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AGGIORNAMENTO AL 30.09.2017 (ore 23,59) |
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PARCO ADDA NORD: le indagini penali continuano... |
ENTI LOCALI:
Truffe, abusi e favori. Sotto inchiesta la cricca
del Parco Adda Nord. Perquisiti gli uffici. Indagati
l’ex dg Minei, Bani e Moroni.
Sotto inchiesta la cricca del Parco
Adda Nord.
Gli investigatori della Mobile di Milano, su
disposizione del pm del pool Anticorruzione Giovanni
Polizzi, hanno perquisito gli uffici che gestiscono
i cinquemila e 650 ettari di verde lungo il fiume
Adda, da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci
paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i
Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia
industriale.
L’indagine riguarda l’ex direttore generale
Giuseppe Luigi Minei
(indagato per turbativa d’asta, truffa, abuso
d’ufficio e soppressione di documenti pubblici); il
suo vice Alex Giovanni Bani
(truffa) e la funzionaria 34 enne
Francesca Moroni
(concorso in turbativa d’asta). Richiesta
un’esibizione di atti anche ai Comuni di Basiglio e
Trezzano Rosa e alla Provincia di Bergamo.
La vicenda, su cui ora indaga la
Procura, è stata ricostruita a metà luglio dal
Corriere della Sera.
L’indagine è partita dalle verifiche ispettive
eseguite al Parco Adda dalla commissione d’inchiesta
istituita da Regione Lombardia. Determinante per le
indagini il lavoro dei due componenti dell’Agenzia
regionale dell’Anticorruzione (Arac)
Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri.
Tutto ruota intorno alla figura dell’architetto
Minei,
60 anni, nominato direttore del Parco Adda Nord il
15.02.2013 e in carica fino al marzo 2016. L’accusa
di turbativa d’asta è legata all’assunzione della
giovane amica Francesca Moroni,
già sua collaboratrice al Comune di Truccazzano,
dov’è stato direttore del servizio di gestione del
territorio.
Il contratto arriva dopo il fallimento di un
bando-lampo, pubblicato per 15 giorni e non 30 come
previsto dalle norme in materia. Non solo,
Minei
siede nella commissione d’esame che deve decidere a
chi assegnare l’incarico. Eppure per obbligo di
legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato e
presente, con i partecipanti. L’ipotesi è anche che
l’allora direttore generale abbia appositamente
stipulato un accordo con il Comune di Treviglio per
potere attingere alle graduatorie di un concorso
indetto negli anni passati e che vede
Moroni
come seconda classificata.
La firma per potere pescare da Treviglio è del
29.01.2016, con il segretario generale del Comune
Antonio Sebastiano Purcaro
(attualmente segretario generale della Provincia di
Bergamo). Sempre Purcaro,
il 18.03.2015, ha ricevuto una consulenza da seimila
euro dal Parco, rinnovata lo stesso giorno della
firma della convenzione, il 29 gennaio. Nel luglio
2016, Purcaro
rinuncia a sorpresa al compenso.
Le presunte irregolarità su cui la
Procura vuole fare luce riguardano anche un call
center fantasma
finanziato con 45 mila euro di fondi europei erogati
da Regione Lombardia. Sulla carta deve essere un
centralino per informazioni turistiche, in funzione
dal luglio/agosto 2015 in concomitanza con Expo e
attivo per 18 mesi, sei giorni la settimana.
L’obiettivo è garantire un’infoline telefonica, la
promozione di eventi culturali, sportivi e
ambientali e la piattaforma web
Visitadda.
Il progetto s’intitola: «Passaggio sull’Adda. Da
Leonardo ad Expo: circuiti e itinerari sostenibili
oltre il 2015». Ma la creazione e il
funzionamento del call center non risultano
documentati in alcun modo. Secondo quanto
ricostruito dagli investigatori, il centralino era
stato allestito soltanto per essere mostrato agli
ispettori. Di qui l’ipotesi di truffa che riguarda
sia il dg Minei
sia il vice Alex Giovanni Bani.
I controlli degli inquirenti riguardano anche la
vittoria di Minei
in una gara dell’Ente regionale per i servizi
all’Agricoltura e alle Foreste (Ersaf). L’incarico
della durata di venti mesi è per la valorizzazione
del Parco dello Stelvio. La busta paga è di 120mila
euro. Secondo gli investigatori
Minei è
già a conoscenza dell’esito del bando prima dei
risultati: per lo stesso periodo dell’incarico, ma a
decisione non ancora ufficiale, affitta un
appartamento a Bormio
(23.09.2017 - tratto da e link
a http://bergamo.corriere.it). |
ENTI
LOCALI:
Un contratto all’amica e il call center fantasma:
sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord.
Tre indagati, tra cui l’ex direttore generale
Minei.
Al lavoro gli investigatori della Squadra mobile su
disposizione del pm Anticorruzione Polizzi. Ipotesi
di turbativa d’asta, truffa e soppressione di
documenti.
Sotto inchiesta la cricca del Parco Adda Nord. Gli
investigatori della Squadra mobile di Milano, su
disposizione del pm del pool Anticorruzione Giovanni Polizzi, stanno effettuando una serie di
perquisizioni negli uffici che gestiscono i
cinquemila 650 ettari di verde lungo il fiume Adda,
da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci
paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i
Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia
industriale. L’indagine riguarda l’ex direttore
generale Giuseppe Luigi Minei
(indagato per turbativa d’asta, truffa e
soppressione di documenti pubblici); il suo vice
Alex Giovanni Bani
(accusato di truffa) e la funzionaria
Francesca Moroni
(indagata per concorso in turbativa d’asta).
La vicenda, su cui ora indaga la Procura, è stata
ricostruita a metà luglio dal Corriere della Sera.
L’architetto Giuseppe Luigi Minei,
nato a Matera ma di casa a Cassano D’Adda, viene
nominato direttore del Parco Adda Nord il
15.02.2013, dopo avere lavorato dieci anni per il
Comune di Truccazzano, dov’è stato direttore del
servizio di gestione del territorio. Il primo
dicembre 2014 la giovane collega
Francesca Moroni,
di cui Minei
è stato superiore proprio a Truccazzano, vince un
posto all’ufficio urbanistica del Parco: nella
commissione d’esame che deve decidere a chi
assegnare l’incarico siede lui, anche se per obbligo
di legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato
e presente, con i partecipanti al concorso.
L’assunzione ora costa a Minei
l’accusa di turbativa d’asta e a
Moroni il
concorso in turbativa d’asta.
Le presunte irregolarità su cui la Procura vuole
fare luce riguardano anche un call center fantasma.
Il centralino per informazioni turistiche
—finanziato con 37.500 euro di fondi europei erogati
da Regione Lombardia— doveva entrare in funzione nel
luglio/agosto 2015 in concomitanza con Expo ed
essere attivo per 18 mesi, sei giorni la settimana.
Ai turisti doveva essere garantita un’infoline
telefonica, la promozione di eventi culturali,
sportivi e ambientali e la piattaforma web
Visitadda.
Il progetto s’intitolava: «Passaggio sull’Adda.
Da Leonardo ad Expo: circuiti e itinerari
sostenibili oltre il 2015». Ma i risultati delle
verifiche, terminate lo scorso 21 giugno, portano a
una conclusione sorprendente: «La creazione e il
funzionamento del call center non risultano
documentati in alcun modo». Di qui l’ipotesi di
truffa.
L’inchiesta serve anche a chiarire perché i vertici
del Parco non hanno mai incassato da una società,
responsabile di scavi non autorizzati, una multa da
un milione di euro, soldi che non sono mai entrati
nelle casse pubbliche. L’indagine,
condotta dalla sezione Anticorruzione della Squadra
mobile, è partita dalle verifiche ispettive condotte
al Parco Adda Nord dalla commissione d’inchiesta
istituita da Regione Lombardia e coordinata da Maria
Pia Readelli degli Uffici regionali dei controlli.
Determinante per le indagini il lavoro dei due
componenti dell’Agenzia regionale
dell’Anticorruzione (Arac), Giovanna Ceribelli e
Sergio Arcuri (22.09.2017 - tratto da e link
a http://milano.corriere.it). |
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IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigente tecnico del Comune responsabile del deposito
incontrollato di rifiuti.
Il dirigente tecnico del Comune è responsabile per il
deposito incontrollato di ramaglie posto in essere
dall'operaio comunale nell'ambito delle relative mansioni, a
nulla rilevando la circostanza che il dirigente non ne fosse
a conoscenza.
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1. Il sig. Da.Gr.
ha proposto appello avverso la sentenza del 31/03/2015 del
Tribunale di Brindisi che lo ha condannato alla pena di
8.000,00 euro di ammenda per il reato di cui all'art. 256,
comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, perché, nella sua qualità
di dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Torchiarolo,
aveva omesso di vigilare sulla destinazione dei rifiuti
derivanti dalla potatura del "verde" comunale,
abbandonati in modo incontrollato da un dipendente comunale
all'interno del campo sportivo già illecitamente destinato
alla ricezione di altri tipi di rifiuti.
Il fatto è contestato come commesso in Torchiarolo il
23/07/2012.
...
6. Si legge nella sentenza del Tribunale che il 23/07/2012 i
CC di Torchiarolo, a seguito di segnalazione di un
consigliere comunale, avevano effettuato un sopralluogo nel
campo sportivo appurando che nell'area ad esso adiacente
erano giacenti vari cumuli di rifiuti, anche ingombranti,
composti da residui di potatura, sacchi di spazzatura, un
frigorifero, materiale ferroso e plastica.
Nel corso del sopralluogo era sopraggiunto un autocarro del
Comune (assegnato all'ufficio tecnico) i cui occupanti
avevano iniziato a scaricare materiale derivante dalla
potatura di alberi ed arbusti.
Il conducente del mezzo, operaio alle dipendenze del Comune,
aveva riferito, nel corso del dibattimento, di essere stato
informalmente indirizzato dal Sindaco, occasionalmente
incontrato, a portare i residui di potatura presso il campo
sportivo. Aveva altresì spiegato che normalmente della
raccolta delle ramaglie si occupava l'impresa appositamente
incaricata, tuttavia quel giorno la potatura era stata
ultimata successivamente all'ora stabilita per il ritiro,
sicché, per non lasciarle sul posto e creare un disservizio,
aveva chiesto istruzioni al sindaco ottenendo in risposta
l'indicazione di portarle allo stadio e di sentire
l'impresa.
La circostanza era stata negata dal sindaco (imputato
anch'egli) che aveva affermato di non essere a conoscenza
dell'episodio; anche il tecnico comunale, odierno
ricorrente, aveva affermato di non essere a conoscenza dello
scarico delle ramaglie.
Esclusa la sussistenza del reato di gestione di discarica
non autorizzata inizialmente contestata dal Pubblico
Ministero, il Giudice ha inquadrato il fatto nella meno
grave fattispecie di abbandono incontrollato di rifiuti di
cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. 152 del 2006, e ciò sul
rilievo della natura occasionale della condotta che non
aveva determinato un vero e proprio degrado dell'area
interessata.
L'odierno ricorrente è stato ritenuto responsabile del reato
perché, in quanto dirigente dell'ufficio tecnico comunale,
non aveva impedito la destinazione dell'area a luogo di
raccolta dei rifiuti vegetali; la consapevolezza di tale
destinazione (e dell'abbandono) è stata desunta dal suo
ruolo e dal fatto che il Comune di Torchiarolo è un piccolo
centro di 5.000 abitanti.
Il sindaco è stato assolto perché le dichiarazioni del
dipendente comunale erano apparse contraddittorie al
Tribunale che ha ulteriormente evidenziato l'assenza, in
capo al sindaco stesso, del dovere giuridico di impedire
l'evento non rientrando tra i suoi doveri quello di vigilare
sull'attività di smaltimento dei rifiuti.
6.1. Così sintetizzata la vicenda, occorre innanzitutto
evidenziare che la responsabilità
dell'odierno imputato non si fonda sul fatto che il terreno
adibito a luogo di abbandono delle ramaglie fosse di
proprietà comunale. Non sono perciò pertinenti i richiami
alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la
mancanza di una posizione di garanzia del proprietario per
l'abbandono incontrollato di rifiuti che altri faccia sul
suo terreno (in
questo senso, da ultimo, Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, Rv. 266030, che ha ribadito il principio secondo
il quale non è configurabile in forma omissiva il reato di
cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti).
Né, per lo stesso motivo, rileva il
principio secondo il quale sul titolare dell'impresa o
dell'ente non grava l'obbligo di attivarsi per eliminare le
conseguenze dell'abbandono di rifiuti posto in essere da
terzi sull'area di pertinenza aziendale o dell'ente
(in questo senso, Sez. 3, n. 24477 del 15/05/2007, Pino,
n.m.).
6.2. Il nucleo del ragionamento seguito dal Tribunale è
altro ed è chiaro: il dipendente comunale è
tenuto a vigilare sul corretto adempimento dello smaltimento
dei rifiuti che rientra nelle attribuzioni dell'ufficio da
lui diretto. In
senso analogo, questa Suprema Corte aveva già affermato il
principio che risponde del reato di cui
all'allora art. 51, comma terzo, del d.Lgs. n. 22 del 1997
(realizzazione o gestione di discarica non autorizzata) il
dirigente dei servizi tecnici comunali, tra cui quello
relativo alla nettezza urbana, che dispone, o non impedisce
pur avendone l'obbligo giuridico, il deposito dei residui di
potatura e pulitura degli alberi in zona adibita a discarica
abusiva (Sez. 3,
n. 12356 del 24/02/2005, Rizzo, Rv. 231071).
Non si tratta ovviamente di responsabilità
oggettiva da posizione ma di responsabilità colpevole,
fondata, in caso di condotta posta in essere dal dipendente,
sulla possibilità di evitarla
(cfr., sul punto, Sez. 3, n. 40530 del 11/06/2014, Mangone,
Rv. 261383; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv.
250485, Sez. 3, n. 24736 del 22/06/2007, Sorce, Rv. 236882,
secondo le quali il reato di abbandono incontrollato di
rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai
responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa
vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta di abbandono).
L'omessa vigilanza sull'operato altrui,
dunque, costituisce elemento strutturale della fattispecie
contravvenzionale che, essendo punita anche a titolo di
colpa, individua nella titolarità dell'impresa (ovvero nella
responsabilità dell'ente) il fondamento giuridico-fattuale
dell'addebito omissivo.
6.3. Non va dimenticato, infatti, che il
reato previsto dall'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del
2006, ha natura di reato proprio del titolare dell'impresa o
del responsabile dell'ente.
6.4. La fattispecie descrive in termini
chiaramente commissivi la condotta
(sulla natura commissiva del reato, Sez. 3, n. 25429 del
01/07/2015, Gai, Rv. 267183; Sez. 3, n. 38662 del
20/05/2014, Convertino), ma ciò non
significa che autore materiale della stessa possa essere
esclusivamente il titolare dell'impresa o il responsabile
dell'ente.
La norma non intende certamente riferirsi
ad essi quali persone fisiche, bensì quali legali
responsabili dell'impresa/ente cui deve essere ricondotta
l'attività di abbandono/deposito incontrollato. Sicché è
sufficiente che l'abbandono/deposito venga posto in essere
anche tramite persone fisiche diverse dal titolare/legale
rappresentante perché questi ne risponda, purché ciò avvenga
nell'ambito delle attività riconducibili alle imprese e/o
agli enti da loro rappresentati. In questo senso si può
affermare che la "culpa in vigilando", quale
necessario titolo di addebito per il fatto altrui,
costituisce un baluardo verso forme di responsabilità
oggettiva.
6.5. Ora è indubbio, nel caso di specie,
che la condotta di deposito incontrollato di ramaglie è
stata posta in essere dall'operaio comunale nell'ambito
delle mansioni da lui ordinariamente svolte e che il luogo
nel quale esse sono state abbandonate era già stato
interessato da precedenti abbandoni di materiale dello
stesso tipo (residui di potatura), oltre che da rifiuti
eterogenei. Il che depone per la non occasionalità o
eccezionalità della condotta.
Ogni diversa allegazione, volta a sovvertire il fatto "raccontato"
dal Giudice sostituendolo con quello ricostruibile "aliunde",
non è ammessa in questa sede per le ragioni ampiamente
illustrate in precedenza.
6.6. Non è perciò manifestamente illogico
trarre da questi dati di fatto, unitamente alla circostanza
che il Comune di Torchiarolo è un centro di piccole
dimensioni, la prova della consapevolezza, da parte del
dirigente comunale, della destinazione impressa ai residui
di potatura e comunque della violazione del dovere di
attivarsi per impedire lo specifico evento a lui attribuito.
6.7. 5i aggiunga, quale ulteriore considerazione, che
la necessità, per l'operaio dipendente, di
chiedere istruzioni sul come smaltire le ramaglie non
raccolte dall'impresa incaricata del servizio dimostra
l'assenza di direttive e/o modelli organizzativi volti a
disciplinare evenienze certamente non eccezionali, né
imprevedibili. Il che costituisce ulteriore argomento a
sostegno della corretta attribuzione del fatto all'odierno
imputato che, sul punto, nulla ha dedotto.
6.8. Ne consegue che il ricorso deve essere respinto e il
ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza
14.09.2017 n. 41794). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla differenza tra varianti in senso proprio,
varianti essenziali e varianti minime.
La vigente normativa edilizia riconosce la
possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La
giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in
senso
proprio, varianti essenziali e varianti minime.
● Per quanto riguarda le c.d.
varianti in senso proprio, deve
rilevarsi che non tutte
le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi
varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente
e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di
variante deve, cioè,
ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza
rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere
in considerazione, al fine
di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla
variante ad altro preesistente,
sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le
distanze dalle proprietà
viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del
fabbricato.
Il nuovo provvedimento
rimane
in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di
accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva
del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace
sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare,
restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta,
che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di
continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
● Costituisce, poi, c.d.
variante essenziale ogni modifica
incompatibile col disegno
globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio,
sia sotto l'aspetto qualitativo
sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale
istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale
enunciata dall'art. 32 del
d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della
destinazione d'uso
implicante alterazione degli standards, l'aumento
consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il
mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito e la violazione
delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non
ricomprende le modifiche
incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed
autonomo permesso di costruire e, conseguentemente,
assoggettate alle disposizioni
vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi,
con esse, solo
di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un
'opera diversa, nelle sue caratteristiche
essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
● Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti
minori.
In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate
a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e
la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute
nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a.
costituisce "parte integrante
del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale"
e può essere presentata prima della dichiarazione di
ultimazione dei lavori:
la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle
opere in difformità dal permesso di costruire e poi
regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti
leggere'.
In altri termini, una
volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi
dal paradigma normativo
(art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione
comunale, anche dopo la scadenza
del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n.
380/2001, rimane
nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e
sanzionatori previsti dall'ordinamento
e, più in generale,
i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale
l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001
non prevede alcun termine decadenziale.
---------------
In corso d'opera:
- la ricostruzione del solaio di
copertura di mq. 32 e
- la realizzazione
di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente
delle dimensioni di mt.
2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il
predetto immobile,
sono opere edilizie che non possono rientrare
in una "variante leggera", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n.
380 del 2001, poiché la variante ha avuto incidenza su superficie,
volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le
distanze tra
edifici. Trattasi di affermazione,
quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già
questa Corte
affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese
anche le distanze tra
gli edifici.
---------------
Secondo l'attuale previsione normativa dell'art.
22, comma secondo,
T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio
attività le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici
e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso
e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora
sottoposto a vincolo ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, e non
violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Ai fini dell'attività
di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini
dell'agibilità, tali segnalazioni
certificate di inizio attività costituiscono parte
integrante del procedimento
relativo al permesso di costruzione dell'intervento
principale e possono essere presentate
prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La
formulazione
dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare
corso alle opere in difformità
dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine
dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non
rientrava, a giudizio della
Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, comma 2.
Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica
sostanziale di parametri
urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché
di volumetria, ossia la
volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile
diruto.
Se
può, invero, ritenersi in astratto condivisibile
l'affermazione per cui la volumetria e la
cubatura del vano accessorio
non può costituire variazione essenziale ai sensi
dell'articolo 32 citato (posto che
a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso
variazioni essenziali quelle che
incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile
che la ricostruzione del
solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla
superficie e sui parametri
urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le
distanze tra gli edifici.
Tuttavia, deve ritenersi configurabile
la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b), a
fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante
leggera in corso d'opera"
autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati,
ma non autorizzabile
attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione
dell'art. 33, d.P.R. n. 380
del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio
di copertura di rilevante
consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso
capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette
variazioni essenziali
ai sensi dell'art.
32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della
cubatura o della superficie
di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
---------------
5. Al fine di inquadrare correttamente la questione, dev'essere premesso
quanto
segue.
La vigente normativa edilizia riconosce la
possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La
giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in
senso
proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236;
25.09.2012
n. 49290).
Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve
rilevarsi che non tutte
le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi
varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente
e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di
variante deve, cioè,
ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza
rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere
in considerazione, al fine
di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla
variante ad altro preesistente,
sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le
distanze dalle proprietà
viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del
fabbricato.
Il nuovo provvedimento -da rilasciarsi col
medesimo procedimento
previsto per il rilascio del permesso di costruire-
rimane
in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di
accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva
del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace
sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare,
restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta,
che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di
continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica
incompatibile col disegno
globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio,
sia sotto l'aspetto qualitativo
sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale
istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale
enunciata dall'art. 32 del
d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della
destinazione d'uso
implicante alterazione degli standards, l'aumento
consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il
mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito e la violazione
delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non
ricomprende le modifiche
incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed
autonomo permesso di costruire e, conseguentemente,
assoggettate alle disposizioni
vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi,
con esse, solo
di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un
'opera diversa, nelle sue caratteristiche
essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti
minori.
In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate
a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e
la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute
nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a.
costituisce "parte integrante
del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale"
e può essere presentata prima della dichiarazione di
ultimazione dei lavori:
la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle
opere in difformità dal permesso di costruire e poi
regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti
leggere'.
In altri termini, una
volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi
dal paradigma normativo
(art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione
comunale, anche dopo la scadenza
del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n.
380/2001, rimane
nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e
sanzionatori previsti dall'ordinamento
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n. 3498; 12.09.2007
n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n. 781)
e, più in generale,
i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale
l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001
non prevede alcun termine decadenziale (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
6. Tanto premesso, nel caso in esame, l'intervento edilizio
contestato era consistito
nell'aver realizzato su un preesistente fabbricato ricadente
in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico:
a) la ricostruzione del solaio di
copertura di mq. 32 circa
con travetti prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali;
b) la realizzazione
di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente
delle dimensioni di mt.
2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il
predetto immobile,
coperto con lo stesso solaio sub a).
Secondo quanto emerso
in dibattimento, in
occasione di un sopralluogo eseguito dalla PG in data 05.05.2010, erano stati
riscontrati i predetti interventi non autorizzati, in quanto
non previsti o in difformità
dal p.d.c. rilasciato nel 2009 (p.d.c. n. 256/2009), il
quale era stato preceduto
dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 59/2009.
Successivamente al sopralluogo
era stata presentata richiesta di variante in corso d'opera,
accolta dal
Comune con il rilascio del p.d.c. n. 205 del 22/07/2011
avente ad oggetto la "esecuzione
di lavori in variante a precedente titolo edilizio per lievi
modifiche di prospetto e recupero fabbricato rurale
esistente", titolo preceduto dal rilascio
dell'autorizzazione
paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011 e dal parere favorevole
della soprintendenza
del 06/07/2011.
Come visto, i giudici di appello hanno escluso che detta
variante potesse rientrare
in quelle "leggere", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n.
380 del 2001, affermando
che la variante ha avuto incidenza su superficie,
volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le
distanze tra
edifici. Trattasi di affermazione,
quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già
questa Corte
affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese
anche le distanze tra
gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep.
24/06/2010, Muoio e altro, Rv.
247686).
7. Orbene, secondo l'attuale previsione normativa dell'art.
22, comma secondo,
T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio
attività le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici
e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso
e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora
sottoposto a vincolo ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, e non
violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Ai fini dell'attività
di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini
dell'agibilità, tali segnalazioni
certificate di inizio attività costituiscono parte
integrante del procedimento
relativo al permesso di costruzione dell'intervento
principale e possono essere presentate
prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La
formulazione
dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare
corso alle opere in difformità
dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine
dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non
rientrava, a giudizio della
Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, comma 2.
Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica
sostanziale di parametri
urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché
di volumetria, ossia la
volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile
diruto.
Non hanno
pregio, sul punto, le osservazioni difensive secondo cui
quanto affermato dalla
Corte d'appello in realtà si porrebbe in contrasto con la
normativa di riferimento e
con le caratteristiche tecniche del progetto. Ed invero, la
circostanza che in fase
di progettazione era stato previsto un collegamento diretto
tra i due immobili mediante
la realizzazione di una struttura frangisole nonché una
precisa destinazione
d'uso al fabbricato rurale quale deposito per attrezzi
agricoli e concimi, non escluderebbe
la assoggettabilità degli interventi edilizi alla categoria
delle variazioni
essenziali di cui all'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001.
Se
può invero ritenersi in astratto condivisibile (anche se la
verifica di quanto affermato dalla difesa comporterebbe
un apprezzamento in fatto, sottratto alla cognizione di
questa Corte di
legittimità), l'affermazione per cui la volumetria e la
cubatura del vano accessorio
non può costituire variazione essenziale ai sensi
dell'articolo 32 citato (posto che
a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso
variazioni essenziali quelle che
incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile
che la ricostruzione del
solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla
superficie e sui parametri
urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le
distanze tra gli edifici
(Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e
altro, Rv. 247686).
Il permesso originario di costruire era stato rilasciato
nell'agosto 2009 (n.
256/2009), previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
della competente Soprintendenza
(n. 59/2009); il 05/05/2010, allorquando i lavori erano
ancora in
corso, erano infatti state accertate opere non previste
nell'originario p.d.c. (la ricostruzione
del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti
sulle murature perimetrali; la realizzazione di un ulteriore
vano adiacente al
fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e
superficie utile di mq.
4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo
stesso solaio sub a).
Successivamente al sopralluogo era stata presentata domanda
di variante al permesso
di costruire e la variante, previo nuovo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica
n. 96 dell'08/07/2011, era stata autorizzata con
provvedimento comunale
del 22/07/2011 n. 205.
Tuttavia, come correttamente affermato dalla Corte
d'appello, deve ritenersi configurabile
la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b), a
fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante
leggera in corso d'opera"
autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati,
ma non autorizzabile
attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione
dell'art. 33, d.P.R. n. 380
del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio
di copertura di rilevante
consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso
capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette
variazioni essenziali
ai sensi dell'art.
32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della
cubatura o della superficie
di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
Il primo motivo dovrebbe essere, dunque, rigettato,
ma l'intervenuto decorso del termine di prescrizione massima
alla data del 03/11/2015 impone a questa Corte
l'annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per
prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di
demolizione (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.06.2017 n. 30194). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4).
Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
---------------
8. Quanto al
secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono
del travisamento probatorio
cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di
cui all'art. 181,
comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza
impugnata che
l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non
sarebbe stata preceduta
dall'imprescindibile parere vincolante della competente
Soprintendenza, aggiungendosi
anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia
dell'autorizzazione comunale,
avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la
stessa autorizzazione
comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata
subordinatamente al rispetto di alcune
prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore
bianco; nelle aree
libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a
dimora piante ad alto fusto
tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe
essere stato verificato.
In
definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio
postumo di un qualsiasi
diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai
fini della tutela paesaggistica,
ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di
condono edilizio), non
produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che
effettivamente vi è stato
travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la
Corte d'appello risulta
aver considerato e valutato solo l'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dall'organo
competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente
al rilascio
dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto
conto del parere favorevole
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà
espresso con nota prot.
11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio
dell'autorizzazione comunale intervenuta
in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva,
esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4). Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione
(v., per una ipotesi analoga
in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep.
09/10/1997, Marcelletti,
Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di
fatto, la sentenza
dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della
Corte d'appello. Tuttavia,
l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine
di prescrizione
massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi
anche per tale reato
la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il
reato paesaggistico
estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine
di rimessione in pristino
stato (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.06.2017 n. 30194). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'esternalizzazione delle attività non priva il responsabile
unico dell'incentivo
In caso di affidamento all’esterno di tutte le attività di
progettazione, direzione dei lavori, collaudo e quant'altro,
al responsabile unico del procedimento spetta comunque
l’incentivo.
---------------
FATTO
a. Con atto di citazione depositato in data 06.10.2016, ritualmente
notificato, la Procura regionale presso questa Sezione
giurisdizionale ha chiesto la condanna dei convenuti al
pagamento, a favore del Comune di San Vincenzo, della somma
di € 21.706,54, o della diversa somma di € 9.009,99, più
rivalutazione ed interessi legali, oltre alle spese di
giudizio.
La Procura ha premesso di aver ricevuto una denuncia di
danno erariale riferita ad indebiti emolumenti corrisposti
al dirigente dell’Area 1 Servizi per il Territorio quali
compensi incentivanti in relazione all’appalto di
ristrutturazione ed ampliamento del porto turistico comunale
Tali emolumenti erano stati corrisposti al geom. Fi., in
qualità di Responsabile Unico del Procedimento.
La Procura delegava dunque le relative indagini alla Guardia
di Finanza – Nucleo Polizia Tributaria di Livorno.
All’esito, ravvisava, come esposto in citazione, profili di
effettiva illegittimità nell’erogazione di detti compensi.
Più nello specifico, la Procura riteneva non dovuti i
compensi corrisposti al geom. Fi. a titolo di incentivi alla
progettazione in relazione alla circostanza che, come
riportato dal Segretario dell’Ente, escusso dalla Guardia di
Finanza, “tutti gli aspetti connessi alla progettazione,
direzione dei lavori …, sono stati affidati a professionisti
esterni, con onere a carico della società aggiudicataria”.
Aderendo dunque alla tesi secondo la quale, in caso di “esternalizzazione”
dell’attività di progettazione, viene meno il titolo per
l’attribuzione di compensi incentivanti, tra gli altri,
anche nei confronti del Responsabile Unico del Procedimento,
la Procura ha ritenuto la corresponsione di tali compensi
come indebita, quindi integrante un’ipotesi di danno
erariale.
In subordine, ha comunque ravvisato profili di illegittimità
anche nel quantum della somma erogata (€ 21.706,54)
sia in relazione al mutamento normativo intercorso nel tempo
relativo alla percentuale massima liquidabile (1,5%-2% della
base d’asta), per cui avrebbe dovuto ancorarsi tale
quantificazione al momento di liquidazione della somma, sia
in relazione alla circostanza che la percentuale liquidata
era stata computata non sull’importo posto a base di gara,
ma su un diverso, maggiore importo, derivante dalla
successiva approvazione di una variante generale.
La Procura ha quantificato dunque, quale seconda possibile
opzione di danno erariale, un diverso ammontare di €
9.009,99, pari alla differenza tra la somma eventualmente
dovuta e quella effettivamente versata.
b. Con deduzioni svolte dai convenuti in risposta all’invito a
dedurre, contenute nella memoria datata 03.05.2016, veniva
riportata giurisprudenza difforme da quella citata nell’atto
introduttivo, dalla quale emergeva la legittimità
dell’erogazione dei compensi incentivanti al R.U.P. anche in
ipotesi di esternalizzazione dell’attività di progettazione;
si chiariva, ad ogni buon conto, che non tutti i profili
attinenti la progettazione, nel caso di specie, erano stati
esternalizzati, avendo lo stesso geom. Fi., insieme ad
altri, provveduto, ad esempio, alla redazione della parte
progettuale relativa ai computi metrici estimativi delle
infrastrutture.
Le esposte considerazioni non venivano ritenute dalla
Procura idonee ad escludere la responsabilità contestata.
...
DIRITTO
1. La prima eccezione rassegnata dalla difesa, relativa
all’improcedibilità dell’azione per mancanza di prova del
danno, in relazione al fatto che risulta depositata
esclusivamente la determinazione di liquidazione (n.
247/2011) e non i mandati di pagamento quietanzati, va
rigettata. La circostanza dell’avvenuto pagamento al Fi.
della somma di € 21.706,54 risulta non contestata ma, al
contrario, confermata, sia dalle dichiarazioni dello stesso
Fi., sentito in audizione personale dalla Guardia di Finanza
in data 23.01.2014 (verbale agli atti del fascicolo di parte
attrice), sia dall’attestazione del Comune, già citata,
presente agli atti del fascicolo di parte convenuta.
2. Dell’esistenza di danno erariale, derivante
dall’ipotizzato depauperamento dell’Amministrazione comunale
a seguito di erogazione di compensi non dovuti, risulta
fornita, invece, prova contraria. Essa è costituita dalla
dimostrazione dell’avvenuto introito, a titolo -tra l’altro-
di un rimborso spese per progettazione, dell’ammontare di €
700.000 ricevuto dal Comune da parte della società
appaltatrice, e di cui parte convenuta ha depositato le
reversali d’incasso.
Detta circostanza, era stata affermata dal Fi.
nell’audizione personale (in occasione della quale lo stesso
aveva consegnato alla Guardia di Finanza il prospetto
analitico riepilogativo delle singole voci di spesa
afferenti la progettazione ed i nominativi dei
professionisti cui detta attività fu esternalizzata) ove
aveva specificato che in tale somma rientravano anche i
compensi da lui stesso ricevuti come risulta confermato
dall’ attestazione del Vice Ragioniere comunale, vistata dal
Segretario Generale. Nella predetta attestazione veniva
espressamente riferito che “l’importo di € 21.706,54
previsto dalla determinazione n. 247/2011 è compreso
all’interno dei 700.000 €, interamente versato dalla società
concessionaria con le reversali di seguito indicate….”.
Di tale dichiarazione, sottoscritta da pubblico ufficiale e
valida fino a querela di falso, non è stata contestata la
veridicità. La circostanza ivi affermata, comprovante la
mancanza di effettivo esborso da parte dell’Amministrazione
comunale dei contributi incentivanti di cui è causa, vale ad
escludere il danno erariale e la conseguente ascrivibilità.
Si ritiene, in ogni caso, utile analizzare anche le
ulteriori eccezioni rassegnate dalla difesa.
3. La circostanza dell’integrale esternalizzazione
dell’attività di progettazione, alla base dell’asserita
natura di indebito degli emolumenti versati, nella
ricostruzione ipotizzata dalla Procura, risulta
documentalmente smentita (all. 1 e 3 fascicolo dei
convenuti); dal frontespizio del Progetto definitivo (all.
1A), del Disciplinare Prestazionale (1B) e del Computo
Estimativo (1C) si evince infatti con chiarezza che i
computi e disciplinari delle opere idrauliche e stradali
sono stati effettuati dai componenti dell’Ufficio Tecnico
Comunale, geomm. Fi. e Me.; nella delibera di giunta n. 89,
inoltre, viene affermato espressamente, al punto d dei
deliberata, di “incaricare i geomm. Fi. e Me. di redigere
la parte progettuale relativa alla redazione dei computi
metrici estimativi delle infrastrutture”; appare dunque
palese che l’esternalizzazione della parte progettuale non
riguardò tutti gli aspetti della progettazione, ma solo
parte di tale attività, cui concorsero, secondo le
rispettive specializzazioni, anche dipendenti comunali (tra
cui Fi.) ai quali dunque, a buon diritto, fu corrisposta la
relativa quota di compenso incentivante.
È proprio alla luce di questa circostanza, e della relativa
valutazione giuridica in termini di legittimità o meno della
erogazione degli incentivi in caso di progettazione svolta
in parte all’interno dell’Ente ed in parte mediante
affidamento a soggetti esterni, che va analizzata,
congiuntamente alla presente, anche l’ulteriore eccezione,
relativa all’elemento psicologico, nei termini di seguito
esposti.
4. Parte convenuta (già in risposta all’invito a dedurre),
assumendo la carenza di colpa grave, aveva sottolineato che
il problema della correttezza dell’applicazione delle norme
al momento della richiesta del Filippi era stato oggetto di
attenta valutazione da parte degli Organi comunali, anche
alla luce del fatto che, nella predetta richiesta, era stata
citata giurisprudenza, sia dell’Autorità di Vigilanza sui
Lavori Pubblici che di questa Corte, favorevole alla tesi
della legittimità dei compensi incentivanti in fattispecie
simili a quella in esame.
In effetti, diverse sono le occasioni nelle quali l’Autorità
garante ha risolto positivamente il relativo quesito: (ex
pluribus, cfr. deliberazione del 18/07/2000: “Ai
sensi dell'art. 18 della legge 11.02.1994, n. 109, così come
modificato dalla L. 415/1998, il responsabile del
procedimento ed il coordinatore unico e relativi
collaboratori sono ricompresi fra i soggetti aventi diritto
alla corresponsione del fondo anche nel caso di
progettazione affidata all'esterno, considerato che l'inciso
riportato nella norma ("qualora essi abbiano redatto
direttamente i progetti o i piani") si riferisce
esclusivamente al personale degli uffici tecnici e non anche
al responsabile del procedimento e al coordinatore unico e
relativi collaboratori”.
Deliberazione del 13/06/2000: “Il
responsabile del procedimento ha diritto all’incentivo anche
nell’ipotesi di affidamento esterno della progettazione,
alla luce dell’art. 18, co. 1, della legge 11.02.1994 n. 109
e s.m., che stabilisce che costituiranno economie solo le
quote del compenso incentivante per prestazioni affidate
all’esterno”.
Determinazione n. 43 del 25/09/2000: “il
responsabile del procedimento, il coordinatore unico e
relativi collaboratori sono stati ricompresi tra i soggetti
aventi diritto alla corresponsione dell'incentivo, in
seguito alle modifiche all'originario testo dell'articolo 18
della legge quadro apportate con la legge n. 216/1995.
Occorre quindi distinguere il periodo intercorrente tra
l'entrata in vigore di questa legge e l'entrata in vigore
della legge n. 144/1999.
Per il primo periodo, nel caso di progettazione
affidata all'esterno, l'inciso riportato nella norma
"qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i
piani" si riferisce esclusivamente al personale degli uffici
tecnici e non anche al responsabile del procedimento ed al
coordinatore unico e relativi collaboratori.
L'ulteriore modifica apportata dalla legge n. 144/1999,
oltre alla abrogazione del riferimento al coordinatore
unico, ribadisce l'intento del legislatore di prevedere in
ogni caso a favore del responsabile del procedimento e dei
suoi collaboratori il diritto alla corresponsione
dell'incentivo, aggiungendo espressamente la previsione che,
nel caso di progettazione esterna, le quote del compenso
altrimenti spettante al personale degli uffici tecnici
costituiranno economie.
Pertanto, nel periodo intercorrente tra l'entrata in vigore
della legge n. 216/1995 e l'entrata in vigore della legge n.
144/1999, appare legittima la corresponsione della quota
parte di incentivo per gli incarichi sia di responsabile del
procedimento sia di coordinatore unico, anche nel caso di
progettazione affidata a professionisti esterni.
Successivamente all'entrata in vigore della legge n.
144/1999, invece, solo il responsabile del procedimento ha
diritto alla quota di incentivo nell'ipotesi di ricorso alla
progettazione esterna”.
Con riferimento alla giurisprudenza di questa Corte, ex
multis, la Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, con parere n. 247/2014, ha
espressamente ritenuto, quale requisito per la legittimità
del pagamento di contributi incentivanti, che il regolamento
interno dell’Ente preveda, “l’erogazione ai soli
dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati
dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori),
riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un
lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o
di servizi)”.
Ha aggiunto, inoltre, la Sezione di controllo: “La
norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di una o più attività (per
esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca
gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità
attribuite e devolva in economia la quota relativa agli
incarichi conferiti a professionisti esterni”.
Già le posizioni espresse nelle pronunce
appena riportate,
lette insieme alla giurisprudenza, di contrario avviso,
citata dal Requirente nell’atto introduttivo,
danno la misura dell’andamento “oscillante”
avuto dalla giurisprudenza di settore in materia, non
consentendo, di conseguenza, una ricostruzione in termini di
colpa grave della condotta tenuta dagli odierni convenuti.
5. Da ultimo, in merito al quantum erogato, si
ritiene di concordare con le conclusioni dell’informativa
della Guardia di Finanza, ove afferma: “Con
riferimento alla presunta anomalia di cui al precedente
punto, concernente l’applicazione della percentuale del 2%
piuttosto che allo 0,5%, sembrerebbe non ravvisarsi alcun
profilo di criticità in quanto sia l’inizio dei lavori (anno
2005) sia la liquidazione dell’incentivo (anno 2011)
ricadono entrambi nei periodi di vigenza della percentuale
del 2%”.
Non altrettanto condivisibili risultano, invece, le
ulteriori conclusioni: “A ben vedere, l’unica
irregolarità nel calcolo dell’incentivo potrebbe essere
riconducibile all’errata applicazione della percentuale del
2% sull’importo definitivo dei lavori e non sul prezzo posto
a base di gara. Di contro, però, le precisazioni fornite dal
dr. Gu. (sentito a sommarie informazioni dalla Guardia di
Finanza in qualità di Dirigente Finanziario del Comune)
parrebbero sfumare parzialmente l’ipotesi di colpa in
quanto, nel caso in esame, non si trattava di un appalto di
tipo tradizionale bensì di una procedura di gara con
conseguente licitazione privata legata non solo alla
definizione esecutiva dell’intervento, ma anche alla
successiva gestione.
Infatti l’importo indicato dal bando, 15.870.690,66 €, era
una cifra non basata sul progetto definitivo dell’opera,
bensì desunta da un progetto di massima, che la società
aggiudicataria avrebbe dovuto sviluppare per poi provvedere
alla stesura del progetto definitivo ed esecutivo. Si
ritiene inoltre che i 700.000 € indicati nel bando quale
cifra sostenuta dall’Ente per le spese tecniche e di cui la
stessa Amministrazione chiese (ed ottenne) il rimborso
sembrerebbero poter contribuire alla formazione dell’importo
posto a base di gara”.
In nessuno dei documenti depositati agli
atti –né tanto
meno nel relativo regolamento comunale approvato con
deliberazione n. 160/2000- è prevista una
quantificazione del compenso incentivante che preveda il
relativo computo percentuale sul progetto definitivo, invece
che sulla base d’asta; né avrebbe potuto essere altrimenti
atteso che, com’è noto, quella sul compenso incentivante
(art. 18 legge n. 109/1994 e ss.mm.) è una disposizione di “stretta
interpretazione”, in quanto norma eccezionale, che
deroga al principio generale di onnicomprensività della
retribuzione del dipendente pubblico. Per tale ragione, il
Collegio ritiene che, di tale previsione, non si possano
avanzare interpretazioni “estensive”.
In conclusione, la prospettata ipotesi di
responsabilità erariale va ritenuta non configurabile per
mancanza di danno nonché per assenza dell’elemento
psicologico.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Toscana, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta
dal Procuratore Regionale nei confronti dei sigg. An.Fi.,
Ro.Gu. e Vi.Me., respinta ogni contraria istanza ed
eccezione, assolve i predetti convenuti,
con conseguente rimborso, da parte dell’Amministrazione
comunale, delle spese legali, forfettariamente quantificate
in euro 1.500,00, oltre IVA e c.p.a.
(Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza
21.09.2017 n. 214). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Danno erariale al segretario che conferisce l'«alta
professionalità» in violazione delle regole contrattuali.
Risponde di danno erariale il segretario
che ha conferito l'alta professionalità a un dipendente
comunale, ancor prima che la giunta comunale, unico organo
competente al riguardo, approvasse il nuovo regolamento
degli uffici e dei servizi e, soprattutto, istituisse le
posizioni di alta professionalità all'interno
dell'organigramma del Comune. A questo si aggiunga che il
segretario, in assenza del responsabile finanziario, aveva
anche apposto il visto contabile all’atto di conferimento.
Così ha deciso la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la
sentenza 11.09.2017 n.
241 con una condanna che si basa sul fatto che il
conferimento sarebbe avvenuto in violazione delle
disposizioni contrattuali.
