TAR Puglia, Bari, I, 29.09.2016, n. 1159).
E’ stato al riguardo condivisibilmente osservato che <<Gli obblighi gravanti sul gestore attengono esclusivamente alla manutenzione ordinaria e straordinaria sotto l’aspetto tecnico delle condotte al fine di assicurare il corretto esercizio e la funzionalità delle opere. Il mantenimento delle condizioni generali di pulizia delle opere previsto dalla convenzione con l’ATO Puglia del 30.09.2002 riguardano la normale pulizia dei siti e non già fatti imprevedibili quali l’abbandono di rifiuti da parte di sconosciuti…. Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti. Invero, il concetto di custodia e vigilanza va esaminato in relazione agli obblighi che fisiologicamente possono essere imposti ad AQP in quanto gestore del servizio idrico integrato e non può essere allargato fino ad includere la “custodia e vigilanza” dei beni in oggetto da atti di natura patologica e derivanti da fenomeni di vandalismo tramite l’illecito abbandono e l’occultamento di rifiuti …. In conclusione deve ritenersi che AQP, ente gestore dell’acquedotto, non sia tenuto agli adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati sull’area interessata dalle condutture per mancanza tanto del rapporto reale con l’area che di un rapporto di natura obbligatoria e non essendo comprese negli obblighi da essa assunti convenzionalmente la vigilanza e la custodia delle infrastrutture per comportamenti di terzi estranei di natura patologica>> (Consiglio di Stato, V, 22.02.2016, n. 705; in termini, TAR Puglia, Bari, I, cit., n. 1159/2016).
3. - La fondatezza delle summenzionate censure dispensa il Collegio dall’esame delle ulteriori doglianze formulate, con assorbimento di queste ultime.
4. - Va disattesa, invece, la domanda risarcitoria azionata, in quanto formulata con riferimento a danni del tutto eventuali (e, comunque, indimostrati).
5. - Per tutto quanto innanzi sinteticamente esposto, il presente ricorso è fondato e va accolto, nei sensi e termini di cui in motivazione, e, per l’effetto, deve essere annullata l’impugnata ordinanza n. 200 del 25.10.2016 (prot. n. 38425 del 26.10.2016), a firma del Sindaco e Dirigente del Settore “Ecologia ed Ambiente” del Comune di Massafra (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.09.2017 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le associazioni di promozione sociale possono localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo fabbricato, sulla base del permesso di costruire.
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L’Associazione ricorrente, associazione di promozione sociale iscritta nel registro regionale ai sensi della L. 383/2000, nonché della L.R. 39/2007, impugna l’epigrafata ordinanza con la quale il Comune di Lecce, dopo aver contestato il “cambio di destinazione d’uso dell’unità immobiliare censita in catasto al fg. 213, part. 142, sub 2, p.t., da abitazione a ufficio privato, in assenza di titoli abilitativi legittimanti”, le ha intimato di ripristinare l’originaria destinazione d’uso abitativa.
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Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il Collegio ritiene di condividere quanto già espresso da questo tribunale con ordinanza n. 6/2017, con la quale si è rilevato il deficit istruttorio e motivazionale del provvedimento impugnato, atteso che lo stesso non risulta aver tenuto in debita considerazione che, in base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le associazioni di promozione sociale possono localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo fabbricato, sulla base del permesso di costruire (in tal senso C.d.S. 181/2013).
Il provvedimento impugnato infatti omette di considerare le caratteristiche dell’attività in concreto esercitata nei locali predetti, nonché la compatibilità della stessa con la destinazione d’uso ivi precedentemente impressa, non esprimendo sufficienti argomentazioni sul punto.
In tal senso, pertanto, il ricorso merita accoglimento con assorbimento delle censure non esaminate (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 13.09.2017 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - CAVE - Attività di coltivazione di cave e di livellamenti agrari - Nozione di sottoprodotto - Attività qualificabile come gestione dei rifiuti - Art. 184-bis - 185 dlgs n. 152/2006 - All. 3 dm n. 161/2012.
Rientrano nella categoria dei rifiuti anche le sostanze e gli oggetti che, non più idonei a soddisfare le finalità cui essi erano originariamente destinati, siano tuttavia non privi di un valore economico, sicché gli stessi possano essere dismessi da colui che li possiede anche attraverso la conclusione di negozi giuridici sia a titolo gratuito che oneroso.
In tal senso può essere ritenuta, attività qualificabile come gestione dei rifiuti la compravendita di terra sottratta dal suo naturale sito che, in linea di principio, colui il quale ha eseguito le opere si trova nella condizione di doversene disfare (nella specie opere di livellamento di terreno agrario).
RIFIUTI - Materiali da scavo - Caratteristiche per l'esenzione dalla disciplina sui rifiuti - Presupposti e limiti al trattamento derogatorio.
Sono sottratte dalla disciplina dei rifiuti, i materiali da scavo derivante dalle opere di livellamento dei terreni, eseguiti in cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6000 mc di materiale, se rientranti nelle caratteristiche cui all'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e se il produttore dimostri che ai fini di cui alle lettere b) e e) (cioè ai fini del riutilizzo del materiale ovvero della sua destinazione ad un successivo ciclo produttivo) non è necessario sottoporre i materiali ad alcun preventivo trattamento, fatte salve le normali pratiche industriali e di cantiere.
Ove tale condizione non sia soddisfatta il materiale in questione non godrà del trattamento derogatorio di cui all'art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006 e dovrà essere, pertanto, qualificato come rifiuto a tutto gli effetti.
RIFIUTI - Qualificazione giuridica del "mistone" - Impianto di vagliatura e lavaggio degli inerti - Definizione di "normale pratica industriale" - Attività di trattamento dei rifiuti - Autorizzazioni - Necessità - Fattispecie.
La qualificazione giuridica del "mistone" come sottoprodotto è riferibile alle solo ipotesi in cui il reimpiego avvenga "direttamente, senza alcuna trattamento", laddove la disposizione in materia (art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006) fa comunque salvi i trattamenti che rientrino nelle "comuni pratiche industriali e di cantiere".
Pertanto, si deve escludere la possibilità di attribuire al "mistone" la qualifica di sottoprodotto, nei casi in cui vi sia, la necessità di installazioni industriali non irrilevanti, nella specie, istituzioni di vasche di decantazione del materiale lavato e significativi aspetti di successivo impatto ambientale sia per la presenza di cospicui effluenti idrici rivenienti dalla attività di lavaggio del "mistone" sia per la presenza, non certo indifferente, di copiosi residui a loro volta inquinanti costituiti dal limo derivante dall'avvenuto lavaggio del "mistone".
Sicché, una tale complessità operativa non può coniugarsi con il concetto di "comuni pratiche industriali e di cantiere", dovendosi ritenere che queste siano invece limitate a marginali interventi eseguiti sui sottoprodotti non necessitanti di complesse infrastrutture operative né, comunque, tali da comportare la successiva necessità di procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.09.2017 n. 41533 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul termine di perenzione dei ricorsi giurisdizionali.
Per la giurisprudenza di questo Consiglio, qualora a cura della Segreteria debba essere fissata l’udienza e la Segreteria non effettui tale adempimento, il termine di perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del c.p.a., non comincia a decorrere, poiché la relativa stasi processuale non è tecnicamente imputabile all’inattività delle parti, le quali, peraltro, non possono che confidare sulla fissazione d’ufficio dell’udienza medesima.

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... per la riforma dell'ordinanza collegiale del TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III-bis, n. 8248/2016, resa tra le parti, che ha respinto l’opposizione proposta contro un decreto che ha dichiarato la perenzione universitaria del ricorso di primo grado n. 7903 del 2008;
...
1. È appellata l’ordinanza collegiale del TAR per il Lazio, Sede di Roma, sez. III-bis, n. 8248/2016, con la quale è stata respinta l’opposizione presentata dalla signora Fl. Di Sa. avverso il decreto di perenzione n. 8981 del 19.08.2015, con cui il presidente del TAR ha dichiarato estinto il giudizio n. 7903 del 2008.
2. Nel motivo d’appello, l’appellante lamenta l’errore di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure, laddove hanno ravvisato la perenzione a seguito dell’inattività della parte, conseguente all’invio della comunicazione a mezzo PEC dell’avvenuto decorso del quinquennio dal deposito del ricorso.
L’appellante ha lamentato che il TAR avrebbe dovuto attribuire rilievo al fatto che con l’ordinanza n. 594/2009 il TAR stesso aveva disposto incombenti istruttori a carico dell’Università resistente ed aveva contestualmente stabilito, «per la definizione del ricorso nel merito, la prima udienza utile dopo l’avvenuto adempimento della stessa e dopo l’espletamento di tutti gli incombenti di Segreteria».
Sicché, aggiunge l’appellante, anziché comunicare via PEC ex art. 82 c.p.a. il decorso del quinquennio per la perenzione, il TAR, in conformità all’ordinanza istruttoria, all’esito dell’avvenuto adempimento, avrebbe dovuto provvedere d’ufficio alla fissazione nel merito del ricorso alla prima udienza utile.
3. Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», chiedendo la reiezione del ricorso.
4. Alla camera di consiglio del 06.07.2017, la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.
5. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato.
5.1 Per la giurisprudenza di questo Consiglio, qualora a cura della Segreteria debba essere fissata l’udienza e la Segreteria non effettui tale adempimento, il termine di perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del c.p.a., non comincia a decorrere, poiché la relativa stasi processuale non è tecnicamente imputabile all’inattività delle parti (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2003 n. 7857; Id, sez. IV, 30.05.2013 n. 2954), le quali, peraltro, non possono che confidare sulla fissazione d’ufficio dell’udienza medesima.
5.2. Nel caso in esame, a seguito dell’ordinanza istruttoria n. 594 del 2009, l’Amministrazione ha depositato la relativa documentazione nel mese di settembre 2009, ciò che avrebbe dovuto indurre la Segreteria a curare la fissazione dell’udienza, così come chiaramente prospettato con la medesima ordinanza istruttoria.
Non si può dunque ravvisare una ingiustificata inattività della parte ricorrente, che si è trovata in una situazione di più che legittimo affidamento sul fatto che non occorreva alcun ulteriore suo impulso processuale, per la fissazione dell’udienza di definizione del primo grado del giudizio.
6. Conclusivamente l’appello deve essere accolto, sicché –in riforma della ordinanza appellata– si deve rilevare la mancata estinzione del giudizio di primo grado e va disposto il rinvio della causa al TAR, per la sua definizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.09.2017 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Esperti nella commissione di concorso e cause di incompatibilità.
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Concorso – Commissione di concorso – Esperti – Esperti in discipline non estranee alle tematiche oggetto delle prove concorsuali – Sufficienza.
Concorso – Per titoli ed esami – Titoli – Valutazione – Dopo l’effettuazione delle prove scritte e prima della correzione dei relativi elaborati – Individuazione dei criteri di valutazione – Prima della conoscenza dell’elenco dei candidati – Necessità – Esclusione.
Concorso – Commissione di concorso – Incompatibilità – Per collaborazione scientifica fra componente della commissione e candidato – Esclusione – Limiti.
Le previsioni normative di cui agli artt. 35, comma 1, lett. e), d.lgs. 30.03.2001, n. 165 e 9, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, in forza dei quali i componenti della commissione di esame devono essere “esperti” nelle materie di concorso, non implicano che il requisito della necessaria esperienza risulti soddisfatto solo ove tutti i membri della commissione siano titolari di insegnamenti nelle medesime discipline oggetto della procedura selettiva, essendo sufficiente che i commissari siano esperti in discipline non estranee alle tematiche oggetto delle prove concorsuali (1).
Ai sensi degli artt. 8, 11 e 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, nei concorsi per titoli e per esami la valutazione dei titoli, preceduta dall’individuazione dei criteri, deve seguire l’effettuazione delle prove scritte e precedere la correzione dei relativi elaborati, mentre è escluso che l’individuazione dei criteri di valutazione dei titoli debba necessariamente intervenire prima che la commissione abbia conoscenza dell’elenco nominativo dei candidati (2).
Il principio secondo cui non costituisce ragione di incompatibilità la sussistenza di rapporti di mera collaborazione scientifica fra i componenti della commissione e alcuno dei candidati, salvo che si sia in presenza di una comunanza di interessi anche economici, di intensità tale da porre in dubbio l’imparzialità del giudizio va mediato da una valutazione caso per caso, ben potendo accadere che detti rapporti di collaborazione, pur rimanendo di natura intellettuale e non assumendo contenuti patrimoniali, raggiungano comunque un grado di intensità tale da compromettere l’indipendenza di giudizio del commissario verso il candidato (3).
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   (1) Cons. St., sez. VI, 03.07.2014, n. 3366; id., sez. V, 30.01.2013, n. 574.
Ha chiarito il Tar che l’esperienza della commissione deve essere verificata nel suo complesso e con ragionevolezza, onde evitare che un’interpretazione troppo rigorosa della qualifica di esperto comporti un intollerabile aggravamento del procedimento selettivo già nella fase della formazione dell’organo tecnico chiamato a operare le valutazioni sui titoli e le prove d’esame dei candidati (Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5137).
   (2) Ha chiarito il Tar che se così fosse, infatti, dovrebbe immaginarsi che le eventuali dichiarazioni di astensione dei commissari intervengano dopo la predisposizione delle prove scritte e il loro espletamento, il che è contrario a ogni regola di ragionevolezza ed economicità dell’azione amministrativa, oltre che incompatibile con la sequenza temporale delle operazioni delineata dall’art. 11, d.P.R. 09.05.1994, n. 487 (la visione dell’elenco dei partecipanti da parte della commissione e la verifica delle incompatibilità precedono la preparazione delle tracce per le prove scritte).
   (3) Cons. St., sez. VI, 30.06.2017, n. 3206 (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 12.09.2017 n. 1060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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Va premessa la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)".
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003", poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ...".
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego”.
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6.2. Del pari infondato è il secondo motivo di gravame.
Il Collegio intende aderire all’orientamento, anche di recente riaffermato da questo Consiglio di Stato, secondo cui “L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Va premessa, a tal riguardo, la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)" (TAR Lazio, sez. I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest'ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003" (Tar Lazio, sez. I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ..." (Tar Lazio, sez. I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione, con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego
” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Ciò premesso, nella vicenda in esame si rileva che: l'ordinanza di demolizione è stata impugnata anteriormente alla presentazione dell'istanza di accertamento di conformità; nel corso del giudizio si è formato il silenzio-rigetto sull'istanza di sanatoria, di cui non risulta –o almeno di ciò l’appellante non ha fornito la prova– esservi stata impugnazione; all’esito di tutto ciò l'ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2017 n. 4269  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte.
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.

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6.3. Del tutto infondato si rivela, altresì, l’ultimo motivo di impugnazione teso a censurare il vizio di motivazione, di istruttoria, nonché la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Dai documenti versati agli atti –contrariamente a quanto prospettato dall’appellante- si evince che l’amministrazione ha puntualmente ottemperato all’obbligo di motivazione del provvedimento, dando conto delle ragioni che hanno condotto al diniego dell’istanza di condono e all’ordine di demolizione: l’essere, le opere (di rilevanti dimensioni e con forte impatto sul paesaggio), state realizzate in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, in assoluto contrasto con lo strumento urbanistico vigente e con i vincoli paesaggistici imposti dal piano e con decreto ministeriale.
È poi pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte (ci si limita a riportare l’ultimo precedente specifico in argomento: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2017, n. 2065).
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.
7. L’appello, pertanto, per le suesposte considerazioni, non merita accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2017 n. 4269  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto
Pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
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6. È infondato il motivo sub b).
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. Stato, V, 11.06.2013, n. 3235) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOve una determinazione (amministrativa o giurisdizionale) di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento
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7. “Ove una determinazione (amministrativa o giurisdizionale) di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento” (Consiglio di Stato, sez. V, 31/03/2016, n. 1274) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: RIFIUTI - Competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Individuazione delle competenze tra Sindaco e Dirigente - Principio di specialità - Giurisprudenza - Art. 192 d.lgs. 152/2006 - Codice ambientale.
L’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V, 29/08/2012, n. 4635; id., 12/06/2009, n. 3765; id., 10/03/2009, n. 1296; id., 25/08/2008, n. 4061).
Sicché, il principio di specialità, prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare. (Consiglio, Sez. VI, sentenza n. 1199 del 23/3/2016).
In definitiva, la volontà del legislatore va ricostruita nel senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14 d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all’entrata in vigore del il decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.09.2017 n. 4230 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATARealizzazione soppalco costituito da una struttura in legno della superficie di 12 m² circa, impostato ad un’altezza di 2 m 80 dal piano di calpestio del 3º piano, soppalco avente una altezza variabile da 1 m 80 a 2 m 10 rispetto al sottotetto.
La realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
In linea generale, la realizzazione di un soppalco può ritenersi rientrare, per le sue limitate caratteristiche di estensione, nel concetto di restauro o risanamento conservativo solo quando sia di modeste dimensioni, anche avuto riguardo alla sua altezza, in modo tale da escludere la possibilità di creare un ambiente abitativo e quindi ad incrementare le superfici residenziali o il carico urbanistico.
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Nella fattispecie si deve ritenere che il soppalco costituisca un vero e proprio ambiente, per le sue dimensioni rilevanti, tale da configurare un nuovo vano; il conseguente incremento della superficie abitativa avrebbe quindi richiesto, per la realizzazione di esso, un titolo abilitativo che nella fattispecie manca.
Pertanto, deve ritenersi legittima l’ordinanza di demolizione del soppalco abusivamente realizzato, essendo irrilevante la preesistenza di esso e tenuto conto che l’articolo 9 della legge numero 47 del 1985, disciplinante la fattispecie all’epoca dei fatti controversi, disponeva la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia eseguite in assenza di concessione.

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... per l'annullamento della D.D. n. 2457 del 09.10.2000 di demolizione o rimozione di opere abusive;
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Con il provvedimento impugnato è ordinata, nei confronti della ricorrente, la rimozione o demolizione delle opere eseguite all’interno dell’appartamento, consistenti in un soppalco costituito da una struttura in legno della superficie di 12 m² circa, impostato ad un’altezza di 2 m 80 dal piano di calpestio del 3º piano, soppalco avente una altezza variabile da 1 m 80 a 2 m 10 rispetto al sottotetto, al quale si accede a mezzo di una scala in legno; è stata inoltre accertata la suddivisione di un preesistente bagno per la realizzazione di 2 nuovi bagni e la chiusura di un vano porta di 2 m per 1 m al pianterreno.
Avverso il provvedimento impugnato, la ricorrente deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione della legge.
A suo avviso, essendo stata presentata una denuncia di inizio attività per manutenzione ordinaria nel mese di febbraio 2000, non sarebbe stato necessario alcun altro titolo abilitativo; i lavori eseguiti avrebbero riguardato esclusivamente opere interne, senza aumenti di superficie o variazioni della destinazione d’uso e le opere non sarebbero in contrasto con le norme urbanistiche; si tratterebbe, inoltre, di un soppalco preesistente, come risulterebbe dalla relazione tecnica del perito di parte, allegata al ricorso; la ricorrente, quindi, avrebbe eseguito nel solaio interventi di consolidamento per l’appoggio dei laterali e del tavolato costituente il soppalco, per cui non sarebbe stata necessaria alcuna concessione edilizia; anche la realizzazione di 2 bagni, avvenuta mediante la suddivisione del bagno preesistente, così come la chiusura di un vano porta di 2 m di altezza e 1 m di larghezza al pianterreno, sarebbero opere esclusivamente interne; per tutti i lavori, quindi, sarebbe stata sufficiente la preventiva comunicazione dell’inizio attività, eseguita dalla ricorrente nel mese di febbraio del 2000; anche il procedimento sarebbe illegittimo non essendo mai stato disposto l’ordine di non eseguire le trasformazioni; se pure si trattasse di manutenzione straordinaria, il rinnovo di parti già esistenti dell’immobile sarebbe stato sottoposto esclusivamente ad autorizzazione gratuita.
A giudizio del Collegio, le censure della ricorrente sono solo parzialmente fondate.
Per costante giurisprudenza (cfr. TAR Napoli, sez. IV, 27.03.2017 n. 1668) la realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico (Cfr. anche TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.09.2016, n. 4433; TAR Sardegna, sez. II, 23.09.2011 n. 952; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.07.2011 n. 1863; TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.03.2011 n. 1586).
In linea generale, la realizzazione di un soppalco può ritenersi rientrare, per le sue limitate caratteristiche di estensione, nel concetto di restauro o risanamento conservativo solo quando sia di modeste dimensioni, anche avuto riguardo alla sua altezza, in modo tale da escludere la possibilità di creare un ambiente abitativo e quindi ad incrementare le superfici residenziali o il carico urbanistico (TAR Napoli, sez. IV, 02.03.2017 n. 1220; Cfr. anche TAR Lazio, Roma, 17.05.1996 n. 962; TAR Lazio, Roma, 15.07.1997 n. 1161).
Nella fattispecie si deve ritenere che il soppalco costituisca un vero e proprio ambiente, per le sue dimensioni rilevanti, tale da configurare un nuovo vano; il conseguente incremento della superficie abitativa avrebbe quindi richiesto, per la realizzazione di esso, un titolo abilitativo che nella fattispecie manca.
Pertanto, deve ritenersi legittima l’ordinanza di demolizione del soppalco abusivamente realizzato, essendo irrilevante la preesistenza di esso e tenuto conto che l’articolo 9 della legge numero 47 del 1985, disciplinante la fattispecie all’epoca dei fatti controversi, disponeva la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia eseguite in assenza di concessione.
La denuncia di inizio attività presentata dalla ricorrente nel 2000 non può costituire titolo abilitativo alla realizzazione del soppalco essendo riferita esclusivamente alla manutenzione strutturale dello stesso e non alla realizzazione di esso.
Diversamente si deve ritenere per quanto concerne la suddivisione del bagno preesistente in due nuovi bagni e la chiusura di una porta, trattandosi di opere di manutenzione straordinaria, ad esclusiva rilevanza interna, per le quali non è configurabile la fattispecie della ristrutturazione edilizia.
Ne consegue che il provvedimento impugnato è illegittimo nella misura in cui non si limita ad ordinare la demolizione del soppalco abusivo ma estende la portata dell’ingiunzione ripristinatoria anche alle opere interne rientranti sicuramente nell’ambito della categoria della manutenzione straordinaria.
Il primo motivo di ricorso, quindi, è solo in parte fondato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAll'accertamento dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige né una speciale motivazione sull'interesse pubblico.
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Non è consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
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Con il 2º motivo, la ricorrente deduce il difetto di motivazione dell’ordinanza di demolizione, per carente individuazione dell’interesse pubblico.
Il motivo è palesemente infondato perché all'accertamento dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige né una speciale motivazione sull'interesse pubblico (che è in re ipsa), né la comparazione con quello del privato (giurisprudenza pacifica, ex multis TAR Piemonte, sez. I, 16.03.2017 n. 376).
Con il 3º motivo la ricorrente lamenta la inopportunità del provvedimento impugnato trattandosi di opere modestissime senza alcuna incidenza sul piano urbanistico.
Il motivo è inammissibile non essendo consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto solo in parte e, per l’effetto, il provvedimento impugnato deve essere annullato nella parte in cui estende l’efficacia dell’ordine di demolizione anche alle opere estranee alla categoria edilizia della ristrutturazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI requisiti della certificazione di agibilità di un edificio sono, per unanime giurisprudenza, da rinvenire nella verifica sulla salubrità dell'edificio, posto che il rilascio o il diniego devono essere basati su ragioni prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario ed è altresì previsto che l'agibilità presupponga che si tratti di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al progetto approvato.
A fronte di un'istanza con la quale il titolare di una concessione edilizia, ultimati i lavori, chiede rilasciarsi l'attestazione di abitabilità dei locali, il Comune esercita un potere vincolato ai presupposti di legge, da accertarsi con le dovute cautele tecniche, ma che non può essere ritardato, dilazionato o condizionato a fattori diversi dalla conformità del manufatto realizzato al progetto assentito ed alle regole della tecnica edilizia.
Il comune è tenuto, per unanime giurisprudenza, a verificare l'osservanza non solo delle disposizioni in materia sanitaria ma anche quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali e rispettiva normativa tecnica: se pertanto è legittimo il diniego di abitabilità opposto dall'amministrazione in considerazione delle deficienze igienico-sanitarie riscontrate nei locali altrettanto non può dirsi qualora il diniego trovi il proprio fondamento nell’inadempimento di obblighi cui il privato interessato si era convenzionalmente obbligato al momento di ottenere il titolo edilizio.
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... per l'annullamento nota del comune di bastia umbra p. 12002 del 06.05.2010 con la quale si nega il rilascio dell'agibilità parziale di un immobile.
...
4. Il ricorso è fondato nei limiti che si darà.
4.1. I requisiti della certificazione di agibilità di un edificio sono, per unanime giurisprudenza, da rinvenire nella verifica sulla salubrità dell'edificio, posto che il rilascio o il diniego devono essere basati su ragioni prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario ed è altresì previsto che l'agibilità presupponga che si tratti di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al progetto approvato (TAR Catania, I, 31/10/2008, n. 1898).
4.2. A fronte di un'istanza con la quale il titolare di una concessione edilizia, ultimati i lavori, chiede rilasciarsi l'attestazione di abitabilità dei locali, il Comune esercita un potere vincolato ai presupposti di legge, da accertarsi con le dovute cautele tecniche, ma che non può essere ritardato, dilazionato o condizionato a fattori diversi dalla conformità del manufatto realizzato al progetto assentito ed alle regole della tecnica edilizia.
4.3. Secondo l’art. 29, L.R. Umbria n. 1/2004, il certificato di agibilità attesta che l'opera realizzata corrisponde al progetto comunque assentito, dal punto di vista dimensionale, della destinazione d'uso e delle eventuali prescrizioni contenute nel titolo abilitativo o negli atti di assenso o autorizzazioni rilasciate, nonché attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità degli edifici, di risparmio energetico e di sicurezza degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
5. Nella nota n. 12002 del 06/05/2010, il Comune rilevava che “la pratica per rilascio del certificato di agibilità, benché comprendere certificazioni necessarie, presuppone comunque una verifica generale sulla legittimità dell’intervento nel suo complesso … a tale proposito quest’ufficio non potrebbe reputare regolare l’intervento, mancando l’assolvimento di una condizione prevista dalle stesse N.T.A. del piano che determina la possibilità di assorbire anche il carico urbanistico prodotto dall’intervento stesso”.
5.1. A chiosa della nota, l’Ufficio “rinnova pertanto l’invito alla cessione onde rendere regolare la pratica e definirla in ogni aspetto, tenuto conto che, nel medesimo contesto, lo stesso Ufficio rilevava la piena legittimità ed opportunità delle richiesta formulata alla proprietà di cedere le aree destinate ad urbanizzazione così come previsto dal P.P.E. vigente e come ben noto ai proprietari stessi”.
5.2. Il comune è tenuto, per unanime giurisprudenza, a verificare l'osservanza non solo delle disposizioni in materia sanitaria ma anche quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali e rispettiva normativa tecnica: se pertanto è legittimo il diniego di abitabilità opposto dall'amministrazione in considerazione delle deficienze igienico-sanitarie riscontrate nei locali (Cons. St., sez. V, 15/04/2004, n. 2140) altrettanto non può dirsi qualora il diniego trovi il proprio fondamento nell’inadempimento di obblighi cui il privato interessato si era convenzionalmente obbligato al momento di ottenere il titolo edilizio.
6. Per queste ragioni il diniego come tale è illegittimo e deve essere annullato anche se l’inadempimento del ricorrente agli oneri convenzionalmente assunti priva di fondamento la domanda risarcitoria dei pregiudizi sofferti per l’incommerciabilità da mancato rilascio del certificato di abitabilità trovando, sul piano privatistico totale applicazione la regola riassunto nel brocardo “inadimplenti non est adimplendum” (TAR Umbria, sentenza 04.09.2017 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: AVVOCATI degli Enti Pubblici - Verifica delle presenze e controllo del personale dipendente di Uffici pubblici - PUBBLICO IMPIEGO - Uso di badge e tessere magnetiche.
Le prerogative di autonomia ed indipendenza, nei termini riconosciuti dalla legge di ordinamento professionale agli avvocati degli enti pubblici, non sono lese da ordini di servizio riconducibili alla verifica funzionale del rispetto degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei confronti della persona giuridica pubblica datrice di lavoro, che obbligano anche l’avvocato iscritto all’elenco speciale (Cons. Stato, sez. V, 07/01/2016, n. 2434).
Pertanto, con tali provvedimenti (in specie uso di badge e tessere magnetiche) non si realizza una “indebita ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione d’opera intellettuale propria della professione forense, e cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del 2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme di controllo estrinseco, doverose e coerenti con la partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.08.2017 n. 1368 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa giurisprudenza ha già avuto modo di affrontare (con conclusioni dalle quali non si ravvisano ragioni per discostarsi nella disamina del caso di specie) la questione relativa alla legittimità di misure di matrice regolamentare ed organizzativa preordinate alla verifica delle presenze (segnatamente, attraverso l’uso e il controllo di badge e tessere magnetiche) del personale dipendente di Uffici pubblici che eserciti, iscritto all’apposito albo speciale conservato presso il locale Consiglio dell’ordine, le funzioni di avvocato (c.d. pubblico).
In tale occasione, ha puntualizzato, in termini generali, che le prerogative di autonomia ed indipendenza, nei termini riconosciuti dalla legge di ordinamento professionale agli avvocati degli enti pubblici, non sono lese da ordini di servizio riconducibili alla verifica funzionale del rispetto degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei confronti della persona giuridica pubblica datrice di lavoro, che obbligano anche l’avvocato iscritto all’elenco speciale.
Pertanto, con tali provvedimenti non si realizza una “indebita ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione d’opera intellettuale propria della professione forense, e cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del 2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme di controllo estrinseco, doverose e coerenti con la partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso.
In effetti, l’art. 23 della richiamata legge professionale, di cui i ricorrenti lamentano la violazione, riferisce «la piena indipendenza ed autonomia» soltanto alla ridetta «trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente» e non trasforma affatto, ex lege, l’inerente ufficio in un organo distinto e, comunque, autonomo dal resto dell’ente. Con il che, in definitiva, le predisposte misure organizzative non palesano alcuna incompatibilità con le caratteristiche di autonomia nella conduzione professionale dell’ufficio di avvocatura.
Sotto distinto e concorrente profilo, è del tutto evidente che la programmatica strutturazione di verifiche e controlli sull’attività lavorativa del personale non implica affatto che le peculiarità delle funzioni e delle mansioni esercitate (segnatamente inerenti l’assenza di orari di lavoro prestabiliti e la maggiore autonomia nell’organizzazione dei tempi) possano essere compromesse, limitate o addirittura pretermesse: e ciò in quanto l’attività di controllo e verifica, per sua natura strumentale, deve essere comunque esercitata e valorizzata in considerazione dei profili professionali volta a volta presi in considerazione (ciò che, di fatto, vale anche ad elidere le ragioni di doglianza prospettate in via subordinata, essendo –per l’appunto– evidente che gli auspicati “adattamenti” e/o “correttivi” non riguardano il controllo delle presenze e l’utilizzazione del badge in sé e per sé, ma solo le successive attività amministrative intese alla gestione delle singole e differenziate categorie di personale, ivi compresa, nei sensi chiariti, quella degli avvocati dell’ente).
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... per l'annullamento della nota prot. pg/2016/148770 del 06/07/2016 a firma del Direttore della Funzione Gestione del Personale della A.S.L. di Salerno avente ad oggetto “consegna badge avvocati dirigenti - obbligo di marcatura";
...
1.- I ricorrenti, tutti nella allegata qualità di avvocati-dirigenti in servizio presso l'ASL di Salerno, impugnavano la determinazione, meglio distinta in epigrafe, con la quale l'Amministrazione sanitaria, sulla base del decreto regionale n. 7 del 11.02.2016 recante “Linee di indirizzo per la determinazione dei fondi contrattuali dell'armo 2015 e seguenti e sulla corretta applicazione di alcuni istituti contrattuali aventi rilevanza sui costi del personale", aveva inteso dare attuazione alla previsione regionale.
Lamentavano, in particolare, che l'Azienda sanitaria, con nota prot. PG/2016/148770 del 06.07.2016 a firma del Responsabile del Personale, avesse consegnato i tesserini magnetici anche agli avvocati-dirigenti, ribadendo l'obbligo di marcatura, pena l'adozione di misure disciplinari, asseritamente ignorando il particolare status dei legali e le peculiari modalità con le quali veniva svolta la prestazione lavorativa nell'interesse dell'Ente.
Prospettando plurime violazioni di legge ed eccesso di potere, ribadivano, a sostegno del proposto gravame, che la peculiarità dello status degli avvocati dipendenti degli Enti pubblici appariva, a loro dire, incompatibile con l'utilizzo acritico ed indiscriminato del sistema di rilevazione delle presenze, il quale avrebbe di fatto inevitabilmente comportato una implausibile limitazione dei profili di autonomia professionale e di indipendenza indiscutibilmente riconosciuti dal vigente ordinamento (anche) agli avvocati dipendenti delle amministrazioni.
Segnatamente, spiegavano che la propria attività professionale di avvocati pubblici (per giunta, nel caso di specie, dotati di qualifica dirigenziale e, come tale, senza soggezione al vincolo orario) si svolgeva in larga parte al di fuori dell' ufficio, con la partecipazione alle udienze presso le diverse sedi giudiziarie e con le altre attività procuratorie, con orari non preventivabili né prevedibili; peraltro, anche l'attività svolta all'interno dell'ufficio, essendo legata a scadenze processuali, poteva in alcuni periodi, a causa del sovraccarico di lavoro (o di procedimenti cautelari), richiedere un prolungamento dell'orario di servizio oltre le ore 20,00 (orario di chiusura) o il sabato dopo le 12,00 o la domenica ( quando gli uffici erano chiusi e non utilizzabili): in tali ipotesi (e non solo) i ricorrenti avevano dichiaratamente svolto (e svolgevano tuttora) la loro attività professionale relativa alla redazione di atti presso le loro abitazioni, al fine di non incorrere in responsabilità professionale e/o in ritardi, decadenze e omissioni colpevoli.
Criticamente assumevano, quindi, che, nel descritto contesto, le modalità di svolgimento dell'attività professionale alle dipendenze dell'Azienda sanitaria si palesavano, di fatto, assolutamente incompatibili con il sistema automatico fondato sull'uso generalizzato del badge, così come inopinatamente regolamentato (senza i necessari distinguo) per tutti i dipendenti dell'Azienda sanitaria, ai quali erano stati equiparati i dirigenti avvocati.
Di fatto, in base al contestato regolamento contenuto nella nota prot. n. 159132 del 20/07/16, essi avrebbero dovuto tutti utilizzare il badge oltre che quotidianamente in entrata ed in uscita, anche tutte le volte che si fossero recati presso le sedi giudiziarie (utilizzando il codice I del servizio esterno in entrata ed in uscita e sempre previamente autorizzati per iscritto dal Dirigente Responsabile dell'Avvocatura). Inoltre, le autorizzazioni al permesso esterno degli avvocati dirigenti avrebbero dovuto essere conservate presso l'Ufficio legale, il quale avrebbe avuto l’onere di esibirle su richiesta dei servizi ispettivi interni, dell'Autorità Giudiziaria o della Funzione Gestione del Personale.
Ancora, avrebbero dovuto utilizzare il codice I -servizio esterno- anche presso la Struttura di destinazione (ossia presso le sedi giudiziarie). E le copie delle autorizzazioni al servizio esterno dei dirigenti avvocati con cadenza giornaliera, unitamente ai nominativi degli assenti con le relative motivazioni e l'elenco del personale in servizio esterno per quella giornata avrebbero dovuto essere inviati agli uffici rilevazione presenze i quali avrebbero provveduto, a seguito delle citate comunicazioni -ed insieme alle altre assenze del giorno- a caricare in tempo reale i dati relativi al servizio esterno al fine di consentire agli Uffici centrali ed ai dirigenti delle strutture interessate di avere la situazione presenze/assenze aggiornata in ogni momento.
In definitiva, nel loro complessivo assunto critico, la descritta procedura doveva riguardarsi quale assolutamente incompatibile con la natura della propria attività professionale, risultando, altresì, lesiva della rivendicata indipendenza ed autonomia professionale.
Nel quadro delineato, emergono, perciò, asseritamente palesi il denunziato difetto di istruttoria e la decotta carenza di motivazione alla base dei provvedimenti posti in essere dall'Azienda sanitaria, che  a loro dir si sarebbe acriticamente limitata a recepire le previsioni regionali che, ad un attento esame, avrebbero potuto e dovuto riferirsi esclusivamente agli altri dipendenti dell’Ente (e, in particolare, esclusivamente al personale medico e sanitario).
Concludevano, per tal via, per l’integrale accoglimento del gravame, con annullamento dei provvedimenti impugnati.
In via subordinata, invocavano in ogni caso l’annullamento in parte qua, id est nella parte in cui l'Amministrazione, in modo comunque asseritamente illogico ed apodittico, non aveva previsto alcun correttivo e/o diversa modalità di utilizzazione del badge, che tenesse conto delle esigenze e della particolare natura dell'attività professionale svolta dai ricorrenti.
...
1.- Il ricorso non è fondato e merita di essere respinto.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affrontare (con conclusioni dalle quali non si ravvisano ragioni per discostarsi nella disamina del caso di specie) la questione –che viene sottoposta odiernamente all’attenzione del Collegio– relativa alla legittimità di misure di matrice regolamentare ed organizzativa preordinate alla verifica delle presenze (segnatamente, attraverso l’uso e il controllo di badge e tessere magnetiche) del personale dipendente di Uffici pubblici che eserciti, iscritto all’apposito albo speciale conservato presso il locale Consiglio dell’ordine, le funzioni di avvocato (c.d. pubblico).
In tale occasione, Cons. Stato, sez. V, 07.06.2016, n. 2434 ha puntualizzato, in termini generali, che le prerogative di autonomia ed indipendenza, nei termini riconosciuti dalla legge di ordinamento professionale agli avvocati degli enti pubblici, non sono lese da ordini di servizio riconducibili alla verifica funzionale del rispetto degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei confronti della persona giuridica pubblica datrice di lavoro, che obbligano anche l’avvocato iscritto all’elenco speciale.
Pertanto, con tali provvedimenti non si realizza una “indebita ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione d’opera intellettuale propria della professione forense, e cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del 2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme di controllo estrinseco, doverose e coerenti con la partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso.
In effetti, l’art. 23 della richiamata legge professionale, di cui i ricorrenti lamentano la violazione, riferisce «la piena indipendenza ed autonomia» soltanto alla ridetta «trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente» e non trasforma affatto, ex lege, l’inerente ufficio in un organo distinto e, comunque, autonomo dal resto dell’ente. Con il che, in definitiva, le predisposte misure organizzative non palesano alcuna incompatibilità con le caratteristiche di autonomia nella conduzione professionale dell’ufficio di avvocatura.
Sotto distinto e concorrente profilo, è del tutto evidente che la programmatica strutturazione di verifiche e controlli sull’attività lavorativa del personale non implica affatto –come paventato dai ricorrenti– che le peculiarità delle funzioni e delle mansioni esercitate (segnatamente inerenti l’assenza di orari di lavoro prestabiliti e la maggiore autonomia nell’organizzazione dei tempi) possano essere compromesse, limitate o addirittura pretermesse: e ciò in quanto l’attività di controllo e verifica, per sua natura strumentale, deve essere comunque esercitata e valorizzata in considerazione dei profili professionali volta a volta presi in considerazione (ciò che, di fatto, vale anche ad elidere le ragioni di doglianza prospettate in via subordinata, essendo –per l’appunto– evidente che gli auspicati “adattamenti” e/o “correttivi” non riguardano il controllo delle presenze e l’utilizzazione del badge in sé e per sé, ma solo le successive attività amministrative intese alla gestione delle singole e differenziate categorie di personale, ivi compresa, nei sensi chiariti, quella degli avvocati dell’ente).
2.- Il complesso delle esposte ragioni induce, in definitiva, alla complessiva reiezione del gravame (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.08.2017 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi dibatte sulla non automaticità della proroga del termine di efficacia della concessione edilizia nell’ipotesi prevista dall’art. 15, comma 2-bis, del D.P.R. n. 380/2001 (comma inserito dall'art. 17, comma 1, lett. f), n. 2), del decreto-legge 12.12.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164), secondo cui la «proroga dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate».
Invero, la norma deve essere letta alla luce della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che si articola intorno a tre fondamentali statuizioni:
  
con la prima, si afferma che in nessuna ipotesi i termini di efficacia del permesso di costruire possono ritenersi automaticamente sospesi;
  
con la seconda, si sostiene che è sempre necessaria la presentazione, da parte dell’interessato, di una formale istanza di proroga;
  
con la terza, si ritiene sempre necessario il provvedimento espresso di proroga anche se si tratta di attività vincolata con effetti ex tunc.
Peraltro, deve rammentarsi che la medesima giurisprudenza ha distinto l’ipotesi del sequestro penale del cantiere, ritenendo che questo caso integri una automatica sospensione del termine per l’esecuzione dei lavori oggetto del permesso di costruire.
La norma del comma 2-bis dell’art. 15 cit., come introdotta nel 2014, muove quindi dal descritto quadro giurisprudenziale per chiarire testualmente che, nei casi in cui l’iniziativa amministrativa o giudiziaria si riveli infondata, come nella fattispecie, la proroga dei termini è automatica.
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... per l'annullamento del provvedimento del Responsabile dell'Area Tecnico del Comune di Domus De Maria con il quale è stato negato l'assenso alla ripresa dei lavori relativi alla concessione edilizia n. 5/2008, rilasciata il 13.02.2008;
...
1. - Con il ricorso in esame, la società No. s.r.l. riferisce di essere proprietaria di un'area sita nel territorio del Comune di Domus de Maria, località Eden Rock, sulla quale era in corso la realizzazione di 14 unità abitative, in forza delle concessioni edilizie n. 5/2008 e n. 20/2009, rilasciate dal Comune di Domus De Maria.
In data 07.07.2010, il relativo cantiere è stato sottoposto a sequestro preventivo penale, poiché, secondo le contestazioni mosse dalla Procura della Repubblica di Cagliari, le opere in corso di realizzazione sarebbero state abusive. Peraltro, con sentenza del Tribunale penale di Cagliari del 02.10.2015, il legale rappresentante della No. s.r.l. è stato prosciolto essendosi estinto il reato per intervenuta prescrizione.
Con ordinanza del medesimo Tribunale, del 17.03.2016, l'area di cui sopra è stata dissequestrata e, in data 05.05.2016, restituita alla società.
2. - Con nota del 12.05.2016, la società No. –sul presupposto dell’intervenuto dissequestro del cantiere– comunicava al Comune di Domus de Maria di voler riprendere i lavori a partire dal 31 maggio successivo. Il Responsabile dell'Area Tecnica, tuttavia, con la nota del 13.07.2016, rendeva noto alla società «di non poter autorizzare la ripresa dei lavori in quanto il piano di Lottizzazione Eden Rock non sarebbe stato attuato validamente perché privo della relativa convenzione e perché il calcolo della volumetria relativo alla c.e. 5/08 non sarebbe stato computato regolarmente».
...
Nel merito, conclude per il rigetto del ricorso.
5. - All’udienza pubblica del 14.06.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. - L’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa comunale si fonda sulla ritenuta non automaticità della proroga del termine di efficacia della concessione edilizia nell’ipotesi prevista dall’art. 15, comma 2-bis, del D.P.R. n. 380/2001 (comma inserito dall'art. 17, comma 1, lett. f), n. 2), del decreto-legge 12.12.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164), secondo cui la «proroga dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate».
La norma deve essere letta alla luce della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che si articola intorno a tre fondamentali statuizioni: con la prima, si afferma che in nessuna ipotesi i termini di efficacia del permesso di costruire possono ritenersi automaticamente sospesi; con la seconda, si sostiene che è sempre necessaria la presentazione, da parte dell’interessato, di una formale istanza di proroga; con la terza, si ritiene sempre necessario il provvedimento espresso di proroga anche se si tratta di attività vincolata con effetti ex tunc (per tutte, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 23.02.2012, n. 974).
Peraltro, deve rammentarsi che la medesima giurisprudenza ha distinto l’ipotesi del sequestro penale del cantiere, ritenendo che questo caso integri una automatica sospensione del termine per l’esecuzione dei lavori oggetto del permesso di costruire (si veda Consiglio di Stato, Sez. V, 26.04.2005, n. 1895; III, 04.04.2013, n. 1870). Giurisprudenza seguita sul punto anche da questo Tribunale (cfr. TAR Sardegna, II, 01.03.2016, n. 195; II, 16.01.2017, n. 17).
La norma del comma 2-bis dell’art. 15 cit., come introdotta nel 2014, muove quindi dal descritto quadro giurisprudenziale per chiarire testualmente che, nei casi in cui l’iniziativa amministrativa o giudiziaria si riveli infondata, come nella fattispecie, la proroga dei termini è automatica.
Applicando gli enunciati principi al caso di specie, rammentato (in punto di fatto) che la prima concessione edilizia è stata rilasciata il 13.02.2008 (e la variante in corso d’opera l’11.05.2009); e che il sequestro preventivo del cantiere ha imposto la sospensione dei lavori dal 01.07.2010 al 05.05.2016, ne deriva come conseguenza che all’epoca della comunicazione della ricorrente di voler riprendere i lavori (12.05.2016) il termine triennale per l’esecuzione non era ancora decorso.
Da quanto osservato, discende che la società ricorrente ha interesse a ottenere l’annullamento della nota del responsabile dell’area tecnica del Comune, di cui in epigrafe, e a riprendere i lavori.
7. - Passando all’esame dei motivi proposti col ricorso, si deve iniziare dalla dedotta violazione del principio della esecutività dei provvedimenti amministrativi, la cui efficacia giuridica non è impedita dalla eventuale sussistenza di vizi di legittimità, salvo l’esercizio dei poteri di autotutela che, nel caso di specie, non si è verificato.
8. - Il motivo è manifestamente fondato.
Come si evince dalla motivazione del provvedimento impugnato, riferita in fatto, la comunicazione di non poter riprendere i lavori per completare gli interventi autorizzati non si basa, in realtà, sulla intervenuta scadenza del termine di efficacia della concessione edilizia a suo tempo rilasciata, ma esclusivamente su considerazioni attinenti alla validità del piano di lottizzazione “Eden Rock” e della concessione edilizia.
Motivazione sicuramente illegittima, considerato che gli atti amministrativi in questione non erano mai stati annullati, né l’amministrazione comunale ha provveduto ad avviare il necessario procedimento per l’annullamento d’ufficio. Pertanto, si tratta di atti ancora efficaci (secondo il pacifico principio della imperatività del provvedimento amministrativo) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 30.08.2017 n. 569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA Il Collegio non ignora il diffuso e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi in cui (trattandosi di contro-operare rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.

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FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito, An. Di Do., come in atti rappresentata e difesa, premetteva di essere proprietaria, nel centro urbano di Vallata (AV), di un fabbricato ad uso abitazione (distinto in Catasto Fabbricati al foglio 17, p.lla 130), con antistante un deposito interrato (distinto in Catasto al foglio 17, p.lla 131), avente copertura a livello dell'area pubblica limitrofa.
Detta copertura, praticabile ma non carrabile, assolveva ad una duplice funzione: a) evitare infiltrazioni nel locale deposito sottostante, realizzato con volte in pietra; b) consentire il collegamento del fabbricato con la proprietà pubblica.
Tanto premesso, esponeva che in data 05.11.2015, con nota assunta al prot. n. 7031, aveva provveduto a dare comunicazione all'Ente dell’esercizio di attività edilizia libera, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.P.R. 380/2001 e s.m.i., segnatamente esplicitando di voler realizzare interventi di manutenzione ordinaria sulla sua proprietà, consistenti in: a) sistemazione della pavimentazione esterna; b) rappezzi di intonaco esterno; c) tinteggiatura esterna.
Precisava che, a seguito di tale comunicazione, senza che il Comune di Vallata sollevasse obiezioni di sorta, decorso un congruo termine, aveva proceduto alla sostituzione della pavimentazione ammalorata esistente sull'area antistante la propria abitazione, apposta sulla copertura a livello del suolo del sottostante locale deposito.
Peraltro, successivamente alla esecuzione dei lavori, in data 07.01.2016, l'Ufficio Tecnico Comunale ed il Comando Polizia Municipale, dichiaratamente a seguito di una segnalazione privata, avevano effettuato un accertamento sui luoghi, constatando l’apposizione, senza la prescritta autorizzazione, di tre fioriere infisse sulla pavimentazione tramite tasselli in ferro.
Ne era seguita la nota prot. n. 672 del 29.01.2016, con la quale l'U.T.C. aveva sollecitato la rimozione delle fioriere nonché successiva ordinanza –conseguente a vana interlocuzione procedimentale– recante ingiunzione di provvedere ad horas alla rimozione dei manufatti de quibus, disattesa la quale il Comune aveva da, ultimo, provveduto alla comminata esecuzione in danno.
L’intera vicenda era stata, in ogni caso, oggetto di impugnativa dinanzi all’intestato Tribunale (con ricorso rubricato al n. RG n. 872/2016).
Sennonché, con successiva nota prot. 2809 del 05.05.2016, l'U.T.C. del Comune di Vallata aveva comunicato (contestualmente alla partecipazione dell’avvenuta rimozione in danno delle fioriere di cui si è detto) che, da una verifica più approfondita in loco, si era riscontrato che ricorrente avrebbe pavimentato parte del suolo pubblico per circa mq. 6,00, con conseguente diffida alla rimozione della pavimentazione entro venti giorni.
La ricorrente aveva, peraltro, riscontrato la nota de qua, criticamente evidenziando: a) che l'attività posta in essere era consistita esclusivamente nella sostituzione della pavimentazione preesistente, ormai dissestata, apposta su un locale deposito di proprietà, costruito agli inizi del secolo scorso; b) che la pavimentazione rispettava le dimensioni e la giacitura di quella preesistente da tempo immemorabile, senza che mai alcuno avesse avuto alcunché da contestare; c) che l'area pavimentata era stata anche delimitata, in maniera unilaterale, dal Comune di Vallata, alcuni mesi prima, allorché l'Ente aveva proceduto alla pavimentazione dell'adiacente area comunale e, pertanto, gli spazi erano predeterminati senza possibilità di modifiche; d) che qualsiasi presunta verifica effettuata unilateralmente dal Comune doveva ritenersi arbitraria e priva di efficacia.
Vane le riassunte rimostranze, in data 13.06.2016 le era stata notificata l'ordinanza n. 23, prot. 3602 del 10.06.2016 del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Vallata, con la quale si ingiungeva “di demolire le opere abusive descritte in premessa (presunta pavimentazione in pietra bocciardata di parte di suolo pubblico per circa mq. 6,00) e di ripristinare lo stato dei luoghi a proprie cure e spese, entro e non oltre il termine di giorni 60 dalla notifica”.
Avverso tale, lesiva determinazione insorgeva, lamentandone l’illegittimità sotto plurimo profilo.
2.- Il Comune di Vallata, benché ritualmente intimato, non si costituiva in giudizio.
Alla pubblica udienza del 24.05.2017, sulle reiterate conclusioni del difensore di parte ricorrente, la causa veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto, nei sensi delle considerazioni che seguono.
Osserva il Collegio che –tra le varie ed articolate ragioni di doglianza (con le quali la ricorrente, in sostanza, mira a contestare la correttezza, la completezza e l’esattezza degli accertamenti e delle verifiche compiute dall’Amministrazione nell’apprezzamento del ritenuto sconfinamento della realizzata pavimentazione in area pretesamente pubblica)– debba darsi prioritaria ed assorbente considerazione a quella con la quale si lamenta la pretermissione del necessario momento partecipativo, essendo stata l’ordinanza impugnata notificata –all’esito della mera comunicazione delle verifiche– senza la prescritta comunicazione di avvio del relativo procedimento e, soprattutto, senza l’effettiva partecipazione della ricorrente (che pure aveva vanamente fatto istanza di accesso endoprocedimentale agli atti istruttori unilateralmente adottati dall’Amministrazione) alle misurazioni ed ai riscontri assunti a presupposto della contestata misura ingiuntiva.
In proposito, il Collegio, beninteso, non ignora il diffuso e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620): tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi –come quello oggetto di controversia– in cui (trattandosi di contro-operare rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.
I rilievi che precedono acquistano significato con l’ulteriore osservazione che, alla luce delle attoree doglianze, non emerge de plano che il contenuto della contestata ordinanza (la quale si fonda, in fatto, sulla riscontrata “invasione” della proprietà pretesamente pubblica per soli 6 mq) fosse vincolato nel senso della pedissequa ingiunzione ripristinatoria: e ciò proprio a ragione delle obiettive difficoltà ed incertezze nella misura degli effettivi sconfinamenti, che solo una verifica congiunta, ed assunta in contraddittorio, avrebbe consentito di ritenere validata da congruo apprezzamento istruttorio, effettuato in presenza del soggetto concretamente interessato.
Ne discende che il ricorso debba essere accolto, con assorbente valorizzazione della argomentata regola partecipativa, spettando all’Amministrazione, in prospettiva conformativa, l’onere di procedere alla integrale rinnovazione del procedimento, previa attivazione di effettivo contraddittorio procedimentale con la ricorrente, che dovrà prendere parte anche alle nuove verifiche istruttorie.
2.- In tali sensi dovendosi accogliere il gravame (con assorbimento di tutti gli altri motivi di doglianza proposti), sussistono i presupposti –restando, allo stato, impregiudicato l’apprezzamento del merito dei contestati abusi– per dichiarare irripetibili (in difetto di costituzione dell’Ente intimato) spese e competenze di lite, fatto salvo il diritto al rimborso del contributo unificato versato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.08.2017 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'ordinanza contingibile ed urgente, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 e per “lo smontaggio e la rimozione della gru posizionata nel cortile di cantiere” sul presupposto che non viene più utilizzata da molto tempo e che -pertanto- non è giustificato il mantenimento dell’impianto di cantiere, non essendovi alcun indizio concreto della pericolosità della gru per l’incolumità pubblica e per la sicurezza degli abitanti del quartiere.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di Chieri n. 49/2017 del 16.03.2017, avente ad oggetto l’eliminazione del cantiere e lo smontaggio della gru in Chieri, via ... n. 10;
...
Premesso, in fatto:
   - che il Comune di Chieri, con il provvedimento dirigenziale qui impugnato, ha ordinato alla società ricorrente “lo smontaggio e la rimozione della gru posizionata nel cortile interno in via ... 10” entro novanta giorni;
   - che l’ordinanza è motivata con riferimento alla circostanza che la gru, installata in occasione dell’esecuzione dei lavori di cui alla d.i.a. n. 788 del 1996, alla concessione edilizia n. 2 del 1997 ed al permesso di costruire n. 479/2013 (per rifacimento del tetto, risanamento del solaio, cambio di destinazione d’uso con opere murarie, realizzazione di finestre), non viene più utilizzata da molto tempo e che, pertanto, non è giustificato il mantenimento dell’impianto di cantiere;
   - che, nella premessa dell’ordinanza, viene richiamato l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 nonché, in termini generici, il titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001;
   - che la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e l’eccesso di potere sotto molteplici profili;
   - che il Comune di Chieri non si è costituito in giudizio e, pur sollecitato a depositare una relazione sui fatti di causa (con ordinanza di questa Sezione n. 776/2017), non ha ottemperato all’ordine;
Ritenuto, in diritto:
   - che il ricorso è manifestamente fondato;
   - che la gru, secondo quanto affermato in ricorso, è ininterrottamente presente in loco da almeno dieci anni, che non risulta che la società titolare del cantiere ne abbia trascurato la manutenzione, che il Comune non ne ha accertato la pericolosità;
   - che il provvedimento comunale è affetto da assoluta carenza di motivazione, in relazione ai presupposti richiesti per l’emissione di un’ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non essendovi alcun indizio concreto della pericolosità della gru per l’incolumità pubblica e per la sicurezza degli abitanti del quartiere;
   - che neppure l’ordinanza risulta giustificata mediante il generico richiamo del titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, non trattandosi di opera edilizia tale da configurare un abuso sanzionabile con l’ordine di rimozione;
   - che, in ogni caso, la società ricorrente ha comunicato al Comune di Chieri, con lettera protocollata in data 11.07.2017, il piano di lavoro per la rimozione delle lastre d’amianto sul fabbricato situato in prossimità del cortile di via ..., nell’ambito di un progetto di recupero per il quale è stato richiesto al Comune il rilascio del permesso di costruire e del nulla-osta paesaggistico;
   - che resta salvo, in ogni caso, il potere del Comune di vigilare sulla stabilità della gru e sulla corretta manutenzione dell’impianto di cantiere, di cui è onerata la società proprietaria;
Ritenuto, in conclusione, che il ricorso è fondato e va accolto, con condanna del Comune di Chieri alla refusione delle spese processuali nella misura indicata in dispositivo (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 24.08.2017 n. 1027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Proprio in riferimento alle procedure di evidenza pubblica e alla posizione differenziata dell’aggiudicatario, ai fini dell’applicazione delle garanzie partecipative di cui agli articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990, la giurisprudenza ha più volte osservato che non sussiste la violazione dell’articolo 7 cit. se all'interessato sia stata comunque data aliunde informazione dell'avvio del procedimento, con conseguente possibilità di rappresentarvi le proprie valutazioni; ciò in quanto l’invocata disposizione non deve essere interpretata ed applicata in modo formalistico, ma con riferimento alla sua ratio, di assicurare la partecipazione del privato interessato al procedimento amministrativo, con la conseguenza che l'eventuale omissione dell'adempimento non determina illegittimità dell'azione amministrativa, laddove il destinatario abbia avuto, comunque e aliunde, conoscenza del procedimento in corso, con conseguente possibilità di parteciparvi.
D’altra parte, tale interpretazione è coerente con la finalità sostanziale di tali norme, finalizzata all'emanazione di un provvedimento "giusto" e cioè conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost., così che alla loro violazione (o omissione) non consegue necessariamente l'illegittimità del provvedimento emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso, anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo.
Inoltre, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi.
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Allorquando il provvedimento di autotutela è fondato sulla necessità di prevenire ingiustificati esborsi di denaro pubblico tale circostanza esclude in radice la configurabilità della tutela dell’affidamento del privato.

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17. Come detto (§10.2.), il primo giudice, nel verificare in concreto il potere di autotutela esercitato, ha ritenuto sussistenti tutti gli altri presupposti previsti; le relative statuizioni sono state censurate con i motivi di appello dal quinto all’ottavo.
17.1. Innanzitutto, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata alla comunicazione di avvio del procedimento.
17.1.1. Il primo giudice ha ritenuto sussistente tale requisito sulla base di due argomentazioni: a) l’avvio del procedimento di autotutela coincide con gli atti conosciuti ed impugnati con il ricorso principale, contenenti il primo la sospensione dell’ultima delibera della procedura, il secondo una mozione di indirizzo per procedere alla verifica in autotutela; b) comunque, i provvedimenti adottati non avrebbero potuto essere differenti, come risulta chiaro dalle plurime illegittimità rilevate.
17.1.2. Il giudice ha fatto corretta applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza, e non ha alcun pregio la tesi dell’impresa appellante (ottavo motivo), secondo la quale la comunicazione non potrebbe identificarsi con gli atti impugnati con il ricorso principale, quantomeno per la mancanza di identità tra l’oggetto e le motivazioni alla base del provvedimento di sospensione e quelli di annullamento.
17.1.3. Infatti, proprio in riferimento alle procedure di evidenza pubblica e alla posizione differenziata dell’aggiudicatario, ai fini dell’applicazione delle garanzie partecipative di cui agli articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990, la giurisprudenza ha più volte osservato che non sussiste la violazione dell’articolo 7 cit. se all'interessato sia stata comunque data aliunde informazione dell'avvio del procedimento, con conseguente possibilità di rappresentarvi le proprie valutazioni (Cons. Stato, sez. V, n. 5032 del 2011; sez. VI, n. 1476 del 2011; n. 7607 del 2009; sez. IV, n. 1207 del 2009); ciò in quanto l’invocata disposizione non deve essere interpretata ed applicata in modo formalistico, ma con riferimento alla sua ratio, di assicurare la partecipazione del privato interessato al procedimento amministrativo, con la conseguenza che l'eventuale omissione dell'adempimento non determina illegittimità dell'azione amministrativa, laddove il destinatario abbia avuto, comunque e aliunde, conoscenza del procedimento in corso, con conseguente possibilità di parteciparvi.
D’altra parte, tale interpretazione è coerente con la finalità sostanziale di tali norme, finalizzata all'emanazione di un provvedimento "giusto" e cioè conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost., così che alla loro violazione (o omissione) non consegue necessariamente l'illegittimità del provvedimento emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso, anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo (Cons. Stato, sez. V, n. 5863 del 2015).
17.2. Inoltre, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi.
17.2.1. Il primo giudice, in più occasioni nel corpo della sentenza, ha dato atto correttamente che le illegittimità acclarate dei provvedimenti annullati risultavano anche dai provvedimenti di annullamento emessi in autotutela. In particolare, in riferimento ad una specifica censura dell’originaria ricorrente, ha precisato che non sussiste l’obbligo dell’amministrazione di richiedere il parere di altre amministrazioni, nella specie la Provincia, o di legali esterni, rientrando l’atto di autotutela nelle competenze specifiche del Comune.
Tanto più questo è vero allorquando il provvedimento di autotutela è fondato, come nel caso di specie, sulla necessità di prevenire ingiustificati esborsi di denaro pubblico, circostanza questa che esclude in radice la configurabilità della tutela dell’affidamento del privato (cfr. sul punto, proprio con riferimento all’autoannullamento di un bando di ERS, Cons. Stato, sez. V, n. 5862 del 2015 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la costruzione di un manufatto costituito da una struttura lignea di sostegno a un pergolato realizzata su pianta di m. 4,93 x 2,53, non ancorata al suolo, e dotata di una copertura in lastre e cannette anche queste amovibili poiché solo appoggiate.
Il manufatto oggetto di contestazione è un pergolato adibito all’arredo di uno spazio esterno completamente aperto sui lati e dotato di una copertura amovibile pertanto, sotto un primo profilo, rientra nelle illustrate tipologie di interventi liberalizzati ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001.
La posizione espressa trova conferma nella più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha ritenuto la legittimità di simili manufatti aventi struttura in legno ad uso pergolato aperta su più lati ed avente una copertura amovibile poiché inidonee a costituire volume urbanistico.
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A seguito di sopralluogo eseguito in data 03.08.2010, personale del Comune di Lugagnano Val d’Arda (di seguito Comune) rilevava nell’area di pertinenza dell’abitazione del ricorrente la presenza di “una struttura lignea fissata al suolo in maniera non permanente con caratteristiche di elemento di sostegno per un pergolato, ma dotata di copertura di lastre e cannette”.
Con ordinanza n. 41 del 09.08.2010 l’Amministrazione ordinava l’immediata sospensione dei lavori “al fine di poter adottare i provvedimenti definitivi” e, ritenendo che la descritta copertura, ancorché “di materiale totalmente amovibile”, facesse “perdere le caratteristiche di elemento di arredo alla struttura, assimilandola a una struttura edilizia soggetta al rispetto delle distanze dai confini di proprietà e agli altri parametri urbanistici e edilizi”, con successivo provvedimento dirigenziale n. 5 del 22.02.2012, irrogava al ricorrente proprietario la sanzione pecuniaria ex art. 16 della L.R. n. 23/2004 nella misura di € 9.152,00.
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L’odierna controversia verte sulla qualificazione di un manufatto costituito da una struttura lignea di sostegno a un pergolato realizzata su pianta di m. 4,93 x 2,53, non ancorata al suolo, e dotata di una copertura in lastre e cannette anche queste amovibili poiché solo appoggiate che l’Amministrazione, in ragione della sola presenza di una copertura ancorché amovibile, riteneva dovesse essere assentita previa acquisizione di titolo edilizio.
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce “eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità, irragionevolezza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione, travisamento dei fatti”.
Espone il ricorrente che la struttura in questione (un pergolato), in quanto leggera, amovibile e di modeste dimensioni e avente natura ornamentale, non necessiterebbe di titolo abilitativo né tale necessità potrebbe derivare dalla sola circostanza che presenta una copertura.
In ricorso si evidenzia in particolare che sebbene la Commissione provinciale VAM si fosse espressa nel senso di considerare soggetto a titolo edilizio qualsiasi manufatto che presenti una copertura, di qualunque natura essa sia, tale posizione contrasterebbe con la circolare dell’Assessorato Regionale Programmazione Territoriale Urbanistica, recante “Indicazioni applicative in merito all’art. 6 del D.P.R: n. 380 del 2001 relativo all’attività edilizia libera” del 02.08.2010 che al paragrafo 6.1.4 farebbe rientrare in questa tipologia di interventi gli elementi di arredo delle aree pertinenziali con l’esclusione delle sole opere che comportino superfici computabili come utili o accessorie ricomprendendo fra le attività libere anche “le coperture avvolgibili o retrattili di telo impermeabile” e ritenendo ulteriormente che “possano essere equiparati a tali elementi di arredo anche i gazebo ma solo se completamente aperti sui lati e coperti con teli amovibili” (pag. 6 del ricorso).
Ne deriverebbe che non sarebbe la copertura a determinare di per sé la necessità di un titolo abilitativo ma rileverebbe a tal fine la tipologia di copertura utilizzata.
A favore della tesi fatta propria dall’Amministrazione non potrebbe inoltre essere invocato l’Atto di coordinamento sulle definizioni tecniche uniformi per l’urbanistica e l’edilizia e sulla documentazione necessaria per i titoli abilitativi edilizi approvato con delibera assembleare n. 279 del 04.02.2010 che al punto 59 dell’allegato A definisce il pergolato come una “struttura autoportante, composta di elementi verticali e di sovrastanti elementi orizzontali, atta a consentire il sostegno del verde rampicante e utilizzata in spazi aperti a fini di ombreggiamento” precisando che “sul pergolato non sono ammesse coperture impermeabili” poiché, sotto un primo profilo, tale fonte non viene richiamata nel provvedimento impugnato e, sotto un secondo profilo, perché la copertura rilevata, in quanto composta da elementi appoggiati e privi di fissaggio e di saldatura o ancoraggio (fra loro e rispetto alla struttura portante), non sarebbe impermeabile.
Il motivo è fondato.
L’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede che “nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale, possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo i seguenti interventi: … e) le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”.
La citata circolare regionale del 02.08.2010, esplicativa dei criteri applicativi della norma sopra riportata, comprende tra gli interventi liberalizzati “ai sensi del comma 2 del nuovo art. 6” gli spazi adibiti ad arredo pertinenziale costituiti da “elementi di arredo di spazi esterni (giardini, cortili, corti interne, ecc.)” menzionando espressamente fra questi “i pergolati; le pensiline; le tettoie con profondità inferiore a 1,50 m; ed inoltre i barbecue e i forni in muratura, il manufatto esterno del pozzo, le coperture avvolgibili o retrattili di telo impermeabile, le piccole fontane e gli altri manufatti con analoghe caratteristiche. Si ritiene che possano essere equiparati a tali elementi di arredo anche i gazebo, ma solo se completamente aperti sui lati e coperti con teli amovibili”.
Ciò premesso deve rilevarsi che il manufatto oggetto di contestazione è un pergolato adibito all’arredo di uno spazio esterno completamente aperto sui lati e dotato di una copertura amovibile pertanto, sotto un primo profilo, rientra nelle illustrate tipologie di interventi liberalizzati ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001 (come peraltro riconosciuto dalla stessa Amministrazione a pag. 3, ultimo cpv. della memoria di costituzione); sotto altro profilo, non rientra nella fattispecie ostativa di cui al citato Atto di coordinamento regionale poiché la copertura, in quanto composta da “lastre [di policarbonato] e cannette”, come già evidenziato appoggiate prive di ancoraggio o elementi di vincolo o saldatura tanto con la struttura portante quanto fra le stesse, non può essere considerata impermeabile poiché inidonea, in ragione delle descritte caratteristiche strutturali a proteggere da agenti atmosferici.
La posizione espressa trova conferma nella più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha ritenuto la legittimità di simili manufatti aventi struttura in legno ad uso pergolato aperta su più lati ed avente una copertura amovibile poiché inidonee a costituire volume urbanistico (Cons. Stato, Sez. VI, 15.11.2016 n. 4711).
La fondatezza del primo motivo di ricorso, e la conseguente illegittimità, della misura applicata, assorbe le doglianze oggetto del secondo mezzo di impugnazione teso a contestare la quantificazione della sanzione.
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 14.08.2017 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito inquinato, non è configurabile nei confronti di colui che, quand'anche proprietario del terreno, non abbia cagionato l'inquinamento del sito stesso.
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1.4. Venendo al quarto motivo, inerente le condotte di omessa comunicazione di cui ai capi e) ed f) peraltro ritenute dal Tribunale e dalla Corte fiorentina integrare un unico reato, lo stesso è anzitutto infondato laddove lamenta la carenza di motivazione circa il necessario presupposto del reato rappresentato dalla riconducibilità all'imputato delle contaminazioni dei terreni di proprietà Ch. cui avrebbe dovuto far seguito l'obbligo di comunicazione di cui all'art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Va infatti rammentato che, come già chiarito da questa Corte, il reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito inquinato, non è configurabile nei confronti di colui che, quand'anche proprietario del terreno, non abbia cagionato l'inquinamento del sito stesso (Sez. 3, n. 18503 del 16/03/2011, dep. 11/05/2011, Burani, Rv. 250143).
Nella specie, allora, e prendendo in esame anzitutto l'omessa comunicazione inerente la contaminazione dei terreni appartenenti alla Ch. di cui al capo e) (dovendo comunque necessariamente distinguersi, pur nella ritenuta unicità del reato, le due addebitate omissioni in ragione di quanto oltre si preciserà), la Corte territoriale, pur prendendo atto del fatto che la contaminazione ebbe ad intervenire negli anni 70/80, quando amministratore unico della Ch. era ancora il rag. Va.Mo., e pur prendendo implicitamente atto, dunque, del fatto, che Sq. lo sarebbe diventato solo successivamente, ha ugualmente ritenuto provata la commissione dell'inquinamento ad opera dell'imputato personalmente ponendo correttamente in rilievo la posizione rivestita di direttore dello stabilimento (già evidenziata del resto dalla sentenza di primo grado con riferimento agli anni dal 1980 al 1982) tale, evidentemente, da consentirgli, quanto meno, di concorrere, nella specie, nelle decisioni relative alla destinazione dei fanghi sicuramente provenienti dalla Ch. stessa (sul ruolo e la responsabilità del direttore tecnico dello stabilimento vedansi Sez. 3, n. 2485 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008, Marchi, Rv. 238594; Sez. 3, n. 11033 del 21/10/1993, dep. 02/12/1993, Negro, Rv. Rv e, Sez. 3, n. 9776 del 30/04/1987, dep. 07/09/1987, Baruchello, Rv. 176638) tanto più avendo lo stesso imputato, in una nota datata 11/02/1981, riconosciuto lo spandimento come fertilizzante sui terreni a disposizione della società (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.08.2017 n. 38674).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di un edificio esistente in altro sito, seppur nello stesso lotto, ma non nella stessa area di sedime, non è un'ipotesi di ristrutturazione ma di nuova costruzione.
Come rilevato dalla giurisprudenza, l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso soltanto laddove si contesti l’an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente.
In particolare è stato affermato che:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente (in quest’ambito giuoca un ruolo importante l’eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia);
   b) l’obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa.
La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente;
   c) la richiesta di accesso non è comunque idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti. Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.
Quanto al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare che la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare che la “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
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Come correttamente rilevato dal Tar, il progetto assentito con i permessi di costruire impugnati, prevedendo la realizzazione di un intervento di demolizione e ricostruzione con sagoma, volumi e collocazione diversi rispetto al fabbricato preesistente, non può configurare una ristrutturazione edilizia ma è da inquadrare tra le nuove costruzioni.
La ricostruzione di un edificio esistente in altro sito, seppur nello stesso lotto, ma non nella stessa area di sedime, integra infatti a tutti gli effetti un nuovo edificio. La giurisprudenza è costante nel ritenere ciò ed il Collegio concorda con tale orientamento.
D’altra parte, anche le successive modifiche al DPR n. 380 del 2001, ascrivibili al c.d. “Decreto del fare” (D.L. n. 69 del 2013 convertito in nella legge n. 98 del 2013), hanno eliminato il vincolo della sagoma di fatto ampliando il concetto di ristrutturazione, ma non hanno modificato l’obbligo che l’edificio ricostruito/ristrutturato insista nella stessa area di sedime.
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... per la riforma della sentenza 12.06.2009 n. 1480 del Tar per la Puglia, sede staccata di Lecce, Sez. III, resa tra le parti, concernente i permessi di costruire rilasciati dal comune di Laterza al signor Ar.Ta..
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1. Con provvedimento del 25.08.2004 n. 104 il comune di Laterza ha rilasciato al signor An.Ta. un permesso di costruire avente ad oggetto la realizzazione di lavori di demolizione e ricostruzione di un fabbricato di civile abitazione e di un locale commerciale.
2. Il permesso è stato tuttavia impugnato dinanzi al Tar per la Puglia, sede staccata di Lecce, dai signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma. e Cr.Ta., proprietari ed usufruttuari di un immobile confinante con quello oggetto dell’intervento assentito.
3. In particolare, questi ultimi hanno contestato l’intervento edilizio in quanto lo hanno ritenuto:
   - in contrasto con il piano di lottizzazione, approvato con deliberazione del Consiglio Comunale del 07.05.2002, n. 18, che consentiva la realizzazione di nuove opere edilizie e non interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione di un nuovo fabbricato difforme dal precedente per sagoma e volumi;
   - in violazione dell’art. 10 delle norme tecniche del piano di lottizzazione ai sensi del quale i nuovi fabbricati avrebbero dovuto essere posti ad una distanza minima di 10 metri dal ciglio delle strade esterne alla maglia (il fabbricato in questione è posto sul ciglio della strada che delimita la maglia sul lato nord);
   - in violazione dell’art. 872 c.c. in quanto il fabbricato non è posto a distanza legale dal muro di fabbrica, alto 3 metri e 40 centimetri, che delimita la proprietà dei ricorrenti (l’art. 9 del piano di lottizzazione prevede una distanza minima tra gli edifici pari alla semisomma dell’altezza degli stessi e comunque non inferiore a 10 metri, mentre l’intervento assentito dista solo 5 metri dal muro);
   - in violazione della distanza minima prevista dal PRG per le nuove costruzioni dalle pareti finestrate degli edifici esistenti.
4. Successivamente, con permesso di costruire del 14.04.2006 n. 3, il comune di Laterza ha accolto l’istanza di sanatoria presentata dal sig. Ar.Ta. con riferimento alla diversa collocazione del fabbricato nel lotto rispetto a quanto previsto nel permesso di costruire originario.
5. Anche quest’ultimo provvedimento è stato impugnato con motivi aggiunti.
6. Il Tar per la Puglia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto il ricorso ed i motivi aggiunti, rilavando che il progetto assentito con i permessi di costruire impugnati, prevedendo la realizzazione di un intervento di demolizione e ricostruzione con sagoma, volumi e collocazione diversi rispetto al fabbricato preesistente, non si poteva configurare come una ristrutturazione edilizia, ma doveva essere inquadrato tra le nuove costruzioni. Di conseguenza, ha ritenuto fondati i motivi di censura relativi alla violazione delle distanze, soprattutto con riferimento a quelle previste dal ciglio stradale.
7. Il signor Ar.Ta. ha quindi impugnato la predetta sentenza, prospettando i seguenti motivi di gravame.
7.1. Il Tar ha erroneamente respinto l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado.
7.1.1. I signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma. e Cr.Ta., secondo l’appellante, erano infatti a conoscenza del permesso di costruzione già dal momento della posa delle fondazioni. In particolare, il termine decadenziale per la proposizione del ricorso avrebbe dovuto decorrere dalla data del 28.08.2004 di inizio dei lavori, soprattutto considerando la contestata violazione delle distanze del fabbricato assentito rispetto agli immobili di loro proprietà, mentre il ricorso è stato poi notificato in data 14.01.2005. Gli stessi ricorrenti avevano in ogni caso proposto istanza di accesso agli atti il 15.10.2004.
7.2. Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso sulla base della inesatta circostanza che la riedificazione avrebbe dovuto rispettare la distanza di 10 metri dal confine stradale prevista dal piano di lottizzazione e dal PRG.
7.2.1. Il Tar ha infatti erroneamente ritenuto che una minore distanza del fabbricato dal ciglio della strada avrebbe potuto essere consentita solo laddove si fosse ricostruito un edificio corrispondente, sotto il profilo planovolumetrico, a quello preesistente. Tale tesi, secondo l’appellante, non può ritenersi fondata tenuto conto che il piano di lottizzazione non regola affatto il caso di specie.
La disciplina urbanistica dello stesso piano riguarderebbe solo le nuove edificazioni consentite nelle aree libere della maglia, lasciando non disciplinati gli interventi diretti sull’edilizia esistente. Ed anche le norme di attuazione al PRG, in particolare il comma 2 dell’art. 2.26 delle NTA richiamato dal Tar, non conterrebbero alcuna disciplina sugli interventi relativi all’edilizia esistente, limitandosi a prevedere il contenuto dei piani esecutivi per le nuove edificazioni nella maglia.
Per l’appellante, invece, la demolizione e ricostruzione di un edificio esistente, autorizzabile con un assenso diretto, avrebbe trovato una più corretta disciplina nel richiamo al comma 7 dello stesso art. 2.26.
8. I signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma. e Cr.Ta. si sono costituiti in giudizio il 14.09.2009, chiedendo il rigetto dell’appello, ed hanno depositato ulteriori scritti difensivi, per ultimo una memoria di replica il 04.05.2017.
9. Anche l’appellante ha depositato documenti e una memoria il 24.04.2017 nella quale ha anche richiamato l’intervenuta sentenza della Corte di Appello di Taranto n. 138 del 24.03.2014 resa tra le parti sul tema delle distanze tra gli edifici.
10. Questa Sezione con ordinanza cautelare n. 4649 del 18.09.2009, ha respinto motivatamente l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, presentata contestualmente al ricorso in appello (per completezza si segnala che già durante il corso del giudizio di primo grado questa Sezione, con ordinanza n. 4588 del 2005, aveva accolto l’istanza cautelare proposta dagli originari ricorrenti, odierni appellati, signori Matera).
11. La causa è stata infine trattenuta in decisione all’udienza del 25.05.2017.
12. L’appello non è fondato.
13. In primo luogo, deve ritenersi condivisibile la conclusione del Tar per la Puglia in ordine alla infondatezza della eccezione di irricevibilità del ricorso di primo grado.
14. Lo stesso gravame, notificato il 14.01.2015, non può infatti ritenersi tardivo in quanto la effettiva e piena conoscenza del provvedimento da parte degli appellati in un momento anteriore rispetto a quello di decorrenza del termine decadenziale (rappresentato dal completamento dei lavori), avrebbe dovuto essere provata in modo rigoroso.
Non è infatti sufficiente, come ha fatto la parte appellante, né il riferimento all’istanza di accesso, né quello all’inizio dei lavori edilizi, essendo invece necessaria la loro ultimazione o quantomeno il raggiungimento di uno stato di avanzamento tale che non si potesse avere più alcun dubbio in ordine alla consistenza ed alla reale portata delle opere.
15. D’altra parte, dalla documentazione fotografica allegata all’istanza di condono edilizio del signor Ta. del 10.12.2014 si ricava in modo evidente che a quella data erano state realizzate solo le opere interrate con la conseguenza che sarebbe stato impossibile comprendere quale fosse la sagome, il volume e l’effettiva distanza dagli altri edifici e dalla strada dell’erigendo edificio; neppure è stata provata la presenza del cartello lavori.
16. In ogni caso, come rilevato dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.03.2016, n. 2782; 21.03.2016 n. 1135; 15.11.2016, n. 4701), l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso soltanto laddove si contesti l’an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV 28.10.2015, n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari).
17. In particolare è stato affermato che:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente (in quest’ambito giuoca un ruolo importante l’eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia);
   b) l’obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa (ex aliis Cass. pen., Sez. III, 22.05.2012, n. 40118).
La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente;
   c) la richiesta di accesso non è comunque idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti.
Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.
18. Quanto al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare che la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare (tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2015 n. 6242; 28.05.2012 n. 3159) che la “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
19. Tanto premesso in rito, deve ritenersi condivisibile, nel merito, anche quanto rilevato dal Tar nella sentenza impugnata in ordine alla natura dell’intervento edilizio di cui è causa e alla sua concreta disciplina.
20. L’art. 2.25 del PRG del comune di Laterza prevede che “nelle zone di espansione C, articolate in sottozone di “espansione di recupero CR” e “sottozone di espansione C” ogni intervento edilizio o urbanizzativo è subordinato alla approvazione di strumenti urbanistici esecutivi”.
21. L’intervento edilizio assentito dal comune di Laterza si colloca in zona CR 6 e rientra nell’ambito di applicazione della predetta disposizione. Di conseguenza soggiace, come rilevato dal giudice di primo grado, alle previsioni del successivo art. 2.26 delle NTA (che si riferisce esplicitamente alla zona CR 6) e al piano di lottizzazione approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 18 del 07.05.2002.
22. In sostanza, il fabbricato avrebbe dovuto rispettare la distanza minima di 10 m. dal ciglio delle strade perimetrali della maglia in quanto nuova costruzione.
23. Non è fondata infatti la prospettazione di parte appellante secondo cui tali disposizioni non trovano applicazione nel caso di specie in quanto relative alla realizzazione di nuove costruzioni e non alla ristrutturazione di edifici già esistenti.
24. Come correttamente rilevato dal Tar, il progetto assentito con i permessi di costruire impugnati, prevedendo la realizzazione di un intervento di demolizione e ricostruzione con sagoma, volumi e collocazione diversi rispetto al fabbricato preesistente, non può configurare una ristrutturazione edilizia ma è da inquadrare tra le nuove costruzioni.
25. La ricostruzione di un edificio esistente in altro sito, seppur nello stesso lotto, ma non nella stessa area di sedime, integra infatti a tutti gli effetti un nuovo edificio. La giurisprudenza è costante nel ritenere ciò (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2016, n. 3466; successivamente sez. IV, n. 447 del 2017 cui si rinvia a mentre dell’art. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) ed il Collegio concorda con tale orientamento. D’altra parte, anche le successive modifiche al DPR n. 380 del 2001, ascrivibili al c.d. “Decreto del fare” (D.L. n. 69 del 2013 convertito in nella legge n. 98 del 2013), hanno eliminato il vincolo della sagoma di fatto ampliando il concetto di ristrutturazione, ma non hanno modificato l’obbligo che l’edificio ricostruito/ristrutturato insista nella stessa area di sedime.
26. Ciò detto, e ribadito che la valutazione sulla legittimità del progetto sottoposto all’autorità comunale và effettuata alla stregua della disciplina vigente al momento dell’adozione dei provvedimenti impugnati, l’intervento edilizio comunque si colloca, come risulta dagli atti del giudizio, in posizione diversa da quella occupata dall’immobile demolito e ricostruito, tant’è che per questa ragione si contestano le distanze dal ciglio della strada e dalla proprietà dei confinanti (prima collocato a 12 metri dalla strada perimetrale della maglia, poi a 2 metri in base al permesso di costruire n. 3 del 2006, rilasciato per la diversa ubicazione del fabbricato sul lotto).
27. Di conseguenza, se la conservazione della distanza preesistente può ritenersi consentita solamente nelle ipotesi di demolizione seguita da fedele ricostruzione, nel caso in cui, previa demolizione di un edificio preesistente, venga ricostruito un fabbricato diverso, devono essere rispettate tutte le previsioni previste dal piano di lottizzazione prescritto per l’area e dal PRG e dalle sue norme tecniche.
28. Né può essere applicabile in via analogica, come invocato dall’appellante, il comma 7 dell’art. 2.26 delle NTA in quanto si tratta di una disposizione che non riguarda la maglia CR 6 (in cui ricade l’intervento assentito), bensì la maglia CR5. Nell’area CR6 è necessario, ai fini dell’edificazione, l’esistenza di un piano esecutivo (nel caso di specie ad iniziativa privata) ed è esclusa la realizzabilità di interventi diretti salvo la ristrutturazione degli immobili esistenti con medesima sagoma, volume e collocazione.
29. Quanto, infine, al motivo proposto dagli appellati in primo grado sulla distanza della nuova costruzione dalla loro parete finestra, va rilevato che lo stesso è stato assorbito dal Tar. L’appellante, con la memoria depositata il 24.04.2017, ne contesta esplicitamente la fondatezza, richiamando l’intervenuta sentenza della Corte di Appello di Taranto n. 138 del 24.03.2014 che ha accertato la violazione delle norme sulle distanze, condannandolo all'arretramento della propria costruzione.
30. Tale statuizione tuttavia non influisce sui profili di illegittimità degli atti impugnati sopra descritti, rilevando invece sul tema della distanza con la parete finestra, profilo ritenuto condivisibilmente assorbito dal Tar.
31. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.07.2017 n. 3763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
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- rilevato che, in linea di fatto è pacifica la sussistenza del vincolo nonché la consistenza dell’intervento in termini di trasformazione di un porticato aperto destinato a garage in nuova unità abitativa tramite chiusura perimetrale;
- considerato che, in proposito, se la giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. pen. sez. III, 05/04/2016, n. 26455), nel caso di specie è evidente il consistente mutamento di destinazione d’uso accompagnato da opere (chiusura perimetrale di spazio prima aperto);
- atteso che tale rilevante modifica dello stato preesistente (sia in termini urbanistici di aumento del carico che in termini edilizi) non può certo qualificarsi alla stregua degli interventi minori (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.07.2017 n. 682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ritiene che la concessione edilizia possa essere rilasciata al soggetto che dimostri di avere la disponibilità dell'area di riferimento in base a un diritto reale o ad una obbligazione.
Si è detto, in particolare che il contratto di comodato, intervenuto tra il proprietario dell'area ed il concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione) con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione edilizia, salva l'opposizione del proprietario.
Alla luce della sopra richiamata giurisprudenza deve, pertanto, ritenersi illegittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui dispone l’annullamento dell’autorizzazione edilizia sulla base della sola circostanza che l'istante rivesta la qualità di locatario, nonché nella parte in cui richiede per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria presentata dal medesimo ricorrente.
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... per l’annullamento “dell’ordinanza prot. n. 6065 del 27.01.2004 a firma del Dirigente del VII Settore Urbanistica dell’U.T.C. del Comune di Caserta con la quale è stata annullata la concessione edilizia n. 126/01 e per l’effetto è stata ordinata la demolizione delle opere realizzate ritenute abusive ed il ripristino dello stato dei luoghi, in una agli atti preordinati, connessi e conseguenziali tra i quali precipuamente i verbali dell’ufficio Tecnico del Comune di Caserta”.
...
Sa.Fa. espone in fatto che, in accoglimento dell’istanza da egli presentata in data 07.08.2001, il Comune di Caserta aveva rilasciato in suo favore l’autorizzazione edilizia n. 126/2001 per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria.
Riferisce che solo successivamente e, precisamente, in sede di istruttoria relativa alla richiesta di concessione in sanatoria, presentata da egli ricorrente in data 27.12.2001, il suddetto Comune aveva riesaminato la pratica edilizia relativa alla citata autorizzazione edilizia n. 126/2001 ed aveva provveduto non solo a respingere l’istanza di sanatoria ma anche a revocare il titolo edilizio del 2001.
Il Sa. ha, quindi, proposto il presente ricorso, notificato il 22.03.2004 e depositato il 19.04.2004, con il quale ha chiesto l’annullamento “dell’ordinanza prot. n. 6065 del 27.01.2004 a firma del Dirigente del VII Settore Urbanistica dell’U.T.C. del Comune di Caserta con la quale è stata annullata la concessione edilizia n. 126/01 e per l’effetto è stata ordinata la demolizione delle opere realizzate ritenute abusive ed il ripristino dello stato dei luoghi, in una agli atti preordinati, connessi e conseguenziali tra i quali precipuamente i verbali dell’ufficio Tecnico del Comune di Caserta”.
...
Il ricorso è fondato limitatamente alla parte del provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di ragione di parte ricorrente; deve ritenersi, invece, infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte del provvedimento con cui si dispone la demolizione, come di seguito specificato.
Coglie nel segno la censura con la quale parte ricorrente lamenta che illegittimamente sarebbe stato disposto l’annullamento della autorizzazione edilizia n. 126/2001 precedentemente rilasciata ed il diniego della concessione in sanatoria per l’assenza in capo ad egli ricorrente del titolo di proprietà dell’immobile, in quanto nella relativa istanza aveva dichiarato di essere conduttore dell’immobile stesso.
Ed invero la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ritiene che la concessione edilizia possa essere rilasciata al soggetto che dimostri di avere la disponibilità dell'area di riferimento in base a un diritto reale o ad una obbligazione (Cass., Sez. III, 15.03.2007, n. 6005). Si è detto, in particolare che il contratto di comodato, intervenuto tra il proprietario dell'area ed il concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione) con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione edilizia, salva l'opposizione del proprietario (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.02.2015, n. 648, 08.09.2015, n. 4176).
Alla luce della sopra richiamata giurisprudenza deve, pertanto, ritenersi illegittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui dispone l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 126/2001 del 27.08.2001 sulla base della sola circostanza che il Sa. rivesta la qualità di locatario, nonché nella parte in cui richiede per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria presentata dal medesimo ricorrente in data 27.12.2001 il titolo di proprietà, ad integrazione della documentazione già presentata (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua divisione in tre ambienti e bagno”, sicché deve ritenersi che tali difformità non possano qualificarsi quali interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001.
Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza.

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L’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo paesistico in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1.
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32, comma 1, lettera a) e comma 3.
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Quanto alla parte del provvedimento con il quale è stata disposta la demolizione delle opere abusive occorre evidenziare che, come sostenuto dal Comune resistente, il provvedimento sanzionatorio risulta adottato sulla base di una pluralità di motivazioni e non solo sulla base della riscontrata insufficienza della qualità di locatario di parte ricorrente e, pertanto, non può ritenersi meramente consequenziale all’annullamento del suddetto titolo edilizio del 2001.
Ed invero nel provvedimento impugnato il Comune di Caserta dà innanzitutto atto della realizzazione di opere realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia n. 126/2001, oggetto di accertamento da parte di un tecnico comunale congiuntamente alla squadra di Polizia Edilizia VV.UU., nonché oggetto dell’ordinanza di sospensione dei lavori richiamata nel medesimo provvedimento, in riferimento alle quali parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura né ha provato, come era suo onere, trattandosi di prova rientrante nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a., che tali opere corrispondessero a quelle oggetto della concessione edilizia in sanatoria del 27.12.2001; parte ricorrente non ha infatti prodotto tale richiesta di sanatoria, né il relativo progetto e la relazione tecnica.
Inoltre, premesso che, come specificato dal Comune anche nelle memorie difensive, nel provvedimento prot. n. 6065 del 27.01.2004, oggetto di impugnazione, si dà anche atto che la zona su cui insiste l’immobile è soggetta a vincolo paesistico e che sul punto è intervenuta la nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 14.02.2002, occorre rilevare che anche in riferimento a tali circostanze parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura.
In riferimento alla disposta demolizione parte ricorrente si è limitata a richiamare l’applicazione dell’art. 34 del DPR n. 380/2001 che prevede, per gli interventi edilizi realizzati in difformità dal titolo concessorio, l’alternatività tra la rimozione e/o l’applicazione di una sanzione pecuniaria raddoppiata al costo di costruzione.
Al riguardo, premesso che il Comune di Caserta nel provvedimento impugnato, dopo aver elencato le opere realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia in possesso di parte ricorrente, ha rappresentato che le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua divisione in tre ambienti e bagno”, deve ritenersi che tali difformità non possano qualificarsi quali interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001. Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza (cfr. TAR Napoli Sez. VIII, 04.09.2015, n. 4338), circostanze non ravvisabili nella fattispecie oggetto di gravame.
Inoltre, l’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo paesistico, circostanza questa non contestata da parte ricorrente, in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1 (cfr. TAR Napoli, Sez. IV, 09.01.2014, n. 96).
Ed invero l’art. 32, comma 3, nel testo applicabile, ratione temporis, alla fattispecie per cui è causa, dispone: “3. Gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali.”
Il precedente comma 1, richiamato dal comma 3 del medesimo art. 32, a sua volta, prevede: “1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell'articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali
.”
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32, comma 1, lettera a) e comma 3.
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso deve ritenersi fondato limitatamente alla parte del provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di ragione di parte ricorrente, mentre deve ritenersi, infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte del provvedimento con cui si dispone la demolizione delle opere abusive (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura precaria dell'opera edilizia - Carattere stagionale dell'attività - Elementi della precarietà - Stabilimento balneare.
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera, la precarietà non va confusa con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente ricorrente della struttura, né con la possibilità di smontare il manufatto non infisso al suolo (si veda in proposito Cass. Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, secondo cui ...al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto per la sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Natura precaria dell'opera edilizia - Oggettiva temporaneità e contingenza - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - DIRITTO DEMANIALE - Fattispecie: occupazione arbitraria dello spazio demaniale marittimo - Alterazione di bellezze naturali - Art. 734 cod. pen. - Artt. 3, 6, 10 e 44, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 146-181, d.lgs. n. 42/2004.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione, tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l'opera è destinata a soddisfare in ordine alla dedotta precarietà dell'opera e che, (in specie) in ogni caso, trattandosi di opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, qualsiasi difformità dal titolo edilizio è comunque sanzionata ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 32, u.c., d.P.R. n. 380 del 2001), così come qualsiasi difformità dal progetto autorizzato integra il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004 (Fattispecie: installazione stagionale di uno stabilimento balneare costituito da una costruzione lignea pluripiano poggiante su pali in legno semplicemente infissi sull'arenile della spiaggia, in zona soggetta a speciale protezione ambientale e a vincolo ambientale) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Alterazione delle bellezze naturali - Stabilimento balneare - Art. 734 cod. pen. - Natura di reato istantaneo - Effetti della prescrizione e decorrenza del termine - Ultimazione dell'opera.
Il reato di cui all'art. 734 cod. pen., nell'ipotesi di alterazione delle bellezze naturali ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti e si consuma e si esaurisce con la costruzione lesiva delle bellezze naturali protette, sicché agli effetti della prescrizione il decorso del termine ha inizio dal momento in cui il reato si è realizzato con il compimento dell'opera ovvero la attuazione dei mezzi che hanno determinato il deturpamento (Sez. 3, n. 11226 del 04/07/1985, Bertani).
DIRITTO DEMANIALE - Ancoraggio del manufatto alla spiaggia - Natura di reato permanente - Demolizione del manufatto edificato entro la fascia demaniale o conseguimento dell'autorizzazione.
Il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 cod. nav. ha natura di reato permanente per il quale la permanenza cessa solo con la demolizione del manufatto edificato entro la fascia demaniale o con il conseguimento
dell'autorizzazione prescritta, dal momento che la norma è posta a tutela della sicurezza della navigazione marittima nelle zone prossime al demanio (Sez. 3, n. 3848 del 06/11/1997, Padua; cfr. altresì Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di costruzione abusiva - Cessazione con il totale esaurimento dell'attività illecita - Nozione di "ultimazione" dell'edificio - Requisiti di agibilità o abitabilità - Concetto unitario di costruzione e valutazione di un'opera edilizia abusiva - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Giurisprudenza.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi, soltanto quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n. 3183 del 18/01/1984, con richiamo a numerosi precedenti conformi, nonché, più recentemente, Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Sez. 3, n. 5654 del 16/03/1994).
Sicché, in virtù del concetto unitario di costruzione la valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, Prevosto; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2001, Forte; nello stesso senso, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato).
Gli stessi principi valgono per il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, che ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Sez. 3, n. 40265 del 26/05/2015, Amitrano; Sez. 3, n. 28934 del 26/03/2013, Borsani; Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, Cavallo; Sez. 3, n. 28338 del 30/04/2003, Grilli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICAIn caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli strumenti urbanistici, sono le seconde a prevalere, in quanto in sede d'interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
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D’altro canto, è noto che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli strumenti urbanistici, sono le seconde a prevalere, in quanto in sede d'interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo (per tutte, da ultimo cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2015, n. 2998) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.07.2017 n. 946 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: La mancata allegazione al bilancio della relazione dell'organo di revisione inficia la delibera di approvazione.
La mancata tempestiva allegazione della relazione dell'organo di revisione contabile dell'ente locale impedisce ai consiglieri di esercitare le prerogative proprie dell'incarico dagli stessi rivestito e si traduce nella violazione delle disposizioni regolamentari dell'ente locale che disciplinano le modalità temporali del deposito e della messa a disposizione dello schema di bilancio previsionale e della relativa documentazione allegata, con conseguente annullamento della delibera di approvazione del bilancio impugnata.
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Circa le prerogative dei consiglieri comunali, dal consolidato orientamento del giudice amministrativo emerge che:
   - i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive;
   - l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell'adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium;
   - la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare; b) violazione dell'ordine del giorno; c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito.
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Con l’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti, quali consiglieri di minoranza del consiglio comunale del comune resistente, hanno chiesto l’annullamento della delibera di approvazione del bilancio di previsione del consiglio comunale, deducendo tra l’altro il mancato deposito del parere obbligatorio del revisore dei conti e la sua mancata allegazione agli schemi di bilancio.
Si costituiva il comune resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
Il ricorso appare meritevole di accoglimento.
Il vigente disposto dell’art. 174 Tuel non impone il deposito della relazione del revisore dei conti insieme al deposito dello schema di bilancio, in quanto, basandosi la prima sull’ultimo, è necessario che lo schema pervenga ai revisori prima della redazione della relazione. Tuttavia, in base all’art. 12 primo e secondo comma del regolamento di contabilità dell’ente locale resistente i documenti di cui al comma 1 rimangono depositati presso l’ufficio ragioneria per la relativa consultazione nei 10 giorni precedenti la data stabilita per l’approvazione del bilancio. I documenti indicati al comma 1 sono rappresentati dallo schema di bilancio e dai relativi allegati di cui all’art. 172 Tuel, nonché dalla nota di aggiornamento del DUP e dalla relazione dell’organo di revisione.
Ne discende che, a prescindere dalle modalità di redazione dello schema di bilancio e dai relativi tempi, la relazione dell’organo di revisione ha ad oggetto lo schema di bilancio e rientra tra i documenti che i componenti del consiglio comunale possono esaminare prima dell’approvazione del bilancio. La disposizione non risulta incompatibile con il nuovo testo dell’art. 174 Tuel, tanto più che la disposizione rinvia espressamente al regolamento di contabilità.
Più in particolare sembra potersi evidenziare che il contenuto obbligatorio dell’invio sia rappresentato dallo schema di bilancio di previsione finanziario e dal documento unico di programmazione, nel senso che i comuni non possono escludere che l’organo esecutivo predisponga i citati documenti e che questi siano presentati all’organo consiliare; tuttavia la norma non esclude che l’ente locale possa prevedere forme di garanzia più elevate, in ragione del principio di partecipazione dei componenti consiliari alla decisione al fine di garantire la democraticità del sistema e la completezza dell’esame della documentazione.
Pertanto, la disposizione non incide, nel caso di specie, sul perimetro applicativo dell’art. 12 del regolamento di contabilità il quale impone il deposito della documentazione e anche della relazione dell’organo di revisione almeno dieci giorni prima della data fissata per l’approvazione del bilancio di previsione. Com’è noto, infatti, l’art. 174, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000 impone ai regolamenti di contabilità dei Comuni la previsione di un “congruo termine” per gli adempimenti relativi alla predisposizione e all’approvazione del bilancio e dei suoi allegati, aggiungendo che detti regolamenti devono altresì indicare i termini entro i quali possono essere presentati da parte dei membri dell’organo consiliare e dalla Giunta emendamenti agli schemi di bilancio.
Nel caso di specie, parte resistente evidenzia che tale documento è stato depositato 7 giorni prima rispetto alla data fissata, a prescindere dalle contestazioni mosse dai resistenti sulla ritualità del deposito e sulla autenticità della stessa.
Ne discende l’annullabilità dell’atto impugnato per violazione dell’art. 12 del regolamento di contabilità.
La violazione in questione non ha carattere meramente formale ma anche sostanziale in quanto non risulta, sulla base delle allegazioni di parte resistente, aver consentito ai resistenti stessi di esercitare in maniera completa il proprio mandato elettorale.
Un siffatto comportamento ha comportato senz’altro un grave vulnus alle prerogative dei consiglieri ricorrenti alla luce del consolidato orientamento del giudice amministrativo secondo il quale:
   - i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive;
   - l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell'adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium;
   - la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare; b) violazione dell'ordine del giorno; c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito.
Nel caso specifico, la mancata tempestiva allegazione della relazione dell’organo di revisione contabile dell’ente locale ha impedito ai consiglieri ricorrenti di esercitare le prerogative proprie dell’incarico dagli stessi rivestito e si è tradotta nella violazione delle disposizioni regolamentari dell’ente locale che disciplinano le modalità temporali del deposito e della messa a disposizione dello schema di bilancio previsionale e della relativa documentazione allegata.
Le allegazioni di parte resistente in ordine alla conoscenza del documento o alla mancata contestazione del tardivo deposito non sembrano cogliere nel segno, sia perché, a parte le dichiarazioni anche atecniche emergenti, da un lato, non risulta esservi prova del fatto che questi abbiano avuto specifica conoscenza della relazione dell’organo di revisione (cosa che sarebbe al contrario emersa con la comunicazione alle stesse dell’avvenuto deposito della relazione) o della possibilità di averne conoscenza, dall’altro, non tutti i ricorrenti avevano partecipato al consiglio comunale dal quale è derivata l’approvazione della delibera comunale e, comunque, anche i partecipanti, non essendo tenuti a verificare il deposito della documentazione in questione in un termine diverso dai dieci giorni, non erano tenuti a manifestare espressamente il loro dissenso o a sollevare la problematica in tale occasione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.07.2017 n. 1175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti hanno realizzato un cambio di destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne deriva.
Sicché, in mancanza del permesso, ovvero in difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto giustificata.
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II. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
   - Come si evince dal verbale di sopralluogo n. 1 del 25.05.2007 redatto dalla Polizia Municipale e dagli elaborati grafici e fotografici allegati allo stesso, il locali posti ai rispettivi piani seminterrati dei due appartamenti situati al piano terra dell’abitazione bifamiliare di che trattasi, assentiti ad uso ripostiglio, garage, cantina, lavanderia, stenditoio e stireria (come da concessione edilizia n. 8 del 1994 e da autorizzazione in variante conseguita con DIA presentata in data 09.09.1995), sono stati parzialmente trasformati (in epoca imprecisata, sebbene i ricorrenti asseriscano che le modifiche siano state apportate già prima che fosse rilasciato il certificato di abitabilità, ma la circostanza non è dimostrata), anche con la realizzazione di opere edilizie, sino alla completa modifica della destinazione d’uso dell’intero piano ad abitativa.
   - In particolare, nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo come A1, si riscontra la trasformazione del locale lavanderia in una cucina abitabile piastrellata, dotata di mobilio funzionale allo scopo, con elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas; i locali stenditoio e cantina, anch’essi pavimentati e arredati in maniera funzionale al nuovo utilizzo, sono stati adibiti, rispettivamente, a tinello e camere da letto.
Nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo come B1, inoltre, completamente pavimentato, il ripostiglio collocato nel locale garage è stato trasformato in un bagno e nel locale lavanderia/stenditoio/stireria sono stati ricavati un ripostiglio e una cucina abitabile interamente arredata e funzionale allo scopo, con gli elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas. In entrambi i seminterrati sono stati realizzati ex novo dei camini in corrispondenza degli ex locali lavanderia.
   - Le suddette modifiche sono state dettagliatamente illustrate nel citato verbale di sopralluogo e in esso sufficientemente indicate anche mediante il rinvio agli elaborati grafici e fotografici allegati, sicché, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, alcun difetto di motivazione è riscontrabile nel provvedimento impugnato, che rinvia per relationem al predetto verbale.
   - Per quanto riguarda, invece, il cambio di destinazione d’uso contestato dall’Amministrazione, è noto che esso sussiste se, a prescindere dalla realizzazione di opere, l’intervento determini una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico o sia idoneo a consentire un uso più intenso dell’edificio, per effetto della moltiplicazione delle unità immobiliari.
Nel caso in esame, non può escludersi che tale incremento si sia verificato, atteso che detto mutamento ha dato luogo ad un piano abitabile in più rispetto a quelli esistenti ed i lavori in questione hanno effettivamente conferito ai locali una destinazione residenziale, essendo essi univocamente volti a rendere gli stessi abitabili e destinati alla stabile permanenza di persone.
   - Ed invero, il piano seminterrato delle due unità abitative è stato interamente dotato di servizi e trasformato in modo da essere suscettibile di un utilizzo anche autonomo rispetto all’abitazione principale (dal che si esclude la sua natura pertinenziale).
In particolare, i locali in parola sono stati interamente arredati e dotati di ogni confort e, come si evince dai rilievi fotografici versati in atti, i mobili e gli oggetti ivi presenti non sono stati meramente depositati (come invece asserito dai ricorrenti), ma organizzati in maniera tale da essere destinati ad un utilizzo quotidiano, contribuendo ad imprimere all’immobile un’oggettiva attitudine funzionale coincidente con quella di una civile abitazione (che non è la stessa attitudine che il bene aveva in precedenza).
Peraltro, dalla nota di trasmissione del verbale di accertamento delle violazioni urbanistiche alla competente Procura della Repubblica da parte dell’Ufficio tecnico comunale (prot. n. 2849 dell’01.06.2007), prodotta in allegato al ricorso, emerge che detti locali sono stati dotati di impianto termo-idraulico, non previsto nel progetto assentito; tale tipologia di intervento costituisce elemento idoneo a confermare ulteriormente la destinazione abitativa dell’immobile.
   - E’ innegabile, quindi, che, nella fattispecie, i ricorrenti abbiano realizzato un cambio di destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne deriva (TAR Campania Napoli, sez. IV, 03.02.2015, n. 731; sez. VIII, 16.04.2014, n. 2174; TAR Lazio Roma, sez. I, 09.12.2011, n. 9646). In mancanza del permesso, ovvero in difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto giustificata.
III. Per le suesposte ragioni, il ricorso va respinto (TAR Marche, sentenza 07.06.2017 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon sussiste giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo specializzato della giurisdizione ordinaria, nel caso di ricorrente che vanta una posizione di interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle acque pubbliche; mentre sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche nel caso di impugnazione per vizi tipici di legittimità del provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata.
La giurisdizione di legittimità in unico grado, attribuita al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del 1933, con riferimento ai ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche, sussiste solo quando sia impugnato uno di questi provvedimenti amministrativi e allorché gli stessi siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o a influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti; mentre restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che abbiano a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque pubbliche e che solo in via di riflesso, o indirettamente, abbiano una siffatta incidenza (nel caso esaminato, avente ad aggetto l’impugnativa di una diniego di permesso di costruire motivato in base all’insistenza del progetto nella fascia di rispetto di un corso d’acqua, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo).

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Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, risponde all’esigenza di natura pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l. 08.02.1985 n. 47 e non sono, pertanto, suscettibili di sanatoria.
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Ritiene il Tribunale che sia il presupposto del discorso a non convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle opere a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere di fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo limite di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa in opera di cancello carrabile e pedonale”: si tratta quindi di opere che, ictu oculi, appartengono alla nozione di “opere di fabbrica”, e ciò tanto più, se si tiene presente che per la giurisprudenza: “Il divieto di eseguire le tipologie di lavori di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904, «a distanza dal piede degli argini e loro accessori», vale inderogabilmente, a prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località, dovendosi interpretare la locuzione «fabbriche», nel testo richiamato, come riferita ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all’utilizzo della locuzione « scavi », tutte le possibili modificazioni frutto dell’opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni”.
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In tema di distanze delle costruzioni dagli argini dei corsi d’acqua (laddove è stato ulteriormente statuito che: “Il divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere la dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare la determinazione amministrativa censurata.
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L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine, ex art. 96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da comportare l’inedificabilità assoluta e l’impossibilità di sanatoria delle medesime, rende recessive le esigenze di sicurezza delle persone e di tutela della propria proprietà, pure segnalate come pressanti dal ricorrente, posto che l’interesse pubblico all’eliminazione delle suddette opere deve considerarsi in re ipsa, giusta quanto sopra osservato, fermo restando tuttavia l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto per il resistente Comune, proprio in virtù del su richiamato principio di sussidiarietà), d’evitare rischi per la privata incolumità, segnalati come gravi, in ragione della vicinanza del corso d’acqua all’abitazione del ricorrente medesimo (anche provvedendo, se del caso, all’auspicata –sempre da parte ricorrente– recinzione dei “confini del muro spondale”).
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Oggetto del presente giudizio è l’impugnativa dell’ordinanza di demolizione del Comune di Monteforte Irpino, relativo alle opere indicate in epigrafe, realizzate dal ricorrente –come si ricava dal testo della medesima ordinanza– “nella fascia di rispetto del torrente Iemale”.
La prima questione da affrontare consiste, pertanto, nell’eccepito –dalla difesa dell’ente– difetto di giurisdizione di questo TAR, in favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, poiché si tratterebbe di materia afferente al governo delle acque pubbliche.
L’eccezione, peraltro, non può essere accolta, conformemente all’indirizzo della giurisprudenza, espresso in massime, come le seguenti: “Non sussiste giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo specializzato della giurisdizione ordinaria, nel caso di ricorrente che vanta una posizione di interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle acque pubbliche; mentre sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche nel caso di impugnazione per vizi tipici di legittimità del provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume normativamente individuata” (TAR Sicilia–Catania, 30/12/2011, n. 3232); “La giurisdizione di legittimità in unico grado, attribuita al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del 1933, con riferimento ai ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche, sussiste solo quando sia impugnato uno di questi provvedimenti amministrativi e allorché gli stessi siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o a influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti; mentre restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che abbiano a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque pubbliche e che solo in via di riflesso, o indirettamente, abbiano una siffatta incidenza (nel caso esaminato, avente ad aggetto l’impugnativa di una diniego di permesso di costruire motivato in base all’insistenza del progetto nella fascia di rispetto di un corso d’acqua, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo)” (TAR Abruzzo–Pescara, 07/01/2008, n. 4).
Ciò posto, rileva il Collegio che il ricorso non può trovare accoglimento.
Occorre, tuttavia, una premessa: poiché, nella specie, si discorre dell’attività di costruzione di fabbriche, in violazione della fascia di rispetto del torrente Iemale, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue: “Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, risponde all’esigenza di natura pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la conseguenza che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l. 08.02.1985 n. 47 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria” (TAR Liguria, Sez. I, 21/11/2014, n. 1721; conforme a Consiglio di Stato, Sez. V, 23/06/2014, n. 3147).
Nella specie, cioè, per quanto effettivamente manchi, nel testo dell’ordinanza gravata, un esplicito riferimento a tale disciplina, viene in rilievo la violazione, da parte del ricorrente, dell’art. 96, lett. f), del R.D. 523 del 1904, secondo cui: “Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: (…) f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi (…)”.
Da tale constatazione discendono due conseguenze:
   a) pertinente si presenta il richiamo, da parte della difesa dell’Amministrazione Comunale, al diniego di sanatoria delle opere de quibus, espresso in data 29.05.2006 dal responsabile del procedimento presso il S.U.E. di tale ente, perché “le opere oggetto di richiesta di sanatoria ricadono nella fascia di rispetto del vallone Iemale”;
   b) va, anzitutto, verificato che le stesse opere effettivamente ricadano in detta fascia di rispetto, come sopra individuata, posto che il ricorrente –mediante l’ausilio di c.t. di parte– ha contestato tale fondamentale presupposto del provvedimento impugnato.
Quanto a detto secondo e dirimente aspetto, rileva il Collegio come l’ing. Pa., nell’elaborato peritale, da ultimo depositato in data 22.03.2017, abbia affermato che i manufatti realizzati non sarebbero “opere di fabbrica o scavi”, bensì “smovimenti di terreno”, onde la distanza da rispettare sarebbe di quattro metri dal piede dell’argine; e ha sostenuto che “la quasi totalità delle opere edificate risultano ricadere all’esterno di tale area; vi rientra solo in piccola misura, la parte terminale del muretto alla sinistra del cancello (…)”.
Orbene, in disparte quanto da ultimo riferito, circa una piccola porzione di muretto, in violazione (anche) della distanza di quattro metri dal piede dell’argine, ritiene il Tribunale che sia il presupposto del discorso a non convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle opere a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere di fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo limite di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa in opera di cancello carrabile e pedonale”: si tratta quindi di opere che, ictu oculi, appartengono alla nozione di “opere di fabbrica”, e ciò tanto più, se si tiene presente che per la giurisprudenza: “Il divieto di eseguire le tipologie di lavori di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del 1904, «a distanza dal piede degli argini e loro accessori», vale inderogabilmente, a prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località, dovendosi interpretare la locuzione «fabbriche», nel testo richiamato, come riferita ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della norma di esaurire, unitamente all’utilizzo della locuzione « scavi », tutte le possibili modificazioni frutto dell’opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le piantagioni” (TAR Emilia–Romagna, Parma, 21/07/2016, n. 241).
Sicché ne risulta confermato il presupposto di fondo dell’ordinanza gravata, costituito dalla violazione della distanza legale di dieci metri dal piede dell’argine del vallone Iemale, e quindi, come sinteticamente ma correttamente denunzia l’ordinanza impugnata, dall’edificazione delle suddette opere “nella fascia di rispetto” di tale corso d’acqua.
Ciò posto, possono analizzarsi le censure di parte ricorrente: iniziando dalla prima, e tenuto presente l’evidenziato carattere inderogabile delle prescrizioni legislative, in tema di distanze delle costruzioni dagli argini dei corsi d’acqua (per la quale cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 02/10/2013, n. 814: “Il divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere la dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare la determinazione amministrativa censurata (per un’applicazione, in tema di rimozione di manufatti (impianti pubblicitari), collocati nella fascia di rispetto autostradale, cfr. TAR Abruzzo–Pescara, 08/07/2015, n. 288).
Del tutto ultronea, quindi, la dedotta riconducibilità, secondo il R.E. vigente, delle opere edilizie di cui sopra al regime autorizzatorio anziché a quello concessorio, onde supportare l’affermata necessità dell’assolvimento, da parte del Comune, dell’onere comunicativo in oggetto.
La seconda doglianza pone una questione d’incompetenza del dirigente comunale ad emanare l’ordinanza gravata, poiché il relativo potere spetterebbe –trattandosi di “polizia idrica”– alla Regione, ex art. 90 cpv. lett. e), del d.P.R. 616/1977 (secondo cui: “1. Tutte le funzioni relative alla tutela, disciplina e utilizzazione delle risorse idriche, con esclusione delle funzioni riservate allo Stato dal successivo articolo, sono delegate alle regioni che le eserciteranno nell’ambito della programmazione nazionale della destinazione delle risorse idriche e in conformità delle direttive statali sia generali sia di settore per la disciplina dell’economia idrica. 2. In particolare sono delegate le funzioni concernenti: (…) e) la polizia delle acque”).
La tesi, fondata su una risalente, oltre che non particolarmente perspicua, decisione del TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 22.05.2001, n. 829 (secondo cui la “violazione della zona di rispetto” non integrerebbe “occupazione”, la quale presupporrebbe “la realizzazione di attività permanentemente modificative a stretto ridosso del bene tutelato”, attività, invece, presenti nel caso di specie), in ogni caso –e in disparte la mancata evocazione in giudizio della Regione Campania– pare priva di pregio, alla luce del fondamentale principio costituzionale della sussidiarietà, non comprendendosi affatto per quale ragione l’ente comunale dovrebbe astenersi dalla vigilanza urbanistico–edilizia sul proprio territorio, sol perché venga in rilievo, in concreto, un problema di distanza di manufatti edilizi da un corso d’acqua, apparendo del resto evidente come sia arduo far rientrare il caso in esame nella materia “tutela, disciplina e utilizzazione delle risorse idriche”, sia pur sotto il peculiare angolo prospettico della “polizia delle acque”.
La terza censura, imperniata sulla riconduzione delle opere edilizie in oggetto a “interventi di restauro e risanamento conservativo”, come tali subordinati a semplice denunzia d’inizio attività, e, pertanto, sulla dedotta facoltatività dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, ex art. 37 cpv. T.U. 380/2001 (“Quando le opere realizzate in assenza (oggi) di segnalazione certificata di inizio attività consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) dell’articolo 3, eseguiti su immobili comunque vincolati in base a leggi statali e regionali, nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro”), non centra il fulcro del giudizio, come sopra individuato, vale a dire l’ormai accertata violazione del regime delle distanze legali dal piede dell’argine del vallone Iemale, con la conseguente inderogabilità dell’ordine di demolizione delle opere, poste all’interno di tale fascia di rispetto; onde nessun rilievo, a tale proposito, può assumere la riconduzione delle stesse all’uno o all’altro dei regimi abilitativi, in materia edilizia, previsti dal d.P.R. 380/2001.
Lo stesso dicasi, quanto alla quarta doglianza e all’ivi asserita erroneità della sanzione demolitoria, da riservare agli abusi realizzati in assenza di p.d.c., laddove nella specie, si sarebbe dovuta applicare esclusivamente la sanzione pecuniaria, prevista per le opere difformi dalla d.i.a. (oggi s.c.i.a.).
A fortiori le osservazioni precedenti valgono a destituire di fondamento il quinto ed ultimo motivo di ricorso, tendente a patrocinare una –oltretutto, ad avviso del Collegio, alquanto discutibile– impossibilità di procedere al ripristino dei luoghi, senza arrecare pregiudizio alle restanti parti dell’immobile.
L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine del vallone Iemale, ex art. 96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da comportare l’inedificabilità assoluta e l’impossibilità di sanatoria delle medesime, infine, rende recessive le esigenze di sicurezza delle persone e di tutela della propria proprietà, pure segnalate come pressanti dal ricorrente, posto che l’interesse pubblico all’eliminazione delle suddette opere deve considerarsi in re ipsa, giusta quanto sopra osservato, fermo restando tuttavia l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto per il resistente Comune di Monteforte Irpino, proprio in virtù del su richiamato principio di sussidiarietà), d’evitare rischi per la privata incolumità, segnalati come gravi, in ragione della vicinanza del corso d’acqua Iemale all’abitazione del ricorrente medesimo (anche provvedendo, se del caso, all’auspicata –sempre da parte ricorrente– recinzione dei “confini del muro spondale”) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.06.2017 n. 1021 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’installazione di stazioni radio base è compatibile con qualsiasi destinazione del piano regolatore comunale ed in particolare, rispetto alla norma dell’art. 338 T.U.L.S., si è espressamente affermato che in tale divieto di nuovi edifici non rientrano le stazioni radio base per gli impianti di telefonia mobile che per le loro caratteristiche non possono essere classificati come manufatti edilizi incompatibili con il vincolo cimiteriale, in quanto gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura, tenuto anche conto che tali impianti non ledono gli interessi dei quali il vincolo cimiteriale persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, assimilabili ai tralicci dell’energia elettrica, non arrecano alcun danno al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi di ordine sanitario, non impediscono l’ampliamento del cimitero.

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L’art. 338 del r.d. n. 1265 del 1934 prevede il divieto di nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che l’installazione di stazioni radio base è compatibile con qualsiasi destinazione del piano regolatore comunale ed in particolare, rispetto alla norma dell’art. 338 T.U.L.S. ha espressamente affermato che in tale divieto di nuovi edifici non rientrano le stazioni radio base per gli impianti di telefonia mobile che per le loro caratteristiche non possono essere classificati come manufatti edilizi incompatibili con il vincolo cimiteriale, in quanto gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura, tenuto anche conto che tali impianti non ledono gli interessi dei quali il vincolo cimiteriale persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, assimilabili ai tralicci dell’energia elettrica, non arrecano alcun danno al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi di ordine sanitario, non impediscono l’ampliamento del cimitero (Consiglio di Stato n. 5257 del 2015; sulla compatibilità degli impianti di comunicazione con il vincolo cimiteriale cfr. altresì, n. 5837 del 2014) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 28.02.2017 n. 2964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comporta la condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
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Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a “pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
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A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva peraltro anche un processo penale che si concludeva con la condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro 8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del 27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n. 7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009 con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina, sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il preavviso di rigetto ha una sua ragione giustificatrice nelle sole ipotesi in cui l’interessato possa apportare al procedimento dei fatti o argomentazioni idonei ad influire sulla valutazione dell’Amministrazione in sede di adozione del provvedimento conclusivo, con la necessaria conseguenza che simile apporto si rivela del tutto ininfluente nei provvedimenti vincolati, in vista dei quali, come nella specie, non è necessaria la comunicazione del motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
Peraltro l’interessato non può, come nella specie, limitarsi a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto, ma è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento finale.
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Con istanza del 22.01.2008 i ricorrenti avevano chiesto al Comune di Trinità D’Agultu e Vignola l’accertamento di conformità di alcune opere realizzate senza titolo sul lotto n. 40, di loro proprietà, ubicato nella lottizzazione Costa Paradiso; in particolare avevano chiesto la sanatoria di un muro di contenimento alto mt. 1 per contenere il naturale declivio del terreno del lotto e di un altro muro di contenimento realizzato per contenere il materiale utilizzato per il prolungamento della terrazza antistante l’abitazione.
Con il provvedimento impugnato, n. 4503 dell'08.05.2008, il responsabile del settore edilizia privata del Comune ha respinto la domanda per mancato rispetto delle distanze minime dal confine previste dalle N.T.A. del piano di lottizzazione, in relazione ai muri di contenimento realizzati, tra cui quello relativo al terrapieno sul quale è stata realizzata la terrazza.
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Il ricorso è in parte fondato e in parte infondato.
Con il primo motivo si deduce la censura di violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, per omessa comunicazione del preavviso di rigetto.
La censura non può essere accolta.
Il preavviso di rigetto ha una sua ragione giustificatrice nelle sole ipotesi in cui l’interessato possa apportare al procedimento dei fatti o argomentazioni idonei ad influire sulla valutazione dell’Amministrazione in sede di adozione del provvedimento conclusivo, con la necessaria conseguenza che simile apporto si rivela del tutto ininfluente nei provvedimenti vincolati, in vista dei quali, come nella specie, non è necessaria la comunicazione del motivi ostativi all’accoglimento della domanda (in termini Cons. Stato sez IV,10.05.2012, n. 2714 e sez. III, 28.09.2015, n. 4532; TAR Sardegna, sez. II, 15.06.2015, n. 868).
Peraltro l’interessato non può, come nella specie, limitarsi a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto, ma è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento finale (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 05.05.2016 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro a sostegno di un terrapieno non costituisce costruzione in senso stretto (rilevante, ai fini del rispetto delle distanze rispetto al confine), solo nell’ipotesi in cui sia di modeste dimensioni e abbia l’esclusiva funzione di evitare frane e smottamenti, non anche altre funzioni come la realizzazione di una terrazza.
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Con istanza del 22.01.2008 i ricorrenti avevano chiesto al Comune di Trinità D’Agultu e Vignola l’accertamento di conformità di alcune opere realizzate senza titolo sul lotto n. 40, di loro proprietà, ubicato nella lottizzazione Costa Paradiso; in particolare avevano chiesto la sanatoria di un muro di contenimento alto mt. 1 per contenere il naturale declivio del terreno del lotto e di un altro muro di contenimento realizzato per contenere il materiale utilizzato per il prolungamento della terrazza antistante l’abitazione.
Con il provvedimento impugnato, n. 4503 dell'08.05.2008, il responsabile del settore edilizia privata del Comune ha respinto la domanda per mancato rispetto delle distanze minime dal confine previste dalle N.T.A. del piano di lottizzazione, in relazione ai muri di contenimento realizzati, tra cui quello relativo al terrapieno sul quale è stata realizzata la terrazza.
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Con il terzo motivo si sostiene che l’obbligo di rispetto delle distanze dal confine, vale soltanto per le opere che sviluppano volume, mentre la terrazza realizzata non creerebbe alcun volume.
La censura è infondata.
Come esattamente osservato dalla difesa del Comune,
il muro a sostegno di un terrapieno non è costruzione nella sola ipotesi in cui sia di modeste dimensioni ed abbia l’esclusiva funzione di evitare frane e smottamenti. Nel caso di specie il muro di contenimento ha un’altezza superiore a due metri ed è stato realizzato per creare una terrazza da parte dei ricorrenti.
I muri di contenimento del terreno di appena un metro, quindi di modeste dimensioni, non rientrano nel concetto di costruzioni, cosicché per essi non vale la regola contenuta nelle N.T.A. del piano di lottizzazione, sul rispetto della distanza di 4 metri dal confine.
Pertanto, in relazione ai muri di altezza fino a metri 1, realizzati per contenere il naturale declivio del terreno, il ricorso deve essere accolto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 05.05.2016 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it) (link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina delle distanze o del regime autorizzativo delle nuove costruzioni.
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1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità degli atti mediante i quali le competenti amministrazioni –ciascuna per la parte di proprio intervento– hanno assentito la realizzazione di un’opera presso il cortile della proprietà del sig. Vi.Ga., ubicato sulla via ... in territorio del Comune di Cannobio (VB), in zona vincolata paesaggisticamente, e consistente nell’apertura di un nuovo passo carraio e livellamento del terreno (ai fini di ospitare il parcheggio di autovetture).
A contestare le opere sono i ricorrenti vicini di casa, la cui proprietà è confinante con quella del sig. Ga., i quali sostengono trattarsi, in realtà, della realizzazione di un nuovo terrapieno, con muri di contenimento alti fino a 90 cm., in violazione delle prescrizioni urbanistiche di zona nonché delle disposizioni di legge in materia di autorizzazione paesaggistica e di edificazione di nuove costruzioni.
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3.2. Quanto alla reale consistenza dell’intervento, deve osservarsi quanto segue.
Le tavole di progetto depositate in giudizio, nel raffronto tra ante e post operam (si vd., in particolare, le tavole allegate all’istanza di autorizzazione paesaggistica, sub doc. n. 3 del controinteressato – quelle della comunicazione di inizio lavori, depositate dai ricorrenti sub doc. 14, sono invece illeggibili nei valori rilevanti), indicano chiaramente che la differenza massima in altezza derivante dall’esecuzione delle opere, rispetto allo stato originario dei luoghi, tocca i 40 cm.: all’interno del cortile della proprietà Gallotti, infatti, si indicava come valore originario quello di “+1075”, nel punto più vicino alla via ..., e di “+1050”, nel punto immediatamente più a nord; laddove, nel progetto del post operam, quei valori sono sostituiti, rispettivamente, da “+1095” e da “+1090”, e dunque con un’altezza maggiore prevista di soli +20 e +40 cm.
In merito i ricorrenti sostengono che quei valori di altezza sarebbero stati falsamente rappresentati dal progettista, come sarebbe dimostrato dal “cumulo di terra incolta” raffigurato nella documentazione fotografica allegata alla comunicazione di inizio lavori (loro doc. n. 12), circostanza che –a loro dire– sarebbe sintomatica del fatto che solo di recente era stata ivi riportata della terra proprio allo scopo di innalzare artificialmente il suolo e di falsare, così, le successive risultanze.
Tuttavia i ricorrenti non provano quanto asseriscono; nessuna certezza può invero desumersi dalla richiamata documentazione fotografica, né tantomeno dal raffronto di essa con la foto depositata sub doc. n. 7 (rappresentativa dello stato dei luoghi prima del denunciato riporto di terra; fotografia, peraltro, scattata da una distanza oggettivamente inidonea a rendere chiaramente quanto sostenuto dai ricorrenti), elementi dai quali non è affatto desumibile né che l’originaria altezza dei luoghi misurasse solo +1000 cm. né che ci sia effettivamente stato, nelle condizioni di tempo denunciate dai ricorrenti, l’apposito “riporto di terra” volto a modificare artificiosamente lo stato dei luoghi. Nonostante, pertanto, che la relazione descrittiva parlasse della realizzazione di un nuovo “terrapieno”, e nonostante che la documentazione fotografica depositata dai ricorrenti faccia presumere, a prima vista, un non trascurabile impatto visivo dell’innalzamento realizzato, quest’ultimo in realtà –così come emerge dalle raffigurazioni e dalle misurazioni oggettive indicate nelle tavole di progetto– non presenta le caratteristiche tipiche del “nuovo terrapieno”, quali in particolare ricostruite dalla giurisprudenza amministrativa, e non rientra pertanto nel concetto di “nuova costruzione”.
In proposito, si deve ricordare che, secondo la costante giurisprudenza, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina delle distanze o del regime autorizzativo delle nuove costruzioni (cfr., tra le tante, TAR Sicilia, Catania, sez. I, sent. n. 2721 del 2013).
Nel caso di specie, il naturale declivio del terreno, già esistente in precedenza, è stato oggetto solo di un’opera di livellamento e di minimo innalzamento (si ripete, per la sola misura di +40 cm., nel punto più alto), con pavimentazione, realizzazione di appositi muretti di sostegno e complessiva funzionalizzazione al parcheggio di autoveicoli, opera che, per tali oggettive caratteristiche, secondo il Collegio rientra appieno nella definizione di cui all’art. 6, comma 2, lett. c, del d.P.R. n. 380 del 2001 (“opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta”), con la conseguenza di rientrare tra le attività edilizie libere realizzabili con mera comunicazione di inizio lavori
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.11.2015 n. 1557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della conformità alle distanze legali, non è considerato come costruzione il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a circoscrivere il fondo, adempie anche alla funzione di supporto e contenimento del declivio naturale; qualora invece il dislivello sia di origine artificiale, è da considerarsi quale costruzione in senso tecnico-giuridico il muro che rivesta in modo permanente e definitivo anche la funzione di contenimento di un terrapieno creato dall’opera dell’uomo.
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Il ricorrente impugna il parere del Comune di Fossacesia al SUAP Sangro Aventino, espresso in merito a istanza di permesso di costruire in sanatoria riferita a talune opere eseguite nell’ambito di un capannone artigianale e relative pertinenze in difformità dai vari titoli edilizi in precedenza rilasciati, nella parte in cui prescrive che una di tali opere (sopraelevazione di un muro a confine con altra proprietà di cui a DIA 4421/1997) venga ricondotta allo stato di cui alla DIA entro il termine previsto dall’ingiunzione di demolizione in precedenza notificata. Ciò in base alla considerazione che la suddetta sopraelevazione può “configurarsi come muro di contenimento capace di incidere sull’osservanza delle distanze”.
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Considerato che il Comune si è costituito in giudizio senza controdedurre, il Collegio rileva:
   - che è pacifico in atti che il muro in questione ha altezza inferiore a tre metri, per cui “non è considerato per il computo della distanza indicata dall’art. 873” (art. 878 c.c.) e che non sono contestate le risultanze della relazione tecnica in atti, da cui si evince che “la sopraelevazione del muro in questione non ha prodotto alcun incremento del dislivello preesistente tra i due fondi/aree attigui, avendo determinato semplicemente un diverso profilo della scarpata di delimitazione del rilevato già presente”;
   - che è pertanto immotivato, rispetto al principio secondo cui “nel caso, peraltro, di fondi a dislivello, nei quali adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di norma come isolata e l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è l'altezza del terrapieno o della scarpata; pertanto, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale, mentre nel caso di dislivello di origine artificiale deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico il muro che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento di un terrapieno creato dall'opera dell'uomo” (Cass. 8144/2001), l’assunto secondo cui il predetto muto è “capace di incidere sull’osservanza delle distanze”;
   - che il predetto rilievo manifesta l’illegittimità della condizione apposta e ne determina l’annullamento, con ciò determinando l’assorbimento del secondo profilo sopra riportato;
   - che, in ordine alla domanda di annullamento dell’atto nella parte in cui viene richiesto il preventivo parere della Soprintendenza beni archeologici, il Collegio rileva che l’Amministrazione statale interessata non è stata evocata in giudizio, il che determina l’inammissibilità della censura in quanto il suo esito è in grado di produrre effetti anche sull’interesse pubblico che fa capo alla predetta Soprintendenza.
In tali limiti il ricorso va accolto, con annullamento dell’atto impugnato nei limiti indicati in motivazione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 09.07.2015 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di proprietà e confini, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell’osservanza delle distanze legali il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento di un terrapieno (Cfr. Cass. civ. 15.06.2001 n. 8144) (TRIBUNALE di Massa, Sez. civile, sentenza 29.05.2015 n. 606).

EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi di uso non consentito della cosa comune e non di violazione di distanze perde rilievo la tematica relativa alla qualifica di costruzione o meno da dare al così detto“terrapieno” del convenuto: infatti ciò che rileva in questa sede è che il comproprietario si è in ogni caso appropriato di un bene comune e lo ha assoggettato al suo uso e godimento esclusivo, sottraendolo al pari uso dell’attrice. Va dunque accolta la domanda di rivendica e restituzione della parte del mappale illegittimamente occupata dall’edificio del convenuto e del terzo chiamato, con condanna degli stessi alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, mediante rimozione della parte di edificio di loro proprietà che ricade nella proprietà comune.
Essendo in ogni caso la costruzione dei convenuti a distanza legale da quella dell’attrice questa non può lamentare alcun danno tipico da violazione distanze legali (ad es. minor luce, minor aria, minor amenità del suo fondo e della sua abitazione) ma solo il danno eventualmente derivante dall’essere stato il mappale in parte destinato ad un uso esclusivo; il che tuttavia non si vede quale danno in concreto possa aver cagionato all’attrice la quale ha comunque potuto continuare a godere della scala che insiste sull’altra parte di esso per accedere e recedere dalla propria abitazione
(TRIBUNALE di Genova, Sez. III civile, sentenza 14.05.2015 n. 1501).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di dislivello derivante dall’opera dell’uomo, sono da considerare costruzioni in senso tecnico-giuridico, rientranti nell’art. 873 c.c., il terrapieno ed il relativo muro di contenimento, che lo abbiano prodotto, o che abbiano accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi.
E' pertanto illegittimo il provvedimento di accertamento di conformità richiesto con d.i.a. a sanatoria in relazione a lavori oggetto di d.i.a. in variante al permesso di costruire rilasciato per la realizzazione di un impianto di distribuzione di carburanti, ove venga in rilievo un muro di fabbrica –di altezza superiore a tre metri, e dunque non considerabile quale muro di cinta ex art. 878 c.c.– recante sostegno di un terrapieno e posto a una distanza dal confine laterale inferiore ai mt. 3 prescritta dall’art. 873 c.c..
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 Considerato che, nel merito, sono palesemente fondate le censure di violazione dell’art. 873 c.c. e di erronea applicazione alla fattispecie dell’art. 878 c.c., dedotte dalla ricorrente, atteso che:
   - la stessa controinteressata ammette nelle sue difese (v. p. 7 della memoria del 19.11.2012) il superamento del limite di altezza di mt. 3 in alcuni tratti del muro per cui è causa, ciò che vale di per sé ad impedire l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 878, primo comma, c.c. (il quale permette di non considerare, per il computo della distanza di cui all’art. 873 c.c., il muro di cinta ed ogni altro muro isolato che non abbia un’altezza superiore ai tre metri);
   - sul punto si richiama la giurisprudenza di legittimità, secondo cui non può essere considerato muro di cinta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 878 c.c. (e cioè per l’inapplicabilità delle distanze legali tra le costruzioni ex art. 873 c.c.) quello che, sebbene posto sul confine ed isolato da entrambe le facce, presenti un’altezza superiore a mt. 3, dovendosi in tal ipotesi osservare la distanza di cui all’art. 873 c.c. (Cass. civ., Sez. II, 02.02.2000, n. 1134);
   - per di più la documentazione prodotta dalla ricorrente dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che nella fattispecie all’esame la costruzione dell’impianto di distribuzione di carburanti ha comportato la realizzazione di un dislivello artificiale, che ha modificato artificialmente l’andamento altimetrico del terreno.
Ciò è comprovato, in particolare, dalla documentazione fotografica allegata alla perizia di parte (all. 9 al ricorso), che mostra la situazione dell’area interessata –e soprattutto il declivio del terreno– prima e dopo la costruzione dell’impianto di distribuzione di carburanti: in tali fotografie, infatti, si può rilevare che, mentre prima della suddetta costruzione le aperture situate al piano terra della palazzina confinante con l’impianto erano in gran parte visibili, dopo la conclusione dei lavori, a causa della sopraelevazione artificiale del terreno, tali aperture non sono più in alcun modo visibili ed anzi il muro realizzato arriva al marcapiano del primo piano della predetta palazzina.
In secondo luogo, dette fotografie confermano oltre ogni dubbio che il muro di cui si discute ha una funzione di contenimento del terrapieno creato ex novo ed artificialmente e che esso non costituisce né un mero muro di cinta, né ha una funzione di sostegno del declivio naturale, come sostenuto dal Comune di Norma nella sanatoria impugnata, attesa la sopraelevazione artificiale del terreno che si desume dal confronto tra le fotografie ante operam e post operam;
   - alla luce di quanto ora illustrato, non può che concludersi per l’assoggettamento del muro per cui è causa alla disciplina ex art. 873 c.c. A tale conclusione si perviene sulla base della giurisprudenza di legittimità ed in specie sulla base di Cass. civ., Sez. II, 15.06.2001, n. 8144, che ha configurato quale “costruzione” (come tale rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 873 c.c.) la realizzazione di un terrapieno artificiale, con riporto di terra addossato al muro di cinta costruito dai vicini, e di un cordolo di calcestruzzo in aderenza al predetto muro, per rafforzare la funzione di contenimento del terreno fatta assumere al muro stesso;
   - infatti, secondo la decisione in commento, che richiama una giurisprudenza di legittimità del tutto pacifica, il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente vera e propria costruzione, per il rispetto delle distanze legali deve considerarsi come muro di fabbrica e non già soltanto come muro di cinta (che, a norma dell’art. 878 c.c., è quello destinato alla protezione e delimitazione del fondo, con altezza non superiore a tre metri e con le due facce isolate).
È altresì pacifico in giurisprudenza che, in caso di dislivello derivante dall’opera dell’uomo, sono costruzioni in senso tecnico-giuridico (quindi rientrano nell’art. 873 c.c.) il terrapieno ed il relativo muro di contenimento, che lo abbiano prodotto, o che abbiano accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi (cfr. Cass. civ., Sez. II, 21.05.1997, n. 4541);
   - dal riferito insegnamento giurisprudenziale si ricava l’illegittimità del provvedimento di sanatoria, per non avere la P.A. tenuto conto che, come si legge nel già citato verbale della Polizia Municipale del 25.02.2010, il muro in parola non rispetta le distanze prescritte dal ricordato art. 873 c.c.: infatti, mentre quest’ultimo prevede per le costruzioni una distanza minima di mt. 3, il verbale della Polizia Municipale menziona la presenza di un muro di contenimento in cemento armato dell’intera struttura “che dista dal confine laterale interno di (sic) circa m. 01” (TAR Lazio-Latina sentenza 05.05.2014 n. 324).

EDILIZIA PRIVATA: Non possono essere considerati muri di cinta, ai fini della loro esclusione dal regime delle distanze, i manufatti aventi funzioni prevalentemente diverse da quella di delimitazione e difesa del fondo, quali la funzione di contenimento di un terrapieno artificiale (TRIBUNALE di Benevento, Sez. civile, sentenza 08.01.2014 n. 28).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina delle distanze e, pertanto, non è assoggettato al regime autorizzativo delle nuove costruzioni, mentre sia il muro di cinta sia il muro di contenimento elevato ad opera dell’uomo per assolvere in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento di un terrapieno artificiale, sono assoggettati, così come tutte le altre costruzioni, alle distanze dal confine stradale imposte dal Codice della strada e dal relativo regolamento di esecuzione a garanzia della sicurezza della circolazione.
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Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo di ricorso sostengono i ricorrenti che la natura di muro di contenimento, e non già di cinta, ricollegabile al manufatto in progetto, rende l’opera insuscettibile, come tale, di integrare una costruzione assoggettata alla fascia di rispetto stradale.
Tale doglianza, condivisibile in generale dal Collegio ove riferita esclusivamente al muro di contenimento della proprietà, non può trovare accoglimento nel caso concreto, perché i ricorrenti pretendono di estendere lo speciale regime che con riferimento ai muri di sostegno di dislivelli naturali consente di derogare alla disciplina legale sulle distanze minime dal manto stradale (Codice della strada e relativo regolamento di esecuzione), anche all’intervento edilizio riguardante un locale interrato destinato a deposito, realizzato all’interno del terrapieno.
Giova premettere che, in tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina delle distanze, e pertanto non è assoggettato al regime autorizzativo delle nuove costruzioni, così come evidenziato dai ricorrenti con il primo motivo di ricorso, mentre sia il muro di cinta (cfr. Cass. civ., n. 8144/2001; Cons. Stato, n. 2954/2008) sia il muro di contenimento elevato ad opera dell'uomo per assolvere in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento di un terrapieno artificiale, sono assoggettati, così come tutte le altre costruzioni, alle distanze dal confine stradale imposte dal Codice della strada e dal relativo regolamento di esecuzione a garanzia della sicurezza della circolazione.
Nel caso di specie risulta incontrovertibilmente dalla documentazione di causa (check list, relazione tecnica ed elaborati grafici) che il progetto di demolizione e ricostruzione riguarda due strutture, di cui una è il locale interrato adibito a deposito, da ricostruire mantenendo la stessa volumetria e sagoma e che “è tutt’oggi destinato a deposito di materiali ed attrezzature agricole a servizio del terreno e della casa di proprietà della committenza” (relazione tecnica al progetto), e l’altra un muro di contenimento della proprietà che rappresenta il prolungamento di tale locale interrato.
La verificazione disposta dalla Sezione ha poi consentito di accertare che il confine lato nord che affaccia sulla S.S. 113 è solo in parte costituito dal muro di contenimento della proprietà, che si sviluppa per una lunghezza di metri 10,95, mentre la restante parte di tale confine è costituita dal manufatto interrato che, come si evince dalla pianta allegata alla relazione di verificazione, si affaccia direttamente sulla strada per un lunghezza di poco più di 11 metri con un accesso carrabile di metri 3,75 munito di portone in ferro scorrevole su due guide esterne.
Gli esiti della verificazione, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, rendono chiaro che solo una delle due strutture interessate dal progetto presentato dai ricorrenti è un muro che assolve al contenimento del terreno, mentre l’altra struttura consiste in un manufatto adibito a deposito al servizio dell’immobile principale, cui non può riconoscersi natura di muro di contenimento nonostante le asserzioni di segno contrario dei ricorrenti.
A fronte di tali esiti vengono meno i presupposti di fatto su cui si fondano i ricorrenti, i quali non hanno chiesto semplicemente di demolire e ricostruire il muro di contenimento esistente mantenendolo sul confine stradale, ma pretendono di demolire e ricostruire anche il locale deposito senza arretrare da detto confine.
Ciò che, invero, non è possibile ai sensi dell’art. 16 del codice della strada, che vieta ai proprietari o aventi diritto dei fondi confinanti con le proprietà stradali fuori dei centri abitati di “costruire, ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade, edificazioni di qualsiasi tipo e materiale” (lett. b), rinviando al regolamento di esecuzione per la determinazione delle distanze dal confine stradale entro le quali vigono i divieti di cui al comma 1, tra cui, per quanto qui di interesse, il divieto di cui alla lettera b).
Il divieto riguarda, e dunque le distanze si applicano, non solo alle "nuove costruzioni", ma altresì alle ricostruzioni di manufatti di qualsiasi tipo e materiale conseguenti a demolizioni integrali, come nella fattispecie, e anche ai volumi interrati, poiché, come affermato dalla giurisprudenza, il limite di edificabilità in questione non può essere inteso restrittivamente come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo, suscettibili come tali di costituire pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dall'ente proprietario della strada per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni, con il risultato che il vincolo in questione, traducendosi in un divieto assoluto di costruire, vale indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 3498 del 2011; TAR Toscana, Firenze, Sez. III 15.05.2013, n. 806).
Tanto più poi che il locale deposito in argomento, ricavato all’interno del terrapieno, prospetta direttamente sulla strada con una apertura carrabile, suscettibile pertanto di costituire pregiudizio alla sicurezza della circolazione stradale e alla incolumità delle persone.
Ne consegue che la demolizione e successiva ricostruzione del locale interrato è soggetta al rispetto delle distanze dal confine stradale imposte dal codice della strada e relativo regolamento di attuazione (art. 26 richiamato dall’amministrazione), e l’ANAS legittimamente ha contestato ai ricorrenti la violazione della fascia di rispetto stradale, atteso che le richiamate disposizioni di legge e regolamentari sulle distanze minime da osservarsi dalle costruzioni a confine con le strade al di fuori dal perimetro del centro abitato sono dirette alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale.
Da quanto fin qui esposto discende altresì l’infondatezza della seconda censura sollevata in ricorso, in quanto non è ravvisabile nel comportamento dell’ANAS alcun eccesso di potere o difetto di istruttoria, né tantomeno alcun “capriccio” (memoria di parte ricorrente del 07.02.2012) nel non consentire una “ricostruzione” che ictu oculi si manifesta come contra legem.
L’assunto difensivo di parte ricorrente cade anche con riferimento all’art. 30 del codice della strada, che non è stato richiamato nel provvedimento impugnato ma che i ricorrenti richiamano nella seconda censura del ricorso, in quanto la norma consente, lungo le strade ed autostrade, la costruzione e la riparazione solo di quelle opere di sostegno che assolvano alla esclusiva funzione di difendere e sostenere i fondi adiacenti, senza possibilità di ulteriori e diverse destinazioni ed utilizzazioni, come avviene invece nel caso di specie.
La comunicazione interna dell’Area Tecnica Esercizio Strade Statali della Sezione compartimentale dell’ANAS di Catania del 01.10.2012, depositata in giudizio dall’Avvocatura dello Stato, evidenzia al riguardo che “Appare del tutto evidente che la funzione del muro non è esclusivamente quella che dovrebbe assolvere (statica), bensì è destinato congiuntamente ad altri usi (locale adibito a deposito).” .
Va infine rilevato che neanche il paventato pericolo di crollo del muro, a prescindere da quanto risulta dalla verificazione (“al momento non risulterebbe compromessa la staticità delle strutture” – relazione di verificazione sub “conclusioni”), può costituire argomento idoneo a giustificare la pretesa di parte ricorrente ad ottenere il rilascio da parte dell’ANAS di un provvedimento illegittimo.
Per le considerazioni esposte, il ricorso in epigrafe va respinto in quanto infondato; va conseguentemente respinta la domanda risarcitoria (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.11.2013 n. 2721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di fondi a dislivello, mentre non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, destinato ad impedirne smottamenti o frane, devono invece considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all’opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (nella specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici del merito che avevano qualificato come costruzione il manufatto creato artificialmente dalla parte per consentire l’ampliamento del piazzale sovrastante di sua proprietà e fargli da sostegno).
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MASSIMA
2) Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 15 delle disposizioni preliminari del c.c., del principio "iura novit curia" e dell'art. 873 c.c., nonché la contraddittorietà della motivazione.
Deduce che, essendo stato accertato dal C.T.U. che la convenuta ha realizzato un terrapieno con muro di contenimento, la Corte di Appello non avrebbe dovuto applicare il pregresso regolamento edilizio comunale di Trento, bensì quello sopravvenuto, in vigore a far data dal 29.02.2004, che all'art. 12, comma 3, ha introdotto distanze inferiori per i terrapieni e i riporti con i relativi muri di contenimento.
Rileva, inoltre, che il giudice del gravame non avrebbe dovuto prendere a riferimento il versante come innaturalmente inclinatosi a causa dei lavori eseguiti a valle dal Condominio Ze., non seguiti dal ripristino dello stato dei luoghi prescritto nella licenza edilizia, ma avrebbe dovuto considerare solo l'andamento naturale del piano di campagna, come ricostruito planimetricamente dal C.T.U. e, conseguentemente, accertare la piena conformità dei manufatti all'art. 12 del nuovo regolamento edilizio.
Il motivo si conclude con la formulazione di tre quesiti ex art. 366-bis c.p.c., con cui si chiede:
   A) "Se una muratura realizzata nel Comune di Trento avente funzione di contenimento di retrostante terrapieno viene disciplinata dall'art. 12 del regolamento edilizio di / Trento approvato con delibera del 28.01.2004";
   B) "se il regolamento edilizio del Comune di Trento è norma regolamentare integrativa del codice civile sulle distanze legali e, quindi, se le sue modificazioni intervenute in corso di causa debbono essere immediatamente applicate dal giudicante ai fini del decidere in ogni stato e grado e fino al passaggio in giudicato, e cioè d'ufficio o essendo comunque intervenuta richiesta di una parte";
   C) "se costituisce motivazione contraddittoria ed in parte omessa l'avere il giudice dichiarato di condividere gli accertamenti di cui alla consulenza tecnica da esso disposta ma poi avere disatteso, senza motivazione specifica, le stesse risultanze peritali, nella specie ricostruzione dell'andamento del piano naturale di campagna manomesso con abuso edilizio permanente dall'attore-resistente ed applicazione dell'art. 12, comma 3, del nuovo testo del regolamento edilizio di Trento esonerativi dalla distanza di m. 5 dal confine".
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha accertato che i due muri realizzati dalla Ed., costituenti un'unica costruzione, "che consente il riempimento con nuovo terreno del volume creato tra il profilo originale del pendio ed il parametro interno della muratura", non rappresentano il contenimento di un versante franoso a tutela del fondo sottostante, ma sono destinati al sostegno della parte allargata del piazzale superiore.
Tale accertamento non può essere riposto in discussione in questa sede, costituendo espressione di un apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito ed essendo sorretto da una motivazione immune da vizi logici, con cui è stato fatto riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio.
Poiché, dunque, i muri in questione non hanno la funzione di mero contenimento di un dislivello naturale, il giudice del gravame ha ritenuto che essi costituiscono una "costruzione" in senso tecnico-giuridico, soggetta alla distanza regolamentare di cinque metri dal confine prescritta dallo regolamento locale, senza che in relazione a tali opere possano trovare applicazione le minori distanze previste, con riferimento ai "muri di cinta e muri di contenimento", dallo ius superveniens invocato dalle ricorrente, rappresentato dall'art. 12 del nuovo regolamento edilizio del Comune di Trento.
Così decidendo, la Corte di Appello si è uniformata ai principi più volte enunciati dalla giurisprudenza, secondo cui,
in caso di fondi a dislivello, mentre non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, destinato ad impedirne smottamenti o frane, devono invece considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all'opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per n accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. 10.01.2006 n. 145; Cass. 21.05.1997 n. 4511; Cass. 11.01.1992 n. 243; Cass. 06.05.1987 n. 4196).
Nel caso di specie, essendosi in presenza di un manufatto creato artificialmente dalla convenuta per consentire l'ampliamento del piazzale sovrastante di sua proprietà e fargli da sostegno, non par dubbio che tale opera debba essere considerata una vera e propria "costruzione", come tale assoggettata al rispetto delle ordinarie distanze legali dettate in materia dall'art. 873 c.c. e dalle norme integrative locali.
Sotto altro profilo, si osserva che appare altrettanto evidente che, al fine di valutare la conformità dell'opera realizzata dalla Ed. alle prescrizioni regolamentari, si debba tener conto della situazione dei luoghi quale si presentava all'epoca della costruzione, e non di quella, risalente a circa 20 anni prima, esistente al momento della edificazione effettuata dal Condominio Ze.. E' alle condizioni attuali dei luoghi, di conseguenza, che la ricorrente avrebbe dovuto adeguare la sua costruzione; sicché essa non può pretendere di sottrarsi all'osservanza della normativa locale sulle distanze in considerazione delle modifiche apportate alla originaria pendenza del terreno in occasione dei pregressi lavori eseguiti dall'attore.
La convenuta, infatti, ove si fosse ritenuta danneggiata dagli abusi commessi dalla controparte, avrebbe potuto eventualmente avvalersi di altri strumenti, ma non avrebbe certo potuto sentirsi autorizzata ad eseguire costruzioni a distanza inferiore a quella prescritta dalle norme legali e regolamentari Non sussistono, pertanto, le violazioni di legge e i vizi di motivazione denunciati dalla ricorrente, essendo la decisione impugnata sorretta da argomentazioni corrette sul piano logico e giuridico, con cui è stato fatto buon governo dei principi affermati in materia di distanze delle costruzioni dalla giurisprudenza  (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.09.2013 n. 21192).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di applicazione della disciplina delle distanze legali, il terrapieno deve essere considerato una costruzione a tutti gli effetti quando completi la struttura e la funzionalità di un altro corpo di fabbrica “principale”.
In tema di distanze legali, rientrano nel concetto di “costruzione”, agli effetti dell’art. 873 cod. civ., il terrapieno ed i locali in esso ricompresi, avendo il medesimo terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano di campagna posto a quote differenti dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a chiusura statica del terreno, e potendo, tuttavia, egualmente qualificarsi il riporto di terra volto a sopraelevare il piano di campagna allo scopo di coprire degli insediamenti edilizi, senza che risulti di impedimento alla ravvisata equiparazione del terrapieno alla “costruzione” la sopravvenuta separazione del muro di contenimento dal retrostante accumulo di terreno, in quanto tale muro è soltanto diretto ad eliminare la pericolosità del riporto, allorché non sia stata rispettata la distanza solonica di cui all’art. 891 cod. civ..

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IX — Vanno esaminati congiuntamente i motivi da uno a cinque per la loro stretta connessione logica, rappresentata dall'interpretazione del concetto di costruzione, se riferito ad un terrapieno ed ai locali in esso ricompresi, e del valore da attribuire ad un elemento costruttivo —la pavimentazione che sormonta detto terrapieno- adducente all'abitazione principale.
IX.a — Va innanzi tutto statuito che rientra in un giudizio di fatto —insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato— l'accertamento se persista la caratteristica di "terrapieno" nel riporto di terreno che abbia perso uno dei contrafforti —quello verso il confine-: sul punto la Corte bresciana ha assunto che le innovazioni apportate, per mezzo di uno scavo a confine, nel corso del giudizio di primo grado, se avevano reso impossibile mettere in rapporto il manufatto confinario così lasciato scoperto ed il retrostante terreno, tuttavia non avevano eliminato il carattere di "costruzione" da attribuirsi al detto riporto -ed alle costruzioni che al suo interno si trovavano- per lo stretto rapporto che il primo e le seconde avevano con l'edificio principale.
IX.b — Tale ricostruzione va mantenuta ferma in quanto
il terrapieno, nella sua espressione più frequente, ha la funzione di stabilizzare il piano di campagna originariamente posto, rispetto al confine, a quote differenti dal terreno del vicino -e rispetto alla cui finalità è coessenziale la presenza di un manufatto a chiusura statica del terreno medesimo-; medesima qualificazione però deve essere attribuita al riporto di terra mediante il quale si sopraelevi il livello dell'originario piano di campagna, anche allo scopo —qui caratterizzante la fattispecie- di coprire degli insediamenti edilizi-; in entrambe le ipotesi la sopravvenuta separazione del manufatto —muro di contenimento- dal retrostante riporto di terra non è di impedimento alla equiparabilità del terrapieno alla costruzione, essendo il muro funzionale solo alla eliminazione della pericolosità statica del riporto, le volte in cui non sia stata rispettato il principio della c.d. scarpa o distanza solonica, introdotto dall'art. 891 cod. civ. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 13.05.2013 n. 11388).

EDILIZIA PRIVATA: Anche un rialzamento del terreno realizzato a opera dell’uomo può integrare gli estremi della costruzione secondo quanto previsto dall’art. 873 c.c., tenuto conto che ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera.
Nel caso di dislivello derivante dall’opera dell’uomo devono ritenersi costruzioni, in senso tecnico giuridico, il terrapieno e il relativo muro di contenimento che lo abbiano prodotto o che abbiano accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi.
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3. I due motivi, tra loro collegati, possono essere esaminati congiuntamente risolvendosi nell'unitaria censura della sentenza che ha escluso la natura di costruzione alla sopraelevazione artificiale del piano di campagna da parte del confinante. I motivi si concludono con la formulazione di un quesito per ciascun motivo.
Il primo quesito è diretto a stabilire se per costruzione debba intendersi anche quella realizzata con riporto di terreno con il quale venga artificialmente aumentato il piano naturale del fondo rispetto a quello confinante e comunque il dislivello naturale tra due fondi, indipendentemente dallo spessore e dal volume del terrapieno.
Il secondo quesito è diretto a stabilire se è soggetto all'obbligo delle distanze, in quanto equiparabile a costruzione, anche il terrapieno realizzato artificialmente anche se non appoggiato ad un muretto di contenimento.
4. I motivi sono infondati.
Il giudice di appello ha escluso che la realizzazione del terrapieno costituisse "costruzione" sulla base di due rationes decidendi, una delle quali costituita dalla modestia dell'intervento realizzato con semplice apporto di terra su terra per pochi centimetri di altezza.
Occorre premettere:
   - che in sede possessoria era stato richiesto di riportare la quota del terreno al livello preesistente per la distanza di metri cinque dal confine,
   - che è pacifico che la quota del terreno è stata rialzata artificialmente di pochi centimetri e senza la realizzazione di muratura di contenimento;
   - che non è controverso in causa che la violazione delle distanze possa costituire molestia nel possesso, come d'altra parte già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la violazione delle distanze legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso del fondo finitimo, contro la quale è data l'azione di manutenzione, perché anche quando non ne comprime di fatto l'esercizio, apporta automaticamente modificazione o restrizione delle relative facoltà (v. Cass. 03/07/1998 n. 6483; Cass. 23/01/1995 n. 724; Cass. 19/03/1991 n. 2927; Cass. 09/09/1989 n. 3911).
Questa Corte ha, inoltre, di recente riaffermato il principio, qui condiviso, secondo il quale
anche un rialzamento del terreno realizzato ad opera dell'uomo può integrare gli estremi della costruzione secondo quanto previsto dall'art. 873 c.c., tenuto conto che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cass. 20/07/2011 n. 15972).
Già in precedenza era consolidato l'orientamento secondo il quale
nel caso di dislivello derivante dall'opera dell'uomo devono ritenersi costruzioni in senso tecnico-giuridico il terrapieno ed il relativo muro di contenimento che lo abbiano prodotto o che abbiano accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi (v. Cass. 15/06/2001 n. 8144; Cass. 02/02/2000 n. 1134; Cass. 21/05/1997 n. 4541).
Tuttavia questi principi non sono applicabili alla fattispecie nella quale è stato escluso dalla Corte di Appello con motivazione di puro merito, che l'opera di sistemazione del terreno in concreto realizzata possa essere qualificata come costruzione anche tenendo conto dei criteri elaborati da questa Corte per l'individuazione dell'ambito della nozione di costruzione.
Questa valutazione, in primo luogo, esclude la dedotta violazione dell'art. 873 c.c. che impone di rispettare, nelle costruzioni, le distanze legali eventualmente anche maggiori stabilite dai regolamenti locali (nel caso concreto 5 metri).
Il non avere riconosciuto che non è costruzione il riporto di pochi centimetri di terreno sul suolo non significa non avere ricondotto il fatto accertato alla fattispecie di legge (art. 873 c.c.) in quanto a tal fine sono state valorizzate circostanze tali da escludere il presupposto in fatto di applicabilità della norma, ossia l'esistenza di una costruzione anche nell'accezione recepita dalla giurisprudenza di legittimità; ciò comporta che neppure è messo in discussione il principio per il quale le disposizioni sulle distanze legali non lasciano al giudice nessun margine di accertamento e di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza e, in particolare, alla formazione di eventuali intercapedini (dannose o pericolose), avuto riguardo alle finalità di natura pubblicistica cui dette disposizioni si ispirano (Cass. n. 213/2006; n. 15367/2001, n. 8023/1999, n. 12195/1998).
Infine non messo in discussione il principio dell'assolutezza del diritto reale che non tollera limitazioni e la cui tutela non può quindi essere subordinata alla prova di un pregiudizio (cfr. ex multis Cass. 12/10/2009 n. 21629).
In conclusione, una volta escluso che la decisione impugnata si ponga in diretto contrasto con la disposizione che si assume violata (art. 873 c.c.), la questione si riduce a stabilire se sia ravvisabile il pur dedotto vizio di motivazione in ordine alla qualificazione dell'intervento e, in particolare, se nell'escludere che tale intervento possa essere considerato una "costruzione" possa ravvisarsi un contrasto con la nozione elaborata dalla giurisprudenza quanto alle caratteristiche della costruzione ai fini del rispetto delle distanze legali (riemergendo, solo in caso di accertato contrasto, anche il vizio di falsa applicazione dell'art. 873 c.c.).
A questo punto riacquista rilevanza il giudizio sulla astratta idoneità alla creazione di intercapedini nocive (cfr. Cass. 12/02/1998 n. 1509). Infatti l'art. 873 c.c., nello stabilire per le costruzioni su fondi finitimi la distanza minima di tre metri dal confine o quella maggiore fissata dai regolamenti locali, si riferisce, in relazione all'interesse tutelato dalla norma, non necessariamente ad un edificio, ma ad un qualsiasi manufatto avente caratteristiche di consistenza e stabilità o che emerga in modo sensibile dal suolo e che, inoltre, per la sua consistenza, abbia l'idoneità a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della proprietà, idoneità il cui accertamento è rimesso al giudice di merito (Cass. 06/03/2002 n. 3199; Cass. 17/12/2012 n. 23189).
Nella specie, la Corte di merito, nel rispetto dei criteri elaborati dalla giurisprudenza quanto alla nozione di costruzione, ha valorizzato il dato (certo) della irrilevante fuoriuscita dal suolo, implicitamente, ma inequivocabilmente escludendo anche l'astratta possibilità di creazione di qualsivoglia intercapedine, trattandosi di un mero intervento di sistemazione del terreno con l'apporto di terra e all'esito del quale la quota è risultata più elevata per pochi centimetri (circa 50 centimetri secondo il ricorrente).
I due motivi sono pertanto infondati e al primo quesito di diritto occorre dare risposta negativa nel senso che
la sopraelevazione di pochi centimetri del terreno come conseguenza di una mera sistemazione del suolo con l'apporto di terra senza che si realizzi, per la modestissima variazione della quota, neppure l'astratta possibilità del formarsi di intercapedini non costituisce costruzione.
Il secondo quesito pur affermando un principio pacifico (e soggetto all'obbligo delle distanze il terrapieno artificialmente realizzato anche se non appoggiato ad un muretto di contenimento), non pertinente alla fattispecie in quanto, con accertamento adeguatamente motivato il giudice del merito ha ritenuto per la irrilevanza della variazione della quota altimetrica non sussistano i requisiti minimi affinché l'intervento sul terreno possa essere qualificato come costruzione.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato; tuttavia, quanto alle spese di questo giudizio di cassazione, non si può non considerare che nella valutazione in fatto i giudici dei due gradi di merito hanno espresso (in forma molto sintetica quelle del giudice di appello) valutazioni opposte, pur nella comune e dichiarata adesione, sia da parte del giudice di primo grado che da parte del giudice di appello ai principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.04.2013 n. 9179).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di tamponamento del terrapieno dev’essere considerato una costruzione ai fini del computo delle distanze di cui all’art. 873 c.c. nella parte in cui, finendo la propria specifica funzione, vale a dire quella di contenimento del retrostante terreno e quindi di conservazione dello stato dei luoghi, assume connotati del tutto diversi, quali, per esempio, quello di parapetto utile a consentire l’affaccio illegittimo sul fondo del vicino.
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4.2. - Il secondo motivo è fondato sotto il duplice profilo della violazione dell'art. 873 e della logicità del connesso impianto motivazionale diretto ad escludere che l'opera in questione fosse qualificabile come costruzione.
E' costante affermazione di questa S.C. che, in tema di distanze legali,
il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello de/fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (Cass. nn. 145/2006 e 243/1992).
Ne deriva che
il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall'art. 873 cod. civ. e dalle eventuali norme integrative (Cass. n. 1217/2010). (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 13.09.2012 n. 15391).

AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2017

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Intervento ad opponendum da parte dei funzionari che hanno partecipato al procedimento che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato.
E' ammissibile l’intervento ad opponendum da parte del responsabile dell’ufficio e del tecnico istruttore, non già in rappresentanza dell’ente cui appartengono, ma al mero scopo di difendere la loro posizione “tecnica”, in quanto soggetti che hanno partecipato al procedimento che ha condotto all’adozione del provvedimento impugnato.
Invero, l’interesse dei tecnici intervenienti risulta indubbiamente sussistente dalla necessità di difendere i propri atti da eventuali riflessi in termini di ricadute patrimoniali (in caso di azioni di responsabilità) e professionali.

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... per l'annullamento:
   - della nota prot. n. 19540 del 22.08.2016 con cui l'A.c. di Melendugno ha denegato il rilascio del permesso di costruire – richiesto dalla ricorrente con istanza dell'08.06.2016 (acquisita al protocollo comunale con il n. 13670 del 09.06.2016);
...
2. Va, preliminarmente, scrutinata l’eccezione di inammissibilità per difetto di legittimazione passiva dei resistenti (tecnico istruttore e responsabile dell’ufficio tecnico del Comune intimato).
Il Collegio ritiene che, in disparte la questione della irrilevanza della suindicata costituzione, risultando la stessa solo di carattere formale e comunque priva di significativi apporti ai fini del decidere, indubbiamente nei giudizi promossi avverso un ente comunale, legittimato passivo del giudizio è l’Ente la cui rappresentanza spetta al Sindaco, anche dopo la ripartizione delle competenze fra gli organi di indirizzo politico e dirigenza confermata con il D.Lgs. 18/08/2000, n.267 (c.d. Testo Unico degli Enti Locali).
Tuttavia, nella specie, il Responsabile dell’Ufficio e il Tecnico Istruttore si sono costituiti in proprio e, quindi, non già in rappresentanza dell’ente cui appartengono ma al mero scopo di difendere la loro posizione “tecnica” in quanto soggetti coinvolti nel procedimento che ha comportato la reiezione dell’istanza della ricorrente.
Tale costituzione, stante l’irrilevanza del nomen iuris attribuito a un atto processuale, può a parer del collegio essere qualificata come atto di intervento ad opponendum; invero, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale (ex multis Cass. n. 5743/2008, Cass. n. 3041/2007, Cass. n. 8107/2006, Cass. n. 18653/2004, Cass. Sez. Un. n. 10840/2003, Cass. n. 11861/1999) il giudice ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa senza lasciarsi condizionare dalle espressioni utilizzate dalla parte. A tal fine, il giudice deve considerare non solo il tenore letterale degli atti, ma anche la natura delle vicende rappresentate dalla parte, le precisazioni fornite nel corso del giudizio e il provvedimento in concreto richiesto; in sostanza, il complessivo comportamento processuale della parte. Peraltro, la Suprema Corte (Cass. n. 15299/2005) ha ritenuto applicabili analogicamente le regole di ermeneutica contrattuale, e in particolare il principio di conservazione degli atti giuridici di cui all’art. 1367 c.c., come per gli altri negozi giuridici.
Nel processo amministrativo, l'art. 28, comma 2, c.p.a. stabilisce che chiunque non sia parte, "ma vi abbia interesse", può intervenire in giudizio, lasciando così intendere che sia sufficiente che l'interveniente vanti un interesse derivato o dipendente da quello fatto valere dalla parte principale.
La facoltà di intervento richiede in ogni caso la titolarità di una situazione qualificata, la quale (per quanto attiene all’intervento ad opponendum) necessariamente presuppone un oggettivo e concreto interesse in capo al terzo a contrastare il ricorso e a conseguirne il rigetto, il quale può essere collegato a quello dell’Amministrazione resistente o di qualche controinteressato già costituito in giudizio ma anche autonomo poiché connesso al mantenimento dell’atto e (o) provvedimento gravato (artt. 28 e 50 D.Lgs. n. 104/2010, CPA - TAR Lazio Roma Sez. II-bis, 04.05.2017, n. 5201)
In particolare, l'intervento ad opponendum deve ritenersi ammissibile ogni qual volta il soggetto interveniente vanti un interesse, ancorché di mero fatto, mediato e riflesso, al mantenimento della situazione giuridica creata dal provvedimento impugnato (cfr. TRGA Bolzano, 06.04.2016, n. 128).
Nella specie, l’interesse dei tecnici intervenienti risulta indubbiamente sussistente, come peraltro adombrato dalle stesse parti in sede di discussione, dalla necessità di difendere i propri atti da eventuali riflessi in termini di ricadute patrimoniali (in caso di azioni di responsabilità) e professionali.
Deve pertanto ritenersi ammissibile la costituzione dei sigg. De Gi. e Pe. (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.08.2017 n. 1423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, il Foia all'angolo. Dopo la denuncia niente accesso per avere i documenti. Il garante privacy sul Freedom of information act: possibile agire in base alla legge 241/1990.
Strada sbarrata al Foia nelle pratiche di abusivismo edilizio. Chi denuncia una difformità della costruzione (ad esempio un ampliamento in difformità dal piano regolatore nella casa del proprio vicino) non può invocare l'accesso civico generalizzato (dlgs 33/2013) per avere dall'ufficio tecnico comunale le copie dell'eventuale procedimento edilizio di accertamento dell'abuso.
Non si può neanche avere copia dell'atto iniziale del procedimento di ispezione edilizia (comunicazione di avvio del procedimento).

È quanto precisato dal garante della privacy, con il provvedimento 28.06.2017 n. 295, reso noto solo ora, con il quale l'autorità di settore ha dato parere negativo all'accesso generalizzato.
Al massimo chi denuncia può cercare di avere le copie in base a un altro tipo di accesso, quello documentale disciplinato dalla legge 241/1990, ma deve dimostrare di avere un interesse diretto, concreto e attuale.
E, a questo proposito, aggiungiamo che non basta la curiosità di sapere come si è mosso l'ufficio comunale.
Nel caso specifico un cittadino ha segnalato all'ufficio tecnico comunale un presunto abuso edilizio commesso dal vicino e, in seguito, ha chiesto copia degli atti del comune per vedere che fine aveva fatto la propria denuncia.
Essendoci un potenziale conflitto con la privacy del denunciato, il responsabile della trasparenza di un comune ha chiesto al garante il parere previsto dall'articolo 5, comma 7, del dlgs n. 33/2013.
Tra l'altro il cittadino in questione ha presentata una richiesta di accesso agli atti, senza precisare se si trattava di una richiesta di accesso documentale, ai sensi della legge n. 241/1990 oppure di accesso civico (Foia) ai sensi dell'articolo 5 del dlgs n. 33/2013.
E il comune ha applicato promiscuamente sia le regole dell'accesso documentale sia quelle dell'accesso del Foia.
In ogni caso la persona denunciata (controinteressato) si è opposta all'accesso, sottolineando che gli atti riguardano esclusivamente la propria sfera personale e privata.
Il comune ha accolto l'accesso limitatamente a un unico documento, e cioè alla copia della comunicazione di avvio del procedimento. Per gli altri documenti il comune ha fatto rinvio ad altri enti competenti per il procedimento.
Per la cronaca la pratica di abuso edilizio è stata archiviata e cioè alla denuncia non è seguita nessuna sanzione.
Il controinteressato non è rimasto soddisfatto e ha chiesto il riesame contestando l'accoglimento parziale della richiesta (in sostanza riteneva non dovesse essere fornita neanche la copia della comunicazione di avvio del procedimento).
La vicenda è, quindi, approdata all'ufficio del garante, che, innanzi tutto, ha criticato la condotta del comune, in quanto ha confuso due distinti istituti: l'accesso civico e l'accesso documentale.
Sulla base di questo rilievo si nota che i comuni, in caso di dubbio, dovranno immediatamente chiedere precisazioni a chi fa una domanda generica di accesso, e questo per impostare correttamente fin dall'inizio la pratica: il richiedente deve prendere posizione, anche se non è da escludersi che si faccia una richiesta multipla, invocando diverse normative.
In ogni caso accesso documentale (legge 241/1990) e accesso civico generalizzato (dlgs 33/2013 noto come Foia) costituiscono procedimenti diversi, ai quali si applicano diversi termini, limiti e strumenti di ricorso e revisione.
Comunque il garante non si è limitato a rilievi procedurali e ha ritenuto di pronunciare il suo parere a fronte dell'importanza della questione.
Al garante, in effetti, la legge chiede di valutare se, nel caso singolo, l'accesso civico comporti un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali (dlgs n. 33/2013, articolo 5-bis, comma 2, lett. a).
Se la risposta è sì, l'accesso civico generalizzato va negato. Come è successo nella vicenda in esame.
Ebbene, il garante ha ritenuto che la conoscenza dei dati personali, anche quelli contenuti nella copia della comunicazione di avvio del procedimento, attivato a seguito della denuncia per opere edilizie abusive da parte di altro soggetto, potrebbe integrare, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del dlgs n. 33/2013.
Tradotto gli atti del fascicolo della pratica di abuso edilizio non si possono conoscere con l'istituto del Foia, che è riservato alle richieste di copia da parte di chi non ha un interesse diretto rispetto agli atti stessi, senza necessità di esprimere una motivazione all'accesso.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità per il denunciante l'abuso di avere copia del documento, ma solo in base alla legge 241/1990 e, pertanto, solo se dimostra l'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (articolo 22 della legge n. 241/1990) (articolo ItaliaOggi del 22.08.2017).
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MASSIMA
La disciplina di settore contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 prevede che «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis» (art. 5, comma 2).
Ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico, è previsto che «l'Autorità nazionale anticorruzione, d'intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, adott[i] linee guida recanti indicazioni operative» (art. 5-bis, comma 6).
In proposito, l'Autorità Nazionale Anticorruzione-ANAC, d'intesa con il Garante, ha approvato le citate «Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all'art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013» (in G.U. Serie Generale n. 7 del 10/01/2017. Cfr. anche Provvedimento del Garante recante «Intesa sullo schema delle Linee guida ANAC recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico» n. 521 del 15/12/2016, in www.gpdp.it, doc. web n. 5860807.
Nelle predette Linee guida è specificato, fra l'altro, che «L'accesso generalizzato deve essere anche tenuto distinto dalla disciplina dell'accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 (d'ora in poi "accesso documentale"). La finalità dell'accesso documentale ex l. 241/1990 è, in effetti, ben differente da quella sottesa all'accesso generalizzato ed è quella di porre i soggetti interessati in grado di esercitare al meglio le facoltà –partecipative e/o oppositive e difensive– che l'ordinamento attribuisce loro a tutela delle posizioni giuridiche qualificate di cui sono titolari. […] Tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso dell'accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all'operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni» (par. 2.3. Cfr. anche TAR Roma, Lazio, sez. III, 21/03/2017, n. 3742).
Con particolare riferimento al caso sottoposto all'attenzione del Garante, risulta che la richiesta di accesso agli atti aveva a oggetto documenti attinenti a un procedimento amministrativo e che, considerando il contenuto della notifica inviata al controinteressato, il Comune ha istruito la richiesta di accesso agli atti come istanza formulata ai sensi della l. n. 241/1990 –cosa che ha portato il controinteressato a invocare l'inesistenza dell'interesse qualificato dell'istante–, salvo poi aver riscontrato l'istanza di accesso richiamando la disciplina e i limiti sia in materia di accesso ai documenti amministrativi ai sensi della l. 241/1990, che in materia di accesso civico ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
Nel caso sottoposto all'attenzione del Garante, pertanto, contrariamente a quanto affermato nelle citate Linee guida dell'ANAC, l'amministrazione destinataria dell'istanza non ha tenuto distinta la disciplina dell'accesso civico (d.lgs. n. 33/2013) da quella dell'accesso ai documenti amministrativi (l. 241/1900), confondendo i relativi piani.
Pertanto, richiamando in ogni caso l'attenzione del Comune sulla necessità di rispettare i diversi procedimenti previsti dalle singole normative di settore che regolano gli istituti richiamati (accesso documentale e accesso civico) –ai quali, peraltro, si applicano diversi termini, limiti e strumenti di ricorso e revisione– si ritiene opportuno fornire le seguenti indicazioni, atteso il carattere rilevante della questione, e considerando, fra l'altro, che il controinteressato ha presentato richiesta di riesame del provvedimento di accoglimento parziale ai sensi dell'art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 33/2013.
Nel procedimento relativo alle richieste di accesso civico, è previsto che «Nei casi di accoglimento della richiesta di accesso, il controinteressato può presentare richiesta di riesame […]» e che il Garante sia sentito dal responsabile della prevenzione della corruzione nel caso di richiesta di riesame laddove l'accesso generalizzato sia stato negato o differito per motivi attinenti alla tutela della «protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia» (artt. 5, commi 7 e 9; 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013).
Per i profili di competenza di questa Autorità, si evidenzia che per «dato personale» si intende «qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale» (art. 4, comma 1, lett. b), del Codice).
Ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, si ricorda che l'accesso civico può essere rifiutato, fra l'altro, «se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela [della] protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia» (art. 5-bis, comma 2, lett. a)).
Al riguardo, si rappresenta che
la «disciplina in materia di protezione dei dati personali prevede che ogni trattamento –quindi anche una comunicazione di dati personali a un terzo tramite l'accesso generalizzato– deve essere effettuato "nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale […]", ivi inclusi il diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, all'oblio, nonché i diritti inviolabili della persona di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Nel quadro descritto, anche le comunicazioni di dati personali nell'ambito del procedimento di accesso generalizzato non devono determinare un'interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle persone cui si riferiscono tali dati ai sensi dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e della giurisprudenza europea in materia» (Linee guida ANAC, cit., par. 8 intitolato «I limiti derivanti dalla protezione dei dati personali»).
Si evidenzia, inoltre, che «
Ai fini della valutazione del pregiudizio concreto, vanno prese in considerazione le conseguenze –anche legate alla sfera morale, relazionale e sociale– che potrebbero derivare all'interessato (o ad altre persone alle quali esso è legato da un vincolo affettivo) dalla conoscibilità, da parte di chiunque, del dato o del documento richiesto, tenuto conto delle implicazioni derivanti dalla previsione di cui all'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013 […]. Tali conseguenze potrebbero riguardare, ad esempio, future azioni da parte di terzi nei confronti dell'interessato, o situazioni che potrebbero determinare l'estromissione o la discriminazione dello stesso individuo, oppure altri svantaggi personali e/o sociali. In questo quadro, può essere valutata, ad esempio, l'eventualità che l'interessato possa essere esposto a minacce, intimidazioni, ritorsioni o turbative al regolare svolgimento delle funzioni pubbliche o delle attività di pubblico interesse esercitate, che potrebbero derivare, a seconda delle particolari circostanze del caso, dalla conoscibilità di determinati dati» (ivi).
Nel merito, deve essere in generale ricordato che la normativa di settore prevede che «Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico […] sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell'articolo 7», sebbene il loro ulteriore trattamento vada in ogni caso effettuato nel rispetto dei limiti derivanti dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Si evidenzia, inoltre, che, come indicato anche nelle citate Linee guida dell'ANAC, l'accesso "generalizzato" è servente rispetto alla conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013) (cfr. par. 8.1).
Di conseguenza,
quando l'oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato (ivi).
In tale quadro, allo stato degli atti e ai sensi della normativa vigente, nel caso sottoposto all'attenzione del Garante,
si ritiene che la conoscenza dei dati personali contenuti nella «copia della comunicazione di avvio del procedimento» attivato a seguito della denuncia dell'istante per opere edilizie realizzate in difformità alla normativa vigente da parte di altro soggetto (procedura peraltro archiviata dal Comune destinatario dell'accesso), unita al citato regime di pubblicità degli atti oggetto dell'accesso civico, potrebbe integrare, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall'art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità per l'istante di accedere al predetto documento, laddove dimostri l'esistenza di «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso», ai sensi degli artt. 22 ss. della l. n. 241 del 07/08/1990.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Minor prezzo e procedura negoziata – Risposta dell’ANAC (ANCE di Bergamo, circolare 01.09.2017 n. 154).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso civico generalizzato: no per sanzione disciplinare.
Il Garante privacy ha confermato il no di un Comune alla richiesta di accesso civico generalizzato, presentata da un cittadino, agli atti di una sanzione disciplinare inflitta ad un dipendente, contro la quale pendeva peraltro un contenzioso dinnanzi al Giudice del lavoro.
Nel parere [provvedimento 31.05.2017 n. 254] espresso nell'ambito del procedimento di riesame, previsto dalla normativa sulla trasparenza, l'Autorità ha richiamato le Linee Guida sull'accesso civico dell'Anac, le quali prevedono che l'accesso civico generalizzato vada, fra l'altro, respinto quando la conoscibilità indiscriminata dei dati personali potrebbe causare, all'interessato o ai suoi congiunti, danni legati alla sfera morale, relazionale e sociale, come nel caso considerato.
Tra i motivi per il diniego dell'accesso si deve tener conto anche, come valutato dal Comune, della funzione pubblica svolta dal dipendente, che potrebbe essere esposto a minacce, ritorsioni o turbative. Nel suo parere il Garante ha sottolineato come la disciplina in materia di privacy stabilisca che ogni trattamento di dati debba essere effettuato nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, tenendo conto anche dei diritti alla reputazione, all'immagine, al nome, all'oblio e in generale ai diritti inviolabili della persona.
Alla luce di questo quadro di regole, il Garante ha ritenuto che l'accesso civico generalizzato alla sanzione disciplinare possa determinare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali del dipendente e ha confermato il diniego opposto dal Comune.
L'intervento del Garante si inserisce, come ricordato, nell'ambito della procedura sull'accesso civico disciplinata dal decreto legislativo 33 del 2013. Il decreto "trasparenza" prevede infatti che, per favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è già previsto l'obbligo di pubblicazione. Tale diritto non è sottoposto ad alcuna legittimazione soggettiva del richiedente e non richiede motivazione.
L'accesso civico generalizzato può tuttavia essere rifiutato, fra l'altro, quando è necessario evitare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali. Nel caso in cui l'accesso generalizzato sia stato negato proprio per questi motivi e il richiedente abbia presentato richiesta di riesame, il responsabile della prevenzione della corruzione è tenuto a provvedere dopo aver prima sentito il Garante (link a www.garanteprivacy.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 07.09.2017, "Contributi, a favore degli enti locali, per l’incremento delle dotazioni di piccola entità per i comandi di polizia locale e per la protezione civile (l.r. 22/2017)" (deliberazione G.R. 04.09.2017 n. 7051).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 04.09.2017, "Approvazione del programma di tutela e uso delle acque, ai sensi dell’articolo 121 del d.lgs. 152/06 e dell’articolo 45 della legge regionale 26/2003" (deliberazione G.R. 31.07.2017 N. 6990).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana: fondamento, applicazioni e profili critici dopo il decreto legge n. 14 del 2017 (06.09.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: R. Caponigro, Riflessioni sulla tutela giurisdizionale nelle gare d’appalto con vincolo di aggiudicazione (06.09.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Martelli, Ambiente: da oggi nuove regole per la gestione delle terre e rocce da scavo (22.08.2017 - link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Personale degli Enti Locali - Le assunzioni - AGGIORNATO CON LE DISPOSIZIONI INTRODOTTE DAL D.L. 24.04.2017, N. 50, CONV. IN LEGGE 21.06.2017, N. 96, E DAL D.LGS. 25.05.2017, N. 75 (Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, luglio 2017).

APPALTI: La nuova disciplina dell’appalto pubblico dopo il correttivo: profili di interesse notarile (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 25.05.2017 n. 588-2016/C).
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Lo studio in sintesi (Abstract): A quasi un anno dalla emanazione del decreto legislativo n. 50 del 2016 -che ha riscritto il codice degli appalti pubblici secondo le Direttive comunitarie nn. 23, 24 e 25 del 2014- il Governo si è avvalso della facoltà concessa dall’art. 1, comma 8, della legge delega n. 11/2016, adottando disposizioni integrative e correttive al codice degli appalti.
Il decreto correttivo pubblicato in Gazzetta ufficiale il 05.05.2017 (D.lgs. 19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”), si compone di 131 articoli e contiene oltre 400 modifiche al codice degli appalti, modellando, a volte in maniera incisiva, l’impianto delineato dal legislatore del 2016.
Lo studio si propone di offrire una guida alla lettura del rinnovato sistema degli appalti pubblici, delineando gli istituti rilevanti e le novità giurisprudenziali, con particolare riguardo alla funzione notarile.
In tale prospettiva, risulta oggetto di peculiare approfondimento non solo la disciplina relativa allo svolgimento della procedura di appalto ma, soprattutto, quella concernente la stipula del contratto e le vicende ad essa successive.
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Sommario
: 1. La disciplina dell’appalto nel diritto amministrativo. Premessa; 2. L’appalto pubblico nel diritto interno: normativa statale e regionale; 3. L’appalto pubblico nelle nuove Direttive comunitarie e nel D.lgs. n. 50/2016: sintesi delle novità normative; 3.1. Il D.lgs. 19.04.2017, n. 56 (cd. “Decreto correttivo”); 4. La tipologia dei contratti e gli atti attuativi; 5. I contratti esclusi dalla applicazione del codice; 6. Le modalità di affidamento; 6.1. Segue: l’integrazione dell’efficacia e la stipula del contratto; 7. L’affidamento al soggetto privato delle opere di urbanizzazione; 8. Le soglie; 9. Le stazioni appaltanti; 10. I soggetti dell’appalto pubblico. Premessa; 10.1. Gli imprenditori, le società e le cooperative; 10.2. I consorzi di cooperative, i consorzi tra imprese artigiane ed i consorzi stabili; 10.3. I raggruppamenti temporanei di concorrenti ed i consorzi ordinari; 10.4. Il contratto di rete ed il “gruppo europeo di interesse economico”; 11. Le garanzie: la garanzia per la partecipazione alla procedura; 11.1. Segue: La garanzia per l’esecuzione del contratto; 12. Le modifiche soggettive ed oggettive del contratto nella disciplina del D.lgs. n. 50/2016; 13. La cessione del contratto di appalto pubblico. Premessa; 13.1. Segue: le vicende soggettive del contraente nell’appalto di opere pubbliche. La fase antecedente la aggiudicazione dell’appalto; 13.2. Segue: la fase successiva alla conclusione del contratto; 14. La cessione del credito nel codice degli appalti; 15. La sospensione del contratto; 16. La risoluzione del contratto; 17. Il subappalto; 18. Forma del contratto ed atto pubblico informatico.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Patroni Griffi, Il metodo di decisione del giudice amministrativo (19-20.05.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Premessa: la responsabilità del giudice. 2. La cornice. Verità e processo: la sentenza “giusta”. 3. L’accertamento del fatto e le prove. 4. Il giudizio di diritto: metodo sillogistico e ricorso a principi e clausole generali. 5. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: U. Fantigrossi, La risarcibilità della lesione di interessi legittimi (agosto-dicembre 2016 -tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Ricorso a volontari singoli da parte dei comuni.
Secondo la Corte dei conti, la L. 266/1991 ha delineato un sistema che, disciplinando compiutamente i vari aspetti dell'esplicarsi delle attività di volontariato, non ammette soluzioni organizzative e/o operative differenti.
Poiché da tale sistema si evince che l'attività di volontariato è svolta solo nell'ambito di apposite organizzazioni, aventi determinate caratteristiche strutturali e funzionali e che le PP.AA. possono avvalersi di volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche convenzioni stipulate con le predette organizzazioni, la Corte nega la legittimità dell'assunzione, da parte di un comune, degli oneri relativi alla stipula di polizze assicurative per cittadini che intendono prestare servizio volontario a titolo individuale.
La conclusione sembra poter essere confermata nella vigenza del D.Lgs. 117/2017 che, pur qualificando come 'volontario' anche il cittadino singolarmente considerato, continua a prevedere che l'ente pubblico può instaurare rapporti (e quindi assumere spese connesse a quei rapporti) solo con organismi di tipo associativo; sono fatte salve le discipline speciali di rango legislativo (es.: L.R. 9/2009).

Il Comune rappresenta di aver adottato un regolamento volto a disciplinare le forme di collaborazione gratuita rese da singoli cittadini ('volontari civici') nell'ambito di una serie di attività di competenza comunale. Il regolamento prevede che l'Ente fornisca ai volontari l'eventuale equipaggiamento necessario allo svolgimento delle attività e garantisca la copertura assicurativa degli stessi, limitatamente ai periodi di svolgimento delle funzioni.
Poiché la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Toscana
[1], esclude che le pubbliche amministrazioni possano giovarsi di attività rese da volontari 'a titolo individuale', il Comune chiede di conoscere se possa comunque ritenersi compatibile con il quadro legislativo, anche regionale, un regolamento che non preveda l'appartenenza del volontario ad una specifica organizzazione, per lo svolgimento di attività a favore della comunità locale.
Sentito il Servizio volontariato e lingue minoritarie della Direzione centrale cultura, sport e solidarietà si formulano le considerazioni che seguono.
Circa la possibilità, per i comuni, di ricorrere all'attività prestata da volontari singoli, questo Ufficio si è già espresso in alcune circostanze, evidenziando come la normativa di settore, all'epoca costituita dalla legge 11.08.1991, n. 266
[2] e dalla legge regionale 20.02.1995, n. 12 [3], contemplasse, quali interlocutori dell'ente pubblico, unicamente organismi associativi, in quanto soggetti dotati di un'apposita struttura organizzativa atta a garantire attitudine e capacità operativa, nonché continuità e verificabilità delle prestazioni e della loro qualità [4].
In una più recente occasione
[5], successiva all'entrata in vigore della nuova disciplina recata dalla legge regionale 9 novembre 2012, n. 23 [6], si è osservato che questa ha «ulteriormente rafforzato un percorso al cui interno i volontari sono inseriti in realtà associative» e si è rilevato che «L'inserimento in un gruppo di volontariato -per i benefici che ciò apporta in termini di organizzazione, responsabilizzazione e gestione delle attività- sembra, pertanto, essere considerato quale elemento qualificante dal legislatore sia statale sia regionale».
Tant'è che la L.R. 23/2012 «in attuazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale, disciplina i rapporti delle istituzioni pubbliche con le organizzazioni di volontariato [...] al fine di sostenere e promuovere la loro attività e di favorire il loro coordinamento» (art. 1, comma 1) e «in attuazione del principio di sussidiarietà di cui all'articolo 118, quarto comma della Costituzione, nell'ambito delle finalità e dei principi di cui alla legge 11.08.1991, n. 266 (Legge-quadro sul volontariato)
[7], e degli strumenti di programmazione regionale e locale, disciplina e promuove le attività delle organizzazioni di volontariato salvaguardandone l'autonomia e il pluralismo» (art. 3, comma 1).
Conformemente ai princìpi contenuti nella legge-quadro statale allora vigente
[8], la L.R. 23/2012 dispone che «L'attività di volontariato è svolta, nel territorio regionale, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte» (art. 4, comma 1) e che «In attuazione del principio di sussidiarietà e per promuovere forme di amministrazione condivisa, le organizzazioni di volontariato iscritte nel Registro da almeno sei mesi possono stipulare convenzioni con la Regione, gli enti e aziende il cui ordinamento è disciplinato dalla Regione e gli enti locali» per lo svolgimento di una serie di attività (art. 14, comma 1) [9].
Nel parere citato dall'Ente, la Corte dei conti, dovendo stabilire se sia legittima l'assunzione, da parte di un comune, degli oneri relativi alla stipula di polizze assicurative dirette a fornire copertura dai rischi di infortunio, malattia e responsabilità civile verso terzi per cittadini che intendono prestare servizio volontario a titolo individuale, fornisce risposta negativa.
[10]
La Corte osserva, infatti, che la L. 266/1991 delinea un sistema che, «disciplinando compiutamente i vari aspetti dell'esplicarsi delle attività di volontariato, non ammette soluzioni organizzative e/o operative differenti né esibisce lacune normative che siano bisognevoli di essere in qualche modo colmate attraverso un'attività analogico-interpretativa», rilevando che da tale sistema «si evince chiaramente che: (a) l'attività di volontariato è svolta solo nell'ambito di apposite organizzazioni, aventi determinate caratteristiche strutturali e funzionali; (b) le pp.aa. possono avvalersi di volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche convenzioni stipulate con le relative organizzazioni, rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici registri regionali».
Pertanto, secondo la Corte, deve «ritenersi escluso in radice un autonomo ricorso delle pp.aa. a prestazioni da parte di volontari 'a titolo individuale', perché la necessaria 'interposizione' dell'organizzazione di volontariato iscritta nei ridetti registri regionali, ben lungi da inutili e barocchi formalismi, vale -a salvaguardia di interessi che sono di 'ordine pubblico' e che come tali non ammettono deroghe od eccezioni di sorta- ad assicurare, da un lato, che lo svolgimento dell'attività dei volontari si mantenga nei rigorosi limiti della spontaneità, dell'assenza anche indiretta di fini di lucro, della esclusiva finalità solidaristica, dell'assoluta e completa gratuità; e, dall'altro, che resti ferma e aliena da ogni possibile commistione la rigida distinzione tra attività di volontariato e attività 'altre'»
[11].
La Corte rileva che la predetta conclusione trova conferma nella rigida distinzione tra il soggetto tenuto a stipulare il contratto di assicurazione, «che è e deve sempre essere l'organizzazione di volontariato»
[12], ed il soggetto sul quale, nel caso di convenzione, deve gravare il peso economico della copertura [13].
Quanto fin qui rilevato sembra potersi ribadire nella vigenza del decreto legislativo 03.07.2017, n. 117 che, procedendo al riordino e alla revisione organica della disciplina in materia di enti del Terzo settore abroga, tra gli altri, la L. 266/1991
[14].
Occorre, peraltro, segnalare che l'art. 1, comma 1, del D.Lgs. 117/2017 afferma che i cittadini concorrono, 'anche' in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale e che l'art. 17, comma 2, sancisce che il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, 'anche' per il tramite di un ente del Terzo settore: di conseguenza, sembra che la qualifica di 'volontario' possa essere rivestita anche dal cittadino singolarmente considerato.
Tuttavia, poiché l'art. 56
[15], comma 1, del D.Lgs. 117/2017 prevede che le pubbliche amministrazioni «possono sottoscrivere con le organizzazioni di volontariato [...] iscritte da almeno sei mesi nel Registro unico nazionale del Terzo settore, convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale [16], se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato», pare che all'ente pubblico sia consentito instaurare rapporti (e quindi assumere spese connesse a quei rapporti) solo con organismi di tipo associativo, fatte salve eventuali discipline speciali, di rango legislativo [17].
---------------
[1] V. deliberazione n. 141/2016/PAR.
[2] «Legge-quadro sul volontariato».
[3] «Disciplina dei rapporti tra le istituzioni pubbliche e le organizzazioni di volontariato».
[4] V., in particolare, i pareri 02.10.2008, prot. n. 15255; 30.04.2009, prot. n. 6816 e 15.12.2011, prot. n. 42682.
In tali sedi, tenuto conto delle disposizioni che, in attuazione del principio di sussidiarietà, riconoscono, promuovono e valorizzano (anche) l'apporto dei singoli cittadini (v., in via generale, l'art. 5, comma 2, della legge regionale 09.01.2006, n. 1, ai sensi del quale «I Comuni, le Province e la Regione, sulla base del principio di sussidiarietà e per lo svolgimento di attività di interesse generale, riconoscono il ruolo dei cittadini, delle famiglie, delle imprese, delle formazioni sociali e delle organizzazioni di volontariato e ne favoriscono l'autonoma iniziativa.») e in assenza di pronunciamenti della Corte dei conti al riguardo, si era peraltro affermato che non appariva preclusa la possibilità, per l'ente pubblico, di ricorrere a soggetti che promuovono iniziative o svolgono attività di interesse generale a titolo personale.
[5] Parere 31.05.2013, prot. n. 17218.
[6] «Disciplina organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione sociale».
[7] Si ricorda, in particolare, che la L. 226/1991:
   - ha stabilito «i principi cui le regioni e le province autonome devono attenersi nel disciplinare i rapporti fra le istituzioni pubbliche e le organizzazioni di volontariato nonché i criteri cui debbono uniformarsi le amministrazioni statali e gli enti locali nei medesimi rapporti» (art. 1, comma 2);
   - ha sancito che per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, «tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte», senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà (art. 2, comma 1);
   - ha previsto che le pubbliche amministrazioni possono stipulare convenzioni «con le organizzazioni di volontariato» iscritte da almeno sei mesi nei registri regionali e che dimostrino attitudine e capacità operativa (art. 7, comma 1), anche al fine di «garantire l'esistenza delle condizioni necessarie a svolgere con continuità le attività oggetto della convenzione» (art. 7, comma 2).
[8] Attualmente occorre fare riferimento al decreto legislativo 03.07.2017, n. 117 «Codice del Terzo settore, a norma dell'articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 06.06.2016, n. 106», di cui si dirà in seguito.
[9] Spetta, però, ai soggetti pubblici determinarsi in merito, atteso che essi «rendono nota la volontà di stipulare le convenzioni secondo modalità dagli stessi definite» (art. 14, comma 2).
[10] Sulla medesima questione v. anche Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia, n. 192/2015/PAR e, da ultimo, Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per il Piemonte, n. 126/2017/SRCPIE/PAR.
[11] «E, dunque», prosegue la Corte, «ad evitare che da parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter intentionem- ad atipiche e surrettizie forme di lavoro precario, peraltro elusive delle regole sul reclutamento e l'utilizzazione del personale (concorso pubblico, contratto di lavoro, rispetto dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del lavoratore) e foriere nel tempo financo di precostituire pretese, ancorché infondate, di stabilizzazione di rapporti pregiudizievoli per gli assetti e gli equilibri della finanza pubblica».
[12] L'art. 4, comma 1, della L. 266/1991 stabiliva che «Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.». La previsione è confermata dall'art. 18, comma 1, del D.Lgs. 117/2017, ai sensi del quale «Gli enti del Terzo settore che si avvalgono di volontari devono assicurarli contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività di volontariato, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.».
A livello regionale la regola si ricava indirettamente dalla previsione dell'art. 9, comma 1, lett. a), della L.R. 23/2012 («La Regione sostiene le organizzazioni di volontariato iscritte nel Registro mediante la concessione di contributi per: a) il rimborso delle spese sostenute per l'assicurazione dei volontari [...])».
[13] L'art. 7, comma 3, della L. 266/1991 disponeva che «La copertura assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione medesima.». Sostanzialmente identica è la previsione recata dall'art. 18, comma 3, del D.Lgs. 117/2017, secondo il quale «La copertura assicurativa è elemento essenziale delle convenzioni tra gli enti del Terzo settore e le amministrazioni pubbliche, e i relativi oneri sono a carico dell'amministrazione pubblica con la quale viene stipulata la convenzione.».
[14] Tranne poche previsioni, destinate ad essere abrogate in seguito, che non riguardano la questione in trattazione.
[15] Ricadente nell'ambito del Titolo VII, dedicato ai rapporti con gli enti pubblici.
[16] Elencate nell'art. 5 del D.Lgs. 117/2017.
[17] Quale quella concernente i volontari per la sicurezza, di cui all'art. 5 della legge regionale 29.04.2009, n. 9
(07.09.2017 -
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COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Competenza della Giunta comunale. Individuazione sostituti dei titolari di posizione organizzativa e individuazione funzionario per rappresentanza in giudizio
  
1) Come avviene per la nomina dei titolari di posizione organizzativa, anche per la nomina dei funzionari sostituti dei medesimi, risulta competente il Sindaco negli enti privi di qualifiche dirigenziali. La Giunta comunale è competente invece a definire in generale l'assetto organizzativo dell'ente, mediante l'individuazione e pesatura delle singole posizioni organizzative e ad adottare le scelte organizzative ritenute più opportune per il funzionamento ottimale dell'amministrazione locale.
   2) E' da considerare ormai consolidata giurisprudenza la regola secondo cui la decisione di agire e resistere in giudizio, nonché il conferimento della procura alle liti al difensore sono, in via ordinaria, di competenza del Sindaco in quanto organo della rappresentanza legale dell'ente anche al fine della resistenza in giudizio, nonché in relazione al carattere residuale delle attribuzioni della giunta comunale, e fatte salve ulteriori previsioni statutarie.