La vicenda
Un segretario comunale aveva conferito la posizione di alta
professionalità al capo segreteria tecnica del sindaco, con
retribuzione massima prevista e una retribuzione di
risultato pari a un massimo del 30% di quella di posizione.
Tutto al di fuori di qualsiasi previsione contrattuale o
regolamentare.
In assenza del dirigente finanziario che era
in ferie, il segretario aveva anche apposto il visto
contabile rendendo esecutiva la propria determinazione di
conferimento dell'incarico. Sarebbe stato proprio il
dirigente finanziario, successivamente, a inviare gli atti
alla procura contabile, cui faceva seguito anche un
riscontro degli ispettori del Mef. Si giungeva a una
deliberazione di giunta comunale sull’istituzioni delle
posizioni organizzative e di alta professionalità.
L'informativa veniva notificata alla procura contabile che,
a fronte delle giustificazioni ritenuti insufficienti da
parte del segretario, rinviava lo stesso in giudizio innanzi
il collegio contabile, quantificando il danno erariale pari
alle differenze tra la retribuzione massima di alta
professionalità e quella di titolare di posizione
organizzativa precedentemente rivestita dal capo di
segretaria tecnica del sindaco.
La difesa del convenuto
Il segretario ha difeso la propria scelta in buona fede,
tale da eliminare nel caso concreto la colpa grave,
precisando come vi fosse una ragionevole convinzione che
l'articolo 10 del contratto collettivo nazionale non
introducesse un istituto ulteriore rispetto alle posizioni
organizzative ma intervenisse nell'ambito della disciplina
di tale istituto aggiungendo due varianti specifiche.
La
responsabilità, inoltre, non poteva essere a lui attribuita
sia perché aveva proceduto su indicazione del sindaco, sia
perché la relativa retribuzione comunque era dovuta in
attuazione del principio di cui all'articolo 2041 del codice
civile.
Le motivazioni del collegio contabile
Il quadro normativo di riferimento è rappresentato in
materia di alte professionalità dall'articolo 2, comma 1,
del Dlgs 165/2001, dagli articoli 8 e seguenti del contratto
collettivo nazionale del 31.03.1999 Regione—Autonomie
Locali e dall'articolo 10 del contratto collettivo nazionale
del 22.01.2004 del personale del comparto delle Regioni
e delle autonomie locali.
Secondo questo insieme di
disposizioni, per l'istituzione delle alte professionalità
avrebbero dovuto essere effettuati i seguenti preliminari
atti organizzativi:
a) definizione dei criteri e delle
condizioni per l'individuazione delle competenze e delle
responsabilità connesse agli incarichi di alta
professionalità;
b) definizione dei criteri per
l'affidamento degli incarichi di alta professionalità;
c)
definizione dei criteri per la quantificazione dei valori
della retribuzione di posizione e di risultato;
d)
definizione dei criteri per la valutazione periodica delle
prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione
organizzativa (nel rispetto del vincolo della concertazione,
ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del contratto collettivo
nazionale del 31.03.1999).
In questa cornice di riferimento, il segretario non ha
rispettato nessuna delle regole contrattuali citate,
assegnando la posizione di alta professionalità con relativa
retribuzione, stabilita al massimo consentito dalla legge,
ancor prima che la giunta comunale, unico organo competente
al riguardo, approvasse il nuovo regolamento degli uffici e
dei servizi e, soprattutto, istituisse le posizioni di alta
professionalità all'interno dell'organigramma del Comune.
In considerazione della violazione della normativa
contrattuale, il segretario va condannato al risarcimento
del danno causato dal conferimento dell'incarico effettuato
in modo illegittimo, pari alle differenze retributive
quantificate dalla Procura cui vanno, tuttavia, sottratti il
valore dell'Irpef e dei contributi previdenziali in quanto
somme non effettivamente erogate al titolare dell'incarico
conferito e, comunque, recuperate all'erario (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2017).
----------------
MASSIMA
1. La questione all'esame del Collegio concerne la
domanda giudiziale promossa dalla Procura regionale, nei
confronti del signor Po.Sa. (nella sua qualità Segretario
Generale), con riguardo ad una ipotesi di danno erariale
arrecato al comune di Anzio, dell'importo di euro 24.355,65
in favore del Comune di Anzio, oltre alla rivalutazione ed
agli interessi, nonché alle spese di giudizio in favore
dello Stato, determinato dall’assegnazione -ritenuta
illegittima- della posizione di "alta professionalità"
al Capo della Segreteria tecnica del Sindaco.
2. Preliminarmente, seguendo un ordine logico-giuridico
delle questioni poste, va scrutinata la censura di
insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.
2.1 L’eccezione è infondata.
Si premette che
l’art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994 n. 20 e successive
modifiche, esclude l’ingerenza del giudice contabile nelle
scelte discrezionali operate dall’Amministrazione tra
diverse soluzioni possibili, ugualmente legittime e lecite,
per il perseguimento nel caso concreto del fine pubblico
individuato dalla legge, ma consente il sindacato
sull’irragionevolezza, incongruità, illogicità ed
irrazionalità della scelta dei mezzi rispetto ai fini
(Cass. S.U. 08.03.2005, n. 4956; id. 29.01.2001, n. 33; id.
06.05.2003, n. 6851; id. n. 14488 del 29.09.2003; id. n.
7024 del 28.03.2006; id. n. 8097 del 02.04.2007; in termini,
ex multis, Sez. II App. n. 367 del 24.09.2010).
La giurisprudenza consolidata ritiene che il Magistrato
contabile possa sindacare la legittimità dell’operato
amministrativo non solo alla luce di regole giuridiche ben
individuate ma anche in ragione di parametri non giuridici
permeabili il divenire dell’azione
(cfr. ex plurimis Corte dei conti, Sez. 1° d’app.
sent. n. 292/2005/A, del 23.09.2005, Sezione Veneto, sent.
n. 166 del 18.02.2009).
Cosicché, l’esame della scelta effettuata deve essere
condotto alla stregua di taluni <<…parametri obiettivi
valutabili ex ante e rilevabili anche dalla comune
esperienza>>
(cfr. Corte dei Conti, Sez. III, 21.01.2004, n. 30/A),
quali l’incongruità, l’illogicità, l’irrazionalità,
l’inefficacia, l’antieconomicità, la non
ragionevolezza e la non proporzionalità, tutte
espressioni della non coerenza della scelta rispetto ai fini
di pubblico interesse che ne contrassegnavano la relativa
funzione.
E tale maggiore penetrazione del sindacato di questa Corte
ha trovato avallo giuridico interpretativo nella decisione
n. 7024, del 28.03.2006, delle Sezioni Unite della
Cassazione, il cui orientamento è stato ribadito dalle
sentenze n. 4283, del 21.02.2013, e n. 10416, del 14.05.2014
(in termini, Terza Sezione Centrale di Appello, sentenza n.
282/2017).
Ciò posto il Collegio osserva che l’istituto richiamato
dalla difesa del convenuto non viene in rilievo nella
vicenda in esame, in quanto la contestazione formulata
dall’organo requirente non afferisce ad una scelta
discrezionale dell’amministratore, bensì ad una violazione
delle norme procedimentali, quindi non il “merito”
dell’atto ma la sua “legittimità” (cioè la sua
conformità a legge) è oggetto di censura.
3. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda
descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica
della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità
amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale,
economicamente valutabile, arrecato alla pubblica
amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o
dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e
l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto
di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente
danneggiato.
4. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa
condivisione in ordine all’an del danno erariale
contestato dall’organo requirente e per le considerazioni
dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è
rappresentato in materia di alte professionalità
dall'art. 2, 1° co., del D.Lgs. n. 165/2001, dagli artt. 8 e
seguenti del C.C.N.L. del 31/03/1999 Regione — Autonomie
Locali e dall'art. 10 del C.C.N.L. del 22.01.2004 del
personale del Comparto delle Regioni e delle Autonomie
Locali.
Dalla normativa di riferimento si evince che
l'effettiva attuazione della disciplina contrattuale delle
alte professionalità presuppone la preventiva
definizione, con atti organizzativi di diritto comune, da
parte dell'ente, dei seguenti elementi:
· i criteri e le condizioni per l'individuazione delle competenze e
delle responsabilità connesse agli incarichi di alta
professionalità;
· i criteri per l'affidamento degli incarichi di alta
professionalità;
· i criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di
posizione e di risultato;
· i criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei
risultati dei titolari di posizione organizzativa (nel
rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell'art.
16, comma 2°, del C.C.N.L. del 31.03.1999).
In senso conforme l'ARAN che ha ribadito come "L'effettiva
attuazione della disciplina contrattuale delle alte
professionalità presuppone la preventiva definizione,
con atti organizzativi di diritto comune, da parte
dell'ente, dei seguenti elementi:
- i criteri e le condizioni per l'individuazione delle competenze e
delle responsabilità connesse agli incarichi di alta
professionalità;
- i criteri per l'affidamento degli incarichi di alta
professionalità;
- i criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di
posizione e di risultato;
- i criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei
risultati dei titolari di posizione organizzativa (nel
rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell'art.
16, comma 2°, del C.C.N.L. del 31.03.1999)".
Tali precetti normativi non risultano osservati dal
convenuto Sa., che, con propria Determinazione nr. 202 del
13/08/2013, assegnava al dott. Pa. la posizione di alta
professionalità con relativa retribuzione, stabilita al
massimo consentito dalla legge, ancor prima che la Giunta
Comunale, unico organo competente al riguardo, approvasse il
nuovo Regolamento degli Uffici e dei Servizi e, soprattutto,
istituisse le posizioni di alta professionalità
all'interno dell'organigramma del Comune di Anzio.
Solo quest'ultimo atto Giuntale, il nr. 95 del 10/12/2013,
come anche rilevato dal M.E.F., andava a sanare la
situazione sopra descritta, sebbene gli atti adottati erano
comunque carenti rispetto sia alla individuazione dei
criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione
di posizione e di risultato, sia per la valutazione
periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di
posizione organizzativa.
Sono da ritenere, quindi, illegittimamente erogati al dott.
Pa. i compensi
(già decurtati dall’organo requirente degli emolumenti
precedentemente percepiti)
legati all'assegnazione dell'alta professionalità:
· per il periodo che va dal 13/08/2013 sino al 10/12/2013 di €.
3.058,56,
in considerazione dell’attribuzione dell’incarico in totale
assenza di base normativa;
· per il periodo successivo 01.01.2014-31.12.2015 di €. 21.297,09,
in ragione dell’assenza di precisi parametri preventivamente
stabiliti dalla Giunta Comunale, parametri, non delineati da
nessuno degli atti giuntali adottati.
5. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in
ordine alla quantificazione del danno erariale -operata
dall’organo requirente in euro 24.355,65- che deve, invece,
tener conto -e ciò in accoglimento delle argomentazioni
difensive- di IRPEF e CPDEL e altre ritenute pari ad euro
7.549,52.
Si reputa che il danno non possa comprendere somme non
effettivamente erogate al dott. Pa. e, comunque, recuperate
all’erario. Ne consegue che il danno risarcibile va
rideterminato in euro 16.806,13.
6.
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità
amministrativa si reputa che la condotta del convenuto sia
stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione
di disposizioni normative chiare, non connotate da
complessità esegetiche in ordine all’attribuzione
dell’incarico di alta professionalità.
6.1
La fattispecie, peraltro, non si reputa integri
-contrariamente all’assunto difensivo-
un errore scusabile, nella considerazione che la eventuale
presenza di un precedente di contenuto identico (determina
n. 111 del 16/12/2011), non si pone quale esimente per:
· l’assenza di una situazione oggettiva di incertezza o di
difficoltà interpretativa delle norme violate;
· il livello apicale del convenuto che presuppone una elevata
professionalità.
7. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in
esame, anche gli altri elementi della responsabilità
amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non
contestato- e del nesso di causalità.
8.
Non meritevole di accoglimento si reputa, infine, la
richiesta formulata dal patrono del convenuto di
applicazione del disposto dell’articolo 1, comma 1-bis,
della legge n. 20/1994
(come modificata dal D.L. 543/1996 conv. in L. 639/1996),
norma che, codificando con riguardo al settore della
responsabilità amministrativa l’istituto
civilistico-pretorio della compensatio lucri cum damno,
prevede che il giudice contabile debba tener conto dei “vantaggi
comunque conseguiti” sia dall'amministrazione di
appartenenza e dalla comunità amministrata che “da altre
amministrazioni”,
come da integrazione al testo della suddetta norma
introdotta all’articolo 17, comma 30-quater, del d.l. n.
78/2009, come modificato dalla legge di conversione n.
102/2009.
Peraltro, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza
contabile,
il riconoscimento giudiziale della compensatio
risulta subordinato al riscontro della sussistenza di
rigorosi presupposti, sostanzialmente in linea con quelli
richiesti dall’istituto civilistico e conformati al contesto
pubblicistico di riferimento, ovvero: l’effettività del
vantaggio, la identità causale tra il fatto produttivo del
danno e quello produttivo dell’utilitas e la
corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali
dell’amministrazione che se ne appropria
(ex multis: Sez. I Centr. App., sent. n. 261 del
12.09.2001; Sez. II Centr. App.; SS.RR., sent. n. 5 del
24.01.1997; Cass. SS. UU., sent. n. 5 del 1997).
Sul terreno processuale, la giurisprudenza contabile ha
altresì chiarito che i “Vantaggi” conseguiti
costituiscono fatti, da accertare con criterio ex post,
il cui onere probatorio, nell’an e nel quantum
(pur potendo il giudice, per quest’ultimo aspetto, far uso
del potere equitativo ex art. 1226 c.c.),
incombe sul convenuto in base al tradizionale riparto
previsto dall’art. 2697, co. 1, c.c., traducendosi in
un’eccezione in senso proprio relativa a fatto di natura
modificativa del diritto risarcitorio azionato in giudizio.
Con riguardo peraltro al caso di specie, il
Collegio ritiene, coerentemente con i principi di diritto
richiamati, che i vantaggi conseguiti dall’amministrazione
siano stati solo affermati e non concretamente provati.
9. In conclusione,
accertata l’esistenza di tutti i requisiti costitutivi della
responsabilità amministrativa, la domanda della Procura va
accolta per le ragioni da questa prospettate ma nella
diversa misura dal Collegio determinata in euro 16.806,13,
comprensive di rivalutazione monetaria, e interessi legali
dalla data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento
delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti
– Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio,
definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed
eccezione reiette,
CONDANNA, per l’addebito di responsabilità amministrativa di
cui all’atto di citazione in epigrafe, il signor Po.Sa. al
pagamento, in favore del comune di Anzio, per complessivi
euro 16.806,13, comprensive di rivalutazione monetaria.
Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla
pubblicazione della presente decisione all’effettivo
soddisfo. |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Annullamento d’ufficio e revoca - Revoca - Interesse
pubblico - Art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 -
Individuazione - Fattispecie in tema di realizzazione di un
progetto di pubblica utilità.
La sussistenza dell’interesse pubblico
che giustifica la revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies, l.
07.08.1990, n. 241 non deve necessariamente concretarsi
nell’adozione di tutti gli atti prescritti per la
realizzazione dei un progetto di pubblica utilità,
occorrendo però che siano stati posti in essere gli atti
idonei a determinare un sufficiente livello di
concretizzazione dell’iniziativa che non può dunque essere
limitato ad un mero auspicio dell’Amministrazione, ma deve
consistere in una serie di iniziative che abbiano
determinato un sufficiente grado di sviluppo della pubblica
utilità sulla base della quale si dispone la revoca; così
determinato l’interesse pubblico sopravvenuto, al Giudice
amministrativo resta preclusa ogni ulteriore valutazione di
merito (1).
---------------
(1)
Il Tar ha chiarito che la revoca costituisce un
provvedimento amministrativo, di secondo grado, che
l’Amministrazione adotta per eliminare dal mondo giuridico,
sia pure con effetto ex nunc, un proprio precedente
atto.
La l. n. 15 del 2005, codificando l’istituto in parola
mediante l’introduzione nel testo della l. n. 241 del 1990
dell’art. 21-quinquies, ha aggiunto due ulteriori tasselli
alla ricostruzione giuridica di esso, prevedendo da un lato
l’indennizzo in favore del destinatario del provvedimento di
revoca e dall’altro la giurisdizione esclusiva del G.A. per
le controversie afferenti la determinazione e la
corresponsione dell’indennizzo stesso (ora, peraltro,
sancita all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 4 dell’art. 133
c. pr. amm).
Il Tar ha dato atto che il citato art. 21-quinques ha
accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre
presupposti alternativi, che ne legittimano l’adozione: a)
per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per
mutamento della situazione di fatto; c) per nuova
valutazione dell’interesse pubblico originario.
La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi,
possibile non solo in base a sopravvenienze, ma anche per
una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario
(c.d. jus poenitendi) (TAR
Molise,
sentenza 29.09.2017 n. 327
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il termine di trenta giorni fissato dall'articolo
116 del c.p.a. per proporre ricorso contro il diniego di
accesso ai documenti ha natura perentoria.
Inoltre, ai sensi dell’art. 87, commi 2 e 3, c.p.a., nei
giudizi in materia di accesso ai documenti amministrativi di
cui all'art. 116 c.p.a., i termini processuali (tranne
quelli per la notifica del ricorso) sono dimezzati rispetto
a quelli del processo ordinario, compreso quindi il termine
per il deposito del ricorso presso il Tribunale.
---------------
... per l'annullamento del verbale di accesso ed estrazione
di atti amministrativi del 08/03/2017, protocollato al nr.
100/241 del Registro Generale con cui è stata consentito
-solo parzialmente e con considerevoli limitazioni-
l’esercizio del relativo diritto, a seguito di istanza
avanzata dal ricorrente in data 26/01/2017,
- nonché, per l’accertamento e la declaratoria del diritto
di accesso e l’emanazione dell’ordine di esibizione, senza
alcuna limitazione, dei documenti richiesti ex art. 116,
comma 4, C.P.A.;
...
Tanto premesso, deve essere rilevato che il termine di
trenta giorni fissato dall'articolo 116 del c.p.a. per
proporre ricorso contro il diniego di accesso ai documenti
ha natura perentoria; inoltre, ai sensi dell’art. 87, commi
2 e 3, c.p.a., nei giudizi in materia di accesso ai
documenti amministrativi di cui all'art. 116 c.p.a., i
termini processuali (tranne quelli per la notifica del
ricorso) sono dimezzati rispetto a quelli del processo
ordinario, compreso quindi il termine per il deposito del
ricorso presso il Tribunale.
Tanto precisato, rileva il Collegio che il ricorrente ha
avuto contezza della parzialità dell’accesso in data
08.03.2017, mentre il ricorso in esame è stato notificato
solo il 12.04.2017, oltre il termine di trenta giorni;
inoltre, al deposito del ricorso si è proceduto solo il
successivo 15.05.2017. Pertanto, è irricevibile, ai sensi
dell'art. 35, comma 1, lett. a), c.p.a., il ricorso
introduttivo dell’azione ex art. 116 c.p.a. notificato oltre
il termine di trenta giorni e depositato oltre il termine
dimidiato di 15 giorni decorrente dalla data di
perfezionamento della notificazione per il destinatario.
Non si dà luogo a pronuncia sulle spese per la mancata
costituzione in giudizio del Ministero intimato (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 27.09.2017 n. 9946 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il termine per l'impugnazione di una concessione
edilizia rilasciata a terzi inizia a decorrere quando i
lavori autorizzati rivelano in modo certo ed univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non
conformità della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica.
E in particolare ciò vale quando i ricorrenti contestino in
radice la possibilità di edificare, poiché in questa ipotesi
anche il mero inizio dei lavori risulta sufficiente ai fini
della conoscenza dell'iniziativa in corso, rappresentando
quell’attività materiale che, nei confronti dei terzi, è
idonea a sostituire la conoscenza dell’atto e a integrare
quelle circostanze concrete che univocamente manifestano la
lesività dell’azione amministrativa.
---------------
2. - Il ricorso introduttivo, in effetti, deve essere dichiarato
irricevibile per tardività nella parte in cui impugna la
concessione edilizia n. 3330 del 07.04.2006, avente ad
oggetto la costruzione di una struttura turistico-alberghiera in località Valle dell'Erica, la
concessione edilizia del 30.04.2008, n. 3533, avente ad
oggetto la variante in corso d'opera dei lavori per la
costruzione della struttura in questione e l’autorizzazione
paesaggistica.
Secondo la costante giurisprudenza, il termine per
l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a
terzi inizia a decorrere quando i lavori autorizzati
rivelano in modo certo ed univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica.
E in
particolare ciò vale quando i ricorrenti contestino in
radice la possibilità di edificare, poiché in questa ipotesi
anche il mero inizio dei lavori risulta sufficiente ai fini
della conoscenza dell'iniziativa in corso, rappresentando
quell’attività materiale che, nei confronti dei terzi, è
idonea a sostituire la conoscenza dell’atto e a integrare
quelle circostanze concrete che univocamente manifestano la lesività dell’azione amministrativa (si veda, per tutte,
Cons. St., IV, 08.07.2002, n. 3805) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 26.09.2017 n. 598 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Criterio di quantificazione del contributo di costruzione.
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Edilizia - Permesso di costruire – Contributo di
costruzione – Determinazione del dovuto – Criterio -
Riferimento alle tariffe vigenti al tempo dell’emanazione e
non del rilascio.
Il contributo di costruzione dovuto
si determina con riferimento alle tariffe vigenti al tempo
dell’emanazione e non del rilascio (1)
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che l'individuazione di quale sia il
momento in cui si liquidano gli importi relativi agli oneri
di urbanizzazione e al contributo di costruzione deve
avvenire ai sensi dell’art. 16, commi 1 e 2, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, secondo cui «il rilascio del permesso
di costruire comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione».
Il riferimento normativo al rilascio del permesso di
costruire implica che l’adempimento dell’obbligo relativo al
pagamento degli oneri non costituisce un elemento necessario
perché si perfezioni l’atto amministrativo (permesso di
costruire); piuttosto, l’atto del privato si colloca in un
momento successivo, quello del rilascio (o della consegna)
del provvedimento perfetto in tutti gli elementi richiesti
dalla disciplina normativa. L’atto del privato (di
adempimento degli obblighi di pagare il contributo di
costruzione) si inserisce nel procedimento amministrativo
avviato con la sua domanda di permesso di costruire, ma
assume la funzione di atto integrativo dell’efficacia, non
condizionante la fase di decisione e di adozione del
provvedimento finale.
Il che si ricava non solo, sul piano letterale, da quanto
previsto dall’art. 16 cit. ma anche dalla disciplina sul
termine di inizio dei lavori autorizzati con il permesso di
costruire, che l’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001,
fa decorrere «dal rilascio del titolo». Uno degli effetti
essenziali del permesso di costruire (ossia, il termine per
l’inizio dei lavori, il cui superamento comporta la
decadenza dal titolo edilizio) è, quindi, espressamente
subordinato al rilascio; rilascio che è, a sua volta,
condizionato dal compimento di un atto del privato
interessato (il pagamento del contributo di costruzione).
Il condizionamento dell’efficacia del permesso di costruire
all’atto di adempimento del privato (o, in altri termini, la
sospensione degli effetti del permesso, pur perfetto sotto
ogni altro profilo giuridicamente rilevante, fino al
compimento dell’atto del privato) rappresenta lo strumento
per assicurare all’amministrazione l’adempimento degli
obblighi e l’acquisizione del vantaggio patrimoniale che ne
deriva. Né può ritenersi che l’eventuale ritardo del privato
nell’adempiere rimanga senza sanzione, poiché il permesso
(perfetto in tutti i suoi elementi e quindi emanato, ma non
ancora rilasciato) rimane esposto alla decadenza per effetto
dell’entrata in vigore di una nuova e contrastante
disciplina urbanistica (arg. art. 15 cit., comma 4, d.P.R.
n. 380 del 2001) (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 26.09.2017 n. 597 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
6. - La questione giuridica centrale, sollevata con i
motivi del ricorso, concerne essenzialmente l’individuazione
di quale sia il momento in cui si liquidano gli importi
relativi agli oneri di urbanizzazione e al contributo di
costruzione.
Secondo l’art. 16, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 380/2011, «il
rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione».
Il riferimento normativo al rilascio del permesso di
costruire implica che l’adempimento dell’obbligo relativo al
pagamento degli oneri non costituisce un elemento necessario
perché si perfezioni l’atto amministrativo (permesso di
costruire); piuttosto, l’atto del privato si colloca in un
momento successivo, quello del rilascio (o della consegna)
del provvedimento perfetto in tutti gli elementi richiesti
dalla disciplina normativa.
L’atto del privato (di adempimento degli obblighi di pagare
il contributo di costruzione) si inserisce nel procedimento
amministrativo avviato con la sua domanda di permesso di
costruire, ma assume la funzione di atto integrativo
dell’efficacia, non condizionante la fase di decisione e di
adozione del provvedimento finale.
Il che si ricava non solo, sul piano letterale, da quanto
previsto dall’art. 16 cit. ma anche dalla disciplina sul
termine di inizio dei lavori autorizzati con il permesso di
costruire, che l’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001,
fa decorrere «dal rilascio del titolo» (la Regione
Sardegna con la legge 03.07.2017, n. 11, ha ora dettato, con
l’articolo 1, comma 1, che ha introdotto il comma 2
dell’art. 3 della legge regionale 11.10.1985, n. 23, una
puntuale disciplina sostitutiva di quella prevista dal T.U.
dell’edilizia).
Uno degli effetti essenziali del permesso
di costruire (ossia, il termine per l’inizio dei lavori, il
cui superamento comporta la decadenza dal titolo edilizio)
è, quindi, espressamente subordinato al rilascio; rilascio
che è, a sua volta, condizionato dal compimento di un atto
del privato interessato (il pagamento del contributo di
costruzione).
Dalla disciplina sopra esposta, si possono ricavare alcune
conclusioni di notevole rilievo.
Per un verso, si deve ritenere che
l’atto del privato ha natura di mera operazione (o, in ogni
caso, di atto privo di profili negoziali);
per altro verso, il condizionamento
dell’efficacia del permesso di costruire all’atto di
adempimento del privato (o, in altri termini, la sospensione
degli effetti del permesso, pur perfetto sotto ogni altro
profilo giuridicamente rilevante, fino al compimento
dell’atto del privato) rappresenta lo strumento per
assicurare all’amministrazione l’adempimento degli obblighi
e l’acquisizione del vantaggio patrimoniale che ne deriva.
Né può ritenersi che l’eventuale ritardo del privato
nell’adempiere rimanga senza sanzione, poiché il permesso
(perfetto in tutti i suoi elementi e quindi emanato, ma non
ancora rilasciato) rimane esposto all’impossibilità del suo
rilascio (con sostanziale decadenza) per effetto
dell’entrata in vigore di una nuova e contrastante
disciplina urbanistica (arg. art. 15 cit., comma 4).
7. – Passando al caso di specie, risulta dalla
documentazione in atti che l’amministrazione comunale ha
provveduto a comunicare alla sig.ra Pr. la determinazione
del dovuto a titolo di contributo di costruzione (oneri di
urbanizzazione e quota di incidenza sul costo di
costruzione) con nota del 12.01.2009. Pertanto, all’epoca,
la fase di decisone e di emanazione del permesso di
costruire si era perfezionata.
Inoltre, il pagamento degli oneri da parte della ricorrente
è stato comunque effettuato (come visto) il 24.02.2009 (data
in cui la Sig.ra Pr. ha presentato la ricevuta di versamento
del 50% degli oneri di urbanizzazione e la polizza
fideiussoria); quindi, in data antecedente alla approvazione
delle nuove tariffe per gli oneri e per il costo di
costruzione (avvenuta con determinazioni del 04.03.2009).
8. - Ne deriva che la nota del 24.03.2009, n. 3800, con la
quale il Comune ha proceduto al ricalcolo del contributo di
costruzione, contiene una pretesa indebita (nella parte in
cui determina il contributo in euro 8.888,58, in luogo di
euro 2.813,64: cfr. doc. 6 della produzione della
ricorrente), dovendosi –nella fattispecie– applicare le
tariffe in vigore alla data del 12.01.2009.
Alla ricorrente, pertanto, spetta il rimborso delle somme
indebitamente versate, con la conseguente condanna del
Comune di Loiri Porto San Paolo al pagamento dell’importo di
euro 6.074,94.
9. - Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto per le
ragioni sopra esposte. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nullità della notifica Pec ad una Pubblica amministrazione
effettuata ad indirizzo di posta elettronica non inserito
nel registro del Ministero della giustizia.
---------------
Processo amministrativo – Notifica del ricorso – A mezzo
posta elettronica certificata – A Pubblica amministrazione –
Ad indirizzo di posta elettronica non inserito nel registro
del Ministero della giustizia – Nullità.
E’ nulla la notifica del ricorso
giurisdizionale effettuata ad una Pubblica amministrazione
presso un indirizzo di posta elettronica non inserito
nell’apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia
(1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che l’art. 14, d.m. 16.02.2016, n. 40
(Regole operative per l’attuazione del processo
amministrativo telematico), stabilisce che le notificazioni
alle amministrazioni non costituite in giudizio sono
eseguite agli indirizzi pec di cui all’art.
16, comma 12, d.l. 18.10.2012, n. 179 convertito, con
modificazioni, dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Ai sensi del successivo art. 16-ter, n. 1, si intendono per
pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 4 e 16, n. 12,
dello stesso decreto, dall'articolo 16, comma 6, d.l.
29.11.2008, n. 185, dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n.
82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici,
gestito dal Ministero della giustizia.
A sua volta, il n. 1-bis dell’art. 16-ter del medesimo d.l.
n. 179 del 2012 estende alla giustizia amministrativa
l’applicabilità del n. 1 dello stesso art. 16-ter, a tenore
del quale ai fini della notificazione si intendono per
pubblici elenchi “quelli previsti dagli articoli 4 e 16,
comma 12, del presente decreto; dall'art. 16, comma 6, d.l.
29.11.2008, n. 185, dall'art. 6-bis, d.lgs. 07.03.2005, n.
82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici,
gestito dal Ministero della giustizia”.
Non è più espressamente annoverato tra i pubblici elenchi
dai quali estrarre gli indirizzi pec da utilizzare per le
notificazioni e comunicazioni degli atti il registro IPA,
disciplinato dall'art. 16, n. 8, d.l. n. 185 del 2008.
Ne discende che ai fini della notifica telematica di un atto
processuale ad una amministrazione pubblica non potrà
utilizzarsi qualunque indirizzo pec, ma solo quello inserito
nell’apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia,
al quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli entro il
30.11.2014.
In difetto di tale iscrizione, la notificazione degli atti
processuali può essere validamente eseguita solo con le
tradizionali modalità cartacee (Tar
Palermo, sez. III, 13.07.2017 n. 1842) (TAR
Basilicata,
sentenza 21.09.2017 n. 607
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
4.2. Con una seconda eccezione, la controinteressata ha
sostenuto l’inammissibilità del ricorso per nullità della
notificazione, in quanto il ricorso sarebbe stato «notificato
ad un indirizzo di posta elettronica (...@cert.aci.it)
intestata alla dott.ssa Di. che, pur essendo inserito nel
registro Inipec, non è una posta certificata attiva».
In tal senso, «la presente costituzione deve intendersi
avente valore meramente notiziale, in quanto è limitata a
far conoscere all’Ecc.mo Collegio vizi di nullità della
notificazione, diversamente non rilevabili».
4.2.1. L’eccezione va disattesa.
Sul punto è agevole richiamare l’art. 44, n. 3, cod. proc.
amm., secondo cui la costituzione degli intimati sana la
nullità della notificazione del ricorso.
Nel caso di specie, si versa, appunto, in ipotesi di nullità
e non di inesistenza della notificazione, in quanto
ricorrono i requisiti che caratterizzano la fattispecie
legale minima della notificazione, ovverosia la trasmissione
da parte di un soggetto qualificato dalla legge, e il
momento della consegna in senso lato, intesa come
raggiungimento di un esito «qualsiasi» previsto dalla
legge, esclusa soltanto la pura e semplice riconsegna al
mittente sì da dover reputare la notificazione meramente
tentata e non perfezionata (Cass., Sez. Un., 20.07.2016, n.
14917).
Invero, nel caso di specie vi è agli atti di causa la prova
dell’accettazione da parte del sistema della notificazione
telematica del ricorso e del suo successivo inoltro, mentre
la stessa controinteressata riconosce che l’indirizzo di
posta elettronica (...@cert.aci.it) intestata alla dott.ssa
Di. è inserito nel registro Inipec.
4.2.2. Del pari, ricorre l’effetto sanante costituito dalla
costituzione del destinatario della notificazione, che opera
anche nel caso in cui la costituzione stessa sia stata fatta
al solo fine di eccepire la nullità (Cass. Sez. Un. 14917
del 2016 cit.), e nella fattispecie la controinteressata non
si è limitata a tale eccezione, ma ha svolto difese in rito
e nel merito.
4.3. E’ stata ulteriormente eccepita la nullità della
notificazione effettuata alla ASM, perché effettuata presso
un indirizzo di posta elettronica non inserita nell’apposito
registro tenuto dal Ministero della giustizia.
4.3.1. La tesi va condivisa. Il d.m. 16.02.2016, n. 40,
recante le regole operative per l’attuazione del processo
amministrativo telematico, all’art. 14 stabilisce che le
notificazioni alle amministrazioni non costituite in
giudizio sono eseguite agli indirizzi pec di cui all’art.
16, n. 12, del d.l. n. 179 del 2012.
Ai sensi del successivo art. 16-ter, n. 1, si intendono per
pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, n.
12, del presente decreto, dall'articolo 16, n. 6, del
decreto legge 29.11.2008, n. 185, dall'articolo 6-bis del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, nonché il registro
generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero
della giustizia.
A sua volta, il n. 1-bis dell’art. 16-ter del medesimo d.l.
n. 179 del 2012 estende alla giustizia amministrativa
l’applicabilità del n. 1 dello stesso art. 16-ter, a tenore
del quale ai fini della notificazione si intendono per
pubblici elenchi “quelli previsti dagli articoli 4 e 16,
comma 12, del presente decreto; dall'articolo 16, comma 6,
del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2, dall'articolo
6-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, nonché il
registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal
Ministero della giustizia”.
Non è più espressamente annoverato tra i pubblici elenchi
dai quali estrarre gli indirizzi pec da utilizzare per le
notificazioni e comunicazioni degli atti il registro IPA,
disciplinato dall'art. 16, n. 8, d.l. 29.11.2008, n. 185.
Ne discende che
ai fini della notifica
telematica di un atto processuale ad una amministrazione
pubblica non potrà utilizzarsi qualunque indirizzo pec, ma
solo quello inserito nell’apposito
registro tenuto dal Ministero della Giustizia, al
quale gli enti avrebbero dovuto comunicarli entro il
30.11.2014. In difetto di tale iscrizione, la notificazione
degli atti processuali può essere validamente eseguita solo
con le tradizionali modalità cartacee
(in termini, TAR Sicilia, Sez. III, 13.07.2017 n. 1842).
4.3.2. Nella presente questione la notificazione all’Azienda
Sanitaria di Matera è avvenuta presso l’indirizzo di posta
elettronica asmbasilicata@cert.ruparbasilicata.it estratto
dal
registro
Indicepa.gov.it, mentre non è contestato che
l’ASM di Matera non disponga di «un indirizzo pec in
pubblico elenco utilizzabile ai fini della notificazione in
via telematica ex art. 16, comma 12, D.L. n. 179/2012».
4.3.3. Il procuratore della ricorrente, in camera di
consiglio, ha evidenziato che il sito dell’Azienda sanitaria
intimata reca l’indicazione del recapito p.e.c. utilizzato
ai fini della notificazione del ricorso, e ciò sarebbe
idoneo a integrare il caso dell’errore scusabile.
In senso contrario il Collegio deve tuttavia osservare che,
sebbene effettivamente il sito internet in questione rechi
l’indicazione della casella p.e.c. asmbasilicata@cert.ruparbasilicata.it,
incombe sul ricorrente l’onere di verificare se tale
recapito sia utile ai fini della notificazione dei ricorsi
in vigenza del c.d. processo amministrativo telematico. Né
si tratta di attività di speciale difficoltà, risolvendosi
la stessa nella consultazione dei registri all’uopo
individuati dalle disposizioni di riferimento, innanzi
richiamate.
Inoltre, nel sito aziendale si legge, a tal riguardo, che «l'Azienda
Sanitaria Locale di Matera ha attivato l'indirizzo di Posta
Elettronica Certificata (PEC), come previsto dalla Legge n.
69 del 2009».
Ebbene, tale ultima disposizione, all’art. 34, si limita a
sancire che «entro il 30.06.2009, le amministrazioni
pubbliche già dotate di un sito internet sono tenute a
pubblicare nella pagina iniziale del loro sito un indirizzo
di posta elettronica certificata a cui il cittadino possa
rivolgersi per qualsiasi richiesta, in adempimento alle
norme del codice dell’amministrazione digitale, di cui al
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82. Le amministrazioni
devono altresì assicurare un servizio che renda noti al
pubblico i tempi di risposta, le modalità di lavorazione
delle pratiche e i servizi disponibili», senza nulla
prevedere in relazione alla notificazione dei ricorsi
giurisdizionali.
Infine, l’art. 37 cod. proc. amm. riconnette l’errore
scusabile alla «presenza di oggettive ragioni di
incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di
fatto», nella specie non ravvisabili. Del resto, si
tratta di istituto di carattere eccezionale, che introduce
una deroga al principio cardine della perentorietà dei
termini di impugnativa, sicché la disposizione è di stretta
interpretazione.
5. Dalle considerazioni che precedono discende la
declaratoria di inammissibilità del ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legittimità della pubblicazione
dei redditi dei dirigenti sul sito web dell’Amministrazione.
---------------
Pubblico impiego privatizzato – Dirigenti – Trasparenza –
Pubblicazione reddito – Art 14, comma 1-bis e comma 1-ter,
d.lgs. n. 33 del 2013 – Violazione artt. 117, comma 1, 3, 2
e 13 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 1-bis e comma 1-ter, d.lgs. 14.03.2013,
n. 33, inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. c), d.lgs.
25.05.2016, n. 97, nella parte in cui prevedono che le
Pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art.
14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo
anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per
contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 Cost. (1).
---------------
(1)
In punto di fatto, va rilevato che erano stati gravati,
dinanzi al Tar Lazio, i provvedimenti del Garante per la
protezione dei dati personali che hanno dato applicazione
nei loro confronti alla norma di cui all’art. 14, comma
1-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, laddove prevede, in
analogia con quanto già previsto per i titolari di incarichi
politici di cui al comma 1, che le pubbliche amministrazioni
pubblichino nel proprio sito web, oltre che gli altri dati
elencati nel comma 1 dell’art. 14, anche i dati dei titolari
di incarichi dirigenziali di cui all'art. 14, comma 1, lett.
c) e f), dello stesso d.lgs. n. 33 del 2013, costituiti da:
c) "i compensi di qualsiasi natura connessi
all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di
servizio e missioni pagati con fondi pubblici";
f) "le dichiarazioni di cui all'art. 2, l. 05.07.1982, n.
441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli
artt. 3 e 4 della medesima legge, limitatamente al soggetto,
al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado,
ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data
evidenza al mancato consenso.”.
In particolare, in attuazione della predetta norma, il
Garante ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato
termine la relativa documentazione, e precisamente: copia
dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando
i dati eccedenti, come previsto dalla Linee guida del
Garante; dichiarazione, aggiornata alla data di
sottoscrizione, per la pubblicità della situazione
patrimoniale, da rendersi secondo lo schema allegato alla
richiesta; dichiarazione di negato consenso per il coniuge
non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, pel
caso si avvenuta prestazione del consenso, copia delle
dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e
dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive
situazioni patrimoniali, sempre secondo il modello allegato;
dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche
presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a
carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Tale disposizione normativa sarebbe violativa degli artt. 7,
8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, dell’art. 6 del Trattato UE, dell’art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 6 della
direttiva 95/46/CE, dell’art. 5 del Regolamento 2016/679 del
Parlamento europeo e del Consiglio del 27.04.2016, da
applicarsi negli Stati membri a decorrere dal 25.05.2018,
nonché degli artt. 117, 3, 13, 2 Cost..
Il Tar ha ritenuto la questione non manifestamente infondata
Ha premesso che i principi di proporzionalità, pertinenza e
non eccedenza costituiscono il canone complessivo che
governa l’equilibrio del rapporto tra esigenza, privata, di
protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di
trasparenza.
Ha ritenuto, quanto alla equiparazione dei dirigenti
pubblici con i titolari di incarichi politici, originari
destinatari della prescrizione di cui all’art. 14, comma 1,
d.lgs. n. 33 del 2013, che i rapporti e le responsabilità
che correlano, da un lato, i titolari di incarichi politici,
dall’altro, i dirigenti pubblici, allo Stato e, indi, ai
cittadini, si collocano su piani non comunicanti, in un
insieme che rende del tutto implausibile la loro
riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza,
nell’ambito di un identico regime.
Ha aggiunto, quanto alla legittimità della prescrizione
imposta ai dirigenti di pubblicare i dati in contestazione,
invece che, a tutela della proporzionalità della misura, una
loro ragionata elaborazione, atta a scongiurare
incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di
dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla
norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni
distorte. La disposizione di cui trattasi comporta la
divulgazione online di dati reddituali e patrimoniali
relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il
secondo grado, ove essi acconsentano.
E’ prevista anche, pel caso di mancato consenso del coniuge
o del parente entro il secondo grado, la menzione dello
stesso. I dati in parola, essendo desunti dalla
dichiarazione dei redditi, si collocano a un livello di
notevole dettaglio. Le caratteristiche di una siffatta
pubblicazione la rendono indubbiamente foriera di usi da
parte del pubblico che possono trasmodare dalla finalità
della trasparenza, sino a giungere alla messa a rischio
della sicurezza degli interessati.
Il Tar ha infine escluso che la disposizione cointestata sia
suscettibile di essere disapplicata per contrasto con
normative comunitarie, posto che non è individuabile una
disciplina self-executing di tale matrice
direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di
giudizio (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
ordinanza 19.09.2017 n. 9828
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il riconoscimento della qualifica di
controinteressato in senso tecnico (ossia di litisconsorte
necessario) è subordinato alla sussistenza di due elementi:
uno di carattere formale quale, ai sensi dell’art. 41
c.p.a., la sua espressa menzione nel provvedimento
impugnato; ed uno sostanziale, radicato nella
titolarità di un interesse qualificato alla conservazione
del provvedimento impugnato.
Con particolare riferimento all'impugnativa dei
provvedimenti in materia edilizia, va considerato che di
norma nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione o
d’interdizione al proseguimento dei lavori non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
In altri termini, è controinteressato in senso tecnico
(soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel
provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale)
direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo
o dall'attività repressiva dell'amministrazione.
---------------
6. Gli appelli oggettivamente e soggettivamente connessi
devono essere riuniti.
7. In limine sull’eccezione d’inammissibilità dei ricorso di
prime cure per omessa notifica ai controinteressati.
7.1 L’eccezione è infondata.
7.2 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui
condiviso, a mente del quale il riconoscimento della
qualifica di controinteressato in senso tecnico (ossia di
litisconsorte necessario) è subordinato alla sussistenza di
due elementi: uno di carattere formale quale, ai sensi
dell’art. 41 c.p.a., la sua espressa menzione nel
provvedimento impugnato; ed uno sostanziale, radicato nella
titolarità di un interesse qualificato alla conservazione
del provvedimento impugnato.
Con particolare riferimento all'impugnativa dei
provvedimenti in materia edilizia, va considerato che di
norma nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione o
d’interdizione al proseguimento dei lavori non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011, n. 3380; Id., sez.
V, 03.07.1995, n. 991).
In altri termini, è controinteressato in senso tecnico
(soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel
provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale)
direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo
o dall'attività repressiva dell'amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.09.2017 n. 4381 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Appare
condiviso in giurisprudenza che l’inizio lavori, ai sensi
dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, debba
intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono
desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi “iniziati” quando
consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè
nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi
portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di
scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo
edificio per evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi
fittizi e simbolici.
Vero è che la mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di
per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto
dell’effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un
anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di
decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n.
380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia
accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da
altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento
del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera
assentita.
Nondimeno nel caso di specie non si trattava di “mera
esecuzione di sbancamento” ma di concreti ed effettivi
lavori “in corso di esecuzione” per il livellamento dei
muri.
---------------
Ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. cit. “La proroga
può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari.”.
Nel caso di specie, le varie denunce e contestazioni poste
in essere dai vicini rappresentano dei “fatti sopravvenuti,
estranei alla volontà del titolare del permesso”,
soprattutto nel caso di presentazione di una pluralità di
esposti e di ricorsi avverso il soggetto titolare del
permesso di costruire, il quale s’è visto costretto a dover
assumere tutte le iniziative del caso per difendersi da
questi eventi di forza maggiore che impediscono di portare a
termine, nei tempi prestabiliti, i lavori.
---------------
9. Nel dettaglio ai
motivi di appello.
10. L’infondatezza nel merito dell’appello consente di
prescindere dall’eccezione d’inammissibilità dell’appello (recte
di parte dei motivi d’appello), proposta dalla società
appellata, sul rilievo che gli intervenienti adesivi
dipendenti, intervenuti ad oppenendum in primo grado,
non sono titolari di una posizione che li legittimi ad
impugnare autonomamente la sentenza.
10.1 Per restituire un minimo di organicità ai motivi
d’appello, le censure vanno ricondotte a tre ordini di
argomenti che fungono da comune denominatore: la
legittimità del provvedimento di decadenza; la legittimità o
meno del rilascio della proroga dell’inizio lavori; la
supposta violazione dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 in
combinato disposto con l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
10.2 Sul motivo che deduce la violazione dell’art. 15 e ss.
d.P.R. 380/2001.
10.3 Va condiviso il capo di sentenza che ha affermato
l’illegittimità del provvedimento di decadenza del permesso
di costruire n. 73 del 28.06.2006 per mancato inizio e
termine dei lavori nei tempi stabiliti dalla normativa
edilizia di riferimento.
Il provvedimento è stato emesso sulla base di
un’irragionevole interpretazione dell’art. 15 d.P.R. n.
380/2001, il quale prevede un termine massimo di un anno,
decorrente dal rilascio del permesso di costruire, entro cui
iniziare i lavori, nonché un termine di tre anni,
dall’inizio dei lavori, per completare l’opera.
Appare condiviso in giurisprudenza che l’inizio lavori, ai
sensi dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, debba
intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono
desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi “iniziati” quando
consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè
nell’impianto del cantiere, nell’innalzamento di elementi
portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di
scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo
edificio per evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi
fittizi e simbolici.
Vero è che la mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di
per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto
dell’effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un
anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di
decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n.
380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia
accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da
altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento
del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera
assentita.
10.4 Nondimeno nel caso di specie non si trattava di “mera
esecuzione di sbancamento” ma di concreti ed effettivi
lavori “in corso di esecuzione” per il livellamento
dei muri.
Lo attesta, ai sensi del verbale di sopralluogo redatto dai
Carabinieri, la presenza nei “vani ancora esistenti”
del materiale oggetto di demolizione nonché la nota del
03.07.2007 dell’avv. Ce.Al., nella qualità di procuratore
della confinante Sig.ra An.Zu., con la quale si chiedeva al
Comune, Regione e Soprintendenza di far sospendere i lavori
alla Sn.St. S.a.s.: l’atto dimostra che un inizio di lavori
c’era effettivamente stato prima del verbale del 2009, in
quanto la confinante Sig.ra An.Zu. non avrebbe avuto motivo
di sollecitare l’intervento l’avv. Al. per delle mere
pulizie del fondo e rimozione dei detriti.
10.5 Anche la concessione di proroga emessa dal Comune
risulta legittima.
Infatti, ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. cit. “La
proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare
del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera
da realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari.”.
10.6 Le varie denunce e contestazioni poste in essere dai
vicini rappresentano dei “fatti sopravvenuti, estranei
alla volontà del titolare del permesso”, soprattutto nel
caso di presentazione di una pluralità di esposti e di
ricorsi avverso il soggetto titolare del permesso di
costruire, il quale s’è visto costretto a dover assumere
tutte le iniziative del caso per difendersi da questi eventi
di forza maggiore che impediscono di portare a termine, nei
tempi prestabiliti, i lavori
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.09.2017 n. 4381 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d.
taglio delle ali: tutte le offerte caratterizzate dal
medesimo valore vanno considerate “unica offerta”.
---------------
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Offerta al
prezzo più basso – Taglio delle ali – Calcolo delle offerte
da accantonare nel c.d. taglio delle ali – Criterio – Art.
86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 121, comma 1,
d.P.R. n. 207 del 2010 - Individuazione.
Ai fini del calcolo dell’anomalia
dell’offerta nel caso in cui il criterio dell’aggiudicazione
è quello del prezzo più basso:
a) il comma 1 dell’art. 86, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 deve essere
interpretato nel senso che, nel determinare il dieci per
cento delle offerte con maggiore e con minore ribasso (da
escludere ai fini dell’individuazione di quelle utilizzate
per il computo delle medie di gara), la stazione appaltante
deve considerare come ‘unica offerta’ tutte le offerte
caratterizzate dal medesimo valore, e ciò sia se le offerte
uguali si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si
collochino ‘all’interno’ di esse;
b) il secondo periodo del comma 1 dell’art. 121, d.P.R. 05.10.2010,
n. 207 (secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del
dieci per cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice
siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto
alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di
anomalia”) deve a propria volta essere interpretato nel
senso che l’operazione di accantonamento deve essere
effettuata considerando le offerte di eguale valore come
‘unica offerta’ sia nel caso in cui esse si collochino ‘al
margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di
esse (1).
---------------
(1) La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da
Cons. St., sez. III, ord., 13.03.2017, n. 1151.
Ad avviso dell’Adunanza plenaria, prevalenti ragioni
testuali e sistematiche depongono nel senso dell’adesione al
prevalente orientamento secondo il quale, ai fini del comma
1 dell’art. 86, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e del comma 1
dell’art 121, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, le offerte di
identico ammontare devono essere accantonate sia nel caso in
cui si collochino al margine delle ali, sia nel caso in cui
si collochino all’interno di esse (si tratta della tesi che,
sia pure con qualche inevitabile semplificazione, è stata
ricondotta all’etichetta definitoria del ‘criterio
relativo’ o del ‘blocco unitario’).
Militano, ad avviso dell’Alto consesso, in favore
dell’adesione alla tesi del c.d. ‘blocco unitario’
elementi di carattere testuale e di carattere teleologico.
Un primo argomento di carattere testuale è desumibile dal
secondo periodo del comma 1 dell’art. 121, d.P.R. n. 207 del
2010 secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del
dieci per cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice
siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto
alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di
anomalia”. Tale disposizione sancisce il generalizzato
obbligo di accantonare le offerte che presentino identico
valore rispetto ad altre oggetto di accantonamento e non
legittima (se non all’esito di complesse operazioni logiche
che non rinvengono agevole conforto nella disposizione in
questione) un’interpretazione volta a limitare
l’accorpamento alla sola ipotesi di offerte collocate ‘al
margine’ dell’ala e ad escluderlo nel caso di offerte
collocate ‘all’interno’ dell’ala stessa.
Un secondo argomento di carattere testuale, che depone nel
medesimo senso, è desumibile dalla comparazione fra il primo
e il secondo periodo del più volte richiamato art. 121. Il
primo periodo stabilisce che le offerte diverse da quelle
interessate dal ‘taglio’ (e in relazione alle quali
si opererà il computo delle medie di gara) vanno considerate
in modo distinto e, per così dire, ‘atomistico’ ai
fini di tale computo; il secondo periodo, invece, richiama
in modo espresso l’applicazione del c.d. ‘criterio
relativo’ in relazione al caso delle offerte ‘estreme’
(senza peraltro legittimare distinzioni di sorta fra il caso
di offerte poste al margine e di offerte poste all’interno
delle ali).
Occorre quindi riconoscere la diversità disciplinare che
caratterizza le due richiamate ipotesi, astenendosi
dall’operare vere e proprie commistioni quali quelle
proposte dalla tesi ad oggi minoritaria (la quale, a ben
vedere, postula il concomitante operare sia del criterio
c.d. ‘assoluto’, sia del criterio c.d. ‘relativo’
all’interno di ipotesi sotto ogni aspetto omogenee, quali
quelle relative alle offerte marginali interessate dal c.d.
‘taglio delle ali’).
A supporto della conclusione alla quale è pervenuta
l’Adunanza plenaria militano anche motivazioni di carattere
sistematico, quale l’idoneità a ostacolare condotte
collusive in sede di formulazione delle percentuali di
ribasso e a evitare che identici ribassi possano limitare
l’utilità dell’accantonamento ed ampliare in modo eccessivo
la base di calcolo delle medie di gara, in tal modo rendendo
inaffidabili i relativi risultati (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 19.09.2017 n. 5 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' inammissibile il ricorso presentato dal
direttore dei lavori, avverso l'annullamento in autotutela
del rilasciato permesso di costruire,
laddove il titolare del titolo edilizio (annullato)
non risulta aver rilasciato una procura o altro idoneo atto
di conferimento della rappresentanza che abbia attribuito al
deducente il potere di stare in giudizio per suo conto.
Neppure risulta esplicitato in sede di ricorso un interesse
autonomo proprio del ricorrente, sicché trova applicazione
nel caso di specie l’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui,
al di fuori dei casi previsti dalla legge, nessuno può far
valere nel processo in nome proprio un interesse altrui. Si
tratta di disposizione pienamente applicabile nell’ambito
del processo amministrativo in virtù del rinvio di cui
all’art. 39 cod. proc. amm..
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva, della
determinazione dirigenziale n. 80 del 23.05.2017 del
responsabile dell’Area tecnica del Comune di Rapolla,
notificata il 30.05.2017;
...
1. Bi.Ac. è insorto avverso il provvedimento in epigrafe,
con il quale il responsabile dell’Area tecnica del Comune
intimato ha annullato in autotutela il permesso di costruire
n. 6 dell’11.03.2015, rilasciato a Si.Ro., deducendo in
diritto, per più profili, la violazione di legge e l’eccesso
di potere.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Rapolla,
eccependo in rito l’inammissibilità del ricorso, nonché, nel
merito, la sua infondatezza.
3. Alla camera di consiglio del 13.09.2017 il Collegio ha
dato avviso alle parti dell’intendimento di definire il
giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi
dell’art. 60 cod. proc. amm.. Quindi, la causa è passata in
decisione.
4. Il ricorso è inammissibile, alla stregua della
motivazione che segue.
4.1. Il ricorrente risulta essere, dagli atti di causa, il
direttore dei lavori oggetto del permesso di costruire. Tale
titolo edilizio, infatti, è stato rilasciato a Ro.Si..
Quest’ultima non risulta aver rilasciato una procura o altro
idoneo atto di conferimento della rappresentanza che abbia
attribuito al deducente il potere di stare in giudizio per
suo conto.
Neppure risulta esplicitato in sede di ricorso un interesse
autonomo proprio del ricorrente, sicché trova applicazione
nel caso di specie l’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui,
al di fuori dei casi previsti dalla legge, nessuno può far
valere nel processo in nome proprio un interesse altrui. Si
tratta di disposizione pienamente applicabile nell’ambito
del processo amministrativo in virtù del rinvio di cui
all’art. 39 cod. proc. amm..
5. Dalle considerazioni che precedono discende la
declaratoria di inammissibilità del ricorso (TAR Basilicata,
sentenza 18.09.2017 n. 606 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La disposizione di cui all’art. 95, comma 10,
d.lgs. 50/2016 è stata novellata in forza dell’art. 60,
d.lgs. 19.04.2017, n. 56, nel senso
di escludere dall’obbligo di indicazione degli oneri di
sicurezza c.d. aziendali, le forniture senza posa in opera,
i servizi di natura intellettuale e gli affidamenti ai sensi
dell’articolo 36, comma 2, lettera a).
Con riferimento a
tale novella la giurisprudenza si è anche espressa nel senso
che ad essa deve attribuirsi natura ricognitiva del
previgente “diritto vivente” giurisprudenziale, e non già
natura innovativa con esclusiva efficacia ex nunc proiettata
nel futuro.
---------------
Nel caso di specie trattasi di una fornitura con posa in
opera, ossia di un contratto per il quale né la
giurisprudenza prima, né il legislatore ora hanno previsto
l’esclusione dall’obbligo di indicazione nell’offerta
economica degli oneri di sicurezza c.d. aziendali.
In merito a tale obbligo, rectius onere, va ricordato che
con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata
superata ogni incertezza interpretativa, nel senso
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10, in merito alla dichiarazione sugli oneri di
sicurezza aziendale in sede di offerta economica.
Il legislatore con l’introduzione di detta disciplina ha
inteso porre fine, una volta per tutte, ai noti contrasti
insorti nel preesistente assetto normativo, richiamati in
parte anche dalla ricorrente nel ricorso introduttivo.
---------------
L’insegnamento giurisprudenziale prevalente chiarisce che a
seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato
rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95,
comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni,
comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa
invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso
istruttorio.
È difatti acclarato che non è ammesso il soccorso
istruttorio previsto dall’art. 83, comma nono, d.lgs. n. 50
del 2016 per la mancanza, incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi afferenti all’offerta
economica e all’offerta tecnica. Gli oneri di sicurezza
interni attengono direttamente all’offerta economica -motivo
per il quale sono anche soggetti al ribasso d’asta- e, per
la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne
costituiscono elemento essenziale.
---------------
Non convince la tesi della ricorrente che la mancata
indicazione dei detti oneri debba essere equiparata ad
un’indicazione pari a zero, in quanto nell’esecuzione delle
prestazioni oggetto di gara non sorgerebbero nemmeno simili
oneri. Infatti è la stessa ricorrente ad affermare nel
proprio ricorso introduttivo di avere già sostenuto dei
costi per la formazione ed istruzione del personale da
impiegare per la fornitura in oggetto ammettendo, quindi, di
aver effettivamente e concretamente sostenuto dei costi per
la sicurezza dei lavoratori, che –in quanto tali-, ai sensi
di legge, avrebbero dovuto, quantomeno pro quota, essere
indicati nell’offerta economica.
---------------
2. Va premesso che corrisponde al vero quanto rilevato dalla
ricorrente in sede di discussione, ossia che successivamente
all’indizione della presente gara la disposizione di cui
all’art. 95, comma 10, d.lgs. 50/2016 è stata novellata in
forza dell’art. 60, d.lgs. 19.04.2017, n. 56, nel senso
di escludere dall’obbligo di indicazione degli oneri di
sicurezza c.d. aziendali, le forniture senza posa in opera,
i servizi di natura intellettuale e gli affidamenti ai sensi
dell’articolo 36, comma 2, lettera a).
Con riferimento a
tale novella la giurisprudenza si è anche espressa nel senso
che ad essa deve attribuirsi natura ricognitiva del
previgente “diritto vivente” giurisprudenziale, e non già
natura innovativa con esclusiva efficacia ex nunc proiettata
nel futuro (cfr. Cons. di Stato, sez. VI, 1.08.2017, n.
3857).
Sennonché tale
novella non rileva per la decisone del caso in esame.
Dall’esame della documentazione di gara emerge che l’oggetto
della presente fornitura, oltre al mero trasporto dei beni,
comprende anche altri servizi, tra i quali -a mero titolo
esemplificativo- si citano l’installazione completa ed il
collegamento alla rete dati ed elettrica dei complessi
sistemi audiovisivi, degli schermi motorizzati a parete ed a
soffitto, nonché la messa in funzione ed il collaudo dei
vari sistemi.
Non può, pertanto, essere revocato in dubbio che nel caso di
specie trattasi di una fornitura con posa in opera, ossia di
un contratto per il quale né la giurisprudenza prima, né il
legislatore ora hanno previsto l’esclusione dall’obbligo di
indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza
c.d. aziendali.
3. In merito a
tale obbligo, rectius onere, va ricordato che con l’entrata
in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata superata
ogni incertezza interpretativa, nel senso
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10, in merito alla dichiarazione sugli oneri di
sicurezza aziendale in sede di offerta economica. Il
legislatore con l’introduzione di detta disciplina ha inteso
porre fine, una volta per tutte, ai noti contrasti insorti
nel preesistente assetto normativo, richiamati in parte
anche dalla ricorrente nel ricorso introduttivo.
4. Nemmeno può essere dato ingresso all’ulteriore censura
della ricorrente che prima di disporre l’esclusione
l’amministrazione avrebbe dovuto dare corso al c.d. soccorso
istruttorio e invitare la ricorrente a regolarizzare la
propria offerta in relazione ai costi di sicurezza
aziendali.
L’insegnamento giurisprudenziale prevalente, dal quale il
Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, chiarisce che a
seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato
rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95,
comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni,
comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa
invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso
istruttorio (TAR Campania–Napoli, sez. III, sentenza 03.05.2017, n. 2358).
È difatti acclarato che non è ammesso
il soccorso istruttorio previsto dall’art. 83, comma nono,
d.lgs. n. 50 del 2016 per la mancanza, incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi afferenti
all’offerta economica e all’offerta tecnica. Gli oneri di
sicurezza interni attengono direttamente all’offerta
economica -motivo per il quale sono anche soggetti al
ribasso d’asta- e, per la loro finalità di tutela della
sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale
(cfr. TAR Campania, sez. I, Salerno, 05.01.2017, n. 34).
5. Parimenti non convince la tesi della ricorrente che la
mancata indicazione dei detti oneri debba essere equiparata
ad un’indicazione pari a zero, in quanto nell’esecuzione
delle prestazioni oggetto di gara non sorgerebbero nemmeno
simili oneri. Infatti è la stessa ricorrente ad affermare
nel proprio ricorso introduttivo di avere già sostenuto dei
costi per la formazione ed istruzione del personale da
impiegare per la fornitura in oggetto ammettendo, quindi, di
aver effettivamente e concretamente sostenuto dei costi per
la sicurezza dei lavoratori, che –in quanto tali-, ai
sensi di legge, avrebbero dovuto, quantomeno pro quota,
essere indicati nell’offerta economica.
6. Conclusivamente tenuto conto dell’evidenziato quadro
normativo e giurisprudenziale il ricorso deve essere
rigettato (TRGA, Trentino Alto Adige,
sentenza 18.09.2017 n. 281 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi - Demolizione sospensione o
revocata in sede esecutiva - Incompatibilità con atti
amministrativi o giurisdizionali - Art. 31, c. 9, D.P.r. n.
380/2001.
In sede esecutiva la demolizione potrà essere sospesa o
revocata quando risulta assolutamente incompatibile con atti
amministrativi o giurisdizionali che abbiano conferito
all'immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla
sua sanatoria, quindi, in via generale, deve ritenersi che
gli atti tipici della pubblica amministrazione idonei ad
evitare la esecuzione della sentenza di condanna nella parte
in cui impone la demolizione della opera abusiva sono la già
intervenuta demolizione dell'immobile ad opera della stessa
pubblica amministrazione o la intervenuta concessione in
sanatoria e la delibera del consiglio comunale che abbia
dichiarato la conformità del manufatto con gli interessi
pubblici urbanistici ed ambientali.
Demolizione - Inottemperanza -
Decorrenza dei 90 gg. - Effetti - Automatica acquisizione
gratuita dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune
- DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Giurisprudenza.
In materia edilizia, l'ingiustificata inottemperanza, nel
termine di legge di novanta giorni, all'ordine di
demolizione di una costruzione abusiva emesso dall'autorità
comunale comporta l'automatica acquisizione gratuita
dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune alla
scadenza di detto termine, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza che ha solo funzione certificativa
dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà (Cass.
Sez. 3, n. 2912 del 22/01/2010), il trasferimento al
patrimonio comunale della proprietà dell'immobile abusivo
non costituisce impedimento giuridico a che il privato
responsabile esegua l'ordine di demolizione impartitogli dal
giudice con la sentenza di condanna, salvo che l'autorità
comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici
prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto
urbanistico violato (Cass. Sez.3, n. 4962/2008 del
28/11/2007P.G. in proc. Mancini e altri; Sez. 3, n. 42698
del 07/07/2015, P.M. n proc. Marche) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.09.2017 n. 41537
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' da escludere il carattere pertinenziale degli
abusi in questione poiché “può riconoscersi la natura di
pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto
urbanistico” e tali non appaiono i due manufatti descritti,
occupanti una superficie, limitatamente al solo corpo
principale, di circa 54 mq l’uno e di 35 mq l’altro per
un’altezza variabile dai mt. 3 ai mt. 4.
Rammenta il Collegio che il Consiglio di Stato ha più di
recente precisato che “Gli elementi che caratterizzano le
pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa
del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di
entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del
territorio” sancendo inoltre che “Non può ritenersi
meramente pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari
titoli abilitativi edilizi (e paesaggistici), un'opera
quando determini un nuovo volume di consistenti dimensioni
su un'area diversa e ulteriore rispetto a quella già
occupata dal preesistente edificio principale”.
Giova sottolineare in argomento che
tra i due requisiti va predicato sussistente un rapporto di
pregiudizialità a favore di quello strutturale avendo la
Sezione di recente escluso che possa configurarsi una
pertinenza edilizia in mancanza del pre-requisito di
carattere strutturale, ossia la scarsa consistenza
dimensionale dell'opera: "Se fa difetto il primo requisito,
ossia quello strutturale e se, quindi, la cosa che si
ritiene pertinenziale ha dimensioni consistenti, non occorre
neanche appurare l'esistenza dell'elemento funzionale,
dovendosi in radice escludere che il manufatto abbia natura
pertinenziale".
---------------
Quanto ai pergolati realizzati abusivamente si rammenta che
la giurisprudenza, ove gli stessi siano di considerevoli
dimensioni e stabilmente ancorati all’edificio palesando
un’attitudine a durare nel tempo, richiede il permesso di
costruire.
Si è invero condivisibilmente statuito che “La realizzazione
mediante opere edilizie di un pergolato caratterizzato da
una solida struttura -addirittura in cemento- di dimensioni
non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata
nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è
destinato ad arrecare, comportando una trasformazione
edilizia del territorio, dev'essere qualificata come
intervento di nuova costruzione, che necessita di
concessione edilizia”.
Anche l’orientamento di questo Tribunale è nel senso
tratteggiato, avendo precisato che “La realizzazione di un
pergolato su un terrazzo di copertura di un immobile
vincolato ex art. 157 d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni
culturali e del paesaggio) deve ritenersi ineseguibile in
assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica. Difatti
va esclusa la natura precaria di tale manufatto, che
escluderebbe la necessità della concessione edilizia, in
quanto esso è destinato a recare un'utilità prolungata e
perdurante nel tempo”.
Il che non può predicarsi invece per i semplici pergolati in
legno inidonei a determinare trasformazione edilizia del
territorio: “Non è necessaria alcuna concessione edilizia
allorché l'opera consista in una struttura precaria,
facilmente rimovibile, non costituente trasformazione
urbanistica del territorio (nella specie, trattasi di
pergolato costituito da una intelaiatura in legno che non è
infissa né al pavimento né alla parete dell'immobile alla
quale è semplicemente addossata, né risulta chiusa in alcun
lato, nemmeno sulla copertura)”.
---------------
1. A conferma della delibazione formulata in sede cautelare
deve il Collegio accogliere il ricorso limitatamente
all’impugnativa dell’ordinanza n. 23/2017 recante ordine di
cessazione dell’attività agrituristica mentre va confermata
la legittimità della presupposta ordinanza di demolizione n.
19 del 02.02.2017.
1.1. Con il primo motivo il ricorrente sostiene
l’illegittimità della sanzione demolitoria irrogata stante
la natura pertinenziale dei manufatti abusivi rilevati, che
emergerebbe sia dalle ridotte dimensioni degli stessi che
dalla loro non valutabilità ed utilizzabilità autonome
nonché dall’assenza di una propria individualità fisica e di
una propria conformazione strutturale. Si invoca al riguardo
la giurisprudenza della Sezione di cui a TAR Napoli, Sez.
III, 22.10.2015 n. 4968 e n. 1737/2014).
1.2. Ad avviso del Collegio la censura è infondata in fatto,
atteso che fa difetto nei manufatti abusivi sopra illustrati
sia il requisiti strutturale, consistente nella scarsa
volumetria e superficie, sia quello della non individualità
fisica e propria conformazione strutturale.
Dal corpo dell’ordinanza di demolizione gravata emerge
infatti che gli abusi de quibus consistono in due
manufatti terranei di apprezzabili dimensioni. Uno, posto ad
est dell’area di pertinenza della sede agrituristica, è
ultimato e completo nelle rifiniture come unità abitativa ed
ha un corpo principale di mt 9 x 6 ed altezza variabile da
mt 3 a mt 4; ha un corpo annesso di dimensioni di mt. 2 x 2
ed un altro copro annesso di mt. 1,50 x 2,50.
Il secondo manufatto terraneo è posto immediatamente a sud
dell’illustrato manufatto ed è finito ed in uso come
deposito e servizi; presenta dimensioni in pianta di mt.
8,50 x 4,50 ed altezza variabile da mt 3 a mt 3,50 ed ha un
annesso forno di mt 2,50 x 1 e altezza di mt 2,50.
Di talché, sulla scorta della stessa sentenza della Sezione
invocata in ricorso è da escludere il carattere
pertinenziale degli abusi in questione poiché “può
riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti
esigui, di scarsissimo impatto urbanistico” e tali non
appaiono i due manufatti descritti, occupanti una
superficie, limitatamente al solo corpo principale, di circa
54 mq l’uno e di 35 mq l’altro per un’altezza variabile dai
mt. 3 ai mt. 4.
Rammenta il Collegio che il Consiglio di Stato ha più di
recente precisato che “Gli elementi che caratterizzano le
pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del
manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità
tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del
territorio” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04/01/2016, n.
19), sancendo inoltre che “Non può ritenersi meramente
pertinenziale, ai fini del possesso dei necessari titoli
abilitativi edilizi (e paesaggistici), un'opera quando
determini un nuovo volume di consistenti dimensioni su
un'area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata
dal preesistente edificio principale” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 16.06.2016, n. 2658, confermativa di TAR
Lazio-Latina, 13.02.2015, n. 155).
Mancando il requisito strutturale rappresentato dalla scarsa
consistenza volumetrica e superficiale dell’opera abusiva e
dalla non occupazione di superficie diversa ed ulteriore
rispetto a quella occupata dall’edificio principale, non
occorre acclarare il requisito funzionale dato dall’assenza
di autonoma individualità ed utilizzabilità a prescindere
dalla cosa principale.
Giova sottolineare in argomento che tra i due requisiti va
predicato sussistente un rapporto di pregiudizialità a
favore di quello strutturale avendo la Sezione di recente
escluso che possa configurarsi una pertinenza edilizia in
mancanza del pre-requisito di carattere strutturale, ossia
la scarsa consistenza dimensionale dell'opera: "Se fa
difetto il primo requisito, ossia quello strutturale e se,
quindi, la cosa che si ritiene pertinenziale ha dimensioni
consistenti, non occorre neanche appurare l'esistenza
dell'elemento funzionale, dovendosi in radice escludere che
il manufatto abbia natura pertinenziale" (TAR
Campania-Napoli - Sez. III, 24.07.2014, n. 4230).
1.3. Quanto ai pergolati realizzati abusivamente si rammenta
che la giurisprudenza, ove gli stessi siano di considerevoli
dimensioni e stabilmente ancorati all’edificio palesando
un’attitudine a durare nel tempo, richiede il permesso di
costruire. Si è invero condivisibilmente statuito che “La
realizzazione mediante opere edilizie di un pergolato
caratterizzato da una solida struttura -addirittura in
cemento- di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una
permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle
utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una
trasformazione edilizia del territorio, dev'essere
qualificata come intervento di nuova costruzione, che
necessita di concessione edilizia” (TAR Liguria, Sez. I,
23.03.2012 n. 423).
Anche l’orientamento di questo Tribunale è nel senso
tratteggiato, avendo precisato che “La realizzazione di
un pergolato su un terrazzo di copertura di un immobile
vincolato ex art. 157 d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni
culturali e del paesaggio) deve ritenersi ineseguibile in
assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica. Difatti
va esclusa la natura precaria di tale manufatto, che
escluderebbe la necessità della concessione edilizia, in
quanto esso è destinato a recare un'utilità prolungata e
perdurante nel tempo” (TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
26.05.2006 n. 6182).
Il che non può predicarsi invece per i semplici pergolati in
legno inidonei a determinare trasformazione edilizia del
territorio: “Non è necessaria alcuna concessione edilizia
allorché l'opera consista in una struttura precaria,
facilmente rimovibile, non costituente trasformazione
urbanistica del territorio (nella specie, trattasi di
pergolato costituito da una intelaiatura in legno che non è
infissa né al pavimento né alla parete dell'immobile alla
quale è semplicemente addossata, né risulta chiusa in alcun
lato, nemmeno sulla copertura)” (Consiglio di Stato,
Sez. V, 07.11.2005 n. 6193) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rispetto ad un immobile abusivo e fatto oggetto
di istanza di condono inesitata, ogni ulteriore intervento
(ivi compreso il mutamento di destinazione) risente
dell’illegittimità urbanistica di quello originario.
Si è in tal senso precisato che “In presenza di manufatti
abusivi, non condonati né sanati, gli interventi ulteriori
(sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale, alla quale ineriscono strutturalmente”.
---------------
2. Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta che
illegittimamente il Comune ha adottato la sanzione
demolitoria relativamente al cambio di destinazione d’uso
della sala adibita a ristorazione, mutata rispetto alla
destinazione dichiarata nell’istanza di condono edilizio
quale deposito e servizi per l’agricoltura.
Per il deducente l’assenza di opere fisiche rende il cambio
di destinazione insuscettibile di essere raggiunto da una
sanzione reale di tipo demolitorio, come sancito da varia
invocata giurisprudenza.
La doglianza è ulteriormente approfondita e svolta con il
primo dei motivi aggiunti depositati il 13.03.2017, con il
quale viene invocato anche il disposto dell’art. 3, co. 3,
della L.Reg. n. 15/2008 secondo il quale lo svolgimento di
attività agrituristiche “non costituisce distrazione della
destinazione agricola del fondo e degli edifici interessati
e non comporta cambio di destinazione d’uso degli edifici
censiti come rurali”.
2.1. A parere del Collegio gli illustrati profili di
doglianza non colgono nel segno e vanno disattesi.
Invero, se in linea generale è esatto l’avviso secondo il
quale il mutamento di destinazione d’uso senza opere non
soggiace alla sanzione demolitoria (fatto salvo il
ripristino dello stato dei luoghi) e l’esercizio di attività
agrituristica in particolare non comporta cambio di
destinazione d’uso degli edifici rurali, è doveroso
precisare che ciò è predicabile relativamente ad immobili
connotati di legittimità urbanistica originaria.
Non può essere invece il cennato principio esteso ad
interventi che accedano ad opere che siano già illegittime
dal punto di vista urbanistico e per le quali penda ancora
domanda di condono edilizio tuttora inesitata.
Si rammenta al riguardo il costrutto giurisprudenziale in
ossequio al quale rispetto ad un immobile abusivo e fatto
oggetto di istanza di condono inesitata, ogni ulteriore
intervento (ivi compreso il mutamento di destinazione)
risente dell’illegittimità urbanistica di quello originario.
Si è in tal senso precisato che “In presenza di manufatti
abusivi, non condonati né sanati, gli interventi ulteriori
(sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale, alla quale ineriscono strutturalmente” (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII, 30.03.2015 n. 1851; TAR Piemonte,
Sez. I, 11.12.2012 n. 1320).
Non può pertanto il deducente invocare la circostanza che il
mutamento di destinazione d’uso della sala ristorazione
rispetto alla destinazione a servizi per l’agricoltura
dichiarata nella domanda di condono ex L. n. 724/1994 non è
accompagnato dall’esecuzione di opere edili ed è pertanto
neutro e conseguentemente insuscettibile di sanzione
demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se da un lato seguita a sostenersi che
“non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di
un'attività commerciale sia ancorato, per l'intera durata
del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere, dall’altro e al tempo stesso si
afferma che ”non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura
dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga
solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo
edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia
assoggettata a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e
perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di
potere. Appare, infatti, contrario a criteri di
ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione
amministrativa- inibire per intero l'esercizio di
un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali
in cui essa è svolta non è in regola con la normativa
edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del
potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del
contemperamento tra interesse pubblico alla repressione
degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione
di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla
sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo
edilizio”.
Si era infatti già in tal senso “giudicato illegittima la
chiusura integrale di un’attività commerciale in conseguenza
di un abuso edilizio che investa soltanto una parte
dell’immobile".
Si è infatti precisato che “Il legittimo esercizio di un'
attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del
relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del
suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere, ma al tempo stesso non può sanzionarsi con
l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che
quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in
assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area
interessata sia soggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine
eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo
dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri
di ragionevolezza -e perciò sintomatico di sviamento
dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio
di un' attività commerciale quando soltanto una parte dei
locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa
edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del
potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del
contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione
degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione
di un' attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla
sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo
edilizio (non assumendo rilievo in questa sede la pur
accertata carenza di autorizzazione condominiale per la
realizzazione del vano-veranda in contestazione, insistente
su area di proprietà condominiale)”.
---------------
3. Con il terzo motivo del ricorso principale ed il
secondo dell’atto per motivi aggiunti il ricorrente si duole
che l’ordinanza di cessazione dell’attività agrituristica è
illegittima poiché tale attività viene esercitata unicamente
nei locali per i quali il Comun di Pompei ha rilasciato le
relative autorizzazioni.
Ed infatti, come diffusamente evidenziato in narrativa,
l'Amministrazione resistente ha autorizzato l'esercizio
dell'attività agrituristica limitatamente al fabbricato
rurale ed al manufatto oggetto della istanza di condono ex
L. 724/1994 (comunicazione di inizio attività ai sensi della
L.R. n. 15/2008 prot. n. 1033 del 25.03.2011; autorizzazione
sanitaria prot. n. 20352 del 09.06.2011); mentre, i locali
oggetto dell'accertamento del 04.01.2017 della Polizia
Municipale, sono tutti ubicati all'esterno della struttura
adibita ad agriturismo e sono funzionali all'esercizio
dell'impresa agricola in titolarità del sig. Sa..
Tale circostanza è confermata dal sopralluogo compiuto dalla
Polizia Municipale di Pompei del 14.11.2016 nel cui verbale
i medesimi agenti affermano che “lo stato dei luoghi
risultava conforme alla planimetria allegata alla nota
assunta al prot. n. 23443 del 25.06.2012, ove veniva
relazionato e specificato che nel corpo di fabbrica,
edificato ante 1961, contrassegnato con la lettera A,
corrispondevano i locali cucina con annessi servizi e
dispense, l’attività di somministrazione avveniva nel locale
contrassegnato con la lettera C, mentre il piccolo locale
tra le due unità contrassegnato in pianta con la lettera B
risultava essere ad uso privato” (cfr. documentazione
allegata).
Ne consegue, pertanto, la sicura illegittimità dell'atto
gravato atteso che, come chiarito, le opere abusive
contestate dall'Amministrazione sono del tutto estranee
all’esercizio dell’attività agrituristica.
Inoltre, per il deducente, quand’anche l’attività per cui è
causa venisse esercitata anche al interno dei locali
abusivi, la disposta chiusura dell’attività risulterebbe
ugualmente illegittima poiché il Comune avrebbe dovuto
limitare la sanzione alla sola parte del locale non
autorizzata sotto il profilo edilizio.
3.1. Ad avviso del Collegio le riassunte censure sono
fondate e meritevoli di essere accolte.
Invero risulta per tabulas ed è incontestabile che
gli abusi edilizi rilevati dalla Polizia municipale nel
sopralluogo del 04.01.2017 consistono in pergolati e due
manufatti esterni all’attività agrituristica, uno posto ad
est dell’area pertinenziale alla sede agrituristica e
l’altro posto a sud.
Tali manufatti non intersecano l’esercizio dell’agriturismo,
ragion per cui appare fondato il dedotto eccesso di potere
per carenza di presupposti.
3.2. Invero, denota il Collegio come le questione
dell’estraneità dei manufatti rilevati come abusivi
all’esercizio dell’attività agrituristica per cui si
controverte, sia stata già dettagliatamente sviscerata dallo
stesso ricorrente con le controdeduzioni ex art. 10-bis
presentata al Comune di Pompei il 23.01.2017, prot. 3569/I
(doc. 7 produzione ricorrente).
Con tale memoria il deducente rilevava infatti “che i
manufatti indicati dai numeri 1) a 5), di cui in premessa,
non sono destinati allo svolgimento dell'attività
imprenditoriale, in quanto la stessa, già ormai dall'anno
2012, è eseguita solo su una modesta parte dell'area di
proprietà dell'azienda agrituristica: tale parte è stata
definita dall'istante proprio in accordo con
l'amministrazione e comprende í soli immobili della cui
regolarità in linea edilizia ed urbanistica non può
dubitarsi. Invero, il perimetro dell'attività era definito
con la dichiarazione del 09.06.2011, sottoscritta dal signor
Sansone Francesco, con la quale lo stesso di impegnava ad
utilizzare per l'esercizio delle attività di agriturismo
denominata Vivi Natura esclusivamente i locali edificati
prima dell'anno 1961 e quelli oggetti di condono edilizio ai
sensi della legge 724/1994”.
Oltretutto l’esponente con la menzionata memoria riferiva
che la stessa Polizia municipale aveva preso atto dalla
dedotta estraneità. Rammentando che “il Dirigente
Comandante Ga.Pe. del 14.08.2012 protocollo n. 29175, con la
nota indirizzata al dirigente UTC, all'Asl Napoli 3, al
Sindaco, al Segretario Generale e al legale rappresentante
dell'azienda agricola "Vi." signor Sa.Fr., (allegato A),
rappresentava che "al fine di consentire la conclusione del
procedimento amministrativo teso alla cessazione
dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande
agriturismo Vi., sita in via ... n. 49 condotta dalla Sa.Fr.
… al fine di suffragare quanto addotto dalla parte nelle
memorie difensive assunta al protocollo generale dell'Ente
in data 25.06.2012 al n. 23443, nelle quali si esplicita la
volontà di voler limitare la registrazione sanitaria
unicamente a corpi di fabbrica indicati in planimetria corpo
A e C afferenti all'attività, producendo nuova planimetria
con allegata relazione tecnica sfilata dall'architetto
Gi.Va.. Tale circostanza inoltre è stata valutata con esito
positivo dal dirigente del V Settore Tecnico, che con nota
assunta al protocollo generale in data 20.07.2012 al n.
26843, ha sospeso il procedimento amministrativo teso al
diniego della proposta di registrazione sanitaria a nome del
signor Sa.Fr.”.
Ne consegue che risulta provata la circostanza, dedotta dal
ricorrente con il motivo in trattazione, secondo cui gli
abusi contestati non afferiscono all’attività agrituristica,
apparendo pertanto illegittimo il provvedimento annonario
inibitorio di essa, fondato sulla irregolarità urbanistica
dei manufatti destinati a sede dell’attività di agriturismo.
4. Nel contempo è opportuno precisare che se per un verso
l’attività economica del ricorrente non può essere comunque
esercitata in alcuno dei locali abusivi, per i quali è stato
disposto il ripristino dello stato dei luoghi, per altro
verso risulta infranto il divieto di colpire con la
sanzione della chiusura l’intero esercizio, come sancito
dalla giurisprudenza ormai acquisita della Sezione.
Come esattamente ricordato dalla difesa del ricorrente,
infatti, se da un lato seguita a sostenersi che “non
può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di
un'attività commerciale sia ancorato, per l'intera durata
del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere (cfr. TAR Campania, sez. III, 09.09.2008, n.
10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id. 27.01.2003, n. 423;
Id., 22.11.2001, n. 5007)” dall’altro e al tempo
stesso si afferma che ”non può sanzionarsi con
l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che
quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in
assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area
interessata sia assoggettata a vincolo), rivelandosi tale
ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato
profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a
criteri di ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento
dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio
di un'attività commerciale quando soltanto una parte dei
locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa
edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del
potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del
contemperamento tra interesse pubblico alla repressione
degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione
di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla
sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo
edilizio” (TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.04.2015, n.
2196; 08.06.2010, n. 13015).
Si era infatti già in tal senso “giudicato illegittima la
chiusura integrale di un’attività commerciale in conseguenza
di un abuso edilizio che investa soltanto una parte
dell’immobile".
Si è infatti precisato che “Il legittimo esercizio di un'
attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del
relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del
suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere, ma al tempo stesso non può sanzionarsi con
l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che
quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in
assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area
interessata sia soggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine
eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo
dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri
di ragionevolezza -e perciò sintomatico di sviamento
dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio
di un' attività commerciale quando soltanto una parte dei
locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa
edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del
potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del
contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione
degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione
di un' attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla
sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo
edilizio (non assumendo rilievo in questa sede la pur
accertata carenza di autorizzazione condominiale per la
realizzazione del vano-veranda in contestazione, insistente
su area di proprietà condominiale)” (TAR Campania–Napoli,
Sez. III, 08.06.2010, n. 13015)” (TAR Campania–Napoli,
Sez. III, 05.12.2012 n. 4938).
Da quanto osservato discende l’illegittimità dell’ordinanza
di chiusura dell’attività agrituristica esercitata dal
ricorrente (ord. n. 23/2017).
In definitiva, il terzo motivo del ricorso principale ed il
secondo dei motivi aggiunti sono fondati e vanno accolti,
potendosi assorbire i motivi quarto e quinto del ricorso
principale.
Per l’effetto il gravame va accolto parzialmente, ossia
limitatamente all’annullamento dell’ordinanza n. 23 del
03.02.2017 del Comune di Pompei recante l’ordine immediato
di chiusura dell’attività di agriturismo gestita dal sig.
Sansone Francesco ferma restando la legittimità
dell’ordinanza di demolizione n. 19/2017 (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2017 n. 4354 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione ruderi in zona vincolata -
Permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica -
Necessità - Artt. 44, 65-72, 93-95 d.P.R. n. 380/2001 - Art.
136, 146 e 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un
"rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché
trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo
intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia
perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv.
in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli
interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime
semplificato della S.C.l.A. richiede, nelle zone vincolate,
l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti,
solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della
preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri
documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri
elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il
rispetto della sagoma della precedente struttura (Cass. Sez.
3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la
ricostruzione, come nel caso in esame,
di un "rudere"
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e
dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di
intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di
un edificio preesistente, dovendo intendersi per
quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché
non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv.
in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli
interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime
semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate,
l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti,
solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della
preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri
documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri
elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il
rispetto della sagoma della precedente struttura.
---------------
2. Il primo
motivo non ha giuridico fondamento.
Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di
vizi di manifesta illogicità e, come tale, insuscettibile di
essere sindacato in sede di giudizio di legittimità, i
giudici del merito hanno verificato che l'immobile de quo,
acquistato dalla ricorrente nell'anno 2007 come rudere di
circa 39 mq, era stato pressoché triplicato come volume
(pag. 3-5 sentenza di primo grado e pagg. 6 ss. sentenza di
appello), con la conseguenza che, in sostituzione di un
precedente corpo di fabbrica composto di due vani, di cui
uno completamente diruto, era stato realizzato un fabbricato
su due livelli della superficie complessiva di circa 140 mq.
La Corte di appello, che ha considerato tutte le obiezioni
ed anche i rilievi tecnici della difesa disattendendoli
motivatamente, ha dunque escluso l'applicabilità al caso di
specie delle modifiche operate all'articolo 10 TUE dal D.L.
21.06.2013, n. 69 convertito in legge 09.08.2013, n. 98 e
dal D.L 12.09.2014, n. 133 convertito in legge 11.11.2014,
n. 164.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale si è
attenuta al principio di diritto fissato da questa Sezione
secondo il quale
integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 la
ricostruzione, come nel caso in esame,
di un "rudere"
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e
dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di
intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di
un edificio preesistente, dovendo intendersi per
quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché
non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv.
in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli
interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime
semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate,
l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti,
solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della
preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri
documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri
elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il
rispetto della sagoma della precedente struttura
(Sez. 3, n.