Il consigliere comunale di minoranza ha chiesto un parere in ordine a due distinte questioni, concernenti l'organo/soggetto competente ad individuare i dipendenti che sostituiscono i titolari di posizione organizzativa, all'interno dell'Ente, e la competenza ad individuare il funzionario legittimato alla rappresentanza in giudizio del Comune stesso. Nello specifico il consigliere manifesta perplessità in ordine alla competenza in materia della Giunta comunale.
Per quanto concerne la problematica connessa al soggetto competente a individuare i sostituti dei titolari di posizione organizzativa, si osserva che l'art. 42, comma 1, del CCRL del 07.12.2006, in linea con quanto disposto dal legislatore statale all'art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000, prevede che, negli enti locali privi di qualifiche dirigenziali, gli incarichi di posizione organizzativa sono conferiti con apposito provvedimento del sindaco.
Pertanto, pur rinviando alle norme di dettaglio stabilite nel regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi dell'Ente, si ritiene che, come avviene per la nomina dei titolari delle singole posizioni organizzative, anche la nomina dei funzionari sostituti dei medesimi, in caso di assenza o temporaneo impedimento, risulti di competenza del Sindaco.
Alla Giunta comunale è infatti attribuita di contro la competenza ad adottare il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi
[1], a definire in generale l'assetto organizzativo dell'Ente, mediante l'articolazione delle aree di attività e correlata istituzione e pesatura delle singole posizioni organizzative ritenute necessarie per un' ottimale gestione.
Potrebbe conseguentemente rientrare nelle competenze della Giunta solo la scelta e previsione, in via generale e regolamentare, di provvedere, qualora necessario, alla sostituzione di un titolare di posizione organizzativa tramite ricorso a dipendente assegnato a diversa struttura, trattandosi, in quel caso, di soluzione strategica adottata a livello organizzativo.
Per quanto concerne la questione relativa alla rappresentanza in giudizio
[2], si rappresenta che tale tema è stato oggetto di rilevante attenzione da parte della giurisprudenza amministrativa e di legittimità a seguito della riforma dell'ordinamento degli enti locali, avvenuta con il d.lgs. 267/2000.
Il nuovo quadro delle competenze degli organi comunali, infatti, ha imposto un riesame dell'orientamento giurisprudenziale tradizionale, anche alla luce dell'intervenuta modifica del Titolo V della Costituzione, in senso più favorevole all'autonomia degli enti locali.
In questo senso la Corte di Cassazione a Sezioni Unite
[3] precisava che: 'competente a conferire al difensore del Comune la procura alle liti è il Sindaco, non essendo necessaria l'autorizzazione della Giunta municipale, atteso che al Sindaco è attribuita la rappresentanza dell'Ente, mentre la Giunta comunale ha una competenza residuale, sussistente cioè soltanto nei limiti in cui norme legislative o statutarie non la riservino al Sindaco (v. Sez. Un. 10.05.2001, n. 186)'.
Con una successiva pronuncia
[4], la Corte di Cassazione, dopo aver comunque ribadito che in virtù dell'art. 50 del TUEL la decisione di resistere in giudizio compete immancabilmente al Sindaco, ha riconosciuto particolari margini all'autonomia statutaria dell'Ente. Si è infatti affermato che, nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l'autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all'azione, salva restando la possibilità per lo statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio (ex art. 6, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000)- di prevedere l'autorizzazione della giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l'uno o l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto della controversia). Ove l'autonomia statutaria si sia così indirizzata, l'autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell'organo titolare della rappresentanza.
In conclusione, è da considerare ormai consolidata giurisprudenza la regola secondo cui la decisione di agire e resistere in giudizio, nonché il conferimento della procura alle liti al difensore sono, in via ordinaria, di competenza del Sindaco in quanto organo titolare della rappresentanza legale dell'ente anche al fine della resistenza in giudizio
[5], nonché in relazione al carattere residuale delle attribuzioni della giunta, e salvo ulteriori previsioni statutarie.
Di un tanto si è avuta conferma con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4277 del 26.08.2014, che ha affermato che 'in via ordinaria -ai sensi degli artt. 35 e 36 della legge 08.06.1990 n. 142, poi trasfusi negli artt. 48 e 50 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267- la decisione di agire e resistere in giudizio e il conferimento al difensore del mandato alle liti spettano al rappresentante legale dell'ente (cioè al Sindaco), senza bisogno di autorizzazione della Giunta o del dirigente competente ratione materiae. All'autonomia statutaria (legittimata a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio) è però conservata la possibilità di prevedere l'autorizzazione della Giunta ovvero di richiedere una preventiva determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare l'uno o l'altro intervento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.02.2012, n. 650)'.
---------------
[1] Cfr. art. 48, comma 3, del d.lgs. 267/2000.
[2] E, più in particolare, la questione relativa all'eventuale necessità di una deliberazione della giunta e/o del dirigente di competenza che autorizzi il Comune a stare in giudizio e, a tal fine, conferisca la necessaria procura alle liti al difensore.
[3] Cfr. sentenza n. 17550/2002.
[4] Cfr. Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 12868/2005.
[5] Cfr. art. 50 del TUEL
(06.09.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta di accesso agli atti del protocollo generale da parte di un consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno diritto di prendere visione del protocollo generale dell'Ente, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in partenza, fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'Ente con richieste emulative. La previa visione dei vari protocolli è, infatti, necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali i consiglieri potranno esercitare l'accesso vero e proprio.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di accesso agli atti formulata da un consigliere comunale. In particolare, un amministratore locale ha chiesto che gli venga fornito giornalmente l'elenco del protocollo generale della posta in arrivo e in partenza al fine di individuare gli atti di interesse dei quali successivamente chiedere eventualmente estrazione di copia.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è disciplinato all'articolo 43 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
[1]
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è quindi esercitato riguardo ai dati utili per l'esercizio del mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione pubblica, legittimandolo all'esame e all'estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie e informazioni.
[2]
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell'esercizio del mandato. A tale riguardo il Ministero dell'Interno ha evidenziato che 'diversamente opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato'.
[3]
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all'esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini dell'espletamento del mandato.
[4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono essere esercitate con modalità e forme tali da evitare intralci all'ordinario svolgimento dell'attività degli Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato che: 'Il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico'.
[5]
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al protocollo generale dell'Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6] affermando che 'deve essere accolta la richiesta dei consiglieri comunali di prendere visione del protocollo generale [...] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai sensi dell'art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267'. [7]
Anche il Ministero dell'Interno, nell'affrontare una questione analoga a quella in esame, si è espresso in termini favorevoli all'accesso rilevando, in particolare, che: 'Superando le precedenti decisioni contrarie, fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'Ente con richieste emulative, la giurisprudenza (cfr. TAR Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, TAR Lombardia, Brescia, n. 362/2005, TAR Campania, Salerno, n. 26/2005), è, infatti, oggi orientata nel ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del Sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita. [...] Pertanto, si ritiene che la previa visione dei vari protocolli [...] sia necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio'.
[8]
In altra occasione il Ministero dell'Interno,
[9] in relazione alla richiesta dei consiglieri di trasmissione di copia del registro di protocollo con cadenza mensile, nel ribadire i medesimi concetti, ha fatto, altresì, proprie certe considerazioni espresse dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui 'gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso'. [10]
Premesso un tanto, il Ministero dell'Interno prosegue affermando che 'l'ente locale, dunque, nell'ambito della propria autonomia, potrebbe dotarsi di ancor più specifica normativa regolamentare, mediante la quale disciplinare le modalità di esercizio del diritto in termini tali da renderle compatibili con il regolare svolgimento dell'attività degli uffici'.
[11]
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti spetta 'a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale'. Tale principio è stato successivamente ripreso e confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012, n. 2040.
[6] TAR. Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Nello stesso senso si veda, anche, TAR Emilia Romana, Parma, sentenza del 26.01.2006, n. 28 ove si afferma: 'Pertanto, deve essere annullato il diniego ad una domanda di accesso proposta da un consigliere comunale al protocollo del Comune per conoscere i documenti in entrata e in uscita. Naturalmente l'accesso al protocollo comunale non deve creare intralci all'attività degli uffici, onde spetta all'amministrazione determinare le giornate (almeno una al mese) e la fascia oraria in cui il consigliere comunale potrà periodicamente prenderne visione, ed eventualmente estrarne copia'. Per un excursus dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, in senso negativo, si veda il parere del Ministero dell'Interno del 17.11.2005.
[8] Ministero dell'Interno, parere del 26.10.2016.
[9] Ministero dell'Interno, parere del 01.06.2011.
[10] TAR Puglia, sentenza del 21.01.2011, n. 115.
[11] Tenuto, altresì, conto dell'eventuale possibilità di accesso diretto del consigliere comunale al protocollo informatico. Si veda, tra gli altri, al riguardo, il parere espresso dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 03.02.2009 ove si afferma che: 'Il ricorso a supporti magnetici o l'accesso diretto al sistema informatico interno dell'Ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa'
(25.08.2017 -
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APPALTI: Il Responsabile del Servizio può ricoprire ai sensi del TUEL il ruolo di Presidente della commissione di gara?
L'art. 107, comma 3, del D.lgs. n. 267/2000 indica tra le funzioni attribuite alle figure dirigenziali degli enti locali la presidenza delle commissioni di gara.
Tale disposizione ben si conciliava con le prescrizioni del previgente d.lgs. n. 163/2006, laddove non si riscontrava un'incompatibilità tra i due ruoli. L'attuale Codice appalti, al contrario, stabilisce all'art. 77, comma 4, che "i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. (...)".
Dunque, nella nuova disciplina prevale il principio l'incompatibilità del dirigente/responsabile del servizio a ricoprire il ruolo di presidente della commissione di gara, in quanto soggetto che ha approvato in precedenza gli atti di gara. La ratio della legge è quella di tutelare il principio di imparzialità dei componenti del collegio valutatore, che devono essere avulsi da alcun tipo di pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa. Ciò trova conferma anche nelle Linee Guida ANAC n. 5 dove si prevede che il ruolo di presidente dovrà essere ricoperto da un soggetto esterno individuato dall'Autorità.
Atteso quanto su detto ed in applicazione del principio cronologico relativo l'interpretazione delle leggi , si deve ritenere che il d.lgs. n. 267/2000, in tema di presidenza della commissione di gara, deve intendersi implicitamente abrogato dal codice dei contratti (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 25.07.2017 n. 187 di http://asmecomm.it).

APPALTI: La stazione appaltante può introdurre negli atti di gara una clausola di manleva in proprio favore per l'esecuzione dell'appalto?
L'ordinamento prevede che durante l'esecuzione del contratto, l'appaltatore risponda dei danni provocati a terzi, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'appalto. Invero, sull'ente appaltante grava un onere di sorveglianza e controllo, nonché verifica della corrispondenza dell'opera o del servizio affidato all'appaltatore con quanto costituisce l'oggetto del contratto (Cass. civ. n. 25758/2013).
La responsabilità verso i terzi, dunque, si concretizza per il committente solo allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di "un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso" (Cass. civ, n. 2745/1999, n. 4361/2005), oppure quando sia configurabile in capo al committente "una culpa in eligendo per aver affidato il lavoro ad impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche, ovvero in base al generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 cod. civ." (Cass. civ. n. 15185/2004; n. 11757) (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 05.07.2017 n. 186 di http://asmecomm.it).

APPALTI: In una gara per l'affidamento di lavori pubblici un plico contenente l'offerta presenta, sul lembo, una banda adesiva trasparente al di sotto della quale si trovano tre punti di sigillatura, apposti con ceralacca, non integri. Inoltre, sulla stessa chiusura sono presenti due timbri, recanti il logo della ditta, non coincidenti.
In tal caso il concorrente può essere ammesso in virtù dell'integrità della banda adesiva posta sul lembo?

Nonostante l'integrità dell'adesivo trasparente apposto sul lembo di chiusura del plico, si ritiene che il concorrente debba essere escluso. Come affermato da consolidata giurisprudenza, pur dovendo garantire il favor partecipationis, l'integrità del plico è requisito irrinunciabile della gara. In particolare "deve ritenersi necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso senza che ne restasse traccia visibile".
Ne deriva che "anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico" (Cons. di Stato, sez. IV, 21.01.2013, sent. n. 319).
Questa posizione è stata più volte confermata anche dall'ANAC la quale inserisce le irregolarità incidenti sulla segretezza delle offerte tra le irregolarità insanabili, che quindi producono come effetto l'esclusione del concorrente (ANAC, determinazione n. 1, dell'08.01.2015) anche a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Codice degli Appalti D.lgs. 50/2016 (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 15.06.2017 n. 185 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Gli operatori economici che intendono partecipare alla gare, su quali di documenti dovranno apporre la marca da bollo? La Stazione appaltante è tenuta a richiederla per qualsiasi documento presentata dai concorrenti?
La richiesta dell' imposta di bollo trova il suo fondamento nell'art. 2 D.P.R. 26.10.1972, n. 642 rubricato "Atti soggetti a bollo sin dall'origine o in caso d'uso", ove il Legislatore effettua una distinzione tra tre categorie di atti:
   a) atti soggetti ad imposta di bollo fin dall'origine;
   b) atti soggetti solo in caso d'uso;
   c) atti esenti in modo assoluto;
In particolare, l'art. 2 recita "L'imposta di bollo è dovuta fin dall'origine per gli atti, i documenti e i registri indicati nella parte prima della tariffa, se formati nello Stato, ed in caso d'uso per quelli indicati nella parte seconda. Si ha caso d'uso quando gli atti, i documenti e i registri sono presentati all'ufficio del registro per la registrazione".
L'articolo rimanda poi ad un Allegato (lettera A) all'interno del quale vengono dettagliatamente elencati gli atti ricadenti nel primo, nel secondo o nel terzo gruppo di cui sopra.
Al fine di individuare se i documenti interlocutori tra il concorrente e la stazione appaltante siano o meno soggetti all'imposta di bollo è necessario procedere ad una analisi degli stessi verificando che questi posseggano i requisiti indicati all'art. 2.
Sia l'istanza che l'offerta economica "sono atti, documenti formati nello Stato" ma nessuno dei due può definirsi scrittura privata -mancano gli elementi essenziali per potersi definire un accordo tra le parti- tuttavia entrambi, possono qualificarsi, senza ombra di dubbio, una "dichiarazione anche unilaterale".
Al fine di giungere ad una definitiva identificazione è necessario, però, verificare la presenza dell'ultimo degli elementi indicato nell'Allegato A, di cui sopra e cioè accertare che i documenti "creano, modificano, estinguono accertano o documentano rapporti giuridici di ogni specie". Essendo il rapporto giuridico la relazione tra due o più soggetti, è necessario verificare che tra questi sussistano gli elementi del rapporto giuridico, i quali devono essere: il soggetto, l'oggetto, il fatto, e la tutela del diritto.
In genere, l'istanza di partecipazione non contiene tutti questi elementi perché il suo scopo è quello di fare una serie di dichiarazioni grazie alle quali l'amministratore/concorrente sostiene di poter partecipare alla gara ed avere i requisiti per l'esecuzione dei lavori, l'erogazione del servizio o la fornitura degli articoli.
In merito, invece, all'offerta economica, spesso predisposta dalla Stazione Appaltante, la situazione è del tutto diversa perché, generalmente, contiene l'indicazione del soggetto (l'individuazione del soggetto, il quale avendone il potere, impegna il ditta/struttura), l'oggetto (elenco dettagliato delle opere da realizzare, dei servizi da erogare o degli articoli da fornire con i relativi prezzi), il fatto giuridico (la dichiarazione di colui che avendone il potere vincola la ditta/struttura, al momento dell'aggiudicazione, ad effettuare le opere, ad erogare i servizi o a fornire gli articoli, entro certi termini) ed infine la tutela diritto (che nella fattispecie esiste in quanto i contratti pubblici sono relazioni degne di essere difese).
Appare dunque evidente che non potendo definire a priori se l'istanza o l'offerta economica sono sottoposti all'obbligo dell'imposta di bollo è necessario analizzarne i contenuti e nel caso in cui il documento contenga in sé tutti gli elementi descritti e indicati dall'Allegato A sarà possibile stabilirlo.
La questione assume diversa connotazione nel caso di gara telematiche.
Per concludere è necessario ricordare che se da un lato il Presidente di gara è obbligato ad accogliere il documento privo della marca da bollo così come previsto dall'art 19 del D.P.R. n. 642/1972, dall'altro deve provvedere, entro trenta giorni a segnalare all'Agenzia delle Entrate, competente nel territorio dove ha sede la ditta, tale mancanza per la relativa regolarizzazione (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 25.05.2017 n. 184 di http://asmecomm.it).

APPALTI: In una gara per la ristrutturazione di una scuola elementare di importo a base di gara di € 345.000,00, durante la prima seduta di gara, ho aperto il plico contenente la documentazione amministrativa, al fine di verificarne la completezza e il possesso dei requisiti da parte dei partecipanti.
Scopro, mio malgrado, che nessuno dei partecipanti, che intende concorrere presentano contratto di avvalimento, ha presentato un PassOe con l'indicazione dell'ausiliaria. Il concorrente va escluso o no?
Va applicato il Soccorso Istruttorio e se si sì a pagamento o no?

Il concorrente che accede alla piattaforma ANAC, se non può indicare l'ausiliaria, è "vittima" di un piccolo errore commesso dall'operatore della Stazione appaltante, il quale in fase di redazione della scheda SIMOG, in particolare nella definizione dei requisiti, ha omesso di indicare la possibilità di concedere in avvalimento alcune lavorazioni previste per l'esecuzione dell'appalto.
E' necessario sospendere la seduta di gara ed è importante non completare la fase di acquisizione del partecipante (prima fase, esperita dalla stazione appaltante, all'interno della procedura di gara nella piattaforma ANAC), ammesso che sia stata aperta contestualmente alla seduta di gara pubblica. Personalmente preferisco, durante la seduta di gara pubblica, provvedere contestualmente all'acquisizione dei partecipanti e verificare in tempo reale la correttezza dei PassOe e delle informazioni in essi contenuti.
Durante la fase di acquisizione dei partecipanti si acquisiscono solo i PassOe corretti e gli altri verranno lasciati in sospeso nella sezione "elenco pass da acquisire"
È auspicabile il ricorso al Soccorso Istruttorio, in quanto è necessario provvedere a chiedere una integrazione documentale.
Tutte le richieste verranno inoltrate ai concorrenti tramite PEC, a seguito di protocollazione e sarà opportuno concedere agli operatori non meno di 7/10 giorni, vista la difficoltà e la tempistica dell'ANAC; suggerisco, infine, di indicare nei verbali di gara tutto l'accaduto.
In presenza di questa fattispecie le soluzioni sono due:
   - Soluzione A - è necessario inoltrare all'ANAC, a firma del RUP, una richiesta di sblocco della gara a seguito della quale l'operatore della stazione appaltante potrà correggere l'errore all'interno della scheda SIMOG e segnalare agli operatori economici l'avvenuto sblocco. In seguito, i concorrenti entreranno in ANAC e prenderanno un nuovo PassOe che conterrà i loro dati e quelli dell'ausiliaria, tale documento verrà inviato, preferibilmente tramite PEC, alla stazione appaltante entro i termini.
   - Soluzione B - la Stazione Appaltante contatta i concorrenti informandoli della problematica e indicando loro che devono riaccedere nella piattaforma ANAC e prendere un nuovo PassOe indicando il concorrente principale come mandante e l'ausiliaria come mandataria. Il nuovo PassOe verrà inviato alla Stazione Appaltante, preferibilmente a mezzo PEC. Questa soluzione poggia sulla previsione normativa, presente nel Codice degli Appalti, che prevede la fattispecie dei raggruppamenti temporanei.
Si ritiene preferibile la Soluzione A che corrisponde alla situazione contrattuale reale tra concorrente principale, ausiliaria e Stazione Appaltante. Nel caso della Soluzione B invece si rappresenterebbe una situazione non corrispondente alla realtà perché il rapporto contrattuale che lega i due soggetti -aggiudicatario/Stazione Appaltante- sono totalmente diversi; va ricordato che nel caso dell'avvalimento la stazione appaltante affida direttamente e solamente al concorrente risultato aggiudicatario -pur consapevole che parte delle lavorazioni verranno eseguiti da altro soggetto- mentre nel caso di RTI la Stazione Appaltante affida e due soggetti che nell'esecuzione dei lavori o del servizio eseguono una parte distinta e predeterminata ex ante delle opere o del servizio.
Qualunque sia la soluzione scelta dal RUP o dal presidente del seggio di gara alla data prestabilita, in seduta pubblica, verrà ripresa la gara prendendo atto dell'avvenuto invio dei PassOe. Evidentemente nella piattaforma ANAC ed in particolare nella sezione "elenco pass da acquisire" resteranno dei PassOe -quelli incompleti presentati dai concorrenti ma anche quelli di concorrenti che hanno prelevato un PassOe e successivamente non hanno presentato un offerta- che non verranno caricati dall'operatore della stazione appaltante, ma questo non rappresenta un problema.
Si procederà ad ammettere tutti i concorrenti con PassOe conforme e a chiudere la fase Acquisizione del partecipante mentre in fase di gara si procederà all'apertura dell'offerta economica per i soggetti ammessi, ovviamente (a cura di Marco Terrei) (tratto dalla newsletter 08.05.2017 n. 183 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Quesito: Nella procedura di gara aperta, laddove il bando non preveda l'indicazione degli oneri aziendali nell'offerta economica, è giusto escludere il concorrente che non li abbia inseriti nella proposta? Posso applicare il Soccorso Istruttorio?
L'art. 95, comma 10, del D.Lgs. n. 50/2016, stabilisce la necessità per i concorrenti la gara di indicare gli oneri aziendali nella propria offerta economica.
Laddove gli atti di gara non introducano tale prescrizione, si ritiene corretta procedere all'esclusione dell'operatore che abbia presentato l'offerta carente di tale onere.
Si condivide, infatti, l'orientamento di maggior rigore espresso dalle Adunanze Plenarie nelle sentenza n. 3 e n. 9 del 2015 laddove si chiarisce che "in caso di carente indicazione di tali oneri l'esclusione del concorrente deve essere disposta. Inoltre, con la decisione n. 3/2015 è stata espressamente esclusa la sanabilità con il soccorso istruttorio dell'omissione dell'indicazione degli oneri per la sicurezza aziendale, che si risolverebbe in un'inammissibile integrazione postuma di un elemento essenziale dell'offerta". Principio perfettamente in linea con l'istituto introdotto dall'arto 83 comma 9 D.Lgs. n. 50/2016.
Con la successiva sentenza n. 9, l'Adunanza Plenaria ha infine chiarito che "non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015" (tratto dalla newsletter 20.04.2017 n. 182 di http://asmecomm.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: In una gara aperta di importo superiore alla soglia comunitaria, un concorrente chiede, successivamente alla pubblicazione dell'aggiudicazione, di accedere a tutta la documentazione amministrativa (compresi le verifiche e le giustificazioni), alla documentazione tecnica e al piano economico/finanziario; devo dare seguito alla richiesta del concorrente?
In generale l'accesso agli atti è sempre consentito, ma a questa richiesta non può che opporsi un diniego.
Nella materia degli appalti, l'accesso agli atti è regolata dall'art. 53 il quale al comma 1 rimanda all'art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241.
Ciò premesso è utile ricordare che il Legislatore ha riconosciuto al diritto d'accesso un ruolo fondamentale nel rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il privato, che con essa si rapporta, stabilendo proprio all'art. 22 che: "l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza".
Nei commi successivi, invece, viene affrontato il tema del differimento del diritto d'accesso:
   - il comma 2, lettera a), si occupa delle procedure aperte stabilendo che [il diritto di accesso è differito] "Nelle procedure aperte, in relazione all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte";
   - il comma 2, lettera c) [il diritto di accesso è differito] "In relazione alle offerte, fino all'aggiudicazione";
   - al comma 2, lettera d) [il diritto di accesso è differito] "In relazione al, procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, fino all'aggiudicazione".
E' evidente, dunque, che per ogni tipologia di documento di gara il Legislatore abbia stabilito dei diversi tempi per il rilascio dei singoli atti al fine di garantire, da un lato, il massimo della segretezza e della riservatezza dei dati dei concorrenti, che partecipano alle procedure e, dall'altro, la possibilità per la Stazione Appaltante di procedere nell'espletamento della gara senza nessun tipo di condizionamento.
Pur essendo la riservatezza dei dati e degli elementi costitutivi delle diverse offerte un elemento fondamentale nelle gare d'appalto, questo aspetto è recessivo di fronte all'accesso agli atti laddove il diritto sia esercitato (anche) per la difesa in giudizio [se è vero che il diritto di accesso deve essere più propriamente definito quale "potere di natura procedimentale volto in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritto o interessi)" (Cons. Stato, ad. Plen., 20.04.2006 n. 7; sez. IV, 28.02.2012 n. 1162), esso deve tuttavia avere i caratteri (che deriva dalla posizione cui afferisce) della personalità, concretezza e attualità, e postula un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti (Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2006 n. 555)].
L'elemento della funzione difensiva del contenuto degli atti dei quali si chiede l'accesso è molto sentita nel nostro ordinamento, come riaffermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale afferma «si deve, infatti, ricordare che il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 che, nel rispetto dell'art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici"» (Consiglio di Stato sez. VI sentenza 06.06.2016 n. 3003, sentenza 3003/2016)
Nel caso specifico, tuttavia, la richiesta va rigettata, in applicazione dell'art. 24, comma 3, della 241/1990 (Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni) per la genericità della stessa, la quale non mira ad ottenere informazioni precise e dettagliate su un concorrente o sull'offerta tecnico/amministrativa, ma si concretizza in un generico accesso alla totalità degli atti volto, probabilmente, alla valutazione dell'azione amministrativa nel suo complesso.
Individuata questa soluzione, diventa inutile affrontare il tema del rilascio della documentazione amministrativa, delle offerte tecniche o delle giustificazioni: temi complessi che presentano diverse fattispecie, tutte degne di essere esaminate, ma che per loro ampiezza non possono in questa sede essere affrontate (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 03.04.2017 n. 181 di http://asmecomm.it).

APPALTI: In una gara per l'affidamento di servizi assicurativi di durata biennale per un importo complessivo di € 38.000,00: devo necessariamente far presentare ai concorrenti il PassOe? Devo far presentare la cauzione provvisoria?
Nelle gare con importi inferiori a € 40.000 non sussiste l'obbligo di presentazione del PassOe.
La Stazione Appaltante, al momento della richiesta del CIG (Codice Identificativo Gara) dovrà selezionare la modalità SMART CIG (Attraverso questo sistema le Stazioni Appaltanti possono ottenere CIG in modalità semplificata).
Il CIG ottenuto in questa modalità può essere utilizzato per micro-contrattualistica -contratti di lavori di importo inferiore a € 40.000, ovvero contratti di servizi e forniture di importo inferiore a € 40.000- e contratti esclusi in tutto o in parte dell'applicazione del Codice.
Per i concorrenti alla gara, il possesso del PassOe deve essere attivato ed allegato alla documentazione amministrativa nelle gare con un importo superiore a € 40.000,00.
Si ricorda che il PassOe rappresenta lo strumento con cui la Stazione Appaltante procede alla verifica, tramite interfaccia web, dei requisiti richiesti dalla Stazione Appaltante per la partecipazione alla gara.
In merito al secondo quesito, il presupposto della garanzia provvisoria ex art. 75 D.Lgs. n. 163/2006 ora art. 93, comma 6, del D.lgs. 50/2016 è che quella di essere diretta ad assicurare la serietà dell'offerta e a costituire una liquidazione preventiva e forfettaria del danno qualora non si addivenga alla stipula del contratto per causa imputabile all'aggiudicatario.
Negli affidamenti "diretti", attualmente regolamentati dall'art. 36, comma 2, lettera a), in virtù del fatto che gli stessi non prevedono un confronto concorrenziale, ma vengono definiti in modo "diretto" tra il RUP e il committente/fornitore, non vi è l'obbligo di richiedere tale garanzia (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 14.03.2017 n. 180 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Nella procedura di gara in cui il criterio di aggiudicazione è dato dal prezzo più basso, a fronte della richiesta di chiarimenti ex art. 97, comma 5, è possibile istituire una commissione per l'analisi della documentazione presentata dall'operatore economico?
Si ritiene ammissibile la costituzione di una commissione ad hoc per la valutazione dei chiarimenti forniti dal concorrente circa la congruità dell'offerta, se prevista dalla Lex Specialis.
In particolare, la delibera n. 1096/2016 recante le Linee Guida RUP pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 273 del 22.11.2016, al punto 5.3. in materia di "Valutazione delle offerte anormalmente basse", così specifica: "Nel bando di gara la stazione appaltante indica se, in caso di aggiudicazione con il criterio del minor prezzo, la verifica di congruità delle offerte è rimessa direttamente al RUP e se questi, in ragione della particolare complessità delle valutazioni o della specificità delle competenze richieste, debba o possa avvalersi della struttura di supporto istituita ai sensi dell'art. 31, comma 9, del Codice, o di commissione nominata ad hoc".
È opportuno ricordare che la nomina della Commissione di valutazione della congruità dell'offerta non segue le modalità previste dagli artt. 77-78 del D.lgs. n. 50/2016 per la Commissione Giudicatrice.
Nello specifico, quindi, il RUP potrà nominare una Commissione ad hoc per la verifica della congruità all'interno dell'Ente stesso e procedere con determina alla nomina della Commissione (tratto dalla newsletter 24.02.2017 n. 179 di http://asmecomm.it).

APPALTI SERVIZI: Nell'appalto di servizi, il bando pubblicato richiede un requisito tecnico che di fatto limita il ventaglio dei partecipanti. È possibile modificare tale elemento?
In giurisprudenza è consolidato il principio che afferma la nullità delle clausole del bando, se lesive del favor partecipationis.
In particolare si precisa che "la stazione appaltante può fissare discrezionalmente i requisiti di partecipazione, anche superiori rispetto a quelli previsti dalla legge, purché essi non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali, sproporzionati, illogici, nonché lesivi della concorrenza" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.12.2006 n. 7460; Cons. Stato, sez. V,13.12.2005 n. 7081).
Dunque è consentito alla stazione appaltante la determinazione dei requisiti di partecipazione in relazione alle peculiarità del servizio/lavori da espletare, purché non costituiscano un'indebita restrizione all'accesso alla procedura di gara: "è ammessa la facoltà di indicare tra i requisiti soggettivi necessari per la partecipazione a gare pubbliche per l'affidamento di lavori, forniture e servizi pubblici anche requisiti specifici ed ulteriori rispetto a quelli fissati a livello normativo solo se l'accesso alla procedura non è indebitamente ristretto, se vi sono esigenze concrete imposte dalla natura dell'affidamento che giustificano tale eccezione e se le previsioni particolari sono proporzionali alla scopo da perseguire e ragionevoli nella loro configurazione" (Consiglio di Stato sez. V 13/10/2005 n. 5668).
Alla luce delle predette pronunce, si ritiene necessario procedere alla pubblicazione di un'errata corrige che precisi la portata della clausola relativa al requisito, favorendo la massima partecipazione degli operatori economici alla gara (tratto dalla newsletter 10.02.2017 n. 178 di http://asmecomm.it).

APPALTI: In una gara espletata sul Mercato Elettronico, uno dei concorrenti invia i documenti richiesti apponendo una firma digitale scaduta. Il concorrente verrà ammesso, ammesso con riserva o escluso?
Il concorrente che avrà inviato dei documenti in formato PDF, con certificato di firma scaduto verrà escluso dalla gara.
L’art. 21, comma 2, del D.lgs. n. 85/2005 denominato “Codice dell’Amministrazione Digitale” rende identici, in termini civilistici, il documento in forma cartacea e quello informatico lì dove prevede che “il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche di cui all'articolo 20, comma 3, ha altresì l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del codice civile”.
Tuttavia come avviene per la firma autografa, che si appone sui documenti cartacei, anche i documenti informatici devono essere firmati, ma in questo caso attraverso “l'utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale -grazie alla quale quest’ultima- si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria” come indicato ancora nel medesimo articolo.
Purtroppo, i dispositivi per la firma elettronica devono essere periodicamente “rinnovati” e questo può indurre ad apporre delle firme su documenti informatici con il proprio certificato oramai scaduto.
Se ciò dovesse accadere sarà come se la firma non fosse mai stata apposta, come stabilisce l’art. 24, comma 4-bis, il quale recita: “l'apposizione a un documento informatico di una firma digitale o di un altro tipo di firma elettronica qualificata basata su un certificato elettronico revocato, scaduto o sospeso equivale a mancata sottoscrizione” e quel documento, ad esempio una dichiarazione o autocertificazione da inviare per la partecipazione ad una gara, risulterebbe privo di sottoscrizione e dunque privo di valore.
La giurisprudenza si è a più riprese occupata della questione stabilendo che: “la mancanza della firma, pertanto, non può considerarsi come una mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una espressa previsione della lex specialis” (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5547/2008; sez. IV, n. 1832/2010; sez. V, n. 528/2011; TAR Lombardia, Miano, Sez. 4, Sent. 13/07/2015, n. 1629 ).
Tale orientamento è stato recentemente confermato dal TAR Toscana, Sezione I, 16.09.2016, sentenza n. 1364 secondo cui la mancanza della firma fa venir meno la certezza sulla provenienza stessa del documento e quindi della piena assunzione di responsabilità in merito al relativo contenuto (a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla newsletter 27.01.2017 n. 177 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Nelle procedure di gara in cui il criterio di aggiudicazione è dato dal prezzo più basso, ai sensi del nuovo Codice Appalti, come si procede per la verifica dell'offerta anomala?
L'art. 97, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 precisa che «quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata, al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia
», procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno dei metodi previsti.
Tale indicazione andrebbe seguita anche in mancanza delle condizioni per l'esclusione automatica ai fini della richiesta di giustificativi per offerte ritenute dalla stazione appaltante a "rischio anomalia", concedendo 15 giorni di tempo per la produzione degli stessi da parte della ditta.
Ai sensi del comma 5: «la stazione appaltante esclude l'offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l'offerta è anormalmente bassa in quanto:
   a) non rispetta gli obblighi di cui all'articolo 30, comma 3.
   b) non rispetta gli obblighi di cui all'articolo 105;
   c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui all'articolo 95, comma 9, rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture; disposizione corretta con errata corrige del 15.07.2016;
   d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all'articolo 23, comma 16, disposizione corretta con errata corrige del 15.07.2016
».
In ogni caso, ai sensi del successivo comma 6 il Codice precisa che: «non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge. Non sono, altresì, ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza di cui al piano di sicurezza e coordinamento previsto dall'articolo 100 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81» (tratto dalla newsletter 13.01.2017 n. 176 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Nelle procedure di gara, in cui il criterio di aggiudicazione è dato dall'offerta economicamente più vantaggiosa: il presidente del seggio di gara può anche essere il presidente della commissione giudicatrice?
Se il presidente del seggio di gara è il RUP del servizio, fornitura o lavoro posto a gara allora la risposta è negativa: egli non può essere presidente del seggio di gara e, nel contempo, presidente della commissione giudicatrice.
Come indicato nelle Linee Guida ANAC n. 3 "Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni" pubblicate nella G.U. n. 273 del 22/11/2016, al Punto 5.2) egli può "effettuare Il controllo della documentazione amministrativa" -tale funzione può comunque essere svolta da un apposito ufficio/servizio a ciò deputato, sulla base delle disposizioni organizzative proprie della stazione appaltante- ma non potrebbe MAI essere presidente della commissione giudicatrice di cui all'art. 77 del Nuovo Codice degli Appalti.
All'art. 77, comma 3, infatti, si stabilisce che i componenti della Commissione giudicatrice "sono scelti fra gli esperti iscritti all'Albo istituito presso l'ANAC di cui all'articolo 78" per gli appalti sopra soglia mentre per quelli sotto soglia possono essere nominati tra i "componenti interni alla stazione appaltante" tuttavia il RUP non potrebbe MAI essere nominato come commissario perché al comma 4 dello stesso articolo si stabilisce che "I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta".
Il contesto, ovviamente, è quello dell'offerta economicamente vantaggiosa, diversamente, nell'offerta al prezzo più basso, non è prevista una commissione per la valutazione delle caratteristiche tecniche.
La scelta del legislatore appare logica e pertinente nella misura in cui al RUP viene riconosciuta la possibilità di agire in tutte quelle fasi ove tuttavia non vi è attività discrezionale che lo porrebbe in una condizione di conflitto di interesse (a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla newsletter 23.12.2016 n. 175 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Nelle procedure di gara, in cui il criterio di aggiudicazione è dato dall'offerta economicamente più vantaggiosa, in sede di valutazione, il segretario verbalizzante della commissione può esprimere giudizi in merito ai requisiti?
No. Il segretario verbalizzante non può esprimere pareri in merito ai requisiti quando coadiuva la commissione giudicatrice.
Come ha da tempo e più volte avuto modo di chiarire la giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex mulits C.d.S. Sez. V Sent. n. 5502 del 23/06/2016 "
commissione composta tra gli altri da un segretario verbalizzante, il quale non fa parte del collegio, non ha potere di voto e svolge mere attività di supporto burocratico ai compiti valutativi e decisionali appartenenti esclusivamente alla Commissione") quest'ultimo individuato come segretario verbalizzante, in quanto tale, è privo di diritto di voto e non va computato nel novero dei membri della commissione giudicatrice, che costituisce un collegio perfetto con riferimento esclusivamente ai suoi membri effettivi .
Oggetto specifico della verbalizzazione è la descrizione degli atti e della sequenza dei fatti cui il verbalizzante assiste.
Anche nella fase della verifica della documentazione amministrativa, qualunque sia il criterio di aggiudicazione, il RUP o il dirigente che presiede tale fase può avvalersi del supporto di un collaboratore che ha la funzione di verbalizzare -descrive gli atti e i fatti- le fasi della verifica e, anche in questo caso, tale soggetto non ha nessun potere (a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla newsletter 16.12.2016 n. 174 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Quesito: Nelle procedure aperte, è possibile inserire nel bando, la richiesta di appartenenza ad una specifica associazione, operante nel settore d’appalto, quale tassativo requisito di partecipazione?
Nelle procedure ad evidenza pubblica è possibile inserire criteri di partecipazione più restrittivi di quelli in via generale stabiliti dal normativa di settore, purché la Stazione appaltante agisca nel rispetto dei principi comunitari, espressamente recepiti dall’art.30 del D.Lgs. n. 50/2016.
In particolare laddove, con riguardo alle specifiche esigenze dell’oggetto dell’appalto, si inseriscano già in fase di accesso prescrizioni più rigide rispetto ai criteri previsti dall’ art. 83 del codice, queste non dovranno in ogni caso limitare i principi fondamentali del “favor partecipationis” e della libera concorrenza.
Si ritiene, pertanto che, in assenza di particolari e comprovate peculiarità dell’appalto, il requisito proposto possa al più figurare tra i criteri qualitativi per la valutazione dell’offerta (tratto dalla newsletter 07.12.2016 n. 173 di http://asmecomm.it).

LAVORI PUBBLICI: Quesito: Negli appalti pubblici aventi a oggetto l'esecuzione di lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, è obbligatoria per i concorrenti l'indicazione della terna dei subappaltatori, anche laddove il bando non preveda tale adempimento?
Nel caso in cui la lex specialis non prescriva espressamente l'indicazione da parte del concorrente della terna dei subappaltatori di cui si avvarrà per l'esecuzione dell'appalto, ai sensi dell'art. 105, comma 5, del D.lgs. n. 50/2016, tale indicazione non è obbligatoria.
In materia, la normativa richiede un'apposita clausola negli atti di gara e in particolare il comma 6, nel secondo periodo, prevede che "il bando o avviso con cui si indice la gara prevedono tale obbligo".
Invero, giova ricordare come, la stessa norma esplicita altresì che "nel bando o nell'avviso la stazione appaltante può prevedere ulteriori casi in cui è obbligatoria l'indicazione della terna anche sotto le soglie di cui all'articolo 35" (tratto dalla newsletter 02.12.2016 n. 172 di http://asmecomm.it).

APPALTI SERVIZI: Nelle procedure aventi ad oggetto prestazioni di servizi di importo inferiore a € 20.000,00 è necessario per la Stazione Appaltante acquisire il Durc on-line?
Il comma 14-bis all'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, introdotto dall'art. 4, comma 2, D.L. n. 70/2010, prevedeva per i contratti di forniture e servizi fino a 20,000.00, stipulati con la Pubblica Amministrazione e le società in house, i soggetti contraenti potessero produrre una dichiarazione sostitutiva in luogo del DURC.
Tale norma è stata abrogata dal vigente D.Lgs. n. 50/2016, per cui attualmente anche per le acquisizioni di beni e servizi inferiori ad € 20.000,00 occorre acquisire il Durc on-line (tratto dalla newsletter 10.11.2016 n. 169 di http://asmecomm.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla illegittimità dell'ordinanza di demolizione di un balcone realizzato in spregio alla distanza legale di mt. 1.50 dal confine ex art. 905 cod. civ..
Sebbene i provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti istruttori chiarisce che la contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante.
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella specie, non occorresse osservare la distanza minima di un metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c., giacché la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui.
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel balcone della controinteressata, poiché il balcone realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi l’affaccio (c.d. prospectio).

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Col ricorso in esame, corredato di istanza cautelare, il sig. Ro.Pa. impugna l'ordinanza n. 47AE/15 del 04.08.2015, con cui il Comune di Anzio gli ha ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi in relazione alla realizzazione di un balcone in via ... n. 3, primo piano int. 1, in pretesa pretesa difformità dalla D.I.A. dallo stesso presentata, nonché l’ordinanza n. 48AE/15 di pari data, con cui il Comune gli ha irrogato, per la medesima vicenda, una sanzione amministrativa dell’importo di euro 516,00
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Il ricorso è fondato.
Con le ordinanze impugnate è stato ingiunto al ricorrente il ripristino dello stato dei luoghi ed irrogata una sanzione pecuniaria “per difformità alla DIA prot. 32917 del 29.07.2013”, individuata mediante rinvio per relationem agli atti istruttori richiamati nel preambolo e allegati al provvedimento; dagli stessi emerge che, in sede di verifica dell’esecuzione dei lavori di realizzazione di un balcone previsto negli elaborati grafici della denuncia, sarebbe stato accertato il mancato rispetto delle distanze minime dalla proprietà confinante (cfr. la relazione tecnica prot. 1652/16 del 02.07.2015 dell’Unità Abusivismo Edilizio, all’esito del sopralluogo del precedente 10 giugno: “tra la linea esteriore di predetta opera e il fondo confinante (balcone proprietà Ni.Fe.) non vi è la distanza di m 1.50, così come previsto dall’art. 905 del Codice Civile, essendo il distacco di m 1.19”).
Parte ricorrente propone cinque ordini di censura:
   (i) non vi è difformità tra quanto denunciato e quanto realizzato, poiché la misura del distacco era facilmente ricavabile dal progetto, sicché (tanto più che la questione dei distacchi era già stata sollevata dal proprietario confinante) il Comune soltanto ora verrebbe a contestare, in realtà, il rispetto nello stesso progetto delle norme sulle distanze, per la qual cosa avrebbe dovuto, piuttosto, procedere alla revoca o all’annullamento del silenzio assenso sulla D.I.A.;
   (ii) i rilievi e le misurazioni sono stati effettuati dai tecnici comunali senza la partecipazione dell’interessato e senza dargliene alcun avviso, in violazione del suo diritto al contraddittorio procedimentale;
   (iii) non sussiste alcuna violazione dell’art. 905 c.c.: nel caso concreto non si tratta di una veduta diretta (art. 905 c.c.), ma obliqua (art. 906 c.c., che prescrive una distanza di 75 cm), trattandosi di due balconi affiancati l’uno all’altro, e comunque, anche se si trattasse di veduta diretta, il fatto che entrambi i balconi affaccino su una via pubblica (ancorché questa non li separi) importerebbe comunque l’esenzione dal rispetto delle distanze a mente dell’art. 905 ultimo comma c.c.. In ogni caso, l’ordine di demolizione avrebbe dovuto interessare anche il balcone della vicina, poiché il principio della prevenzione non si applicherebbe ai distacchi tra vedute o balconi;
   (iv) la demolizione parziale del balcone pregiudicherebbe la sua parte eseguita in conformità;
   (v) il Comune non ha osservato l’obbligo di contestare immediatamente la violazione, in contrasto con gli articoli 27 del d.P.R. n. 380/2001 e 14, comma 1, della legge n. 689/1981.
Tanto premesso, anzitutto va osservato che, sebbene i provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti istruttori (“tali difformità sono meglio indicate nei citati atti”) chiarisce che la contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante; ciò tenuto conto anche del fatto, rilevante ai sensi dell’art. 116 c.p.c., che l’amministrazione non ha mai dato riscontro alle ordinanze con cui la Sezione ha chiesto di chiarire se le rilevate difformità rispetto alla D.I.A. riguardassero il mancato rispetto delle distanze previste in progetto.
Che la distanza tra i due balconi sia inferiore ai 150 centimetri è pacifico. Nella perizia giurata prodotta dal ricorrente, corredata da grafici e rilievi fotografici, si afferma che il balcone di proprietà del ricorrente è posto a 75 cm dal confine tra i due fabbricati, mentre il balcone della controinteressata si trova a 49 cm del confine medesimo (sicché la distanza che li separa sarebbe di 124 cm; maggiore è la distanza dalla finestra più vicina della controinteressata, che la perizia quantifica in 190 cm).
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella specie, non occorresse osservare la distanza minima di un metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c., giacché, come correttamente osservato nel terzo motivo di ricorso, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui (cfr. Cass., sez. II, 20.02.2009, n. 4222, ove ultt. citt.).
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel balcone della controinteressata, poiché il balcone realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi l’affaccio (c.d. prospectio).
Tanto basta all’accoglimento del ricorso, assorbita ogni altra censura, con conseguente annullamento, per l’effetto, degli atti impugnati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 07.09.2017 n. 9626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l'ordinanza di demolizione laddove:
  
a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
   b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza comunque una alterazione della situazione preesistente;
   c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico.

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... per l'annullamento previa sospensiva dell'ordinanza n. 61/2017 del 20/04/2017 con cui il Comune di Casalecchio di Reno (BO) Area Servizi al Territorio - Servizio pianificazione e rigenerazione urbana ha ingiunto la rimozione di n. 2 fioriere e di n. 2 panchine entrambe in metallo dall'area esterna all'esercizio di parrucchieri con insegna "Vi." posto in via ... n. 61 Casalecchio di Reno (BO) e di qualsiasi atto presupposto, connesso e/o conseguenziale.
...
- Rilevato che il ricorso è –ad avviso del Collegio- manifestamente infondato in quanto
   a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
   b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza comunque una alterazione della situazione preesistente;
   c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico;
   d) la notifica dell’impugnata ordinanza comunale è stata perfezionata nei confronti dell’attuale ricorrente non quale persona fisica, ma per la sua correlazione con l’esercizio di parrucchieri sito in via ... n. 61 –come si ricava dal testo dell’atto- per modo che non sussiste l’asserita strumentale censura di difetto di legittimazione passiva (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 07.09.2017 n. 625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIA seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95, comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni, comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso istruttorio.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata superata ogni incertezza interpretativa, nel senso dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10. In presenza di una esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante hanno previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius: l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il che è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo.

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Il ricorso è fondato.
A seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95, comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni, comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso istruttorio.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata superata ogni incertezza interpretativa, nel senso dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10. In presenza di una esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante hanno previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius: l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il che è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo (Tar Campania, Napoli Sez. III, 03.05.2017, n. 2358).
L’azione di annullamento è pertanto fondata (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 07.09.2017 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per quanto attiene al danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto il danneggiato, ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto.
In particolare, spetta al danneggiato offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito ove fosse risultato aggiudicatario dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, ai sensi dell'art. 64, commi 1 e 3, c.p.a., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento.
Quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra Pubblica amministrazione e privato, che contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella conseguenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c..
La valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226, c.c., in combinato con l'art. 2056, c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno; la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio, senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti.
La prova, in ordine alla quantificazione del danno, può essere raggiunta anche mediante presunzioni ma, in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729, c.c., esse devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.

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La domanda risarcitoria, del tutto generica, non può essere accolta.
Per quanto attiene al danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto il danneggiato, ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto; in particolare spetta al danneggiato offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito ove fosse risultato aggiudicatario dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, ai sensi dell'art. 64, commi 1 e 3, c.p.a., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento; quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra Pubblica amministrazione e privato, che contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella conseguenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c.; la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226, c.c., in combinato con l'art. 2056, c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno; la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio, senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti; la prova, in ordine alla quantificazione del danno, può essere raggiunta anche mediante presunzioni ma, in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729, c.c., esse devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2017, n. 2184) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 07.09.2017 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIPosto che pacificamente, prima della entrata in vigore del TUEL e dopo quella del codice ambientale, la competenza all’emanazione delle ordinanze di rimozione rifiuti abbandonati spetta al sindaco, occorre rispondere al quesito se nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore delle due fonti normative la competenza fosse trasferita al dirigente.
Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti precedentemente assunti, rilevano talune considerazioni di ordine sistematico:
   - il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui dispone conseguentemente l’abrogazione;
   - in particolare, l’art. 192 del codice ambientale riproduce l’art. 14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro introducendovi due aggiornamenti relativi all’obbligo di accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il richiamo al d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la competenza del sindaco a emanare l’ordinanza per la rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener conto di -e conformarsi a– quanto previsto dal TUEL);
   - a ciò si può aggiungere che l’art. 264, comma 1, lettera i), del codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di provvedimenti attuativi, al dichiarato “fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto”, a testimonianza della volontà del legislatore di evitare ogni discontinuità –salvo ove espressamente disposto– nel passaggio dal decreto Ronchi al codice ambientale.
Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che –pur dando atto dei profili problematici della questione– si debba applicare al caso in questione il principio di specialità: “Per il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare”.
In definitiva, questo Collegio ritiene che la volontà del legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14 d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all’entrata in vigore del il decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata, ancorché emanata dopo l’entrata in vigore del TUEL, avrebbe dovuto essere emanata dal Sindaco e non dal Dirigente.
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L’ANAS s.p.a. impugna la sentenza in epigrafe, che ha respinto il ricorso, presentato dalla medesima società, per l’annullamento dell’ordinanza n. 38 del 23.05.2005, emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del Comune di Rivello (PZ), con cui ha ordinato ad ANAS e a due imprese di rimuovere i rifiuti abbandonati lungo l’autostrada A3.
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Assume quindi rilevanza centrale e dirimente la questione della competenza a emanare l’ordinanza impugnata, se del Sindaco (come vorrebbe la società appellante, per dedurne l’illegittimità del provvedimento) o del Dirigente comunale (secondo l’Amministrazione resistente).
In materia, si sono succedute nel tempo diverse disposizioni ritenute dalla giurisprudenza applicabili alla fattispecie del potere di ordinanza in materia di rimozione dei rifiuti:
   - il d.lgs. 05.02.1997, n. 22, “Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio” (cd. decreto Ronchi), che all’art. 14, recante il divieto di abbandono di rifiuti e l’obbligo di procedere alla rimozione, prevede (comma 3, secondo periodo) che “Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere”;
   - il d.lgs. 18.08.2000, n. 267, “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali” –TUEL, che all’art. 107, comma 5, prevede che a decorrere dalla data di entrata in vigore del testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III (fra cui il sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, “si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti”;
   - il d.lgs. 03.04.2006, n. 152, “Norme in materia ambientale” (cd. codice ambientale) che all’art. 192, comma 3, secondo periodo, riproduce testualmente la disposizione richiamata del decreto Ronchi e dunque ribadisce la competenza sindacale.
Quanto ai precedenti, da una parte questo Consiglio ha considerato che –con riferimento a un provvedimento del 2003 (dunque dopo l’entrata in vigore del TUEL e prima di quella del codice ambientale)- alla luce della norma generale del TUEL, “trattandosi di un atto di gestione (più precisamente di un provvedimento sanzionatorio), l'adozione dell'ordine di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco” (Sez. V, sent. n. 5288 del 15.12.2016).
Peraltro, in una controversia fra le medesime parti del presente giudizio ed avente ad oggetto una ordinanza del 2007 (dunque dopo l’entrata in vigore del codice ambientale) analoga a quella ora in discussione, questo Consiglio ha statuito che: “Per la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, l’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V, 29.08.2012, n. 4635; id., 12.06.2009, n. 3765; id., 10.03.2009, n. 1296; id., 25.08.2008, n. 4061).”
La emanazione dell’ordinanza de qua (23.05.2005) si colloca temporalmente fra l’entrata in vigore del TUEL e quella del codice ambientale.
Posto quindi che pacificamente, prima della entrata in vigore del TUEL e dopo quella del codice ambientale, la competenza all’emanazione delle ordinanze in questione spetta al sindaco, occorre rispondere al quesito se nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore delle due fonti normative la competenza fosse trasferita al dirigente.
Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti precedentemente assunti, rilevano talune considerazioni di ordine sistematico:
   - il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui dispone conseguentemente l’abrogazione;
   - in particolare, l’art. 192 del codice ambientale riproduce l’art. 14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro introducendovi due aggiornamenti relativi all’obbligo di accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il richiamo al d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la competenza del sindaco a emanare l’ordinanza per la rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener conto di -e conformarsi a– quanto previsto dal TUEL);
   - a ciò si può aggiungere che l’art. 264, comma 1, lettera i), del codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di provvedimenti attuativi, al dichiarato “fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto”, a testimonianza della volontà del legislatore di evitare ogni discontinuità –salvo ove espressamente disposto– nel passaggio dal decreto Ronchi al codice ambientale.
Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che –pur dando atto dei profili problematici della questione– si debba applicare al caso in questione il principio di specialità: “Per il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare” (da ultimo, questo Consiglio, Sez. VI, sentenza n. 1199 del 23.03.2016).
In definitiva, questo Collegio ritiene che la volontà del legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14 d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all’entrata in vigore del il decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata, ancorché emanata dopo l’entrata in vigore del TUEL, avrebbe dovuto essere emanata dal Sindaco e non dal Dirigente.
L’appello va quindi accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, l’Ordinanza n. 38 del 23.05.2005, emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del Comune di Rivello va annullata, per l’assorbente motivo della incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.09.2017 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn linea generale, solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Invero, per ciò che concerne gli atti istruttori di un procedimento penale, l’accesso deve essere escluso per la documentazione in possesso dell’amministrazione coperta da segreto istruttorio, in quanto afferente a indagini preliminari o procedimenti penali in corso. Al riguardo il legislatore ha inteso contemperare, secondo i principi fissati dall’art. 97 della Costituzione, gli opposti interessi in gioco, quello del privato, di accedere agli atti dell’amministrazione in ossequio al principio di trasparenza dell’azione amministrativa e quello pubblico, di sottrarre all’accesso determinate categorie di atti, la cui pubblicità potrebbe recare pregiudizio agli interessi, ritenuti prevalenti, individuati nelle lettere a), b), c) e d) del comma 2 dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Qualora si richieda l’ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell’ambito di un’attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss. L. 241/1990 e ostensibili unicamente mediante l’attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale, tra cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p..

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FATTO
Espone la -OMISSIS- di avere ricoperto, nel periodo aprile 2012–dicembre 2014, l’incarico di direttore del servizio contratti appalti e acquisti dell’allora ASL 1 di Sassari.
A seguito di indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Sassari in ordine alla rilevanza penale di alcuni atti di proroga di contratti scaduti, la -OMISSIS- è risultata indagata e destinataria di informazione di chiusura delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p..
In data 01.02.2017 è stata inviata apposita istanza di accesso agli atti a mezzo PEC.
La ricorrente asserisce di avere interesse ad accedere agli atti delle procedure di gara oggetto dell’informazione di garanzia al fine di organizzare la propria difesa in giudizio.
L’avviso di chiusura delle indagini inviato alla -OMISSIS- individua quattro contratti che, secondo la tesi accusatoria, sarebbero stati illegittimamente prorogati nel periodo in cui la stessa ricorrente ricopriva l’incarico di direttore del servizio acquisti.
E’ necessario anche verificare quali misure di riorganizzazione aziendale, nel periodo in esame, abbiano interessato il servizio diretto dalla -OMISSIS- incidendo eventualmente sui tempi per lo svolgimento delle procedure di gara.
Alla camera di consiglio del 07.06.2017 il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato.
La domanda di accesso agli atti presentata dalla ricorrente ha tutti i requisiti previsti dagli artt. 22 e ss. L. 241 del 1990.
L’amministrazione è rimasta totalmente inerte. Non si possono pertanto nemmeno apprezzare le motivazioni del diniego.
Come è noto, l'indagato, nel termine di venti giorni a decorrere dal ricevimento dell'avviso previsto dall’art. 415-bis c.p.p., ha facoltà di prendere visione degli atti e di estrarne copia, di presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle indagini eventualmente svolte dal difensore, chiedere l'espletamento di specifici atti d'indagine, nonché presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio.
La parte è sempre in condizione di potere esercitare il diritto di difesa, prendendo conoscenza diretta e personale degli atti depositati in cancelleria.
E’ però vero che nulla vieta al soggetto destinatario dell’avviso di formulare istanza di accesso agli atti alla pubblica amministrazione se lo ritiene utile per la propria attività difensiva.
In linea generale, solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (Tar Sicilia, Catania, Sez. III, 25.07.2017, n. 1943).
Inoltre, una specifica disposizione, l’art. 391-quater c.p.p. così recita: “Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione.
1. Ai fini delle indagini difensive, il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarne copia a sue spese.
2. L'istanza deve essere rivolta all'amministrazione che ha formato il documento o lo detiene stabilmente.
3. In caso di rifiuto da parte della pubblica amministrazione si applicano le disposizioni degli articoli 367 e 368
”.
La disposizione offre uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quella apprestata dagli artt. 22 ss., L. 07.08.1990, n. 241, che resta però percorribile.
L’amministrazione dovrà quindi nell’ordine:
   1) dare riscontro espresso alla richiesta presentata dalla -OMISSIS-;
   2) rendere disponibili gli atti richiesti ad eccezione di eventuali atti ancora coperti da segreto istruttorio;
   3) in ordine a quanto esposto al punto 2) va rammentato che: “1. Per ciò che concerne gli atti istruttori di un procedimento penale, l’accesso deve essere escluso per la documentazione in possesso dell’amministrazione coperta da segreto istruttorio, in quanto afferente a indagini preliminari o procedimenti penali in corso. Al riguardo il legislatore ha inteso contemperare, secondo i principi fissati dall’art. 97 della Costituzione, gli opposti interessi in gioco, quello del privato, di accedere agli atti dell’amministrazione in ossequio al principio di trasparenza dell’azione amministrativa e quello pubblico, di sottrarre all’accesso determinate categorie di atti, la cui pubblicità potrebbe recare pregiudizio agli interessi, ritenuti prevalenti, individuati nelle lettere a), b), c) e d) del comma 2 dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Qualora si richieda l’ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell’ambito di un’attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss. L. 241/1990 e ostensibili unicamente mediante l’attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale, tra cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p. (ex multis, da ultimo, Tar Lazio, Roma, Sez. III-ter, 23.12.2015, n. 14525)
".
Il ricorso deve pertanto essere accolto nei limiti sopra descritti (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 06.09.2017 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla insussistenza dell’obbligo per la P.A. di pronunciarsi circa l'istanza del privato volta al riesame di un provvedimento divenuto inoppugnabile oppure volta a sollecitare l’adozione di un provvedimento di autotutela.
Il consolidato orientamento assunto dal Consiglio di Stato afferma costantemente:
   - che “Se è innegabile che la p.a. deve comportarsi secondo buona fede e correttezza, è altrettanto vero che essa non ha alcun obbligo -e tanto meno è sottoposta all'esercizio di alcuna attività vincolata- di provvedere su istanza dell'interessato al riesame di un provvedimento edilizio, divenuto oramai inoppugnabile a seguito della formazione del giudicato reiettivo sull'impugnazione del diniego di concessione edilizia”;
   - che “…. non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di provvedere su un'istanza di riesame, annullamento o revoca d'ufficio di un provvedimento divenuto inoppugnabile per mancata tempestiva impugnazione”;
   - che “l'omissione dell'amministrazione può assumere rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto solo ove sussista l'obbligo di provvedere, mancante tuttavia allorché l'istanza del privato sia volta a imporre il riesame di vicende su cui la stessa amministrazione è già intervenuta con determinazioni ormai inoppugnabili”;
   - che “Non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno”;
   - che “Il giudizio sul silenzio-rifiuto è diretto ad accertare se il comportamento silenzioso tenuto violi l'obbligo dell'Amministrazione di adottare un provvedimento esplicito sull'istanza del privato, titolare di una posizione qualificata che ne legittimi l'istanza, mentre le istanze dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela da parte della stessa amministrazione hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza”; e che “pertanto, non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione comunale di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento di annullamento di una determinazione, non essendo coercibile ‘ab extra’ l'attivazione del procedimento di riesame della decisione presa, peraltro neanche configurabile come provvedimento amministrativo, mediante l'istituto del silenzio-rifiuto”.
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2.5. Da tutto quanto sopra osservato consegue che l’Amministrazione non aveva alcun obbligo di provvedere sull’istanza di riesame, attesa la totale infondatezza ed inammissibilità della stessa.
2.6. Le superiori considerazioni si conformano peraltro al consolidato orientamento assunto -sulla questione- dal Consiglio di Stato, il quale afferma costantemente:
   - che “Se è innegabile che la p.a. deve comportarsi secondo buona fede e correttezza, è altrettanto vero che essa non ha alcun obbligo -e tanto meno è sottoposta all'esercizio di alcuna attività vincolata- di provvedere su istanza dell'interessato al riesame di un provvedimento edilizio, divenuto oramai inoppugnabile a seguito della formazione del giudicato reiettivo sull'impugnazione del diniego di concessione edilizia” (C.S., V, 17.06.2014 n. 3095);
   - che “…. non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di provvedere su un'istanza di riesame, annullamento o revoca d'ufficio di un provvedimento divenuto inoppugnabile per mancata tempestiva impugnazione” (C.S., III, 22.10.2009 n. 1658; Id., VI, 12.11.2003 n. 7250; Id., V, 14.04.2008 n. 1610);
   - che “l'omissione dell'amministrazione può assumere rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto solo ove sussista l'obbligo di provvedere, mancante tuttavia allorché l'istanza del privato sia volta a imporre il riesame di vicende su cui la stessa amministrazione è già intervenuta con determinazioni ormai inoppugnabili” (C.S., VI, 05.09.2005 n. 4504);
   - che “Non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno” (CS, V, 07.11.2016 n. 4642; Id., 22.01.2015 n. 273; Id., V, 03.10.2012 n. 5199);
   - che “Il giudizio sul silenzio-rifiuto è diretto ad accertare se il comportamento silenzioso tenuto violi l'obbligo dell'Amministrazione di adottare un provvedimento esplicito sull'istanza del privato, titolare di una posizione qualificata che ne legittimi l'istanza, mentre le istanze dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela da parte della stessa amministrazione hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza”; e che “pertanto, non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione comunale di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento di annullamento di una determinazione, non essendo coercibile ‘ab extra’ l'attivazione del procedimento di riesame della decisione presa, peraltro neanche configurabile come provvedimento amministrativo, mediante l'istituto del silenzio-rifiuto” (C.S., V, 30.12.2011 n. 6995) (C.G.A.R.S., sentenza 06.09.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per grave illecito professionale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per grave illecito professionale – Art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ambito di applicazione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per grave illecito professionale – Art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Provvedimenti giurisdizionali non definitivi – Rilevanza – Condizione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Precedenti penali – Segnalazione alla stazione appaltante – Filtro del concorrente – Esclusione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Contraddittorio con il concorrente – Condizione.
Il ”grave illecito professionale”, che ai sensi dell’art. 80, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 comporta l’esclusione del concorrente dalla gara, ricomprende ogni condotta, collegata all’esercizio dell’attività professionale, contraria ad un dovere posto da una norma giuridica, sia essa di natura civile, penale o amministrativa (1).
Ai fini dell’esclusione dalla gara pubblica prevista dall’art. 80, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 rilevano anche i provvedimenti giurisdizionali non definitivi qualora contengano una condanna al risarcimento del danno e uno degli altri effetti tipizzati dall’art. 80 stesso; l’esclusione non può superare i tre anni a decorrere dalla data dell’annotazione della notizia nel Casellario informatico gestito dall’Autorità o, per i provvedimenti penali di condanna non definitivi, dalla data del provvedimento” e non dalla verificazione del fatto storico (2).
Il concorrente ad una gara pubblica non può operare alcun filtro nell’individuazione dei precedenti penali valutando esso stesso la loro rilevanza ai fini dell’ammissione alla procedura di gara, spettando tale potere esclusivamente alla stazione appaltante (3).
Il contraddittorio previsto nel nuovo Codice dei contratti pubblici, ai fini dell’accertamento della carenza sostanziale dei requisiti di ammissione alla gara, riguarda i soli casi in cui il concorrente si è dimostrato leale e trasparente nei confronti della stazione appaltante, rendendola edotta di tutti i suoi precedenti, anche se negativi, ed ha fornito tutte le informazioni necessarie per dimostrare l’attuale insussistenza di rischi sulla sua inaffidabilità o mancata integrità nello svolgimento della sua attività professionale (4).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che tra i gravi illeciti espressamente contemplati dalla norma rientrano, infatti, “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”.
   (2) Il giudice di appello ha richiamato le Linee guida dell’Anac n. 6 del 16.11.2016.
Ha aggiunto che il testo dell’art. 57, par. 7 della direttiva 2014/24/UE non implica affatto che per “data del fatto” debba intendersi la data di commissione del reato, in quanto in questo modo verrebbero meno i principio di effettività e di giustizia sostanziale. Quando l’errore professionale deriva dalla commissione di un reato, che il più delle volte viene occultato dal responsabile, la decorrenza del termine triennale di esclusione dalla data di commissione del reato, anziché dalla data del suo accertamento giurisdizionale equivarrebbe a privare di ogni effetto il precetto normativo, il che non è possibile. Inoltre, in caso di condotte reiterate nel tempo, potrebbero sussistere dubbi sull’individuazione del momento in cui inizia a decorrere il termine triennale che –invece– per propria natura deve ancorarsi ad un preciso momento storico.
Infine, il termine generico di “data del fatto” utilizzata dal legislatore sovranazionale discende dalla natura variegata dei fatti escludenti di cui al par. 4, tra le quali sono ricomprese anche le sentenze non passate in giudicato.
   (3) Cons. St., sez. V, 11.04.2016, n. 1412; id. 25.02.2015, n. 943.
   (4) Ha chiarito la Sezione che solo in caso di lealtà dimostrata dal concorrente è possibile ipotizzare un vero e proprio contraddittorio tra le parti. Non è certo ammissibile consentire alle concorrenti di nascondere alla stazione appaltante situazioni pregiudizievoli, rendendo false o incomplete dichiarazioni al fine di evitare possibili esclusioni dalla gara, e poi, ove siano state scoperte, pretendere il rispetto del principio del contraddittorio da parte della stazione appaltante (Cons. St., sez. V 11.04.2016, n. 1412).
Se ciò fosse possibile, si incentiverebbe la condotta “opaca” delle concorrenti, che non avrebbero alcun interesse a dichiarare fin dall’inizio i “pregiudizi”, rendendo possibile la violazione del principio di trasparenza e di lealtà che deve invece permeare tutta la procedura di gara. Il ricorso al contraddittorio, e quindi la valutazione delle misure di self-cleaning, presuppone -quindi– il rispetto del principio di lealtà nei confronti della stazione appaltante, e quindi in caso di dichiarazioni mendaci o reticenti, l’amministrazione aggiudicatrice può prescindervi, disponendo l’immediata esclusione della concorrente (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.09.2017 n. 4192 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Emissioni rumorose da impianto di condizionamento d'aria - Esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi - Oggettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone - Superamento della soglia di normale tollerabilità - Disturbato le occupazioni o il riposo delle persone - Art. 659 cod. pen. - Fattispecie.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Nella fattispecie: è stato evidenziato che l'albergo gestito dal ricorrente era munito di un impianto di condizionamento dell'aria (posto sul tetto) non insonorizzato, privo di paratie e particolarmente rumoroso, e tale da disturbare il riposo quotidiano di numerose persone dimoranti nei dintorni; quel che impediva di configurare il solo illecito amministrativo, non potendosi configurare una fonte rumorosa ex se strumentale all'attività alberghiera, come tale insuscettibile di riduzione di emissioni. Quanto appena riportato era stato tratto dalle deposizioni dei testi d'accusa e dalla documentazione acquisita, che dava atto di un carteggio da tempo intercorrente tra l'albergo ed il condominio delle parti civili, volto a sollecitare una soluzione del problema.
RUMORE - Prova dell'effettivo disturbo di più persone - Reato di pericolo - Idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato - Elementi di prova - Convincimento del giudice - Oggettivo superamento della soglia della normale tollerabilità - Giurisprudenza.
In materia di emissioni rumorose, trattandosi di reato di pericolo presunto, per la prova dell'effettivo disturbo di più persone è sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato (per tutte, Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese).
Inoltre, per uguale principio giuridico, consolidato, l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (per tutte, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Differenza tra Art. 659 cod. pen. 1^ e 2^ fattispecie - Fonte del rumore prodotto - Due autonome fattispecie di reato - Esercizio di mestieri rumorosi - Mero superamento dei limiti massimi o differenziali fissati dalle leggi - Presunzione di turbativa della pubblica tranquillità - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Oggettiva idoneità degli stessi a superare una soglia di normale tollerabilità.
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di reato, configurate rispettivamente dai commi 1 e 2. L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacché, ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi, la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità.
Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio dell'attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Sez. 1, 17/12/1998, n. 4820, Mannelli, in un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività di una discoteca, bensì dall'impianto di condizionamento).
Pertanto, i rumori molesti provenienti da un'attività lavorativa integrano la fattispecie di cui all'art. 659, comma 2, cod. pen. quando originino da elementi strettamente connessi, strumentali e necessari all'esercizio dell'attività medesima (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 04.09.2017 n. 39883 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cassazione: è reato non insonorizzare il condizionatore che disturba i vicini. Nel caso di un albergo il solo illecito amministrativo si configura se la fonte rumorosa è strumentale all'attività alberghiera.
Incorre in una responsabilità penale il gestore di un albergo che non provvede a insonorizzare l'impianto di condizionamento dell'aria che disturba il riposo di coloro che dimorano nelle vicinanze.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, nella sentenza 04.09.2017 n. 39883.
Nel caso esaminato dai giudici di legittimità l'albergo era munito di un impianto di condizionamento dell'aria (posto sul tetto) non insonorizzato, privo di paratie e particolarmente rumoroso, e tale da disturbare il riposo quotidiano di numerose persone dimoranti nei dintorni.
Tale circostanza impediva di configurare il solo illecito amministrativo, “non potendosi configurare una fonte rumorosa ex se strumentale all'attività alberghiera, come tale insuscettibile di riduzione di emissioni” (commento tratto da www.casaeclima.com).