40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552).
La ricorrente sussume, del tutto impropriamente,
l'intervento come se lo stesso avesse riguardato una
ristrutturazione in zona paesaggisticamente non vincolata
dove l'art. 30 D.L. 21.06.2013, n. 69 (conv. in legge
09.08.2013, n. 98), consente di qualificare come
"ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di
ricostruzione di un edificio o di parte di esso,
eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica
della sagoma dello stesso, a condizione però che sia
possibile accertarne, in base a riscontri documentali o
altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad
apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza",
intesa come il complesso di tutte le caratteristiche
essenziali dell'edificio (volumetria, altezza,
struttura
complessiva, etc.); con la conseguenza che
la mancanza anche
di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il
requisito che la citata disposizione richiede per escludere,
in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire
(Sez. 3, n. 40342 del
03/06/2014, cit., Rv. 260551; Sez. 3, n. 45147 del
08/10/2015, Marzo, Rv. 265444), ulteriori circostanze
comunque del tutto non sussistenti nel caso di specie (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Nozione di edificio ultimato -
Possesso dei requisiti di agibilità o abitabilità.
In tema di reati edilizi, deve ritenersi "ultimato"
solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti
i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il
suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato
dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al
suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente
l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato,
coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni (Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere in conglomerato cementizio armato - Omessa
denuncia - Natura di reato omissivo proprio -
Configurabilità in capo al costruttore - Responsabilità in
concorso del committente dell'opera - Giurisprudenza.
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato
cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n.
380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in
capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via
esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia
(Sez. 3, n. 17539 del 24/03/2010, Musso).
Da ciò consegue che va esclusa la responsabilità del
committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in
qualità di "extraneus", nella contravvenzione di
omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio
armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché
l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a
carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia
dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il
committente possa concorrere nel reato, circostanza questa
che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa
proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori (Sez. 3,
n. 21775 del 23/03/2011, Ronga) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato di omessa denuncia delle opere in
conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R.
06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è
configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla
legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo
di denuncia.
Da ciò consegue che
va esclusa la responsabilità del
committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in
qualità di "extraneus", nella contravvenzione di
omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio
armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché
l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a
carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia
dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il
committente possa concorrere nel reato, circostanza questa
che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa
proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori.
---------------
6. E' invece fondato il secondo motivo di ricorso.
Sul punto, occorre dare continuità all'indirizzo secondo il
quale
il reato di omessa denuncia delle opere in
conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R.
06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è
configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla
legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo
di denuncia (Sez. 3, n. 17539 del 24/03/2010, Musso, Rv.
247168).
Da ciò consegue che va esclusa la responsabilità del
committente dell'opera che tuttavia può concorrere, in
qualità di "extraneus", nella contravvenzione di
omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio
armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) perché
l'art. 65 del testo unico sull'edilizia, pur ponendo a
carico del solo costruttore l'obbligo della denuncia
dell'inizio dei lavori in cemento armato, non esclude che il
committente possa concorrere nel reato, circostanza questa
che, ad esempio, si realizza allorché la denuncia sia omessa
proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori (Sez. 3,
n. 21775 del 23/03/2011, Ronga, Rv. 250377).
Nel caso in esame, la contestazione non ipotizza neppure
lontanamente un concorso tra la committente e il costruttore
ponendo, sic et simpliciter, a carico della prima
l'infrazione, né le sentenze di merito motivano al riguardo
su eventuali attività ausiliatrici della committente, con la
conseguenza che la sentenza impugnata va annullata senza
rinvio, in ordine all'imputazione di cui al capo c) della
rubrica, per non avere la ricorrente commesso il fatto e la
relativa pena (di mesi uno di arresto ed euro 1.000 di
ammenda) va eliminata (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di
illegittimità costituzionale di una norma di legge - Effetti
retroattivi e futuri - Esclusione dei cosiddetti rapporti
esauriti - Pubblicazione della sentenza di illegittimità
costituzionale - Presunzione legale di conoscenza - Obbligo
del giudice di non applicare la norma dichiarata
incostituzionale.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale esplica la
sua efficacia non solo nel procedimento in cui la questione
di legittimità costituzionale è stata sollevata ma, stante
l'efficacia "erga omnes" della sentenza di
accoglimento della Corte costituzionale, anche in ogni altro
giudizio in cui la norma debba o possa essere assunta a
canone di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto,
anche se venuto in essere anteriormente alla pubblicazione
della suddetta sentenza sulla Gazzetta ufficiale, con
esclusione dei cosiddetti rapporti esauriti.
La pubblicazione introduce, poi, una presunzione legale di
conoscenza delle pronunce dichiarative dell'illegittimità
costituzionale di una norma di legge, la quale esplica i
suoi effetti non solo per il futuro ma, a condizioni esatte,
anche retroattivamente nei confronti di fatti e di rapporti
risalenti al periodo in cui la norma era vigente.
Ne consegue pertanto l'obbligo del giudice di non applicare
la norma dichiarata incostituzionale, senza distinzione fra
norme di diritto sostanziale e norme di diritto processuale,
d'ufficio ed anche contro una richiesta di parte (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2017 n. 39475
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica dei prospetti - Permesso a costruire -
Necessità - Ristrutturazioni edilizie "minori" - Esclusione
- C.d. super D.I.A. - Fattispecie: aperture, chiusura
modifica di ingressi esterni, finestre balconi -
Giurisprudenza - Artt. 22, 23, 24, 27 d.p.r. 380/2001.
L'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei
prospetti, non rientra nelle tipologie delle
ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale
richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire, non
essendo sufficiente il mero rilascio della denuncia di
inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, dep.
11/07/2014, Limongi; Sez. 3, n. 38338 del 21/05/2013, dep.
18/09/2013, Cataldo; Sez. 3, n. 834/2009 del 04/12/2008 dep.
13/01/2009, P.M. in proc. Della Monica; Sez. 3, n. 1893/2007
del 14/12/2006, dep. 23/01/2007, Cristiano).
Nella specie, il rilascio del permesso di costruire si
imponeva, anche alla luce dell'art. 10 lett. h) del
regolamento edilizio comunale, a mente del quale dovevano
ritenersi assoggettate a licenza di costruzione le opere
seguenti: "aperture, chiusura modifica di ingressi
esterni, finestre balconi" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.08.2017 n. 38853
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PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio - Dirigente - Rilascio del
certificato agibilità - Abusi edilizi e verifica dei
requisiti - Opere sottoposte a permesso di costruire -
Giurisprudenza.
In ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del
delitto di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa può essere desunta
anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono
rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle
violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra
quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le
illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n.
35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n.
36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta; Sez. 3, n.
48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc.
Scaramazza e altri; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep.
17/05/2013, Baria e altri) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.08.2017 n. 38853
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EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza, l’art. 15, comma 2,
del T.U. 380/2001, che si riferisce ad una
decadenza “di diritto”, esclude qualsiasi sospensione
automatica del termine di durata del permesso edilizio, e
quindi a maggior ragione una sua automatica proroga.
Richiede invece a tal fine che in ogni caso sia presentata
un’istanza di proroga, sulla quale l’amministrazione deve
pronunciarsi con un provvedimento espresso, nel quale
accerti che i presupposti per accogliere l’istanza
effettivamente sussistono.
---------------
La necessità prevista dall’art. 15 del T.U. 380/2001 che
l’interessato si attivi con un proprio atto rende, comunque,
irrilevante la conoscenza della presunta causa di forza
maggiore (in forza della quale si chiede la proroga) da
parte dell’amministrazione, conoscenza che in ogni caso
dovrebbe risultare da atti ufficiali, e non potrebbe esser
fatta derivare da informazioni private di cui un funzionario
fosse in possesso per ragioni sue personali.
---------------
Il più volte citato art. 15 del T.U. 380/2001, per il caso
di infruttuosa scadenza del termine di ultimazione dei
lavori, prevede al comma 3 che “La realizzazione della parte
dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è
subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere
ancora da eseguire”.
In tal senso, non è richiesto che le opere di completamento
rivestano una particolare natura intrinseca: occorre
soltanto che si tratti delle opere necessarie, secondo il
progetto originario, a completare l’intervento.
Ciò però non è sufficiente a consentirne la realizzazione,
che passa per il rilascio di un nuovo permesso di costruire
e presuppone quindi che esse, nel momento in cui esso viene
richiesto, siano compatibili con la disciplina urbanistico
edilizia del momento.
---------------
1. L’appello è infondato e va respinto nel merito, per le
ragioni di seguito precisate, che rendono superfluo
esaminare le eccezioni preliminari dedotte dal Comune.
2. E’infondato il primo motivo, fondato sulla
presunta possibilità di ritenere un permesso di costruire
automaticamente prorogato in presenza di un asserita causa
di forza maggiore che impedisca di completare i lavori
relativi nel termine previsto.
L’art. 15, comma 2, del T.U. 380/2001, che qui rileva,
dispone in generale, per quanto qui interessa, “Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei
alla volontà del titolare del permesso, oppure in
considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle
sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di
difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente
all'inizio dei lavori…”.
Per costante giurisprudenza -così per tutte C.d.S. sez. IV
22.10.2015 n. 4823, 23.02.2012 n. 974 e 10.08.2007 n. 4423-
la norma suddetta, che si riferisce ad una decadenza “di
diritto”, esclude qualsiasi sospensione automatica del
termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior
ragione una sua automatica proroga. Richiede invece a tal
fine che in ogni caso sia presentata un’istanza di proroga,
sulla quale l’amministrazione deve pronunciarsi con un
provvedimento espresso, nel quale accerti che i presupposti
per accogliere l’istanza effettivamente sussistono.
...
12. Il quarto motivo di ricorso è volto anch’esso,
secondo logica, a superare il disposto dell’art. 18 del
regolamento, poiché presuppone che la proroga, anche se
disposta successivamente ad una prima, fosse in qualche modo
dovuta trattandosi di una causa di forza maggiore.
Esso però risulta a sua volta infondato: la necessità
prevista dall’art. 15 del T.U. 380/2001 che l’interessato si
attivi con un proprio atto rende comunque irrilevante la
conoscenza della presunta causa di forza maggiore in
questione da parte dell’amministrazione, conoscenza che in
ogni caso dovrebbe risultare da atti ufficiali, e non
potrebbe esser fatta derivare da informazioni private di cui
un funzionario fosse in possesso per ragioni sue personali.
...
16. Il nono e il decimo motivo vanno esaminati
congiuntamente perché connessi fra loro, e vanno a loro
volta respinti.
Il più volte citato art. 15 del T.U. 380/2001, per il caso
di infruttuosa scadenza del termine di ultimazione dei
lavori, prevede al comma 3 che “La realizzazione della
parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è
subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere
ancora da eseguire”.
In tal senso, non è richiesto, contrariamente a quanto
ritiene il Comune nelle proprie difese, che le opere di
completamento rivestano una particolare natura intrinseca:
occorre soltanto che si tratti delle opere necessarie,
secondo il progetto originario, a completare l’intervento.
Ciò però non è sufficiente a consentirne la realizzazione,
che passa per il rilascio di un nuovo permesso di costruire
e presuppone quindi che esse, nel momento in cui esso viene
richiesto, siano compatibili con la disciplina urbanistico
edilizia del momento.
17. Nel caso di specie, però, tale requisito necessario è
venuto a mancare.
Nel momento in cui i lavori non sono stati effettivamente
completati nel termine previsto dal permesso, l’effetto di
ripristino previsto dalle convenzioni nei termini ampiamente
illustrati si è verificato, e il terreno è ritornato alla
sua destinazione originaria, che l’edificazione non
consente.
In proposito, va osservato che le convenzioni stesse
qualificano tale effetto come automatico, del resto in
conformità al modo in cui opera una clausola risolutiva
espressa, cui la clausola in esame è assimilabile.
Il provvedimento del dirigente comunale che ha denegato il
rilascio del permesso per il completamento è quindi del
tutto estraneo al prodursi di tale effetto, di cui si limita
a prender atto, sì che una questione di incompetenza in
merito non ha ragione di porsi.
Ne consegue che il permesso di costruire in parola è stato
legittimamente rifiutato, trattandosi di opere non più
assentibili in base alla destinazione dell’area (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 03.08.2017 n. 3887 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Confermata al G.A. la giurisdizione in caso di controversie
relative all’approvazione, collocazione e conseguente
realizzazione di un parco eolico.
---------------
Energia elettrica – Impianto produzione fonti rinnovabili
- Costruzione ed esercizio – Controversia – Giurisdizione
amministrativa esclusiva.
Le controversie concernenti la
costruzione e l'esercizio di un impianto eolico -anche
quando involgono l’accertamento della disciplina delle
distanze- implicano l’accertamento della legittimità dei
provvedimenti autorizzatori e, essendo riferibili alla
materia delle infrastrutture energetiche e dell’uso del
territorio, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, lett. f) ed
o), del codice del processo amministrativo. (1).
---------------
(1) I.- Con la
sentenza in epigrafe le Sezioni unite della Cassazione
concludono nel senso della sussistenza della giurisdizione
amministrativa in merito ad una controversia avente ad
oggetto la domanda di immediata rimozione (ovvero di
riposizionamento a distanza non pregiudizievole o di
inibizione o regolamentazione del relativo funzionamento,
oltre al risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali conseguentemente lamentati) di una centrale
eolica realizzata mediante l’installazione di 5
aereogeneratori collegati alla rete di trasmissione
nazionale di energia elettrica.
La fattispecie.
Le domande proposte davanti al giudice civile erano le
seguenti:
a) accertare che gli aereogeneratori sono stati apposti a distanza
non regolamentare e provocano immissioni intollerabili
(rumore, vibrazioni, onde elettromagnetiche, oscuramento di
luce solare) e nocive alla salute;
b) ordinare l’immediata rimozione degli stessi ovvero il relativo
riposizionamento a distanza non pregiudizievole, ovvero
l’inibitoria del relativo funzionamento o, in ogni caso, la
regolamentazione del funzionamento dell’impianto;
c) condannare al risarcimento dei lamentati danni patrimoniali (in
particolare da diminuzione di valore della proprietà) e non
patrimoniali (da «insonnia e disturbi del sonno, cefalea,
palpitazione, agitazione, rischi di infarto, nervosismo,
ansia, stress, irritabilità, repentini sbalzi di umore,
difficoltà di concentrazione»).
II.- Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni unite.
Dopo aver tratteggiato i criteri generali di riparto, a
partire dal concetto di petitum sostanziale, la Corte
ha preso le mosse dall’indirizzo ormai prevalente nella
giurisprudenza di legittimità secondo cui va escluso che
alla costruzione di un'opera pubblica da parte della P.A.
possano applicarsi la disciplina delle distanze di cui
all'art. 873 c.c. e le sanzioni per la relativa
inosservanza, potendo il confinante leso reagire nella sola
sede indennitaria in base all'originaria previsione di cui
all’art. 46 l. n. 2359 del 1865 (ora confluita nell’art. 44
d.p.r. n. 327 del 2001, t.u. espr.).
Analogo richiamo viene effettuato con riferimento alla
inammissibilità di azione petitoria o possessoria in capo al
proprietario confinante con l'opera pubblica per
inosservanza delle distanze legali, stante l'idoneità delle
scelte della autorità amministrativa circa l'ubicazione
dell'opera a comprimere le sue posizioni soggettive, con
divieto per il giudice ordinario di interferire sull'atto
amministrativo.
Passando poi alla peculiare tipologia di opera pubblica,
oggetto della controversia, la decisione in esame richiama i
propri precedenti che hanno sottolineato come il relativo
esercizio attenga alla produzione di energia e al suo
trasporto nella rete elettrica nazionale gestita dallo Stato
e per esso dalla concessionaria. In tale ottica, essendo il
trasporto dell'energia elettrica servizio di pubblica
utilità, la realizzazione di un parco eolico costituisce
senz'altro intervento di interesse pubblico (cfr. Sez. un.,
21.11.2011, n. 24410), con la conseguenza che gli atti del
gestore di tale servizio, funzionali alla sua costruzione ed
alla determinazione delle modalità di esercizio, sono
devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
Al riguardo vengono richiamate sia le norme settoriali, con
particolare riferimento all'art. 41 della legge n. 99 del
2009 (ove si attribuisce alla competenza esclusiva del Tar
per il Lazio le controversie afferenti procedure e
provvedimenti attingenti le infrastrutture di trasporto di
energia elettrica comprese nella rete di trasmissione
nazionale), sia la norma attributiva di giurisdizione
esclusiva contenuta nell'art. 133, lett. o), del codice del
processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) a mente del
quale spettano alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutte
le controversie, anche risarcitorie, concernenti atti e
procedimenti della P.A. relativi, tra l'altro, alla rete di
trasmissione nazionale.
In termini di delimitazione della giurisdizione, vengono
richiamati i precedenti secondo cui il diritto del
proprietario di un fondo, gravato da servitù di
elettrodotto, di ottenere, ai sensi dell'art. 122 del r.d.
11.12.1933, n. 1775, la rimozione da parte dell'esercente
dell'elettrodotto ovvero che il medesimo collochi "diversamente
le condutture e gli appoggi",
può essere fatto valere avanti all'A.G.O. solo se il preteso
spostamento non comporti di necessità l'adozione di
provvedimenti di diversa modulazione della rete elettrica;
al riguardo, l'esecuzione dell'opera di pubblica utilità,
rappresentante elemento di esercizio di un servizio
pubblico, non può essere ricondotta ad attività realizzata
iure privatorum, così da poter essere suscettibile di
riduzione in pristino, con la conseguenza che la pretesa del
privato deve essere circoscritta alla sola indennità
prevista dall'art. 46 L. n. 2359 del 1865.
Passando all’analisi della fattispecie, le Sezioni unite
evidenziano come le domande proposte implichino
necessariamente l'esame della legittimità dei provvedimenti
autorizzatori, anche sul piano della compatibilità
ambientale. Non vengono, pertanto, prospettate conseguenze
negative discendenti da meri comportamenti materiali
(concernenti le modalità di esecuzione dei lavori di
costruzione e messa in esercizio delle pale eoliche) posti
in essere dalla P.A. o dalla concessionaria al di fuori
dell'esercizio di un'attività autoritativa, (là dove viene
domandata l'immediata rimozione, ovvero il riposizionamento
a distanza non pregiudizievole o di inibizione o
regolamentazione del relativo funzionamento, delle pale
eoliche); al contrario, si rinviene nella causa petendi,
la sostanziale contestazione delle scelte discrezionali
della P.A. nell'individuazione e determinazione dell'opera
pubblica sul territorio, e cioè delle valutazioni operate
per la tutela dell'interesse pubblico perseguito mediante
l'adozione dei provvedimenti che hanno autorizzato la
costruzione e l'esercizio dell’impianto.
In definitiva, si finisce per sollecitare il controllo delle
scelte funzionali-discrezionali operate dalla P.A. in
particolare avuto riguardo alla valutazione:
d) delle distanze di sicurezza del fondo della parte ricorrente
dalle pale eoliche;
e) del corretto inserimento dell’impianto nel paesaggio e nel
territorio.
Pertanto, la controversia avente ad oggetto i danni
lamentati, in quanto asseritamente derivanti non già da una
mera attività materiale posta in essere dalla P.A. o dalla
concessionaria al di fuori dell'esercizio di un'attività
autoritativa, bensì da attività costituente esecuzione dei
provvedimenti amministrativi adottati per la cura degli
interessi pubblici di settore, rientra nella giurisdizione
amministrativa ai sensi dell’art. 133, lett. f) ed o), cod.
proc. amm..
III.- Per completezza si segnala quanto segue:
f) in tema di giurisdizione sulle controversie relative a impianti
eolici e infrastrutture energetiche:
I) Cass. civ., Sez. un., ordinanza 15.05.2017, n.
11989, in Diritto & Giustizia 2017 (16 maggio), secondo cui
<<rientra nella giurisdizione del giudice ordinario il
ricorso avverso la cartella di pagamento emessa a seguito
del decreto con cui il Ministero dello Sviluppo Economico ha
disposto la revoca delle agevolazioni concesse ai sensi
della legge 19.12.1992, n. 488, per un piano di investimento
comprensivo della realizzazione di un impianto eolico ed il
recupero del contributo erogato. Con tale ricorso, infatti,
si contesta, sotto diversi aspetti, l’efficacia esecutiva
del titolo; d’altra parte, presupposto del processo di
esecuzione civile è l’esistenza di un titolo esecutivo per
un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano
venire in rilievo profili cognitori di accertamento
dell’obbligazione, sicché, in punto di giurisdizione, non
può individuarsi altro giudice competente sulla materia che
non sia il giudice civile>>;
II) Cass. civ., sez. un., ordinanza 13.06.2017,
n. 14653, in Foro it.Massimario 2017, secondo cui <<in
materia di incentivazione dell’energia elettrica prodotta da
fonte rinnovabile, la controversia concernente il
provvedimento di decadenza, adottato dal gestore pubblico
nell’esercizio dei poteri di sua competenza, dal diritto
della società produttrice alla tariffa incentivante e la
consequenziale richiesta di restituzione alla società
cessionaria del credito dei contributi percetti riguarda la
«produzione di energia», essendo la previsione di contributi
tariffari un efficace strumento di indirizzo della
produzione energetica nazionale, ed appartiene, pertanto,
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai
sensi dell’art. 133, 1º comma, lett. o), dell’allegato I al
d.leg. n. 104 del 2010; invero, sebbene il cessionario non è
produttore di energia pulita, il credito ceduto non può
essere considerato al di fuori del rapporto da cui trae
origine, non essendo ipotizzabile un differente atteggiarsi
del provvedimento di decadenza, e della giurisdizione che su
di esso si innesta, a seconda dei destinatari dei suoi
effetti giuridici>>;
g) in tema di risarcimento danni derivanti dalla costruzione di
opere pubbliche, cfr. Cass. civ., Sez. un., ordinanza
03.02.2016, n. 2052, in Foro Amministrativo (Il) 2016, 2,
266, secondo cui <<la domanda di risarcimento del danno
del proprietario di area contigua a quella in cui è
realizzata l’opera pubblica (nella specie, la linea
ferroviaria dell’alta velocità) appartiene alla
giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione
dell’attore, fonte del danno non siano né il «se» né il
«come» dell’opera progettata, ma le sue concrete modalità
esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva
amministrativa si fonda su un comportamento della p.a. (o
del suo concessionario) che non sia semplicemente
occasionato dall’esercizio del potere, ma si traduca, in
base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e,
cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche
in relazione all’oggetto del potere, al raggiungimento del
risultato da perseguire>>; in termini analoghi si è
recentemente espressa Cass. civ., Sez. un., 21.09.2017, n.
21976 in fattispecie in cui gli attori hanno fatto valere
solo l’illiceità della condotta della pubblica
amministrazione ex art. 2043 cod. civ., lamentando il danno
patito a causa della negligente esecuzione dell’opera
pubblica, senza riferimento ad atti e provvedimenti
amministrativi cui la condotta dell’amministrazione possa
avere dato esecuzione.
h) in tema di distanze di un parco eolico cfr. (per un più
risalente precedente che ha concluso nel senso della
giurisdizione ordinaria elaborando un principio in astratto
compatibile con quello formulato dalla sentenza in commento
che ad esso si richiama espressamente), Cass. civ., Sez.
un., 21.11.2011, n. 24410, in Giust. civ., Mass. 2011, 11,
1644, secondo cui <<la controversia, instaurata dal
proprietario di un fondo nei confronti di una società
privata concessionaria dell’amministrazione comunale per la
costruzione di una pala eolica, la quale abbia ad oggetto la
pretesa di ripristino delle distanze legali tra il fondo ed
il manufatto sito nell’area confinante, oltre al
risarcimento dei danni, appartiene alla giurisdizione del
giudice ordinario, giacché detta società è convenuta in
giudizio non già come amministrazione o concessionaria che
svolge il pubblico servizio di pubblica utilità di
produzione di energia e suo trasporto nella rete elettrica
nazionale, ma in quanto impresa costruttrice e proprietaria
del manufatto, come tale responsabile del pregiudizio che il
manufatto stesso, «staticamente», venga ad arrecare al terzo
confinante; tuttavia, l’esecuzione dell’opera di pubblica
utilità anzidetta, rappresentante elemento di esercizio di
un servizio pubblico (quale la rete elettrica nazionale),
non può essere ricondotta ad attività realizzata iure
privatorum, così da poter essere suscettibile di riduzione
in pristino, con la conseguenza che la pretesa del privato
deve essere circoscritta alla sola indennità prevista
dall’art. 46 l. 25.06.1865 n. 2359 (e successivamente
dall’art. 44 d.p.r. 08.06.2001 n. 327)>>;
i) in termini analoghi alla decisione in commento, rispetto alla
natura pubblica dei servizi energetici, cfr. Cass. civ.,
Sez. un., ordinanza 24.02.2014, n. 4326, in Foro it., 2015,
I, 1066, secondo cui:
I) <<posto che: a) la società gestore dei
servizi energetici svolge funzioni di natura pubblicistica
nel settore elettrico; b) nell’attribuzione di benefici per
impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili essa
esercita potestà amministrative e valuta un pubblico
interesse, il privato nei confronti di tali atti è titolare
di un interesse legittimo, rispetto al quale sussiste la
giurisdizione amministrativa>>;
II) <<posto che rispetto alla sospensione, da
parte della società Gestore dei servizi energetici, dei
pagamenti di incentivazioni per impianti energetici
alimentati da fonti rinnovabili, che derivi dall’esercizio
di poteri di autotutela rispetto a precedenti provvedimenti
di ammissione ai benefici, il privato è titolare di un
interesse legittimo, la relativa controversia è devoluta al
giudice amministrativo>>;
j) in proposito, la giurisprudenza amministrativa è costante
nell’affermare che sono devolute al giudice amministrativo
le vertenze insorte con il Gse - Gestore dei servizi
energetici s.p.a., in tema di diniego, revoca o decadenza,
delle tariffe incentivanti (cfr. Tar per Lazio, sez. III-ter,
04.12.2014, nn. 12232 e 12236); in tema di qualificazione
per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili (c.d.
qualificazione Iafr; cfr. Tar per il Lazio, sez. III-ter,
17.11.2014, nn. 11477, 11478, 11479, 11481, 11483); in tema
di controllo sugli impianti fotovoltaici (cfr. Tar Lazio,
sez. III-ter, 15.07.2013, nn. 6992, 6993, 6994, 7002, 7036);
k) una volta riconosciuta la natura pubblicistica delle funzioni
svolte dal Gestore dei servizi energetici s.p.a. in materia
di incentivazioni per le fonti rinnovabili, trovano
applicazione, per le vertenze relative a interventi
successivi alla concessione dell’incentivazione, i criteri
di riparto elaborati rispetto alle analoghe vertenze con
pubbliche amministrazioni; in particolare, riconosce la
giurisdizione amministrativa per le vertenze conseguenti a
provvedimenti con cui il Gse abbia esercitato poteri di
autotutela, Cass. civ., Sez. un., ord. 11.07.2014, n. 15941,
in Foro it., 2015, I, 246; 07.05.2014, n. 9826, id., 2014,
I, 3536; Cons. Stato, ad. plen., 29.01.2014, n. 6, ibid.,
III, 518, con nota di TRAVI (cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza); nonché Cass.
civ., Sez. un., 21.01.2014, n. 1132, in Le banche dati,
archivio Cassazione civile;
l) sulla individuazione del giudice amministrativo competente, cfr.
Cons. Stato, sez. V, ord. 21.09.2011, n. 5319, Foro it.,
Rep. 2011, voce Giustizia amministrativa, n. 355, secondo
cui <<la competenza territoriale per queste vertenze
spetta al Tar Lazio, dato che gli strumenti incentivanti,
nonostante siano riferibili ad un determinato impianto,
hanno effetti sull’intero sistema nazionale di produzione
dell’energia elettrica, costituendo strumenti per il
raggiungimento degli scopi —evidentemente non localizzabili—
di incentivazione all’uso delle energie rinnovabili, al
risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni di
anidride carbonica>>;
m) in dottrina, sul regime di incentivazione per le fonti
rinnovabili e sul ruolo del Gse, cfr. COCCONI, Poteri
pubblici e mercato dell’energia (fonti rinnovabili e
sostenibilità dell’ambiente), Milano, 2014; MARZANATI,
Semplificazione delle procedure e incentivi pubblici per le
energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 2012, 499 ss.;
QUADRI, Energia sostenibile - Diritto internazionale,
dell’Unione europea e interno, Torino, 2012; AMMANNATI,
L’incertezza del diritto - A proposito della politica per le
energie rinnovabili, in <www.rqda.eu>,
2011;
n) infine, in tema di giurisdizione in materia di comportamenti
materiali e sulle azioni possessorie, si rinvia a
Cass. civ., Sez. un., 16.12.2016 n. 25978
(oggetto della
News US in data 09.01.2017), nonché 20.07.2015,
n. 15155 (in Foro it., 2016, I, 962 con nota di CARDINALE,
cui si rinvia per ogni approfondimento) (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 24.07.2017 n. 18165 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono di rifiuti - Responsabile
titolare/legale dell’impresa/ente - Art. 256 d.lgs. n.
152/2006.
Il titolare dell'impresa/legale rappresentante dell'ente non
è garante delle condotte di abbandono/deposito incontrollato
poste in essere dai dipendenti altre imprese; la norma non
lo prevede, né sono possibili applicazioni 'in malam
partem' dell'art. 40, cpv., cod. pen..
Quando il rifiuto è abbandonato dall'impresa/ente che lo ha
prodotto, perché ne risponda il titolare/legale
rappresentante della diversa impresa/ente che ha
commissionato i lavori, è necessario che questi si sia
ingerito a qualsiasi titolo nell'attività di produzione o
gestione del rifiuto.
RIFIUTI - Abbandono di rifiuti e
proprietà del sito - Responsabilità del terzo proprietario -
Limiti - Giurisprudenza.
Nemmeno la proprietà del sito sul quale altri abbiano
abbandonato i rifiuti costituisce di per sé titolo per
affermare la responsabilità del terzo proprietario. Sicché,
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, che ha ritenuto corretta la decisione di merito
che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità
di possessore dell'area di deposito, ma per avere questi
consapevolmente partecipato all'attività illecita, mettendo
a disposizione il terreno per lo smaltimento abusivo di
rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso
commissionati; Sez. 3, n. 2477 del 09/10/2007, Marcianò, che
ha escluso la responsabilità di chi abbia la disponibilità
di un'area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti per
non essersi questi attivato per la loro rimozione; Sez. 3,
n. 49327 del 12/11/2003, Merlet; Sez. 3, n. 40528 del
10/06/2014, Cantoni).
APPALTI - RIFIUTI - Gestione del rifiuto
- Appaltatore e rapporto contrattuale - Obblighi del
committente sull'attività dell'appaltatore.
In tema di rifiuti, l'appaltatore per la natura del rapporto
contrattuale che lo vincola al compimento di un'opera o alla
prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi
necessari e gestione a proprio rischio dell'intera attività,
riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto e
su di lui gravano gli obblighi di corretto smaltimento,
salvi i casi in cui, per ingerenza o controllo diretto del
committente sull'attività dell'appaltatore, i relativi
doveri si estendono anche a tale soggetto (Sez. 3, n. 11029
del 05/02/2015, D'Andrea; Sez. 3, n. 25041 del 25/05/2011,
Spagnuolo, che ha affermato il principio in un caso di
deposito incontrollato di materiali di risulta edile,
provenienti dai lavori di recupero abitativo del sottotetto
di un immobile, in violazione delle disposizioni sul
deposito temporaneo; Sez. 3, n. 15165 del 28/01/2003,
Capecchi, che ha espressamente escluso l'esistenza, in capo
al committente, di un dovere di garanzia dell'esatta
osservanza delle norma in materia di smaltimento dei
rifiuti, non essendo derivabile da alcuna fonte
giuridica-legge, atto amministrativo o contratto).
RIFIUTI - Reato di deposito
incontrollato di rifiuti - Natura di reato commissivo
eventualmente permanente.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti è reato
commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità
cessa con il conseguimento della necessaria autorizzazione
ovvero con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con un
provvedimento cautelare di natura reale ovvero con la
sentenza di primo grado (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.07.2017 n. 35569
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Pur non essendo tenuta l’Amministrazione,
in linea generale, ad una analitica e puntuale confutazione
delle specifiche osservazioni formulate dalla parte privata,
è necessario comunque che si dimostri, almeno da un punto di
vista sostanziale, che le stesse siano state prese in
considerazione, soprattutto laddove vi siano elementi, anche
di natura fattuale, che possono risultare rilevanti in vista
dell’adozione del provvedimento finale.
In assenza di un riscontro, seppure implicito o sintetico,
in sede provvedimentale amministrativa alle osservazioni
formulate dalla ricorrente nel corso del procedimento deve
essere ritenuto illegittimo il comportamento comunale.
---------------
3. Con la prima censura del ricorso si assume il mancato esame
delle osservazioni formulate dalla ricorrente in sede
procedimentale in risposta al preavviso di rigetto comunale.
3.1. La doglianza è fondata.
L’Amministrazione comunale, nel provvedimento impugnato,
dopo aver dato atto di aver comunicato, in data 15.06.2016, il preavviso di rigetto, non ha effettuato alcun cenno
alla memoria, depositata al protocollo comunale dalla
ricorrente in data 24.06.2016 e ritualmente acquisita
dagli Uffici, come risultante dalla comunicazione di
riscontro nella quale è stato altresì indicato il numero di
protocollo della pratica (n. 14842 del 24/06/2016: all. 15
al ricorso).
Oltre alla assenza di un riscontro di tipo formale
all’avvenuta ricezione della memoria procedimentale, emerge
anche un’assenza di riscontro di tipo sostanziale, atteso
che nel provvedimento impugnato non si prende alcuna
posizione sulle ragioni indicate dalla ricorrente al fine di
ritenere assentibile l’intervento di installazione del
montapersone: nulla ha evidenziato l’Amministrazione né con
riferimento al titolo di proprietà su una parte
dell’immobile esibito dalla ricorrente, né con riguardo
all’esistenza di una normativa di favore da applicare nel
caso di abbattimento di barriere architettoniche nei
condomini di edifici.
Di conseguenza, “pur non essendo tenuta l’Amministrazione,
in linea generale, ad una analitica e puntuale confutazione
delle specifiche osservazioni formulate dalla parte privata,
è necessario comunque che si dimostri, almeno da un punto di
vista sostanziale, che le stesse siano state prese in
considerazione, soprattutto laddove vi siano elementi, anche
di natura fattuale, che possono risultare rilevanti in vista
dell’adozione del provvedimento finale” (TAR Lombardia,
Milano, II, 30.03.2017, n. 760; cfr., altresì, TAR
Lazio, Roma, II, 10.07.2014, n. 7343).
In assenza di un riscontro, seppure implicito o sintetico,
in sede provvedimentale amministrativa alle osservazioni
formulate dalla ricorrente nel corso del procedimento deve
essere ritenuto illegittimo il comportamento comunale.
3.2. Ciò determina l’accoglimento della suesposta doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per approvare le innovazioni che sono dirette ad
eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati
basta il voto favorevole di tanti condomini che
rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio
(cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art.
1136 c.c.).
Nella
fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato di essere proprietaria della metà
dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e,
quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per
ottenere il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione dell’ascensore.
Difatti, “l’installazione di un ascensore
rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che,
ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata
dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136,
comma 2, c.c..
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)”.
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n.
380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo
al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali
conflitti di interesse tra le parti private in ordine
all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il
requisito della legittimazione soggettiva di colui che
richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile
rimovibilità si deve altresì sottolineare come
l’eliminazione delle barriere architettoniche che
impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando
la possibilità per le persone affette da handicap di
svolgere pienamente la propria personalità e di avere una
normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo
costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle
previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a
giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini
dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità
dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati”.
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa.
---------------
4. Con la seconda censura si assume l’illegittimità del
diniego comunale, in quanto la ricorrente avrebbe dimostrato
la sussistenza di un idoneo titolo giuridico per procedere
all’installazione del manufatto, peraltro caratterizzato da
un limitato impatto strutturale e dalla sua facile rimovibilità.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le
deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1
del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati basta il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella
fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato –senza
smentita sul punto né da parte comunale né dai controinteressati, che hanno però sostenuto di essere
proprietari di due terzi del giardino comune (cfr. pag. 2
della memoria difensiva)– di essere proprietaria della metà
dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e,
quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per
ottenere il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione dell’ascensore (sull’applicabilità della
disciplina condominiale anche al c.d. condominio minimo,
cfr. Cass. civ., II, 02.03.2017 n. 5329; VI, 03.04.2012, n. 5288).
Difatti, “l’installazione di un ascensore
rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che,
ai sensi dell’art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è
approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta
dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n.
28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del
20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n.
380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo
al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali
conflitti di interesse tra le parti private in ordine
all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il
requisito della legittimazione soggettiva di colui che
richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis,
Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV, 06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017, n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII,
05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dalla parte
ricorrente in sede procedimentale non poteva che determinare
l’Amministrazione a rilasciare il richiesto di permesso di
costruire.
4.2. Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua
facile rimovibilità, oltre a ciò che è stato evidenziato
nella Relazione tecnica allegata al ricorso –in cui si è
specificato che il posizionamento e la sua struttura ne
rendono agevole la rimozione e non determinano un rilevante
sull’immobile (all. 23 al ricorso)– si deve altresì
sottolineare come l’eliminazione delle barriere
architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli
edifici, limitando la possibilità per le persone affette da
handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di
avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di
rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto
alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 10.05.1999).
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche (TAR Lombardia, Milano, II, 03.07.2015, n. 1541).
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a
giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini
dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità
dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel
valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art.
2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione
delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere,
occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà
condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità
immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il
contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella
convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari
interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle
persone disabili all’eliminazione delle barriere
architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che
prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro,
degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334
del 25/10/2012)” (Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Liguria,
I, 29.01.2016, n. 97).
4.3. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta
censura.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere
accolto, con il conseguente annullamento del diniego
comunale del 27.06.2016, prot. n. 14981U (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti
al giudice amministrativo, nel rispetto del principio
generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697
c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la
prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64,
co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle
parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui
hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il
c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio.
Pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno
da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica,
deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della
domanda (…), conseguentemente, in relazione ai danni da
mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa,
spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura
patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio
acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei
fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e
della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di
allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto
onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi
ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma
dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone
l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.
---------------
6.5. Quanto alla domanda di risarcimento del danno, la
stessa è infondata, in ragione della mancata di
dimostrazione dei suoi elementi costitutivi, ivi compresa
quella riguardante la sussistenza del nesso di causalità tra
il danno asseritamente subito e il comportamento
dell’Amministrazione, non essendo sufficiente una mera e
apodittica quantificazione dell’ipotizzata lesione
patrimoniale.
Di conseguenza, va fatta applicazione dell’orientamento
giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo il
quale “nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al
giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale
sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c.
(secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova
dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co.
1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti
che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno
la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d.
metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio;
pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno
da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica,
deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della
domanda (…), conseguentemente, in relazione ai danni da
mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa,
spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura
patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio
acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei
fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e
della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di
allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto
onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi
ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma
dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone
l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato
assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato”
(Consiglio di Stato, IV, 22.10.2015, n. 4823; altresì, TAR
Lombardia, Milano, II, 26.01.2017, n. 200) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.06.2017 n. 1471 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Varianti essenziali al permesso di
costruire.
Le istanze per la realizzazione di varianti essenziali al
permesso di costruire sono da considerarsi sostanzialmente
quali richieste di un nuovo ed autonomo permesso di
costruire e sono soggette, quindi, alle disposizioni vigenti
nel momento in cui viene chiesto al Comune di modificare il
progetto originario, in quanto non si tratta solo di
modificarlo, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue
caratteristiche essenziali, rispetto a quella
originariamente assentita.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso non meriti accoglimento.
Ed invero, con la prima censura gli istanti hanno dedotto la
violazione dell’allora vigente articolo 23 del d.P.R. n.
380/2001, in quanto l’Amministrazione comunale, avendo prima
sospeso il decorso del termine per l’inizio dei lavori e
richiesto documentazione integrativa e poi respinto
l’istanza, avrebbe gestito in modo contraddittorio
l’istruttoria relativa alla DIA presentata.
Al riguardo, al Collegio preme sin da subito precisare come
l’istanza avanzata dai ricorrenti sia stata erroneamente
qualificata come DIA in variante all’originario permesso di
costruire, difettando palesemente di alcuni presupposti
imprescindibili.
Per completezza, si evidenzia che il d.P.R. n. 380/2001
disciplina due differenti categorie di varianti: quelle
“essenziali”, ai sensi degli articoli 31 e 32, e quelle
“leggere”, ai sensi dell’articolo 22, comma 2; mentre le
prime riguardano interventi che incidono su parametri
urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione
d'uso e la categoria edilizia, alterano la sagoma
dell'edificio e violano le prescrizioni eventualmente
contenute nel permesso di costruire, le seconde sono
inerenti ad interventi di minore entità.
Per quanto qui d’interesse, si rileva altresì che le istanze
per la realizzazione di varianti essenziali (tra le quali
rientrano senza dubbio le opere di demolizione e
ristrutturazione eseguite nel caso di specie) sono da
considerarsi sostanzialmente quali richieste di un nuovo ed
autonomo permesso di costruire e sono soggette, quindi, alle
disposizioni vigenti nel momento in cui viene chiesto al
Comune di modificare il progetto originario, perché in
effetti non si tratta solo di modificarlo, ma di realizzare
un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali,
rispetto a quella originariamente assentita.
Ne consegue che necessariamente le suddette istanze debbano
essere presentate prima della realizzazione dei lavori
oggetto delle stesse, data l’incisività delle opere da
eseguire.
Ebbene, con riferimento al caso di specie, se, da una parte,
come già precisato, le opere di demolizione e ricostruzione
realizzate rientrano senza dubbio nel novero delle c.d.
“varianti essenziali”, integrando appieno tutti i profili
sopra elencati, dall’altra, non si può non rilevare come
l’istanza sia stata inoltrata all’Amministrazione comunale
dopo aver già eseguito parte delle opere per le quali era
stata appositamente presentata.
Alla luce di quanto sino ad ora affermato, dunque, il
Collegio ritiene che nulla possa essere contestato
all’operato dell’Amministrazione comunale, in quanto
effettivamente i ricorrenti hanno dapprima realizzato le
opere di demolizione e ricostruzione senza un valido titolo
a supporto e poi hanno presentato una DIA “in variante”
all’originario permesso di costruire, in realtà attinente ad
opere in parte già eseguite e, nonostante ciò, non corredata
da alcuna istanza di sanatoria. A ciò si aggiunga altresì la
mancata compatibilità urbanistica delle opere, come
necessariamente verificato dal Comune intimato.
Ne discende dunque l’infondatezza del primo motivo di
ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La mancata comunicazione dei motivi ostativi non avrebbe
potuto comportare ex se l’illegittimità del provvedimento finale,
in quanto “la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di
valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo,
rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul
procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
---------------
Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno censurato la
legittimità del provvedimento di diniego impugnato in quanto
l’Amministrazione comunale avrebbe omesso di comunicare agli
stessi i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza
presentata.
La censura è infondata, avendo il comune di Seregno
comunicato più volte ai ricorrenti i profili di criticità
attinenti agli interventi edilizi oggetto della DIA,
rappresentati dal contrasto degli stessi rispetto alla
disciplina relativa al Piano Particolareggiato del PLIS
Brianza Centrale, ciò appositamente attraverso il telegramma
del 23.12.2004, le richieste di integrazioni
documentali e il richiamo all’istruttoria non conclusa in
tutti i provvedimenti adottati successivamente.
Ne discende, dunque, che i ricorrenti fossero a conoscenza
dei motivi ostativi ben prima dell’adozione del
provvedimento di diniego.
Inoltre, prescindendo dalle suesposte considerazioni, al
Collegio preme precisare che, in ogni caso, la mancata
comunicazione dei motivi ostativi non avrebbe potuto
comportare ex se l’illegittimità del provvedimento finale,
in quanto “la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di
valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo,
rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul
procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato” (in tal senso, Cons. Stato, sez. IV,
03.03.2017, n. 1001).
Ed invero, alla luce della citata giurisprudenza, la
suddetta censura di natura procedimentale, anche se accolta,
non avrebbe potuto incidere sul contenuto dispositivo del
provvedimento stesso, determinandone l’illegittimità, avendo
il Collegio sopra confermato la legittimità delle
motivazioni che sono state poste a sostegno del diniego
dell’istanza (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti
indefettibili affinché una DIA possa essere produttiva di
effetti sono la completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
---------------
Non coglie nel segno nemmeno il terzo motivo di ricorso, a
mente del quale i ricorrenti ritengono che l’Amministrazione
comunale abbia errato nella scelta del provvedimento
conclusivo adottato al termine dell’istruttoria, che avrebbe
dovuto consistere in un annullamento della DIA e non in un
provvedimento di diniego.
Al riguardo, se da una parte la legge effettivamente non
specifica il tipo di provvedimento che l’Amministrazione
comunale deve adottare per l’esercizio del potere inibitorio
rispetto ad una DIA, dall’altra, entrando nel merito della
natura del provvedimento, il Collegio non comprende come
possa essere adottato un provvedimento di annullamento nei
confronti di un’istanza che, erroneamente qualificata come
una DIA in variante al permesso di costruire e riguardante
opere già eseguite (denunciate come da realizzare ex novo),
non ha mai dato origine ad un permesso edilizio produttivo
di effetti, potendo essere annullato un provvedimento solo
qualora risulti illegittimo ma produttivo di effetti.
Infatti, presupposti indefettibili affinché una DIA possa
essere produttiva di effetti sono la completezza e la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione, requisiti non compiutamente
soddisfatti nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non rientrano i lavori di demolizione e ricostruzione della
muratura perimetrale (insieme all’inserimento di una rampa
di accesso) nella categoria di interventi ammissibili in
relazione alle costruzioni esistenti, ossia “manutenzione
ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e
risanamento conservativo”.
---------------
Infine, con il quarto motivo di ricorso, gli istanti
sostengono che l’inizio dei lavori non avrebbe dovuto essere
inibito dall’Amministrazione comunale, in quanto gli stessi
non sarebbero stati incompatibili con le NTA del PLIS.
A parere del Collegio, anche tale censura è infondata, non
rientrando i lavori di demolizione e ricostruzione della
muratura perimetrale (insieme all’inserimento di una rampa
di accesso) nella categoria di interventi ammissibili in
relazione alle costruzioni esistenti, ossia “manutenzione
ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e
risanamento conservativo”, così come espressamente previsto
dalle NTA del PLIS (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione costituisce provvedimento che non
deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario, ed i cui
presupposti sono costituti unicamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del
titolo abilitativo.
Né, per lo stesso motivo, si
richiede una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che
sussista alcuna violazione dell'art. 3 e 10-bis della legge
n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione.
---------------
Con riferimento al ricorso per motivi aggiunti, il Collegio
ritiene che il rigetto del ricorso principale assorba in via
derivata l’esame delle successive censure dedotte avverso il
consequenziale ordine di ingiunzione di demolizione delle
opere abusive, frutto di un nuovo sopraluogo della Pubblica
Amministrazione che ha rilevato la permanenza dei profili di
abusività con riferimento all’immobile in questione.
Ciò nonostante, il Collegio non si esime dal rilevare come,
oltre all’infondatezza derivata di tutti i profili di
illegittimità già denunciati con il ricorso principale,
debba essere altresì esclusa qualsiasi violazione delle
norme procedurali di cui alla legge n. 241/1990.
Infatti, in
generale, l'ordine di demolizione costituisce provvedimento
che non deve essere necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto
dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale
non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario,
ed i cui presupposti sono costituti unicamente dalla
constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in
assenza del titolo abilitativo (Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3834, nonché TAR Campania, sez. VIII,
04.09.2015, n. 4322); né, per lo stesso motivo, si
richiede una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che
sussista alcuna violazione dell'art. 3 e 10-bis della legge
n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., fra le tante,
Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Né in ogni caso, con riferimento al caso di specie, può
essere contestata la genericità del suddetto ordine di
demolizione, essendo lo stesso chiaro nell’indicare le opere
da demolire, facendo espresso riferimento all’immobile
“posto in via Milano a Seregno, distinto in catasto con il mapp. n. 67 del fg. 50, ricadente in zona “CSP8” del P.R.G.”
e motivando sulla base del fatto che le opere sono rimaste
“invariate rispetto ai precedenti sopralluoghi e completate
dalle finiture (parapetto in ferro, portone di ingresso)”.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto, unitamente al ricorso per motivi aggiunti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.06.2017 n. 1437 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Premesso che in tema di violazioni urbanistico-edilizie la responsabilità per abuso edilizio
del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio
del titolo abilitativo in violazione di legge o degli
strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento
realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima,
deve tuttavia rilevarsi che la
più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che
in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del
proprietario non committente delle opere abusive non può essere
desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare
la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi,
sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla
realizzazione del manufatto, quali la presentazione della
domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o
affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario,
la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo
svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei
lavori o il regime patrimoniale dei coniugi.
---------------
Orbene, deve evidenziarsi come, nel caso di specie, l'abuso
risulta essere stato commesso su alloggio di edilizia
residenziale pubblica concesso in locazione alla Pa. ed al
suo nucleo familiare; solo la Pa. risultava essere
destinataria dell'ingiunzione a demolire disposta dal
responsabile dell'UTC, notificata a mani del Ru. in data
13/07/2009; solo la Pa. risulta essere committente della
sanatoria edilizia presentata al Comune di Tocco Claudio;
sia l'autorizzazione paesaggistica rilasciata il 14/12/2012
che il permesso di costruire in sanatoria per i lavori di
ampliamento hanno infine come destinataria la Pa..
Orbene, premesso che in tema di violazioni
urbanistico-edilizie la responsabilità per abuso edilizio
del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio
del titolo abilitativo in violazione di legge o degli
strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento
realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima
(Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016 - dep. 11/03/2016, Torzini,
Rv. 266291), deve tuttavia rilevarsi che la
più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che
in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del
proprietario non committente (e, nella specie, che
non si tratti di committente risulta pacificamente dai
documenti allegati) delle opere abusive non può essere
desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare
la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi,
sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla
realizzazione del manufatto, quali la presentazione della
domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o
affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario,
la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo
svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei
lavori o il regime patrimoniale dei coniugi
(Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016 - dep. 16/09/2016,
Avanzato, Rv. 268014).
Nella specie, i giudici di appello hanno sostanzialmente
ritenuto che la responsabilità del Ru. conseguisse allo
status di coniuge della Pa., unica committente, e del
fatto che lo stesso fosse interessato dalla illecita
trasformazione, attribuendogli erroneamente la qualifica di
committente dei lavori. In applicazione della giurisprudenza
più recente, dunque, quanto affermato dalla Corte
territoriale è effettivamente insufficiente al fine di
attribuire al Ru. una corresponsabilità in relazione agli
abusi contestati, difettando, al di là della mera qualifica
di coniuge della Pa., ulteriori elementi (non essendo
sufficiente, come affermato dalla più recente
giurisprudenza, la esistenza di un generico interesse
all'edificazione abusiva) a sostegno del coinvolgimento di
quest'ultimo nell'esecuzione dei lavori abusivi.
Quanto sopra giustificherebbe l'annullamento con rinvio
dell'impugnata sentenza per porre rimedio al deficit
motivazionale che inficia la sentenza impugnata in ordine
alla individuazione di ulteriori elementi idonei a
sorreggere il giudizio di correità del Ru.. Tale rinvio è
tuttavia precluso dall'intervenuta estinzione del reato
paesaggistico il cui termine di prescrizione, considerati i
periodi di sospensione del termine per complessivi gg. 300,
è interamente decorso alla data del 15/09/2015, antecedente
allo stesso pervenimento degli atti a questa Corte
(05/01/2016). Ed invero, questa Corte, a Sezioni Unite, ha
autorevolmente affermato che in presenza di una causa di
estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di
legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in
quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di
procedere immediatamente alla declaratoria della causa
estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 - dep.
15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244275).
Quanto sopra determina, dunque, l'annullamento senza rinvio
per essere il reato paesaggistico estinto per prescrizione
quanto alla posizione Ru., con conseguente revoca
dell'ordine di rimessione in pristino.
5. Osserva, peraltro, il Collegio che risulta essere
parzialmente fondato il motivo comune a tutti i ricorrenti,
con cui gli stessi si dolgono della violazione del disposto
dell'art. 181, co. 1-ter, d.Lgs. n. 42 del 2004, nei limiti
e per le ragioni di seguito esposte.
Ed invero -in disparte le questioni (invero generiche)
sollevate in ordine al presunto vizio di mancanza della
motivazione non avendo i ricorrenti sollevato alcuna critica
specifica alla motivazione della sentenza, se non dolersi
con modalità puramente contestative delle mancate risposte
che la stessa avrebbe omesso di fornire ad alcune doglianze
sollevate con alcuni motivi di appello-, osserva il Collegio
come priva di pregio si palesi la censura secondo cui
l'intervenuto parere di compatibilità paesaggistica avrebbe
determinato anche l'estinzione del reato di cui all'art.
181, d.Lgs. n. 42 del 2004.
Le censure dei ricorrenti, infatti, non tengono conto della
costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui
in tema di protezione delle bellezze naturali,
l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, al di fuori dei
casi previsti dall'art. 167, commi quarto e quinto, D.Lgs.
n. 42 del 2004, non può essere rilasciata successivamente
alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, e, non
avendo equipollenti, produce l'estinzione del reato previsto
dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 solo se
rilasciata all'esito della procedura prevista dal comma
1-quater della medesima norma
(in applicazione di tale principio la Corte ha escluso
l'efficacia sanante del parere favorevole espresso dal
soprintendente nell'ambito del separato procedimento per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, o in sede di conferenza
di servizi, ex art. 14, comma 3-bis, l. n. 241 del 1990:
Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016 - dep. 13/06/2016, Pezzuto e
altro, Rv. 267191).
Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, posto che
il parere risulta essere stato rilasciato nell'ambito del
separato procedimento per il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria, donde è da escludersi l'estensione
dell'effetto estintivo del p.d.c. in sanatoria anche al
reato paesaggistico (Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.06.2017 n. 30195). |
ENTI LOCALI:
Vige l'obbligo per i comuni di affidare le
infrastrutture idriche al gestore del servizio idrico
integrato.
Il servizio idrico, in quanto servizio pubblico, può essere
svolto adeguatamente solo se il gestore ha la dotazione
infrastrutturale di cui alle norme di settore (art. 153, c.
1, d.lgs. 03.04. 2006, n. 152). Peraltro, poiché l'ATO è una
forma di cooperazione volontaria, basata sulla convenzione,
sussiste l'obbligo dei comuni di affidare le infrastrutture
idriche al gestore del servizio idrico integrato anche per
un ulteriore titolo, che si pone sul piano non normativo, ma
negoziale, consistente nella convenzione di cooperazione che
i Comuni appellanti hanno sottoscritto, nella parte in cui
gli stessi si impegnano, in vista del trasferimento al
gestore, alla ricognizione delle opere e degli impianti.
Il diritto dell'Unione europea non sottrae agli stati membri
la competenza a decidere quale sia l'ambito organizzativo
ottimale, anche in termini dimensionali, per lo svolgimento
dei servizi di interesse economico generale, né quali siano
le forme di gestione più adeguate. Pretendere, di fondare
sul diritto europeo una esasperata frammentazione nella
gestione del servizio idrico, tale per cui ad ogni comune
dovrebbe corrispondere una propria gestione, risulta
contrastante con gli stessi scopi della direttiva 2000/60/CE
(Direttiva Quadro sulle Acque) che istituisce un quadro per
l'azione comunitaria in materia di acque.
L'approccio innovativo nella legislazione europea in materia
di acque, tanto dal punto di vista ambientale, quanto
amministrativo-gestionale persegue gli obiettivi di
prevenire il deterioramento qualitativo e quantitativo,
migliorare lo stato delle acque e assicurare un utilizzo
sostenibile, basato sulla protezione a lungo termine delle
risorse idriche disponibili. Frammentare la gestione della
risorsa acqua contrasta con tali obiettivi (commento
tratto dalla newsletter Ancitel 18.07.2017 - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.06.2017 n. 2913
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2. Oggetto del giudizio è l’atto dell'Amministrazione
regionale che ha diffidato i Comuni appellanti, facenti
parte dell'Ambito Territoriale convenuto, a trasferire le
infrastrutture e gli impianti idrici al gestore unico del
Servizio Idrico Integrato, società Talete, ai sensi
dell'art. 153, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in
materia ambientale), con l'avvertimento che, in difetto,
avrebbe avviato le procedure per l'applicazione dei poteri
sostitutivi ai sensi dell'art. 172, comma 4, del medesimo
decreto legislativo.
L'Amministrazione regionale ha adottato tale atto poiché
dalla ricognizione effettuata alla fine del 2014 dalla
segreteria tecnica operativa dell’ATO, anche a seguito delle
modifiche introdotte dalla legge 14.11.2014, n. 164 agli
articoli da 147 a 153 del d.lgs. n. 152 del 2006, è
risultato che alcuni dei Comuni ricadenti nell'ATO stessa
non avevano ancora provveduto a conferire le reti nel
sistema idrico integrato.
3. Secondo il Collegio si può prescindere dalle preliminari
eccezioni di inammissibilità dell’appello, formulate dalla
difesa di Talete, atteso che l’appello è infondato nel
merito.
Infatti, l’obbligo oggetto dell’atto impugnato discende da
quanto espressamente previsto dalla l. 05.01.1994, n. 36
(Disposizioni in materia di risorse idriche), dalla l.r.
Lazio 22.01.1996 n. 6 (Individuazione degli ambiti
territoriali ottimali e organizzazione del servizio idrico
integrato in attuazione della legge 05.01.1994, n. 36) e
dall’art. 153 (Dotazioni dei soggetti gestori del servizio
idrico integrato) d.lgs. n. 152 del 2006.
In particolare, l’art. 12 (Dotazioni dei soggetti gestori
del servizio idrico integrato), comma 1, della citata l. n.
36 del 1994 già prevedeva che «Le opere, gli impianti e le
canalizzazioni relativi ai servizi di cui all'articolo 4,
comma 1, lettera f), di proprietà degli enti locali o
affidati in dotazione o in esercizio ad aziende speciali e a
consorzi, salvo diverse disposizioni della convenzione, sono
affidati in concessione al soggetto gestore del servizio
idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri nei
termini previsti dalla convenzione e dal relativo
disciplinare».
L’obbligo è rimasto immutato anche dopo le modifiche
apportate al predetto art. 153 del Codice dell’Ambiente
(d.lgs. n. 152 del 2006) dal d.l. 12.09.2014, n. 133
(Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive) come convertito dalla l. 11.11.2014, n.
164.
L’attuale versione dell’art. 153 è, infatti, del seguente
tenore: «1. Le infrastrutture idriche di proprietà degli
enti locali ai sensi dell'articolo 143 sono affidate in
concessione d'uso gratuita, per tutta la durata della
gestione, al gestore del servizio idrico integrato, il quale
ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla
convenzione e dal relativo disciplinare. Gli enti locali
proprietari provvedono in tal senso entro il termine
perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della
presente disposizione, salvo eventuali quote residue di
ammortamento relative anche ad interventi di manutenzione.
Nelle ipotesi di cui all'articolo 172, comma 1, gli enti
locali provvedono alla data di decorrenza dell'affidamento
del servizio idrico integrato. Qualora gli enti locali non
provvedano entro i termini prescritti, si applica quanto
previsto dal comma 4, dell'articolo 172. La violazione della
presente disposizione comporta responsabilità erariale.
Le immobilizzazioni, le attività e le passività relative al
servizio idrico integrato, ivi compresi gli oneri connessi
all'ammortamento dei mutui oppure i mutui stessi, al netto
degli eventuali contributi a fondo perduto in conto capitale
e/o in conto interessi, sono trasferite al soggetto gestore,
che subentra nei relativi obblighi. Di Tale trasferimento si
tiene conto nella determinazione della tariffa, al fine di
garantire l'invarianza degli oneri per la finanza pubblica.
Il gestore è tenuto a subentrare nelle garanzie e nelle
obbligazioni relative ai contratti di finanziamento in
essere o ad estinguerli, ed a corrispondere al gestore
uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri
stabiliti dall'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il
sistema idrico.»
4. La legge, sin dal 1994 aveva previsto a favore del
concessionario la necessaria attribuzione in uso gratuito
delle infrastrutture da parte dei Comuni proprietari delle
reti.
Nel caso in esame, i Comuni ricadenti nel perimetro dell'ATO,
che fu istituito sulla base della legge regionale del Lazio
n. 6 del 1996, organizzato in forma di convenzione di
cooperazione ai sensi del relativo art. 4, in esecuzione del
quale il 22.07.1999 è stata sottoscritta e deliberata la
costituzione dell’Autorità d’Ambito ATO 1 – Lazio Nord
Viterbo.
In specifico, la concessionaria Talete s.p.a. è un società a
integrale partecipazione pubblica, come appare dall'atto di
costituzione deliberato dalla stessa Autorità di Ambito; ed
è la concessionaria del servizio idrico in forza
dell'affidamento deliberato dall'Autorità d'ambito ATO 1 –
Lazio Nord Viterbo.
I Comuni appellanti sono tutti componenti dell'Autorità
d'ambito ATO 1, avendo sottoscritto la Convenzione di
cooperazione con cui tale Autorità fu istituita, con
conseguente obbligo, ai sensi della normativa predetta, di
conferimento delle infrastrutture, in ragione del principio
per cui gli enti locali titolari devono trasferire le
infrastrutture di servizio in concessione d'uso gratuita al
concessionario del servizio.
5. La disciplina nazionale di cui all’art. 2, comma 186-bis,
l. 23.12.2009, n. 191 [Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
finanziaria 2010)], cui fanno riferimento le appellanti, ha
abrogato solo le autorità d'ambito in forma di persona
giuridica, perché incompatibili con le esigenze di
razionalizzazione organizzativa e di riduzione della spesa
pubblica; ma non ha inciso su altre forme volontarie di
cooperazioni tra enti locali, cui la successiva normativa,
sia statale che regionale, dà il compito di garantire
l'ordinata ed efficiente gestione del servizio idrico
integrato.
Infatti, l’abrogazione dell'art. 148 d.lgs. n. 152 del 2006,
che prevedeva autorità d'ambito dotate di personalità
giuridica, implica soltanto, ai presenti fini, che il
trasferimento delle competenze organizzative e gestionali
avvenga nei confronti di un soggetto privo di personalità
giuridica, ovvero l'attuale Ente d'Ambito Territoriale
Ottimale 2 Lazio Centrale.
Tuttavia, le forme di cooperazione basate su convenzioni,
stipulate sulla base della l.r. n. 6 del 2006, come nella
specie, appaiono valide: sicché permane l'obbligo dei Comuni
stipulanti di affidare le infrastrutture idriche al gestore
del servizio.
Peraltro, la revisione su base geografica dell'ambito
territoriale non rappresenta un impedimento al conferimento
delle reti, poiché detto obbligo sussiste da quando il
perimetro dell'Ambito Territoriale venne individuato su base
amministrativo-provinciale, senza differenziazioni in
ragione della circostanza che il territorio sia delimitato
in modo particolare, ovvero se coincide con quelle della
provincia.
Infatti, ai fini dell'obiettivo della gestione unitaria del
servizio, non rileva il criterio formale di delimitazione
del territorio, ma la finalità sostanziale di assicurare
adeguatamente l’approvvigionamento idrico.
6. In attuazione dei principi sopra indicati, la Regione
nella specie ha intimato alle Amministrazioni qui appellanti
di conferire le infrastrutture al gestore del servizio
perché il servizio idrico, in quanto servizio pubblico, può
essere svolto adeguatamente solo se il gestore ha la
dotazione infrastrutturale di cui alle norme di settore.
Peraltro, come bene ha evidenziato la sentenza impugnata,
poiché l’ATO è una forma di cooperazione volontaria, basata
sulla convenzione perfezionata, come già detto, ai sensi
della l.r. n. 6 del 1996, sussiste l'obbligo dei comuni di
affidare le infrastrutture idriche al gestore del servizio
idrico integrato anche per un ulteriore titolo, che si pone
sul piano non normativo ma negoziale, consistente nella
convenzione di cooperazione che i Comuni appellanti hanno
sottoscritto, nella parte in cui gli stessi si impegnano, in
vista del trasferimento al gestore, alla ricognizione delle
opere e degli impianti.
7. La legge regionale del Lazio 28.10.2015, n. 13
(Modifiche alla legge regionale 04.04.2014, n. 5 (Tutela,
governo e gestione pubblica delle acque) e successive
modifiche), agli artt. 6 e 7, nel ribadire i principi di
unitarietà e qualità del servizio idrico integrato di cui al
d.lgs. n. 152 del 2006, ha soppresso le disposizioni di
salvaguardia relativamente alla transitoria ultrattività
delle gestioni provvisorie del servizio idrico non
rientranti nelle convenzioni di cooperazione, vale a dire la
tipologia di gestione che i Comuni appellanti
pretenderebbero in sostanza di mantenere e che non trovano
più alcuna base giuridica nemmeno nella legislazione
regionale.
8. Si deve, inoltre, rilevare che:
- l'affidamento in house a Talete s.p.a., di cui si è detto,
è stato adottato anche dagli odierni appellanti e non è mai
stato oggetto di contestazione, né è stato mai impugnato;
- la considerazione che Talete s.p.a. verserebbe in una
situazione di disequilibrio economico finanziario, con
conseguente venir meno, in tesi, dell'obbligo di affidamento
delle infrastrutture imposto ai Comuni dall'art. 153 d.lgs.
n. 152 del 2006, poiché in contrasto con l'art. 14, comma 2,
del medesimo decreto legislativo, appare non suffragata da
adeguata dimostrazione e comunque non concludente sul punto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Questione che sarà trattata dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato all’udienza del 11.10.2017.
Il prossimo 11 ottobre l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato tratterà la questione: "se, a
mente del combinato disposto degli artt. 140, 141 e 157,
comma 2, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificati dapprima
con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, con il d.lgs.
26.03.2008, n. 63– le proposte di vincolo formulate prima
dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e
per le quali non vi sia stata conclusione del relativo
procedimento con l’adozione del decreto ministeriale recante
la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di
avere effetto".
La questione è stata rimessa dalla
sez. IV del Consiglio di Stato con ordinanza 12.06.2017, n.
2838.
L’ordinanza ha dato atto di un contrasto giurisprudenziale
insorto in ordine agli effetti della proposta di vincolo
formulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del
2004 si sono formati due orientamenti.
Un primo, prevalente orientamento (Cons.
St., sez. VI, 27.07.2015 n. 3663), ha ritenuto
che le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, ancorché i relativi
procedimenti non si siano conclusi, non risentono delle
modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. 26.03.2008 n.
63, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità,
per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di
dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di
tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, comma 1,
del Codice.
A sostegno di tale orientamento si è sostenuto:
- che il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della
perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato
rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale,
non ha invece modificato l’art. 157, comma 2, del Codice, né
questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le
forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn.
157 del 2006 e 63 del 2008), non sono applicabili alle
proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in
vigore del d.lgs. n. 42 del 2004;
- che, al contrario, il ritenere applicabile anche alle antecedenti
proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte,
di perdita di efficacia delle misure di tutela)
costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme,
contrastante anche con il principio del tempus regit
actum;
- che la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo
regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo
una interpretazione costituzionalmente orientata, con
finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta
dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si
avrebbe (come sostenuto dalla sentenza impugnata) “una
indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le
proposte di vincolo non ancora approvate presenti
sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla
data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di
decadenza previsti dall’art. 141, d.lgs. n. 42 del 2004”.
Un secondo orientamento (Cons.
St., sez. VI, 16.11.2016, n. 4746), ha affermato
come non può sussistere una categoria di “proposte di
vincolo”, alle quali non si applica il uovo regime
decadenziale.
Infatti quando l’art. 345, comma 2, c.p.c. e l’art. 104
c.p.a. vietano di proporre in appello eccezioni nuove
rispetto a quelle versate in primo grado il riferimento è
alle eccezioni c.d. in senso proprio e stretto, e cioè alle
eccezioni (tra l’altro, di merito) che possono essere
proposte solo dalle parti al fine di contrastare la domanda
avversaria mediante l’allegazione di fatti impeditivi
modificativi o estintivi (commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Circa l'invocazione della sussistenza di “cause
di forza maggiore, del tutto indipendenti dalla volontà
della Lottizzante, idonei a determinare la sospensione dei
termini della lottizzazione” e quindi la sussistenza
dell’“oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento
costruttivo per factum principis”, che “pacificamente,
impedisce la decadenza del piano di lottizzazione”, ritiene
il collegio di dovere ribadire i principi giurisprudenziali
in materia affermati da questo Tribunale e confermati dal
Consiglio di Stato, secondo cui:
- “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha durata
decennale sicché, decorso infruttuosamente detto termine, lo
strumento attuativo perde efficacia”.
- “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza
del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del
piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante”.
- “La declaratoria di decadenza del piano di lottizzazione, per la
mancata esecuzione nel decennio decorrente dalla stipula
della convenzione delle opere di urbanizzazione, ha natura
vincolata, configurandosi come atto ricognitivo di un dato
storico costituito dalla scadenza del termine di efficacia
della convenzione con effetto automatico contemplato dalla
legge”.
---------------
Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di
cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d.
factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire
l’indirizzo giurisprudenziale affermato dal CdS -principio
affermato in materia di sospensione del termine di durata
del titolo edilizio, ma da ritenersi valido anche
relativamente alla fattispecie in esame di sospensione del
termine di validità della lottizzazione- secondo cui “il
termine di durata del permesso edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo [rectius abilitativo], che
accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e
solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un
factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza
maggiore.
---------------
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito
della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del
D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche
successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1,
lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge
n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria
la presentazione di una formale istanza di proroga.
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria
diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza
di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva
impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per
factum principis, di attivarsi nel termine di validità o del
titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di
lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una
proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione
medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di
forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti
(eventuale provvedimento di proroga) di competenza
dell’amministrazione medesima.
---------------
Il ricorso è
infondato.
Il provvedimento impugnato si fonda -tra l’altro-
sull’intervenuta “perdita di efficacia della
lottizzazione convenzionata per scadenza del termine
decennale”.
Ritiene il collegio che tale rilievo dell’Amministrazione
comunale risulti fondato.
Considerato che il piano di lottizzazione in questione è
stato convenzionato in data 27.04.1989, si rileva che
l’istanza della ricorrente oggetto del provvedimento
impugnato, risulta essere stata proposta in data 28.11.2014
e cioè a distanza di oltre 15 anni e mezzo dalla data di
scadenza -in via normale- del piano di lottizzazione
medesimo, da individuarsi -si ribadisce in via normale- nel
10º anno dalla data in cui la lottizzazione è stata
convenzionata (nel caso di specie 27.04.1989).
La ricorrente, a tale riguardo, invoca la sussistenza di “cause
di forza maggiore, del tutto indipendenti dalla volontà
della Lottizzante, idonei a determinare la sospensione dei
termini della lottizzazione” e quindi la sussistenza
dell’“oggettiva impossibilità di realizzare l’intervento
costruttivo per factum principis”, che “pacificamente,
impedisce la decadenza del piano di lottizzazione”.
Relativamente al sopra esposto assunto della ricorrente,
ritiene il collegio di dovere ribadire i principi
giurisprudenziali in materia affermati da questo Tribunale e
confermati dal Consiglio di Stato, secondo cui:
- “Nel sistema vigente il piano di lottizzazione ha
durata decennale sicché, decorso infruttuosamente detto
termine, lo strumento attuativo perde efficacia”
(Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma
TAR Sardegna, sez. II, n. 553 del 2013).
- “È irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione la circostanza che la mancata attuazione del
piano sia dovuta alla p.a. o al privato lottizzante”
(Consiglio di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma
TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
- “La declaratoria di decadenza del piano di
lottizzazione, per la mancata esecuzione nel decennio
decorrente dalla stipula della convenzione delle opere di
urbanizzazione, ha natura vincolata, configurandosi come
atto ricognitivo di un dato storico costituito dalla
scadenza del termine di efficacia della convenzione con
effetto automatico contemplato dalla legge” (Consiglio
di Stato sez. IV 27.04.2015 n. 2109 che conferma TAR
Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 553/2013).
Per quanto concerne inoltre la rilevanza dell’insorgenza di
cause di forza maggiore e quindi della rilevanza del c.d.
factum principis, ritiene il collegio di dovere ribadire
l’indirizzo giurisprudenziale affermato nella sentenza del
Consiglio di Stato, sez. III, 04/04/2013 n. 1870, recepito e
ribadito da questo tribunale con la sentenza TAR Sardegna,
sez. II, 08.11.2016 n. 848 -principio affermato in materia
di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, ma
da ritenersi valido anche relativamente alla fattispecie in
esame di sospensione del termine di validità della
lottizzazione- secondo cui “il termine di durata del
permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente
sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine,
la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve
comunque seguire un provvedimento da parte della stessa
Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo [rectius
abilitativo], che accerti l'impossibilità del rispetto del
termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una
causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n.
974/2012, cit.)”.
Si confronti altresì al riguardo: Consiglio di Stato sez. IV
18.05.2012 n. 2915; TAR Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR
Liguria sez. I, 31.08.2016 n. 922; TAR Lombardia–Milano,
sez. II, 04.08.2016 n. 1564.
La questione rimane nei sensi sopra indicati anche a seguito
della nuova formulazione dell'art. 15, comma 2 e 2-bis, del
D.P.R. n. 380 del 2001, posto che la giurisprudenza anche
successiva alla novella contenuta nell’art. 17, comma 1,
lett. f), del D.L. 12/09/2014 n. 133, convertito nella Legge
n. 164 del 2014, è nel senso di ritenere comunque necessaria
la presentazione di una formale istanza di proroga (TAR
Valle d'Aosta, 05.12.2016 n. 59; TAR Veneto n. 375 del
2016).
Deve infatti ritenersi che, secondo un canone di ordinaria
diligenza, sia onere del soggetto che invoca la sussistenza
di cause di forza maggiore e quindi l’oggettiva
impossibilità di realizzare l’intervento costruttivo per
factum principis, di attivarsi nel termine di validità o
del titolo edilizio o, come nel caso di specie, del piano di
lottizzazione, al fine di ottenere dall’amministrazione una
proroga, sottoponendo al vaglio dell’amministrazione
medesima la ritenuta sussistenza delle predette cause di
forza maggiore, per le valutazioni e i provvedimenti
(eventuale provvedimento di proroga) di competenza
dell’amministrazione medesima.
Non risultando essere stati adottati formali provvedimenti
di proroga del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione (risulta prodotta in giudizio solamente
un’istanza del 15.04.1999 di proroga della convenzione
stipulata in data 27.04.1989, non firmata e priva di
protocollo di ricevimento del Comune, alla quale non risulta
avere fatto seguito un provvedimento di proroga da parte
dell’Amministrazione comunale), non può che prendersi atto
che il termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione in questione risultava ampiamente scaduto di
oltre 15 anni al momento della presentazione dell’istanza in
questione concernente il nuovo progetto di rimodulazione
dell’intervento collocato oltre i 300 m dalla linea di
battigia.
Infondata risulta infine la censura, avanzata in via
subordinata, secondo cui l’articolo 13 della legge regionale
n. 4/2009 (norma regionale in forza della quale è stata
presentata l’istanza in esame) non richiederebbe, quale
presupposto di assentibilità, la sussistenza di una
convenzione efficace, limitandosi a prevedere che “possono
essere realizzati gli interventi previsti dagli strumenti
attuativi già approvati e convenzionati, a condizione che le
relative opere di urbanizzazione siano state legittimamente
avviate prima dell’approvazione del Piano paesaggistico
regionale”.
Non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo
cui la formulazione della norma in questione consentirebbe
l’esame e l’accoglimento delle istanze presentate ai sensi
della suddetta disposizione regionale “anche
indipendentemente dalla sussistenza di una lottizzazione
ancora efficace”.
Deve infatti ritenersi che il disposto della norma in
questione secondo cui “possono essere realizzati gli
interventi previsti dagli strumenti attuativi già approvati
e convenzionati….. omissis…”, debba essere
ragionevolmente interpretato -contrariamente a quanto
sostenuto dalla ricorrente- nel senso della sussistenza di
una lottizzazione ancora efficace.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie
argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza
delle censure avanzate, il ricorso deve essere respinto (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.05.2017 n. 352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo concessorio (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo
pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione
edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae.
---------------
E’ stato rilevato (seppure sotto il differente profilo
dell’aggiornamento dell’incidenza del costo di costruzione)
che, ai sensi dell'art. 16 del DPR 380/2001, il contributo
afferente al permesso di costruire è determinato e liquidato
all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può
ammettersi (tra l’altro in mancanza dell'inserimento nel
permesso di costruire di una clausola che ne riservi la
rideterminazione) che l'amministrazione comunale possa, in
epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, provvedere ad
una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio.
E’ però salva la legittima ri-liquidazione quando sia
rilasciato un nuovo titolo edilizio in relazione alla
scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il
completamento –con mutamento di destinazione d'uso– delle
opere assentite in origine.
Sulla base degli stessi precedenti, si può procedere alla
ri-liquidazione con ricalcolo degli oneri già corrisposti
per la prima concessione –in precedenza decaduta– nella sola
ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso
comportino un mutamento di destinazione d’uso, ovvero una
variazione essenziale del manufatto con passaggio da una
categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma: in
tale ultimo caso il ricalcolo degli oneri dovuti si
giustifica col maggiore carico urbanistico conseguente.
---------------
E’ evidente che il contributo di costruzione, già versato in
prima battuta per un fabbricato completo e ultimato, non può
essere duplicato per il solo fatto della scadenza del titolo
(e la necessità di una sua riedizione), poiché colpirebbe
due volte, indebitamente, lo stesso valore presupposto.
Un caso simile è stato esaminato da TAR Sicilia-Palermo,
sez. II – 01/03/2013 n. 487, che ha statuito che <<Sul punto
il Collegio ritiene che non possa addivenirsi ad alcuna
duplicazione degli oneri concessori, non essendo possibile
accollare all'istante per due volte gli oneri relativi alle
medesime opere. Infatti, aderendo ad una recente pronunzia
del Consiglio di Stato, il Collegio ritiene che “Nel caso di
rilascio, in successione di tempo, di due permessi di
costruire, il secondo dei quali richiesto dall'interessato
per il completamento dei lavori relativi allo stesso
fabbricato e non ultimati nel periodo di vigenza del primo,
il ricalcolo degli oneri concessori già corrisposti per la
prima concessione applicando anche ad essi la nuova
disciplina medio tempore intervenuta, ma fermo restando lo
scomputo delle somme già corrisposte è legittimo solo
nell'ipotesi che le opere assentite col secondo permesso
comportino un mutamento di destinazione d'uso ovvero una
variazione essenziale del manufatto con passaggio da una
categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in
tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico
conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto”).
Dunque, soltanto nelle ipotesi sopra prospettate, il Comune
potrà procedere -anche in applicazione del principio tempus
regit actum– al ricalcolo degli oneri dovuti applicando la
normativa e i parametri vigenti al momento in cui il titolo
viene rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della
disciplina in vigore all'epoca del rilascio del titolo
originario (poi decaduto), ma ciò pur sempre scomputando
l’importo degli oneri a suo tempo versati.
Tuttavia, nel caso di specie, l’istanza volta ad ottenere il
secondo permesso di costruire non contempla una variazione
della destinazione d’uso delle cinque villette unifamiliari,
ovvero una variazione essenziale delle stesse con passaggio
da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente
autonoma e, pertanto, non si verifica quel maggior carico
urbanistico che solo possa giustificare il conseguente
ricalcolo degli oneri dovuti, in quanto la nuova concessione
edilizia concerne unicamente opere interne e di finitura,
essendo stati gli immobili interamente realizzati nella loro
struttura portante>>.
---------------
Nel caso di indebita duplicazione del versamento del
contributo di costruzione, il Comune va condannato alla
restituzione dell’importo (duplicato) con gli interessi
legali dalla domanda giudiziale fino al soddisfo.
Non spetta invece, in base ai principi, la rivalutazione
monetaria dato che il pagamento di somme non dovute da parte
della ricorrente rientra nell’ipotesi normativa di indebito
oggettivo di cui all’art. 2033 codice civile, che prevede
unicamente la corresponsione degli interessi legali sulla
somma erroneamente versata.
---------------
La Società ricorrente, che ha ottenuto un titolo abilitativo
per l’ultimazione dei lavori di costruzione di un edificio
unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare (a
suo avviso duplicandolo indebitamente) il contributo sul
costo di costruzione.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono
nell’art. 16 del DPR 380/2001 (rubricato “Contributo per
il rilascio del permesso di costruire”), il quale
dispone al comma 1 “Salvo quanto disposto dall'articolo
17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta
la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate nel presente
articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli
interventi di trasformazione urbana complessi di cui al
comma 2-bis”. Ai sensi del comma 10, “Nel caso di
interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è
determinato in relazione al costo degli interventi stessi,
così come individuati dal comune in base ai progetti
presentati per ottenere il permesso di costruire”.
2. A questo punto il Collegio richiama i principi
giurisprudenziali dettati in materia e cioè che il
contributo concessorio (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo
pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione
edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n.
728) ed è qualificabile come corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae (Consiglio di Stato, sez.
IV, 29/10/2015 n. 4950).
3. E’ stato poi nello specifico osservato che la
manutenzione straordinaria si connota rispetto alla
ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima
determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, elementi questi
incompatibili con il concetto di manutenzione
straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1561, che richiama
Consiglio di Stato, sez. V – 14/04/2016 n. 1510 e altri
precedenti).
4. E’ stato rilevato (seppure sotto il differente profilo
dell’aggiornamento dell’incidenza del costo di costruzione)
che, ai sensi dell'art. 16 del DPR 380/2001, il contributo
afferente al permesso di costruire è determinato e liquidato
all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può
ammettersi (tra l’altro in mancanza dell'inserimento nel
permesso di costruire di una clausola che ne riservi la
rideterminazione) che l'amministrazione comunale possa, in
epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, provvedere ad
una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio. E’
però salva la legittima ri-liquidazione quando sia
rilasciato un nuovo titolo edilizio in relazione alla
scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il
completamento –con mutamento di destinazione d'uso– delle
opere assentite in origine (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV
– 19/03/2015 n. 1504 che richiama i propri precedenti sez.
IV – 30/07/2012 n. 4320 e 27/04/2012 n. 2471).
Sulla base degli stessi precedenti, secondo TAR Puglia
Lecce, sez. III – 18/04/2016 n. 660, si può procedere alla
ri-liquidazione con ricalcolo degli oneri già corrisposti
per la prima concessione –in precedenza decaduta– nella sola
ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso
comportino un mutamento di destinazione d’uso, ovvero una
variazione essenziale del manufatto con passaggio da una
categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma: in
tale ultimo caso il ricalcolo degli oneri dovuti si
giustifica col maggiore carico urbanistico conseguente.
5. Nella fattispecie all’esame del Collegio, è pacifico che
i nuovi interventi sia ascrivibili alla manutenzione
straordinaria, e siano necessari per l’ultimazione di un
fabbricato al rustico. In buona sostanza, con il precedente
titolo abilitativo del 2007 la nuova villa unifamiliare è
stata solo parzialmente realizzata “al grezzo”,
mentre per le opere di completamento (impianti e finiture) è
stata richiesta l’emissione di un nuovo permesso di
costruire poiché quello precedente era scaduto.
La ricorrente ha certamente esibito, al fine di ottenere un
nuovo titolo autorizzatorio, un computo metrico
dell’intervento (pari a 126.249,21 € - cfr. memoria del
Comune) e tuttavia già con il titolo abilitativo del
05/09/2007 era stato assentito un intervento completo
consistente nella costruzione di una nuova villa
unifamiliare: è dunque assolutamente verosimile che il
valore del fabbricato all’epoca dichiarato nell’istanza di
permesso fosse complessivo, comprendente sia la prima fase
di realizzazione del manufatto al rustico, sia il successivo
completamento con impianti e finiture.
E’ evidente che il contributo di costruzione, già versato in
prima battuta per un fabbricato completo e ultimato, non può
essere duplicato per il solo fatto della scadenza del titolo
(e la necessità di una sua riedizione), poiché colpirebbe
due volte, indebitamente, lo stesso valore presupposto.
6. Un caso simile è stato esaminato da TAR Sicilia Palermo,
sez. II – 01/03/2013 n. 487, che ha statuito che <<Sul
punto il Collegio ritiene che non possa addivenirsi ad
alcuna duplicazione degli oneri concessori, non essendo
possibile accollare all'istante per due volte gli oneri
relativi alle medesime opere. Infatti, aderendo ad una
recente pronunzia del Consiglio di Stato, il Collegio
ritiene che “Nel caso di rilascio, in successione di tempo,
di due permessi di costruire, il secondo dei quali richiesto
dall'interessato per il completamento dei lavori relativi
allo stesso fabbricato e non ultimati nel periodo di vigenza
del primo, il ricalcolo degli oneri concessori già
corrisposti per la prima concessione applicando anche ad
essi la nuova disciplina medio tempore intervenuta, ma fermo
restando lo scomputo delle somme già corrisposte è legittimo
solo nell'ipotesi che le opere assentite col secondo
permesso comportino un mutamento di destinazione d'uso
ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio
da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente
autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico
urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27/04/2012 n. 2471).
Dunque, soltanto nelle ipotesi sopra prospettate, il Comune
potrà procedere -anche in applicazione del principio tempus
regit actum– al ricalcolo degli oneri dovuti applicando la
normativa e i parametri vigenti al momento in cui il titolo
viene rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della
disciplina in vigore all'epoca del rilascio del titolo
originario (poi decaduto), ma ciò pur sempre scomputando
l’importo degli oneri a suo tempo versati.
Tuttavia, nel caso di specie, l’istanza volta ad ottenere il
secondo permesso di costruire non contempla una variazione
della destinazione d’uso delle cinque villette unifamiliari,
ovvero una variazione essenziale delle stesse con passaggio
da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente
autonoma e, pertanto, non si verifica quel maggior carico
urbanistico che solo possa giustificare il conseguente
ricalcolo degli oneri dovuti, in quanto la nuova concessione
edilizia concerne unicamente opere interne e di finitura,
essendo stati gli immobili interamente realizzati nella loro
struttura portante>>.
7. In conclusione, la pretesa avanzata è fondata e merita
accoglimento. Il Comune va quindi condannato alla
restituzione dell’importo di 22.724,86 €, con gli interessi
legali dalla domanda giudiziale fino al soddisfo (TAR Puglia
Lecce, sez. III – 24/03/2016 n. 557; sentenza di questa
Sezione I – 13/10/2015 n. 1309, che risulta appellata).
Non spetta invece, in base ai principi, la rivalutazione
monetaria, dato che il pagamento di somme non dovute da
parte della ricorrente rientra nell’ipotesi normativa di
indebito oggettivo di cui all’art. 2033 codice civile, che
prevede unicamente la corresponsione degli interessi legali
sulla somma erroneamente versata (TAR Lombardia Milano, sez.
II – 01/03/2017 n. 496; Consiglio di Stato, sez. IV –
06/04/2016 n. 1342) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.04.2017 n. 567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
stato poi nello specifico osservato che la manutenzione
straordinaria si connota rispetto alla
ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima
determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, elementi questi
incompatibili con il concetto di manutenzione
straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
---------------
La Società ricorrente, che ha ottenuto un titolo abilitativo
per l’ultimazione dei lavori di costruzione di un edificio
unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare (a
suo avviso duplicandolo indebitamente) il contributo sul
costo di costruzione.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
...