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MASSIMA
4. Il gravame risulta infondato in forza delle considerazioni che seguono.
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di reato, configurate rispettivamente dai commi 1 e 2. L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacché, ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi, la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità. Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio dell'attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Sez. 1, 17/12/1998, n. 4820, Mannelli, Rv. 213395, in un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività di una discoteca, bensì dall'impianto di condizionamento).
Nei medesimi termini, dunque, questa Corte ha più volte affermato che
i rumori molesti provenienti da un'attività lavorativa integrano la fattispecie di cui all'art. 659, comma 2, cod. pen. quando originino da elementi strettamente connessi, strumentali e necessari all'esercizio dell'attività medesima; in applicazione di questo principio, dunque, questa Corte ha più volte affermato che un bar autorizzato a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora deve essere classificato come esercizio di un "mestiere rumoroso", proprio perché l'utilizzazione degli stessi strumenti è da considerare come connessa ed indispensabile all'esercizio dell'attività medesima (cfr. Sez. 1, 26/02/2008, n. 11310, Fresina, Rv. 239165).
Ciò rilevato, deve poi sottolinearsi a mente della giurisprudenza più recente che
l'inquinamento acustico conseguente all'esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l'illecito amministrativo di cui alla l. 26.10.1995, n. 447, art. 10, comma 2, (legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659, comma 2, cod. pen.) (Sez. 3, n. 34920 dell'11/06/2015, Masselli, Rv. 264739; Sez. 1, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, Rv. 254088); del pari, si è affermato che, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, la condotta costituita dal superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi non configura l'ipotesi di reato di cui all'art. 659 comma 2, in oggetto, ma l'illecito amministrativo di cui alla citata l. n. 447 del 1995, in applicazione del principio di specialità contenuto nella L. 24.11.1981, n. 689, art. 9 (Sez. 3, 31.01.2014, n. 13015, Vazzana. Rv. 258702).
5. Orbene, tutto ciò premesso, osserva la Corte che la sentenza impugnata ha affermato la responsabilità del Ri. con riferimento esclusivo alle emissioni provenienti dall'impianto di condizionamento dell'aria, implicitamente negando rilevanza penale all'altra condotta contestata (disturbo con elevato volume dell'impianto di amplificazione musicale), perché non più prevista dalla legge come reato, nei termini appena richiamati; quel che si ricava con chiarezza dal testo della pronuncia e, in particolare, dal primo capoverso della pag. 6, che "concentra" ogni attenzione del giudicante (anche con riguardo alle emergenze istruttorie) soltanto sul primo profilo, attribuendo dunque all'altro, di fatto, rilievo esclusivamente amministrativo.
Ne consegue che tutte le doglianze qui proposte concernenti tale secondo ambito (anche in punto di valutazione delle prove orali) debbono esser rigettate, poiché attinenti ad un profilo di responsabilità che la sentenza ha di fatto escluso, riconoscendo la colpevolezza del ricorrente con riferimento ad un solo, specifico ambito.
Il Tribunale, tuttavia, non ha espresso in dispositivo questo (pur chiaro) elemento, che deve pertanto esser esplicitato da questa Corte, annullando senza rinvio la sentenza impugnata -limitatamente alla contestazione relativa al volume dell'impianto di amplificazione per la diffusione della musica- perché il fatto non è previsto dalla legge come reato; e senza che si debba intervenire sul trattamento sanzionatorio che, invero, risulta esser stato individuato dal Giudice di merito con riferimento esclusivo alle emissioni da impianto di condizionamento.
7. Con riguardo a queste ultime, peraltro, il ricorso deve essere rigettato; attraverso tali doglianze, infatti, il Ri. tende ad ottenere una valutazione diversa e nuova delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dal Giudice del merito (specie quelle testimoniali), sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che non è consentito. Al riguardo, infatti, occorre ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/03/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
8. Il gravame, inoltre, oblitera che la sentenza ha riconosciuto la penale responsabilità del ricorrente in forza di un congruo apparato argomentativo, fondato su oggettive risultanze dibattimentali e privo di qualsivoglia illogicità manifesta; come tale, dunque, non censurabile. In particolare, ha evidenziato che
l'albergo gestito dal ricorrente era munito di un impianto di condizionamento dell'aria (posto sul tetto) non insonorizzato, privo di paratie e particolarmente rumoroso, e tale da disturbare il riposo quotidiano di numerose persone dimoranti nei dintorni; quel che impediva di configurare il solo illecito amministrativo, nei termini sopra riportati, non potendosi configurare una fonte rumorosa ex se strumentale all'attività alberghiera, come tale insuscettibile di riduzione di emissioni.
Quanto appena riportato era stato tratto dalle deposizioni dei testi d'accusa (che la sentenza ha congruamente richiamato, giudicandole circostanziate e precise, quindi attendibili), in uno con la documentazione acquisita, che dava atto di un carteggio da tempo intercorrente tra l'albergo ed il condominio delle parti civili, volto a sollecitare una soluzione del problema.
Quel che, però, non era accaduto, sì da incidere -con logico argomento anche sul punto- sul profilo soggettivo della condotta, come ancora evidenziato dalla sentenza in esame. In tal modo, dunque, il Tribunale ha fatto buon governo:
   1) del principio -costantemente affermato in questa sede- in forza del quale
l'affermazione di responsabilità per la fattispecie de qua non implica, attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato (per tutte, Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese, Rv. 262510);
   2) dell'ulteriore principio, del pari consolidato, per cui
l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (per tutte, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, Rv. 263433, a mente della quale in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Una motivazione del tutto adeguata e non meritevole di censura, dunque, come tale idonea a fondare un giudizio di penale responsabilità e ad imporre il rigetto anche della doglianza concernente la valutazione dei testi a difesa, ampiamente richiamati, poiché di natura fattuale (quindi, inammissibile) e non suscettibile di esame in questa sede; e con la ulteriore considerazione che la testimonianza Zi. -che si contesta non esser stata valutata (al pari di quella Bi., relativa, però, al profilo di responsabilità non riconosciuto)- giammai avrebbe potuto ricoprire rilievo decisivo nella vicenda in esame, avendo il teste affermato -come da verbale allegato al ricorso- di aver dormito nell'albergo e di non aver ricevuto alcun disturbo, così però non potendo riferire (profilo invero determinante) con riguardo alle emissioni sonore percepite all'esterno della struttura medesima (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 04.09.2017 n. 39883).

LAVORI PUBBLICI: Negli appalti pubblici regolati dal capitolato generale approvato con il d.P.R. n. 1063 del 1962, la consegna dei lavori costituisce obbligo dell'amministrazione appaltante, il cui inadempimento, però, è disciplinato in modo diverso rispetto alle norme del codice civile, nel senso che non conferisce all'appaltatore il diritto di risolvere il rapporto (né con domanda ai sensi dell'art. 1453 c.c., né a seguito di diffida ad adempiere ai sensi dell'art. 1454 c.c.), né di avanzare pretese risarcitorie, ma gli attribuisce, invece, in base alla norma speciale dell'art. 10 del capitolato generale, la sola facoltà di presentare istanza di recesso dal contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il sorgere di un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo.
Sicché il riconoscimento all'appaltatore di un diritto al risarcimento può venire in considerazione solo se egli abbia preventivamente esercitato tale facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza ulteriori oneri a carico della stazione appaltante.

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Gl.It. s.p.a. (in prosieguo Gl., cessionaria del ramo di azienda dell'appaltatrice G.G.M. In. s.p.a.) conveniva in giudizio Ferrovie dello Stato s.p.a. (poi Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., in prosieguo R.F.I.) deducendo -per quel che qui ancora rileva- che, a causa della ritardata picchettazione delle aree da parte della stazione appaltante per l'esecuzione dei lavori di consolidamento di una frana sulla linea ferroviaria Potenza-Metaponto, si era verificato il ritardo nella consegna dei lavori da parte di Ferrovie dello Stato sicché essa appaltatrice aveva sopportato maggiori oneri dovuti al costo del materiale ferroso deteriorato e all'indebita protrazione dei lavori, nonché al ritardato collaudo degli i lavori appaltati; chiedeva pertanto la condanna della committente al risarcimento dei danni.
...
L'art. 10 del capitolato generale di appalto delle opere pubbliche dispone che «La consegna dei lavori deve avvenire non oltre 45 giorni dalla data di registrazione alla Corte dei conti del decreto di approvazione del contratto (...)» (primo comma) e che «Se la consegna non avvenga nel termine stabilito per fatto dell'amministrazione, l'appaltatore può chiedere di recedere dal contratto. Nel caso di accoglimento dell'istanza di recesso l'appaltatore ha diritto al rimborso dall'amministrazione appaltante delle spese di cui al precedente art. 9 nonché ad un rimborso delle altre spese da lui effettivamente sostenute, (...). Ove l'istanza dell'impresa non sia accolta e si proceda tardivamente alla consegna, l'appaltatore ha diritto ad un compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo» (ottavo comma).
Nella specie, sostiene la ricorrente, dovrebbe invece farsi applicazione, secondo quanto previsto nel contratto di appalto del 28.03.1995, delle condizioni generali di contratto per gli appalti dell'Ente Ferrovie dello Stato, approvate con deliberazione del consiglio di amministrazione n. 589 del 27.10.1987, il cui art. 19 dispone che, ove l'ente ritardi la consegna dei lavori oltre il termine di un anno dalla conclusione del contratto, l'appaltatore acquisterà solo il diritto di recedere dal contratto, senza pretendere alcun risarcimento danni o compenso per mancato utile, salvo la restituzione della cauzione e il rimborso delle spese sostenute per la formalizzazione del contratto.
Da ciò la ricorrente conclude di non aver mai maturato il diritto al recesso, posto che la consegna dei lavori era avvenuta il 10.12.1995, ossia entro l'anno dalla conclusione del contratto avvenuta con la comunicazione di aggiudicazione della gara il 05.12.1994, con conseguente prosecuzione del rapporto contrattuale.
La censura, pur fondata limitatamente al profilo della esatta ricognizione della norma applicabile alla fattispecie -l'art. 19 delle condizioni generali di contratto per gli appalti delle Ferrovie dello Stato, secondo quanto previsto dal contratto di appalto e come del resto pacifico tra le parti-, con conseguente correzione in parte qua della motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 384, quarto comma, c.p.c., non conduce peraltro all'esito auspicato dalla ricorrente Gl..
Invero, premesso che la norma generale di cui all'art. 10 del capitolato generale di appalto di opere pubbliche e quella speciale di cui all'art. 19 delle condizioni generali di contratto per gli appalti delle Ferrovie dello Stato hanno contenuto sostanzialmente analogo, differendo esse per il più lungo termine annuale di consegna dei lavori previsto dall'art. 19 in favore della stazione appaltante, la ratio dell'art. 19 non può che essere individuata alla stregua dei principi affermati da questa Corte in tema di recesso dall'appalto pubblico per tardiva o parziale consegna dei lavori, stante la specialità della relativa disciplina rispetto all'ordinario regime codicistico.
Così, per Sez. 1, 11.11.2004, n. 21484,
negli appalti pubblici regolati dal capitolato generale approvato con il d.P.R. n. 1063 del 1962, la consegna dei lavori costituisce obbligo dell'amministrazione appaltante, il cui inadempimento, però, è disciplinato in modo diverso rispetto alle norme del codice civile, nel senso che non conferisce all'appaltatore il diritto di risolvere il rapporto (né con domanda ai sensi dell'art. 1453 c.c., né a seguito di diffida ad adempiere ai sensi dell'art. 1454 c.c.), né di avanzare pretese risarcitorie, ma gli attribuisce, invece, in base alla norma speciale dell'art. 10 del capitolato generale, la sola facoltà di presentare istanza di recesso dal contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il sorgere di un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo; sicché il riconoscimento all'appaltatore di un diritto al risarcimento può venire in considerazione solo se egli abbia preventivamente esercitato tale facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza ulteriori oneri a carico della stazione appaltante (v. anche, più recentemente, Sez. 1, 29.10.2015, n. 22112; Sez. 1, 19.10.2015, n. 21100; Sez. 1, 07.02.2013, n. 2983; Sez. 1, 07.06.2012, n. 9233) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 04.09.2017 n. 20723).

APPALTI: Principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alla soglia comunitaria.
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Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicabilità – Conseguenza.
Ai sensi dell’art. 36, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, in applicazione del principio di rotazione negli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria lastazione appaltante ha l’alternativa o di non invitare il gestore uscente o, quanto meno, di motivare attentamente le ragioni per le quale si riteneva di non poter prescindere dall’invito (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il principio di rotazione ‒previsto dall’art. 36, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, v. le Linee guida n. 4 del 26.10.2016, n. 1097 dell’Anac).
Ad avviso della Sezione l’art. 36, d.lgs. 50 del 2016 non è contrario ai principi costituzionali:
   a) con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico” del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il gestore uscente affidatario diretto della concessione di servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre concorrenti;
   b) quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
   c) in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.
La Sezione ha aggiunto che la mancata applicazione di tale principio può essere dedotta in sede giurisdizionale anche da chi ha partecipato alla gara, risultandone non vincitore e non solo dagli operatori economici pretermessi, e ciò in quanto la regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti amplia le possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti, anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua violazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.08.2017 n. 4125 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5.‒ L’appello principale della s.p.a. Su. e quello incidentale del MIUR devono essere integralmente respinti.
5.1.‒ L’art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto «del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese».
La disposizione, in particolare, attribuisce alle stazioni il potere di avvalersi delle procedure ordinarie per gli affidamenti in esame ovvero di procedere secondo le seguenti modalità: «b) per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti».
5.2.‒
Il principio di rotazione ‒che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4).
5.3.‒ Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’art. 164, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, prevede l’applicabilità anche alle concessioni delle previsioni del titolo II del codice (e, quindi anche dell’art. 36), sulla base di una valutazione di compatibilità.
Del resto, anche nell’art. 30, comma 1, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più generale al principio di libera concorrenza di cui il criterio in esame costituisce espressione.
5.4.‒ Deve quindi concludersi che, anche nel caso di specie, si imponesse a carico della stazione appaltante la seguente alternativa: o di non invitare il gestore uscente o, quanto meno, di motivare attentamente le ragioni per le quale si riteneva di non poter prescindere dall’invito.
6.‒ In ragione dell’ampia premessa svolta, non può accogliersi il primo motivo di gravame, con il quale l’appellante principale lamenta l’erroneità della sentenza per mancato accoglimento dell’eccezione di difetto di legittimazione e di interesse del ricorrente.
L’appellante principale ha dedotto che il principio di rotazione potrebbe essere fatto valere solo dagli operatori economici pretermessi e non da chi ha partecipato alla gara, risultandone non vincitore.
La regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti –il cui fondamento, come si è visto, è quello di evitare la cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione appaltante ed il precedente gestore– amplia le possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti, anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua violazione.
7.‒ Poiché il principio di rotazione fa divieto ‒salvo motivate eccezioni‒ di invitare il gestore uscente in occasione del primo affidamento della concessione, è infondato anche il secondo motivo di appello, secondo cui il medesimo principio sarebbe inoperante in mancanza di un indagine di mercato. Del resto, come affermato dai giudici di prime cure, l’invito ad un numero di operatori economici (sette) maggiore di quello minimo (cinque) previsto dall’art. 36, 2 comma, lettera b), del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 escluda che possa essere ravvisata, nella fattispecie, l’ipotesi della presenza di un numero ridotto di operatori sul mercato.
8.‒ La questione di costituzionalità dell’art. 36 del d.lgs. 50 del 2016 –dedotta peraltro in termini generici– con il terzo motivo di appello è manifestamente infondata in relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
   - con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico” del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il gestore uscente affidatario diretto della concessione di servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre concorrenti;
   - quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
   - in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di partecipazione dei competitorsesterni” (assicurata dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.

APPALTIIl principio di rotazione ‒che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento.
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La questione di costituzionalità dell’art. 36 del d.lgs. 50 del 2016 è manifestamente infondata in relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
   - con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico” del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il gestore uscente affidatario diretto della concessione di servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre concorrenti;
   - quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
   - in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.

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5.1.‒ L’art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto «del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese».
La disposizione, in particolare, attribuisce alle stazioni il potere di avvalersi delle procedure ordinarie per gli affidamenti in esame ovvero di procedere secondo le seguenti modalità: «b) per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti».
5.2.‒ Il principio di rotazione ‒che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4).
5.3.‒ Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’art. 164, 2° comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, prevede l’applicabilità anche alle concessioni delle previsioni del titolo II del codice (e, quindi anche dell’art. 36), sulla base di una valutazione di compatibilità.
Del resto, anche nell’art. 30, 1° comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più generale al principio di libera concorrenza di cui il criterio in esame costituisce espressione.
5.4.‒ Deve quindi concludersi che, anche nel caso di specie, si imponesse a carico della stazione appaltante la seguente alternativa: o di non invitare il gestore uscente o, quanto meno, di motivare attentamente le ragioni per le quale si riteneva di non poter prescindere dall’invito.
6.‒ In ragione dell’ampia premessa svolta, non può accogliersi il primo motivo di gravame, con il quale l’appellante principale lamenta l’erroneità della sentenza per mancato accoglimento dell’eccezione di difetto di legittimazione e di interesse del ricorrente.
L’appellante principale ha dedotto che il principio di rotazione potrebbe essere fatto valere solo dagli operatori economici pretermessi e non da chi ha partecipato alla gara, risultandone non vincitore.
La regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti –il cui fondamento, come si è visto, è quello di evitare la cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione appaltante ed il precedente gestore– amplia le possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti, anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua violazione.
7.‒ Poiché il principio di rotazione fa divieto ‒salvo motivate eccezioni‒ di invitare il gestore uscente in occasione del primo affidamento della concessione, è infondato anche il secondo motivo di appello, secondo cui il medesimo principio sarebbe inoperante in mancanza di un indagine di mercato. Del resto, come affermato dai giudici di prime cure, l’invito ad un numero di operatori economici (sette) maggiore di quello minimo (cinque) previsto dall’art. 36, 2 comma, lettera b), del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 esclude che possa essere ravvisata, nella fattispecie, l’ipotesi della presenza di un numero ridotto di operatori sul mercato.
8.‒ La questione di costituzionalità dell’art. 36 del d.lgs. 50 del 2016 –dedotta peraltro in termini generici– con il terzo motivo di appello è manifestamente infondata in relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
   - con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico” del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il gestore uscente affidatario diretto della concessione di servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre concorrenti;
   - quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
   - in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.
9.‒ Con riguardo all’ultimo motivo di appello principale, non sussiste alcuna violazione dell’art. 34, 2 comma, c.p.a.
Tale disposizione inibisce al giudice amministrativo di approntare una tutela “preventiva” dell’interesse legittimo, anticipata cioè rispetto all’esplicazione della funzione amministrativa da parte dell’autorità competente. Nella specie, il TAR si è limitato a segnalare ai fini conformativi della pronuncia di annullamento le modalità di attuazione del principio di rotazione in sede di riedizione.
10.– Il MIUR, nel proprio atto di appello incidentale, ha sostento la tesi secondo cui l’applicazione del principio di rotazione porrebbe al più un problema di motivazione nel caso di vittoria del gestore uscente.
Ai fini del rigetto della censura, è dirimente rilevare come l’art. 25, comma 1, lettera a), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, abbia ulteriormente chiarito che il principio di rotazione si riferisce alla fase «degli inviti e degli affidamenti» e non alla fase della aggiudicazione.
L’infondatezza del gravame consente di assorbire, in base al principio della “ragione più liquida”, l’eccezione di tardività dell’appello, perché notificato in data 14.06.2017.
11.‒ In definitiva, l’invito e l’affidamento al contraente uscente avrebbe richiesto un onere motivazionale più stringente. Per contro, la documentazione di gara non reca alcuna motivazione in ordine alle ragioni giustificative dell’ammissione alla procedura del precedente gestore. Le affermazioni dell’appellante -secondo cui vi sarebbero pochi operatori interessati all’affidamento- sono rimaste del tutto indimostrate (vedi sul punto quanto già dedotto al paragrafo 7 della motivazione). Correttamente il TAR, avendo ravvisato la violazione dell’art. 36 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, ha disposto l’annullamento dell’aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.08.2017 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni e livello di normale tollerabilità ex art. 844 c.c. - Individuazione della intollerabilità delle immissioni di gas di scarico derivanti dalle caldaie e da miasmi da sfiati provenienti dal pozzo nero del condominio - Mezzi di prova esperibili - Indagine tecnica e testimoniale sulle stesse circostanze di fatto.
In tema di immissioni, i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita consulenza d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone, potendosi in tale materia ricorrere alla prova testimoniale soltanto quando essa verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti e non si riveli espressione di giudizi valutativi (Cass. Sez. 2, 20/01/2017, n. 1606).
Altrettanto può certamente dirsi ove l'indagine tecnica sia preferita dal giudice di merito, rispetto all'assunzione di prove costituende, per l'accertamento di accadimenti i quali, sia pure sul fondamento di dati obbiettivi, possono essere posti in luce soltanto attraverso una particolare esperienza tecnica (nella specie, la sussistenza di allagamenti, o la presenza sui luoghi di causa di impianti di scarico delle acque di particolari dimensioni o caratteristiche di funzionamento).
D'altro canto, la valutazione di superfluità dell'assunzione di prove per interrogatorio formale o per testimoni sulle stesse circostanze di fatto che siano già state oggetto di accertamento peritale costituisce espressione di un giudizio discrezionale del giudice di merito, che si sottrae al sindacato di legittimità se, come nel caso in esame, congruamente motivato.
INQUINAMENTO ACUSTICO - CONDOMINIO - Distanze legali nei rapporti fra proprietari - Condizione abitativa e igiene - Apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni - Giurisprudenza.
Negli edifici condominiali, la disciplina in tema di distanze legali nei rapporti fra proprietà singole non opera nell'ipotesi dell'installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale abitabilità dell'appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. Sez. 2, 15/07/1995, n. 7752; Cass. Sez. 2, 18/06/1991, n. 6885; Cass. Sez. 2, 05/12/1990, n. 11695).
RUMORE - CONDOMINIO - Edifici in condominio - Immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini - Applicabilità dell'art. 844 c.c. - Criterio di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni - Principio della sana convivenza - Limiti.
La disposizione dell'art. 844 c.c. è applicabile anche negli edifici in condominio nell'ipotesi in cui un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini. Nell'applicazione della norma deve aversi riguardo, tuttavia, per desumerne il criterio di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla destinazione assegnata all'edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari.
Dalla convivenza nell'edificio, tendenzialmente perpetua (come si argomenta dall'art. 1119 c.c.), scaturisce talvolta la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da parte dei proprietari dei fondi vicini; per contro, la stessa convivenza suggerisce di considerare in altre situazioni non tollerabili le immissioni, che i proprietari dei fondi vicini sono tenuti a sopportare. Il principio, dunque, va precisato in considerazione delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso orizzontale e verticale tra le unità abitative.
In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, ad un tempo ad abitazione ed ad esercizio commerciale, il criterio dell'utilità sociale, cui è informato l'art. 844 cit., impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali (artt. 14, 31, 47 Cost.) le esigenze personali di vita connesse all'abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di attività commerciali (Cass. Sez. 2, 15/03/1993, n. 3090).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni di fumo o di calore e rapporti tra i proprietari di fondi vicini - Valutazione di sopportabilità - Disciplina applicabile art. 844 c.c..
In tema, poi, di immissioni di fumo o di calore, le disposizioni dettate, con riguardo, nella specie, all'installazione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia o della tutela dall'inquinamento ambientale (disposizioni che attengono a rapporti di natura pubblicistica tra la P.A., preposta alla tutela dell'interesse collettivo della salvaguardia della salute in generale, ed i privati, prescindendo da qualunque collegamento con la proprietà fondiaria) non regolano direttamente i rapporti tra i proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (arg. da Cass. Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281; Cass. Sez. 2, 29/04/2002, n. 6223; Cass. Sez. 6-2, 01/02/2011, n. 2319; Cass. Sez. 2, 17/01/2011, n. 939).
RUMORE - INQUINAMENTO ARIA - Normativa tecnica prescritta per limitare l'inquinamento ed i consumi energetici - Giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c. - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Spetta al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei.
Il giudice civile non è necessariamente vincolato dalla normativa tecnica prescritta per limitare l'inquinamento ed i consumi energetici, e, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell'ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo motivatamente al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., sulla scorta di un prudente apprezzamento di fatto che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica, e che rimane, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità.
Spetta, quindi, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame l'intensità o la nocività delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Corte di cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.08.2017 n. 20555 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Immissioni sonore provenienti dal locale "cabina idrica" condominiale - Immissioni di rumore superiore ai limiti di decibel di tolleranza - Immissione di rumori oltre la normale tollerabilità - Domanda di cessazione delle immissioni - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Poteri del giudice - Principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato - Adozione di misure inibitorie - attuazione di accorgimenti che evitino il ripetersi della situazione pregiudizievole.
La domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità (nella specie, volta ad ottenere la condanna di un condomino a cessare da ogni comportamento da cui possa derivare immissione di rumori ed a rimuovere l'impianto idrico elettrico causa delle stesse) non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l'attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole.
Non viola, pertanto, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite costituito dal divieto di immutazione degli effetti giuridici che la parte intende conseguire, il giudice che, decidendo su una domanda di cessazione delle immissioni, ordini tanto la rimozione del manufatto, da cui le immissioni provengono, quanto l'adozione di misure inibitorie implicanti l'attuazione di accorgimenti che evitino il ripetersi della situazione pregiudizievole (nella specie, l'uso di uno spazio condominiale quale sede di impianti idrici a pompa, per la contiguità di tale spazio con un appartamento di proprietà esclusiva) (cfr. Cass. Sez. 6 - 2, 17/01/2011, n. 887; Cass. Sez. 2, 05/08/1977, n. 3547).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. - Consulenza tecnica d'ufficio con funzione "percipiente" - Limite di tollerabilità delle immissioni rumorose - Accorgimenti idonei - Poteri del giudice di merito.
In giudizio relativo ad immissioni, i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone (cfr. Cass. Sez. 2, 20/01/2017, n. 1606; Cass. Sez. 2, 04/03/1981, n. 1245).
Pertanto, in tema di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all'intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, 05/08/2011, n. 17051; Cass. Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.08.2017 n. 20553 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati - Inserimento automaticamente negli strumenti urbanistici comunali - Sostituzione di prescrizioni contrastanti - Ricolmare eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici - D.M. 02.04.1968, n. 1444.
Non è consentita l'adozione, da parte degli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni, in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro operatività tra privati.
Con l'ulteriore specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa richiamata, proprio perché inderogabili, sono inserite automaticamente negli strumenti urbanistici comunali sia in sostituzione di prescrizioni contrastanti e sia pure a colmare eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici.
Il DM 1444/1968 nei rapporti fra i privati - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Giudice di merito - Disapplicazione delle disposizioni illegittime - Applicazione diretta per inserzione automatica in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.
La normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con tale disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 30.08.2017 n. 20548 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA Non è consentita l'adozione, da parte degli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni, in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro operatività tra i privati. Con l'ulteriore specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa richiamata, proprio perché inderogabili, sono inserite automaticamente negli strumenti urbanistici comunali sia in sostituzione di prescrizioni contrastanti e sia pure a colmare eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici.
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La normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con tale disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata»
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Ragioni della decisione
1.= Mi.Gr. lamenta:
   a) Con il primo motivo di ricorso, la violazione ed errata applicazione del DM 1444 del 1968, artt. 1, 2, 9. Secondo la ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere che, nel caso in esame, non fosse applicabile l'art. 9 del DM 1444 del 1968 (sulla considerazione che, nonostante il Comune di S. Felice Circeo fosse dotato di Piano Regolatore Generale e di Regolamenti di fabbricazione, questi strumenti avevano rinviato per la regolamentazione delle distanze tra edifici ai Piani particolareggiati), non avendo considerato che al contrario posto che la normativa di cui all'art. 9 citato va osservata da tutti i Comuni tanto da essere ritenuta automaticamente inserita nel PRG al posto di una eventuale norma difforme.
   b).= Con il secondo motivo, l'insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Secondo la ricorrente la Corte distrettuale non aveva chiarito l'iter logico giuridico seguito dalla Corte distrettuale nell'assimilare l'ipotesi di mancanza di strumenti urbanistici all'ipotesi di sussistenza di strumenti urbanistici che, tuttavia, non prevedono i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati
1.1.= Entrambi i motivi, che per la loro innegabile connessione vanno esaminati congiuntamente, sono fondati.
Va qui osservato che
non è consentita l'adozione, da parte degli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni, in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro operatività tra i privati. Con l'ulteriore specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa richiamata, proprio perché inderogabili, sono inserite automaticamente negli strumenti urbanistici comunali sia in sostituzione di prescrizioni contrastanti e sia pure a colmare eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici.
E, comunque, appare opportuno chiarire che la Corte distrettuale ha errato nell'assimilare l'ipotesi in cui sussistono gli strumenti urbanistici ma gli stessi non prevedono alcun regolamento in ordine alle distanze tra fabbricati e l'ipotesi in cui mancano gli strumenti urbanistici, considerando che in entrambe le ipotesi non sarebbero operative le prescrizioni di cui alla normativa richiamata, perché, a ben vedere, l'ipotesi in cui esistono gli strumenti urbanistici (Piano regolatore generale e piano di fabbricazione) che non contengono prescrizioni in ordine alla regolamentazione dei limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, sarebbe come se lo strumento urbanistico e rinviasse o recepisse le prescrizioni vigenti nel tempo anteriore al 1968 e, in particolare, per quanto riguarda la distanza tra fabbricati, le prescrizioni di cui all'art. 873 cod. civ..
Sicché, essendo la distanza prevista dall'art. 873 cod. civ. contraria a quelle prescritte dalla normativa di cui al DM 1444 del 1968 vanno, per ciò stesso, sostituite con queste ultime.
Come già ha detto questa Corte in altra occasione (sentenze Cass. n. 15458 del 2016 e nn. 7563/2006 e 19009/2004):
la normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con tale disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 30.08.2017 n. 20548).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Risarcimento del danno da immissioni rumorose provenienti da una falegnameria. Immissioni rumorose, deve essere risarcito il danno al normale svolgimento della vita personale e familiare.
Quello delle immissioni, siano esse derivanti da rumore, fumo, cattivi odori o scuotimenti, è un problema all'ordine del giorno.
La materia è disciplinata dal codice civile e, in particolare, dall'art. 844 che dispone come <<il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi>>.
Ciò posto, le immissioni moleste e, pertanto, vietate, sono quelle che superano la normale tollerabilità, viceversa, quando queste non superano livelli di comune accettabilità, non possono essere impedite.
Allorquando ci troviamo al cospetto di attività produttive, se risulta senz'altro illecito il superamento dei limiti stabiliti dalla normativa specifica, siccome posta a salvaguardia di interessi collettivi, quando si verte in materia di rapporti di vicinato, come nel caso di immissioni in condominio, non esiste un parametro prestabilito al fine di valutare il superamento della normale tollerabilità, pertanto, in simili fattispecie è necessario valutare in concreto, e caso per caso, l'accettabilità di dette immissione alla stregua del precetto di cui all'art. 844 Cc (Cass. 20927/2015).
In altri termini, l'eventuale superamento della normale tollerabilità delle immissioni dovrà essere valutato dal giudice –esaminato il caso concreto– secondo il suo prudente apprezzamento con una decisione che, se adeguatamente motivata, risulterà insindacabile in sede di legittimità (Cfr. da ultimo: Cass. 22105/2015).
Accertata la presenza di immissioni che superano la normale tollerabilità, queste possono provocare dei danni a carico di chi risulta alle stesse esposto, pregiudizio che può permanere fino a quando le immissioni non vengano eliminate.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza 28.08.2017 n. 20445, è ritornata sul tema della risarcibilità dei danni da immissione, cassando la sentenza della Corte d'Appello di Roma che aveva negato il diritto di una condomina al risarcimento del danno da immissioni rumorose provenienti da una falegnameria, ritenendo che lo stesso fosse risarcibile <<solo ove ne sia derivata comprovata lesione alla salute, non essendo risarcibile la minore godibilità della vita>>, a ciò aggiungendo, da un punto di vista probatorio, come <<l'attrice avrebbe dovuto produrre idonea documentazione sanitaria e chiedere l'espletamento di una c.t.u. medico-legale>>.
La Corte di Cassazione, nel cassare la sentenza impugnata, aderisce all'orientamento, <<oramai sufficientemente consolidato>>, per cui il danno non patrimoniale che, tuttavia, esula da quello alla salute, risulta sempre sussistente e, pertanto, non abbisogna di una specifica prova.
In altri termini, una volta accertato che le immissioni superano la soglia della normale tollerabilità di cui all'art. 844 Cc, la liquidazione del danno da immissioni, risulta sussistente in re ipsa (ex multis: Cass. 23283/2014; Cass. 7048/2012; Cass. 6612/2011; Cass. 5844/2007).
La stessa, nell'ordinanza in commento, specifica come <<il danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile al normale svolgimento della vita personale e familiare all'interno di una abitazione e comunque del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (ndr: Articolo 8 - Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.), norma alla quale il giudice interno è tenuto a conformarsi (vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni o sulla base delle nozioni di comune esperienza
>>.
Pertanto, il ricorso deve essere accolto con la liquidazione del danno in favore della ricorrente, quantificato in euro 10.000,00 oltre interessi legali (commento tratto da www.condominioweb.com).
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MASSIMA
Ritenuto che:
- sia manifestamente fondato l'unico motivo di ricorso, con cui la signora Lo. ha lamentato violazione di legge in relazione agli artt. 2 e 32 Cost. e 844, 2043, 2067 cod. civ., deducendo che la corte d'appello si sarebbe posta in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la prova della lesione di un diritto costituzionalmente garantito è anche prova del danno, da ritenersi in re ipsa, o almeno tale prova -in mancanza di accertamento medicolegale- possa essere agevolata mediante presunzioni, che -secondo la signora Lo.- avrebbero nel caso di specie potuto fondarsi sulla situazione lavorativa documentata della stessa, impegnata in lavoro con turni notturni;
- al di là di remoti precedenti citati dalla corte d'appello e rimontanti a epoca in cui né la materia del danno alla salute né quella dei rimedi in tema di immissioni avevano conosciuto l'attuale sistemazione sorretta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, vada data continuità al principio da reputarsi oramai sufficientemente consolidato nella giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez. U. 01/02/2017, n. 2611, in relazione alla trattazione anche di una questione di giurisdizione; ma v. anche ad es. Cass. 19/12/2014, n. 26899 e 16/10/2015, n. 20927), secondo il quale
il danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all'interno di un'abitazione e comunque del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi (vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927);
- ne consegue che
la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni o sulla base delle nozioni di comune esperienza;

EDILIZIA PRIVATAL’opera abusiva è una nuova costruzione (artt. 3 e 10 D.P.R. 380/2001) edificata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, come tale bisognevole del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica.
Tali circostanze, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa anche di questa sezione, rendono l’ordine di demolizione rigidamente vincolato ragion per cui, persino in rapporto alla tutela dell’affidamento e all’interesse pubblico alla demolizione, esso non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo, peraltro, configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione della normativa di settore (artt. 27 e 31 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.

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La doverosità del provvedimento repressivo rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della disposizione dirigenziale n. 367/a del 11.08.2015 del Comune di Napoli recante ordine di demolizione di opere edificate abusivamente in via ... n. 55;
...
2.1. In primo luogo, occorre considerare che l’opera è una nuova costruzione (artt. 3 e 10 D.P.R. 380/2001) edificata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, come tale bisognevole del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica.
2.2. Tali circostanze, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa anche di questa sezione, rendono l’ordine di demolizione rigidamente vincolato ragion per cui, persino in rapporto alla tutela dell’affidamento e all’interesse pubblico alla demolizione, esso non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo, peraltro, configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (ex multis, v. TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016 e sez. VI n. 2441/2011; Consiglio di Stato sez. IV 16.04.2012 n. 2185).
2.3. Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione della normativa di settore (artt. 27 e 31 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.
...
4. Passando, infine, all’omesso rispetto delle garanzie procedimentali con particolare riferimento alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 L. 241/1990), come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez. IV, n. 3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147).
5. Le considerazioni che precedono dimostrano la palese infondatezza del ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2017 n. 4150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune è sottoposto al vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42/2004; ciò comporta che l’art. 36 D.P.R. 380/2001 –laddove vi siano stati creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati- non opera in relazione a territori ove sia imposto il vincolo paesaggistico, stante il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto, per questi casi, dall’art. art. 167, comma 4, d.lgs. 42/2004.
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Secondo la chiara previsione legislativa, l’unica condizione in grado di evitare il formarsi del diniego per silentium è l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di sessanta giorni, a nulla rilevando eventuali iniziative procedimentali che non si concludano con un atto conclusivo di natura provvedimentale.
Nella fattispecie in esame, il silenzio-rifiuto si è comunque formato dopo il decorso di 60 giorni dal 14.01.2016 (data di presentazione dell’istanza ex art. 36 cit.), dunque in data 14.03.2016, non essendo ulteriormente seguito alcun provvedimento espresso.
A rigore, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto impugnare il silenzio-diniego formatosi sull’istanza in sanatoria del 14.01.2016; non avendo così proceduto, deve concludersi nel senso che l’infruttuoso decorso di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità abbia comportato, nella specie, la formazione di un provvedimento di rigetto non impugnato e quindi ormai incontestabile perché definitivo.
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2.- Con il primo motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente deduce i seguenti profili di illegittimità: violazione e falsa applicazione del D.P.R. 380/2001; violazione e falsa applicazione dell’art. 2, l. 241/1990; violazione della L.R. Campania n. 19 del 28.11.2001; eccesso di potere; violazione del giusto procedimento; difetto di motivazione; carenza di istruttoria; illogicità manifesta.
Segnala, in particolare, la ricorrente, che l’intervento realizzato sul fondo di Pompei, per il quale ha presentato istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r. 380/2001, contemplante la parziale demolizione dei preesistenti due manufatti abusivi con mantenimento di uno solo, destinato a box garage pertinenziale a servizio della vicina abitazione, sarebbe pienamente ammissibile alla luce della disciplina urbanistico-edilizia vigente, il che legittimerebbe il rilascio di titolo edilizio in sanatoria.
In ogni caso, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità avrebbe comunque dovuto impedire all’Amministrazione comunale di dare impulso alle procedure sanzionatorie, senza essersi previamente pronunciata sulla citata istanza. Non sussisterebbero neppure i presupposti del silenzio rigetto, in quanto l’ordinanza di demolizione n. 29 dell’08.03.2016 sarebbe stata adottata prima dello spirare del decorso del termine di sessanta giorni previsto dal citato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Peraltro, la ricorrente fa leva sul fatto che il procedimento di sanatoria, attivato in base all’appena menzionata disposizione, non avrebbe più potuto concludersi con il silenzio rifiuto posto che, una volta intervenuta la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda (prot. n. 5939 del 10.02.2016), l’amministrazione comunale si sarebbe in sostanza auto-vincolata ad adottare un provvedimento espresso di diniego, indispensabile prima di notificare l’ordinanza di demolizione.
Ciò è a suo avviso (cfr. memoria depositata il 12.04.2017) tanto più sostenibile ove si consideri che, ricevuta la richiesta di accertamento di conformità, l’amministrazione aveva aperto il relativo procedimento, nominato il responsabile, istruito la pratica ed adottato il cd. preavviso di diniego, ai sensi dell’art. 10-bis L. n. 241/1990, in questo modo evitando il formarsi del silenzio-rigetto, che si produce laddove l’amministrazione rimanga del tutto inerente (a suo favore cita precedente Tar Campania, Salerno, sez. II, 04.01.2014, n. 1833)
2.1.- Il motivo, per quanto suggestivo, è infondato.
2.1.1.- Va premesso che i manufatti contestati, insistenti sul foglio 7, particelle 1082 e 1439 del Comune di Pompei, ricadenti in zona classificata urbanisticamente in B2, ristrutturazione centro, in base alle verifiche effettuate d’ufficio dall’Amm.ne resistente, risultano privi di titolo edilizio autorizzatorio e non sono stati oggetto di apposite istanze di condono. Detti manufatti consistono in due locali adibiti ad uso deposito e garage, terranei, di circa 50 mq, quindi di notevoli dimensioni. Tale circostanza rende inapplicabile al caso di specie l’invocata L.R. Campania 19/2001, che, all’art. 6, commi 1 e 2, ritiene sufficiente la semplice D.I.A. solo per i parcheggi da realizzare nel sottosuolo.
2.1.2.- Va altresì ricordato che il Comune di Pompei è sottoposto al vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42/2004; ciò comporta che l’art. 36 D.P.R. 380/2001 –laddove vi siano stati creazioni di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati- non opera in relazione a territori ove sia imposto il vincolo paesaggistico, stante il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto, per questi casi, dall’art. art. 167, comma 4, d.lgs. 42/2004 (cfr. TAR Campania-Napoli, n. 744/2015; TAR Lazio-Roma, n. 6494/2016).
2.1.3.- Non sostenibile poi è l’assunto della ricorrente sull’impossibilità giuridica del formarsi del silenzio-rifiuto; la tesi della ricorrente si scontra con la chiara previsione legislativa secondo cui l’unica condizione in grado di evitare il formarsi del diniego per silentium è l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di sessanta giorni, a nulla rilevando eventuali iniziative procedimentali che non si concludano con un atto conclusivo di natura provvedimentale.
Nella fattispecie in esame, il silenzio-rifiuto si è comunque formato dopo il decorso di 60 giorni dal 14.01.2016 (data di presentazione dell’istanza ex art. 36 cit.), dunque in data 14.03.2016, non essendo ulteriormente seguito alcun provvedimento espresso.
A rigore, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto impugnare il silenzio-diniego formatosi sull’istanza in sanatoria del 14.01.2016; non avendo così proceduto, deve concludersi nel senso che l’infruttuoso decorso di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità abbia comportato, nella specie, la formazione di un provvedimento di rigetto non impugnato e quindi ormai incontestabile perché definitivo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.01.2010, n. 100; Sez. VI, 27.01.2014, n. 395).
Nel caso specifico, vi è peraltro da rilevare che l’amministrazione, pur essendo ormai decorso il termine di sessanta giorni e, quindi, formatosi comunque il silenzio con effetto di rifiuto, ha comunque emanato il provvedimento espresso di rigetto della domanda di accertamento di conformità con la nota prot. n. 38766/U del 12.09.2016, impugnata dal ricorrente con motivi aggiunti.
E’ chiaro che tale provvedimento ha effetto meramente confermativo di un diniego già formatosi per silentium.
2.1.4.- Inoltre, l’avvio del procedimento di rigetto sull’istanza di accertamento ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. 241/1990 e dei motivi ostativi è stato segnalato con la comunicazione protocollo n. 5939 del 10.02.2016, cui ha fatto seguito l’ordinanza di demolizione n. 29 dell’08.03.2016.
In primo luogo, si rileva che la ricorrente non ha dato alcun riscontro alla richiesta di osservazioni contenuta nella detta comunicazione.
In secondo luogo, l’ordinanza di demolizione impugnata può ben essere intesa quale atto sanzionatorio con implicito valore di diniego sull’istanza di accertamento, in quanto la medesima risulta comunque incompatibile con la volontà del Comune di Pompei di consentire la sanatoria degli abusi realizzati in una zona sottoposta a vincoli paesaggistici. L’esercizio da parte del Comune di Pompei di un potere implicito, connesso all’emanazione dell’ordinanza in questione, non appare contrastare con i principi di legalità e tipicità posto che l’ordinanza deve comunque riportare in motivazione tutti gli elementi dai quali è possibile risalire alle ragioni della non sanabilità delle opere abusive compiute (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe esclusivamente sull'interessato e non sull'Amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
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L’intervento realizzato, al contrario di quanto ipotizza la ricorrente, non può essere derubricato a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio, consistendo lo stesso, in modo evidente, in una nuova costruzione.
Per questo, risulta appropriata la disciplina di settore alla quale l’amministrazione ha fatto ricorso (artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001), la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità.
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3.- Con il secondo motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente eccepisce il difetto d’istruttoria, per non aver l’amministrazione comunale adeguatamente valutato la natura, le dimensioni e la destinazione funzionale dei manufatti realizzati, i quali rientrerebbero nel novero delle opere pertinenziali, come tali non sanzionabili con la demolizione.
Più specificamente, lamenta che, per l’intervento edilizio realizzato, non sarebbe stato necessario il permesso di costruire bensì la sola D.I.A., trattandosi di un intervento di risanamento conservativo ovvero di ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria. Segnatamente, si sarebbe trattato di un intervento di parziale demolizione e ricostruzione del preesistente manufatto senza determinare alcun aumento dell’originario volume.
3.1.- Il motivo è infondato.
3.1.1.- E’ utile rammentare che le opere abusive realizzate consistono in:
   a) un manufatto terraneo delle dimensioni di pianta di mt. 5,00x8,00x3,00 circa, composto da struttura portante metallica e con copertura e chiusure in laminati zincati, in uso a deposito materiali vari, mobilio e garage;
   b) un manufatto terraneo delle dimensioni in pianta di mt. 4,00x4,50x2,40 circa, composto da struttura portante in ferro, con copertura e chiusura in laminati zincati, in uso a garage.
3.1.2.- Dai rilievi fotografici, satellitari e dagli stralci aerofotogrammetrici allegati alla comunicazione del Comando di Polizia municipale di Pompei, n. 196/2015/ED del 28.12.2015, acquisti nella fase istruttoria compiuta dal comune resistente, si evidenziano due manufatti terranei di notevoli dimensioni, comportanti significativi sviluppi di superficie e di incrementi volumetrici sull’area preesistente.
3.2.- Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio dal quale possa trarsi la conclusione dell’affermata legittima preesistenza dei manufatti in questione (ossia del fatto che gli stessi risalgano al periodo nel quale, per realizzare siffatte opere, non era necessario munirsi preventivamente del titolo edilizio e di quello paesaggistico).
Sul punto, la giurisprudenza ha affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe esclusivamente sull'interessato e non sull'Amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pompei, dunque, dopo avere rilevato l’esistenza dei due manufatti terranei di consistente estensione, ne ha legittimante ingiunto la demolizione ai sensi degli artt. 27, comma 2, e 31 del d.p.r. 380/2001.
Le opere contestate, infatti, sono l’esito di interventi edilizi per i quali sarebbe stato necessario acquisire il permesso di costruire, in linea con gli artt. 3 e 10 del menzionato d.p.r. 380/2001, previa autorizzazione paesaggistica, stante l’idoneità, per caratteristiche e dimensioni, a produrre una significativa trasformazione dello stato dei luoghi in zona sottoposta a vincoli.
3.4.- Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato, al contrario di quanto ipotizza la ricorrente, non può essere derubricato a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio, consistendo lo stesso, in modo evidente, in una nuova costruzione. Per questo, risulta appropriata la disciplina di settore alla quale l’amministrazione ha fatto ricorso (artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001), la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità (sulla natura dell’intervento effettuato, cfr.: TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 21.04.2010, n. 2076; 07.04.2010 n. 1775; Sezione III, 11.03.2009, n. 1376).
3.5.1.- È opportuno evidenziare altresì che, il comune di Pompei, con la comunicazione prot. n. 5939 del 10.02.2016, ha esposto, con sufficiente chiarezza, le ragioni che conducono al mancato accoglimento della domanda, ossia che: il manufatto di 84 mq. “non è conforme urbanisticamente in quanto non rispetta le distanze di m. 5 dai confini e di m. 10 dai fabbricati, come previsto dall’art. 16 delle Norme di attuazione del vigente P.R.G. (zona residenziale di completamento B2)”; le opere abusive, inoltre, “non sono conformi alla l. n. 1684 del 25/11/1962, art. 8, co. 3, per le costruzioni in zona sismica”.
Per contro, neanche in questa sede giurisdizionale, la ricorrente ha dedotto elementi idonei a suffragare la pretesa conformità urbanistica ex post, tanto da non fornire alcuna dettagliata descrizione della consistenza dell’opera abusiva realizzata da cui potrebbe evincersi la prospettata conformità e la natura pertinenziale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che l’abuso sia risalente nel tempo non esclude, in materia urbanistica ed edilizia, l’esercizio dei poteri di controllo e sanzionatori del comune, poteri non soggetti a prescrizione o decadenza, in considerazione della fondamentale immanenza dell’interesse pubblico alla corretta gestione del territorio. Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che siffatta distanza nell'adozione delle misure sanzionatorie possa significare forme di sanatoria o il sorgere di affidamenti per situazioni ormai di fatto consolidate.
Del resto, l'illecito edilizio ha carattere permanente, tale da conservare nel tempo la sua natura. Ne consegue, da un lato, che l'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico al rispetto della normativa urbanistico-edilizia, strumentale al corretto governo del territorio, leso in maniera duratura dall’abuso. Dall’altro, che non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, benché sia trascorso un lungo lasso di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e il momento dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, posto che l’interesse pubblico al perseguimento dell’illecito è in re ipsa. Infatti, l'ordinamento tutela l'affidamento solamente se esso è incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una attività volontaria del responsabile contra legem in quanto tale non tollerabile per l’ordinamento.
In altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione, restando inerte, lo abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
A quest'ultimo riguardo, quantunque il principio della tutela dell'affidamento trovi ormai piena applicazione con riguardo ai rapporti tra cittadino ed amministrazione, deve tuttavia ritenersi che, nel caso della mancata repressione di un abuso edilizio, la situazione sia affatto differente: il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l'apparente legittimità dell'azione amministrativa favorevole, a tutela di un'aspettativa conforme alle statuizioni provvedimentali pregresse, ma opera in antagonismo con l'azione amministrativa sanzionatoria. Per le funzioni di vigilanza e controllo, in mancanza di una espressa previsione normativa in deroga, vale, invero, il principio dell'inesauribilità del potere, e pertanto il comportamento illecito dei privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e l'entità dell'infrazione: va dunque posto l'accento sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, in virtù di una legittimazione fondata sul tempo.
Si è altresì precisato che ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare di fatto una sanatoria extra ordinem che potrebbe operare anche qualora l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto. Né potrebbe invocarsi la c.d. sanatoria giurisprudenziale, stante il contrasto di questo istituto con il principio di legalità.

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4.- Con il terzo motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente lamenta che l’amministrazione avrebbe dovuto motivare la sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto al ripristino dello stato dei luoghi, stante il tempo trascorso dal momento della realizzazione delle opere contestate.
Deduce dunque che il comportamento del Comune avrebbe ingenerato una situazione di legittimo affidamento il quale avrebbe imposto un più approfondito onere motivazionale.
4.1.- Il motivo è infondato.
4.1.1.- Secondo orientamento consolidato in giurisprudenza, condiviso dal Collegio, la circostanza che l’abuso sia risalente nel tempo non esclude, in materia urbanistica ed edilizia, l’esercizio dei poteri di controllo e sanzionatori del comune, poteri non soggetti a prescrizione o decadenza, in considerazione della fondamentale immanenza dell’interesse pubblico alla corretta gestione del territorio. Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che siffatta distanza nell'adozione delle misure sanzionatorie possa significare forme di sanatoria o il sorgere di affidamenti per situazioni ormai di fatto consolidate (cfr. per tutte Cons. Stato sentenze nn. 1070/2017; 1774/2016; 4880/2015; 4892/2014; 5943/2013).
4.1.2.- Del resto, l'illecito edilizio ha carattere permanente, tale da conservare nel tempo la sua natura. Ne consegue, da un lato, che l'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico al rispetto della normativa urbanistico-edilizia, strumentale al corretto governo del territorio, leso in maniera duratura dall’abuso. Dall’altro, che non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, benché sia trascorso un lungo lasso di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e il momento dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, posto che l’interesse pubblico al perseguimento dell’illecito è in re ipsa. Infatti, l'ordinamento tutela l'affidamento solamente se esso è incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una attività volontaria del responsabile contra legem in quanto tale non tollerabile per l’ordinamento.
In altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione, restando inerte, lo abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
A quest'ultimo riguardo, il Consiglio di Stato, Sez. IV, con sentenza 04.05.2012, n. 2592, ha affermato che, quantunque il principio della tutela dell'affidamento trovi ormai piena applicazione con riguardo ai rapporti tra cittadino ed amministrazione, deve tuttavia ritenersi che, nel caso della mancata repressione di un abuso edilizio, la situazione sia affatto differente: il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l'apparente legittimità dell'azione amministrativa favorevole, a tutela di un'aspettativa conforme alle statuizioni provvedimentali pregresse, ma opera in antagonismo con l'azione amministrativa sanzionatoria. Per le funzioni di vigilanza e controllo, in mancanza di una espressa previsione normativa in deroga, vale, invero, il principio dell'inesauribilità del potere, e pertanto il comportamento illecito dei privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e l'entità dell'infrazione: va dunque posto l'accento sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, in virtù di una legittimazione fondata sul tempo (cfr. da ultimo, anche Cons. Stato, sez. IV, n. 3182/2013, n. 4403/2011, n. 2497/2011, n. 79/2011, n. 3955/2010, n. 5509/2009 e n. 2529/2004, sez. VI, n. 6072/2012 e n. 2781/2011).
4.1.3.- Si è altresì precisato che ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare di fatto una sanatoria extra ordinem che potrebbe operare anche qualora l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (Cons. di Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13). Né potrebbe invocarsi la c.d. sanatoria giurisprudenziale, stante il contrasto di questo istituto con il principio di legalità (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza consolidata, in materia di provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, l’Amministrazione non è soggetta a particolari oneri motivazionali, posto che non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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5.- Con il quarto motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente sostiene, sotto diverso profilo, l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto, in violazione delle regole del giusto procedimento di cui alla legge n. 241/1990, non sarebbe stato consentito alcun contraddittorio né svolta adeguata istruttoria; l’ordinanza di demolizione sarebbe inoltre carente sotto l’aspetto motivazionale.
5.1- Il motivo è infondato.
5.1.1- Come già poc’anzi rilevato, il Comune, prima di determinarsi, ha puntualmente notificato la comunicazione di avvio del procedimento di rigetto, ai sensi degli artt. 7 e 8 L. n. 241/1990 nonché, con nota prot. n. 5939 del 10.02.2016, comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Per contro, parte ricorrente, pur essendo stata messa nelle condizioni di replicare per evidenziare le proprie ragioni, non ha dato riscontro a tale comunicazione con puntuali e circostanziate osservazioni.
5.1.2.- Inoltre, dal fascicolo amministrativo depositato dal comune in allegato alla comparsa di costituzione agli atti (16.07.2016), si evince che i provvedimenti adottati dall’Amministrazione sono sorretti da adeguata istruttoria, con contestuale rappresentazione, anche fotografica, dello stato dei luoghi.
L’ordinanza impugnata può quindi ritenersi adeguatamente motivata, non solo per la puntuale individuazione delle norme rilevanti nella vicenda in concreto, ma anche per il richiamo per relationem alla presupposta comunicazione prot. 5939 del 10.02.2016, la quale appare esaustiva nella descrizione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità.
5.1.3.- In ogni caso, giova ricordare che, secondo giurisprudenza consolidata, in materia di provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, l’Amministrazione non è soggetta a particolari oneri motivazionali, posto che non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240). L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un abuso edilizio l’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di quiescenza, con la conseguenza che, in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria, l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione.
In altri termini, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità determina solo un arresto temporaneo dell’efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria, con la sola specificazione che, in questa ipotesi, il termine per l’esecuzione decorre dalla conoscenza del diniego di sanatoria.
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6.2.- Ciò premesso, con il primo motivo, la ricorrente censura la violazione e la falsa applicazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001 e dell’art. 2 L. n. 241/1990, l’eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, carenza d’istruttoria, illogicità manifesta e derivata.
Obietta, in particolare, che l’ordinanza di demolizione e la successiva ingiunzione prot. n. 33605/U del 28.07.2016 del Dirigente del V Settore Tecnico del Comune di Pompei, notificata il 29.07.2016, di pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 31, co. 4-bis D.P.R. 380/2001, sarebbero illegittime in quanto adottate in pendenza della richiesta di sanatoria, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001. Quest’ultima avrebbe dovuto rendere inefficace, quantomeno temporaneamente, il provvedimento sanzionatorio della demolizione, con la conseguenza che l’amministrazione non avrebbe potuto applicare la sanzione pecuniaria se non dopo l’inutile decorso del termine di novanta giorni dalla notifica di un nuovo provvedimento di demolizione, oppure, quantomeno, dopo il decorso di novanta giorni decorrenti dalla comunicazione di diniego della sanatoria, ai sensi dell’art. 36 citato.
Contesta altresì la sproporzione della sanzione pecuniaria, comminata nell’importo massimo fissato dalla normativa in questione (€ 20.000,00).
In subordine, solleva questione di illegittimità costituzionale della norma di cui al detto art. 31, comma 4-bis, d.p.r. 380/2001, introdotto dal d.l. 133/2014 convertito con modificazioni dalla L. n. 164/2014, nel punto in cui prevede il cumulo di misure sanzionatorie (acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio dell’Ente e sanzione pecuniaria) per un’unica sostanziale condotta, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost..
6.2. Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, è infondato.
6.2.1. Relativamente all’efficacia dell’ordinanza di demolizione in pendenza della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, la ricorrente richiama i due orientamenti che si sono formati al riguardo in giurisprudenza e sembra prediligere l’indirizzo, seguito anche da questa Sezione, secondo cui “in presenza di un abuso edilizio l’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di demolizione, ma la pone in uno stato di quiescenza, con la conseguenza che, in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria, l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia, decorrendo il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione dalla comunicazione del provvedimento di rigetto della domanda di conservazione” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203; TAR Campania-Napoli, Sez. III, 06.04.2016, n. 1696).
In altri termini, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità determina solo un arresto temporaneo dell’efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria, con la sola specificazione che, in questa ipotesi, il termine per l’esecuzione decorre dalla conoscenza del diniego di sanatoria (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 09.03.2016, n. 1338).
In esito a quest’interpretazione, dopo aver ribadito che, nella specie, non sussisterebbero i presupposti del silenzio diniego, la ricorrente afferma che l’istanza di accertamento di conformità avrebbe reso inefficace l’ordinanza di demolizione, fino alla conclusione del procedimento, definito soltanto con l’adozione del provvedimento espresso di diniego, prot. 38766/U del 12.09.2016. Ne conseguirebbe che, solo a partire da quest’ultima data, decorrerebbe il termine di 90 giorni per ottemperare all’ordinanza di demolizione dell’08.03.2016; pertanto, l’Amministrazione avrebbe potuto irrogare la sanzione pecuniaria solo dall’11.11.2016, dopo lo spirare del termine di legge.
6.2.2.- Il ragionamento della ricorrente non è condivisibile.
In primo luogo, per le ragioni sopra ampiamente illustrate, per la fattispecie in esame, non è possibile la sanatoria postuma, stante il vincolo paesaggistico cui è assoggettato il Comune di Pompei e l’espresso divieto di cui agli artt. 146 e 167 del d.lgs. 42/2004.
In ogni caso, deve osservarsi che l’istanza di accertamento di conformità è stata presentata dalla ricorrente il 14.01.2016, mentre la prima ordinanza di demolizione reca la data dell’08.03.2016. A voler considerare sospesa l’efficacia esecutiva di tale ordinanza sino al termine di sessanta giorni decorrente dalla presentazione dell’istanza in sanatoria (in linea con l’orientamento seguito da questa Sezione), deve concludersi che l’ordinanza stessa abbia riacquistato efficacia alla data di formazione del silenzio-rigetto, ossia il 14.03.2016. Pertanto, nel concordare con quanto sostiene la difesa dell’amministrazione resistente, il termine di novanta giorni per ottemperare all’ingiunzione a demolire è tecnicamente spirato il 12.06.2016, data antecedente l’irrogazione della sanzione pecuniaria, emessa ritualmente il 28 luglio e notificata il successivo 29.
Sul punto, come già sopra chiarito, non ha rilievo alcuno il successivo provvedimento prot. n. 38766/U del 12.09.2016, posto il suo carattere meramente confermativo del diniego già formatosi per silentium (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Infondata è altresì la censura di sproporzione ed illogicità della sanzione pecuniaria comminata ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001.
Si rammenta che la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto “Sblocca Italia” (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all’Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell’abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso.
Nelle ipotesi, com’è quella in esame, di abusi realizzati su immobili insistenti in area sottoposta a vincolo -ai sensi dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n 380/2001- il legislatore ha disposto la sua irrogazione sempre nella misura massima di € 20.000,00, senza alcun margine di discrezionalità per poterla graduare.
Ora, ciò che viene sanzionato nella misura massima di dall’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001 non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato -nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso- bensì unicamente la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dall’amministrazione per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, la quale si pone quale condotta omissiva identica nei casi sia di abusi edilizi macroscopici sia di abusi più modesti.
In altri termini, il disvalore –di per sé rilevante- colpito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino impartito dall’amministrazione per rimediare agli abusi perpetrati in quelle particolari e circoscritte “aree” ed in quei particolari e circoscritti “edifici”, puntualmente indicati dall’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001.
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Il legislatore, con la nuova previsione normativa –che il Collegio ravvisa del tutto ragionevole rispetto all’importanza degli obiettivi da perseguire, legati al ripristino del bene “territorio” violato- ha inteso introdurre una sanzione di carattere personale che si aggiunge a quella reale dell’acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio dell’Ente, al preciso scopo di sollecitare il responsabile degli abusi a rimuoverli sollecitamente.
In questo senso, se da un lato, l’acquisizione gratuita è una sanzione di carattere reale che assume il valore di forte deterrente nei confronti di coloro che intendono commettere un abuso, ben consapevoli delle conseguenze, in termini di perdita del diritto dominicale, alle quali vanno incontro, tra l’altro non legate direttamente all’abuso stesso, bensì alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, dall’altro, la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l’amministrazione comunale dall’impegno economico derivante dall’abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: “I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.”.
In questa prospettiva, non si ravvisa alcun contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. per violazione del divieto di cumulo fra sanzioni amministrative, posto che le stesse, pur avendo a riferimento un’unica condotta, rispondono ad obiettivi diversi e tra loro complementari.
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6.3.- Infondata è altresì la censura di sproporzione ed illogicità della sanzione pecuniaria comminata ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001.
6.3.1.- Si rammenta che la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto “Sblocca Italia” (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all’Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell’abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso.
Nelle ipotesi, com’è quella in esame, di abusi realizzati su immobili insistenti in area sottoposta a vincolo -ai sensi dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n 380/2001- il legislatore ha disposto la sua irrogazione sempre nella misura massima di € 20.000,00, senza alcun margine di discrezionalità per poterla graduare.
Ora, come chiarito da condivisibile giurisprudenza (TAR Puglia Lecce Sez. III, 12.07.2016, n. 1105), ciò che viene sanzionato nella misura massima di dall’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001 non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato -nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso- bensì unicamente la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dall’amministrazione per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, la quale si pone quale condotta omissiva identica nei casi sia di abusi edilizi macroscopici sia di abusi più modesti.
In altri termini, il disvalore –di per sé rilevante- colpito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino impartito dall’amministrazione per rimediare agli abusi perpetrati in quelle particolari e circoscritte “aree” ed in quei particolari e circoscritti “edifici”, puntualmente indicati dall’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 (cfr. sul punto, TAR Campania, Salerno, 16.01.2017, n. 103).
6.3.2.- Il Comune di Pompei, nella specie, non ha fatto altro che applicare il disposto legislativo, senza alcuna valutazione discrezionale; pertanto, anche sotto questo profilo, la sanzione comminata deve ritenersi adottata in piena aderenza al dettato normativo.
6.4.- Quanto sopra, consente anche di superare agevolmente le eccepite questioni di illegittimità costituzionale della norma.
6.4.1.- Ad avviso della ricorrente, la previsione in discussione sarebbe incostituzionale in quanto dispone il cumulo di misure sanzionatorie (acquisizione e sanzione pecuniaria) per un’unica sostanziale condotta, in asserita violazione degli artt. 3 e 97 della Cost.
6.4.2.- Il rilievo, per quanto suggestivo, non appare convincente.
Il legislatore, con la nuova previsione normativa –che il Collegio ravvisa del tutto ragionevole rispetto all’importanza degli obiettivi da perseguire, legati al ripristino del bene “territorio” violato- ha inteso introdurre una sanzione di carattere personale che si aggiunge a quella reale dell’acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio dell’Ente, al preciso scopo di sollecitare il responsabile degli abusi a rimuoverli sollecitamente.
In questo senso, se da un lato, l’acquisizione gratuita è una sanzione di carattere reale che assume il valore di forte deterrente nei confronti di coloro che intendono commettere un abuso, ben consapevoli delle conseguenze, in termini di perdita del diritto dominicale, alle quali vanno incontro, tra l’altro non legate direttamente all’abuso stesso, bensì alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, dall’altro, la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l’amministrazione comunale dall’impegno economico derivante dall’abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: “I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.”.
In questa prospettiva, non si ravvisa alcun contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. per violazione del divieto di cumulo fra sanzioni amministrative, posto che le stesse, pur avendo a riferimento un’unica condotta, rispondono ad obiettivi diversi e tra loro complementari (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa e vincolata, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e di rimessa in pristino, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che quest’ultimo -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990- non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
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L’ordinanza di demolizione va adottata senza necessità di particolare motivazione né con comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, in quanto ciò che rileva è l’adozione della misura sanzionatoria e ripristinatoria a tutela dei valori urbanistici ed edilizi, lesi dall’intervento abusivo.
Pertanto, il carattere abusivo di un'opera edilizia costituisce di per sé presupposto necessario e sufficiente per ricorrente alla prescritta e doverosa sanzione demolitoria, senza che sia richiesta una motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico a suo fondamento, le quali sono per l’appunto in re ipsa, né sull'astratta sanabilità dell'opera, attenendo questo aspetto al momento successivo ed eventuale dell’esame della richiesta di conformità postuma; né poi è richiesto esame approfondito circa il contrasto dell'opera abusiva con gli strumenti urbanistici perché ciò che rileva è l’assenza di un valido titolo edilizio preventivo ad effettuare quell’intervento.
Non può quindi ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che nemmeno il tempo, in ogni caso, potrebbe legittimare.
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1.- Il ricorso è infondato e va respinto.
Con il primo motivo, parte ricorrente deduce: Violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 L. n. 241 del 1990; eccesso di potere per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto, travisamento, omessa ponderazione della situazione contemplata, sviamento, perplessità, manifesta ingiustizia, difetto d’istruttoria, contraddittorietà, violazione dei principi di trasparenza e pubblicità.
1.1.- Il provvedimento impugnato sarebbe stato emesso in violazione del principio del giusto procedimento per non essere stata garantita all’interessato la partecipazione; l’amministrazione ha inoltre omesso di inviare la comunicazione di avvio del procedimento.
Il motivo è poi ripreso e sviluppato con il terzo motivo, col quale il ricorrente contesta la violazione del d.p.r. 380/2001, nonché del RUEC (Regolamento urbanistico edilizio comunale) di San Giuseppe Vesuviano, dell’art. 3 L. n. 241/1990; del d.lgs. 490/1999, del d.lgs. 42/2004, del d.lgs. 431/1985; della legge regionale n. 21 del 2003; l’eccesso di potere per illogicità manifesta, inesistenza dei presupposti, carenza d’istruttoria e di motivazione.
1.2.- I due motivi, per omogeneità di contenuti negli stessi presenti, possono essere affrontati congiuntamente. Gli stessi si palesano infondati.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa e vincolata, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e di rimessa in pristino, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che quest’ultimo -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990- non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
2.- Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 12, 20, 27, 31 e 36 d.p.r. 380/2001; la violazione dell’art. 97 Cost.; dei principi di correttezza amministrativa; l’eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, difetto di motivazione, d’istruttoria, inesistenza ed erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, sviamento, contraddittorietà, confusione dell’attività amministrativa.
2.1.- In assenza di partecipazione dell’interessato, l’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento impugnato sulla base di erronei presupposti di fatto e di diritto.
Non sarebbe mai stato comunicato al ricorrente l’esito delle risultanze istruttorie tecniche relative ai sopralluoghi effettuati dall’ufficio tecnico comunale.
Non gli è stata mai notificata o altrimenti comunicata la precedente ordinanza di sospensione dei lavori e demolizione ad horas n. 180 prot. n. 23878 del 05.09.2008, pur sostenendosi, nel provvedimento impugnato, che alla medesima, il ricorrente non avrebbe ottemperato.
L’amministrazione non avrebbe peraltro considerato che, per le opere realizzate, il ricorrente ha presentato richiesta di permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001, con conseguente inefficacia dell’ordinanza impugnata.
In ogni caso, l’amministrazione non avrebbe correttamente verificato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380/2001, l’entità e la regolarità delle opere e disposto gli atti conseguenti.
2.2.- Anche questo motivo, nelle sue diverse articolazioni, è infondato.
2.2.1.- Come sopra chiarito, nel corso dell’esame della censura circa l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, l’ordinanza di demolizione va adottata senza necessità di particolare motivazione né con comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, in quanto ciò che rileva è l’adozione della misura sanzionatoria e ripristinatoria a tutela dei valori urbanistici ed edilizi, lesi dall’intervento abusivo.
Pertanto, il carattere abusivo di un'opera edilizia costituisce di per sé presupposto necessario e sufficiente per ricorrente alla prescritta e doverosa sanzione demolitoria, senza che sia richiesta una motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico a suo fondamento, le quali sono per l’appunto in re ipsa, né sull'astratta sanabilità dell'opera, attenendo questo aspetto al momento successivo ed eventuale dell’esame della richiesta di conformità postuma; né poi è richiesto esame approfondito circa il contrasto dell'opera abusiva con gli strumenti urbanistici perché ciò che rileva è l’assenza di un valido titolo edilizio preventivo ad effettuare quell’intervento (ex multis: TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.03.2017, n. 1434).
2.2.2.- Non può quindi ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che nemmeno il tempo, in ogni caso, potrebbe legittimare (Tar Campania, Napoli, sez. VI, 03.05.2017, n. 2368; Cons. giust. Amm. Sicilia, 27.02.2017, n. 65) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001, non incide sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione impugnata, che va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione.
L'istanza di sanatoria non è peraltro in grado di determina la definitiva inefficacia della suddetta ordinanza, in quanto si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, senza bisogno che l’amministrazione adotti una nuova ordinanza.
Del resto, va disattesa una soluzione interpretativa che comporti per il soggetto destinatario del provvedimento la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta lo stesso sia adottato, mediante la mera presentazione di una istanza.
D’altronde, come chiarito sempre da questa Sezione, in adesione ad un pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, l'art. 36, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001 (già art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47), nello stabilire che, sulla richiesta di permesso in sanatoria, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta s’intende rifiutata, raffigura a tutti gli effetti un'ipotesi di caratterizzazione legale del silenzio serbato dall'amministrazione. Ne deriva che, una volta decorso inutilmente il suddetto termine, sulla domanda di sanatoria si produce un atto tacito di diniego, che la parte interessata ha l’onere di impugnare in sede giurisdizionale amministrativa nel termine perentorio di sessanta giorni decorrente dalla data di formazione.
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2.2.4.- Non assume altresì rilievo la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
Come chiarito da questa Sezione in precedenti analoghi, la proposizione di siffatta istanza non incide sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione impugnata, che va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione.
L'istanza di sanatoria non è peraltro in grado di determina la definitiva inefficacia della suddetta ordinanza, in quanto si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, senza bisogno che l’amministrazione adotti una nuova ordinanza (TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 11.07.2016, n. 1877), in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono (cfr. questa Sezione, 02.02.2017, n. 1169; Idem, 22.08.2016 n. 4088; Cons. St., sez. VI, 02.02.2015 n. 466).
Del resto, va disattesa una soluzione interpretativa che comporti per il soggetto destinatario del provvedimento la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta lo stesso sia adottato, mediante la mera presentazione di una istanza.
D’altronde, come chiarito sempre da questa Sezione, in adesione ad un pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, l'art. 36, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001 (già art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47), nello stabilire che, sulla richiesta di permesso in sanatoria, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta s’intende rifiutata, raffigura a tutti gli effetti un'ipotesi di caratterizzazione legale del silenzio serbato dall'amministrazione. Ne deriva che, una volta decorso inutilmente il suddetto termine, sulla domanda di sanatoria si produce un atto tacito di diniego, che la parte interessata ha l’onere di impugnare in sede giurisdizionale amministrativa nel termine perentorio di sessanta giorni decorrente dalla data di formazione (cfr. sentenza 13.02.2015, n. 1072) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, la mancata comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
L’attività vincolata esclude la necessità anche di un particolare onere motivazionale da parte dell’amministrazione procedente circa l’interesse pubblico perseguito che, in caso di abusi, è in re ipsa.
Invero, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo in ogni caso non potrebbe giammai legittimare.