3. E’ stato poi nello specifico osservato che la
manutenzione straordinaria si connota rispetto alla
ristrutturazione edilizia per il fatto che quest’ultima
determina un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, elementi questi
incompatibili con il concetto di manutenzione
straordinaria, che presuppone invece la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1561, che richiama
Consiglio di Stato, sez. V – 14/04/2016 n. 1510 e altri
precedenti) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.04.2017 n. 567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: È
vero che l’art. 17, comma 3, lett. b) del DPR n. 380 del
2001 prevede che il contributo di costruzione non è dovuto
“per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Tuttavia la giurisprudenza ha chiarito che la ratio che
ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con
l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve
avere una accezione strutturale ma socio-economica,
coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole
per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un
trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie
edilizie.
---------------
11 – Con il secondo mezzo parte ricorrente evidenzia
che in relazione alle pratiche edilizie nn. 166/2012 e
259/2013 non sono dovuti i contributi connessi al costo di
costruzione, avendo le dette pratiche interessato l’edificio
A con interventi di ristrutturazione su edificio
unifamiliare.
La censura è infondata.
È vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del
2001 prevede che il contributo di costruzione non è dovuto “per
gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” e
che analoga previsione è contenuta nell’art. 124 della legge
regionale n. 1 del 2005; tuttavia la giurisprudenza ha
chiarito che la ratio che ispira la specifica
esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la
nozione di edificio unifamiliare non deve avere una
accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la
piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi
di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (TAR
Milano, sez. 2^, 10.10.1996, n. 1480); ne consegue che la
suddetta esenzione non può trovare applicazione nella
presente fattispecie, relativa a villa di 19 vani e
superficie di mq 638,41 (cfr. nota comunale depositata il
31.01.2017) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.04.2017 n. 616 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
dopo il rilascio della concessione edilizia ed entro il
termine di prescrizione decennale, l’Amministrazione
comunale ben può effettuare la rideterminazione
dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, il
che può avvenire ogni qual volta la p.a. stessa si renda
conto di essere incorsa in errore, per qualsiasi ragione,
nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio.
---------------
12 – Con il terzo mezzo parte ricorrente censura la
rideterminazione retroattiva del costo di costruzione a
distanza di anni dalla realizzazione dell’intervento.
La censura è infondata.
Come la Sezione ha già chiarito (sentenza n. 866 del 2015),
anche dopo il rilascio della concessione edilizia ed entro
il termine di prescrizione decennale, l’Amministrazione
comunale ben può effettuare la rideterminazione
dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, il
che può avvenire ogni qual volta la p.a. stessa si renda
conto di essere incorsa in errore, per qualsiasi ragione,
nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio
(Cons. Stato, V 06/05/1997 n. 458) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.04.2017 n. 616 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
SERVIZI:
In relazione alle procedure di affidamento di
servizi ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 50/2016,
definite “semplificate”, l'orientamento pressoché unanime
della giurisprudenza anche di questo Tribunale, dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, è nel senso del
riconoscimento dell'ampia discrezionalità
dell'Amministrazione anche nella fase dell'individuazione
delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della
sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del
settore ad essere invitato alla procedura.
Né può ritenersi che sussistesse un obbligo
da parte del Comune di rispondere all’istanza
prodotta da parte ricorrente, volta ad essere invitata alla
procedura di gara, istanza peraltro anche successiva
all’invio delle lettere di invito nei confronti delle tre
ditte invitate a partecipare alla gara stessa.
Avendo riscontrato la legittimità della mancata convocazione
della ricorrente, devono ritenersi inammissibili per carenza
di legittimazione attiva le ulteriori censure dedotte con il
primo e terzo motivo di ricorso.
Ed invero, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale
prevalente, condiviso dal Collegio, il soggetto
legittimamente escluso da una procedura selettiva risulta
privo di legittimazione ad impugnare i successivi atti della
procedura di gara; la definitiva esclusione (o
l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla
gara) impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare le
ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in
condizioni analoghe a chi è rimasto estraneo alla gara.
---------------
Il Collegio deve esaminare in via prioritaria il secondo
motivo di ricorso con il quale parte ricorrente lamenta il
suo mancato invito alla selezione di gara per cui è causa da
parte del Comune di Limatola.
La Cooperativa Sociale ricorrente deduce le seguenti
censure: violazione dei principi di libera concorrenza,
parità di trattamento, rotazione, non discriminazione,
eccesso di potere, carenza di motivazione, violazione del
principio di correttezza, violazione dell'art. 97 Cost.. Ad
avviso di parte ricorrente gli atti della procedura di gara
oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in ragione del
mancato invito della ricorrente a presentare l’offerta,
nonostante essa, con nota del 23.12.2016, dopo poche
ore dalla pubblicazione della determina contrarre, avesse
chiesto di essere invitata alla procedura di gara stessa.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, in relazione alle procedure di affidamento di
servizi ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 50/2016,
definite “semplificate”, quale quella per cui è causa,
l'orientamento pressoché unanime della giurisprudenza anche
di questo Tribunale, dal quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi, è nel senso del riconoscimento dell'ampia
discrezionalità dell'Amministrazione anche nella fase
dell'individuazione delle ditte da consultare e, quindi,
della negazione della sussistenza di un diritto in capo a
qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla
procedura (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 08.03.2017, n. 1336).
Né può ritenersi che sussistesse un obbligo
da parte del Comune di Limatola di rispondere all’istanza
prodotta da parte ricorrente, volta ad essere invitata alla
procedura di gara, istanza peraltro anche successiva
all’invio delle lettere di invito nei confronti delle tre
ditte invitate a partecipare alla gara stessa.
Avendo riscontrato la legittimità della mancata convocazione
della ricorrente, devono ritenersi inammissibili per carenza
di legittimazione attiva le ulteriori censure dedotte con il
primo e terzo motivo di ricorso.
Ed invero, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale
prevalente, condiviso dal Collegio, il soggetto
legittimamente escluso da una procedura selettiva risulta
privo di legittimazione ad impugnare i successivi atti della
procedura di gara; la definitiva esclusione (o
l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla
gara) impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare le
ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in
condizioni analoghe a chi è rimasto estraneo alla gara (cfr.
ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 29.04.2016, n.
1650, 03.02.2016, n. 424, 07.07.2015, n. 3339, 09.06.2015, n. 2839 e 21.05.2013, n. 2765, Consiglio di
Stato, Sez. VI, 17.03.2014, n. 1308 e 05.09.2011,
n. 4999, Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n. 4,
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.07.2016, n. 3973,
TAR Campania, Napoli, sez. I, 31.10.2012, n. 4344 e
06.11.2013, n. 4916).
Conclusivamente, per i su esposti
motivi, la domanda di annullamento del ricorso deve essere
in parte respinta ed in parte dichiarata inammissibile. Tale
esito della domanda demolitoria comporta il rigetto della
domanda risarcitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.04.2017 n. 2230 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La conferenza di servizi è pacificamente ritenuta
solo un modulo organizzativo volto all'acquisizione della
volontà di tutte le amministrazioni preposte alla cura dei
diversi interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione
dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di
tutti gli interessi pubblici coinvolti, non anche un nuovo
organo separato dalle singole amministrazioni partecipanti.
Ne consegue, sul piano processuale, che il ricorso avverso
gli atti di una conferenza di servizi deve essere notificato
a tutte le amministrazioni che, nell'ambito della medesima
conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la
parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare
autonomamente se fossero stati adottati al di fuori della
conferenza.
---------------
5. Preliminarmente va esaminata l’eccezione di difetto di
legittimazione passiva avanzata dalla difesa della Regione
Toscana che lamenta di essere stata erroneamente evocata in
giudizio esclusivamente in ragione della sua partecipazione
alla conferenza di servizi.
L’eccezione è infondata.
La conferenza di servizi è pacificamente ritenuta solo un
modulo organizzativo volto all'acquisizione della volontà di
tutte le amministrazioni preposte alla cura dei diversi
interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione dei tempi
procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli
interessi pubblici coinvolti, non anche un nuovo organo
separato dalle singole amministrazioni partecipanti; ne
consegue, sul piano processuale, che il ricorso avverso gli
atti di una conferenza di servizi deve essere notificato a
tutte le amministrazioni che, nell'ambito della medesima
conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la
parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare
autonomamente se fossero stati adottati al di fuori della
conferenza (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 516; id.,
sez. VI, 03.03.2010, n. 1248).
Come risulta dal verbale della conferenza di servizi del
03.07.2013 la Regione non ha inteso discostare il proprio
parere da quello della Soprintendenza, espressasi in senso
negativo sul progetto di piano, conseguendone che, attesa la
natura vincolante della determinazione assunta in tale sede,
correttamente il ricorrente ha provveduto a notificare il
ricorso anche alla Regione (TAR Toscana, Sez. I;
sentenza 09.03.2017 n. 357 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 esonera
dal pagamento del contributo “…gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi
ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Sicché, la semplice iscrizione catastale nella categoria A/4
non vale a dimostrare che l’edificio abbbia uso
corrispondente e residenziale, poiché le risultanze
catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza,
valenza meramente sussidiaria.
---------------
5.) Nondimeno il ricorso proposto in primo grado è infondato
e deve essere rigettato, all’esito dell’esame delle
riproposte censure.
L’art. 17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi
di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari” qualora,
ovviamente, questi ultimi abbiano già e conservino natura
residenziale.
Nel caso di specie la semplice iscrizione catastale nella
categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse
uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze
catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza,
valenza meramente sussidiaria (cfr. tra le tante, Cons.
Stato, Sez. VI, 05.06.2015, n. 27595 e 05.01.2015, n. 5,
nonché Sez. IV, 18.04.2014, n. 1994 e 21.10.2013, n. 5109;
nel senso che non siano decisive nemmeno quanto alla
effettiva consistenza dell’immobile vedi Sez. IV,
06.08.2014, n. 4208).
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere
dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella
relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio
di via ... n. 6 come avente “destinazione rurale”,
l’appellante doveva suffragare con altri elementi probatori
l’asserita destinazione residenziale, non potendo assumere
alcun rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra
porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di
unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere
destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente
ai relativi lavori (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.02.2017 n. 425 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se in linea di fatto è incontestato come
gli immobili siano distanti solo pochi metri, oltre
ad essere collocati nel medesimo contesto
urbanistico territoriale e ai lati della medesima
strada, in linea di diritto costituisce jus receptum,
ribadito dalla sezione e dalla prevalente
giurisprudenza, che i proprietari di immobili posti
in zone confinanti o limitrofe con quelle
interessate da un titolo di costruzione sono sempre
legittimati ad impugnare i titoli edilizi che,
incidendo sulle condizioni dell'area, possono
pregiudicare la loro proprietà e, più in generale,
possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico
ed ambientale della zona, né è necessaria la prova
di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i
membri di quella collettività è insito nella
violazione edilizia.
---------------
1. La presente controversia ha ad oggetto la contestazione
dell’intervento edilizio di sopraelevazione di
immobile esistente, attraverso l’autorizzazione
paesaggistica e gli effetti della d.i.a. di cui in
epigrafe.
2. Preliminarmente, parte resistente ha eccepito
l’assenza di interesse al ricorso in capo alla
ricorrente.
In relazione al concetto di vicinitas ed alla
sussistenza o meno in ordine ad un pregiudizio per i
ricorrenti, l’eccezione appare all’evidenza
infondata: se in linea di fatto è incontestato come
gli immobili siano distanti solo pochi metri, oltre
ad essere collocati nel medesimo contesto
urbanistico territoriale e ai lati della medesima
strada, in linea di diritto costituisce jus receptum,
ribadito dalla sezione e dalla prevalente
giurisprudenza, che i proprietari di immobili posti
in zone confinanti o limitrofe con quelle
interessate da un titolo di costruzione sono sempre
legittimati ad impugnare i titoli edilizi che,
incidendo sulle condizioni dell'area, possono
pregiudicare la loro proprietà e, più in generale,
possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico
ed ambientale della zona, né è necessaria la prova
di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i
membri di quella collettività è insito nella
violazione edilizia (cfr. ad es. Consiglio di Stato
n. 3055/2013 e 2488/2013, Tar Liguria n. 34/2013).
Nel caso di specie la vicinanza e l’identità del
contesto territoriale ed urbanistico è
indiscutibile, come emerge dalla documentazione
cartografica, fotografica ed anche progettuale
versata in atti, da cui emerge che, fra l’altro (e
ciò vale comunque come danno concreto), la
sopraelevazione limita la pregevole vista
dell’immobile di parte ricorrente (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 21.11.2013 n. 1406 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATA:
Quale che sia la qualificazione regionale
come ristrutturazione, è pacifico nella
giurisprudenza anche del Collegio come la sopralevazione
ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a
fini delle distanze.
Inoltre, relativamente ad analoghi (in termini di
concreta rilevanza ed impatto) interventi la
prevalente giurisprudenza anche della sezione ha
statuito il principio seguente: il recupero del
sottotetto designa genericamente l'utilizzazione di
spazi tecnici che può essere concretamente
realizzato con diverse e peculiari modalità
progettuali ed esecutive ciascuna delle quali
integra un determinato tipo di intervento edilizio:
si va dal risanamento conservativo fino alla nuova
costruzione; qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un
nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare
la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9 d.m.
n. 1444 del 1968.
----------------
In generale, va ribadito che per principio
consolidato, le distanze legali previste dagli
standards urbanistici sono immediatamente
applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti
urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza
di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici
antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione
di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e quindi non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via generale
ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento
degli opposti interessi.
Questa sezione ha più volte ribadito che la
disciplina sulle distanze minime legali non può
considerarsi derogata dalla legislazione regionale
derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini
abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9
d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la
disposizione prevede, è norma di principio tale da
costituire limite alla potestà legislativa regionale
concorrente in materia di governo del territorio.
Ancora di recente
la Consulta ha avuto modo
di intervenire sul punto nei seguenti termini:
premesso che, in linea di principio, la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale, mentre alle
regioni è consentito fissare limiti in deroga alle
distanze minime stabilite nelle normative statali,
solo a condizione che la deroga sia giustificata
dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio, la legge
regionale, laddove consente espressamente ai comuni
di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n.
1444 del 1968, senza rispettare le condizioni
stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo
decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano
inserite in appositi strumenti urbanistici, a
garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo
del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni
ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto
delle distanze minime, vìola la competenza
legislativa statale in materia "ordinamento civile".
----------------
1. La presente controversia ha ad oggetto la
contestazione dell’intervento edilizio di
sopraelevazione di immobile esistente, attraverso
l’autorizzazione paesaggistica e gli effetti della
d.i.a. di cui in epigrafe.
...
6.3 A diverse conclusioni deve giungersi rispetto
alla residua censura (denominata in ricorso 2.4)
concernente la violazione delle distanze.
Nella specie appaiono pacifici i dati di fatto:
l’intervento comporta un nuovo volume (con parete
finestrata) in altezza del preesistente edificio,
rispetto al quale il limite dei dieci metri non
viene rispettato in confronto al muro di
contenimento frontistante del fabbricato di via
privata ... n. 6 e per una porzione nei confronti
dell’edificio della stessa via privata nn. 3a e 3b
posto in posizione latistante.
In diritto, quale che sia la qualificazione
regionale come ristrutturazione, è pacifico nella
giurisprudenza anche del Collegio come la
sopralevazione ed il conseguente nuovo volume
assumano rilevanza a fini delle distanze. Come già
sopra evidenziato, la formale qualificazione
regionale di ristrutturazione è irrilevante ai fini
in esame. Inoltre, relativamente ad analoghi (in
termini di concreta rilevanza ed impatto) interventi
la prevalente giurisprudenza anche della sezione ha
statuito il principio seguente: il recupero del
sottotetto designa genericamente l'utilizzazione di
spazi tecnici che può essere concretamente
realizzato con diverse e peculiari modalità
progettuali ed esecutive ciascuna delle quali
integra un determinato tipo di intervento edilizio:
si va dal risanamento conservativo fino alla nuova
costruzione; qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un
nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare
la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza
1621/2009).
Incidentalmente va evidenziato come nella specie non
possa assumere rilievo la nuova definizione
normativa di ristrutturazione di cui all’art. 30
d.l. 69/2013: sia ratione temporis, in quanto
all’epoca del rilascio degli assensi in
contestazione vigeva altra normativa; sia in quanto
nella specie non viene in rilievo una mera modifica
della sagoma, trattandosi di nuovo volume, sia –soprattutto- per la rilevanza ex se ed
autonoma del medesimo nuovo volume rispetto ai
principi in tema di distanze. Analoghe
considerazioni vanno svolte per la parte innovativa
di cui al predetto art. 30 in tema di distanze: non
applicato né applicabile alla fattispecie ratione
temporis, sia per l’assenza della necessaria
legislazione regionale espressamente derogatoria sul
punto, cui rinvia la sopravvenuta norma statale.
A quest’ultimo proposito, si pone peraltro l’obbligo
di esaminare il dato normativo speciale (valido come
detto ai meri fini del piano casa fino al
31.12.2013, quindi non rilevante ai fini generali
dettati dal nuovo contesto di cui all’art. 30 cit.)
di cui all’art. 3, comma 2, l.r. 49 cit., applicato
nella specie.
Preliminarmente, rispetto all’esame della norma,
vanno comunque evidenziati due elementi: per un
verso la natura eccezionale ne impone
un’interpretazione restrittiva, ovvero non estensiva
rispetto a quanto espressamente consentito; per un
altro verso, il farraginoso dato letterale ne rende
non agevole l’attuazione, cosicché anche per tale
via mantiene rilevanza primaria il parametro
contenuto nei principi generali di cui all’art. 9
d.m. 1444 invocato da parte ricorrente, il cui
valore è stato costantemente ribadito in
giurisprudenza (cfr. ad es. Corte Cost. n. 114/2012,
Consiglio Stato, sez. IV, n. 6909/2005 e 7731/2010
ovvero Tar Palermo n. 2049/2012).
In generale, va ribadito che per principio
consolidato, le distanze legali previste dagli
standards urbanistici sono immediatamente
applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti
urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza
di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici
antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione
di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e quindi non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via generale
ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento
degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n
476/2013 e giurisprudenza ivi richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la
disciplina sulle distanze minime legali non può
considerarsi derogata dalla legislazione regionale
derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini
abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9
d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la
disposizione prevede, è norma di principio tale da
costituire limite alla potestà legislativa regionale
concorrente in materia di governo del territorio.
Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite
ai connessi fini in esame.
Ancora di recente
(sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo
di intervenire sul punto nei seguenti termini:
premesso che, in linea di principio, la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale, mentre alle
regioni è consentito fissare limiti in deroga alle
distanze minime stabilite nelle normative statali,
solo a condizione che la deroga sia giustificata
dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio, la legge
regionale, laddove consente espressamente ai comuni
di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n.
1444 del 1968, senza rispettare le condizioni
stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo
decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano
inserite in appositi strumenti urbanistici, a
garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo
del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni
ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto
delle distanze minime, viola la competenza
legislativa statale in materia "ordinamento civile"
(sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 21.11.2013 n. 1406 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze dal
confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che
producano un dislivello o aumentano quello già esistente per
la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee
ad incidere sull’osservanza delle norme in tema di distanza
dal confine.
Sotto il primo profilo, in tema di legittimazione,
va ribadito che il criterio della vicinitas e il
danno risentito per la realizzazione dell'opera in
ritenuta violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano, rispettivamente,
la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto
ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c.,
all'impugnativa, da parte della ricorrente,
proprietaria di immobile confinante o limitrofo,
configurando ex se una posizione qualificata e
differenziata al corretto assetto del territorio, a
prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione
che, in concreto, possa essere riconducibile alle
opere compiute.
In tale ottica, con particolare riferimento alla
materia in questione, va altresì precisato che in tema di proprietà, l'obbligo di
rispettare le distanze legali previste dagli
strumenti urbanistici per le costruzioni legittime
non soltanto a tutela dei proprietari frontisti
ovvero della relativa riservatezza, ma anche per
finalità di pubblico interesse, dovendo così essere
osservato sia in sede di valutazione di abusi
soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a
nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti
caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto
concreto ed attuale interesse affinché la relativa
realizzazione avvenga nel rispetto delle norme
dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e
collettivi.
Sotto il secondo profilo, si richiamano i precedenti
secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art.
9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle
sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno
in posizione parallela; quindi nella
specie si conferma la rilevanza dell’edifico posto
in posizione latistante.
In proposito, inoltre, ai fini del computo delle
distanze assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità, della
stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si
tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni
con funzione meramente decorativa e di rifinitura,
tali da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza,
della salubrità e dell'igiene.
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo
delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in
considerazione le sporgenze costituenti per il loro
carattere strutturale e funzionale veri e propri
aggetti implicanti perciò un ampliamento
dell'edificio in superficie e volume, come appunto i
balconi formati da solette aggettanti anche se
scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e
consistenza.
Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non
computare ai fini delle distanze perché non
attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica
che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i
risalti verticali delle parti con funzione
decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte
dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi
ora indicati, ma di particolari dimensioni, che
siano quindi destinate anche ad estendere ed
ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte
utilizzabile per l'uso abitativo.
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può
certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di
distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita
a intercapedini contrarie alla finalità della norma,
i muri di contenimento quale quello in questione.
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il
muro di contenimento, che producano un dislivello o
aumentano quello già esistente per la natura dei
luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad
incidere sull'osservanza delle norme in tema di
distanza dal confine.
----------------
1. La presente controversia ha ad oggetto la
contestazione dell’intervento edilizio di
sopraelevazione di immobile esistente, attraverso
l’autorizzazione paesaggistica e gli effetti della
d.i.a. di cui in epigrafe.
...
Passando all’analisi del dato normativo regionale in
questione, in tema di distanze l’art. 3, comma 2,
consente gli ampliamenti “fermo restando il rispetto
delle distanze da pareti finestrate degli edifici
ove si tratti di ampliamenti in senso orizzontale
laddove gli ampliamenti in senso verticale
comportino la realizzazione di un nuovo piano”.
Pur
nelle difficoltà ermeneutiche date dal tenore
letterale della norma, l’unica opzione
interpretativa conforme ai principi anche
costituzionali predetti impone di reputare la norma
come limitativa, nel senso che la stessa impone e
conferma il rispetto delle distanze da pareti
finestrate sia laddove gli ampliamenti siano in
orizzontale (e ciò è logico) sia laddove siano in
verticale e comportanti (come nella specie) la
realizzazione di un nuovo piano abitabile (e ciò è
parimenti logico e coerente con quanto già statuito
dalla sezione circa gli effetti delle
sopraelevazioni).
Peraltro, parte resistente contesta l’applicazione
delle invocate distanze sia in termini di difetto di
legittimazione dei ricorrenti, che non sarebbero i
proprietari dei beni immobili posti a minire
distanza, sia di rilevanza dei beni immobili stessi.
Entrambe le contestazioni sono smentite dai principi
già espressi dalla sezione e dalla migliore
giurisprudenza condivisa dal Collegio (l’unica
conforme alla qualificazione delle norme sulle
distanze nei predetti termini di principio), con
conseguente conferma della fondatezza della censura
in esame.
Sotto il primo profilo, in tema di legittimazione,
va ribadito che il criterio della vicinitas e il
danno risentito per la realizzazione dell'opera in
ritenuta violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano, rispettivamente,
la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto
ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c.,
all'impugnativa, da parte della ricorrente,
proprietaria di immobile confinante o limitrofo,
configurando ex se una posizione qualificata e
differenziata al corretto assetto del territorio, a
prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione
che, in concreto, possa essere riconducibile alle
opere compiute (cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012
e Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
In tale ottica, con particolare riferimento alla
materia in questione, va altresì precisato (cfr. ad
es. Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria
476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e
5759/2011) che in tema di proprietà, l'obbligo di
rispettare le distanze legali previste dagli
strumenti urbanistici per le costruzioni legittime
non soltanto a tutela dei proprietari frontisti
ovvero della relativa riservatezza, ma anche per
finalità di pubblico interesse, dovendo così essere
osservato sia in sede di valutazione di abusi
soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a
nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti
caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto
concreto ed attuale interesse affinché la relativa
realizzazione avvenga nel rispetto delle norme
dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e
collettivi.
Sotto il secondo profilo, si richiamano i precedenti
secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art.
9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle
sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno
in posizione parallela (cfr. ad es. Consiglio Stato,
Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909); quindi nella
specie si conferma la rilevanza dell’edifico posto
in posizione latistante.
In proposito, inoltre, ai fini del computo delle
distanze assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità, della
stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si
tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni
con funzione meramente decorativa e di rifinitura,
tali da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza,
della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio
di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo
delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in
considerazione le sporgenze costituenti per il loro
carattere strutturale e funzionale veri e propri
aggetti implicanti perciò un ampliamento
dell'edificio in superficie e volume, come appunto i
balconi formati da solette aggettanti anche se
scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e
consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente,
gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai
fini delle distanze perché non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude
il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti
come le mensole, le lesene, i risalti verticali
delle parti con funzione decorativa, gli elementi in
oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze,
anche dei generi ora indicati, ma di particolari
dimensioni, che siano quindi destinate anche ad
estendere ed ampliare per l'intero fronte
dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può
certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di
distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita
a intercapedini contrarie alla finalità della norma,
i muri di contenimento quale quello in questione
(cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e
Consiglio di Stato 7731/2010).
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il
muro di contenimento, che producano un dislivello o
aumentano quello già esistente per la natura dei
luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad
incidere sull'osservanza delle norme in tema di
distanza dal confine.
Infine, del tutto irrilevante è l’argomento speso da
parte resistente in ordine alla deroga alle distanze
che sarebbe consentita dallo stesso art. 9, in
specie attraverso un piano attuativo.
Nella specie
infatti non esiste un tale piano, né può estendersi
tale eccezionale facoltà alla legge regionale: sia
in quanto la legge regionale, nella specie
applicata, se correttamente intesa questo non
prevede; sia in quanto la legge ha valenza generale
ed astratta, mentre è ben diversa la finalità
sottesa ad un piano attuativo che, nei termini di
cui all’art. 9 invocato, si giustifica proprio per
una specifica ratio.
A quest’ultimo riguardo, è noto
il fondamento della deroga la quale, al fine di
agevolare l’evoluzione anche di tecnologia
costruttiva nell’utilizzo del territorio, presuppone
che un piano attuativo di tale natura e consistenza
abbia autonomamente ed innovativamente considerato e
tutelato, fino a prova contraria, le finalità
perseguite in tema di distanze (cfr. ad es. Tar
Liguria sent 719/2013).
Orbene, è evidente che
analoga speciale finalità non può automaticamente
estendersi ad una dato legislativo, generale ed
astratto (oltre che non esistente, nei termini
auspicati, nel caso de quo); né nel caso de quo vi è
un piano attuativo di tali termini.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono il
ricorso: va respinto, per ciò che concerne
l’autorizzazione paesaggistica; va invece accolto
per quanto concerne gli atti relativi alla d.i.a.,
con conseguente annullamento degli atti ed
accertamento dell’insussistenza dei presupposti per
la realizzazione dell’intervento edilizio in
questione nei termini sopra indicati in tema di
distanze (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 21.11.2013 n. 1406 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
|
AGGIORNAMENTO AL 20.09.2017 |
ã |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Inosservanza dell'ordinanza sindacale contingibile ed
urgente.
Non integra il reato di inosservanza dei
provvedimenti dell’autorità (articolo 650 c.p.)
l’inottemperanza dell’ordinanza contingibile e urgente del
sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un
soggetto determinato e si risolva in una disposizione di
tenore regolamentare data in via preventiva ad una
generalità di soggetti, in assenza di riferimento a
situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili
con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l’indicazione
di mere finalità di pubblico interesse.
---------------
1. Con sentenza del 13/03/2015 il Tribunale di Palermo
condannava Sp.An. alla pena di euro mille in ordine al reato
di cui all'art. 650 cod. pen. (fatto commesso in Palermo il
10/12/2010).
La condotta incriminata era costituita dall'inottemperanza
ad ordinanza sindacale di divieto nei luoghi pubblici del
territorio comunale di predisporre bivacchi o accampamenti
di fortuna consistenti in situazioni di grave alterazione
del decoro urbano o intralcio alla pubblica viabilità.
Nella fattispecie, era contestato allo Sp. di bivaccare su
di un marciapiede unitamente a dei cani in una baracca
precaria costituita da cartoni e pedane in legno, situazione
che creava ostacolo al passaggio, turbando l'utilizzazione
dello spazio pedonale, con conseguente pregiudizio per la
sicurezza pubblica.
3. Il ricorso è fondato.
4. Il comportamento posto in essere dallo Sp. non integra il
reato in esame, perché l'ordinanza sindacale è dettata in
via preventiva ed è indirizzata ad una generalità di
soggetti.
Ebbene, non integra il reato di inosservanza dei
provvedimenti dell'autorità (art. 650 cod. pen.)
l'inottemperanza dell'ordinanza contingibile e urgente del
sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un
soggetto determinato e si risolva in una disposizione di
tenore regolamentare data in via preventiva ad una
generalità di soggetti, in assenza di riferimento a
situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili
con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l'indicazione
di mere finalità di pubblico interesse (Sez. F, n. 44238 del
01/08/2013, Zakrani, Rv. 257890, relativa a fattispecie in
cui la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza, che
aveva ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 650
cod. pen. per violazione dell'ordinanza del sindaco di
divieto di somministrazione e consumo per strada di bevande
in vetro e lattina nelle ore notturne; Sez. 1, n. 15936 del
19/03/2013, Sroiva, Rv. 255636) (Corte di Cassazione, Sez. I
penale,
sentenza 28.07.2017 n. 37787). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
I ricorrenti non possono coltivare alcun
interesse nell'impugnare
gli atti di assenso
relativi all’apertura del nuovo accesso carraio servente la
proprietà limitrofa.
Essi non hanno indicato, nei propri atti
difensivi, quale specifico loro interesse e/o posizione
giuridica viene pregiudicata dall’apertura dell’accesso
carraio nell’ambito della proprietà del loro vicino
confinante.
E’ del resto evidente, in proposito, che nessuna posizione
legittimante, per questa parte del gravame, può discendere
dalla loro posizione di vicinitas (quale elemento che
distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella
della generalità dei consociati) rispetto al fondo
confinante: se tale posizione può, invero, radicare
l’interesse all’impugnazione nei confronti degli atti di
assenso di un’opera edilizia realizzata nel fondo
confinante, senza necessità di offrire neanche un principio
di prova in ordine al pregiudizio paventato (ciò, in linea
con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa,
secondo cui “la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno
stabile collegamento con il terreno interessato
dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la
sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a
ricorrere, senza che sia necessario dare dimostrazione di
uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività
edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”), analogamente
non può dirsi allorché si contesti non la realizzazione di
un’opera edilizia ma, più largamente, l’ampliamento della
sfera giuridica soggettiva del confinante quale derivante da
altri e diversi atti di assenso dell’amministrazione.
Se infatti può ben dirsi che la realizzazione di interventi
che comportano un’alterazione del preesistente assetto
urbanistico ed edilizio possa risultare pregiudizievole per
il vicino anche “in re ipsa” (in quanto consegue
necessariamente dalla maggiore tropizzazione, dalla minore
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e/o dalla
possibile diminuzione di valore dell’immobile), altrettanto
non può con certezza dirsi –in assenza di un’apposita
dimostrazione dell’effettivo pregiudizio che ne deriva–
quando si tratta di provvedimenti amministrativi che, di per
sé, non determinano un diverso assetto edilizio della zona,
come nell’ipotesi (che viene qui in considerazione)
dell’autorizzazione all’apertura di un nuovo accesso carraio
presso il fondo del vicino.
In tali circostanze, quindi, la semplice prossimità non può,
di per sé, essere considerata elemento sufficiente a fondare
l'interesse al ricorso, ma ad essa dovrà aggiungersi un
elemento ulteriore, costituito dal fatto che dal
provvedimento ampliativo in favore del vicino possa derivare
un peggioramento della situazione patrimoniale o personale
del ricorrente; ciò, anche per evitare che lo strumento del
ricorso giurisdizionale possa impropriamente assumere
risvolti unicamente emulativi.
Occorrerà, pertanto, l'allegazione e la prova di uno
specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in
proprietà degli istanti per effetto degli atti impugnati dai
quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente. Ma nel caso di specie, come detto, i
ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio
che loro deriverebbe dall’apertura del passo carrabile
presso la proprietà del loro vicino, così lasciando
nell’ombra, in parte qua, il pregiudiziale aspetto della
loro legittimazione ad agire.
---------------
4. Il ricorso
introduttivo, nonché i motivi aggiunti, devono invece essere
dichiarati inammissibili nella parte in cui hanno impugnato
gli atti di assenso relativi all’apertura del nuovo accesso
carraio servente la proprietà Ga..
Come segnalato dal Collegio nel corso della pubblica udienza
di discussione del 29.09.2015, infatti, i ricorrenti non
possono coltivare alcun interesse per simile contestazione.
Essi non hanno indicato, nei propri atti difensivi, quale
specifico loro interesse e/o posizione giuridica viene
pregiudicata dall’apertura dell’accesso carraio nell’ambito
della proprietà del loro vicino confinante.
E’ del resto evidente, in proposito, che nessuna posizione
legittimante, per questa parte del gravame, può discendere
dalla loro posizione di vicinitas (quale elemento che
distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella
della generalità dei consociati) rispetto al fondo
confinante: se tale posizione può, invero, radicare
l’interesse all’impugnazione nei confronti degli atti di
assenso di un’opera edilizia realizzata nel fondo
confinante, senza necessità di offrire neanche un principio
di prova in ordine al pregiudizio paventato (ciò, in linea
con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa,
secondo cui “la mera vicinitas, ossia l'esistenza di uno
stabile collegamento con il terreno interessato
dall'intervento edilizio, è sufficiente a comprovare la
sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a
ricorrere, senza che sia necessario dare dimostrazione di
uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività
edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo”: così, tra
le tante, di recente, TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I,
sent. n. 699 del 2015; Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 4764
del 2014), analogamente non può dirsi allorché si contesti
non la realizzazione di un’opera edilizia ma, più
largamente, l’ampliamento della sfera giuridica soggettiva
del confinante quale derivante da altri e diversi atti di
assenso dell’amministrazione.
Se infatti può ben dirsi che la realizzazione di interventi
che comportano un’alterazione del preesistente assetto
urbanistico ed edilizio possa risultare pregiudizievole per
il vicino anche “in re ipsa” (in quanto consegue
necessariamente dalla maggiore tropizzazione, dalla minore
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e/o dalla
possibile diminuzione di valore dell’immobile), altrettanto
non può con certezza dirsi –in assenza di un’apposita
dimostrazione dell’effettivo pregiudizio che ne deriva–
quando si tratta di provvedimenti amministrativi che, di per
sé, non determinano un diverso assetto edilizio della zona,
come nell’ipotesi (che viene qui in considerazione)
dell’autorizzazione all’apertura di un nuovo accesso carraio
presso il fondo del vicino.
In tali circostanze, quindi, la semplice prossimità non può,
di per sé, essere considerata elemento sufficiente a fondare
l'interesse al ricorso, ma ad essa dovrà aggiungersi un
elemento ulteriore, costituito dal fatto che dal
provvedimento ampliativo in favore del vicino possa derivare
un peggioramento della situazione patrimoniale o personale
del ricorrente; ciò, anche per evitare che lo strumento del
ricorso giurisdizionale possa impropriamente assumere
risvolti unicamente emulativi.
Occorrerà, pertanto, l'allegazione e la prova di uno
specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in
proprietà degli istanti per effetto degli atti impugnati dai
quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente. Ma nel caso di specie, come detto, i
ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio
che loro deriverebbe dall’apertura del passo carrabile
presso la proprietà del loro vicino, così lasciando
nell’ombra, in parte qua, il pregiudiziale aspetto della
loro legittimazione ad agire
(TAR Piemonte,
Sez. II,
sentenza 12.11.2015 n. 1557 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Come
da consolidata giurisprudenza, l'accesso deve essere
motivato (ex art. 25 l. n. 241 del 1990) con una richiesta
rivolta all'ente che ha formato il documento o che lo
detiene stabilmente, indicando i presupposti di fatto e
l'interesse specifico, concreto ed attuale che lega il
documento alla situazione giuridicamente rilevante.
Il diritto all’accesso documentale di cui trattasi, infatti,
pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza
dell'azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento
imparziale, non si configura come un'azione popolare,
esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione
differenziata giuridicamente.
Ne consegue che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai
quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente,
e comunque solo laddove questi se ne possano avvalere per
tutelare una posizione giuridicamente rilevante.
L’onere, per il richiedente, di fornire adeguata motivazione
dell’istanza –dalla quale devono emergere senza ambiguità ed
incertezze i presupposti di cui si è detto– si giustifica
quindi con la necessità di consentire all’amministrazione di
verificare l’effettiva sussistenza delle condizioni legge
per l’ostensione: non può quindi pretendere, il richiedente,
che sia l’amministrazione richiesta a doversi fare parte
diligente per individuare, con apposita istruttoria, le
eventuali ragioni fondanti l’istanza medesima.
Alla luce di tali premesse, correttamente il primo giudice
ha rilevato che “l’istanza di accesso della ricorrente in
data 11.11.2015, non è stata motivata e che, quindi, il
ricorso deve essere respinto in quanto non è stato
esplicitato il fondamentale requisito dell’interesse che, ai
sensi della richiamata norma di legge, non può trarsi
implicitamente dalla richiesta, ma deve essere espressamente
indicato dal richiedente”.
---------------
... per la riforma della
sentenza 06.04.2016 n. 4163 del TAR LAZIO–ROMA,
SEZ. II, resa tra le parti, concernente diniego di accesso
agli atti, in relazione ad alloggi di edilizia residenziale
pubblica
...
Ad un complessivo esame degli atti di causa, l’appello non
appare fondato.
Invero, come da consolidata giurisprudenza, l'accesso deve
essere motivato (ex art. 25 l. n. 241 del 1990) con una
richiesta rivolta all'ente che ha formato il documento o che
lo detiene stabilmente, indicando i presupposti di fatto e
l'interesse specifico, concreto ed attuale che lega il
documento alla situazione giuridicamente rilevante (ex
multis, Cons. Stato, V, 04.08.2010, n. 5226; V,
25.05.2010, n. 3309; IV, 03.08.2010, n. 5173).
Il diritto all’accesso documentale di cui trattasi (cfr.
Cons. Stato, IV, 15.09.2010, n. 6899), infatti, pur essendo
finalizzato ad assicurare la trasparenza dell'azione
amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale, non
si configura come un'azione popolare, esercitabile da
chiunque, indipendentemente da una posizione differenziata
giuridicamente.
Ne consegue che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai
quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente,
e comunque solo laddove questi se ne possano avvalere per
tutelare una posizione giuridicamente rilevante.
L’onere, per il richiedente, di fornire adeguata motivazione
dell’istanza –dalla quale devono emergere senza ambiguità ed
incertezze i presupposti di cui si è detto– si giustifica
quindi con la necessità di consentire all’amministrazione di
verificare l’effettiva sussistenza delle condizioni legge
per l’ostensione: non può quindi pretendere, il richiedente,
che sia l’amministrazione richiesta a doversi fare parte
diligente per individuare, con apposita istruttoria, le
eventuali ragioni fondanti l’istanza medesima.
Alla luce di tali premesse, correttamente il primo giudice
ha rilevato che “l’istanza di accesso della ricorrente in
data 11.11.2015, non è stata motivata e che, quindi, il
ricorso deve essere respinto in quanto non è stato
esplicitato il fondamentale requisito dell’interesse che, ai
sensi della richiamata norma di legge, non può trarsi
implicitamente dalla richiesta, ma deve essere espressamente
indicato dal richiedente”.
In effetti, dalla lettura del suddetto documento non emerge
in alcun modo (neppure implicitamente) l’interesse sotteso
all’ostensione degli atti richiesti, men che mai la
specifica ratio di carattere tributario di cui si è
detto, che la società appellante risulta aver esplicitato
solo nell’introduttivo ricorso.
Né l’istanza suddetta (in realtà una delega al ritiro degli
atti, dal tenore estremamente succinto) fa alcun esplicito
riferimento alla “fitta corrispondenza intercorsa tra le
parti” di cui l’appellante fa generico richiamo nei
proprio atto di gravame, corrispondenza dalla quale
l’amministrazione capitolina avrebbe dovuto implicitamente
dedurre quale fosse lo specifico interesse perseguito dal
richiedente ed i suoi rapporti con i documenti richiesti.
Il predetto documento, infatti, contiene semplicemente la
delega ad un terzo “ad effettuare un accesso agli atti
rivolto a richiedere e ritirare, presso gli uffici comunali
competenti, in forza del contratto di locazione che lega la
scrivente al Comune di Roma, copia dei contratti a campione
di sublocazione che il Comune di Roma ha stipulato con gli
occupanti dei suddetti immobili”.
Ora, anche a prescindere che quanto sopra possa
effettivamente integrare gli estremi di un’istanza al Comune
di Roma ai fini dell’accesso di cui trattasi, è di palmare
evidenza che nulla dice circa le ragioni che
giustificherebbero tale specifica richiesta.
La questione, in quanto relativa agli stessi presupposti
legali di presentazione dell’istanza, è assorbente di ogni
altra questione di merito dedotta dall’appellante.
L’appello va quindi respinto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2017 n. 4346 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DURC On Line (DOL) - FAQ ANCE (ANCE di
Bergamo,
circolare 15.09.2017 n. 166). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Circolare applicativa del d.P.R. n. 31 del 2017,
"Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Direzione Generale
Archeologica, Belle Arti e Paesaggio,
circolare 21.07.2017 n. 42). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Approvazione
schema d’intesa tra Regione Lombardia e i comuni in
attuazione dell’articolo 1, comma 4 del decreto legislativo
del 25.11.2016, n. 222 e dell’art. 145, comma 1 della l.r.
02.02.2010 n. 6" (deliberazione
G.R. 18.09.2017 n. 7088). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Approvazione
dello schema di convenzione tra Regione Lombardia e gli
operatori della rete distributiva carburanti per
l’erogazione del prodotto metano per autotrazione e per
dotarsi di infrastrutture di ricarica elettrica in
attuazione dell’art. 18 del d.lgs. 257/2016 e dell’art.
89-bis della l.r. 6/2010" (deliberazione
G.R. 18.09.2017 n. 7087). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi
a favore dei comuni, in forma singola o associata, e delle
unioni di comuni, dotati di corpo o servizio di polizia
locale, per l’incremento delle dotazioni di piccola entità (d.g.r.
7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e
modulistica" (decreto
D.U.O. 15.09.2017 n. 11167). |
ENTI
LOCALI - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2017, "Contributi
a favore degli enti locali per l’incremento delle dotazioni
di piccola entità per la protezione civile (d.g.r.
7051/2017) – Procedura per l’accesso al contributo e
modulistica" (decreto
D.U.O. 15.09.2017 n. 11138). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 18.09.2017, "Disposizioni
integrative, in materia di parametri e valori limite da
considerare per i fanghi idonei all’utilizzo in agricoltura,
alla d.g.r. 2031/2014 recante disposizioni regionali per il
trattamento e l’utilizzo, a beneficio dell’agricoltura, dei
fanghi di depurazione delle acque reflue di impianti civili
ed industriali in attuazione dell’art. 8, comma 8, della
legge regionale 12.07.2007, n. 12" (deliberazione
G.R. 11.09.2017 n. 7076). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 15.09.2017, "Approvazione,
ai sensi degli articoli 84 e 85 della l.r. 12/2005, della
modulistica utile alla predisposizione degli atti e delle
determinazioni che gli enti locali lombardi debbono assumere
nei procedimenti paesaggistici di loro competenza" (decreto
D.G. 12.09.2017 n. 10892). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 14.09.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.08.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 05.09.2017 n. 139). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 14.09.2017, "Pubblicazione
dell’ elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578,
dei membri di indicazione regionale per le commissioni
d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017,
n. 42, allegato 2, parte b, punto 2. Aggiornamento al
31.08.2017" (comunicato
regionale 05.09.2017 n. 138). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'11.09.2017, "Sesto
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 04.09.2017 n. 10538). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali: Il sistema degli incarichi è
incostituzionale? 20 anni per capirlo (17.09.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Rotazione appalti: linee guida in cerca di bussola
(14.09.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
A. Manzione,
Potere di ordinanza e sicurezza urbana: fondamento,
applicazioni e profili critici dopo il decreto legge n. 14
del 2017 (13.09.2017 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. Il potere di ordinanza
del Sindaco. 3. Sicurezza pubblica e sicurezza urbana. 4.