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Il carattere vincolato del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull'interesse pubblico alla demolizione, sull'effettivo danno all'ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). In questo caso è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l'avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Nel caso specifico, il Comune ha correttamente adottato il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380 del 2001, posto che l’opera abusiva è stata realizzata in un comune il cui territorio è sottoposto, da anni, ai vincoli paesaggistici di cui al d.lgs. 42 del 2004 (ex r.d. 1497 del 1939).
Laddove i lavori eseguiti in assenza di titolo autorizzatorio ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico e stante l'alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi stessi, la misura ripristinatoria del Comune costituisce atto dovuto, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001. Peraltro, quest’ultima previsione normativa non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A., in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico.
Il richiamo all’art. 31, comma 4, d.p.r. 380 del 2001 ne rappresenta una logica conseguenza posto che, in caso d’inottemperanza, è del tutto evidente che il Comune sia obbligato ad avviare la procedura d’ufficio per la demolizione delle opere abusive riscontrate, con ristoro delle relative spese sostenute a carico del responsabile dell’abuso, tenuto per legge al relativo pagamento.
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3.- Il ricorso introduttivo si palesa infondato.
Infondata è la censura relativa alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, la mancata comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
L’attività vincolata esclude la necessità anche di un particolare onere motivazionale da parte dell’amministrazione procedente circa l’interesse pubblico perseguito che, in caso di abusi, è in re ipsa.
Come chiarito da pacifica giurisprudenza amministrativa, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo in ogni caso non potrebbe giammai legittimare (Tar Campania, Napoli, sez. VI, 03.05.2017, n. 2368; Cons. giust. Amm. Sicilia, 27.02.2017, n. 65).
Non rilevante appare altresì la dedotta circostanza che l’ordinanza di demolizione non sia stata preceduta dall’ingiunzione a sospendere i lavori, atteso che quest’ultima risponde al preciso fine di evitare il protrarsi di attività edilizie in corso, non assistite dal previo titolo abilitativo, onde evitare che il danno all’assetto edilizio ed urbanistico possa aggravarsi con effetti anche irreversibili. Nel caso di specie, l’ordinanza di demolizione incorpora anche quella di sospensione, tenuto anche conto del fatto che i lavori erano già stati effettuati.
Né assume rilievo il fatto che il verbale di sequestro e di apposizione dei sigilli, conseguente al sopralluogo effettuato il 06.04.2009, indichi in modo non preciso la porzione del balcone interessata dall’allargamento della base da 25 cm a 50 cm, perché ciò che rileva –come emerge dalla stessa relazione tecnica asseverata di parte– è il dato di fatto incontrovertibile e non contestato che il balcone è stato ampliato e che sia stata sposta la preesistente ringhiera dall’interno all’esterno del frontino.
E’ evidente quindi che l’ordine di demolizione si rivolge propriamente alla sola parte abusiva del preesistente balcone, come peraltro è evidenziato nella seconda ordinanza di demolizione n. 180 del 29.06.2009, impugnata con i motivi aggiunti, con la quale è chiarito che il ricorrente “ha eseguito lavori di ampliamento di un vecchio balcone al secondo piano con putrelle in ferro e laterizi lungo mt. 20,00 per una lunghezza di ml. 0.50, con relativa posa in opera di correnti di marmo per gocciolatoio, riapposizione della vecchia ringhiera in ferro di protezione nonché parziale posa di pavimenti”.
E’ evidente che i metri 20 si riferiscono alla lunghezza complessiva del balcone preesistente e ciò che si contesta è l’abusivo allargamento di una porzione della base del balcone da cm 25 a cm 50.
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6.- Riguardo al terzo e quarto motivo di ricorso, va ribadito che il carattere vincolato del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull'interesse pubblico alla demolizione, sull'effettivo danno all'ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). In questo caso è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l'avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, 11.07. 2013, n. 3588). Anche i due motivi risultano, pertanto, infondati.
Nel caso specifico, il Comune ha correttamente adottato il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380 del 2001, posto che l’opera abusiva è stata realizzata in un comune il cui territorio è sottoposto, da anni, ai vincoli paesaggistici di cui al d.lgs. 42 del 2004 (ex r.d. 1497 del 1939), in virtù dei decreti ministeriali 17.08.1961 e n. 98 del 26.04.1985, nonché della cd. “Zona Rossa” dei comuni vesuviani, di cui alla Legge regionale n. 21 del 2003.
Laddove i lavori eseguiti in assenza di titolo autorizzatorio ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico e stante l'alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi stessi, la misura ripristinatoria del Comune costituisce atto dovuto, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. n. 380 del 2001. Peraltro, quest’ultima previsione normativa non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A., in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.05.2016, n. 2689; Idem, 04.12.2013, n. 5516).
Il richiamo all’art. 31, comma 4, d.p.r. 380 del 2001 ne rappresenta una logica conseguenza posto che, in caso d’inottemperanza, è del tutto evidente che il Comune sia obbligato ad avviare la procedura d’ufficio per la demolizione delle opere abusive riscontrate, con ristoro delle relative spese sostenute a carico del responsabile dell’abuso, tenuto per legge al relativo pagamento.
Meno chiaro –e su questo punto si conviene con il ricorrente- il richiamo contenuto nel provvedimento impugnato, ai commi 2 e 3 del menzionato art. 31 d.p.r. 380 del 2001, atteso che l’intervento abusivo si circoscrive ad un allargamento di una porzione del preesistente balcone e che la lesione ai vincoli paesaggistici trova rimedio, ai sensi del menzionato art. 27, con la demolizione dell’abuso e la riduzione nello stato originario, a spese del responsabile, ove non vi provveda autonomamente; trattandosi di un ampliamento di un’opera preesistente, la rimozione dell’aggiunta abusiva del balcone realizza di per sé l’esigenza di ripristinare la situazione preesistente all’illecito amministrativo, soprattutto ai fini della tutela dei valori paesaggistici ed ambientali (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ampliamento di un balcone costituisce opera di ristrutturazione edilizia, ai sensi degli artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione della facciata del palazzo, comportante modifica della sagoma, dei prospetti e delle superfici.
Il titolo edilizio per la realizzazione di tale intervento risulta, quindi, essere il permesso di costruire e la sanzione per la sua assenza è il ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 33 d.p.r. n. 380 del 2001.

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Per gli interventi comportanti una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo paesaggistico, quand'anche si ritenessero assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa, ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
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4.- Quanto sopra, induce a considerare infondato anche il secondo motivo di ricorso.
L’opera realizzata dal ricorrente e contestata dal comune ha comportato un arbitrario ampliamento della superficie di un preesistente balcone in assenza di titolo, opera che –contrariamente agli assunti del ricorrente– non può costituire un intervento di semplice manutenzione né intervento di restauro e di risanamento conservativo, quand’anche fosse giustificato da reali esigenze di sicurezza e dal tentativo di ovviare al deterioramento imputabile alla vetustà ed agli agenti atmosferici.
Pertanto non si verifica alcuna violazione delle norme regolamentari di cui agli artt. 46, 47 e 48 RUEC, invocate dal ricorrente.
Come chiarito in un precedente di questo TAR, l’ampliamento di un balcone costituisce opera di ristrutturazione edilizia, ai sensi degli artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione della facciata del palazzo, comportante modifica della sagoma, dei prospetti e delle superfici. Il titolo edilizio per la realizzazione di tale intervento risulta, quindi, essere il permesso di costruire e la sanzione per la sua assenza è il ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 33 d.p.r. n. 380 del 2001 (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 28.10.2011, n. 5052).
5.- Non assume quindi alcun rilievo la circostanza della presentazione della denuncia di inizio attività in sanatoria, ai sensi dell’art. 37 d.p.r. 380/2001, posto che, come sopra illustrato, la presenza dei vincoli paesaggistici ed ambientali sussistenti nel territorio del comune di San Sebastiano rendono la DIA, titolo edilizio non idoneo allo scopo, soprattutto se presentata, com’è nel caso in esame, a sanatoria di un abuso che ha comunque prodotto un aumento di superficie ed un cambio di prospetto.
Sul punto si rammenta che, per gli interventi comportanti una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo paesaggistico, quand'anche si ritenessero assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa, ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (cfr. precedente di questo TAR sez. VI, 02.12.2016, n. 5565) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Per effetto del rinnovamento normativo in materia di competenze negli anni novanta, ad opera della L. n. 142 del 1990, del d.lgs. n. 29 del 1993 e, infine, della l. n. 127 del 1997, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti di tale qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi e non del Sindaco, trattandosi di tipico potere gestionale.
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7.- Infine, infondato si palesa il quinto motivo, col quale parte ricorrente ha censurato l’incompetenza del dirigente ad assumere l’atto impugnato.
Per effetto del rinnovamento normativo in materia di competenze negli anni novanta, ad opera della L. n. 142 del 1990, del d.lgs. n. 29 del 1993 e, infine, della l. n. 127 del 1997, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti di tale qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi e non del Sindaco, trattandosi di tipico potere gestionale (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.01.2017, n. 416; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30.04.2015, n. 1071) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Risulta infondata la censura relativa al mancato obbligo di comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, prevista dal richiamato art. 10-bis L. n. 241/1990, la cui applicazione è disposta unicamente per i procedimenti avviati su istanza di parte, laddove nel caso specifico si verte, all’opposto, in tema di procedimento instaurato d’ufficio, a carattere repressivo e sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai discutere, ma la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo di avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 e, di conseguenza, delle necessità comunque di coinvolgimento e partecipazione dell’interessato.
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8.- L’infondatezza del ricorso introduttivo comporta l’infondatezza anche del ricorso per motivi aggiunti, considerato, da un lato, che l’ordinanza con quest’ultimo impugnata ha carattere reiterativo della prima, avendo preso atto il comune della sua mancata ottemperanza e, dall’altro, che parte ricorrente riproduce le censure già formulate col ricorso introduttivo medesimo.
Va solo aggiunto che, come già chiarito relativamente all’esame della censura sull’omessa comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990, che risulta altrettanto infondata anche la censura relativa al mancato obbligo di comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, prevista dal richiamato art. 10-bis L. n. 241/1990, la cui applicazione è disposta unicamente per i procedimenti avviati su istanza di parte, laddove nel caso specifico si verte, all’opposto, in tema di procedimento instaurato d’ufficio, a carattere repressivo e sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai discutere, ma la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo di avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 –la cui violazione è stata parimenti contestata dalla ricorrente col ricorso introduttivo- e, di conseguenza, delle necessità comunque di coinvolgimento e partecipazione dell’interessato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza ormai costante, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi  costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali tra tutti l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di rimozione, la mancata comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.

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L’ordine di sospensione ha un senso laddove gli interventi abusivi siano in corso di esecuzione e risponde all’esigenza di inibire qualsiasi ulteriore attività che possa aggravare i danni allo stato preesistente.
Nel caso specifico questa esigenza tuttavia non si poneva, posto che l’Ente è intervenuto a lavori ormai compiuti.
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6.- Infondata è anche la censura relativa al mancato obbligo di comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, prevista dal richiamato art. 10-bis L. n. 241/1990 la cui applicazione è disposta unicamente per i procedimenti avviati su istanza di parte.
Nel caso specifico si verte, all’opposto, in tema di procedimento instaurato d’ufficio, a carattere repressivo e sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai discutere, ma la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo di avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 –la cui violazione è stata parimenti contestata dalla ricorrente- e, di conseguenza, delle necessità comunque di coinvolgimento e partecipazione dell’interessato.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio, infatti, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi –con argomentazione che, per affinità nella tutela degli interessi pubblici coinvolti- costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali tra tutti l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di rimozione, la mancata comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
7.- Irrilevante poi la circostanza, rilevata dalla ricorrente, che l’ordinanza di demolizione non sia stata preceduta da quella di sospensione.
L’ordine di sospensione ha un senso laddove gli interventi abusivi siano in corso di esecuzione e risponde all’esigenza di inibire qualsiasi ulteriore attività che possa aggravare i danni allo stato preesistente. Nel caso specifico questa esigenza tuttavia non si poneva, posto che l’Ente parco è intervenuto a lavori ormai compiuti e dopo avere ricevuto l’informativa dal comune di San Sebastiano al Vesuvio (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di specie trova applicazione l’art. 29 L. n. 394/1991 il quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente parco.
Sicché, nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell'Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza esercitato dal predetto Ente si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa.
In questo senso la violazione delle norme urbanistiche ed edilizie rappresenta il presupposto per l’esercizio del potere inibitorio e sanzionatorio da parte dell’ente parco senza che vi sia automatica coincidenza tra i due ambiti.
Come infatti chiarito da condivisibile giurisprudenza, laddove, per la repressione degli abusi edilizi all'interno dei parchi naturali, vi sia un concorso tra le funzioni di vigilanza edilizia, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di protezione del vincolo paesistico attribuito all'ente gestore del Parco, le valutazioni svolte dai due soggetti potrebbero divergere, poiché il Comune deve tener conto dei limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia, mentre l'ente gestore del Parco considera la compatibilità paesistica dell'opera; di conseguenza, un nuovo volume potrebbe essere sanabile nella valutazione del Comune (ad esempio, perché gli indici edificatori non sono ancora esauriti), ma non nella valutazione paesistica del Parco.
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8.- Infondata si palesa altresì la censura circa l’erronea applicazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001 in luogo di quella di cui agli artt. 33, 34 e 37 d.p.r. 380/2001.
E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
   Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m. (al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
   Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m. (al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta
.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
Impropria, quindi, si palesa la censura relativa alla violazione di talune delle disposizioni di cui al d.p.r. 380/2001, normativa stabilita a tutela degli interessi urbanistici ed edilizi alla cura dei quali è preposta l’amministrazione comunale e che introduce un corredo di sanzioni graduate in proporzione all’incidenza sul territorio dell’opera abusiva compiuta.
Nel caso di specie trova applicazione l’art. 29 L. n. 394/1991 il quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente parco.
Come sopra già illustrato, nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell'Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza esercitato dal predetto Ente si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa (cfr. Cons. Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449)
In questo senso la violazione delle norme urbanistiche ed edilizie rappresenta il presupposto per l’esercizio del potere inibitorio e sanzionatorio da parte dell’ente parco senza che vi sia automatica coincidenza tra i due ambiti.
Come infatti chiarito da condivisibile giurisprudenza, laddove, per la repressione degli abusi edilizi all'interno dei parchi naturali, vi sia un concorso tra le funzioni di vigilanza edilizia, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di protezione del vincolo paesistico attribuito all'ente gestore del Parco, le valutazioni svolte dai due soggetti potrebbero divergere, poiché il Comune deve tener conto dei limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia, mentre l'ente gestore del Parco considera la compatibilità paesistica dell'opera; di conseguenza, un nuovo volume potrebbe essere sanabile nella valutazione del Comune (ad esempio, perché gli indici edificatori non sono ancora esauriti), ma non nella valutazione paesistica del Parco (Tar Brescia, sez. I, 15.10.2014, n. 1057) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla necessità, o meno, del permesso di costruire per la realizzazione di due gazebo.
Gli interventi effettuati, i due gazebo, presentano tutti gli elementi per essere classificati quale nuova opera per la quale sarebbe stato necessario acquisire il previo rilascio di un permesso di costruire, in relazione a nuove superfici e volumi, laddove si consideri anche la chiusura perimetrale di uno dei gazebo.
Non va trascurata, al riguardo, l’esistenza in zona di una serie di vincoli, puntualmente richiamati nell’ordinanza impugnata: paesaggistico di cui al d.lgs. 490 del 1999 (attualmente vigente il d.lgs. 42 del 2004); appartenenza dell’intero territorio comunale alle norme di salvaguardia del “Piano Straordinari” diretto a rimuovere situazioni di rischio idrogeologico nonché rischio sismico.
In ogni caso, le significative dimensioni dei due gazebo avrebbero reso comunque necessario la preventiva acquisizione del nulla osta dell’ente parco, a fronte dell’esistenza in zona dei noti vincoli paesaggistici.
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza impugnata benché la stessa si riferisca a due gazebo i quali, indipendentemente dalla circostanza dell'immobilizzazione al suolo, si traducono in strutture destinate ad adempiere ad un utilizzo prolungato nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà dei due manufatti, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a permesso edilizio, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva e intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari.
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E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
   Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m. (al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
   Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m. (al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta
.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
...
9.- Né ha pregio l’affermazione del ricorrente circa la valenza di opere di manutenzione straordinaria ovvero di carattere pertinenziale e di volume tecnico.
Appare dunque evidente che, per caratteristiche e dimensioni, come sopra descritte, l’opera abusiva realizzata non può essere annoverata tra gli interventi di carattere manutentivo né può essere derubricata a “lieve difformità” rispetto ad un'opera assentibile con d.i.a..
Si osserva, in particolare, che gli interventi effettuati, i due gazebo, presentano tutti gli elementi per essere classificati quale nuova opera per la quale sarebbe stato necessario acquisire il previo rilascio di un permesso di costruire, in relazione a nuove superfici e volumi, laddove si consideri anche la chiusura perimetrale di uno dei gazebo.
Non va trascurata, al riguardo, l’esistenza in zona di una serie di vincoli, puntualmente richiamati nell’ordinanza impugnata: paesaggistico di cui al d.lgs. 490 del 1999 (attualmente vigente il d.lgs. 42 del 2004); appartenenza dell’intero territorio comunale alle norme di salvaguardia del “Piano Straordinari” diretto a rimuovere situazioni di rischio idrogeologico (Delibera n. 14/99 del 31.10.1999) nonché rischio sismico.
In ogni caso, le significative dimensioni dei due gazebo avrebbero reso comunque necessario la preventiva acquisizione del nulla osta dell’ente parco, a fronte dell’esistenza in zona dei noti vincoli paesaggistici (in questi termini, Tar Napoli, sez. VI, 22.10.2015, n. 4931).
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza impugnata benché la stessa si riferisca a due gazebo i quali, indipendentemente dalla circostanza dell'immobilizzazione al suolo, si traducono in strutture destinate ad adempiere ad un utilizzo prolungato nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la precarietà dei due manufatti, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a permesso edilizio, posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva e intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari (Cons. St., sez. III, 12.09.2012, n. 4850; Id., sez. VI, 16.02.2011, n. 986) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di due gazebo: pertinenze urbanistiche? Volume tecnico?
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a quella principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici. Sono quindi estranee al concetto di pertinenza urbanistica le opere che, per dimensioni e funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale né siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
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Né risulta altrettanto obiettivamente sostenibile l’assunto di parte ricorrente circa la natura di volume tecnico del manufatto, ciò per due fondamentali ragioni: la prima, legata alla natura dell’opera abusiva realizzata, le cui caratteristiche, per come sopra illustrate, lasciano intendere un suo utilizzo a fini fondamentalmente complementari all’abitazione; la seconda, dipendente dalla presenza del vincolo naturalistico-ambientale e paesaggistico del parco.
Sul primo aspetto, al fine di stabilire se un locale possa essere classificato quale mero vano tecnico, occorre una valutazione complessiva delle sue caratteristiche, in modo da escludere in maniera oggettiva che lo stesso possa assolvere ad una funzione abitativa, anche solo in via potenziale o per il futuro, a prescindere dalla destinazione soggettiva impressa dal proprietario.
In sostanza, per individuare la nozione di volume tecnico, come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare riferimento a tre parametri:
   - il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione;
   - il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato; quest'ultimo dev’essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa.
L'applicazione di tali parametri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di essere abitato.
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Come sopra chiarito, la realizzazione dei due gazebo appare assumere tutti i requisiti per renderla agibile a scopi complementari a quelli abitativi.
Sul secondo aspetto, relativo alla presenza del vincolo del parco, condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa ha precisato che, sebbene ai fini edilizi un nuovo volume possa essere considerato non rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili –per l’appunto perché ritenuto volume tecnico- ai fini naturalistici ed ambientali lo stesso può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi.
Ed infatti, la nuova volumetria, quale che sia la sua natura e funzione -e possa quindi rivestire o meno la qualifica di volume tecnico- impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area, da compiersi ad opera dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero nel caso specifico dell’Ente parco.

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E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
   Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m. (al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
   Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le seguenti caratteristiche strutturali: un manufatto con struttura portante in legno lamellare con pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati, con copertura a capriata in legno e completamento con tetto a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m. (al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta
.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
...
10.- Non persuade il Collegio il tentativo della ricorrente di fare rientrare i due manufatti nella nozione di pertinenza urbanistica.
Sul punto si rammenta che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, condiviso dal Collegio, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a quella principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici. Sono quindi estranee al concetto di pertinenza urbanistica le opere che, per dimensioni e funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale né siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2017, n. 1155).
Né risulta altrettanto obiettivamente sostenibile l’assunto di parte ricorrente circa la natura di volume tecnico del manufatto, ciò per due fondamentali ragioni: la prima, legata alla natura dell’opera abusiva realizzata, le cui caratteristiche, per come sopra illustrate, lasciano intendere un suo utilizzo a fini fondamentalmente complementari all’abitazione; la seconda, dipendente dalla presenza del vincolo naturalistico-ambientale e paesaggistico del parco.
Sul primo aspetto, al fine di stabilire se un locale possa essere classificato quale mero vano tecnico, occorre una valutazione complessiva delle sue caratteristiche, in modo da escludere in maniera oggettiva che lo stesso possa assolvere ad una funzione abitativa, anche solo in via potenziale o per il futuro, a prescindere dalla destinazione soggettiva impressa dal proprietario.
In sostanza, per individuare la nozione di volume tecnico, come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare riferimento a tre parametri:
   - il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione;
   - il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato; quest'ultimo dev’essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa.
L'applicazione di tali parametri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di essere abitato (ex multis, TAR Marche, Ancona, sez. I, 21.02.2017, n. 141).
Come sopra chiarito, la realizzazione dei due gazebo appare assumere tutti i requisiti per renderla agibile a scopi complementari a quelli abitativi.
Sul secondo aspetto, relativo alla presenza del vincolo del parco, condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa ha precisato che, sebbene ai fini edilizi un nuovo volume possa essere considerato non rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili –per l’appunto perché ritenuto volume tecnico- ai fini naturalistici ed ambientali lo stesso può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi (TAR Genova, sez. I, 27.12.2016, n. 1267).
Ed infatti, la nuova volumetria, quale che sia la sua natura e funzione -e possa quindi rivestire o meno la qualifica di volume tecnico- impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area, da compiersi ad opera dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero nel caso specifico dell’Ente parco (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La sottoscrizione anche del responsabile del procedimento in calce al provvedimento finale, nel caso in esame espressamente e formalmente intestato nell’epigrafe al dirigente responsabile dell’ufficio tecnico che pure lo ha firmato, non svolge altra funzione che quella di manifestare condivisione in merito alla sussistenza dei presupposti rilevanti ai fini della decisione, sì da escludere senz’altro che l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale si sia discostato dalle risultanze dell’istruttoria.
D’altronde, la giurisprudenza ha censurato la doppia sottoscrizione dell’atto unicamente nei casi in cui essa abbia riguardato organi diversi, portatori di funzioni e compiti distinti tali da ingenerare il dubbio su quale fosse il potere esercitato.

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Peraltro, detti motivi sono destituiti di fondamento, poiché la sottoscrizione anche del responsabile del procedimento in calce al provvedimento finale, nel caso in esame espressamente e formalmente intestato nell’epigrafe al dirigente responsabile dell’ufficio tecnico che pure lo ha firmato, non svolge altra funzione che quella di manifestare condivisione in merito alla sussistenza dei presupposti rilevanti ai fini della decisione, sì da escludere senz’altro che l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale si sia discostato dalle risultanze dell’istruttoria.
D’altronde, la giurisprudenza ha censurato la doppia sottoscrizione dell’atto unicamente nei casi in cui essa abbia riguardato organi diversi, portatori di funzioni e compiti distinti tali da ingenerare il dubbio su quale fosse il potere esercitato (cfr. TAR Liguria, sez. I, 30.01.2014, n. 186; TAR Lazio, Latina, sez. I, 29.07.2014, n. 667; TAR Puglia, Bari, sez. III, 14.01.2016, n. 26; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 16.12.2016, n. 5805) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 4137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base all'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, la domanda per il rilascio del permesso di costruire deve essere accompagnata "da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica".
La veridicità dell'asseverazione è presidiata dalla irrogazione di sanzioni penali e disciplinari in caso di mendacio che responsabilizzano l'interessato, concorrendo a definire un equilibrio tra le esigenze della semplificazione amministrativa e la necessità di prevenire il pericolo di una più facile proliferazione degli interventi edilizi contrari alla strumentazione urbanistica ed alle altre normative di settore.

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Il Collegio rileva, in primo luogo, l’infondatezza delle deduzioni dirette a sostenere l’avvenuta formazione del provvedimento tacito di accoglimento della domanda diretta ad ottenere il titolo edilizio presentata in data 30.03.2012.
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, anche di questa Sezione, in base all'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, la domanda per il rilascio del permesso di costruire deve essere accompagnata "da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica". La veridicità dell'asseverazione è presidiata dalla irrogazione di sanzioni penali e disciplinari in caso di mendacio che responsabilizzano l'interessato, concorrendo a definire un equilibrio tra le esigenze della semplificazione amministrativa e la necessità di prevenire il pericolo di una più facile proliferazione degli interventi edilizi contrari alla strumentazione urbanistica ed alle altre normative di settore (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II; n. 4559 del 2013; n. 4603 del 2015; n. 5792 del 2015; TAR Veneto, sez. II; TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 492 del 2017).
Il contenuto delle asseverazioni allegate sia alla domanda assunta al prot. n. 9872 del 30.03.2012 sia alla domanda assunta al prot. n. 11273 del 12.04.2012 –in disparte la valutazione circa l’effettiva sussistenza della conformità urbanistica ed edilizia degli interventi– si palesano generiche e incomplete in rapporto alle prescrizioni della previsione sopra richiamata, precludendo, dunque, in radice, la formazione del silenzio-assenso.
Per completezza, in aggiunta alla dirimente considerazione sopra esposta, il Collegio evidenzia che dall’esame del contenuto delle due domande di permesso di costruire emerge che correttamente l’amministrazione comunale ha ritenuto la seconda istanza sostitutiva della precedente, sia in quanto le domande sono riferite al medesimo bene, sia alla luce delle tempistiche di presentazione (la seconda istanza essendo stata, infatti, presentata a pochi giorni di distanza dalla precedente), sia alla stregua della relativa formulazione; nell’istanza presentata in data 12 aprile si attesta, nello specifico, che l’intervento ha ad oggetto la demolizione e ricostruzione dell’immobile “con annessa realizzazione dei parcheggi pertinenziali al piano interrato ed il conseguente aumento del 35% della volumetria esistente da porre in sopraelevazione al solaio del piano terra” (la seconda domanda, dunque, assorbe, superandola, anche la prima istanza).
Come correttamente rilevato dalla difesa dell’amministrazione comunale, pertanto, la formazione del provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza è esclusa dalla tempestiva adozione del provvedimento reiettivo impugnato, tenuto conto della data di presentazione della seconda istanza e degli effetti della notificazione, in data 17.04.2012, della comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della l. n. 241 del 1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria straordinaria di un’opera non determina una alterazione della classificazione urbanistica dell’area interessata.
Per giurisprudenza consolidata, infatti, il condono non ha l’efficacia di abrogare o modificare la disciplina giuridica del lotto; l’unico effetto del condono è, infatti, quello di escludere l’applicazione delle sanzioni amministrative e penali per le sole opere condonate.

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Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte ricorrente, inoltre, la sanatoria straordinaria di un’opera non determina una alterazione della classificazione urbanistica dell’area interessata.
Per giurisprudenza consolidata (il che esime da citazioni specifiche), infatti, il condono non ha l’efficacia di abrogare o modificare la disciplina giuridica del lotto; l’unico effetto del condono è, infatti, quello di escludere l’applicazione delle sanzioni amministrative e penali per le sole opere condonate (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione delle opere abusive costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
In particolare, il procedimento repressivo degli abusi edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. 241/1990 non costituisce vizio dell'ordinanza di demolizione.
Come chiarito dall’univoca giurisprudenza, inoltre, per le medesime ragioni l’ordinanza di demolizione costituisce atto affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, giacché la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio; nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate e le motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
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Il Collegio condivide l’indirizzo giurisprudenziale che pur escludendo, in linea generale, che il tempo costituisca fattore “ex se” sufficiente a legittimare la conservazione di una situazione di fatto abusiva, attribuisce rilievo al tempo decorso tra la realizzazione delle opere e la contestazione della loro abusività in quelle fattispecie nelle quali emergano circostanze specifiche ed ulteriori idonee ad evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato.

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Quanto alla censurata violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale con riferimento alla posizione del Sig. Ar.Sa. Del Ve., il Collegio reputa sufficiente evidenziare che l’ordine di demolizione delle opere abusive costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (ex plurimis: TAR Campania Napoli, sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 13.09.2005, n. 1537; TAR Puglia Lecce, sez. III, 10.07.2004, n. 4974 e da ultimo, seppur sotto altro profilo, Consiglio Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4827).
In particolare, il procedimento repressivo degli abusi edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. 241/1990 non costituisce vizio dell'ordinanza di demolizione.
Come chiarito dall’univoca giurisprudenza, inoltre, per le medesime ragioni l’ordinanza di demolizione costituisce atto affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, giacché la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5203); nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate e le motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
Il Collegio, infine, condivide l’indirizzo giurisprudenziale che pur escludendo, in linea generale, che il tempo costituisca fattore “ex se” sufficiente a legittimare la conservazione di una situazione di fatto abusiva (in termini, TAR Puglia Lecce, sez. III, 09.02.2011, n. 240), attribuisce rilievo al tempo decorso tra la realizzazione delle opere e la contestazione della loro abusività in quelle fattispecie nelle quali emergano circostanze specifiche ed ulteriori idonee ad evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato; nella fattispecie oggetto di giudizio, tuttavia, non emerge, per le ragioni esposte ai capi precedenti della presente pronuncia, alcun legittimo affidamento da tutelare
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza maggioritaria ha più volte affermato che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza ingiuntiva della demolizione, ed opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
In tal senso, infatti, dispone l'art. 31, commi 3 e 4, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, secondo cui “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
La notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura, così, come adempimento successivo, necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari; la prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della demolizione; l'altra, in ossequio al regime di pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre a terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 c.c., l'avvenuto trasferimento in favore dell'Ente comunale.
La giurisprudenza anche di questa Sezione ha posto in evidenza, tuttavia, come resti, comunque, ferma la necessità del provvedimento di acquisizione. Ed invero la sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato.

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Nel caso di specie deve evidenziarsi come, nonostante il ricorrente non abbia eseguito il ripristino nel termine di 90 giorni dalla notifica dell'ordinanza di demolizione, tuttavia l'Amministrazione comunale non si sia curata di provvedere a verifiche in proposito, non avendo adottato i conseguenti provvedimenti e, specificatamente né il provvedimento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione e né il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
Ecco, allora, che il descritto iter, connotato da inerzia procedimentale, addirittura per più anni, in netta contraddizione con il necessario completamento del procedimento sanzionatorio mediante lo sviluppo della fase acquisitiva come prefigurata dalla sequenza procedimentale prevista dalla legge, ha operato una cesura nell'ambito della stessa, impedendo il consolidarsi in favore dell'Amministrazione dell'effetto traslativo della proprietà.
Ed infatti, se è pur vero che il passaggio della proprietà in favore dell'Amministrazione opera di diritto, deve tuttavia rilevarsi che il citato art. 31 prevede il dispiegarsi del procedimento sanzionatorio secondo ben precise fasi che non possono essere del tutto obliterate, in quanto la loro totale omissione, non può non comportare l'assoluta ambiguità della relativa attività amministrativa, in violazione dei principi del contraddittorio procedimentale, del buon andamento e della tutela dell'affidamento della parte privata.
In tal senso deve rilevarsi che la notifica dell'atto di accertamento dell'inottemperanza alla demolizione costituisce comunque titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, integrando così un passaggio indefettibile ai fini del perfezionamento dell'acquisto in favore dell'Amministrazione, che nella fattispecie concreta è risultato del tutto omesso.
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Circa l'istanza di condono proposta ai sensi del D.L. 30.09.2003 n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326, all'art. 32 espressamente richiama l’applicazione di quanto previsto nell'art. 39, comma 19, della legge n. 724/1994.
Quest'ultimo prevede che “per le opere abusive divenute sanabili in forza della presente legge, il proprietario che ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al patrimonio comunale dell'area di sedime e delle opere sopra questa realizzate disposte in attuazione dell'articolo 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico registro immobiliare dietro esibizione di certificazione comunale attestante l'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria”.
Deve pertanto ritenersi che il provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di condono possa avere l'effetto di porre nel nulla, indistintamente, tutti gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all'abuso mentre, per converso, un suo diniego, non comporta l'onere per il Comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito.
Al riguardo il Collegio ritiene che il significato che occorre riconoscere alla disposizione in commento è soltanto quello di chiarire -normativamente- come non osti all’accesso al condono l'intervento di un provvedimento che abbia accertato la gratuita acquisizione del bene abusivo, offrendo altresì al privato -che si sia avvalso di tale facoltà- uno strumento per far emergere sul piano dei rapporti proprietari (con i conseguenti riflessi sul piano del regime di pubblicità immobiliare) la nuova situazione determinatasi con la positiva presentazione dell'istanza di condono.
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La giurisprudenza penale consolidata ritiene che, in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna, per la sua natura di sanzione amministrativa applicata dall'autorità giudiziaria, non sia suscettibile di passare in giudicato essendone sempre possibile la revoca quando esso risulti assolutamente incompatibile con i provvedimenti della p.a. che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività.
Inoltre è il caso di ricordare come, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, l’ordine di demolizione, conseguente alla pronuncia di una sentenza penale irrevocabile di condanna per illecito edilizio, costituisce espressione di un potere dispositivo autonomo attribuito dalla legge alla autorità giudiziaria, il quale può eventualmente concorrere con quello omologo della P.A., onde è il Pubblico Ministero competente ad eseguirlo, mentre è il giudice dell'esecuzione che deve accertarne in sede di incidente la compatibilità con eventuali atti che siano stati emanati dalla autorità amministrativa.
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Al riguardo, va rilevato che la giurisprudenza maggioritaria ha più volte effettivamente affermato che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza ingiuntiva della demolizione (cfr. ex multis TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.02.2015 n. 751), ed opera di diritto e automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà (TAR Napoli, sez. VII, 04.04.2014 n. 1969, TAR Napoli, sez. VIII 26.03.2014 n. 1780).
In tal senso, infatti, dispone l'art. 31, commi 3 e 4, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, secondo cui “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente
”.
La notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura, così, come adempimento successivo, necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari; la prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della demolizione; l'altra, in ossequio al regime di pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre a terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 c.c., l'avvenuto trasferimento in favore dell'Ente comunale (TAR Napoli sez. VII 10.01.2014 n. 159).
La giurisprudenza anche di questa Sezione, dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, ha posto in evidenza, tuttavia, come resti, comunque, ferma la necessità del provvedimento di acquisizione. Ed invero la sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 11.10.2011, n. 1540, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2279 e 05.07.2017, n. 3631).
Nel caso di specie deve evidenziarsi come, nonostante il ricorrente non abbia eseguito il ripristino nel termine di 90 giorni dalla notifica dell'ordinanza di demolizione, tuttavia l'Amministrazione comunale non si sia curata di provvedere a verifiche in proposito, non avendo adottato i conseguenti provvedimenti e, specificatamente né il provvedimento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione e né il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
Ecco, allora, che il descritto iter, connotato da inerzia procedimentale, addirittura per più anni, in netta contraddizione con il necessario completamento del procedimento sanzionatorio mediante lo sviluppo della fase acquisitiva come prefigurata dalla sequenza procedimentale prevista dalla legge, ha operato una cesura nell'ambito della stessa, impedendo il consolidarsi in favore dell'Amministrazione dell'effetto traslativo della proprietà (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2279 e 05.07.2017, n. 3631 cit.).
Ed infatti, se è pur vero che il passaggio della proprietà in favore dell'Amministrazione opera di diritto, deve tuttavia rilevarsi che il citato art. 31 prevede il dispiegarsi del procedimento sanzionatorio secondo ben precise fasi che non possono essere del tutto obliterate, in quanto la loro totale omissione, non può non comportare l'assoluta ambiguità della relativa attività amministrativa, in violazione dei principi del contraddittorio procedimentale, del buon andamento e della tutela dell'affidamento della parte privata.
In tal senso deve rilevarsi che la notifica dell'atto di accertamento dell'inottemperanza alla demolizione costituisce comunque titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, integrando così un passaggio indefettibile ai fini del perfezionamento dell'acquisto in favore dell'Amministrazione, che nella fattispecie concreta è risultato del tutto omesso.
Ecco che allora non può non essere considerato che, nel caso di specie, l'istanza di condono è stata proposta ai sensi del D.L. 30.09.2003 n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326 che, all'art. 32, espressamente richiama l’applicazione di quanto previsto nell'art. 39, comma 19, della legge n. 724/1994.
Quest'ultimo prevede che “per le opere abusive divenute sanabili in forza della presente legge, il proprietario che ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al patrimonio comunale dell'area di sedime e delle opere sopra questa realizzate disposte in attuazione dell'articolo 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico registro immobiliare dietro esibizione di certificazione comunale attestante l'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.12.2013, n. 5957).
Deve pertanto ritenersi che il provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di condono possa avere l'effetto di porre nel nulla, indistintamente, tutti gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all'abuso mentre, per converso, un suo diniego, non comporta l'onere per il Comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza amministrativa formatosi in riferimento alla suddetta disposizione normativa, ritiene che il significato che occorre riconoscere alla disposizione in commento è soltanto quello di chiarire -normativamente- come non osti all’accesso al condono l'intervento di un provvedimento che abbia accertato la gratuita acquisizione del bene abusivo, offrendo altresì al privato -che si sia avvalso di tale facoltà- uno strumento per far emergere sul piano dei rapporti proprietari (con i conseguenti riflessi sul piano del regime di pubblicità immobiliare) la nuova situazione determinatasi con la positiva presentazione dell'istanza di condono (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, 18.04.2013, n. 335).
Se è vero quanto sopra, deve conseguentemente ritenersi che a maggior ragione nel caso di specie, nel quale, come detto, il procedimento di acquisizione non è stato concluso da parte del Comune di Caserta, non sussistevano ostacoli alla presentazione dell’istanza di condono da parte del ricorrente oltre 90 giorni dall’adozione del provvedimento di demolizione, istanza di condono, peraltro, ritenuta fondata e meritevole di accoglimento.
Né tali conclusioni sono inficiate dal passaggio in giudicato della sentenza n. 444/96 del GIP della Pretura Circondariale di Caserta, circostanza questa pure rappresentata a fondamento del provvedimento impugnato, laddove recita: “la posizione del sig. GI.Mi. appare altresì pregiudicata dal passaggio in giudicato della sentenza n. 444/96 che ordina la demolizione delle opere abusive”.
Ed invero la giurisprudenza penale consolidata ritiene che in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna, per la sua natura di sanzione amministrativa applicata dall'autorità giudiziaria, non sia suscettibile di passare in giudicato essendone sempre possibile la revoca quando esso risulti assolutamente incompatibile con i provvedimenti della p.a. che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (cfr. ex multis Cassazione penale, sez. III, 21/11/2012, n. 3456, Sez. III, 18.01.2012, n. 25212, n. 253050; Sez. III, 24.03.2010, n. 24273, n. 247791; Sez. III, 26.09.2007, n. 38997,n. 237815; Sez. III, 11.05.2005, n. 37120, n. 232173; Sez. III, 19.11.1999, n. 3682, n. 215456; Sez. III, 07.03.1994, n. 712, n. 197611).
Inoltre è il caso di ricordare come, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, l’ordine di demolizione, conseguente alla pronuncia di una sentenza penale irrevocabile di condanna per illecito edilizio, costituisce espressione di un potere dispositivo autonomo attribuito dalla legge alla autorità giudiziaria, il quale può eventualmente concorrere con quello omologo della P.A., onde è il Pubblico Ministero competente ad eseguirlo, mentre è il giudice dell'esecuzione che deve accertarne in sede di incidente la compatibilità con eventuali atti che siano stati emanati dalla autorità amministrativa (cfr. Cassazione penale, Sez. III, 18.01.2012, n. 25212 cit., Cass. Sez. III, 17.10.2007, n. 42978).
Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che i su illustrati profili di illegittimità abbiano una indubbia valenza assorbente rispetto agli altri motivi di gravame, sicché la fondatezza delle dedotte censure comporta l’accoglimento del ricorso introduttivo e l’annullamento dell’atto ivi impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’acquisizione gratuita ex art. 31, comma 3, dpr 380/2001 non rappresenta un provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, l'effetto ablatorio si verifica ope legis all'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre, secondo quanto previsto dal successivo comma 4, la notifica dell’accertamento formale dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari (la prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della demolizione, la seconda, in omaggio al regime di pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., l'avvenuto trasferimento in favore dell'ente comunale).

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L'’acquisizione al patrimonio del Comune dell'opera abusiva e dell'area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” (ossia automaticamente, una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva).
Va tuttavia anche sottolineato che, mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire (oltre a dover essere precisata con apposite indicazioni relative all’estensione) deve essere giustificata con l’esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il Comune intende acquisire.
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In punto di diritto l’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 al comma 3 prevede: “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.”.
Come la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni ricordato, l’acquisizione gratuita non rappresenta un provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, l'effetto ablatorio si verifica ope legis all'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre, secondo quanto previsto dal successivo comma 4, la notifica dell’accertamento formale dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari (la prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della demolizione, la seconda, in omaggio al regime di pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., l'avvenuto trasferimento in favore dell'ente comunale) (cfr. ex multis Cass. pen., sez. III, 21.05.2009, n. 39075; 17.11.2009, n. 2912; 22.10.2010, n. 40924; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 24.03.2016, n. 1549 e 21.06.2013 n. 3251, TAR Campania, sez. VII, 04.04.2014, n. 1969, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame deve ritenersi, alla luce del contenuto del suddetto provvedimento di acquisizione, che, come condivisibilmente sostenuto da parte ricorrente, tale provvedimento non può ritenersi consequenziale all’ordine di demolizione n. 120 dell’08.09.2004, depositato in giudizio dal Comune di Sant’Arpino, ed alla relativa inottemperanza, espressamente richiamati nel medesimo provvedimento impugnato, in quanto non dispone l’acquisizione gratuita in riferimento alle opere oggetto dell’ordinanza di demolizione.
Ed infatti non si limita fare riferimento all’immobile “accertato alla data del sopralluogo” a seguito del quale è stata emessa l’ordinanza di demolizione ma, facendo riferimento all’immobile “nello stato di fatto in cui ora si trova”, estende l’acquisizione gratuita stessa anche alle opere oggetto del permesso di costruire in sanatoria annullato in autotutela, opere in riferimento alle quali non era stata previamente ingiunta la demolizione.
Pertanto, il provvedimento di acquisizione deve ritenersi illegittimamente adottato.
Inoltre, ferma restando tale risolutiva circostanza, deve altresì ritenersi fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta la mancata indicazione precisa e puntuale dell’area da acquisire di diritto al patrimonio comunale.
Ed invero, al riguardo, se va ribadito che l’acquisizione al patrimonio del Comune dell'opera abusiva e dell'area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” (ossia automaticamente, una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva), va tuttavia anche sottolineato che, mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire (oltre a dover essere precisata con apposite indicazioni relative all’estensione) deve essere giustificata con l’esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il Comune intende acquisire (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 24.03.2016, n. 1549 e TAR Napoli, Sezione VII, 04.04.2014, n. 1969 cit.).
Nel caso di specie nell’ordinanza settoriale n. 36 del 18.05.2016 è stata disposta l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale “dell’area di sedime e di quella circostante” e, conseguentemente, alla luce della rilevata indeterminatezza dell’area interessata e dell’omessa motivazione in merito all’acquisizione di un’area ulteriore rispetto a quella di sedime, il provvedimento impugnato deve ritenersi illegittimo.
Conclusivamente, alla luce dei su illustrati motivi, il ricorso deve essere accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce ius receptum che, nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente a sorreggere la legittimità dell’atto la fondatezza anche di una sola di esse.
Inoltre nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.

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Costituisce, infatti, ius receptum che, nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente a sorreggere la legittimità dell’atto la fondatezza anche di una sola di esse.
Inoltre nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 25.09.2016, n. 3854, 29.05.2015, n. 2791, Sez. VII, 14.01.2011, n. 164) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione comunale, cui è rimessa sul piano istruttorio la delibazione di conformità urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l'altro, che esista un titolo idoneo per eseguire le opere, che assurge a presupposto di legittimità sia degli interventi che implicano il rilascio del permesso di costruire sia di quelli, come nel caso di specie, il cui titolo edilizio sia richiesto in sanatoria.
È pur vero che la giurisprudenza amministrativa esclude l'esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile e, soprattutto in passato, era prevalentemente orientata nel senso che il parametro valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia fosse solo quello dell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la realizzazione, salvi i diritti dei terzi, senza che la mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche modo incidere sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente la giurisprudenza amministrativa, ha avuto occasione di precisare che la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
Ha, pertanto, concluso nel senso che, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento.

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Analizzando il secondo motivo di diniego, occorre evidenziare che l’Amministrazione comunale, cui è rimessa sul piano istruttorio la delibazione di conformità urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l'altro, che esista un titolo idoneo per eseguire le opere, che assurge a presupposto di legittimità sia degli interventi che implicano il rilascio del permesso di costruire sia di quelli, come nel caso di specie, il cui titolo edilizio sia richiesto in sanatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.11.2014, n. 5667).
È pur vero che la giurisprudenza amministrativa esclude l'esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile e, soprattutto in passato, era prevalentemente orientata nel senso che il parametro valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia fosse solo quello dell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la realizzazione, salvi i diritti dei terzi, senza che la mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche modo incidere sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente la giurisprudenza amministrativa (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sezione V, 15.03.2001, n. 1507 e 21.10.2003, n. 6529; TAR Campania, Sezione II, 29.03.2007 n. 2902), ha avuto occasione di precisare che la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
Ha, pertanto, concluso nel senso che, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento (TAR Napoli, Sez. II, 07.06.2013, n. 3019) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, non solo non incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe legittimare.
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Il ricorso è infondato e, in quanto tale, va respinto.
Con il primo motivo di ricorso Ra.Pa. ha dedotto le seguenti censure: violazione di legge, violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, eccesso di potere per presupposti inesistenti, illegittimità derivata per omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Il motivo è infondato.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (cfr., ex multis, TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538 e 07.01.2015 n. 44; Consiglio di Stato, VI Sezione 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012 n. 4945; Consiglio di Stato, IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente ha dedotto le seguenti censure: violazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 241/1990, difetto di istruttoria, difetto di motivazione, eccesso di potere per violazione del principio dell’affidamento.
Parte ricorrente, pur riconoscendo che trattasi di provvedimento vincolato, lamenta che, avendo l’amministrazione comunale intimata adottato il provvedimento impugnato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione delle opere abusive ad egli contestate, il provvedimento necessitasse di una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico, in considerazione dell’affidamento ingenerato dal comportamento dell’amministrazione stessa.
Il motivo è infondato.
Ed invero, secondo la condivisibile giurisprudenza amministrativa prevalente, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, non solo non incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe legittimare (Consiglio Stato V Sezione, 11.01.2011, n. 79; Consiglio Stato IV Sezione 31.08.2010 n. 3955; TAR Campania, Napoli, Sezione VII, 03.11.2010 n. 22291, Sezione VI, 03.12.2010 n. 26797, Sezione VII, 14.01.2011, n. 160, Sezione VIII, 07.01.2015, n. 44 cit.).
In proposito, va altresì evidenziato come il mero decorso di un notevole lasso di tempo non potrebbe in qualche modo giustificare il mantenimento delle opere qui in questione, non essendo suscettibile di decadenza il potere della P.A. in tema di vigilanza sull'assetto del territorio (cfr. TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538 cit., 04.09.2015, n. 4315 e 05.03.2015 n. 1398) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La incontestata realizzazione di nuovi volumi e nuove superfici abitabili, unitamente alla descrizione dell’abuso, rendono la motivazione del provvedimento impugnato perfettamente comprensibile dall’interessato, senza che, quindi, l’eventuale mancata indicazione delle norme violate possa inficiare la motivazione dell’atto impugnato.
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Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente deduce altresì la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 241/1990 e il difetto assoluto di motivazione e di istruttoria in quanto dal testo del provvedimento impugnato non si evincerebbe il potere di cui ha fatto uso il Comune di Portico di Caserta.
Ad avviso di parte ricorrente non sarebbe chiara la normativa applicata ai fini della demolizione.
Quanto alla mancata indicazione delle norme urbanistiche violate, la condivisibile giurisprudenza di questo Tribunale ha chiarito che la incontestata realizzazione di nuovi volumi e nuove superfici abitabili, unitamente alla descrizione dell’abuso, rendono la motivazione del provvedimento impugnato perfettamente comprensibile dall’interessato, senza che, quindi, l’eventuale mancata indicazione delle norme violate possa inficiare la motivazione dell’atto impugnato (TAR Napoli, Sez. IV, 15.01.2015, n. 259).
Quanto al potere esercitato dal Comune di Portico di Caserta, l’ordinanza di demolizione impugnata risulta adottata ai sensi della legge n. 47/1985.
Al riguardo deve ritenersi che la legge n. 47 del 1985 risulti correttamente richiamata in quanto applicabile ratione temporis alla data di adozione del provvedimento impugnato, tenuto conto che il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è entrato in vigore il 30.06.2003. Ciò in quanto il termine del 01.01.2002, previsto dall’art. 138 -Entrata in vigore del testo unico- è stato prima prorogato al 30.06.2002 dall’art. 5-bis, comma 1, del D.L. 23.11.2001, n. 411, convertito dalla L. 31.12.2001, n. 463 e, successivamente, al 30.06.2003 dall'art. 2, comma 1, del D.L. 20.06.2002, n. 122, convertito, con modificazioni, dall'art 1, comma 1, della L. 01.08.2002, n. 185.
Pertanto deve ritenersi che l’Amministrazione intimata abbia legittimamente operato in base alle disposizioni della citata legge che prevedevano il potere sanzionatorio della p.a. sotto forma di demolizione delle edificazioni realizzate abusivamente (cfr. TAR Napoli, Sez. VI, 10.05.2013, n. 2437) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un piano interrato rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio per i quali è necessario il permesso di costruire, trattandosi pur sempre di intervento in relazione al quale l'autorità amministrativa deve svolgere il proprio controllo sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie, anche tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare assetto e sviluppo del territorio.
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Con il quarto motivo di ricorso il Ra. ha dedotto le seguenti censure: violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 9/1982, della legge n. 122/1989, degli artt. 7 e 10 della legge n. 47/1985 e della legge regione Campania n. 14/1982, eccesso di potere per presupposti inesistenti.
Ad avviso di parte ricorrente dal combinato disposto della normativa richiamata si desumerebbe che sarebbero soggette a concessione edilizia le sole opere che comportano la trasformazione del territorio, con creazione di volumetria e di superfici utili; i locali interrati non destinati alla residenza e privi di una loro particolare autonomia non sarebbero soggetti a concessione edilizia.
In particolare le opere eseguite da egli ricorrente, consistenti in un locale completamente interrato privo di luce, una tettoia di ferro con appoggiata una lamiera ed una scala di accesso al locale interrato, si configurerebbero come opere prive di rilevanza urbanistica, aventi natura pertinenziale e, quindi, sottratte al regime concessorio e soggette, invece, al regime autorizzatorio di cui all’art. 10 della legge n. 47/1985 che ha previsto, per le opere realizzate in assenza di autorizzazione, una mera misura pecuniaria.
Il motivo è infondato.
Ed invero, in disparte le previsioni di specifiche disposizioni normative, oggetto di stretta interpretazione, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la realizzazione di un piano interrato rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio per i quali è necessario il permesso di costruire, trattandosi pur sempre di intervento in relazione al quale l'autorità amministrativa deve svolgere il proprio controllo sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie, anche tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare assetto e sviluppo del territorio (TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 25.01.2012, n. 164, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 30.08.2012, n. 7396) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In urbanistica ed edilizia la nozione di pertinenza è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c.; secondo la condivisibile giurisprudenza la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Ed invero la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
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Né può ritenersi fondato il riferimento di parte ricorrente alla possibilità di qualificare le opere oggetto di contestazione quali opere pertinenziali, al fine di ritenere irrilevanti i relativi volumi.
Ed invero in urbanistica ed edilizia la nozione di pertinenza è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c.; secondo la condivisibile giurisprudenza la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico (cfr. ex multis TAR Catania n. 4564/2010), sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 245 e n. 429 del 10.03.2011; TAR Campania Napoli, Sez. VI, n. 26788/2010).
Ed invero la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. anche Cons. St., Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952; Sez. V, 12.02.2013, n. 817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 30.05.2017, n. 2870).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame alla luce della sopra chiamata giurisprudenza, occorre innanzitutto evidenziare che parte ricorrente ha solo apoditticamente dedotto ma non ha provato, come era sua onere, trattandosi di prova rientrante nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a., la natura pertinenziale delle opere oggetto di contestazione.
Il Collegio ritiene, comunque, che le opere per cui è causa, analiticamente descritte nell’ordinanza di demolizione, non possano avere natura pertinenziale già solo per le loro dimensioni richiamate nell’ordinanza stessa (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio, condividendo l’orientamento della giurisprudenza costante in materia, ritiene che l'assegnazione di un termine più breve di quello prescritto dall'art. 7 della legge n. 47/1985 per provvedere alla rimozione delle opere abusivamente realizzate si risolva in una violazione meramente formale, non lesiva per l'interessato, che conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione.
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Con il quinto motivo di ricorso sono state inoltre dedotte le seguenti censure: violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 47/1985, violazione del giusto procedimento, illegittimità derivata.
Parte ricorrente lamenta che illegittimamente il provvedimento impugnato avrebbe previsto un termine inferiore a quello stabilito dalla citata disposizione normativa (15 giorni dalla notifica rispetto ai 90 giorni previsti dalla norma rubricata).
Al riguardo il Collegio, condividendo l’orientamento della giurisprudenza costante in materia, ritiene che l'assegnazione di un termine più breve di quello prescritto dall'art. 7 della legge n. 47/1985 per provvedere alla rimozione delle opere abusivamente realizzate si risolva in una violazione meramente formale, non lesiva per l'interessato, che conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione (cfr. TAR Lazio, Roma, Sezione II-bis, 10.05.2010, n. 10573, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 31.01.2008, n. 430, Consiglio Stato, Sez. V, 24.02.2003, n. 986).
Alla luce di quanto sopra il quinto motivo di ricorso, in quanto infondato, non può essere accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione di demolizione, prevista dall'art. 7, comma 2, della legge n 47 del 1985, deve contenere l'accertamento dell'esecuzione delle opere abusive e il conseguente ordine di demolizione; non è necessario, invece, che precisi quali siano le conseguenze per il caso della sua inosservanza, né tanto meno che identifichi l'area destinata, in tale caso, ad acquisizione gratuita.
Ciò in quanto indicazione dell'area da acquisire è elemento essenziale non dell'ordinanza di demolizione, ma del diverso provvedimento di accertamento della mancata ottemperanza, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 47 del 1985.
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Con il sesto motivo di ricorso parte ricorrente deduce l’ulteriore violazione e falsa applicazione della normativa di cui al quinto motivo di ricorso e la violazione del giusto procedimento.
Parte ricorrente lamenta che l’ordinanza di demolizione non avrebbe individuato in modo dettagliato le opere e le aree da acquisire in caso di inottemperanza.
Il rilievo non può essere condiviso. Ed invero la doglianza relativa alla mancata individuazione in dettaglio delle opere contestate deve ritenersi infondata in fatto in quanto nell’ordinanza di demolizione il Comune intimato ha analiticamente indicato le opere eseguite dal ricorrente, in assenza della concessione edilizia, sulle aree distinte in catasto al foglio 2, particelle n. 529/i e n. 155/e, consistenti nella “realizzazione di un piano interrato in cls armato di ingombro pari a mt. 18,90 x mt. 11,00 x h mt. 4,45 (estradosso proprio solaio copertura), diviso in due locali e di un piano terra con struttura verticale ed orizzontale in ferro di dimensioni mt. 12,30 x mt. 11,00 x mt. (h media) coperto direttamenteda lamiere grecate coibentate nonché un vano scala di accesso dal piano terra al piano interrato in angolo sud-est del lotto;”.
In ordine all’ulteriore censura, si ricorda l’insegnamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, alla luce del quale l'ingiunzione di demolizione, prevista dall'art. 7, comma 2, della legge n 47 del 1985, deve contenere l'accertamento dell'esecuzione delle opere abusive e il conseguente ordine di demolizione; non è necessario, invece, che precisi quali siano le conseguenze per il caso della sua inosservanza, né tanto meno che identifichi l'area destinata, in tale caso, ad acquisizione gratuita (TAR Sicilia Palermo Sez. II, 08.01.2014, n. 11, Consiglio di Stato, sez. V, 26/01/2000 n. 341). Ciò in quanto indicazione dell'area da acquisire è elemento essenziale non dell'ordinanza di demolizione, ma del diverso provvedimento di accertamento della mancata ottemperanza, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 47 del 1985 (Cons. Stato Sez. IV, 25.09.2014, n. 4809 e n. 4659 del 2008).
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria la questione concernente l’interpretazione del comma 1, lett. g), dell’art. 67 del Codice delle leggi antimafia
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Contributi e finanziamenti – Art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del 2011 – Divieto di percepire benefici economici per i soggetti destinatari di interdittiva antimafia – Estensione del divieto a somme dovute a titolo risarcitorio per effetto di giudicato successivo all’interdittiva antimafia – Deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
Vanno rimessi all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
   a) se il comma 1, lettera g), dell’art. 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’ (secondo cui “le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”) osti a che possano essere erogate da una pubblica amministrazione -sia pure in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna resa dal giudice amministrativo- somme di danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia stato attinto prima della definizione del giudizio risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la somma accertata come spettante;
   b) se la previsione di cui al comma 1, lettera g) dell’art. 67 (laddove espressamente richiama “altre erogazioni dello stesso tipo”), possa essere intesa anche nel senso di precludere il versamento in favore dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto (1)