Sicurezza pubblica e polizia amministrativa locale. 5. Le
ordinanze del Sindaco quale capo dell'amministrazione
locale. 6. Le ordinanze del Sindaco quale ufficiale di
governo.7. Le ordinanze a tutela della quiete. 8. Il regime
sanzionatorio. 9. L'esecutorietà delle ordinanze sindacali.
10. Qualche riflessione conclusiva. |
ATTI
AMMINISTRATI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
R. Scalia,
Il sistema dei controlli interni in sanità e nel sistema
degli Enti Locali. Interferenza e integrazione del “Piano
triennale/annuale della performance” con il “Piano
triennale/annuale per la lotta alle illegalità e per la
trasparenza”
(13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il richiamo dell’ANAC, nel 2016, alla
specificità del sistema sanitario regionale e del sistema
degli Enti Locali; 1.1. I beneficiari dello “stato
confusionale” in cui versa il sistema dei controlli interni;
2. La funzionalità del sistema dei controlli interni: come
darne una corretta valutazione? Dal sistema organizzativo
regionale al sistema organizzativo degli Enti Locali; 3.
Alla riscoperta dei concetti fondamentali: la responsabilità
di dirigere uomini (e donne) e di chiedere ad essi di
esprimersi al meglio delle loro capacità professionali; 4.
Il d.lgs. n. 74/2017 è un intervento normativo di restyling
del d.lgs. n. 150/2009 (legge Brunetta)?; 4.1 La necessaria
responsabilizzazione dei vertici politici. Il mito della
separazione tra decisore politico e burocrazie quali gestori
delle risorse umane, strumentali e finanziarie; 4.2
L’obbligo finale di relazionare sulla esecuzione del Piano
triennale/annuale della performance; 5. I tempi di
adeguamento dell’ordinamento delle Regioni e degli Enti
Locali ai principi del d.lgs. n. 74/2017. |
PUBBLICO IMPIEGO:
C. Pepe,
Lo “strano caso” dell’art. 53, c. 16-ter, del D.Lgs.
165/2001: criticità tra anticorruzione ed efficienza delle
gare (13.09.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1) Premessa e contesto normativo: tra
prevenzione della corruzione e affidamento dei contratti. 2)
Alcune criticità interpretative nell’applicazione della
norma: quali sanzioni e quali rapporti? 2.1.) (segue) Il
divieto a contrattare in caso di violazioni. Con tutte le
pubbliche amministrazioni o solo quella di provenienza
dell’ex dipendente? 2.2.) (segue) I “dipendenti” e i
soggetti equiparati. 2.3) (segue) le attività rilevanti. 3)
Le modalità di comprova nelle gare d’appalto. 4) La norma e
la disciplina ‘nel tempo’. Una svista del legislatore? 5) Le
applicazioni giurisprudenziali. 6) Conclusioni. |
APPALTI:
R. Spagnuolo
Vigorita,
Contratti pubblici e fenomeni anticoncorrenziali: il nuovo
codice e le linee guida ANAC. Quale tutela?
(13.09.2017 - tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1). Introduzione – 2) La vicenda
giudiziaria – 3) Il nuovo perimetro della discrezionalità
della stazione appaltante nella valutazione della condotta
dell’operatore economico ai fini dell’esclusione – 4) Il
ruolo delle linee guida ANAC – 5) Illeciti antitrust e
mercato delle commesse pubbliche – 6) Segue: Gli illeciti
antitrust nel codice e nella prospettiva indicata dalle
linee guida ANAC – 7) Forma e sostanza: la struttura del
codice e delle norme attuative nel rapporto tra diritto ed
economia. Il ruolo del giudice (cenni). |
SEGRETARI COMUNALI:
Rimesso alla Corte Costituzionale lo spoil system dei
segretari comunali (12.09.2017 - link a
www.segretaricomunalivighenzi.it). |
APPALTI:
Opere aggiuntive alterano l’offerta economicamente più
vantaggiosa (11.09.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Morgantini,
Il soggetto
destinatario dell’ordine di ripristino ambientale (11.09.2017
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: G. Guzzo e E. Del
Greco,
LA TUTELA DEL PAESAGGIO NELL’ATTUALE
CODIFICAZIONE LEGISLATIVA: DIRITTO FONDAMENTALE O DIRITTO
CEDEVOLE? (10.09.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: Premessa. 1. Edilizia e paesaggio: le
rispettive discipline. 2. La legge n. 1497/1939 e la tutela
delle bellezze naturali. 3. La legge n. 431/1985 e la
previsione dei vincoli paesaggistici. 4. Il d.lgs. n.
490/1999: il testo unico delle disposizioni legislative in
materia culturale e ambientale. 5. L’autorizzazione
ambientale. 6. Il d.lgs. n. 42/2004 e s.m. e integrazioni.
7. I piani paesistici. 8. Il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica. 8.1. I termini fissati dall’articolo 146 per
il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica come novellato
dalla legge n. 164/2014 (art. 6, co. 4, e 25, co. 3). 8.2. I
rimedi di giustizia azionabili nei confronti
dell’autorizzazione paesaggistica. 8.3. Il d.P.R. n.
139/2010 e il d.P.R. n. 31/2017. 9. L’articolo 167, commi 4,
5 e 6 del d.lgs. n. 42/2004: l’autorizzazione paesaggistica
in sanatoria. 10. L’autorizzazione per le infrastrutture di
comunicazione elettronica dopo la legge n. 36/2001 (art. 8)
e il d.lgs. n. 259/2003 (art. 87) e s.m. ed int. 11.
Considerazioni finali. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dotazioni organiche: la riforma Madia le cristallizza a
quelle di fatto (10.09.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il mistero dei termini di durata dei procedimenti
disciplinari (07.09.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Rotazione appalti: limite alla discrezionalità negli inviti
(02.09.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Come gli incarichi dirigenziali sono influenzati dalla
politica (01.08.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti a contratto, il curriculum deve essere eccellente
(21.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Chiarimenti in ordine all’applicabilità delle
disposizioni normative in materia di incentivi per le
funzioni tecniche.
Sono pervenute a questa Autorità alcune richieste di
chiarimenti in ordine all’applicabilità temporale della
disciplina dell’incentivo per le attività professionali
svolte da personale interno ex art. 113 del d.lgs. 50/2016.
Attesa la rilevanza di carattere generale delle questioni
poste, il Consiglio dell’Autorità ha ritenuto di predisporre
il presente comunicato.
In linea generale, nel settore degli appalti pubblici vige
il principio, riprodotto anche all’art. 216, comma 1, del
d.lgs. 50/2016, secondo il quale l’applicabilità di una
disposizione normativa è valutata sulla base dell’entrata in
vigore della stessa al momento della pubblicazione del bando
di gara o dell’invio della lettera di invito.
Tuttavia, con specifico riferimento alle attività oggetto di
incentivazione, non può non rilevarsi come alcune di esse,
quali la programmazione della spesa, la valutazione
preventiva dei progetti, la predisposizione della procedura
di gara, espressamente enunciate dall’art. 113 del d.lgs.
50/2016, intervengano in una fase precedente all’avvio della
procedura di selezione dell’aggiudicatario.
Sulla base di tale presupposto e tenuto conto delle numerose
pronunce della Corte dei Conti in merito all’efficacia
temporale delle disposizioni normative inerenti la
disciplina degli incentivi per funzioni tecniche succedutesi
nel tempo, deve ritenersi che per gli
incentivi inerenti le funzioni tecniche ciò che rileva ai
fini dell’individuazione della disciplina normativa
applicabile è il compimento delle attività oggetto di
incentivazione. Ne
consegue che le disposizioni di cui all’art. 113 del nuovo
codice dei contratti si applicano alle attività incentivate
svolte successivamente all’entrata in vigore del Codice.
Per quanto concerne la corresponsione dell’incentivo, la
formulazione della norma (art. 113, co. 3, d.lgs. 50/2016)
che richiede l’accertamento delle attività svolte dal
dipendente a cura del dirigente o del responsabile del
servizio, non consente di ritenere
ammissibili forme di “anticipazione” dell’incentivo;
analogamente forme di corresponsione diluite nel tempo (es.
cadenza annuale) possono ritenersi ammissibili solo per le
attività configurabili quali prestazioni di durata, ossia
quelle prestazioni che per loro natura si esplicano in un
determinato arco di tempo, sempre però in relazione
all’attività effettivamente svolta.
Corresponsione che potrà intervenire solo a seguito
dell’approvazione del regolamento di recepimento delle
modalità e dei criteri di ripartizione del fondo definiti in
sede di contrattazione decentrata integrativa
(comunicato
del Presidente 06.09.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI
LOCALI:
Partecipazione comunale a società di gestione albergo
diffuso.
Competenti ad esprimersi
sull'interpretazione e applicazione delle norme contenute
nel D.Lgs. n. 175/2016 -(in particolare, il caso di specie
attiene alla partecipazione del Comune alla locale società
di gestione dell'albergo diffuso) sono gli Organi
statali, stante la competenza dello Stato nelle materie su
cui interviene il D.Lgs. n. 175/2016, quali la tutela e
promozione della concorrenza e del mercato, nonché la
razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.
Ed invero, l'art. 15 del D.Lgs. n. 175/2016 ha previsto
l'individuazione, nell'ambito del Ministero dell'economia e
delle finanze, di una struttura competente per l'indirizzo,
il controllo ed il monitoraggio sull'attuazione del decreto,
deputata espressamente a fornire orientamenti ed indicazioni
in merito all'applicazione della normativa in questione
(Divisione VIII del Dipartimento del Tesoro).
Il Comune, considerato l'obbligo di effettuare la
ricognizione straordinaria delle partecipazioni societarie
entro il 30.09.2017, ai sensi del D.Lgs. n. 175/2016, chiede
se la propria partecipazione alla locale società di gestione
dell'albergo diffuso possa essere mantenuta o vada
liquidata. Al riguardo, il Comune precisa che detta società
di gestione possiede i requisiti di cui all'art. 4, c. 1 e
3, del D.Lgs. n. 175/2016, ma non possiede alcuni dei
requisiti di cui all'art. 20, comma 2, del decreto medesimo.
In relazione alla forma societaria dell'organismo di
gestione dell'albergo diffuso, viene in considerazione
l'applicazione del D.Lgs. n. 175/2016 e dunque delle norme
ivi contenute in tema di razionalizzazione delle
partecipazioni societarie pubbliche.
In particolare, il D.Lgs. n. 175/2016:
- pone il divieto di costituire società aventi per oggetto attività
di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie
per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali,
nonché quello di acquisire o mantenere partecipazioni, anche
di minoranza, in tali società (art. 4, D.Lgs. n. 175/2016);
- prevede che le pp.aa. effettuino annualmente una revisione
dell'assetto complessivo delle società partecipate e
adottino piani di razionalizzazione delle partecipazioni
detenute, ove rilevino nelle società interessate una o più
delle condizioni che impongono la dismissione delle
partecipazioni societarie pubbliche (art. 20, c. 1 e 2,
D.Lgs. n. 150/2016 [1]);
- prevede che le pp.aa. predispongano entro il 30.09.2017 un piano
di revisione straordinaria delle partecipazioni detenute
alla data di e.v. del D.Lgs. n. 175/2016, individuando
quelle che devono essere alienate (24, c. 1, D.Lgs. n.
175/2016, fatto salvo dal precedente art. 20 richiamato), in
quanto non rispettano le condizioni ivi previste, tra cui
quelle di cui all'art. 20, comma 2, D.Lgs. n. 175/2016.
Un tanto premesso in generale, la questione posta dal Comune
investe le sorti della partecipazione detenuta sulla società
di gestione dell'albergo diffuso, se la stessa possa essere
mantenuta o debba essere liquidata per il fatto che la
società in questione presenta alcune delle condizioni di cui
all'art. 20, c. 2, D.Lgs. n. 175/2016, che impongono la
dismissione delle partecipazioni pubbliche.
Il D.Lgs. n. 175/2016 interviene su materie di competenza
statale, quali la tutela e promozione della concorrenza e
del mercato, nonché la razionalizzazione e riduzione della
spesa pubblica (art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 150/2016).
Ed invero, l'art. 15 del D.Lgs. n. 150/2016 ha previsto
l'individuazione, nell'ambito del Ministero dell'economia e
delle finanze, di una struttura competente per l'indirizzo,
il controllo ed il monitoraggio sull'attuazione del decreto,
deputata espressamente a fornire orientamenti ed indicazioni
in merito all'applicazione della normativa in questione
[2].
A tale struttura e alla Sezione regionale della Corte dei
conti va, inoltre, trasmesso, ai sensi dell'art. 24, c. 3,
D.Lgs. n. 175/2016, il provvedimento di ricognizione
straordinaria delle partecipazioni da approvare entro il
30.09.2017. Tale invio è funzionale alla verifica del 'puntuale
adempimento degli obblighi' di cui al citato art. 24.
Alla luce di un tanto e nelle more di un eventuale
intervento normativo dello Stato in tema di ambito di
applicazione delle misure di razionalizzazione contenute nel
D.Lgs. n. 175/2016, si ritiene doveroso rinviare la
questione posta dal Comune alle indicazioni che potranno
essere espresse dai competenti uffici statali, qualora
interpellati da codesto Ente.
---------------
[1] Ai sensi del comma 2 dell'art. 20 in commento, si
impongono i piani di razionalizzazione delle partecipazioni
societarie, in caso di: a) partecipazioni societarie che non
rientrano in alcuna delle categorie di cui all'art. 4,
D.Lgs. n. 175/2016; b) società che risultino prive di
dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a
quello dei dipendenti; c) partecipazioni in società che
svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da
altre società partecipate o da enti pubblici strumentali; d)
partecipazioni in società che, nel triennio precedente,
abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un
milione di euro (500.000 euro, per il triennio precedente
l'entrata in vigore del d.lgs. 175/2016, ai sensi dell'art.
26, c. 12-quinquies, del decreto stesso); e) partecipazioni
in società diverse da quelle costituite per la gestione di
un servizio d'interesse generale che abbiano prodotto un
risultato negativo per quattro dei cinque esercizi
precedenti; f) necessità di contenimento dei costi di
funzionamento; g) necessità di aggregazione di società
aventi ad oggetto le attività consentite all'articolo 4.
[2] Si tratta della Divisione VIII del Dipartimento del
Tesoro (06.09.2017 - link a
www.regione.fvg.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A seguito dell'analisi di un conto consuntivo di un Comune,
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, ha accertato
-nel merito- squilibrio di
cassa e irregolarità contabili dovute: - all’assunzione di
impegni di spesa senza atto dirigenziale; - all’emissione di
mandati di pagamento in conto residui di importo superiore
al residuo stesso; - all’emissione di mandati di pagamento
per importo superiore allo stanziamento (assestato con
successiva variazione di bilancio); - all’emissione di
mandati S.F. (spesa fissa) in mancanza delle previste
condizioni; - a vari mandati emessi a favore dell’ufficio
ragioneria per acquisti e pagamenti vari; - ai criteri di
imputazione di alcune specifiche spese.
---------------
Il comune deve rispettare la corretta procedura di spesa,
nelle fasi dell'impegno,
della liquidazione, dell'ordinazione e del
pagamento (art. 182 T.U.E.L.). Segnatamente:
● l'impegno
costituisce la prima fase del procedimento di spesa, con la
quale, a seguito di un'obbligazione giuridicamente
perfezionata, viene determinata la somma da pagare, è
determinato il soggetto creditore, viene indicata la ragione
e la relativa scadenza dell'obbligazione e viene costituito
il vincolo sulle previsioni di bilancio, nell'ambito della
disponibilità finanziaria accertata (art. 183, commi 1 e 6,
T.U.E.L.). Non è dunque ammissibile, seppur rispondente ad
immediate necessità dell'Ente, il superamento, in qualunque
modo ottenuto, delle disponibilità finanziarie a bilancio
per la singola spesa, ovvero la costituzione di un
meccanismo sostanzialmente volto all'individuazione di
beneficiari “indiretti” della spesa medesima.
Parimenti, non è possibile individuare cc.dd. “spese fisse”,
ovvero spese non associate nel sistema di contabilità a
specifico impegno, al di fuori dei casi previsti dalla legge
(art. 182, comma 2, T.U.E.L., nel testo ratione temporis
applicabile alla fattispecie), ovvero nella sostanza:
a) per il trattamento economico tabellare già attribuito al
personale dipendente e per i relativi oneri riflessi;
b) per le rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti,
interessi di preammortamento ed ulteriori oneri accessori;
c) per le spese dovute nell'esercizio in base a contratti o
disposizioni di legge;
● la
fase della
liquidazione (ex art. 184, primo comma,
T.U.E.L.) costituisce la successiva fase del procedimento di
spesa attraverso cui in base ai documenti ed ai titoli atti
a comprovare il diritto acquisito del creditore si determina
la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare
dell'impegno definitivo assunto;
● analoghe
esigenze emergono nell'emissione degli
ordinativi di pagamento (art. 185,
comma 1, T.U.E.L.): questi consistono infatti nella
disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al
tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento delle
spese (e sono oggi disposti nei limiti dei rispettivi
stanziamenti di cassa, salvo i pagamenti riguardanti il
rimborso delle anticipazioni di tesoreria, i servizi per
conto terzi e le partite di giro);
●
il mandato di
pagamento
(nella disciplina vigente ante armonizzazione, applicabile
alla fattispecie) deve poi contenere almeno i seguenti
elementi:
a) il numero progressivo del mandato per esercizio
finanziario;
b) la data di emissione;
c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di
terzi sul quale la spesa è allocata e la relativa
disponibilità, distintamente per competenza o residui;
d) la codifica;
e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona
diversa, del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché,
ove richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA;
f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia
prevista dalla legge o sia stata concordata con il
creditore;
g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo, che
legittima l'erogazione della spesa;
h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se
richieste dal creditore;
i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
Tale disciplina costituisce espressione di un valore
strumentale di per sé volto alla garanzia di quei principi
giuspubblicistici di corretta rappresentazione della
gestione essenziali nell'ottica di una corretta azione
programmatoria di destinazione delle risorse pubbliche.
---------------
2.2.- Quanto alle irregolarità contabili, riscontrate in
istruttoria, complessivamente dovute: all’assunzione di
impegni di spesa senza atto dirigenziale; all’emissione di
mandati di pagamento in conto residui di importo superiore
al residuo stesso; all’emissione di mandati di pagamento per
importo superiore allo stanziamento (assestato con
successiva variazione di bilancio); all’emissione di mandati
per spesa fissa, in mancanza delle previste condizioni; a
vari mandati emessi a favore dell’ufficio ragioneria per
acquisti e pagamenti vari; ai criteri di imputazione di
alcune specifiche spese, si deve rilevare, nel complesso,
quanto segue.
L'ente, nella redazione dei documenti contabili, deve
ispirarsi costantemente al principio della «veridicità»,
ora allegato al decreto legislativo n. 118 del 2011, il
quale ricerca nei dati contabili di bilancio la
rappresentazione delle reali condizioni delle operazioni di
gestione di natura economica, patrimoniale e finanziaria di
esercizio. Tale aspetto è essenziale ai fini della corretta
realizzazione della funzione programmatoria sottesa alla
contabilità finanziaria.
In tal senso, è altresì necessario che l'ente rispetti la
corretta procedura di spesa, nelle fasi dell'impegno,
della liquidazione,
dell'ordinazione
e del pagamento
(art. 182 T.U.E.L.).
L'impegno,
in particolare, costituisce la prima fase del procedimento
di spesa, con la quale, a seguito di un'obbligazione
giuridicamente perfezionata, viene determinata la somma da
pagare, è determinato il soggetto creditore, viene indicata
la ragione e la relativa scadenza dell'obbligazione e viene
costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio,
nell'ambito della disponibilità finanziaria accertata (art.
183, commi 1 e 6, T.U.E.L.). Non è dunque ammissibile,
seppur rispondente ad immediate necessità dell'Ente, il
superamento, in qualunque modo ottenuto, delle disponibilità
finanziarie a bilancio per la singola spesa, ovvero la
costituzione di un meccanismo sostanzialmente volto
all'individuazione di beneficiari “indiretti” della
spesa medesima.
Parimenti, non è possibile individuare cc.dd. “spese
fisse”, ovvero spese non associate nel sistema di
contabilità a specifico impegno, al di fuori dei casi
previsti dalla legge (art. 182, comma 2, T.U.E.L., nel testo
ratione temporis applicabile alla fattispecie),
ovvero nella sostanza:
a) per il trattamento economico tabellare già attribuito al
personale dipendente e per i relativi oneri riflessi;
b) per le rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti, interessi
di preammortamento ed ulteriori oneri accessori;
c) per le spese dovute nell'esercizio in base a contratti o
disposizioni di legge.
Superata la fase della liquidazione
(la quale, ex art. 184, primo comma, T.U.E.L., costituisce
la successiva fase del procedimento di spesa attraverso cui
in base ai documenti ed ai titoli atti a comprovare il
diritto acquisito del creditore, si determina la somma certa
e liquida da pagare nei limiti dell'ammontare dell'impegno
definitivo assunto), analoghe esigenze emergono
nell'emissione degli ordinativi di
pagamento
(art. 185, comma 1, T.U.E.L.): questi consistono infatti
nella disposizione impartita, mediante il mandato di
pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al
pagamento delle spese (e sono oggi disposti nei limiti dei
rispettivi stanziamenti di cassa, salvo i pagamenti
riguardanti il rimborso delle anticipazioni di tesoreria, i
servizi per conto terzi e le partite di giro).
Il mandato di pagamento
(nella disciplina vigente ante armonizzazione, applicabile
alla fattispecie) deve poi contenere almeno i seguenti
elementi:
a) il numero progressivo del mandato per esercizio finanziario;
b) la data di emissione;
c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di terzi sul
quale la spesa è allocata e la relativa disponibilità,
distintamente per competenza o residui;
d) la codifica;
e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa,
del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove
richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA;
f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia
prevista dalla legge o sia stata concordata con il
creditore;
g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo, che legittima
l'erogazione della spesa;
h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal
creditore;
i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
Tale disciplina costituisce espressione di un valore
strumentale di per sé volto alla garanzia di quei principi
giuspubblicistici di corretta rappresentazione della
gestione essenziali nell'ottica di una corretta azione
programmatoria di destinazione delle risorse pubbliche.
Quanto poi all'impegno operato con atto di Giunta, sulla
base di esigenze, prospettate dall'ente, di economicità
degli atti, si deve rilevare che questa Sezione, già con il
parere 18.12.2009 n. 1125, ha avuto modo di chiarire
che l’art. 107, comma 1, T.U.E.L. afferma, con forza
cogente, il tendenziale principio della distinzione dei
poteri di indirizzo e di controllo politico–amministrativo,
che spettano agli organi di Governo, dalla gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuita
direttamente ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo.
In particolare, l’assunzione degli impegni di spesa rientra
negli atti di gestione finanziaria di competenza dei
dirigenti (art. 107, comma 3, lett. d, T.U.E.L., confermato
peraltro, con portata generale, dall’art. 4, commi 2 e 3,
del decreto legislativo n. 165 del 2001), salvi eventuali
effetti “prenotativi” diretti, laddove ammissibili,
degli atti degli organi politici.
Al riguardo la Sezione,
preso atto di quanto riferito dall'Ente,
trasmette la presente decisione e gli atti acquisiti nel
corso dell'istruttoria,
ex art. 52, comma 4, del decreto legislativo n. 174 del
2016, alla Procura regionale per la
Lombardia ed all’Ispettorato Generale di Finanza, per le
determinazioni di competenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 27.07.2017 n. 226). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 53, comma 7-bis, del
d.lgs. n. 165/2001 recita: “L’omissione del versamento del
compenso da parte del dipendente pubblico indebito
percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale
soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La disposizione immessa con la c.d. “normativa
anticorruzione” non introduce alcuna fattispecie nuova e
tipizzata di responsabilità amministrativa, ma si limita a
rafforzare quanto già in precedenza affermato da un solido
orientamento giurisprudenziale in materia.
In altri termini il legislatore ha voluto ribadire un
precetto già consolidato nell’ambito delle norme di
comportamento del dipendente pubblico; ne consegue che,
anche in assenza della precisazione contenuta nel comma
7-bis, la mancanza di autorizzazione nello svolgimento di
un’attività extra lavorativa già costituiva condotta
illecita con conseguente danno per l’erario.
La natura ricognitiva della norma dell’art. 53, comma 7-bis,
d.lgs. n. 165/2001 trova conferma nella giurisprudenza della
Corte di cassazione, che già anteriormente all’entrata in
vigore della legge n. 190/2012 ebbe a ribadire la
giurisdizione contabile per l’ipotesi di responsabilità
amministrativa di un dipendente pubblico per la violazione
non solo dei doveri tipici delle funzioni svolte, ma anche
delle funzioni strumentali e, necessariamente, anche nel
caso di omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento
d’incarichi extra lavorativi.
Ne consegue che anche in assenza della precisazione
contenuta nel comma così novellato, la Corte dei conti era
legittimata, quale giudice naturale, alla cognizione della notitia damni contestata dalla Procura.
---------------
Risulta incontroverso che il MA.,
percipiente i compensi contestati, costituisca il soggetto,
espressamente individuato, chiamato a rispondere a titolo di
responsabilità per il danno erariale da omesso versamento
dei compensi predetti (art. 53, comma 7-bis, citato), avendo
deliberatamente svolto le contestate prestazioni
professionali senza la preventiva autorizzazione
dell’Amministrazione di appartenenza e dunque in modo
indebito, in ciò integrando la fattispecie di cui al citato
art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001.
Da quanto precede ricorrono nella specie tutti i
presupposti per ritenere la sussistenza dell’ipotesi di
responsabilità erariale contestata dalla Procura regionale
al convenuto MA. e cioè il dolo nell’omessa denuncia
all’Amministrazione di appartenenza delle prestazioni
professionali effettuate in carenza di autorizzazione,
nonché il danno erariale configurato dalla legge pari al
compenso percepito dal dipendente in regime di rapporto di
impiego di esclusività con la Regione Emilia Romagna.
Sul punto va rimarcato
che (contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del
convenuto) non di responsabilità formale o sanzionatoria
nella specie si tratti, bensì propriamente di responsabilità
per danno erariale, attuale, concreto ed effettivo.
Invero, la prevista “misura” del riversamento del compenso
“nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”
(art. 53, comma 7, cit.) risponde, a ben vedere,
all’esigenza di assicurare l’interesse dell’erario ad una
piena esclusiva prestazione del proprio dipendente
a garanzia del principio del
buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97
Cost.); sicché l’importo del compenso indebitamente ottenuto
dal dipendente quantifica, ragionevolmente, la minore
efficienza ed efficacia sottratta all’Amministrazione di
appartenenza da parte del dipendente non autorizzato allo
svolgimento della prestazione; tant’è che secondo il vigente
regime detto importo viene reimmesso tra le disponibilità
finanziarie da destinare al recupero della produttività
della pubblica amministrazione allo scopo, così, di
neutralizzare il vulnus arrecato dalla dispersione verso
l’esterno di prestazioni professionali esclusivamente
riservate all’Amministrazione di appartenenza.
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1. Con atto del 25.06.2015, la Procura regionale presso la
Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per
l’Emilia Romagna ha citato il signor MA.Ma.o per
sentirlo condannare, a titolo di responsabilità
amministrativa, al pagamento, a favore della Regione
Emilia Romagna, della complessiva somma di euro 140.874,37 o
comunque alla diversa somma ritenuta dalla Sezione.
2. Risulta dagli atti che la citazione origina dalla
segnalazione della Regione Emilia-Romagna del 28.01.2014, secondo la quale il convenuto, dipendente regionale a
tempo pieno dal 15.10.1985 al 31.05.2006, svolse prestazioni
professionali per conto di diversi enti e società (B.It. s.r.l., periodo d’imposta 2001 per un compenso lordo
di euro 11.888,84 e periodo d’imposta 2002 per un compenso
lordo di euro 28.880,27; Ty.Va. & Co.It.
s.r.l., periodo d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro
50.144,09 e periodo d’imposta 2002 per un compenso lordo di
euro 30.140,00; Ku.Pe.It. s.p.a., periodo
d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro 9.366,98 e
periodo d’imposta 2001 per un compenso lordo di euro
1.717,00; Ca.So.Ca. soc. coop r.l.,
periodo d’imposta 2000 per un compenso lordo di euro
5.380,19; Comune di San Pietro in Cerro, periodo d’imposta
2002 per un compenso lordo di euro 3.357,00; e dunque
complessivamente per euro 140.874,37) senza l’autorizzazione
dell’amministrazione di appartenenza per un importo
complessivo pari al danno per il quale lo stesso signor
MA. risulta convenuto.
In ciò la Procura ravvisa violazione dell’art. 53, comma 7,
d.lgs. n. 165/2001, con conseguente danno pari al mancato
riversamento ad opera del dipendente regionale non
autorizzato delle somme incassate nel conto dell’entrata del
bilancio della Regione Emilia Romagna.
3. La difesa del convenuto chiedeva il rigetto della domanda
attrice e in subordine la declaratoria che il danno
cagionato all’amministrazione fosse dovuto a fatti colposi
dell’amministrazione stessa, con riduzione, in via
ulteriormente subordinata, del danno per concorso causale
dell’amministrazione medesima.
In particolare, il convenuto ha opposto l’eccezione di
intervenuta prescrizione in quanto l’Amministrazione sapeva
degli incarichi svolti dal signor MA. sin dal 2004.
4. Nel corso dell’udienza pubblica del 20.04.2016 è
stato rimarcato dalla difesa che, nel verbale di
contestazione in atti, redatto dal Comando nucleo
provinciale polizia tributaria di Piacenza, datato 12.05.2005, risulta che “il Servizio tecnico bacini di Trebbia e Nure di Piacenza della Direzione generale ambiente e difesa
del suolo e della costa della Giunta della Regione
Emilia Romagna con nota n. AMB/GPC/4/90588 dell’08.11.2004 e
nota n. AMB/GPC/4/104609 del 22.12.2004 aveva riferito di
non essere in possesso di alcuna autorizzazione
amministrativa rilasciata dall’Amministrazione di
appartenenza a MA.Ma. a fronte della prestazione
professionale resa negli anni 2000, 2001 e 2002” (v. p. 5
del verbale di constatazione citato).
Tale occorrenza, ad avviso della difesa del convenuto,
avrebbe costituito la prova, da parte dell’Amministrazione
di appartenenza del MA., della conoscenza dei fatti
contestati sin dal 2004, con evidente decorso del termine
prescrizionale dell’azione di responsabilità, dato che
l’intimazione dell’amministrazione risulta essere stata
effettuata con raccomandata PG/10/2055500 del 12.08.2010,
ricevuta il 14.08.2010, e cioè oltre i cinque anni previsti
per l’esercizio dell’azione di responsabilità, che
decorrono, appunto, dal momento in cui l’amministrazione ha
avuto conoscenza dei fatti contestati.
5. Il Collegio per valutare l’eccezione di prescrizione
sollevata dalla difesa, e avversata dalla Procura, ha
ritenuto necessario acquisire, con l’ordinanza n. 39/16/R,
le citate note n. AMB/GPC/4/90588, datata 08.11.2004, e n. AMB/GPC/4/104609, datata 22.12.2004, con le quali
l’amministrazione medesima avrebbe riferito al Comando
nucleo provinciale polizia tributaria di Piacenza di non
essere in possesso di autorizzazioni rilasciate al MA.,
con ciò rendendo ostensiva, secondo la prospettazione della
difesa del convenuto, la puntuale conoscenza dei fatti
omissivi contestati al MA. (e cioè dell’omessa richiesta
dell’autorizzazione per lo svolgimento incarichi
retribuiti).
In ottemperanza a detta ordinanza, la Procura ha depositato
le predette note avendole acquisite dal Nucleo di polizia
tributaria della Guardia di finanza di Piacenza.
6. Nell’odierna udienza pubblica di trattazione le parti si
sono riportate agli atti.
In particolare, la difesa ha così ribadito la richiesta: a)
di intervenuta prescrizione del diritto azionato dalla
Procura; b) nel merito, l’assenza dell’illiceità del
comportamento contestato al convenuto, l’assenza di elemento
psicologico e di danno per l’Amministrazione di
appartenenza; c) l’inapplicabilità dell’art. 53, comma 7,
del d.lgs. n. 165/2001 (entrato in vigore nel maggio 2001)
alle prestazioni rese dal convenuto nel 2000; d) di
illegittimità costituzionale dell’art. 53 citato in
riferimento agli artt. 3, 24 e 97, trattandosi –asseritamente– di un’ipotesi di responsabilità formale o
comunque di una tipologia di responsabilità sanzionatoria
rigida e automatica, non graduabile in considerazione del
fatto concreto, e dunque in contrasto con i citati parametri
costituzionali; e) in subordine, dell’esercizio del potere
riduttivo.
7. Devesi anzitutto rigettare l’eccezione portata dalla
difesa del convenuto circa la prescrizione del diritto
azionato dalla Procura.
7.1. Dalla lettura delle predette note si desume, invero,
che l’Amministrazione di appartenenza del MA., a fronte
di una specifica richiesta del Nucleo di polizia tributaria
della Guardia di finanza di Piacenza, rappresentò, con le
citate note n. AMB/GPC/4/90588, datata 08.11.2004, e n. AMB/GPC/4/104609,
datata 22.12.2004, che il medesimo signor MA. fu
autorizzato in data 05.02.2001, con provvedimento n. 835, ad
espletare il solo incarico di docenza in favore di FOR.P.IN.
con un compenso di euro 454,48; non invece, come adombrato
dalla difesa del convenuto –argomentando dalla lettura dei
verbali di contestazione del Nucleo provinciale di polizia
tributaria di Piacenza–, che l’Amministrazione di
appartenenza potesse dirsi indirettamente avveduta, sin dal
2004, dello svolgimento delle prestazioni contestate dalla
Procura regionale.
In realtà, dalla documentazione in atti è dato rilevare,
come risulta dalla citata nota del 28.01.2014, con la
quale l’Amministrazione di appartenenza (Regione
Emilia Romagna) segnalò la notitia damni alla Procura
regionale, che, con nota DFP-IFP-RA0001206P del 23.07.2010,
pervenuta il 02.08.2010 alla Regione Emilia Romagna (avente ad
oggetto "Ma.Ma., dipendente del Servizio Bacini
Trebbia e Nure di Piacenza — Giunta Regionale
Emilia Romagna. Verifiche di cui all'art. 1, commi 56-65,
della legge 23.12.1996, n. 662 e all'art. 53 del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165"), il Dipartimento
della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Ispettorato per la funzione pubblica aveva
trasmesso alla Regione Emilia Romagna la relazione del
Nucleo polizia Tributaria della Guardia di Finanza di
Piacenza su verifiche disposte dal Dipartimento nei
confronti del menzionato dipendente, ai sensi dell'art. 1,
commi 56-65, della legge n. 662 del 1996, ed eseguite dal
predetto Nucleo di polizia Tributaria su delega del Nucleo
Speciale Spesa Pubblica e repressione Frodi Comunitarie
della stessa GdF; sicché, la Regione, venuta a conoscenza,
nel 2010, degli incarichi eseguiti senza autorizzazione da
parte del MA., al fine di procedere al recupero dei
compensi percepiti per gli incarichi non autorizzati,
comunicava tempestivamente all'arch. Ma.MA., con
raccomandata prot. PG/10/205500 del 12.08.2010, ricevuta il
14.08.2010, l'esito degli accertamenti effettuati dalla
Guardia di Finanza e chiedeva chiarimenti in merito.
Avvertiva, inoltre, l'interessato che l'art. 53, comma 7,
del d.lgs. n. 165/2001 dispone l'obbligatorio versamento del
compenso percepito come conseguenza dell'inosservanza del
divieto di svolgimento di incarichi retribuiti non
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
7.2. Stante quanto precede non può accogliersi l’eccezione
di prescrizione del diritto al risarcimento del danno per
responsabilità erariale sollevata dalla difesa del convenuto
poiché, appunto, la notitia damni è stata tempestivamente
contestata dall’Amministrazione di appartenenza –non appena
venutane a conoscenza– al convenuto, e successivamente,
dalla Procura regionale che, a seguito di denuncia della
Regione Emilia-Romagna (cfr. nota del 28.01.2014), gli
ha notificato l’invito a dedurre in data 10.04.2015.
7.3. Deve aggiungersi che il termine prescrizionale non può
comunque ritenersi decorso anche alla luce del recente
orientamento delle Sezioni riunite della Corte dei conti
(sent. n. 2/2017/QM, punto 3 del Diritto), secondo il quale
l’omessa denuncia ad opera del dipendente della pubblica
amministrazione non fa decorre il termine prescrizionale
anteriormente al disvelamento del fatto dannoso originario (id
est: evento di danno), consistente, appunto, nella
specifica, qui sussistente, condotta omissiva della denuncia
delle prestazioni professionali svolte dal convenuto senza
autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
8. Nel merito la domanda attorea è fondata e pertanto merita
accoglimento.
8.1. Occorre premettere che l’art. 53, comma 7-bis, del
d.lgs. n. 165/2001 recita: “L’omissione del versamento del
compenso da parte del dipendente pubblico indebito
percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale
soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La disposizione immessa con la c.d. “normativa
anticorruzione” non introduce alcuna fattispecie nuova e
tipizzata di responsabilità amministrativa, ma si limita a
rafforzare quanto già in precedenza affermato da un solido
orientamento giurisprudenziale in materia (tra le tante si
segnalano, per fatti anteriori alla legge n. 190/2012, Corte
conti, Sez. Lombardia, n. 216/2014; Sez. Puglia n.
230/2015).
In altri termini il legislatore ha voluto ribadire un
precetto già consolidato nell’ambito delle norme di
comportamento del dipendente pubblico; ne consegue che,
anche in assenza della precisazione contenuta nel comma
7-bis, la mancanza di autorizzazione nello svolgimento di
un’attività extra lavorativa già costituiva condotta
illecita con conseguente danno per l’erario (cfr. Corte
conti, Sez. Emilia Romagna n. 61/2015).
La natura ricognitiva della norma dell’art. 53, comma 7-bis,
d.lgs. n. 165/2001 trova conferma nella giurisprudenza della
Corte di cassazione, che già anteriormente all’entrata in
vigore della legge n. 190/2012 ebbe a ribadire la
giurisdizione contabile per l’ipotesi di responsabilità
amministrativa di un dipendente pubblico per la violazione
non solo dei doveri tipici delle funzioni svolte, ma anche
delle funzioni strumentali e, necessariamente, anche nel
caso di omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento
d’incarichi extra lavorativi
(Cass. SS.UU., n. 22688/2011).
Ne consegue che anche in assenza della precisazione
contenuta nel comma così novellato, la Corte dei conti era
legittimata, quale giudice naturale, alla cognizione della
notitia damni contestata dalla Procura.
8.2. Ebbene, risulta incontroverso che il MA.,
percipiente i compensi contestati, costituisca il soggetto,
espressamente individuato, chiamato a rispondere a titolo di
responsabilità per il danno erariale da omesso versamento
dei compensi predetti (art. 53, comma 7-bis, citato), avendo
deliberatamente svolto le contestate prestazioni
professionali senza la preventiva autorizzazione
dell’Amministrazione di appartenenza e dunque in modo
indebito, in ciò integrando la fattispecie di cui al citato
art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001; né ha pregio
l’eccezione sollevata dalla difesa circa l’inapplicabilità
della norma citata alle prestazioni rese prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 165/2001; e ciò per la semplice
ragione che già l’art. 58, comma 7, del d.lgs. n. 29/1993
conteneva, su delega dell’art. 2, comma 1, della legge n.
421 del 1992 (Corte cost., sent. n. 98/2015, punto 2.2. del
Considerato in diritto), una disposizione corrispondente a
quella ora in vigore.
8.3. Da quanto precede ricorrono nella specie tutti i
presupposti per ritenere la sussistenza dell’ipotesi di
responsabilità erariale contestata dalla Procura regionale
al convenuto MA. e cioè il dolo nell’omessa denuncia
all’Amministrazione di appartenenza delle prestazioni
professionali effettuate in carenza di autorizzazione,
nonché il danno erariale configurato dalla legge pari al
compenso percepito dal dipendente in regime di rapporto di
impiego di esclusività con la Regione Emilia Romagna.
Sul punto va rimarcato, come anche ritenuto dalle Sezioni
riunite della Corte dei conti (cfr., citata sent. n. 2/2017/QM),
che (contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del
convenuto) non di responsabilità formale o sanzionatoria
nella specie si tratti, bensì propriamente di responsabilità
per danno erariale, attuale, concreto ed effettivo.
Invero, la prevista “misura” del riversamento del compenso
“nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”
(art. 53, comma 7, cit.) risponde, a ben vedere,
all’esigenza di assicurare l’interesse dell’erario ad una
piena esclusiva prestazione del proprio dipendente (art. 98
Cost.; Corte conti, Sez. I appello n. 121/2015; Sez.
Emilia Romagna n. 818/2007) a garanzia del principio del
buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97
Cost.); sicché l’importo del compenso indebitamente ottenuto
dal dipendente quantifica, ragionevolmente, la minore
efficienza ed efficacia sottratta all’Amministrazione di
appartenenza da parte del dipendente non autorizzato allo
svolgimento della prestazione; tant’è che secondo il vigente
regime detto importo viene reimmesso tra le disponibilità
finanziarie da destinare al recupero della produttività
della pubblica amministrazione allo scopo, così, di
neutralizzare il vulnus arrecato dalla dispersione verso
l’esterno di prestazioni professionali esclusivamente
riservate all’Amministrazione di appartenenza.
9. Da quanto precede va disattesa la questione di
legittimità costituzionale sollevata dalla difesa del
convenuto, che muove dall’errato presupposto che nella
specie si versi in ipotesi di responsabilità formale oppure
di mera, non graduabile, responsabilità sanzionatoria.
10. In considerazione di quanto precede, il Collegio ritiene
dunque sussistenti le condizioni per la condanna del
convenuto MA.Ma. al risarcimento del danno a
favore della Regione Emilia Romagna pari alla somma di euro
140.874,37, come da motivazione.
11. La spese del giudizio seguono la soccombenza e sono
liquidate in euro 610,70 (seicentodieci/70).
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Emilia Romagna, definitivamente pronunciando, disattesa ogni
diversa domanda, eccezione, deduzione
ACCOGLIE
la domanda attorea come da motivazione.
Condanna il
convenuto MA.Ma.o al risarcimento del danno a
favore della Regione Emilia-Romagna pari alla somma di euro
140.874,37.
Rivalutazione monetaria dall’anno del mancato riversamento
(cfr. punto 2 per i periodi d’imposta 2000, 2001, e 2002) al
deposito della sentenza secondo gli indici FOI. Interessi
legali dal deposito della sentenza sino al soddisfo.
Le
spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
in euro 610,70 (seicentodieci/70)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna,
sentenza 26.07.2017 n. 170). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in
sopraelevazione) “per la prima volta” (con
riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non
può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della
demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione.
Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444
prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2).
Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo
prevede che:
“sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali
espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di
inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza
che la disposizione
contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra
edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via
generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che
la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda
“nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti
e/o sopraelevazioni di essi:) “costruiti per la prima volta” e non già
edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione,
non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi
dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n.
1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma
primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia
esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora
affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella
ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed
altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe
che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere
demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile
perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio
“effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro
lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della
deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n.
1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione
(ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista
nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con
dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono
alla nuova pianificazione del territorio e non già ad
interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per
effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9),
produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con
altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi,
rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le
condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che
invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite
inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi
costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta”
(con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma
non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto
della demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione.
---------------
Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare
che l’art. 32-bis delle NTA del Comune, laddove consente la
realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di
prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma
–nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra
fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il
mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per
immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona
considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
---------------
Il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del
DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità
dell’intervento con le disposizioni urbanistiche
sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso
di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente
qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a
permesso di costruire, non esplica effetti ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile
della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto,
non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato
concreto della preesistenza di un immobile a distanza
inferiore da quella prevista da detta norma.