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(1) I.- Con l’ordinanza in epigrafe, la quinta sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la questione concernente l’efficacia preclusiva dell’interdittiva antimafia in presenza di un giudicato di condanna al pagamento di somme di denaro a titolo risarcitorio, qualora il fatto impeditivo del pagamento non sia stato eccepito nel giudizio risarcitorio in quanto conosciuto dall’ente debitore solo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
E’ accaduto in fatto che una società, in conseguenza della mancata aggiudicazione di una gara di appalto cui aveva partecipato, si vedeva accogliere la domanda risarcitoria per il mancato utile ed il danno all’immagine, successivamente quantificati in sede giurisdizionale, con sentenza passata in giudicato, stante la mancata offerta da parte del Comune soccombente, ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, secondo quanto disposto in sentenza.
Avendo la società agito per l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato recante la definitiva quantificazione della somma dovuta a titolo risarcitorio, il Comune resistente eccepiva in giudizio l’impossibilità del pagamento a motivo dell’esistenza di una interdittiva antimafia, solo successivamente conosciuta al momento in cui si era reso necessario procedere al pagamento della somma, una volta definitivamente quantificata in sede giurisdizionale.
II. - A fronte del disposto di cui al comma 1, lettera g), dell’art. 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’ (secondo cui “le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”), la sezione si è pertanto posta l’interrogativo se la previsione in questione osti a che, sia pur in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna resa dal giudice amministrativo (o da un qualsiasi altro giudice, di cui venga chiesta l’ottemperanza in un giudizio amministrativo), possano essere erogate da una pubblica amministrazione somme di danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia stato attinto prima della definizione del giudizio risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la somma accertata come spettante.
A tal riguardo ha evidenziato:
   a) l’irrilevanza della pronuncia resa inter partes che ha escluso la configurabilità di un vizio revocatorio della sentenza recante la condanna risarcitoria (giudizio proposto dal Comune, successivamente alla notizia della esistenza di una interdittiva antimafia taciuta dalla controparte, ai sensi dell’articolo 395 c.p.c., n. 1, –dolo processuale di una parte nei confronti dell’altra– e n. 3 – rinvenimento di documenti decisivi che non era stato possibile produrre in giudizio per causa di forma maggiore). Ciò in quanto la questione sollevata non concerne tanto l’an della pretesa risarcitoria, quanto la concreta eseguibilità della sentenza di condanna in sede di ottemperanza;
   b) l’ininfluenza del carattere risalente dell’interdittiva (datata 19.07.2013) sulla scorta di un consolidato (e condiviso) principio, per cui il comma 2 dell’articolo 86 del ‘Codice delle leggi antimafia’ deve essere interpretato nel senso che il decorso del termine annuale non priva di validità (o di efficacia) l’interdittiva, in quanto l’amministrazione è tenuta ad emettere una informativa liberatoria nei confronti dell’impresa solo laddove sopraggiungano elementi nuovi, capaci di smentire o, comunque, di superare gli elementi che hanno giustificato l’emissione del provvedimento interdittivo (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4121 del 2016 in Guida al dir., 2016, fasc. 44, 94, con nota di MASARACCHIA), tenuto conto che nel caso di specie alcuna liberatoria era stata adottata;
   c) quanto al principio di intangibilità del giudicato, pur precisando che i vincoli e le preclusioni di cui all’articolo 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’, a rigore, non incidono direttamente sul vincolo nascente del giudicato in quanto tale, bensì piuttosto sulle modalità di esercizio in executivis delle pretese dallo stesso rinvenienti, ciò non dimeno osserva la sezione che occorre chiarire se il giudicato formale, in qualsiasi modo formatosi, impedisca in ogni caso all’amministrazione di sottrarsi agli obblighi da esso nascente di corrispondere una somma di danaro a titolo risarcitorio ad un soggetto attinto da un’informativa interdittiva antimafia mai entrata nella dialettica processuale, anche se precedente alla formazione del giudicato, oppure se le finalità e la ratio dell’informativa interdittiva antimafia diano vita ad una situazione di incapacità legale ex lege che produca la corrispondente sospensione temporanea dell’obbligo per l’amministrazione di eseguire quel giudicato.
III.- Per completezza si segnala, in materia di effetti del giudicato e possibili cause impeditive della esecuzione:
   d) Cons. Stato, Ad. plen., 09.06.2016, n. 11 (oggetto della News US in data 24.06.2016, nonché in Foro it., 2017, III, 186, con note di TRAVI e VACCARI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), che ha approfondito il rapporto fra giudicato amministrativo di legittimità e sopravvenienze, distinguendo fra situazioni giuridiche istantanee e di durata;
   e) Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 (oggetto della News US in data 16.05.2017), che ha ulteriormente chiarito i presupposti e le conseguenze della impossibilità di eseguire un giudicato c.d. di spettanza.
IV.– La V sezione pone un ulteriore quesito all’Adunanza Plenaria circa la portata dell’art. 67 del Codice delle leggi antimafia e, in particolare, se la previsione di cui al comma 1, lettera g) (laddove espressamente richiama “altre erogazioni dello stesso tipo”), possa essere intesa anche nel senso di precludere il versamento in favore dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto. Al riguardo prospetta due possibili interpretazioni:
   f) di carattere letterale - ritenuta maggiormente compatibile con il carattere evidentemente afflittivo della disposizione in esame - la quale condurrebbe ad escludere che il risarcimento del danno presenti una eadem ratio rispetto “[ai] contributi, finanziamenti o mutui agevolati” di cui è menzione nell’ambito della stessa lettera g);
   g) di carattere logico–sistematica -capace cioè di valorizzare la funzione dalla norma e l’obiettivo con essa perseguito di contrasto a fenomeni di criminalità su base associativa- la quale indurrebbe a ritenere che il ‘catalogo’ delle ipotesi di cui alla lettera g) sia ‘aperto’ e che la locuzione “altre erogazioni dello stesso tipo”, lungi dal ‘chiudere’ l’elencazione, presenterebbe piuttosto una valenza –per così dire– ‘pan-tipizzante’, volta cioè ad impedire nella sostanza l’erogazione di qualunque utilità di fonte pubblica in favore dell’impresa in odore di condizionamento malavitoso, a prescindere dalla fonte e dal tipo di tale utilità.
La sezione opta chiaramente per la seconda tesi interpretativa, sulla scorta dell’insegnamento dall’Adunanza plenaria che con la decisione 05.06.2012, n. 9 (in Giur. it., 2012, 2410 (m), con nota di MAMELI; Giornale dir. amm., 2012, 1209 (m), con nota di LUPO; Riv. nel diritto, 2013, 1153, con nota di LEONARDI), ha già esteso la portata preclusiva dell’articolo 67 alle erogazioni aventi matrice indennitaria, e prospetta come praticabile la strada di utilizzare i medesimi argomenti di carattere logico-sistematico al fine di precludere altresì le erogazioni pubbliche aventi carattere risarcitorio.
V.- Sulle interdittive antimafia si segnala, per completezza:
   h) Cons. Stato, sez. III, 03.05.2016, n. 1743 (oggetto della News US in data 04.05.2016) che ha individuato i principi e criteri cui devono attenersi gli Uffici territoriali del Governo in sede di emanazione delle informative;
   i) Cons. Stato, sez. III, 22.06.2016, n. 2774, sulle c.d. interdittive a cascata;
   j) Tar per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ordinanza 28.09.2016, n. 2337 (oggetto della News US in data 04.10.2016) che ha sollevato la q.l.c. dell’art. 89-bis del Codice delle leggi antimafia;
   k) Cons. Stato, sez. I, parere 17.11.2015, n. 497/15 (in Foro it., 2016, III, 210, con nota di D’ANGELO cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza) che ha definito la differenza fra comunicazione antimafia, informativa antimafia ed effetti interdittivi;
   l) Cons. Stato, Ad. plen., ordinanze 19.11.2012 n. 34 e 24.09.2012, n. 33 (in Foro it., 2013, III, 5, con nota di TRAVI cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento) che hanno analizzato, sia pure nell’ottica del regolamento di competenza, la distinzione fra informativa antimafia c.d. tipica e atipica (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 28.08.2017 n. 4078 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria se il comma 1, lett. g), dell’art. 67 del Codice delle leggi antimafia preclude il risarcimento del danno dovuto a soggetto attinto, prima della definizione del giudizio, da informativa interdittiva antimafia.
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Informativa antimafia – Contributi e finanziamenti – Elargizione – Art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del 2011 – Divieto a soggetti ai quali è stata applicata con provvedimento definitivo una misura di prevenzione prevista dal libro I, titolo I, capo II – Estensione del divieto a somme dovute a titolo risarcitorio per effetto di giudicato – Giudicato formatosi dopo l’informativa interdittiva antimafia – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato -in relazione alla massima importanza che riveste la questione, che può dar luogo anche a contrasti di giurisprudenza- se il comma 1, lett. g), dell’art. 67 del Codice delle leggi antimafia, approvato con d.lgs. 06.09.2011, n. 159 (secondo cui “le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”) osti a che, sia pur in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna resa dal giudice amministrativo (o da un qualsiasi altro giudice, di cui venga chiesta l’ottemperanza in un giudizio amministrativo), possano essere erogate da una Pubblica amministrazione somme di danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia stato attinto, prima della definizione del giudizio risarcitorio, da un’informativa interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la somma accertata come spettante (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la questione controversa involge almeno due questioni interpretative e cioè: a) se la previsione di cui al comma 1, lett. g), dell’art. 67, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia) possa essere intesa anche nel senso di precludere il versamento in favore dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto; b) se osti a tale prospettazione il generale principio dell’intangibilità della cosa giudicata.
Quanto al primo aspetto, la problematica risiede nel fatto che la previsione normativa espressamente richiama “altre erogazioni dello stesso tipo”, concetto generale, ed al tempo stesso generico, che non consente di stabilire con ragionevole certezza se vi rientri anche un credito di natura risarcitorio, definitivamente accertato in sede giurisdizionale.
Ha chiarito la Sezione che se da un lato un’interpretazione di carattere letterale (compatibile con il carattere evidentemente afflittivo della disposizione in esame) condurrebbe ad escludere che il risarcimento del danno presenti una eadem ratio rispetto “[ai] contributi, finanziamenti o mutui agevolati” richiamati nella stessa lett. g), d’altro lato un’interpretazione logico–sistematica (capace di valorizzare la funzione dalla norma e l’obiettivo con essa perseguito di contrasto a fenomeni di criminalità su base associativa) dovrebbe condurre a ritenere che il ‘catalogo’ delle ipotesi di cui alla lett. g) sia ‘aperto’ e che la locuzione “altre erogazioni dello stesso tipo”, lungi dal ‘chiudere’ l’elencazione, presenti piuttosto una valenza ‘pan-tipizzante’, volta ad impedire nella sostanza l’erogazione di qualunque utilità di fonte pubblica in favore dell’impresa in odore di condizionamento malavitoso, a prescindere dalla fonte e dal tipo di tale utilità.
La Sezione ha quindi richiamato le statuizioni rese dall’Adunanza plenaria, con la sentenza 05.06.2012, n. 19, con riferimento art. 4, d.lgs. 29.10.1994, n. 490 (coincidente con l’art. 67 del Codice delle leggi antimafia) ed ha concluso nel senso che le argomentazioni addotte dall’Alto consesso, al fine di estendere le portata preclusiva dell’art. 67 alle erogazioni avente matrice indennitaria, ben possono essere utilizzati per precludere le erogazioni pubbliche, ancorché aventi carattere risarcitorio.
Altro problema è poi se l’eventuale interpretazione “estensiva” dell’art. 67, volta cioè ad intendere le preclusioni ivi previste nel senso di impedire la concreta erogazione di somme a titolo risarcitorio, sia pure sulla base di un giudicato di condanna, siano di per sé compatibili con il generale principio dell’intangibilità della cosa giudicata e quindi se il giudicato formale, in qualsiasi modo formatosi, impedisca in ogni caso all’amministrazione di sottrarsi agli obblighi da esso nascente di corrispondere una somma di danaro a titolo risarcitorio ad un soggetto attinto da un’informativa interdittiva antimafia mai entrata nella dialettica processuale oppure se le finalità e la ratio dell’informativa interdittiva antimafia diano vita ad una situazione di incapacità legale ex lege (tendenzialmente temporanea e capace di venir meno con un successivo provvedimento dell’autorità prefettizia) che produca la corrispondente sospensione temporanea dell’obbligo per l’amministrazione di eseguire quel giudicato (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 28.08.2017 n. 4078 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISia l’art. 3, co. 3, della legge n. 241 del 1990 che la giurisprudenza, sul punto consolidata, ammettono l'uso della motivazione per relationem, con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi disponibili.
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Non sussiste la lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, atteso che, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241/1990, “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ebbene, nel caso di specie, gli esponenti non hanno allegato né tantomeno dimostrato quale apporto sarebbero stati in grado di fornire per indurre l’amministrazione ad una diversa determinazione, benché, per giurisprudenza consolidata, la norma su richiamata debba essere interpretata nel senso che “… si deve comunque porre previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l'amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta”.
Ciò, sempre sul presupposto che la ridetta norma, “nell'imporre al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
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6.3. Quanto al terzo e ultimo motivo, con cui si deduce, del tutto genericamente, la violazione della legge n. 241/1990 per difetto di motivazione, di contraddittorio ed omessa comunicazione di avvio, il Collegio osserva quanto segue.
L’ordinanza impugnata assume a proprio indefettibile presupposto -accanto alla riscontrata presenza in loco di scarichi irregolari, autorizzati in precario nel lontano 1966, da collegare alla fognatura comunale, da tempo realizzata nelle vicinanze-, la natura privata delle aree interessate dai progetti di fognatura, ivi incluso il tratto di strada denominata Via Frosinone e corrispondente ai tre numeri civici barrati, in precedenza indicati. Tale natura privata, come già accennato, si ricava dalla delibera del Consiglio comunale n. 15 del 09/04/2013, richiamata nelle premesse dell’ordinanza in parola.
E' appena il caso di ricordare, poi, che sia l’art. 3, co. 3, della legge n. 241 del 1990 che la giurisprudenza, sul punto consolidata, ammettono l'uso della motivazione per relationem, con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi disponibili.
Nel caso di specie, l’ordinanza del 2014 risulta adeguatamente motivata, mediante il richiamo alla delibera n. 15/2013, di cui peraltro è riportato il contenuto più significativo. Essa, poi, è stata resa disponibile, in quanto pubblicata all'Albo pretorio comunale sin dal 17/04/2013, ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, come ricavabile dalla già citata documentazione allegata dalla resistente.
In aggiunta, giova rammentare che, affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.985, n. 3761)…” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent. n. 728 del 14/02/2012; nonché, TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008, n. 1328, per cui: “… l'ubicazione della suddetta strada lascia agevolmente presumere che essa sia stata in realtà utilizzata dai soli comproprietari frontisti; utilizzo questo che, come è noto, non può ritenersi sufficiente a costituire una servitù di uso pubblico o addirittura a rendere pubblica la strada stessa”).
Neppure può dirsi sussistente la lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, atteso che, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241/1990, “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ebbene, nel caso di specie, gli esponenti non hanno allegato né tantomeno dimostrato quale apporto sarebbero stati in grado di fornire per indurre l’amministrazione ad una diversa determinazione, benché, per giurisprudenza consolidata, la norma su richiamata debba essere interpretata nel senso che “… si deve comunque porre previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l'amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta” (Cons. Stato Sez. III, 12.05.2017, n. 2218).
Ciò, sempre sul presupposto che la ridetta norma, “nell'imporre al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (Cons. Stato Sez. IV, 16.06.2017, n. 2953) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.08.2017 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici.

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6.3. Quanto al terzo e ultimo motivo, con cui si deduce, del tutto genericamente, la violazione della legge n. 241/1990 per difetto di motivazione, di contraddittorio ed omessa comunicazione di avvio, il Collegio osserva quanto segue.
L’ordinanza impugnata assume a proprio indefettibile presupposto -accanto alla riscontrata presenza in loco di scarichi irregolari, autorizzati in precario nel lontano 1966, da collegare alla fognatura comunale, da tempo realizzata nelle vicinanze-, la natura privata delle aree interessate dai progetti di fognatura, ivi incluso il tratto di strada denominata Via Frosinone e corrispondente ai tre numeri civici barrati, in precedenza indicati. Tale natura privata, come già accennato, si ricava dalla delibera del Consiglio comunale n. 15 del 09/04/2013, richiamata nelle premesse dell’ordinanza in parola.
E' appena il caso di ricordare, poi, che sia l’art. 3, co. 3, della legge n. 241 del 1990 che la giurisprudenza, sul punto consolidata, ammettono l'uso della motivazione per relationem, con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi disponibili.
Nel caso di specie, l’ordinanza del 2014 risulta adeguatamente motivata, mediante il richiamo alla delibera n. 15/2013, di cui peraltro è riportato il contenuto più significativo. Essa, poi, è stata resa disponibile, in quanto pubblicata all'Albo pretorio comunale sin dal 17/04/2013, ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, come ricavabile dalla già citata documentazione allegata dalla resistente.
In aggiunta, giova rammentare che, affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.985, n. 3761)…” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent. n. 728 del 14/02/2012; nonché, TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008, n. 1328, per cui: “… l'ubicazione della suddetta strada lascia agevolmente presumere che essa sia stata in realtà utilizzata dai soli comproprietari frontisti; utilizzo questo che, come è noto, non può ritenersi sufficiente a costituire una servitù di uso pubblico o addirittura a rendere pubblica la strada stessa”).
...
Il potere in concreto esercitato, qui, dall’Amministrazione si radica, oltreché nelle disposizioni di cui agli artt. 7 e ss. del Regolamento regionale 24/03/2006 n. 3 (sulla disciplina degli scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie), sulla cui applicazione non è svolta -nel ricorso in epigrafe– contestazione alcuna, nella previsione dell’art. 31, co. 21, della L. 23/12/1998, n. 448, secondo cui: “In sede di revisione catastale, è data facoltà agli enti locali, con proprio provvedimento, di disporre l'accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa acquisizione del consenso da parte degli attuali proprietari”.
L’accorpamento in parola richiede, come già detto, l’uso pubblico protratto da oltre vent’anni dell’area d’interesse. Al riguardo, gli istanti non allegano, se non in modo del tutto generico, ma comunque non dimostrato, che il tratto di strada prospiciente la loro rispettiva proprietà sia interessato da opere pubbliche che ne testimonino l’uso pubblico, mentre la specifica ubicazione e connotazione della suddetta porzione di strada, senza uscita, senza illuminazione e senza marciapiedi, ne lascia agevolmente presumere l’utilizzo da parte dei soli comproprietari frontisti (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008, n. 1328).
Ne consegue, in disparte l’inammissibilità per genericità, l’infondatezza anche di tale ultimo motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.08.2017 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' legittimo che il RUP, nell'aggiudicazione col criterio dell'offerta economica più vantaggiosa, ricopra il ruolo di Presidente del seggio di gara che è organo diverso dalla Commissione giudicatrice, alla quale sono affidati esclusivamente compiti di natura prettamente amministrativa, senza alcuna valutazione discrezionale.
Nell'ambito dell'articolata procedura di scelta del contraente con il sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa, giova ricordarlo, possono distinguersi le sottofasi della verifica della documentazione amministrativa prodotta dalle imprese, che hanno fatto domanda di partecipazione alla gara, della comunicazione dei punteggi assegnati dalla commissione giudicatrice alle offerte tecniche delle imprese concorrenti e dell'apertura delle buste contenenti le offerte economiche, della loro lettura e dell'attribuzione del relativo punteggio, che sono caratterizzate da un'attività priva di qualsiasi discrezionalità e ben possono essere svolte, sempre pubblicamente, anche dal seggio di gara in composizione monocratica (ivi compreso lo stesso responsabile unico del procedimento), dalla sottofase di valutazione delle offerte tecniche che deve essere svolta necessariamente da una commissione giudicatrice, e che si compendia nell'apprezzamento, massima espressione della discrezionalità tecnica, degli elementi tecnici delle singole offerte e nell'attribuzione dei relativi punteggi sulla base dei pesi e punteggi appositamente indicati.
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Il ricorso è infondato e va respinto.
In relazione al primo motivo di ricorso, come già precisato nella ricordata ordinanza cautelare, dagli atti di causa emerge che le operazioni di valutazione delle offerte tecniche –fase in cui l’Amministrazione esercita la propria discrezionalità– sono state svolte dalla Commissione giudicatrice, nella quale la dott.ssa As. non ha avuto alcun ruolo; diversamente, la suddetta –responsabile del procedimento in questione- ha ricoperto il ruolo di Presidente del seggio di gara, che però è organo diverso dalla Commissione giudicatrice ed al quale sono affidati esclusivamente compiti di natura prettamente amministrativa, senza alcuna valutazione discrezionale.
Sotto questo profilo, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “Nell'ambito dell'articolata procedura di scelta del contraente con il sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa, giova ricordarlo, possono distinguersi le sottofasi della verifica della documentazione amministrativa prodotta dalle imprese, che hanno fatto domanda di partecipazione alla gara, della comunicazione dei punteggi assegnati dalla commissione giudicatrice alle offerte tecniche delle imprese concorrenti e dell'apertura delle buste contenenti le offerte economiche, della loro lettura e dell'attribuzione del relativo punteggio, che sono caratterizzate da un'attività priva di qualsiasi discrezionalità e ben possono essere svolte, sempre pubblicamente, anche dal seggio di gara in composizione monocratica (ivi compreso lo stesso responsabile unico del procedimento), dalla sottofase di valutazione delle offerte tecniche che deve essere svolta necessariamente da una commissione giudicatrice, e che si compendia nell'apprezzamento, massima espressione della discrezionalità tecnica, degli elementi tecnici delle singole offerte e nell'attribuzione dei relativi punteggi sulla base dei pesi e punteggi appositamente indicati (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 5.11.2014, n. 5446)” (Consiglio di Stato, sez. III, 08.09.2015, n. 4190; medesime considerazioni sono espresse, da ultimo, da Consiglio di Stato, sez. II, 03.02.2017, n. 475; analoghi principi sulla diversità tra commissione giudicatrice e seggio di gara sono espressi da Consiglio di Stato, sez. VI, 03.07.2014, n. 3361; TAR Piemonte, sez. I, 20.01.2016, n. 75).
Pertanto, non sussiste la violazione dell’art. 77, comma 4, del D.Lgs. n. 50/2016, non sussistendo la denunciata incompatibilità della dott.ssa As..
Quanto alla censura relativa alla incompatibilità degli altri membri della commissione giudicatrice e del seggio di gara per essere intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale, si rileva che la doglianza è formulata in modo del tutto generico e non circostanziato e, come tale, è inammissibile.
Le censure di cui al primo motivo, dunque, non possono trovare accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 1074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il superamento del termine di cinque giorni per effettuare la comunicazione dell’aggiudicazione (già previsto dall’art. 79, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed ora dall’art. 76, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016) non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione, ma tutt'al più sulla decorrenza del termine per gravare in sede giurisdizionale l’aggiudicazione medesima.
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Anche il secondo motivo di ricorso è parimenti del tutto infondato.
Non può che richiamarsi, a tale proposito, quanto già esposto nell’ordinanza cautelare, dovendosi ribadire che il superamento del termine di cinque giorni per effettuare la comunicazione dell’aggiudicazione (già previsto dall’art. 79, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed ora dall’art. 76, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016) non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione, ma tutt'al più sulla decorrenza del termine per gravare in sede giurisdizionale l’aggiudicazione medesima (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. V, 07.06.2016, n. 2863; TAR Lombardia, Brescia, sez. II; 17.11.2015, n. 1527).
La censura, pertanto, è destituita di fondamento.
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.08.2017 n. 1074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa circostanza che la lex specialis non preveda un termine per l’invio della documentazione necessaria ai fini della stipula del contratto, tra cui quella comprovante la costituzione della cauzione definitiva, non impedisce all'amministrazione di imporre un termine perentorio per l'espletamento di tale adempimento: ciò risponde, invero, alla finalità di evitare che la fase provvisoria si protragga indefinitamente e ad assicurare il rispetto dell’obbligo, che grava sulle parti, di addivenire alla stipula del contratto, entro il termine previsto all’art. 32, c. 8, d.lgs. n. 50/2016.
Il responsabile unico del procedimento, nell’assegnare un termine perentorio per la produzione della documentazione necessaria per la stipula del contratto e, in particolare, per quanto rileva in questa sede, per l’invio della cauzione definitiva, non ha dunque modificato la lex specialis, non ha violato l’art. 11 del disciplinare di gara né il principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83, c. 8, d.lgs. n. 50/2016 e neppure l’art. 103, c. 3 del codice dei contratti.

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9. Ad avviso della ricorrente l’operato dell’amministrazione sarebbe illegittimo in quanto il rup avrebbe integrato la lex specialis di gara, inserendo previsioni perentorie e sanzioni decadenziali non previste negli atti di gara che si tradurrebbero, in sostanza, nell’introduzione di una nuova causa di esclusione.
In mancanza di previsioni nella lettera di invito e nel disciplinare che fissino termini di natura perentoria con sanzione decadenziale per la costituzione della cauzione definitiva, nonché in carenza della fissazione di un termine per la stipula del contratto cui la cauzione definitiva è preordinata –sostiene la ricorrente– il rup non poteva di sua iniziativa introdurre nuove disposizioni senza ledere il principio di affidamento dei concorrenti.
Laddove la stazione appaltante avesse ritenuto di dover innovare o modificare le previsioni di gara, essa avrebbe dovuto operare, in autotutela, attraverso l’istituto della revoca o dell’annullamento del disciplinare, che diversamente resterebbe immodificabile.
10. La censura è infondata.
Come si è già affermato in sede cautelare, la circostanza che la lex specialis non preveda un termine per l’invio della documentazione necessaria ai fini della stipula del contratto, tra cui quella comprovante la costituzione della cauzione definitiva, non impedisce all'amministrazione di imporre un termine perentorio per l'espletamento di tale adempimento: ciò risponde, invero, alla finalità di evitare che la fase provvisoria si protragga indefinitamente (TAR Lazio, sez. II-bis, 02.09.2005, n. 6527; TAR Liguria, sez. II, 19.02.2005, n. 266; TAR Campania, Napoli, sez. I, 20/07/2006, n. 7610; Cons. di St., V, 06.07.2002, n. 3718, secondo cui “la stazione appaltante, in effetti, pur in assenza di riferimenti specifici nella normativa di gara, ben poteva imporre, di suo, un termine perentorio per la produzione della documentazione in parola da parte dell’aggiudicataria provvisoria, anche per evitare che si protraesse indefinitamente la fase preliminare al perfezionamento della procedura e quindi all’operatività dell’affidamento del servizio, purché, sia chiaro, il termine fosse ragionevole e congruo”) e ad assicurare il rispetto dell’obbligo, che grava sulle parti, di addivenire alla stipula del contratto, entro il termine previsto all’art. 32, c. 8, d.lgs. n. 50/2016.
Il responsabile unico del procedimento, nell’assegnare un termine perentorio per la produzione della documentazione necessaria per la stipula del contratto e, in particolare, per quanto rileva in questa sede, per l’invio della cauzione definitiva, non ha dunque modificato la lex specialis, non ha violato l’art. 11 del disciplinare di gara né il principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83, c. 8, d.lgs. n. 50/2016 e neppure l’art. 103, c. 3 del codice dei contratti (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.08.2017 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI L'incameramento della cauzione nelle gare pubbliche di appalto costituisce conseguenza ex lege dell'esclusione per riscontrato difetto dei requisiti di partecipazione da parte del concorrente.
Il quantum della sanzione di incameramento non è modulabile; a qualsiasi tipologia di omissione/falsità consegue l'(integrale) escussione della cauzione.
Per consolidata giurisprudenza, nelle gare pubbliche di appalto l'incameramento della cauzione è una misura a carattere latamente sanzionatorio, che costituisce conseguenza ex lege dell'esclusione per riscontrato difetto dei requisiti da dichiarare ai sensi dell'art. 38 d.lgs. n. 163/2006, senza che sia necessaria la prova di colpa nella formazione delle dichiarazioni presentate.
Inoltre, la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero altera di per sé la gara, quantomeno per aggravio di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità promesse, con relative questioni derivate (come si è verificato nel caso di specie, con esigenze di ricalcolo e nuovo aggiudicatario).
L'escussione costituisce dunque conseguenza automatica della violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, considerato anche che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, si impegnano ad osservare le regole della procedura delle quali hanno piena contezza. Si tratta di una misura autonoma e ulteriore rispetto all'esclusione dalla gara ed alla segnalazione all'Autorità di vigilanza, che si riferisce, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dall'Amministrazione, a un distinto per quanto connesso rapporto giuridico fra quest'ultima e l'imprenditore.
In definitiva, l'incameramento della cauzione provvisoria è una misura di carattere strettamente patrimoniale, senza un carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio: non ha infatti né carattere reintegrativo o ripristinatorio di un ordine violato, né di punizione per un illecito amministrativo previsto a tutela di un interesse generale. Essa ha il suo titolo e la sua causa nella violazione di regole e doveri contrattuali già espressamente accettati negli stretti confronti dell'amministrazione appaltante. La lata funzione sanzionatoria che sopra si è detta, dunque, inerisce al solo rapporto che si è costituito inter partes con l'amministrazione appaltante per effetto della domanda di partecipazione alla gara.
Il "quantum" della sanzione di incameramento non è "modulabile"; a tipologia di omissione/falsità consegue l'(integrale) escussione della cauzione. Nel regime normativo attuale la norma (art. 75, c. 6°, Codice 163/2006), così come articolata, secondo la giurisprudenza dominante (per non dire granitica, salvo alcune pronunzie di primo grado) non lascia spazi interpretativi, non menzionando, con la formulazione prescelta, alcun in ordine all'elemento soggettivo, né "modulazioni" quantitative con applicazione di un potere riduttivo e/o individuazione di "tetti" massimi di applicazione in concreto.
Senza possibilità, sia per il Giudice sia per l'Amministrazione di effettuare una analisi della "specifica" tipologia di violazione e della sua conseguente lesività dell'ordinamento e del bene sottostante.
E senza poter considerare le varie "giustificazioni" (quali quelle prodotte in sede di soccorso istruttorio (valutate positivamente dalla P.A.), sicuramente inidonee a consentire l'ammissione in gara, ma che potrebbero rilevare, quanto meno, per la modulazione della sanzione pecuniaria accessoria (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 28.08.2017 n. 563 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La mancata presentazione della garanzia, entro il termine prestabilito, costituisce giusto motivo di revoca della aggiudicazione: ciò in quanto essa costituisce atto vincolato rispetto alla clausola del disciplinare di gara (l’art. 11), che prevede, tra i documenti da presentare a pena di esclusione, la costituzione della cauzione definitiva ed a quanto previsto dall’amministrazione con la nota del 24.11.2016, atto con cui l’amministrazione si è autovincolata a dare applicazione alla sanzione della perdita dell’aggiudicazione nel caso di mancato rispetto del termine assegnato.
Inoltre, ai sensi dell’art. 103, c. 3, d.lgs. n. 50/2016, “la mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1 determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione della cauzione provvisoria presentata in sede di offerta da parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria”.
L’amministrazione non era quindi onerata di motivare il provvedimento di revoca con sopravvenuti motivi di interesse pubblico né di concedere un nuovo termine per consentire alla ricorrente di produrre la documentazione mancante.

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La fissazione di un termine perentorio per l’invio della documentazione necessaria ai fini della stipula del contratto è da ritenersi consentita anche in assenza di una previsione della lex specialis.
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11. La ricorrente ha contestato, poi, che il rup non avrebbe potuto disporre la revoca di atti adottati dalla commissione.
Anche questa doglianza non è fondata. Le operazioni di gara sono invero state condotte dal rup il quale ha parimenti disposto l’aggiudicazione provvisoria revocata con i provvedimenti impugnati: il principio del contrarius actus è stato dunque rispettato.
12. Il comportamento tenuto dall’amministrazione non può poi ritenersi in contrasto con i principi di leale collaborazione e di proporzionalità.
Non sono stati dedotti, invero, elementi che consentano di affermare l’irragionevolezza del termine di 10 giorni assegnato dal rup.
L’amministrazione ha utilizzato l’espressione “giorni naturali e consecutivi”, intendendo così ricomprendere nel termine anche i giorni festivi: deve, pertanto, escludersi, nel caso di specie, l’operatività della proroga automatica della scadenza del termine al successivo giorno non festivo. In ogni caso, nonostante il termine fosse scaduto nella giornata del 4 dicembre, l’amministrazione ha, altresì, sollecitato l’invio della documentazione, nella giornata del 05.12.2016.
La ricorrente, peraltro, non ha rappresentato all’amministrazione alcuna difficoltà nella costituzione della cauzione definitiva o nella trasmissione della relativa documentazione, né ha domandato una proroga del termine: con la nota inviata in data 28.11.2016 si è difatti limitata ad affermare che la documentazione, relativa alla cauzione definitiva, era mancante, che era in corso di predisposizione da parte dell’assicurazione e che sarebbe stata inviata al più presto (doc. n. 6 della ricorrente).
13. La circostanza che la cauzione sia stata costituita nella giornata del 05.12.2016 non può inficiare la legittimità del provvedimento impugnato proprio perché di tale circostanza l’amministrazione non era stata informata da parte della ricorrente.
Al momento dell’adozione del provvedimento di revoca, il termine concesso era, invero, ormai scaduto senza che l’amministrazione avesse ricevuto la documentazione richiesta e senza che potesse sapere che la cauzione era stata costituita nella giornata del 5 dicembre.
Né va a inficiare la legittimità del provvedimento impugnato una circostanza sopravvenuta quale è l’invio, da parte della ricorrente, in un momento successivo alla ricezione dell’atto di revoca, della documentazione richiesta.
Del resto, ove si attribuisse rilievo al sostanziale adempimento, da parte della ricorrente, a quanto previsto dalla legge di gara, la legittimità di un provvedimento amministrativo verrebbe inficiata da fatti legittimamente ignorati dall’amministrazione in quanto portati a sua conoscenza solo in un momento successivo all’adozione dell’atto.
14. Il provvedimento di revoca è, pertanto, adeguatamente motivato con il richiamo alla violazione di un termine perentorio assegnato dall’amministrazione e all’inerzia della ricorrente.
La mancata presentazione della garanzia, entro il termine prestabilito, costituisce, infatti, giusto motivo di revoca della aggiudicazione: ciò in quanto essa costituisce atto vincolato rispetto alla clausola del disciplinare di gara (l’art. 11), che prevede, tra i documenti da presentare a pena di esclusione, la costituzione della cauzione definitiva (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.04.2010, n. 2199; sez. VI, 25.01.2008; sez. V, 21.04.2006, n. 2267) ed a quanto previsto dall’amministrazione con la nota del 24.11.2016, atto con cui l’amministrazione si è autovincolata a dare applicazione alla sanzione della perdita dell’aggiudicazione nel caso di mancato rispetto del termine assegnato.
Inoltre, ai sensi dell’art. 103, c. 3, d.lgs. n. 50/2016, “la mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1 determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione della cauzione provvisoria presentata in sede di offerta da parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria”.
L’amministrazione non era quindi onerata di motivare il provvedimento di revoca con sopravvenuti motivi di interesse pubblico né di concedere un nuovo termine per consentire alla ricorrente di produrre la documentazione mancante.
15. La ricorrente ha dedotto, infine, l’illegittimità della previsione del disciplinare di gara che all’art. 11 subordina l’aggiudicazione definitiva alla costituzione della cauzione definitiva, pena l’esclusione dalla gara.
La costituzione della cauzione definitiva, in vista della stipula del contratto, sostiene la ricorrente, si colloca naturalmente dopo che l’aggiudicazione definitiva è divenuta efficace: non avrebbe alcun senso, per il privato, richiedere (sostenendo i relativi oneri economici), e per il soggetto assicuratore rilasciare, una garanzia rispetto all’aggiudicazione di un appalto non certa e non ancora efficace.
La censura è inammissibile per carenza di interesse.
La lesione lamentata con il presente ricorso non è, invero, legata al momento in cui è stata chiesta la costituzione della garanzia, rispetto al perfezionamento dell’aggiudicazione, ma al fatto che la garanzia sia stata tardivamente trasmessa all’amministrazione.
Inoltre, come si è affermato al punto 10, la fissazione di un termine perentorio per l’invio della documentazione necessaria ai fini della stipula del contratto è da ritenersi consentita anche in assenza di una previsione della lex specialis.
16. Per le ragioni esposte il ricorso principale è infondato e va respinto. Ne consegue anche il rigetto dell'istanza risarcitoria.
17. Parimenti infondato è il ricorso per motivi aggiunti con cui sono dedotte unicamente censure di illegittimità derivata dai vizi dedotti con il ricorso principale avverso l’atto di revoca dell’aggiudicazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.08.2017 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d’appalto.
Va ribadito che, in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d’appalto:
   - ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, cod. proc. amm., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto;
   - in particolare spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.);
   - quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, cod. civ. (e specificato per il risarcimento dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, cod. proc. amm.);
   - la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., in combinato con l'art. 2056 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   - la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729 cod. civ. queste devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
   - va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale sopra indicata;
   - anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui illegittima aggiudicazione.

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Ne deriva che la tesi della ricorrente è destituita di fondamento e ciò esclude l’antigiuridicità del danno lamentato, atteso che nel caso di specie è del tutto infondata la pretesa illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, nei termini prospettati dalla ricorrente.
La mancata dimostrazione di uno degli elementi costitutivi della responsabilità risarcitoria dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2043 e seg. c.c., rende infondata la domanda di condanna.
In via di ulteriore precisazione, vale evidenziare che, in ogni caso, la ricorrente, non ha dimostrato né l’effettiva sussistenza del danno lamentato, né supportato sul piano probatorio la sua quantificazione, limitandosi a mere ed astratte allegazioni, sicché anche da quest’ultimo punto di vista la domanda risarcitoria risulta infondata e da respingere.
Sul punto e in coerenza con la giurisprudenza consolidata, va ribadito che, in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d’appalto (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2017, n. 2184; Consiglio di Stato, sez. IV, 23.05.2016, n. 2111; Consiglio di Stato, sez. V, 21.07.2015, n. 3605):
   - ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, cod. proc. amm., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto;
   - in particolare spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.);
   - quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, cod. civ. (e specificato per il risarcimento dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, cod. proc. amm.);
   - la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., in combinato con l'art. 2056 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   - la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729 cod. civ. queste devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
   - va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale sopra indicata;
   - anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui illegittima aggiudicazione.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha provato quale sarebbe stato l'effettivo margine di utile non conseguito per effetto dell'asserito illegittimo affidamento, né tanto meno se vi sia stato un danno concreto risarcibile; né ha fornito parametri di quantificazione sufficienti a soddisfare l’onere della prova su di lei gravante.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.08.2017 n. 1760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esercizio della "prospectio" ed "inspectio" - Distanze legale - Violazione - Fattispecie: aperture di porte a meno di 1.5 metri.
In tema di limitazioni legali della proprietà, con particolare riferimento alle scale, ai ballatoi e alle porte, che fondamentalmente sono destinati all'accesso dell'edificio, e soltanto occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili per l'affaccio, possono configurare vedute quando -indipendentemente dalla funzione primaria del manufatto- risulti obiettivamente possibile, in via normale, per le particolari situazioni o caratteristiche di fatto, anche l'esercizio della "prospectio" ed "inspectio" su o verso il fondo del vicino (Cass. n. 499 del 2006 e Cass. 16.03.1981 n. 1451).
Fattispecie, realizzazione di un'apertura al fine di installare una porta a meno di 1.5 metri dal confine di un altro fondo, e conseguentemente possibili violazioni di "prospectio" e “inspectio".
Realizzazione di opere abusive - Richiesta di riduzione in pristino - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Legittimazione dei titolari del fondo finitimo - Giurisprudenza.
In tema di realizzazione di opere abusive da parte dei proprietari di un fondo, i titolari del fondo finitimo sono legittimati alla richiesta di riduzione in pristino sempre che possano, in concreto, lamentare la violazione di un diritto soggettivo loro spettante, la prova della cui esistenza spetta, comunque, ai soggetti asseritamente lesi (v. Cass. n. 104 38 del 1998) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 22.08.2017 n. 20273 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'appaltatore deve rispettare le regole dell'arte ed è responsabile degli errori di progettazione e direzione dei lavori. L'esecutore deve correggere anche gli errori del progettista.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l'ordinanza 21.08.2017 n. 20214 ha evidenziato che "L'appaltatore non è un mero esecutore e anche se realizza un progetto altrui deve tener presenti le regole della propria attività, superando anche l'ingerenza del committente. L'appaltatore è responsabile e deve tenere sempre presente le regole dell'arte".
La questione. La vicenda oggetto del giudizio trae origine dal contratto di appalto col quale la società committente Alfa aveva affidato alla società Beta i lavori di costruzione di un immobile.
I committenti proposero opposizione ai decreti ingiuntivi con i quali venne loro intimato il pagamento di corrispettivi in favore della società Beta, eccependo vizi delle opere eseguite e ritardi nella consegna, per i quali chiesero la condanna della Beta al risarcimento del danno.
Nel merito, a parere dei giudici, sussisteva un "concorso di colpa" tra committente ed appaltatore in ordine ai vizi delle opere eseguite per il fatto che tali vizi «dipendevano anche dalla direzione dei lavori e/o da scelte della committenza».
Per tali motivi venne pronunciata condanna dei committenti a corrispondere all'appaltatrice società la somma di euro 181.626,18. Avverso tale pronuncia la società Alfa ha proposto ricorso in cassazione.
Il ragionamento della Corte di Cassazione. Contrariamente al ragionamento della Corte territoriale, i giudici di legittimità hanno evidenziato che l'appaltatore, anche quando sia chiamato a realizzare un progetto altrui, è sempre tenuto a rispettare le regole dell'arte ed è soggetto a responsabilità anche in caso di ingerenza del committente, cosicché la responsabilità dell'appaltatore, con il conseguente obbligo risarcitorio, non viene meno neppure in caso di vizi imputabili ad errori di progettazione o direzione dei lavori, ove egli, accortosi del vizio, non lo abbia tempestivamente denunziato al committente manifestando formalmente il proprio dissenso, ovvero non abbia rilevato i vizi pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso concreto (Cass., Sez. 2, n. 8813 del 30/05/2003; Sez. 2, n. 8016 del 21/05/2012; Sez. 2, n. 23665 del 21/11/2016; Sez. 2, n. 1981 del 02/02/2016).
In conclusione, se quindi non vi è un'assoluta sovrapposizione del committente, la prestazione dovuta dall'appaltatore implica anche controllo e correzione degli eventuali errori di progetto (Cassazione, n. 6088/2000).
Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale derivante dalla sua obbligazione di risultato, a fornire un'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza invocare il concorso di colpa di progettista o committente. E neppure errori nelle istruzioni del direttore dei lavori lo esimono da responsabilità, essendo egli tenuto a controllarli e correggerli, secondo diligenza e perizia e dovendo sempre uniformarsi alle regole tecniche (Cassazione, n. 2214/1975).
Difatti Le regole dell'arte (patrimonio anche di un'impresa meramente esecutrice) possono contrapporsi all'obbligo di eseguire fedelmente un progetto palesemente incongruo.
E l'incongruità va fatta presente a committente (specie se estraneo al settore edile), progettista e direttore dei lavori, manifestando dissenso (scritto o dimostrabile con testimoni) prima di procedere all'esecuzione.
Altrimenti l'appaltatore è corresponsabile dei danni, nella misura in cui è stato negligente nel non accorgersi dei problemi posti dal progetto.
In virtù di tutto quanto innanzi esposto, la Corte ha accolto il ricorso; per l'effetto ha cassato la sentenza con rinvio ad altra Corte di Appello in merito alle responsabilità dell'appaltatore (commento tratto da www.condominioweb.com).
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MASSIMA
- il quarto motivo (proposto ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione alla quantificazione dei vizi esistenti nelle opere eseguite e alla considerazione della maggiori opere realizzate) è fondato, avendo erroneamente la Corte territoriale ritenuto la sussistenza di un "concorso di colpa" tra committente ed appaltatore in ordine ai vizi delle opere eseguite per il fatto che tali vizi «dipendono anche dalla direzione dei lavori e/o da scelte della committenza» (p. 14 della sentenza impugnata), dovendo al contrario ritenersi -secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi- che
l'appaltatore, anche quando sia chiamato a realizzare un progetto altrui, è sempre tenuto a rispettare le regole dell'arte ed è soggetto a responsabilità anche in caso di ingerenza del committente, cosicché la responsabilità dell'appaltatore, con il conseguente obbligo risarcitorio, non viene meno neppure in caso di vizi imputabili ad errori di progettazione o direzione dei lavori, ove egli, accortosi del vizio, non lo abbia tempestivamente denunziato al committente manifestando formalmente il proprio dissenso, ovvero non abbia rilevato i vizi pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso concreto (Cass., Sez. 2, n. 8813 del 30/05/2003; Sez. 2, n. 8016 del 21/05/2012; Sez. 2, n. 23665 del 21/11/2016; Sez. 2, n. 1981 del 02/02/2016) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.08.2017 n. 20214).

APPALTI SERVIZI: Sui presupposti che devono sussistere affinché possa dirsi concretato il requisito dell'attività prevalente, c.d."secondo requisito Teckal", in materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici in house.
E' illegittimo l'affidamento diretto del servizio del ciclo integrato dei rifiuti urbani disposto dal comune ad una società a partecipazione integralmente pubblica, di cui il suddetto comune detiene circa il 16 per cento del capitale, dal momento che l'anzidetta società non risulta legata all'ente locale da un genuino rapporto di delegazione interorganica, essendo carente del requisito dell'attività prevalente, non essendo computabile a tali fini la rilevante quota di attività svolta dalla società in house in favore di enti pubblici non soci, sia pure sulla base di un atto avente valenza pubblicistica, quale l'AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) regionale.
In materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici detti "in house", infatti, ai fini del riconoscimento del requisito della prevalenza, il c.d."secondo requisito Teckal"', rileva la quota di attività svolta in favore degli enti controllanti, e non assume rilievo il fatto che le ulteriori attività rivolte in favore di altri enti o organismi siano imposte in base a determinazioni di carattere autoritativo e siano dunque sottratte al circuito concorrenziale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.08.2017 n. 4030 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In tema di veicoli fuori uso e sulla natura di rifiuto pericoloso degli stessi.
Affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso, è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose, perché altrimenti esso rientra nella categoria classificata con il codice CER 16.01.06.
Invero,
«
in tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti pericolose».
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1. Il ricorso è inammissibile.
Va preliminarmente richiamato, con riferimento ai due motivi di ricorso, che possono essere unitariamente esaminati, quanto affermato in una pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 11030 del 05/02/2015, Andreoni, Rv. 26324801) in tema di veicoli fuori uso e sulla natura di rifiuto pericoloso degli stessi.
Nella decisione appena richiamata, premesse alcune considerazioni, cui si rinvia, sulla natura di rifiuto dei veicoli fuori uso, che non è oggetto di contestazione nel presente procedimento, si ricordava quanto segue sulla classificazione di tali veicoli come rifiuto pericoloso.
2. Il previgente d.lgs. 22/1997 classificava anch'esso, all'art. 7, i rifiuti in pericolosi e non pericolosi, individuando questi ultimi, al comma 4, come «i rifiuti non domestici precisati nell'elenco di cui all'allegato D sulla base degli allegati G, H ed l». Il medesimo articolo individuava, al comma 1, lett. I), tra i rifiuti speciali, i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti.
Il quarto comma dell'art. 184 d.lgs. 152/2006, attualmente specifica che: «sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all'allegato I della Parte Quarta del presente decreto». Anch'esso individuava, in precedenza, tra i rifiuti speciali, al comma 3, lettera I) «i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti» (il periodo è stato poi soppresso con l'intervento correttivo ad opera del d.lgs. 205/2010)
Inoltre il comma 5 del medesimo articolo chiarisce ora, dopo plurime modifiche, che l'elenco dei rifiuti di cui all'allegato D alla parte quarta include i rifiuti pericolosi e tiene conto della loro origine e composizione e, quando necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose.
L'allegato D individua con il codice CER 16 01 04* e, quindi, quali rifiuti pericolosi, i veicoli fuori uso in generale e, con il codice CER 16 01 06, i veicoli fuori uso, non contenenti liquidi né altre componenti pericolose, che sono dunque rifiuti non pericolosi (analoga classificazione era prevista sotto la vigenza del d.lgs. 22/1997).
Ciò posto, va rilevato come tale classificazione risulti invariata anche nel nuovo Catalogo Europeo dei Rifiuti, di cui alla Decisione 2014/955/Ue cui deve farsi riferimento dal 01.06.2015.
Sempre nella sentenza "Andreoni" si ricordava come questa Corte avesse già avuto modo di precisare che,
affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso, è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose, perché altrimenti esso rientra nella categoria classificata con il codice CER 16.01.06 (Sez. 3, n. 29973 del 21/06/2011, Rigotti, Rv. 251020. V. anche Sez. 3, n. 30554 del 15/07/2011, Nobile, Rv. 251259).
Si riteneva, inoltre, di formulare alcune precisazioni, osservando come
sia evidente che un veicolo funzionante contenga una serie di elementi e sostanze che ne consentono la normale utilizzazione e che sono normalmente riconducibili nel novero dei liquidi e delle componenti cui il catalogo dei rifiuti attribuisce rilievo ai fini della classificazione del veicolo fuori uso come rifiuto pericoloso (es. combustibile, batteria, olio motore, sospensioni idrauliche, olio dell'impianto frenante, liquidi refrigeranti o antigelo, detergenti per i cristalli, alcune parti dell'impianto elettrico o del motore).
Tali componenti, ai aggiungeva, normalmente presenti in tutti i veicoli marcianti, richiedono, per essere rimossi, operazioni oggettivamente complesse, le quali comportano non soltanto la previa selezione dei singoli elementi da eliminare, ma anche la disponibilità di particolari attrezzature per lo smontaggio. Si tratta, inoltre, di attività che, per essere eseguite, richiedono una minima competenza tecnica ed il rispetto di specifiche norme di sicurezza o, quanto meno, di una certa prudenza al fine di evitare danni alle persone o alle cose.

Tali interventi di «bonifica», veniva anche precisato, risultano, peraltro, ancor più complessi quando le condizioni del veicolo, a causa di precedenti eventi, come, ad esempio, nel caso di danni ingenti alla carrozzeria a seguito di sinistro stradale, rendono meno agevole le operazioni di movimentazione e di smontaggio delle singole componenti. Inoltre, una volta rimossi, i liquidi e le componenti non più utilizzabili vanno pure trattati come rifiuti e sono, pertanto, soggetti alla disciplina prevista per la loro gestione, cosicché attività quali, ad esempio, il deposito, il trasporto o lo smaltimento richiedono specifici titoli abilitativi e dovrebbero risultare comunque tracciabili perché documentate.
Si chiariva quindi
come fosse evidente che le effettive modalità di conservazione del veicolo e la presenza o meno dei mezzi necessari per l'espletamento delle attività di cui si è appena detto costituiscano dati obiettivi di valutazione e che l'esclusione dal novero dei rifiuti pericolosi dei veicoli fuori uso non può essere presunto, essendo al contrario pacifico che un veicolo non sottoposto ad alcun preventivo trattamento volto ad eliminarne i liquidi e le componenti pericolose li contenga ancora, considerando la complessità delle operazioni di rimozione.
Si perveniva conseguentemente all'affermazione del principio secondo il quale «
in tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti pericolose».
3. Tale principio è pienamente condiviso dal Collegio, che intende darvi continuità, osservando come dello stesso abbia fatto buon uso la Corte territoriale nel caso in esame, la quale, nel motivare la propria decisione, cita espressamente la sentenza "Andreoni", dando conto degli specifici dati fattuali che hanno indotto a ritenere il rifiuto trasportato come pericoloso.
In particolare, i giudici del gravame hanno valorizzato i contenuti del verbale di accertamenti urgenti, quelli delle foto scattate dagli accertatori e versate in atti e le dichiarazioni testimoniali, rilevando come, seppure non potesse ritenersi accertata la presenza nel relitto di olio motore, risultavano comunque presenti la batteria, il liquido dei freni ed il liquido refrigerante.
Si tratta, a ben vedere, di valutazioni di merito che non presentano alcun cedimento logico o manifesta contraddizione e risultano perfettamente allineate al richiamato principio di diritto.
Ciò che rileva, infatti, sulla base del richiamato principio, è il fatto che il veicolo fuori uso non sia stato sottoposto ad alcuna attività di bonifica, attività particolarmente complessa già se effettuata su un veicolo in condizioni normali e di ancor più difficile esecuzione, se non mediante particolari mezzi ed accorgimenti, nei veicoli gravemente incidentati, dove le parti meccaniche o l'intero veicolo risultano deformate o gravemente danneggiate.
4. A fronte di ciò, il ricorrente si limita a contestare l'esito degli accertamenti in fatto operati nel giudizio di merito, con riferimenti privi di pregio sulla necessità di accertamenti tecnici specifici che, come si è appena detto, la giurisprudenza di questa Corte ha espressamente escluso, ovvero con affermazioni, quale quella sulle possibili infiltrazioni di acque meteoriche, che restano confinate nell'ambito delle mere supposizioni.
Al contrario, è lo stesso ricorrente che ammette la totale assenza di interventi di bonifica sul veicolo fuori uso prima del suo trasporto, laddove il ricorso, proprio per accreditare la tesi dell'infiltrazione di acque di cui si è appena detto, specifica che il relitto era semplicemente rimasto all'aperto sul piazzale antistante l'abitazione dell'imputato (pag. 2 del ricorso).
5. Va altresì rilevato come il ricorrente, pur menzionando la giurisprudenza di questa Corte ed, in particolare, la più volte citata sentenza "Andreoni", si sofferma sui contenuti di altra pronuncia (n. 30554/2011, cit.) al fine di accreditare la propria tesi difensiva, senza tuttavia tenere conto del fatto che proprio nella pronuncia del 2015 si era espressamente chiarito che, avuto riguardo ai contenuti della motivazione, la sentenza n. 30544/2011, così come la precedente n. 29973/2011, non si pongono affatto in contrasto con il principio affermato, riguardando fattispecie sostanzialmente diverse.
In particolare, dai contenuti della sentenza 30544/2011 emergeva che i veicoli risultavano essere stati sottoposti comunque ad un preventivo trattamento, circostanza invece non verificatasi, come si è detto, nel caso in esame, dove i giudici del merito hanno accertato la natura di rifiuto pericoloso del relitto abusivamente trasportato con argomentazioni coerenti, giuridicamente corrette e relative a circostanze di fatto compiutamente accertate ed evidenzianti la piena sussistenza del reato contestato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38949).

APPALTI: Scelta del criterio del prezzo più basso per selezionare la migliore offerta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor prezzo – Scelta di tale criterio per selezionale l’offerta - Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 – Condizione.
Ai sensi dell’art. 95, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la scelta del criterio più adeguato da adottare per l’affidamento di un appalto è effettuata discrezionalmente dalla Stazione appaltante in relazione alle caratteristiche dell’oggetto del contratto; in particolare, tale criterio può essere utilizzato quando le caratteristiche della prestazione da eseguire sono già ben definite dalla Stazione appaltante nel capitolato d’oneri, in cui sono previsti tutti gli aspetti e le condizioni della prestazione, con la conseguenza che il concorrente deve solo offrire un prezzo.
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MASSIMA
Con il primo motivo di gravame, la società ricorrente censura il criterio del prezzo più basso scelto dalla stazione appaltante per l’aggiudicazione della gara.
Il motivo oltre che tardivo e anche infondato.
Recita l’art. 95 del D.Lgs. n. 50/2016: “1. I criteri di aggiudicazione non conferiscono alla stazione appaltante un potere di scelta illimitata dell'offerta. Essi garantiscono la possibilità di una concorrenza effettiva e sono accompagnati da specifiche che consentono l'efficace verifica delle informazioni fornite dagli offerenti al fine di valutare il grado di soddisfacimento dei criteri di aggiudicazione delle offerte. Le stazioni appaltanti verificano l'accuratezza delle informazioni e delle prove fornite dagli offerenti.
2. Fatte salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici, le stazioni appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita, conformemente all'articolo 96.
3. Sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo:
   a) i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi ad alta intensità di manodopera, come definiti all'articolo 50, comma 1;
   b) i contratti relativi all'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo superiore a 40.000 euro;
4. Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo:
   a) per i lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro, tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è garantita dall'obbligo che la procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo;
   b) per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato;
   c) per i servizi e le forniture di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo
” (… omissis ….).
Osserva il Collegio, che
la scelta del criterio più adeguato da adottare è effettuata discrezionalmente dalla Stazione appaltante in relazione alle caratteristiche dell’oggetto del contratto.
Il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso può essere utilizzato, in particolare, quando le caratteristiche della prestazione da eseguire sono già ben definite dalla Stazione appaltante nel capitolato d’oneri, in cui sono previste tutte le caratteristiche e condizioni della prestazione pertanto il concorrente deve solo offrire un prezzo.

Nel caso di specie, la stazione appaltante ha ben individuato nel capitolato l’oggetto della gara senza lasciare agli operatori margini di definizione dell’offerta.
La censura, pertanto, è destituita di giuridico fondamento.
Per giunta, il criterio prescelto non ha impedito alla ricorrente di formulare una congrua e competitiva offerta.
Sotto questo profilo,
se il divisato criterio fosse stato ritenuto inadeguato, tale cioè da pregiudicare la formulazione di una offerta seria, allora la ricorrente si sarebbe dovuta onerare di impugnare la clausola di bando tempestivamente, nel termine decadenziale di trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione del bando.
A ben considerare, infatti, la ricorrente censura il criterio di valutazione dell’offerta (metodo di aggiudicazione) perché ritenuto da essa incongruo, dunque fonte d´incertezza e di imprevedibili effetti distorsivi sul contenuto dell´offerta. In relazione a tale prospettiva censoria, sussisteva in capo alla ricorrente l´onere di immediata impugnazione in parte qua del bando di gara, stante l’emersione di una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale per effetto del contenuto del bando.
Il successivo atto della procedura (valutazione delle offerte in base al criterio di aggiudicazione fissato nel bando) si è posto come meramente applicativo di una lesione già prodotta (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 04.03.2011 n. 1380 e 21.02.2011 n. 1071 e sez. VI, 24.02.2011 n. 1166; ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 07.09.2001 n. 4679).
Il primo motivo è dunque infondato e anche inammissibile (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 07.08.2017 n. 9249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALISecondo un ampio indirizzo giurisprudenziale, da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi, i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal termine “utili”, contenuto nell’articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso.
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5. Nel merito, il ricorso è fondato, alla stregua della motivazione che segue.
5.1. Il contenuto del diritto d’accesso, ai sensi dell’art. 22, n. 1, lett. a), della legge 07.08.1990, n. 241, si estende alla estrazione di copia di documenti amministrativi. Non è in contestazione che l’istanza del deducente, all’esito della sua successiva integrazione, indichi puntualmente gli atti richiesti, né che questi ultimi siano sussumibili nell’alveo della definizione di documento amministrativo di cui alla lett. d) del medesimo art. 22.
Del pari, differentemente da quanto opinato dal Comune resistente, la nota del 28.02.2017 è netta nel negare l’estrazione di copia, come pianamente risulta, tra l’altro, dalle considerazioni secondo cui: «[…] non può non comprendersi che una simile richiesta rischierebbe di paralizzare l’intero ufficio con gravi ripercussioni sull’attività amministrativa […] Né può sottacersi che l’eventuale accoglimento di tale richiesta di accesso, eccessivamente gravosa per il Comune, costituirebbe un precedente che in seguito obbligherebbe –per non contravvenire al principio di imparzialità– a soddisfare richieste simili, che verosimilmente verrebbero formulate da altri consiglieri».
5.2. Orbene, secondo un ampio indirizzo giurisprudenziale, da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi, i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Ne consegue, per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere comunale, e, per altro verso, che dal termine “utili”, contenuto nell’articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le informazioni utili all’espletamento delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (in termini, Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4525, e i riferimenti giurisprudenziali ivi citati).
5.3. A ben vedere, poi, né il regolamento di accesso alla documentazione amministrativa adottato dal Comune di Marsicovetere, né il regolamento del Consiglio comunale, cui il primo demanda, entrambi reperibili nel sito internet dell’Ente, prescrivono limitazioni, oggettive o modali, ai fini dell’esercizio dell’accesso in questione.
5.4. L’ampio spettro del diritto di accesso dei consiglieri comunali muove dunque nel senso dell’illegittimità dell’impugnato diniego, con conseguente accoglimento del ricorso, ferma restando la necessità di contemperare il diritto di accesso con il regolare funzionamento degli uffici comunali, concedendo a questi ultimi adeguato tempo per l’apprestamento delle copie richieste, e ripartendo i relativi costi secondo il quadro disciplinare di riferimento.
6. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento dell’impugnata nota del 28.02.2017 e l’ordine al Comune di Marsicovetere di consegnare al ricorrente copia della documentazione richiesta, nel termine di sessanta giorni dalla presente decisione, con avvertimento che, in caso di ulteriore inadempienza, su istanza di parte si provvederà alla nomina di un commissario ad acta per l’adozione dei provvedimenti necessari in via sostitutiva.
7. Sussistono giusti motivi, in ragione delle peculiarità della questione, per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. Ai sensi dell’art. 13, n. 6-bis 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, l’importo del contributo unificato è posto a carico dell’Ente comunale intimato (TAR Basilicata, sentenza 03.08.2017 n. 564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di una canna fumaria in zona paesaggistica - Atti antecedenti e successivi - Collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio o una corte interna - CONDOMINIO - Art. 11 del DPR n. 380/2001 - Artt. 21, c. 4, 143 e 146 del d.lgs. n. 42/2004.
La collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio o una corte interna), può essere effettuata anche senza il consenso degli altri condomini, purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Il singolo condomino ha quindi titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio consenso, a ottenere la concessione edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale comune, che si attenga ai limiti suddetti (si veda Tar Toscana 28/10/2015 n.147).
ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni sgradevoli o nocive - Canna fumaria - Interpretazione funzionale della norma - CODICE DELL'AMBIENTE - Norma UNI 7129 e UNI 10683 e all’allegato IX alla parte V del d.lgs n. 152/2006.
In tema di emissioni, la ratio della norma (UNI 7129 e UNI 10683 e all’allegato IX alla parte V del d.lgs n. 152 del 2006) in cui si prescrive che “le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di 10 metri” è quella di evitare immissioni sgradevoli o nocive rispetto ad altri condomini (Cons. Stato sez. IV, 25/10/2016, n. 4458).
Di conseguenza, tali limitazioni vanno interpretate in modo funzionale, per evitare risultati paradossali in quanto, ad esempio, applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell'edificio vicino si dovesse pretendere un'altezza superiore a quella anche del più alto grattacielo confinante (Tar Lazio Roma 21/12/2016 n. 12712, Cons. Stato, V, 05/01/2015 n. 1) (TAR Marche, sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, la collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio o una corte interna), può essere effettuata anche senza il consenso degli altri condomini, purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità. Il singolo condomino ha quindi titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio consenso, a ottenere la concessione edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale comune, che si attenga ai limiti suddetti.
La possibilità di installare la canna fumaria non è impedita dalla circostanza che il titolare dell’autorizzazione commerciale sia, come appare incontestato in atti, locatario dell’immobile (infatti, l’istanza di installazione della canna fumaria è stata presentata congiuntamente con il proprietario). Ancora, l’affermata assenza della proprietà indivisa della corte condominiale è una mera illazione che scaturisce dalla non esplicita menzione di quest’ultima nel contratto di compravendita dell’immobile e dalla circostanza che il medesimo contratto riporterebbe che la proprietà confina con i cortile condominiale.
Si tratta, in tutta evidenza, di circostanze che non sono sufficienti a superare la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. per cui non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà delle parti comuni, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè il collegamento strumentale, materiale o funzionale con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale. Al contrario spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva (o, come nel caso in esame, l’assenza di comunione in una singola proprietà) fornirne prova. Tale prova non è fornita dal ricorrente.

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... per l'annullamento:
   - del provvedimento adottato dal SUAP del Comune di Senigallia prot. 78612 del 28.12.2015 avente ad oggetto l'attività di installazione in cortile condominiale di canna fumaria a servizio dell'attività commerciale di ristorazione nonché del parere favorevole condizionato rilasciato dall'Ufficio Sviluppo Urbano Sostenibile del Comune di Senigallia del 04.06.2015;
   - di tutti gli atti antecedenti e successivi, comunque finalizzati a consentire l'installazione della canna fumaria ivi compresi:
      a) il parere ASUR 101806/15 laddove si ritenga che consenta l’intervento anzidetto nonché l'autorizzazione 13481 del 26.11.2015;
      b) l'autorizzazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche nr. 13481 del 26.11.2015, la nota del Segretariato Regionale del MBAC 5408 del 23.12.2015 e la deliberazione della Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale nr. 210/15 di reiezione della richiesta di annullamento della predetta autorizzazione;
...
1.1 Il ricorso è però infondato nel merito. Le ragioni su cui si fonda l’impugnata autorizzazione, espresse nel provvedimento, impugnato e i relativi pareri regolarmente acquisiti dal Comune di Senigallia sono condivisibili.
1.2 Con il primo motivo il ricorrente deduce che il controinteressato non avrebbe la comproprietà del cortile condominiale, titolo necessario per innalzare la canna fumaria. La censura non è condivisibile.
Per costante giurisprudenza, la collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio o una corte interna), può essere effettuata anche senza il consenso degli altri condomini, purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità. Il singolo condomino ha quindi titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio consenso, a ottenere la concessione edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale comune, che si attenga ai limiti suddetti (si veda Tar Toscana 28.10.2015 n. 147 e la giurisprudenza ivi richiamata).
1.3 La possibilità di installare la canna fumaria non è impedita dalla circostanza che il titolare dell’autorizzazione commerciale sia, come appare incontestato in atti, locatario dell’immobile (infatti, l’istanza di installazione della canna fumaria è stata presentata congiuntamente con il proprietario). Ancora, l’affermata assenza della proprietà indivisa della corte condominiale è una mera illazione che scaturisce dalla non esplicita menzione di quest’ultima nel contratto di compravendita dell’immobile e dalla circostanza che il medesimo contratto riporterebbe che la proprietà confina con i cortile condominiale.
Si tratta, in tutta evidenza, di circostanze che non sono sufficienti a superare la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. per cui non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà delle parti comuni, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè il collegamento strumentale, materiale o funzionale con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale (Cassazione civile 05.05.2016, n. 9035). Al contrario spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva (o, come nel caso in esame, l’assenza di comunione in una singola proprietà) fornirne prova. Tale prova non è fornita dal ricorrente (TAR Marche, sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Circa la disposizione del Regolamento Edilizio ove si prescrive che “le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di 10 metri” la ratio della norma è quella di evitare immissioni sgradevoli o nocive rispetto ad altri condomini.
Di conseguenza, tali limitazioni vanno interpretate in modo funzionale, per evitare risultati paradossali in quanto, ad esempio, applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell'edificio vicino si dovesse pretendere un'altezza superiore a quella anche del più alto grattacielo confinante.
Il regolamento edilizio comunale peraltro prevede chiaramente delle alternative per il caso che la canna fumaria non sia costruita in aderenza al colmo del tetto, dettando norme per i parapetti ed altre ostacoli o strutture.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento adottato dal SUAP del Comune di Senigallia prot. 78612 del 28.12.2015 avente ad oggetto l'attività di installazione in cortile condominiale di canna fumaria a servizio dell'attività commerciale di ristorazione nonché del parere favorevole condizionato rilasciato dall'Ufficio Sviluppo Urbano Sostenibile del Comune di Senigallia del 04.06.2015;
   - di tutti gli atti antecedenti e successivi, comunque finalizzati a consentire l'installazione della canna fumaria ivi compresi:
      a) il parere ASUR 101806/15 laddove si ritenga che consenta l’intervento anzidetto nonché l'autorizzazione 13481 del 26.11.2015;
      b) l'autorizzazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche nr. 13481 del 26.11.2015, la nota del Segretariato Regionale del MBAC 5408 del 23.12.2015 e la deliberazione della Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale nr. 210/15 di reiezione della richiesta di annullamento della predetta autorizzazione;
...
3 E’ infondato anche il terzo motivo, ove parte ricorrente afferma la violazione del Regolamento Edilizio del Comune di Senigallia (e degli allegato al Codice dell’Ambiente cui fa riferimento) dove si prescrive che “le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di 10 metri.” Difatti, la ratio della norma di cui sopra è quella di evitare immissioni sgradevoli o nocive rispetto ad altri condomini (Cons. Stato sez. IV, 25.10.2016, n. 4458).
Di conseguenza, tali limitazioni vanno interpretate in modo funzionale, per evitare risultati paradossali in quanto, ad esempio, applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell'edificio vicino si dovesse pretendere un'altezza superiore a quella anche del più alto grattacielo confinante (Tar Lazio Roma 21.12.2016 n. 12712, Cons. Stato, V, 05.01.2015 n. 1). Il regolamento edilizio comunale peraltro prevede chiaramente delle alternative per il caso che la canna fumaria non sia costruita in aderenza al colmo del tetto, dettando norme per i parapetti ed altre ostacoli o strutture.
Nel caso in esame, il progetto prevede con chiarezza che la canna fumaria sia costruita ben sopra il terrazzo del ricorrente, che non fornisce alcuna prova relativa alla rilevanza di eventuali emissioni.
Inoltre, il progetto prevede comunque che la canna fumaria medesima sia portata all’altezza del tetto. In realtà, le critiche di parte ricorrente al progetto, che non sarebbe eseguito a regola d’arte per vari motivi, sono rivolte (con l’eccezione della appena trattata altezza della canna fumaria) a valutazioni tecniche di competenza di comune e ASR (sicurezza ed emissioni) senza che sia argomentata in maniera puntuale alcuna altra violazione normativa (art. 39 del DPCM n. 171 del 2014) (TAR Marche, sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A fonte della richiesta del lavoratore di essere assegnato a mansioni diverse per inidoneità sopravvenuta alle mansioni originarie, è a carico del datore di lavoro l'onere di provare la indisponibilità di altre posizioni lavorative di utile collocazione (compatibili con le condizioni di salute del lavoratore) senza che tale onere sia in alcun modo condizionato dalla previa allegazione di posizioni specifiche esistenti in azienda, posizioni che il lavoratore non è tenuto a conoscere e che potrebbero, in ipotesi, anche essere estranee alla sua sfera di conoscibilità.
Neppure può ravvisarsi un onere del lavoratore di contestare in causa la inidoneità, assunta dal datore di lavoro, rispetto alle mansioni disponibili giacché tale onere riguarda i fatti storici (rientranti nella sfera di conoscibilità della parte onerata a contestarli) e non i giudizi, quale quello di inidoneità alle mansioni.

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La liquidazione equitativa della componente esistenziale del danno alla persona presuppone la allegazione in concreto e la prova da parte del lavoratore del complessivo peggioramento della qualità della vita, sul piano delle relazioni umane e del contesto familiare sicché non è configurabile un danno implicito nella mancanza di lavoro ma spetta all'interessato allegare precisi elementi di fatto e fornire la prova del danno, anche avvalendosi di presunzioni.
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A fonte della richiesta del lavoratore di essere assegnato a mansioni diverse per inidoneità sopravvenuta alle mansioni originarie, è a carico del datore di lavoro l'onere di provare la indisponibilità di altre posizioni lavorative di utile collocazione (compatibili con le condizioni di salute del lavoratore) senza che tale onere sia in alcun modo condizionato dalla previa allegazione di posizioni specifiche esistenti in azienda, posizioni che il lavoratore non è tenuto a conoscere e che potrebbero, in ipotesi, anche essere estranee alla sua sfera di conoscibilità.
In tal senso può essere utilmente richiamata, per identità di ratio, la giurisprudenza più recente di questa Corte (Cassazione civile, sez. lav., 11/10/2016, n. 20436) formatasi in tema di ripartizione degli oneri di allegazione e prova della impossibilità di repechage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Neppure può ravvisarsi un onere del lavoratore di contestare in causa la inidoneità, assunta dal datore di lavoro, rispetto alle mansioni disponibili giacché tale onere riguarda i fatti storici (rientranti nella sfera di conoscibilità della parte onerata a contestarli) e non i giudizi, quale quello di inidoneità alle mansioni.
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2. Con il secondo motivo la società Poste Italiane spa ha dedotto -ai sensi dell'art. 360 nr. 5 cod. proc. civ.- omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in riferimento al danno liquidato nonché -ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod. proc. civ.- violazione degli artt. 2103, 1218, 1223, 2087, 2059, 2697, 2727, 2729 cod. civ. e degli artt. 115,116, 421 cod. proc. civ.
Ha censurato la sentenza per avere ritenuto sussistenti in re ipsa il danno non patrimoniale ed il danno esistenziale quale conseguenza della inattività lavorativa. Ha dedotto che la consulenza tecnica acquisita non poteva sopperire alla mancanza di allegazione e di prova del danno da parte del danneggiato.

...
Il secondo motivo è fondato.
La liquidazione equitativa della componente esistenziale del danno alla persona presuppone la allegazione in concreto e la prova da parte del lavoratore del complessivo peggioramento della qualità della vita, sul piano delle relazioni umane e del contesto familiare sicché non è configurabile un danno implicito nella mancanza di lavoro ma spetta all'interessato allegare precisi elementi di fatto e fornire la prova del danno, anche avvalendosi di presunzioni (in termini: Cassazione civile, sez. lav., 25/08/2014, n. 18207).
La Corte di merito, affermando che la componente esistenziale del danno non patrimoniale si configura come danno presunto, di cui il lavoratore non deve fornire la prova concreta, non si è attenuta all'indicato principio di diritto.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, in accoglimento del secondo motivo del ricorso principale e la causa rinviata ad altro giudice, che si individua nella Corte d'appello di Firenze in diversa composizione, perché provveda ad nuovo accertamento del danno, immune dal vizio di diritto evidenziato (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.07.2017 n. 18506).

EDILIZIA PRIVATAQuesto Consiglio ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, in presenza di un giudicato civile, a questo deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario.
È stato ulteriormente evidenziato che la portata oggettiva e soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà esclude la stessa necessità giuridica (id est: imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a tutela del diritto dominicale esclude ogni potere dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di sottrarsi) al dictum giurisdizionale.
Ha, peraltro, affermato che, ove la richiesta del titolo edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere in merito.
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Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di procedimenti di esecuzione civile, questo Consiglio non ha mai declinato la giurisdizione in materia.
È ben vero che il titolo edilizio costituisce un elemento che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza.
La sua richiesta, peraltro, innesca un procedimento amministrativo, il quale si conclude con un provvedimento amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo.
Vuole in buona sostanza affermarsi che tale procedimento amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente, mantengono la loro autonomia in termini di atti qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario loro regime di impugnazione e di cognizione.
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Può a questo punto passarsi all’esame dell’appello n. 1583 del 2017.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione II, con sentenza breve n. 1431/2016 del 30.12.2016 dichiarava il difetto di giurisdizione sul ricorso presentato dai signori Ni.Ca. ed Er.Ca. inteso ad ottenere l’annullamento del provvedimento del Comune di Lugo di Vicenza prot. n. 8471 del 06.10.2016, con il quale veniva rigettata l’istanza di permesso di costruire presentata dal CTU nominato in sede di giudizio di esecuzione civile inteso ad ottenere la demolizione parziale di un immobile di proprietà dei signori Ca.An., Ri.Gl., Ca.Or. e Ca.Gi., in esecuzione del giudicato civile formatosi sulla sentenza n. 343/2001 del Tribunale di Vicenza, confermata in sede di giudizio di appello e di Cassazione.
La prefata sentenza così motivava il ritenuto difetto di giurisdizione.
Parte ricorrente agisce per l’esecuzione della sentenza del Tribunale civile di Vicenza n. 343/2001 con cui i controinteressati sono stati condannati a demolire parzialmente l’immobile perché costruito in difformità dalle norme sulle distanze legali. E’ stato infatti formalmente impugnato diniego del permesso di costruire richiesto dal consulente tecnico di ufficio nominato nel giudizio civile (r.g. 1487/11 Tribunale civile di Vicenza) attivato dai ricorrenti ai sensi dell’art. 612 del cod. proc. Civ. , al fine di ottenere l’esecuzione della sopra richiamata sentenza. La questione, anche se comprende l’obbligo del comune di Vicenza di rilasciare o meno il sopra richiamato permesso di costruire, rientra comunque nell’ambito di ciò che deve essere fatto, anche con l’intervento di parti terze, quale il comune di Vicenza a mezzo di provvedimenti amministrativi, per dare esecuzione a sentenza del tribunale civile. La questione non è se il Comune di Vicenza possa o meno rilasciare il permesso di costruire richiesto dal sopra richiamato consulente tecnico, ma se il Comune di Vicenza debba rilasciare tale permesso di costruire per eseguire la sopra richiamata sentenza del tribunale civile di Vicenza. Ne consegue la giurisdizione del giudice ordinario, il quale del resto è stato già adito dai ricorrenti per ottenere una sentenza di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare ai sensi dell’art. 612 del cod. proc. Civ. In tale sede potrà essere lamentato se il provvedimento di diniego di permesso di costruire costituisca illegittimo ostacolo posto dal Comune di Lugo di Vicenza all’esecuzione della sopra richiamata sentenza. Ne consegue il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo”.
Avverso la citata sentenza hanno proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato (“appello avverso sentenza su questione di giurisdizione ex art. 105, comma 2, c.p.a.”), deducendone l’erroneità e chiedendone la riforma.
...
Venendo a questo punto all’esame dell’appello, il Collegio ritiene che sia fondato ed assorbente il motivo con il quale gli appellanti censurano l’erroneità della sentenza di primo grado per avere ritenuto in materia la giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice amministrativo.
È, invero, ferma convinzione del Collegio che nel caso di specie sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, indipendentemente dalla circostanza che sia pendente un giudizio civile per l’esecuzione del giudicato ex art. 612 c.p.c..
Va, in proposito, in primo luogo considerato che l’acquisizione delle autorizzazioni necessarie all’adempimento del giudicato è stato disposto dallo stesso giudice dell’esecuzione, il quale ha a tal fine dato incarico al CTU (v. ordinanza del 05.10.2011), ritenendo, di conseguenza, necessario l’atto abilitativo comunale.
Va, di poi, evidenziato che l’atto oggetto di impugnativa è un vero e proprio provvedimento amministrativo, dotato dei requisiti propri della tipicità, nominatività ed imperatività.
Come tale, esso è impugnabile davanti al giudice amministrativo, il quale ha giurisdizione in materia, per come emerge, tra l’altro, dall’articolo 133, comma 1, lett. f), del c.p.a..
Questo Consiglio (cfr. sez. IV, 12.03.2013, n. 1482; V, 10.12.1990, n. 856) ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, in presenza di un giudicato civile, a questo deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario.
È stato ulteriormente evidenziato che la portata oggettiva e soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà esclude la stessa necessità giuridica (id est: imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a tutela del diritto dominicale esclude ogni potere dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di sottrarsi) al dictum giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1482/2013).
Ha, peraltro, affermato che, ove la richiesta del titolo edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere in merito.
Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di procedimenti di esecuzione civile, questo Consiglio non ha mai declinato la giurisdizione in materia.
È ben vero che il titolo edilizio costituisce un elemento che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza.
La sua richiesta, peraltro, innesca un procedimento amministrativo, il quale si conclude con un provvedimento amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo.
Vuole in buona sostanza affermarsi che tale procedimento amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente, mantengono la loro autonomia in termini di atti qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario loro regime di impugnazione e di cognizione.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, il motivo di appello con il quale si assume la giurisdizione in materia del giudice amministrativo è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’articolo 105 del c.p.a. la sentenza del Tribunale che ha declinato la giurisdizione deve essere annullata, con rinvio al giudice di primo grado, affinché esamini la vicenda nel merito, ciò essendo formalmente precluso al giudice di appello.
In conclusione, dunque, l’appello n. 1583/2017 R.G. deve essere accolto e, per l’effetto, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente annullamento della sentenza gravata che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e con rimessione della causa al primo giudice ex art. 105 c.p.a..
Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate come da dispositivo, sono poste a carico in solido dei signori Ca.An., Ri.Gl., Ca.Or. e Ca.Gi., considerato che questi, quali soggetti esecutati, avrebbero dovuto spontaneamente dare esecuzione al giudicato civile, onde la presente controversia trova origine primigenia nel loro comportamento omissivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.07.2017 n. 3664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore e disturbo dal bar.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
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Perché sussista la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio.
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Integra la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone l'organizzazione di feste e cerimonie all'interno di uno scantinato di edificio condominiale che si protraggano per ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori, idonei a diffondersi all'interno e all'esterno dello stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone. (Nella specie, il frastuono determinato dalle feste, che avevano frequenza bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di esso).
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3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
Il ricorrente contesta molto genericamente ed in fatto la decisione impugnata, ed in particolare l'assenza di accertamenti strumentali del rumore. Inoltre ritiene l'assenza di prove testimoniali per l'affermazione della responsabilità.
La sentenza impugnata con motivazione adeguata, immune da contraddizioni e da manifeste illogicità ha ritenuto responsabile il ricorrente del reato contestatogli rilevando la sussistenza di numerosi esposti e diffide ai gestori del locale, relativi ai rumori intollerabili, sia prima e sia dopo l'inizio della gestione del ricorrente, del locale "la dolce vita"; l'intollerabilità estrema dei rumori era poi desunta dalle chiare deposizioni dei testi An.Ma., Ar.Pi.Pa., To.Gr.Na, Fo.Fr. e assistente di P.S. Pa.Pa.. Si tratta di evidenti accertamenti di fatto, insindacabili in sede di legittimità.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (fattispecie in cui l'intensità delle emissioni sonore è stata ricostruita mediante la deposizione dei testimoni, i quali avevano riferito di non riuscire a seguire i programmi televisivi) (Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015 - dep. 16/03/2015, Montoli e altro, Rv. 263433; sez. 3 del 05.05.2016 n. 18687).
3.1. Nel nostro caso l'accertamento è avvenuto con le deposizioni testimoniali sopra elencate; inoltre nella motivazione, esauriente e non contraddittoria, non si rinvengono manifeste illogicità. La configurabilità del reato è realizzata solo se il disturbo non sia limitato agli appartamenti sovrastanti e sottostanti a quello del disturbatore, il locale "la dolce vita": "
Perché sussista la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio" (Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013 - dep. 13/11/2013, Virgillito e altro, Rv. 25734501).
Ed ancora: "
Integra la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone l'organizzazione di feste e cerimonie all'interno di uno scantinato di edificio condominiale che si protraggano per ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori, idonei a diffondersi all'interno e all'esterno dello stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone. (Nella specie, il frastuono determinato dalle feste, che avevano frequenza bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di esso)" (Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010 - dep. 17/05/2010, Oppong, Rv. 24706201; in senso limitativo vedi Cassazione, sez. 3, 29.09.2016, n. 40689).
Nel nostro caso l'intensità dei rumori, che ha costretto alcuni residenti anche a uscire dalla casa per trovare un po' di pace e dormire, inducono a ritenere, come adeguatamente motivato nella sentenza impugnata, che il disturbo sia avvenuto nei confronti di un numero indeterminato di persone, o comunque era potenzialmente idoneo ad infastidire tutto lo stabile e le case vicine (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.07.2017 n. 35175).

URBANISTICA: Approvazione di un nuovo Piano Regolatore - Successione nel tempo delle norme di pianificazione urbanistica - Nuove previsioni del Piano Regolatore - Carattere di assoluta prevalenza - Giurisprudenza Amministrativa.
In base al principio della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: - hanno un carattere di assoluta prevalenza, - non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG; si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2012, n. 693) - (Tar Lombardia sez. IV, sent. 11/07/14 n. 1842) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 18.07.2017 n. 833 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Finalità della destinazione d’uso e strumenti urbanistici - Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante - Categorie funzionalmente autonome - Diversa destinazione di zona - Impatto urbanistico e incremento del carico urbanistico. Artt. 23-ter, 31 e 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato e mutamento di destinazione d'uso realizzato senza l'esecuzione di opere edilizie - Assoggettamento a S.C.l.A. - Aggravio del carico urbanistico - Insanabile contrasto con lo strumento urbanistico.
La richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede.
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, senza l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito (Cass. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.l.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
Destinazione a luogo di culto di un edificio - Valutazione delle esigenze urbanistiche con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M.1444/1968 - Pianificazione e aggravio del carico urbanistico - Giurisprudenza.
La destinazione a luogo di culto di un edificio, non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto.
Pertanto, se l'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico (Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002, Catalano; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003, Censullo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2017 n. 34812  - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi: la parziale difformità dell'opera non può essere stabilita sulla base della legge regionale.
In materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi.
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Ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche, di utilizzazione o di ubicazione, mentre, invece, in "parziale difformità" l'intervento che, sebbene contemplato dal titolo abilitativo, all'esito di una valutazione analitica delle singole difformità risulti realizzato secondo modalità diverse da quelle previste a livello progettuale.
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Il concetto della totale difformità è antitetico infatti rispetto a quello della parziale difformità, e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale. Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...".
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L'art. 31, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 richiama un concetto di "
totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.

In proposito,
già nel previgente e non antitetico assetto normativo era stato chiarito che si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
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4. Il ricorso è inammissibile.
4.1. In proposito, rappresenta principio del tutto consolidato che
in materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi (così Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; v. anche Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, Moltisanti, Rv. 234935).
Del pari, è stato così recentemente osservato che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche, di utilizzazione o di ubicazione, mentre, invece, in "parziale difformità" l'intervento che, sebbene contemplato dal titolo abilitativo, all'esito di una valutazione analitica delle singole difformità risulti realizzato secondo modalità diverse da quelle previste a livello progettuale (Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e altri, Rv. 260652).
Ciò posto, e tenuto conto dei richiamati rapporti tra fonti legislative, il ricorso in realtà non si confronta con la ratio del provvedimento impugnato.
In proposito, infatti, quest'ultimo aveva espressamente dato conto, così riprendendo i contenuti già sviluppati nel primo giudizio dal Tribunale di Siracusa, che "il vano con copertura e tettoia in legno, realizzato sul versante nord del fabbricato principale, costituisce un organismo edilizio integralmente diverso per utilizzazione e per caratteristiche planovolumetriche e tipologiche del manufatto assentito con la concessione edilizia, non solo e non tanto per la superficie occupata, di poco (ma non di pochissimo) superiore a quella assentita (ml 5,10x5,10 anziché ml 3,45x4), ma anche e soprattutto in virtù della tettoia con sottostante terrazzino coperto e pavimentato, costruiti in aderenza al piccolo corpo di fabbrica, con conseguente autonoma utilizzabilità del complessivo manufatto anche dal punto di vista economico-sociale: come emerge dalla visione degli allegati fotografici, invero, il manufatto è stato realizzato e rifinito in modo tale da risultare idoneo al soddisfacimento di finalità latamente abitative. In ogni caso, poi, la tettoia con sottostante box in muratura, realizzata sul versante sud dell'edificio non era affatto prevista dal titolo concessorio".
Atteso ciò, il ricorrente ha invece insistito per l'applicazione della normativa di cui alla legge regionale siciliana 10.08.1985, n. 37, in quanto si sarebbe trattato solamente di parziale difformità, la cui specifica nozione si traeva, anche in virtù dell'esclusività della legislazione urbanistica regionale, dall'art. 7 della legge 37 cit..
L'assunto non è condivisibile, laddove in ogni caso non vi è stato tra l'altro neppure specifico confronto con la ratio allegata dalla Corte territoriale.
E' stato in proposito così rilevato, con valutazione che la Corte intende coltivare, che
il concetto della totale difformità è antitetico infatti rispetto a quello della parziale difformità, e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale. Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso..."
(così, in motivazione, Sez. 3, n. 40541 cit.).
In specie, il ricorrente ha ripetutamente osservato che, per stabilire se un intervento edilizio realizzato in Sicilia costituisse o meno difformità totale ovvero variazione essenziale, doveva farsi ricorso alla definizione data dal legislatore siciliano alla parziale difformità, ossia alla verifica sul superamento di limiti colà stabiliti.
Il ragionamento non è corretto.
Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 richiama un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
In proposito,
già nel previgente e non antitetico assetto normativo era stato chiarito che si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera (Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 1988, Ferrali, Rv. 177490).
Al riguardo, ed alla stregua di quanto fin qui osservato, è stata correttamente valutata l'irrilevanza del richiamo alla legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il carattere di difformità parziale. Proprio per la richiamata natura totale (concettualmente ben diversa dall'ipotesi di difformità parziale, come si è visto) delle difformità edilizie unitariamente riguardate, e sulle quali ben poco il ricorso si spende, ed attesa la clausola di salvezza posta in apertura della disposizione, l'art. 32 del testo unico dell'edilizia non si presenta applicabile. Sì che
non vi è spazio per le determinazioni integrative fissate dalla legislazione regionale, che della difformità totale non può occuparsi (cfr. altresì ancora, Sez. 3, n. 40541 cit.) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34533).

EDILIZIA PRIVATA: Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata.
La costruzione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un immobile non può infatti qualificarsi come pertinenza, in quanto si tratta di un'opera priva del requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, rappresentandone un ampliamento. Essa pertanto, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti si è parimenti annotato che deve ritenersi che
la tettoia di un edificio non rientra nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto parte dell'edificio cui aderisce: ciò in quanto in urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio appartiene senza autonomia alla sua struttura.
Costituisce quindi nuova costruzione ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001 qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato. Né può farsi ricorso alla nozione di ampliamento dell'edificio preesistente, trattandosi di nuova costruzione, sia pure accessoria a detto edificio.
In definitiva,
la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti.
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E' infine appena il caso di ricordare, ad integrazione di quanto già richiamato circa la natura dell'intervento abusivo, la manifesta infondatezza di ogni questione legata all'edificazione delle tettoie.
Integra infatti il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata (Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv. 257290).
La costruzione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un immobile non può infatti qualificarsi come pertinenza, in quanto si tratta di un'opera priva del requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, rappresentandone un ampliamento. Essa pertanto, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele, Rv. 232363).
Infatti si è parimenti annotato che deve ritenersi che la tettoia di un edificio non rientra nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto parte dell'edificio cui aderisce: ciò in quanto in urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n. 17083 del 07/04/2006, Miranda e altro, Rv. 234193).
Costituisce quindi nuova costruzione ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001 qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato. Né può farsi ricorso alla nozione di ampliamento dell'edificio preesistente, trattandosi di nuova costruzione, sia pure accessoria a detto edificio (così, complessivamente, Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628).
In definitiva, la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici, per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione, va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv. 261156; conf. Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533).
Ed in specie, proprio per le accertate dimensioni non trascurabili del manufatto siccome descritto ed in relazione alle sue finalità individuate, la normativa regionale non deve ritenersi applicabile (cfr. altresì, Sez. 3, n. 33039 cit.) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34533).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione impianto - Inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio - Subordine l'attività autorizzata all'accettazione della polizza fideiussoria - Art. 256, c. 3 e 4, D.Lgs. n. 152/2006.
Integra il reato di cui all'art. 256, c. 3 e 4, del D.Lgs. n. 152 del 2006 l'inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio da parte del gestore di un impianto sia quelle, ad esempio, relative alla fase post-operativa di una discarica autorizzata (così Sez. 3, n. 40318 del 16/06/2016, P.M. in proc. Strazzer), che quelle relative alla fase pre-operativa di un impianto di deposito, ovvero messa in sicurezza e trattamento di rifiuti, come nel caso di specie, ove la prescrizione violata era quella che subordinava l'esercizio dell'attività autorizzata all'accettazione della polizza fideiussoria.
RIFIUTI - Qualità di rifiuto - Elementi positivi e negativi - Accordo di cessione a terzi - Effetti.
La qualità di rifiuto, una volta acquisita in base ad elementi positivi (il fatto che si tratti di beni residuo di produzione di cui i detentori si siano voluti disfare) e negativi (res non avente in sé il requisito di sottoprodotto), non viene meno in ragione dì un accordo di cessione a terzi, né del valore economico del bene conferito che sia stato riconosciuto nel medesimo accordo, in quanto va fatto riferimento alla volontà dei cedenti di disfarsi del bene e non già all'utilità che potrebbe ritrarne il cessionario (Cass. Sez. 3, n. 5442/17 del 15/12/2016, P.M. in proc. Zantonello).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Scusabilità dell'ignoranza della legge penale invocata dall'operatore professionale - Limiti della inevitabilità.
Il principio che la scusabilità dell'ignoranza della legge penale, può essere invocata dall'operatore professionale di un determinato settore solo ove dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo il dovere di informazione (così Sez. 3, n. 35694 del 05/04/2011, Pavanati), in quanto i limiti della inevitabilità, e quindi della non colpevolezza, dell'ignoranza della legge penale, che scusa l'autore dell'illecito, debbono essere in ogni caso individuati in relazione allo specifico soggetto agente: mentre per il cittadino comune è sufficiente l'ordinaria diligenza nell'assolvimento di un dovere di informazione di tipo generico, attraverso la corretta utilizzazione dei normali mezzi di informazione, di indagine e di ricerca dei quali disponga, tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis'' nello svolgimento dell'indagine giuridica.
Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Cass.. SSUU, n. 8154 del 10/06/1994, P.G. in proc. Calzetta, Sez. 5, n. 41476 del 25/09/2003, Izzo, Sez. 3, n. 172 del 06/11/2007, Picconi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34522 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Valori limite di emissione e di qualità dell'aria - Finalità degli artt. 278 e 279 D.L.vo n.152/06 - Rilascio del titolo abilitativo e l'imposizione di specifiche prescrizioni e di obblighi di comunicazione - Tutela dell'ambiente e della salute - Controlli adeguati e meccanismo di tutela anticipata del bene ambientale.
Attraverso l’art. 279, comma 2, dlgs 152/2006, il legislatore intende per un verso assicurare il rispetto dei valori limite di emissione e di qualità dell'aria; e, per altro verso, "consentire alle autorità preposte, attraverso il rilascio del titolo abilitativo e l'imposizione di specifiche prescrizioni e di obblighi di comunicazione, un controllo adeguato finalizzato ad una efficace tutela dell'ambiente e della salute che l'espletamento di determinate attività può, anche potenzialmente, porre in pericolo" (Cass. Sez. 3, n. 24334 del 13/05/2014, dep. 10/06/2014, Boni e altro).
In questo modo, l'ordinamento realizza un meccanismo di tutela anticipata del bene ambientale, pienamente giustificata dalla natura collettiva di un interesse di preminente rilievo; tutela realizzata attraverso il presidio della sanzione penale non soltanto rispetto alle condotte direttamente offensive del bene in questione, ma anche rispetto ai dispositivi di controllo amministrativo, finalizzati al monitoraggio, al contenimento ed alla regolamentazione delle situazioni potenzialmente causative di fenomeni inquinanti.
ARIA - Disciplina in materia di inquinamento atmosferico - Continuità normativa tra d.lgs. n. 152/2006 e D.P.R. 203/1988 - Situazioni di pericolo per la salute o per l'ambiente - Autorità preposte al controllo e potere di ordinanza.
L'art. 279, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella sua attuale formulazione, stabilisce che "chi, nell'esercizio di uno stabilimento, viola i valori limite di emissione o le prescrizioni stabiliti dall'autorizzazione (... ) o le prescrizioni altrimenti imposte dall'autorità competente ai sensi del presente titolo è punito con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda fino a 1.032 euro".
Tale disposizione incriminatrice si colloca in posizione di continuità rispetto alla previgente disciplina in materia di inquinamento atmosferico, che all'art. 24, comma 4, del D.P.R. 24.05.1988, n. 203 sanzionava penalmente colui il quale, nell'esercizio di un nuovo impianto, non osservava le prescrizioni dell'autorizzazione o quelle imposte dalla autorità competente nell'ambito dei poteri ad essa spettanti (Cass. Sez. 3, n. 18774 del 18/05/2010; Sez. 3, n. 4536 del 29/01/2008; Sez. 3, n. 47081 del 19/12/2007).
Mentre, l'art. 278 del D.Lgs. n. 152 del 2006, prevede un potere di ordinanza in capo alle autorità preposte al controllo in caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione, "ferma restando l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 279, e delle misure cautelari disposte dall'autorità giudiziaria", stabilendo che sia nel caso in cui si manifestino o comunque si determinino situazioni di pericolo per la salute o per l'ambiente, sia nel caso di mere irregolarità, l'autorità preposta possa esercitare la diffida, assegnando un termine entro il quale eliminarle.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Autorità di controllo - Esigenze di precauzione e di controllo - Poteri e limiti - Eccesso di potere - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Verifica del giudice della ragionevolezza delle disposizioni impartite.
In tema di emissioni, l'ampiezza delle prescrizioni, sia quelle dell'autorizzazione che quelle "altrimenti imposte", (artt. 278 e 279 D.L.vo n. 152/2006) non può sconfinare nell'arbitrio, sicché ove la prescrizione non sia in alcun modo ricollegabile alle esigenze di precauzione e di controllo sottese all'investitura del potere autorizzazione in capo all'amministrazione pubblica, il provvedimento sarà affetto da eccesso di potere (così, con riferimento al citato art. 24, comma 4, D.P.R. n. 203 del 1988, Sez. 3, n. 4514, 3/02/2006; nonché, relativamente a fatti rientranti nell'attuale disciplina, Sez. 3, n. 29967 del 27/07/2011).
Sicché, a garanzia della correttezza e proporzionalità delle prescrizioni, il giudice penale conserva la possibilità di verificare la ragionevolezza delle disposizioni impartite dall'organo preposto rispetto alle esigenze di precauzione e di controllo che giustificano l'attribuzione del potere autorizzazione in capo alla stessa amministrazione (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34517 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACome noto, con riguardo alle questioni che attengono alla violazione delle norme civilistiche che disciplinano i rapporti di vicinato, vige il principio della doppia tutela che consente agli interessati di rivolgersi sia al giudice ordinario -qualora agiscano direttamente contro il vicino facendo valere posizioni di diritto soggettivo- che al giudice amministrativo, qualora agiscano contro l’autorità pubblica che abbia male esercitato i propri poteri di controllo e repressione, facendo valere posizioni di interesse legittimo.
Nel caso di specie, il ricorrente agisce contro il Comune lamentando il cattivo esercizio del potere amministrativo. Ne consegue che la giurisdizione sulla presente controversia appartiene al giudice amministrativo.
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Per quanto concerne la questione con la quale viene dedotto il difetto dell’interesse ad agire, si deve osservare che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nelle controversie che hanno ad oggetto i titoli edilizi, la vicinitas -intesa come situazione di stabile collegamento con l'immobile interessato dalle opere (ad es. titolarità di immobili frontisti, confinanti o limitrofi)- costituisce elemento di per sé sufficiente a fondare tale interesse.
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9. Ritiene il Collegio che le due eccezioni siano infondate.
10. Per quanto concerne la prima, si rileva che, come noto, con riguardo alle questioni che attengono alla violazione delle norme civilistiche che disciplinano i rapporti di vicinato, vige il principio della doppia tutela che consente agli interessati di rivolgersi sia al giudice ordinario -qualora agiscano direttamente contro il vicino facendo valere posizioni di diritto soggettivo- che al giudice amministrativo, qualora agiscano contro l’autorità pubblica che abbia male esercitato i propri poteri di controllo e repressione, facendo valere posizioni di interesse legittimo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.01.2016, n. 81; id., 31.03.2015, n. 1692; TAR Veneto, Sez. II, 29.04. 2014).
11. Nel caso di specie, il ricorrente agisce contro il Comune di Milano lamentando il cattivo esercizio del potere amministrativo. Ne consegue che la giurisdizione sulla presente controversia appartiene al giudice amministrativo.
12. Per quanto concerne la seconda questione, con la quale viene dedotto il difetto dell’interesse ad agire, si deve osservare che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nelle controversie che hanno ad oggetto i titoli edilizi, la vicinitas -intesa come situazione di stabile collegamento con l'immobile interessato dalle opere (ad es. titolarità di immobili frontisti, confinanti o limitrofi)- costituisce elemento di per sé sufficiente a fondare tale interesse (cfr. Consiglio di Stato, sez IV, 12.03.2015, n. 1315; id., 07.05.2008, n. 2086; TAR Puglia Bari, sez. III, 09.06.2016, n. 719).
13. Nel caso di specie, il ricorrente contesta proprio la legittimità di un titolo edilizio che riguarda opere da realizzarsi su un immobile posto in prossimità della sua abitazione. Per questa ragione non può negarsi la sussistenza del suo interesse ad agire.
14. A contrario non è utile invocare la natura della sanzione applicabile alla fattispecie, posto che l’esercizio del potere inibitorio sul titolo edilizio determinerebbe l’accertamento dell’illiceità della condotta posta in essere dal controinteressato, il quale avrebbe dunque il dovere di conformarsi spontaneamente a tale accertamento ripristinando la situazione di fatto antecedente (anche per mettersi al riparo da possibili responsabilità risarcitorie o penali). Inoltre, non si deve trascurare che l’applicazione della sanzione pecuniaria ha comunque funzione di deterrenza rispetto alla possibile reiterazione della condotta illecita.
15. Le due eccezioni vanno quindi respinte.
16. Con altra eccezione il controinteressato sostiene che il ricorso sarebbe inammissibile in quanto la richiesta di esercizio del potere di autotutela è stata inoltrata all’amministrazione dopo lo spirare del termine di sessanta giorni decorrente dal momento di conoscenza, da parte del ricorrente, dell’esistenza delle DIA avversate.
17. Anche questa eccezione non può essere condivisa in quanto di recente la Sezione –prendendo posizione anche con riguardo a giurisprudenza contraria- ha ritenuto che la proposizione del sollecito oltre il termine di sessanta giorni non determina l’inammissibilità del ricorso ma influisce esclusivamente sulla natura del potere che l’Amministrazione può esercitare (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 05.12.2016, n. 2301; si veda anche TAR Lombardia Milano, sez. II, 15.04.2016, n. 735).
18. Va comunque osservato che il ricorso in esame è proposto, non già contro il silenzio, ma contro il provvedimento con il quale il Comune ha dato riscontro all’istanza del ricorrente e che, con riferimento a tale provvedimento, il ricorso è sicuramente tempestivo.
19. Né si può ritenere che il lungo lasso di tempo intercorso dalla presentazione delle DIA inibisca senz’altro al Comune di Milano di esercitare su di esse il proprio potere giacché, stante l’inapplicabilità al caso di specie delle sopravvenute disposizioni che hanno fissato il termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela, il fattore tempo costituisce esclusivamente una variabile che dovrà essere presa in considerazione per valutare la sussistenza di eventuali posizioni di affidamento.
20. Si deve dunque ribadire l’infondatezza dell’eccezione in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.07.2017 n. 1599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2001, colui che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare di essere legittimato alla realizzazione dell’intervento che ne costituisce oggetto. Questa norma contiene un principio applicabile anche in materia di DIA e SCIA.
La giurisprudenza ha chiarito che l’autorità cui è rivolta l’istanza non deve compiere indagini approfondite al fine di appurare l’effettiva sussistenza della legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; e ciò in quanto, da un lato, essa non è deputata a dirimere le eventuali controversie che insorgono fra le diverse proprietà, ed in quanto, da altro, lato, i titoli edilizi non pregiudicano comunque i diritti dei terzi, i quali possono quindi sempre rivolgersi al giudice civile per la tutela dei loro diritti.
In base a questi principi è quindi sufficiente che la pubblica amministrazione accerti perlomeno la sussistenza di un titolo di legittimazione, senza che sia poi necessario effettuare complesse ed approfondite indagini circa i limiti dei diritti che tale titolo attribuisce al richiedente e circa la validità ed efficacia del titolo stesso.
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21. Può ora passarsi alla trattazione del merito.
22. Con il primo motivo, il ricorrente sostiene che, contrariamente da quanto ritenuto nel provvedimento impugnato, le DIA avversate sarebbero illegittime in quanto prevedono la realizzazione di finestre (e l’ampliamento di finestre esistenti) poste sul muro confinante con il cortile del condominio di Via del Don n. 3, senza che sia stata previamente acquisita l’autorizzazione di quest’ultimo condominio.
23. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato per le ragioni di seguito esposte.
24. In base all’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2001, colui che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare di essere legittimato alla realizzazione dell’intervento che ne costituisce oggetto. Questa norma contiene un principio applicabile anche in materia di DIA e SCIA.
25. La giurisprudenza ha chiarito che l’autorità cui è rivolta l’istanza non deve compiere indagini approfondite al fine di appurare l’effettiva sussistenza della legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; e ciò in quanto, da un lato, essa non è deputata a dirimere le eventuali controversie che insorgono fra le diverse proprietà, ed in quanto, da altro, lato, i titoli edilizi non pregiudicano comunque i diritti dei terzi, i quali possono quindi sempre rivolgersi al giudice civile per la tutela dei loro diritti.
26. In base a questi principi è quindi sufficiente che la pubblica amministrazione accerti perlomeno la sussistenza di un titolo di legittimazione, senza che sia poi necessario effettuare complesse ed approfondite indagini circa i limiti dei diritti che tale titolo attribuisce al richiedente e circa la validità ed efficacia del titolo stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, del 25.09.2014, n. 4818; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.10.2016, n. 4643).
27. Ritiene il Collegio che, nel caso concreto, questa basilare attività accertativa non sia stata compiuta dal Comune di Milano, posto che, a fronte di DIA aventi ad oggetto l’ampliamento e la realizzazione di finestre che si affacciano direttamente su un fondo altrui, non è stato acquisito il titolo che consente al richiedente di incidere sui diritti appartenenti al proprietario di tale fondo; diritti sanciti dagli artt. 905 e 1067, primo comma, cod. civ., i quali vietano l’apertura di vedute poste sul confine di proprietà e l’aggravamento di servitù esistenti.
28. A contrario non vale il richiamo alla convenzione stipulata nell’anno 1952 dagli allora proprietari dei due immobili confinanti, né le comunicazioni che il controinteressato ha effettuato nei confronti dell’amministratore del condominio di Via ..., n. 3.
29. La prima perché, come peraltro ormai riconosciuto dallo stesso Comune di Milano (sia nel provvedimento impugnato che nelle proprie memorie), non vi è alcuna norma della convenzione che attribuisca al controinteressato il diritto di aprire nuove finestre poste sul confine o di ampliare le finestre esistenti. L’art. 4 della convenzione stessa ha chiaramente ad oggetto il diritto del condominio di Via ..., n. 3 di ridurre le dimensioni del cortile di sua proprietà purché venga comunque mantenuto in essere un cavedio funzionale a fornire aria e luce al condominio confinante: la norma non si occupa dunque del diritto all’ampliamento ed all’apertura di nuove finestre.
30. Le seconde in quanto trattasi appunto di mere comunicazioni non seguite da espliciti atti di assenso emessi dai competenti organi condominiali (assemblea)
31. Si deve pertanto ribadire che, nel caso di specie, non è stata effettuata quella minima attività accertativa, riguardante la legittimazione ad effettuare gli interventi, che le amministrazioni comunali hanno invece il dovere di compiere prima del rilascio dei titoli edilizi.
32. Per queste ragioni si deve ribadire la fondatezza della censura in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.07.2017 n. 1599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di domanda di accertamento di conformità (ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, rende quest’ultima inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo".
L’interesse della ricorrente è venuto meno a seguito della successiva emanazione dei provvedimenti sfavorevoli sulla domanda di sanatoria, espressione di riedizione del potere, che si sono sostituiti alle precedenti ordinanze di rimessione in pristino: il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, provocato dall’istanza formulata ex art. 36 del D.P.R. 380/2001, comporta la necessaria adozione da parte del Comune di un nuovo atto, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell’impugnativa.

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0. Deve essere dichiarata l’improcedibilità dei ricorsi principali r.g. 32/2008, 33/2008, 34/2008, i quali censurano le ordinanze di demolizione per le quali è stata successivamente inoltrata domanda di sanatoria.
Infatti, è stato anche recentemente chiarito che <<la presentazione di domanda di accertamento di conformità (ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, rende quest’ultima inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo">> (cfr. per tutte TAR Puglia Lecce, sez. III – 31/03/2017 n. 534 e la giurisprudenza ivi citata, richiamata da questo TAR nell’ordinanza della sez. I – 21/04/2017 n. 197).
L’interesse della ricorrente è venuto meno a seguito della successiva emanazione dei provvedimenti sfavorevoli sulla domanda di sanatoria, espressione di riedizione del potere, che si sono sostituiti alle precedenti ordinanze di rimessione in pristino (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 28/03/2017 n. 1711): il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, provocato dall’istanza formulata ex art. 36 del D.P.R. 380/2001, comporta la necessaria adozione da parte del Comune di un nuovo atto, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell’impugnativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 04/04/2017 n. 1565)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2017 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di disparità di trattamento, il destinatario di un provvedimento illegittimo non può invocare, come sintomo di eccesso di potere, il provvedimento più favorevole illegittimamente adottato nei confronti di un terzo che si trovi in analoga situazione.
Il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento (configurabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato alle stesse), non può essere dedotto quando viene rivendicata l’applicazione in proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità dell’operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione. Un’eventuale disparità non può essere risolta estendendo il trattamento illegittimamente più favorevole ad altri riservato a chi, pur versando in situazione analoga, sia stato legittimamente destinatario di un trattamento meno favorevole (nel caso di specie, appurata la non condonabilità dell’abuso, non rileva la circostanza che, in casi analoghi, opere simili sono state condonate, atteso che, se pure esistesse identità di situazioni, la sanatoria rilasciata dovrebbe considerarsi illegittima e, come tale, inidonea a fungere da <<tertium comparationis>> al fine di sorreggere il denunciato vizio di disparità di trattamento).

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2. Con ulteriore doglianza la ricorrente ha invocato la violazione del principio di disparità di trattamento, in quanto l’esponente avrebbe ricevuto i provvedimenti repressivi mentre il “contendente” Sig. Al.Ga. (la cui posizione è molto simile a quella della ricorrente) non ha subìto alcun procedimento sanzionatorio.
2.1 Detta prospettazione non merita condivisione, in quanto l’allegazione di altre situazioni antigiuridiche non può in alcun caso generare alcuna legittima aspettativa in chi versa comunque in una situazione antigiuridica. Il Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 01/10/2014 n. 4868) nel richiamare precedenti pronunce ha statuito che <<La giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che: “In caso di disparità di trattamento, il destinatario di un provvedimento illegittimo non può invocare, come sintomo di eccesso di potere, il provvedimento più favorevole illegittimamente adottato nei confronti di un terzo che si trovi in analoga situazione” (Con. St. sez. VI, 10.05.2013, n. 2548; idem 08.07.2011, n. 4124). “Il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento (configurabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato alle stesse), non può essere dedotto quando viene rivendicata l’applicazione in proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità dell’operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione. Un’eventuale disparità non può essere risolta estendendo il trattamento illegittimamente più favorevole ad altri riservato a chi, pur versando in situazione analoga, sia stato legittimamente destinatario di un trattamento meno favorevole (nel caso di specie, appurata la non condonabilità dell’abuso, non rileva la circostanza che, in casi analoghi, opere simili sono state condonate, atteso che, se pure esistesse identità di situazioni, la sanatoria rilasciata dovrebbe considerarsi illegittima e, come tale, inidonea a fungere da <<tertium comparationis>> al fine di sorreggere il denunciato vizio di disparità di trattamento)” (Con. St. sez. VI, 05.03.2013, n. 2548)>>.
Nel caso di specie, non appare dimostrata l’assoluta identità di situazioni, né tantomeno la legittimità della mancanza di provvedimenti restrittivi nei confronti del soggetto terzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2017 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non è necessario scorrere la graduatoria prima di avviare la mobilità a seguito di concorso interno.
Alcuni dipendenti regionali hanno proposto ricorso in Cassazione, contro la sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila che ha ritenuto legittimo l'avvio di mobilità a seguito di concorso interno senza preventivamente esperire l'obbligo di attingere dalla graduatoria del concorso in ossequio alle previsioni di vigenza triennale della stessa.
I lavoratori quindi denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 30, comma 2-bis, del D.Lgs. 165 del 2001 e degli artt. 33 della legge regionale n. 77 del 1999 e 36 della legge regionale n. 6 del 2005 nonché bando di concorso (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cpc), avendo la corte territoriale, trascurato che la regione aveva l'obbligo di attingere le ulteriori vacanze della graduatoria del concorso in ossequio alle suddette norme.
La Sezione Lavoro della Suprema Corte ha respinto il ricorso, ritenendo insussistente il diritto soggettivo dei ricorrenti alla copertura dei posti vacanti tramite scorrimento di graduatoria in via prioritaria rispetto al trasferimento di personale mediante mobilità intercompartimentale.
Quest'ultima è da ritenersi estranea ai blocchi assunzionali perché all'esito della sua realizzazione non c'è un vero e proprio aggravio di spesa per la P.A. Ne resta confermato, un quadro normativo di assoluto favore per il passaggio di personale tra Amministrazioni rispetto all'assunzione di nuovo personale, che non può non riverberarsi anche sul rapporto tra ricerca di personale mediante mobilità volontaria e scorrimento delle graduatorie; anche in quest'ultimo caso, infatti, pur trattandosi di procedure già espletate, rileva comunque la provvista "aggiuntiva" di nuove risorse umane, al contrario dell'altra modalità in cui la copertura dei posti si consegue attraverso un'ottimale redistribuzione di personale pubblico già in servizio (commento tratto dalla newsletter Ancitel 05.06.2017 - Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 18.05.2017 n. 12559).
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MASSIMA
1. Con l'unico motivo di ricorso i lavoratori denunziano violazione e falsa applicazione dell'art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, anche in relazione agli artt. 33 della legge regionale n. 77 del 1999 e 36 della legge regionale n. 6 del 2005 ed al bando di concorso (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, trascurato che -essendo stata avviata la mobilità a seguito dell'indizione del concorso interno- la Regione aveva l'obbligo di attingere le ulteriore vacanze dalla graduatoria del concorso in ossequio alle previsioni di vigenza triennale della suddetta graduatoria contenute sia nel bando della selezione sia nelle leggi regionali.
La Corte territoriale ha, inoltre, richiamato il criterio di priorità delle procedure di mobilità rispetto alle procedure di selezione interna, di cui all'art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, senza avvedersi che la disposizione (che inerisce al momento precedente l'indizione della selezione interna) è stata inserita nell'ordinamento in data successiva alla pubblicazione del bando di concorso (del 14.07.2004). Diversamente, la legge regionale del 1999 (e quelle successive n. 6 del 2005 e n. 49 del 2010) prediligono lo strumento dello scorrimento in graduatoria per la copertura di posti vacanti, al fine del contenimento della spesa.
2. Il ricorso non merita accoglimento.
3. La Regione Abruzzo ha indetto, con bando pubblicato sul B.U.R.A. speciale concorsi n. 69 del 14.07.2004, una selezione interna (per titoli ed esami) per la copertura di 3 posti di categoria D, profilo professionale di Funzionario amministrativo; all'esito della procedura (la graduatoria è stata pubblicata il 03.08.2005), la Regione ha provveduto all'assunzione dei 3 vincitori. Successivamente,, con delibere che si diluiscono nel tempo (la prima del 28.08.2005 e l'ultima del 15.11.2007), la Regione ha proceduto ad immettere nei propri ruoli 9 dipendenti transitati con mobilità volontaria intercompartimentale, inquadrati (nell'amministrazione di provenienza) nella categoria D.
4. Il testo originario dell'art. 30 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 recitava: "Passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse.
1. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Il trasferimento e' disposto previo consenso dell'amministrazione di appartenenza.
2. I contratti collettivi nazionali possono definire le procedure e i criteri generali per l'attuazione di quanto previsto dal comma 1
."
L'art. 5, comma 1-quater, del decreto legge 31.01.2005, n. 7 convertito, con modificazioni, dalla legge 31.03.2005, n. 43) ha aggiunto alcuni commi all'art. 30 citato. In particolare, il comma 2-bis recitava: "2-bis. Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza". Successivamente (con l'art. 16, comma 1, della legge 28.11.2005, n. 246) sono state apportate ulteriori modifiche alla disposizione.
Invero, "Al fine di rafforzare i servizi alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni, con particolare riguardo ai servizi di informazione e di semplificazione, nel rispetto del contenimento dei costi", le parole: "passaggio diretto" sono state sostituite da: "cessione del contratto di lavoro" (al comma 1 dell'art. 30 del d.lgs. n. 165); al comma 2, è stato aggiunto, in fine, il seguente periodo: "In ogni caso sono nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi volti ad eludere l'applicazione del principio del previo esperimento di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale"; dopo il comma 2-quater, è stato aggiunto il seguente: "2-quinquies. Salvo diversa previsione, a seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione".
Questo era il quadro normativo vigente all'epoca in cui la Regione si è determinata a ricoprire tramite mobilità intercompartimentale i posti vacanti nella categoria D.
5.
La legislazione successiva intervenuta a modificare ed integrare l'art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha perseguito sempre con maggiore determinazione la finalità di favorire le procedure di mobilità volontaria tra amministrazioni pubbliche (centrali e periferiche) al fine di riequilibrare, nella sua globalità, la distribuzione del personale pubblico tra i diversi uffici nonché sul territorio (art. 49, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2009, in relazione al quale la Corte Costituzionale, con sentenza n. 324/2010, ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale promossa in riferimento all'art. 117, quarto comma, Cost., appartenendo -la materia- all'ordinamento civile e non ad ambiti materiali di competenza regionale).
6. Con riguardo alla legislazione regionale, la testuale voluntas legis, se è certamente quella di preferire l'utilizzazione delle graduatorie degli idonei, "derivanti da pubblici concorsi", ove ancora vigenti, rispetto all'indizione delle procedure di concorsi pubblici (art. 33 della legge regionale n. 77 del 1999 e art. 36 della legge n. 6 del 2005), è anche quella di anteporre, finanche all'utilizzazione delle graduatorie degli idonei, l'esperimento delle procedure di mobilità, come è inequivocamente indicato dalla locuzione "previo esperimento delle procedure di mobilità" contenuto nell'art. 5 della legge regionale n. 49 del 2010.
7.
La mobilità intercompartimentale -come il legislatore ha espressamente previsto (cfr., ad. esempio, l'art. 1, commi 47-49 della legge n. 311/2004 in materia di mobilità dei segretari comunali)- deve ritenersi estranea ai blocchi delle assunzioni nella pubblica amministrazione in quanto all'esito della sua realizzazione non vi è un vero e proprio aggravio di spesa per la pubblica amministrazione globalmente considerata, posto che -pur variata l'amministrazione di appartenenza- il numero complessivo dei soggetti impiegati rimane lo stesso, trattandosi di strumento di gestione funzionale all'organizzazione complessiva della pubblica amministrazione.
8. Ne resta confermato un quadro normativo di assoluto favore per il passaggio di personale tra amministrazioni rispetto all'assunzione di nuovo personale, che non può non riverberarsi anche sul rapporto tra ricerca di personale mediante mobilità volontaria e scorrimento delle graduatorie; anche in quest'ultimo caso, infatti, pur trattandosi di procedure già espletate, rileva comunque la provvista "aggiuntiva" di nuove risorse umane, al contrario dell'altra modalità in cui la copertura dei posti si consegue attraverso un'ottimale redistribuzione di personale pubblico già in servizio.
9. E' stato affermato da questa Corte, seppur con riguardo ai profili di riparto della giurisdizione, che
le procedure riguardanti soggetti già dipendenti di pubbliche amministrazioni ove dirette a realizzare la novazione del rapporto con inquadramento qualitativamente diverso dal precedente realizzano delle vere e proprie assunzioni mentre il passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, disciplinato attualmente dal d.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 30, integra una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto (SS.UU. nn. 5077/2015, 26420/2006).
Anche la Corte Costituzionale ha rilevato come
la mobilità volontaria integra una fattispecie di cessione del contratto e gli oneri di pubblicità delle carenze di organico al fine di agevolare la copertura tramite passaggio diretto di personale da altre amministrazioni rispondono semplicemente alla necessità di rispettare l'art. 97 Cost. e, precisamente, i principi di imparzialità e di buon andamento dell'amministrazione (sentenza n. 324/2010).
10. L'esposto excursus normativo e giurisprudenziale dimostra che
il trasferimento di un dipendente da un'amministrazione ad un'altra tramite mobilità intercompartimentale concreta una fattispecie diversa dalla progressione verticale da una categoria ad un'altra, la prima una cessione di contratto e l'altra un reclutamento di personale, e che il legislatore -in ossequio a principi di buon andamento sanciti dall'art. 97 Cost., al fine di realizzare economie di spesa- favorisce il passaggio diretto di personale pubblico, a parità di inquadramento, tra le diverse amministrazioni.
11. Nel caso di specie, la esigenza di copertura di posti vacanti si è manifestata a distanza temporale notevole (agosto 2005- novembre 2007) rispetto all'indizione del concorso (luglio 2004), sicché è affatto incompatibile né irragionevole ex se, posta la reiterata proroga di vigenza delle graduatoria e nella stessa ottica del risparmio di spesa, la (rinnovata) ricerca di personale all'interno del comparto pubblico che, nelle more, ben può essersi reso reperibile.
L'Amministrazione, inoltre, ha coperto posti "ulteriori" rispetto a quelli di cui al concorso, laddove l'avviso di mobilità precedente l'indizione, ove effettuato, non avrebbe potuto che riguardare solo i tre posti effettivamente e "originariamente" messi a concorso.
12. In conclusione,
la scelta tra copertura di posti vacanti tramite mobilità del personale ovvero scorrimento di graduatoria efficace poteva ritenersi rimessa, sino alla novella legislativa del novembre 2005 (legge n. 246/2005 innanzi riportata), al potere discrezionale della pubblica amministrazione; successivamente, la previsione di una espressa nullità della determinazione che decida il reclutamento di nuovo personale (nella cui accezione, secondo giurisprudenza consolidata, va incluso la progressione verticale dei dipendenti in categoria superiore) senza provvedere, prioritariamente, ad avviare la mobilità di personale proveniente da altra amministrazione configura un obbligo per l'amministrazione procedente.
Non sussisteva, pertanto, né sussiste un diritto soggettivo dei ricorrenti alla copertura di posti vacanti tramite scorrimento in graduatoria in via prioritaria rispetto al trasferimento di personale mediante mobilità intercompartimentale.

EDILIZIA PRIVATAL’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica delle opere abusive ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo prescritto per l’intervento edilizio realizzato.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità urbanistica e, se del caso, della compatibilità paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt. 146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in caso di interventi in aree vincolate.
Va da sé che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata (che va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento dell’emanazione dell’atto impugnato) e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza.

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I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che per l’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
L’attività istruttoria finalizzata ad accertare la presenza di opere abusive può essere compiuta dalla Polizia municipale e può quindi risultare, a sostegno del provvedimento impugnato, dal verbale di sopralluogo dei vigili urbani, che ha valore probante, avente fede privilegiata fino a querela di falso, in ordine ai fatti constatati alla presenza del pubblico ufficiale.
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Sennonché, il trascorrere del tempo non può consolidare alcun affidamento sulla conservazione o legittimità di opere realizzate abusivamente.
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L’avente causa subentra nella medesima posizione di diritto del dante causa, per cui il trasferimento del diritto sul suolo non può certamente determinare alcuna legittimazione delle opere abusive ivi costruite.
Del resto l’individuazione dell’autore dei lavori abusivi ha una rilevanza secondaria, contrariamente a quanto rileva nel processo penale ai fini del riconoscimento della responsabilità penale per i reati edilizi. Infatti l’indicazione del responsabile degli abusi è meramente eventuale e non essenziale per l’applicazione delle sanzioni edilizie, che non hanno un carattere “personale” (contrariamente a quelle penali), ma hanno piuttosto una natura “reale”, rivolgendosi in primo luogo al proprietario, avente la disponibilità e la responsabilità dell’immobile interessato dalle opere abusive, al fine di assicurare la effettività dell’ingiunzione tendente al ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione quindi dell’interesse pubblico all'ordinato assetto del territorio.
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1.1. E’ innanzitutto da osservare che l’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica delle opere abusive ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo prescritto per l’intervento edilizio realizzato (cfr. Cons. St., sez. IV, 26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità urbanistica e, se del caso, della compatibilità paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt. 146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie, pur essendo allegata la presentazione di un’istanza di sanatoria (prot. n. 35013 del 27/7/2011), non risulta che la stessa sia stata accolta, né risulta che sia stato tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego sia pure tacito.
E’ appena il caso di soggiungere che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata (che va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento dell’emanazione dell’atto impugnato) e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr. Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
1.2. I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228).
Ne consegue che per l’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
1.3. L’attività istruttoria finalizzata ad accertare la presenza di opere abusive può essere compiuta dalla Polizia municipale e può quindi risultare, a sostegno del provvedimento impugnato, dal verbale di sopralluogo dei vigili urbani, che ha valore probante, avente fede privilegiata fino a querela di falso, in ordine ai fatti constatati alla presenza del pubblico ufficiale.
Né la rilevazione dell’intervento di frazionamento richiede particolari competenze tecniche. Del resto lo stesso ricorrente non allega, né tanto meno prova, ma semmai riconosce che sono state apportate (in un’epoca imprecisata) alcune varianti rispetto alla originaria licenza edilizia n. 249 del 1966.
Infatti le contestazioni dedotte riguardano essenzialmente l’epoca e l’autore del frazionamento, a parte aspetti secondari relativi alla esistenza di una porta e di uno scarico fecale, che tuttavia non escludono sostanzialmente l’effettuazione dell’intervento di frazionamento.
1.4. Sennonché, come già detto, il trascorrere del tempo non può consolidare alcun affidamento sulla conservazione o legittimità di opere realizzate abusivamente.
Peraltro è da osservare che, in base all’art. 64 c.p.a., le parti hanno l’onere di fornire gli elementi di prova di cui abbiano la disponibilità; sicché, in applicazione del principio di riferibilità e vicinanza della prova, il ricorrente è tenuto a provare i fatti rientranti nella propria sfera di controllo (cfr. Cass., ss.uu., 30/10/2001, n. 13533), tra i quali è da comprendere la prova, da parte del proprietario dell’immobile, dell’epoca di realizzazione di un intervento edilizio privo di titolo abilitativo, essendo da escludere che tale prova debba essere fornita dall’amministrazione.
Ne consegue che va anche disattesa la contestazione in ordine alla invocata applicazione di una normativa previgente rispetto al d.lgs. n. 380 del 2001.
In particolare è da escludere l’applicabilità del richiamato art. 34 della legge n. 47 del 1985 posto che la sanatoria prevista dalle disposizioni del capo IV della legge n. 47 del 1985 presuppone la formale e tempestiva presentazione di una domanda di condono che nella specie non risulta avanzata dall’interessato.
1.5. Né può assumere alcuna rilevanza la circostanza che il ricorrente affermi di essere estraneo alla realizzazione delle opere stesse in quanto preesistenti al loro acquisto. Infatti –a parte il fatto che tale preesistenza neppure è dimostrata- l’avente causa subentra nella medesima posizione di diritto del dante causa, per cui il trasferimento del diritto sul suolo non può certamente determinare alcuna legittimazione delle opere abusive ivi costruite.
Del resto l’individuazione dell’autore dei lavori abusivi ha una rilevanza secondaria, contrariamente a quanto rileva nel processo penale ai fini del riconoscimento della responsabilità penale per i reati edilizi. Infatti l’indicazione del responsabile degli abusi è meramente eventuale e non essenziale per l’applicazione delle sanzioni edilizie, che non hanno un carattere “personale” (contrariamente a quelle penali), ma hanno piuttosto una natura “reale”, rivolgendosi in primo luogo al proprietario, avente la disponibilità e la responsabilità dell’immobile interessato dalle opere abusive, al fine di assicurare la effettività dell’ingiunzione tendente al ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione quindi dell’interesse pubblico all'ordinato assetto del territorio (cfr. Cons. St., sez. VI, 12/08/2016, n. 3620).
Ciò spiega, tra l’altro, perché nella presente sede non possono avere rilevanza le vicende e determinazioni adottate in sede penale, che peraltro nella specie non escludono affatto la sussistenza dell’abuso, ma sono piuttosto basate su aspetti relativi alla individuazione del reo ed alla sanabilità dell’intervento che, per le ragioni già dette sopra e nel precedente paragrafo 1.1, non incidono sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione (cfr. il provvedimento emesso dal Tribunale di Napoli, X sezione riesame, per annullare i decreti di sequestro) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 15.05.2017 n. 2620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base al principio tempus regit actum, la legittimità del provvedimento impugnato (ndr: ordinanza di demolizione) deve essere valutata tenendo conto della normativa vigente al momento della sua emanazione.
Pertanto agli abusi edilizi va applicato il regime sanzionatorio esistente alla data della irrogazione della sanzione e non quello risultante da una disposizione sopravvenuta.
Infatti le sanzioni in materia edilizia non sono soggette al principio di retroattività della disposizione sanzionatoria più favorevole, non estensibile al di fuori dell'ordinamento penale, in mancanza di una espressa indicazione del legislatore.
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1.6. Orbene, in base all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente all’epoca dell’emanazione dell’atto impugnato, gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti un aumento delle unità immobiliari costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio subordinati a permesso di costruire, in mancanza del quale è applicabile la sanzione della demolizione e prevista dall’art. 33 dello stesso d.P.R. n. 380.
1.7. Con memoria difensiva, depositata peraltro tardivamente in data 13/04/2017, il ricorrente invoca l’applicazione delle nuove disposizioni introdotte dall’art. 17, co. 1, lett. d) e lett. a), n. 2), del decreto-legge n. 133 del 2014, che hanno compreso nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria le opere consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari.
Sennonché, anche a voler prescindere dall’ammissibilità di tale censura irrituale, dedotta tardivamente e senza l’osservanza delle formalità previste dall’art. 43 c.p.a. per la proposizione di motivi aggiunti, è agevole osservare che, in base al principio tempus regit actum, la legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata tenendo conto della normativa vigente al momento della sua emanazione.
Pertanto agli abusi edilizi va applicato il regime sanzionatorio esistente alla data della irrogazione della sanzione e non quello risultante da una disposizione sopravvenuta.
Infatti le sanzioni in materia edilizia non sono soggette al principio di retroattività della disposizione sanzionatoria più favorevole, non estensibile al di fuori dell'ordinamento penale, in mancanza di una espressa indicazione del legislatore (cfr. Cons. St., sez. V, 20/11/2015, n. 5287).
2. In conclusione il ricorso in esame va dunque respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 15.05.2017 n. 2620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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