---------------
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, per
le ragioni di seguito esposte, con conseguente riforma della
sentenza impugnata.
Ciò esime il Collegio dal doversi pronunciare in ordine alla
inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I
grado e, in correlazione, in ordine alla tempestività del
motivo di impugnazione con il quale l’appellante ha
prospettato la predetta inammissibilità, il quale risulta
presente solo nelle memorie del 14.05.2013 e del 27.03.2017.
2.1. Come si è già avuto modo di esporre, la sentenza
impugnata ha proceduto all’annullamento del permesso di
costruire rilasciato all’attuale appellante, previa
disapplicazione dell’art. 32-bis delle NTA del Comune di
Sannicandro, in quanto la possibilità da tale norma prevista
di realizzare nuovi edifici a filo strada, ove esista un
prevalente allineamento in tal senso, costituisce una
violazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 (norma
inderogabile) e delle distanze tra fabbricati ivi
prescritte.
Giova ricordare, in punto di fatto ed al fine di meglio
definire il thema decidendum, che dagli atti di causa
risulta:
- la preesistenza di un fabbricato;
- che la distanza tra il fabbricato oggetto del permesso di
costruire (situato in zona B) e quello di proprietà dei
ricorrenti in I grado e di m. 3;
- che tale spazio è costituito da una strada adibita a
viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare.
Occorre, inoltre, precisare che, ai fini del presente
giudizio di appello, non assumono rilievo –per le ragioni
di seguito esposte- le argomentazioni relative alle cd.
“schede della zona B”, di cui alla memoria del 14.05.2013, e/o quelle relative all’esistenza del Piano attuativo
delle zone B (di cui alla memoria di replica depositata il 06.04.2017); il che esime il Collegio dal dover verificare
la ricorrenza del divieto dei “nova” in appello (Cons.
Stato, sez. IV, 03.08.2016 n. 3509).
3.1. Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444
prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2).
Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo
prevede che:
“sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali
espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di
inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza
(da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093 e 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016 n. 23136) che la disposizione
contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra
edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via
generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che
la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda
“nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti
e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già
edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione,
non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi
dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n.
1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma
primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia
esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora
affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella
ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed
altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe
che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere
demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile
perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio
“effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro
lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della
deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n.
1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione
(ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista
nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con
dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono
alla nuova pianificazione del territorio e non già ad
interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per
effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9),
produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con
altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi,
rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi –così come condivisibilmente sostenuto dall’appellante- per le
condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che
invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite
inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi
costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta”
(con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma
non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto
della demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione (in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 03.03.2017 n. 74).
3.2.. Alla luce delle considerazioni esposte, occorre
osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune di
Sannicandro di Bari, laddove consente la realizzazione di
nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente
allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere
ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al
DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di
preesistenti distanze inferiori solo per immobili
preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata,
l’allineamento sia “prevalente”.
4. Le precisazioni in tema di interpretazione dell’art. 9
D.M. n. 1444/1968 innanzi riportate non risultano
contraddette dal fatto che la sentenza impugnata ha definito
“nuova costruzione”, l’immobile oggetto del permesso di
costruire impugnato.
In disparte ogni considerazione in ordine alla migliore
riconducibilità dell’intervento alla ristrutturazione
edilizia (secondo le norme per la stessa ratione temporis
vigenti: v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443),
tenuto conto che nel ricorso in appello non vi sono
doglianze sul punto, appare evidente come il concetto di
“nuova costruzione” utilizzato dalla sentenza impugnata non
esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 D.M.
n. 1444/1968.
Ed infatti, la sentenza ricava la definizione di “nuova
costruzione”, pur affermando espressamente la preesistenza
di un immobile completamente demolito, dal fatto che si
tratta di una costruzione “completamente diversa per
tipologia e destinazione d’uso”.
Tuttavia, il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai
sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità
dell’intervento con le disposizioni urbanistiche
sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso
di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente
qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a
permesso di costruire, non esplica effetti ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile
della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto,
non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato
concreto della preesistenza di un immobile a distanza
inferiore da quella prevista da detta norma.
4.1. Fermo quanto innanzi già esposto, il caso di specie
appare coerente anche con gli articoli 873 ed 879 cod. civ.
Ed infatti:
- quanto alla distanza tra fabbricati, l’art. 873 dispone
che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o
aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre
metri”, salvo diverse disposizioni dei regolamenti locali
(e, nel caso di specie, la distanza è appunto di m. 3);
- inoltre, la accertata utilizzazione pubblica della strada
rende applicabile quanto previsto dall’art. 879, comma
secondo, cod. civ., in base al quale “alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” e,
dunque, quanto previsto dal più volte menzionato art. 32-bis
(Cass. civ., sez. II, 27.12.2011 n. 28938; Id, 24.06.2009 n. 14784, che estende l’applicazione del
principio innanzi esposto alla distanza prescritta per le
vedute dall’art. 907 c.c.; Id, 05.03.2008 n. 6006; secondo
la quale, ai fini dell’applicazione della deroga occorre
tener conto più che della proprietà pubblica del bene,
dell’uso concreto di esso da parte della collettività); Id,
16.04.2007 n. 9077).
5. Le ragioni che sorreggono l’accoglimento dell’appello
fondano anche il rigetto dei motivi non esaminati dalla
sentenza impugnata e riproposti con memoria di costituzione,
rendendo in tal modo superfluo esaminare l’ammissibilità dei
medesimi, sia in relazione al rispetto del termine per la
loro riproposizione, sia in quanto riproposti mediante mero
rinvio al ricorso di I grado.
Ed infatti:
- quanto al primo motivo, con il quale si lamenta la
violazione dell’art. 79 del Regolamento edilizio di
Sannicandro di Bari, occorre osservare che lo stesso si
fonda sulla definizione dello spazio che separa i due
fabbricati come “spazio interno”, laddove la verificazione
disposta ha accertato, in modo convincente e non
ulteriormente contestato, l’esistenza di una strada adibita
a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare;
- quanto al secondo motivo, con il quale si argomenta in
ordine alla illegittimità dell’art. 32-bis delle NTA, in
particolare rilevando che la norma, se pur applicabile,
prevederebbe la costruzione a distanza di m. 5, occorre
osservare che la norma dell’art. 32-bis rilevante per il
caso di specie è quella che disciplina la costruzione in
allineamento a filo di strada, in disparte gli effetti anche
su questa norma invocata della diversa ipotesi di
ricostruzione e non di prima costruzione;
- quanto al terzo motivo, con il quale si assume la
sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di
istruttoria e travisamento dei fatti, è sufficiente
riportarsi, onde rilevarne l’infondatezza, a quanto in
precedenza affermato ai fini dell’accoglimento dell’appello.
6. Per tutte le ragioni innanzi esposte, l’appello deve
essere accolto, mentre devono essere rigettati i motivi del
ricorso instaurativo di I grado non esaminati dalla sentenza
impugnata e riproposti nella presente sede.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve
essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I
grado (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2017 n. 4337 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sul
termine di impugnazione della sentenza di I grado non
notificata.
Secondo
la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato, “Nel caso in cui la sentenza di primo grado non sia
stata notificata, l'appello può essere proposto entro e non
oltre il termine lungo divisato dall'art. 327 c.p.c., non
potendo trovare applicazione l'art. 36, comma 1, t.u. Cons.
St., che fa decorrere il termine per la notificazione
dell'impugnazione, alternativamente dalla notificazione
della decisione amministrativa ovvero dalla data in cui
risulti che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza; tale
disposizione, che in origine disciplinava le modalità di
proposizione del ricorso al Consiglio di Stato quale giudice
di unico grado, è superata da quella sancita dall'art. 28,
comma 2, l. 06.12.1971 n. 1034, che fa riferimento
espresso alla sola notificazione della sentenza di primo
grado ed implicito, secondo l'unanime giurisprudenza, al
decorso del termine lungo in base al richiamato art. 327 c.p.c.”.
In senso conforme, in epoca anche più risalente: “In mancanza della notificazione della sentenza di primo
grado è applicabile al ricorso in appello al Consiglio di
Stato il termine di un anno dalla pubblicazione della
sentenza medesima di cui all'art. 327 c.p.c.”.
---------------
1. La presente controversia riguarda l’impugnazione, da
parte del signor Gr.Sa., del provvedimento n. 263
del 26.10.1993 con cui il Sindaco del comune di Bollate
(ora comune di Baranzate) gli ha ingiunto la demolizione
delle seguenti opere: due scale in metallo, la
pavimentazione in piastrelle di un terrazzo e la
pavimentazione in calcestruzzo di un piazzale in ghiaia.
2. Il Tar per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, con
la sentenza n. 3226 del 05.07.2005 ha:
a) dichiarato improcedibile il ricorso limitatamente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione nella parte
relativa alle scale per intervenuta concessione in
sanatoria;
b) respinto per il resto, nel merito, il ricorso;
c) compensato tra le parti le spese di lite.
3. Il signor Gr.Sa. ha impugnato la sentenza
limitatamente al capo d’interesse, ovvero nella parte in cui
ha respinto il ricorso di primo grado avverso l’ingiunzione
di demolizione delle opere di pavimentazione di cui in
epigrafe.
4. Il Comune di Bollate, dapprincipio, non si è costituito.
5. All’udienza pubblica del 19.01.2017 la causa è stata
discussa e trattenuta in decisione.
6. Il Collegio, tuttavia, rilevata d’ufficio ai sensi
dell’art. 73, comma 3, ultimo alinea, c.p.a. l’esistenza di
una questione da porre a fondamento della decisione, ha
riservato la stessa assegnando alle parti termine per il
deposito di memorie (ordinanza n. 252/2017).
7. Il signor Gr.Sa. ha depositato la memoria
difensiva in data 12.04.2017; il comune di Bollate (ora
comune di Baranzate) nella medesima data del 16.02.2017 ha provveduto a depositare l’atto di costituzione in
giudizio (chiedendo pronunciarsi l’irricevibilità o
l’infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, vinte le
spese di lite), la memoria difensiva autorizzata ai sensi
dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e alcuni documenti. Soltanto il
comune di Bollate ha replicato con memoria del 20.04.2017.
8. Alla nuova udienza pubblica del 18.05.2017 la causa è
stata discussa e trattenuta per la decisione.
9. Si impone al Collegio la declaratoria di irricevibilità
dell’appello per la tardività della notificazione ai sensi
dell’art. 35, comma 1, lett. a), c.p.a..
9.1. Il Tar per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, ha
pronunciato la sentenza n. 3226 in data 05.07.2005.
9.2. La sentenza non risulta essere stata notificata, sicché
l’impugnazione avrebbe dovuto essere proposta entro il
termine di un anno dalla pubblicazione della medesima, oltre
all’eventuale periodo di sospensione feriale dei termini di
cui all’art. 1 della legge n. 742 del 1969 (all’epoca -prima della modifica intervenuta a far data dal
01.01.2015 ad opera dell’art. 16 della legge n. 162 del 2014- dal
01 agosto al 15 settembre, per un numero complessivo pari a
giorni 46).
9.3. Nel caso di specie, l’atto di appello è stato portato
alla notificazione soltanto in data 18.10.2006, oltre
quindi il termine consentito, il quale veniva a scadere il
giorno 05.10.2006.
9.4. La Difesa dell’appellante chiede la concessione
dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a., con
conseguente rimessione in termini, adducendo difficoltà di
calcolo involgenti modalità di computo complesse e dubbi
interpretativi circa il contenuto delle norme di
riferimento, soprattutto quelle relative alla sospensione
dei termini durante il periodo feriale.
9.5. L’assunto non può essere condiviso.
9.5.1. Secondo la pacifica giurisprudenza del Consiglio di
Stato, “Nel caso in cui la sentenza di primo grado non sia
stata notificata, l'appello può essere proposto entro e non
oltre il termine lungo divisato dall'art. 327 c.p.c., non
potendo trovare applicazione l'art. 36, comma 1, t.u. Cons.
St., che fa decorrere il termine per la notificazione
dell'impugnazione, alternativamente dalla notificazione
della decisione amministrativa ovvero dalla data in cui
risulti che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza; tale
disposizione, che in origine disciplinava le modalità di
proposizione del ricorso al Consiglio di Stato quale giudice
di unico grado, è superata da quella sancita dall'art. 28,
comma 2, l. 06.12.1971 n. 1034, che fa riferimento
espresso alla sola notificazione della sentenza di primo
grado ed implicito, secondo l'unanime giurisprudenza, al
decorso del termine lungo in base al richiamato art. 327 c.p.c.” (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.12.2001, n.
6192).
In senso conforme, in epoca anche più risalente,
Consiglio di Stato, sez. IV, 02.06.1981, n. 430, secondo
cui “In mancanza della notificazione della sentenza di primo
grado è applicabile al ricorso in appello al Consiglio di
Stato il termine di un anno dalla pubblicazione della
sentenza medesima di cui all'art. 327 c.p.c.”.
9.5.2. Alla luce dei suddetti arresti giurisprudenziali,
pertanto, non possono ravvisarsi le invocate oggettive
ragioni di incertezza interpretativa: la questione di
diritto è stata affrontata funditus da questo Consiglio di
Stato, già in epoca risalente, e mantenuta costante, nella
formulazione del principio di diritto, senza contrasti o
revirement giurisprudenziali.
Né, del resto, risulta essere stata altrimenti addotta (e
documentata), dalla parte istante, l’esistenza dell’altra
(alternativa) ragione di concessione della rimessione in
termini per errore scusabile, ovvero il grave impedimento di
fatto.
10. L’appello, pertanto, va dichiarato irricevibile
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.09.2017 n. 4325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’art.
192 del D.Lgs. n. 152/2006, dopo aver disposto (comma 1) che
“L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul
suolo e nel suolo sono vietati”, al comma 3 prevede che “…
chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge che:
alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile
dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale
il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la
disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei
rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una
responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di
coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità
dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento
della titolarità del diritto reale sulle aree interessate
dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
normativa accomuna nello stesso trattamento sia il
proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di
diritto reale o personale;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo>>.
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della
giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle
condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la
giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art.
192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione
della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di
ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di
godimento sul bene”.
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non
avere ragione per discostarsi dall’“orientamento
consolidato, secondo cui, in materia, il legislatore
delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di
un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei
potenziali destinatari del provvedimento conclusivo. Di
conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio
del procedimento costituisce un adempimento indispensabile
al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati, nemmeno soggetto al
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale posta dall’art. 7 della
stessa legge”.
---------------
0. - Il ricorso è fondato e deve essere accolto, nei sensi
di seguito indicati.
1. - Come già anticipato nella fase cautelare del presente
giudizio, coglie nel segno la censura (formulata a sostegno
della domanda di annullamento azionata) con la quale
l’Acquedotto Pugliese s.p.a. lamenta, essenzialmente, la
violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs.
n. 152/2006, il quale richiede, ai fini della
corresponsabilità, che i necessari propedeutici accertamenti
sulla sussistenza dei profili di responsabilità dolosa o
colposa della violazione dell’obbligo di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti siano effettuati dai
soggetti istituzionalmente preposti al controllo, in
contraddittorio con i soggetti interessati, non essendo
configurabile una responsabilità oggettiva a carico del
proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la
disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti.
Osserva la Sezione che l’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006,
dopo aver disposto (comma 1) che “L'abbandono e il
deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono
vietati”, al comma 3 prevede che “… chiunque viola i
divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge
che: alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile
dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale
il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la
disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei
rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una
responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di
coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità
dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento
della titolarità del diritto reale sulle aree interessate
dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
normativa accomuna nello stesso trattamento sia il
proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di
diritto reale o personale;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo>> (Consiglio di Stato, V,
22.02.2016, n. 705).
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della
giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle
condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la
giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art.
192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione
della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di
ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di
godimento sul bene (in tal senso ex plurimis Tar Puglia,
Lecce, n. 108/2015)” (ex multis, TAR Puglia,
Lecce, I, 14.06.2016, n. 945; in termini, TAR Puglia Lecce,
I, 02.12.2015, n. 3482; TAR Puglia, Lecce, I, 04.02.2015, n.
437).
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non avere
ragione per discostarsi dall’“orientamento consolidato
(cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061;
sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; sez. V, 22.02.2016, n.
705; sez. IV, 01.04.2016, n. 1301), secondo cui, in materia,
il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le
esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico
procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento
conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale
comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un
adempimento indispensabile al fine dell'effettiva
instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli
interessati, nemmeno soggetto al temperamento che l’art.
21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola
generale posta dall’art. 7 della stessa legge”
(Consiglio di Stato, IV, 15.07.2016, n. 3163; in termini,
TAR Puglia, Bari, I, 30.08.2016, n. 1089; TAR Calabria,
Catanzaro, I, 12.10.2016, n. 1962).
1.2 - Orbene, nel caso in esame: per un verso, dal
tenore del gravato provvedimento si evince che
l’Amministrazione Comunale resistente fa discendere gli
obblighi di rimozione e bonifica in capo alla società
ricorrente, dal mero accertamento della (presunta) proprietà
del terreno per cui è causa, senza fornire, in concreto,
alcuna dimostrazione dell’imputabilità soggettiva della
condotta, ex art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006; per altro
verso, alcuna partecipazione e contraddittorio
procedimentale risulta essere stata, in concreto, attivata.
2. - Parimenti fondata (come pure già rilevato nella fase
cautelare del giudizio) è l’ulteriore censura con cui la
società Acquedotto Pugliese s.p.a., Ente gestore
dell’Acquedotto, deduce, sostanzialmente, di non essere
tenuta agli adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati
da terzi sulle aree interessate dalle condutture idriche,
per mancanza tanto del rapporto reale con le aree stesse che
di un rapporto di natura obbligatoria (non essendo comprese
negli obblighi da esso assunti convenzionalmente la
vigilanza e la custodia delle infrastrutture per
comportamenti di terzi estranei di natura patologica).
Ed invero, “Si deve ritenere che AQP sia il mero gestore
delle condotte di acqua potabile e pertanto si trovi nella
disponibilità dell’area interessata dalle infrastrutture
idriche” (TAR Puglia, Bari, I, 29.09.2016, n. 1159).
E’ stato al riguardo condivisibilmente osservato che <<Gli
obblighi gravanti sul gestore attengono esclusivamente alla
manutenzione ordinaria e straordinaria sotto l’aspetto
tecnico delle condotte al fine di assicurare il corretto
esercizio e la funzionalità delle opere. Il mantenimento
delle condizioni generali di pulizia delle opere previsto
dalla convenzione con l’ATO Puglia del 30.09.2002 riguardano
la normale pulizia dei siti e non già fatti imprevedibili
quali l’abbandono di rifiuti da parte di sconosciuti….
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta
manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli
effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti
commessi da terzi ignoti. Invero, il concetto di custodia e
vigilanza va esaminato in relazione agli obblighi che
fisiologicamente possono essere imposti ad AQP in quanto
gestore del servizio idrico integrato e non può essere
allargato fino ad includere la “custodia e vigilanza” dei
beni in oggetto da atti di natura patologica e derivanti da
fenomeni di vandalismo tramite l’illecito abbandono e
l’occultamento di rifiuti …. In conclusione deve ritenersi
che AQP, ente gestore dell’acquedotto, non sia tenuto agli
adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati sull’area
interessata dalle condutture per mancanza tanto del rapporto
reale con l’area che di un rapporto di natura obbligatoria e
non essendo comprese negli obblighi da essa assunti
convenzionalmente la vigilanza e la custodia delle
infrastrutture per comportamenti di terzi estranei di natura
patologica>> (Consiglio di Stato, V, 22.02.2016, n. 705;
in termini, TAR Puglia, Bari, I, cit., n. 1159/2016).
3. - La fondatezza delle summenzionate censure dispensa il
Collegio dall’esame delle ulteriori doglianze formulate, con
assorbimento di queste ultime.
4. - Va disattesa, invece, la domanda risarcitoria azionata,
in quanto formulata con riferimento a danni del tutto
eventuali (e, comunque, indimostrati).
5. - Per tutto quanto innanzi sinteticamente esposto, il
presente ricorso è fondato e va accolto, nei sensi e termini
di cui in motivazione, e, per l’effetto, deve essere
annullata l’impugnata ordinanza n. 200 del 25.10.2016 (prot.
n. 38425 del 26.10.2016), a firma del Sindaco e Dirigente
del Settore “Ecologia ed Ambiente” del Comune di
Massafra (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 13.09.2017 n. 1450 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L.
383/2000, le associazioni di promozione sociale possono
localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio
urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione
d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso
edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo
fabbricato, sulla base del permesso di costruire.
---------------
L’Associazione ricorrente, associazione di promozione
sociale iscritta nel registro regionale ai sensi della L.
383/2000, nonché della L.R. 39/2007, impugna l’epigrafata
ordinanza con la quale il Comune di Lecce, dopo aver
contestato il “cambio di destinazione d’uso dell’unità
immobiliare censita in catasto al fg. 213, part. 142, sub 2,
p.t., da abitazione a ufficio privato, in assenza di titoli
abilitativi legittimanti”, le ha intimato di
ripristinare l’originaria destinazione d’uso abitativa.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il Collegio ritiene di condividere quanto già espresso da
questo tribunale con ordinanza n. 6/2017, con la quale si è
rilevato il deficit istruttorio e motivazionale del
provvedimento impugnato, atteso che lo stesso non risulta
aver tenuto in debita considerazione che, in base al
combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le
associazioni di promozione sociale possono localizzare la
loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo
la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso
urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio
impressa funzionalmente e specificamente al singolo
fabbricato, sulla base del permesso di costruire (in tal
senso C.d.S. 181/2013).
Il provvedimento impugnato infatti omette di considerare le
caratteristiche dell’attività in concreto esercitata nei
locali predetti, nonché la compatibilità della stessa con la
destinazione d’uso ivi precedentemente impressa, non
esprimendo sufficienti argomentazioni sul punto.
In tal senso, pertanto, il ricorso merita accoglimento con
assorbimento delle censure non esaminate
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 13.09.2017 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - CAVE - Attività di coltivazione di cave
e di livellamenti agrari - Nozione di sottoprodotto -
Attività qualificabile come gestione dei rifiuti - Art.
184-bis - 185 dlgs n. 152/2006 - All. 3 dm n. 161/2012.
Rientrano nella categoria dei rifiuti anche le sostanze e
gli oggetti che, non più idonei a soddisfare le finalità cui
essi erano originariamente destinati, siano tuttavia non
privi di un valore economico, sicché gli stessi possano
essere dismessi da colui che li possiede anche attraverso la
conclusione di negozi giuridici sia a titolo gratuito che
oneroso.
In tal senso può essere ritenuta, attività qualificabile
come gestione dei rifiuti la compravendita di terra
sottratta dal suo naturale sito che, in linea di principio,
colui il quale ha eseguito le opere si trova nella
condizione di doversene disfare (nella specie opere di
livellamento di terreno agrario).
RIFIUTI - Materiali da scavo -
Caratteristiche per l'esenzione dalla disciplina sui rifiuti
- Presupposti e limiti al trattamento derogatorio.
Sono sottratte dalla disciplina dei rifiuti, i materiali da
scavo derivante dalle opere di livellamento dei terreni,
eseguiti in cantieri di piccole dimensioni la cui produzione
non superi i 6000 mc di materiale, se rientranti nelle
caratteristiche cui all'articolo 184-bis del decreto
legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e
se il produttore dimostri che ai fini di cui alle lettere b)
e e) (cioè ai fini del riutilizzo del materiale ovvero della
sua destinazione ad un successivo ciclo produttivo) non è
necessario sottoporre i materiali ad alcun preventivo
trattamento, fatte salve le normali pratiche industriali e
di cantiere.
Ove tale condizione non sia soddisfatta il materiale in
questione non godrà del trattamento derogatorio di cui
all'art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006 e dovrà essere,
pertanto, qualificato come rifiuto a tutto gli effetti.
RIFIUTI - Qualificazione giuridica del "mistone"
- Impianto di vagliatura e lavaggio degli inerti -
Definizione di "normale pratica industriale" - Attività di
trattamento dei rifiuti - Autorizzazioni - Necessità -
Fattispecie.
La qualificazione giuridica del "mistone" come
sottoprodotto è riferibile alle solo ipotesi in cui il
reimpiego avvenga "direttamente, senza alcuna trattamento",
laddove la disposizione in materia (art. 184-bis del dlgs n.
152 del 2006) fa comunque salvi i trattamenti che rientrino
nelle "comuni pratiche industriali e di cantiere".
Pertanto, si deve escludere la possibilità di attribuire al
"mistone" la qualifica di sottoprodotto, nei casi in cui vi
sia, la necessità di installazioni industriali non
irrilevanti, nella specie, istituzioni di vasche di
decantazione del materiale lavato e significativi aspetti di
successivo impatto ambientale sia per la presenza di
cospicui effluenti idrici rivenienti dalla attività di
lavaggio del "mistone" sia per la presenza, non certo
indifferente, di copiosi residui a loro volta inquinanti
costituiti dal limo derivante dall'avvenuto lavaggio del "mistone".
Sicché, una tale complessità operativa non può coniugarsi
con il concetto di "comuni pratiche industriali e di
cantiere", dovendosi ritenere che queste siano invece
limitate a marginali interventi eseguiti sui sottoprodotti
non necessitanti di complesse infrastrutture operative né,
comunque, tali da comportare la successiva necessità di
procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di
copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.09.2017 n. 41533
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sul
termine di perenzione dei ricorsi giurisdizionali.
Per la giurisprudenza di questo Consiglio, qualora a cura
della Segreteria debba essere fissata l’udienza e la
Segreteria non effettui tale adempimento, il termine di
perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del c.p.a., non
comincia a decorrere, poiché la relativa stasi processuale
non è tecnicamente imputabile all’inattività delle parti, le
quali, peraltro, non possono che confidare sulla fissazione
d’ufficio dell’udienza medesima.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza collegiale del TAR per
il Lazio, Sede di Roma, Sez. III-bis, n. 8248/2016, resa tra
le parti, che ha respinto l’opposizione proposta contro un
decreto che ha dichiarato la perenzione universitaria del
ricorso di primo grado n. 7903 del 2008;
...
1. È appellata l’ordinanza collegiale del TAR per il
Lazio, Sede di Roma, sez. III-bis, n. 8248/2016, con la
quale è stata respinta l’opposizione presentata dalla
signora Fl. Di Sa. avverso il decreto di perenzione
n. 8981 del 19.08.2015, con cui il presidente del TAR ha
dichiarato estinto il giudizio n. 7903 del 2008.
2. Nel motivo d’appello, l’appellante lamenta l’errore di
giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure,
laddove hanno ravvisato la perenzione a seguito
dell’inattività della parte, conseguente all’invio della
comunicazione a mezzo PEC dell’avvenuto decorso del
quinquennio dal deposito del ricorso.
L’appellante ha lamentato che il TAR avrebbe dovuto
attribuire rilievo al fatto che con l’ordinanza n. 594/2009
il TAR stesso aveva disposto incombenti istruttori a carico
dell’Università resistente ed aveva contestualmente
stabilito, «per la definizione del ricorso nel merito, la
prima udienza utile dopo l’avvenuto adempimento della stessa
e dopo l’espletamento di tutti gli incombenti di
Segreteria».
Sicché, aggiunge l’appellante, anziché comunicare via PEC ex
art. 82 c.p.a. il decorso del quinquennio per la perenzione,
il TAR, in conformità all’ordinanza istruttoria, all’esito
dell’avvenuto adempimento, avrebbe dovuto provvedere
d’ufficio alla fissazione nel merito del ricorso alla prima
udienza utile.
3. Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di
Roma «La Sapienza», chiedendo la reiezione del ricorso.
4. Alla camera di consiglio del 06.07.2017, la causa, su
richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.
5. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato.
5.1 Per la giurisprudenza di questo Consiglio, qualora a
cura della Segreteria debba essere fissata l’udienza e la
Segreteria non effettui tale adempimento, il termine di
perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del c.p.a., non
comincia a decorrere, poiché la relativa stasi processuale
non è tecnicamente imputabile all’inattività delle parti
(cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2003 n.
7857; Id, sez. IV, 30.05.2013 n. 2954), le quali,
peraltro, non possono che confidare sulla fissazione
d’ufficio dell’udienza medesima.
5.2. Nel caso in esame, a seguito dell’ordinanza istruttoria
n. 594 del 2009, l’Amministrazione ha depositato la relativa
documentazione nel mese di settembre 2009, ciò che avrebbe
dovuto indurre la Segreteria a curare la fissazione
dell’udienza, così come chiaramente prospettato con la
medesima ordinanza istruttoria.
Non si può dunque ravvisare una ingiustificata inattività
della parte ricorrente, che si è trovata in una situazione
di più che legittimo affidamento sul fatto che non occorreva
alcun ulteriore suo impulso processuale, per la fissazione
dell’udienza di definizione del primo grado del giudizio.
6. Conclusivamente l’appello deve essere accolto, sicché –in riforma della ordinanza appellata– si deve rilevare la
mancata estinzione del giudizio di primo grado e va disposto
il rinvio della causa al TAR, per la sua definizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.09.2017 n. 4318 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Esperti nella commissione di concorso e cause di
incompatibilità.
---------------
●
Concorso – Commissione di concorso – Esperti – Esperti in
discipline non estranee alle tematiche oggetto delle prove
concorsuali – Sufficienza.
●
Concorso – Per titoli ed esami – Titoli – Valutazione – Dopo
l’effettuazione delle prove scritte e prima della correzione
dei relativi elaborati – Individuazione dei criteri di
valutazione – Prima della conoscenza dell’elenco dei
candidati – Necessità – Esclusione.
●
Concorso – Commissione di concorso – Incompatibilità – Per
collaborazione scientifica fra componente della commissione
e candidato – Esclusione – Limiti.
●
Le previsioni normative di cui agli artt. 35, comma 1, lett.
e), d.lgs. 30.03.2001, n. 165 e 9, d.P.R. 09.05.1994, n.
487, in forza dei quali i componenti della commissione di
esame devono essere “esperti” nelle materie di concorso, non
implicano che il requisito della necessaria esperienza
risulti soddisfatto solo ove tutti i membri della
commissione siano titolari di insegnamenti nelle medesime
discipline oggetto della procedura selettiva, essendo
sufficiente che i commissari siano esperti in discipline non
estranee alle tematiche oggetto delle prove concorsuali (1).
●
Ai sensi degli artt. 8, 11 e 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487,
nei concorsi per titoli e per esami la valutazione dei
titoli, preceduta dall’individuazione dei criteri, deve
seguire l’effettuazione delle prove scritte e precedere la
correzione dei relativi elaborati, mentre è escluso che
l’individuazione dei criteri di valutazione dei titoli debba
necessariamente intervenire prima che la commissione abbia
conoscenza dell’elenco nominativo dei candidati (2).
●
Il principio secondo cui non costituisce ragione
di incompatibilità la sussistenza di rapporti di mera
collaborazione scientifica fra i componenti della
commissione e alcuno dei candidati, salvo che si sia in
presenza di una comunanza di interessi anche economici, di
intensità tale da porre in dubbio l’imparzialità del
giudizio va mediato da una valutazione caso per caso, ben
potendo accadere che detti rapporti di collaborazione, pur
rimanendo di natura intellettuale e non assumendo contenuti
patrimoniali, raggiungano comunque un grado di intensità
tale da compromettere l’indipendenza di giudizio del
commissario verso il candidato (3).
---------------
(1)
Cons. St., sez. VI, 03.07.2014, n. 3366; id.,
sez. V, 30.01.2013, n. 574.
Ha chiarito il Tar che l’esperienza della commissione deve
essere verificata nel suo complesso e con ragionevolezza,
onde evitare che un’interpretazione troppo rigorosa della
qualifica di esperto comporti un intollerabile aggravamento
del procedimento selettivo già nella fase della formazione
dell’organo tecnico chiamato a operare le valutazioni sui
titoli e le prove d’esame dei candidati (Cons.
St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5137).
(2) Ha chiarito il Tar che se così fosse, infatti, dovrebbe
immaginarsi che le eventuali dichiarazioni di astensione dei
commissari intervengano dopo la predisposizione delle prove
scritte e il loro espletamento, il che è contrario a ogni
regola di ragionevolezza ed economicità dell’azione
amministrativa, oltre che incompatibile con la sequenza
temporale delle operazioni delineata dall’art. 11, d.P.R.
09.05.1994, n. 487 (la visione dell’elenco dei partecipanti
da parte della commissione e la verifica delle
incompatibilità precedono la preparazione delle tracce per
le prove scritte).
(3)
Cons. St., sez. VI, 30.06.2017, n. 3206 (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 12.09.2017 n. 1060
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità (c.d.
sanatoria) non incide sulla legittimità della previa
ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente
l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego.
---------------
Va premessa la differente natura
dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di
accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla
domanda di condono
edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e
n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis
applicabile al caso che ci occupa) e che, nella
prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a
sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “dalla presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze
della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due
procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e
quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non
solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono
edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione
sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l'accertamento ex post della conformità
dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione
formale)".
Per tali osservazioni alla fattispecie
dell'accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della
legge n. 326 del 2003", poiché, come anche precisato, "A
seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex
art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di
demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine
occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella
contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con
riferimento alle domande di condono edilizio; ...".
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull'erroneità
della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria
formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un
nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché
l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare
un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo
termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è
formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare
applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla
base di una disciplina preesistente", per cui
"Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego”.
---------------
6.2. Del pari infondato è il secondo motivo di
gravame.
Il Collegio intende aderire all’orientamento, anche di
recente riaffermato da questo Consiglio di Stato, secondo
cui “L'istanza di accertamento di conformità (c.d.
sanatoria) non incide sulla legittimità della previa
ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente
l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Va premessa, a tal riguardo, la differente natura
dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di
accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla
domanda di condono
edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e
n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis
applicabile al caso che ci occupa) e che, nella
prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a
sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il
Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per
discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze
della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due
procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e
quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non
solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono
edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione
sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l'accertamento ex post della conformità
dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione
formale)" (TAR Lazio, sez. I-quater, 11.01.2011, n.
124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR
Campania Napoli, sez. VI, 03.09.2010, n. 17282 in
quest'ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie
dell'accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della
legge n. 326 del 2003" (Tar Lazio, sez. I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, "A
seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex
art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia
l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché
a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa,
come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985
con riferimento alle domande di condono edilizio; ..." (Tar
Lazio, sez. I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione,
con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull'erroneità
della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria
formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un
nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché
l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare
un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo
termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è
formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare
applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla
base di una disciplina preesistente", per cui
"Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n.
466).
Ciò premesso, nella vicenda in esame si rileva che:
l'ordinanza di demolizione è stata impugnata anteriormente
alla presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità; nel corso del giudizio si è formato il
silenzio-rigetto sull'istanza di sanatoria, di cui non
risulta –o almeno di ciò l’appellante non ha fornito la
prova– esservi stata impugnazione; all’esito di tutto ciò
l'ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.09.2017 n. 4269 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È pacifico, nella giurisprudenza amministrativa,
che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla
sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di
parte.
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata
delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi,
anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la
possibilità di apporti partecipativi dei soggetti
interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della
relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies,
comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato
preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti
vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le
considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare
provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa
l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo
urbanistico e paesaggistico.
---------------
6.3. Del tutto infondato si rivela, altresì, l’ultimo motivo
di impugnazione teso a censurare il vizio di motivazione, di
istruttoria, nonché la mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento e della comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza.
Dai documenti versati agli atti –contrariamente a quanto
prospettato dall’appellante- si evince che
l’amministrazione ha puntualmente ottemperato all’obbligo di
motivazione del provvedimento, dando conto delle ragioni che
hanno condotto al diniego dell’istanza di condono e
all’ordine di demolizione: l’essere, le opere (di rilevanti
dimensioni e con forte impatto sul paesaggio), state
realizzate in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione
paesaggistica, in assoluto contrasto con lo strumento
urbanistico vigente e con i vincoli paesaggistici imposti
dal piano e con decreto ministeriale.
È poi pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i
provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla
sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di
parte (ci si limita a riportare l’ultimo precedente
specifico in argomento: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2017, n. 2065).
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata
delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi,
anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la
possibilità di apporti partecipativi dei soggetti
interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della
relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del
successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l.
n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non
produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come
nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non
avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in
concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle
opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.
7. L’appello, pertanto, per le suesposte considerazioni, non
merita accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.09.2017 n. 4269 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto
Pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
----------------
6. È infondato il motivo sub b).
“L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai
legittimare” (Cons. Stato, V, 11.06.2013, n. 3235)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ove
una determinazione (amministrativa o giurisdizionale) di
segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni,
ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo
autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista
alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento
----------------
7. “Ove una determinazione (amministrativa o
giurisdizionale) di segno negativo si fondi su una pluralità
di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a
supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una
sola di esse resista alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso
resti esente dall’annullamento” (Consiglio di Stato,
sez. V, 31/03/2016, n. 1274)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
RIFIUTI - Competenza del sindaco ad emanare le
ordinanze in materia di rimozione di rifiuti - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Individuazione delle competenze tra
Sindaco e Dirigente - Principio di specialità -
Giurisprudenza - Art. 192 d.lgs. 152/2006 - Codice
ambientale.
L’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una
disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107,
comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce
espressamente al Sindaco la competenza a disporre con
ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La
disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V,
29/08/2012, n. 4635; id., 12/06/2009, n. 3765; id.,
10/03/2009, n. 1296; id., 25/08/2008, n. 4061).
Sicché, il principio di specialità, prevale sul principio
ordinario di successione cronologica delle norme, le
disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione delle
precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la
stessa materia in un campo particolare. (Consiglio, Sez. VI,
sentenza n. 1199 del 23/3/2016).
In definitiva, la volontà del legislatore va ricostruita nel
senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le
ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14
d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche
successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.08.2000,
n. 267 (TUEL) e fino all’entrata in vigore del il decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152 (codice ambientale), che ha
ribadito tale competenza (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 06.09.2017 n. 4230
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
soppalco costituito da una struttura in legno della
superficie di 12 m² circa, impostato ad un’altezza di 2 m 80
dal piano di calpestio del 3º piano, soppalco avente una
altezza variabile da 1 m 80 a 2 m 10 rispetto al sottotetto.
La realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito
degli interventi di restauro o risanamento conservativo ma
nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia,
qualora determini una modifica della superficie utile
dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico
urbanistico.
In linea generale, la realizzazione di un soppalco può
ritenersi rientrare, per le sue limitate caratteristiche di
estensione, nel concetto di restauro o risanamento
conservativo solo quando sia di modeste dimensioni, anche
avuto riguardo alla sua altezza, in modo tale da escludere
la possibilità di creare un ambiente abitativo e quindi ad
incrementare le superfici residenziali o il carico
urbanistico.
---------------
Nella fattispecie si deve ritenere che il soppalco
costituisca un vero e proprio ambiente, per le sue
dimensioni rilevanti, tale da configurare un nuovo vano; il
conseguente incremento della superficie abitativa avrebbe
quindi richiesto, per la realizzazione di esso, un titolo
abilitativo che nella fattispecie manca.
Pertanto, deve ritenersi legittima l’ordinanza di
demolizione del soppalco abusivamente realizzato, essendo
irrilevante la preesistenza di esso e tenuto conto che
l’articolo 9 della legge numero 47 del 1985, disciplinante
la fattispecie all’epoca dei fatti controversi, disponeva la
demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia
eseguite in assenza di concessione.
---------------
... per l'annullamento della D.D. n. 2457 del 09.10.2000 di
demolizione o rimozione di opere abusive;
...
Con il provvedimento impugnato è ordinata, nei confronti
della ricorrente, la rimozione o demolizione delle opere
eseguite all’interno dell’appartamento, consistenti in un
soppalco costituito da una struttura in legno della
superficie di 12 m² circa, impostato ad un’altezza di 2 m 80
dal piano di calpestio del 3º piano, soppalco avente una
altezza variabile da 1 m 80 a 2 m 10 rispetto al sottotetto,
al quale si accede a mezzo di una scala in legno; è stata
inoltre accertata la suddivisione di un preesistente bagno
per la realizzazione di 2 nuovi bagni e la chiusura di un
vano porta di 2 m per 1 m al pianterreno.
Avverso il provvedimento impugnato, la ricorrente deduce,
con il primo motivo, il vizio di violazione della
legge.
A suo avviso, essendo stata presentata una denuncia di
inizio attività per manutenzione ordinaria nel mese di
febbraio 2000, non sarebbe stato necessario alcun altro
titolo abilitativo; i lavori eseguiti avrebbero riguardato
esclusivamente opere interne, senza aumenti di superficie o
variazioni della destinazione d’uso e le opere non sarebbero
in contrasto con le norme urbanistiche; si tratterebbe,
inoltre, di un soppalco preesistente, come risulterebbe
dalla relazione tecnica del perito di parte, allegata al
ricorso; la ricorrente, quindi, avrebbe eseguito nel solaio
interventi di consolidamento per l’appoggio dei laterali e
del tavolato costituente il soppalco, per cui non sarebbe
stata necessaria alcuna concessione edilizia; anche la
realizzazione di 2 bagni, avvenuta mediante la suddivisione
del bagno preesistente, così come la chiusura di un vano
porta di 2 m di altezza e 1 m di larghezza al pianterreno,
sarebbero opere esclusivamente interne; per tutti i lavori,
quindi, sarebbe stata sufficiente la preventiva
comunicazione dell’inizio attività, eseguita dalla
ricorrente nel mese di febbraio del 2000; anche il
procedimento sarebbe illegittimo non essendo mai stato
disposto l’ordine di non eseguire le trasformazioni; se pure
si trattasse di manutenzione straordinaria, il rinnovo di
parti già esistenti dell’immobile sarebbe stato sottoposto
esclusivamente ad autorizzazione gratuita.
A giudizio del Collegio, le censure della ricorrente sono
solo parzialmente fondate.
Per costante giurisprudenza (cfr. TAR Napoli, sez. IV,
27.03.2017 n. 1668) la realizzazione di un soppalco non
rientra nell'ambito degli interventi di restauro o
risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di
ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica
della superficie utile dell'appartamento, con conseguente
aggravio del carico urbanistico (Cfr. anche TAR Campania,
Napoli, sez. II, 26.09.2016, n. 4433; TAR Sardegna, sez. II,
23.09.2011 n. 952; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
11.07.2011 n. 1863; TAR Campania, Napoli, sez. II,
21.03.2011 n. 1586).
In linea generale, la realizzazione di un soppalco può
ritenersi rientrare, per le sue limitate caratteristiche di
estensione, nel concetto di restauro o risanamento
conservativo solo quando sia di modeste dimensioni, anche
avuto riguardo alla sua altezza, in modo tale da escludere
la possibilità di creare un ambiente abitativo e quindi ad
incrementare le superfici residenziali o il carico
urbanistico (TAR Napoli, sez. IV, 02.03.2017 n. 1220; Cfr.
anche TAR Lazio, Roma, 17.05.1996 n. 962; TAR Lazio, Roma,
15.07.1997 n. 1161).
Nella fattispecie si deve ritenere che il soppalco
costituisca un vero e proprio ambiente, per le sue
dimensioni rilevanti, tale da configurare un nuovo vano; il
conseguente incremento della superficie abitativa avrebbe
quindi richiesto, per la realizzazione di esso, un titolo
abilitativo che nella fattispecie manca.
Pertanto, deve ritenersi legittima l’ordinanza di
demolizione del soppalco abusivamente realizzato, essendo
irrilevante la preesistenza di esso e tenuto conto che
l’articolo 9 della legge numero 47 del 1985, disciplinante
la fattispecie all’epoca dei fatti controversi, disponeva la
demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia
eseguite in assenza di concessione.
La denuncia di inizio attività presentata dalla ricorrente
nel 2000 non può costituire titolo abilitativo alla
realizzazione del soppalco essendo riferita esclusivamente
alla manutenzione strutturale dello stesso e non alla
realizzazione di esso.
Diversamente si deve ritenere per quanto concerne la
suddivisione del bagno preesistente in due nuovi bagni e la
chiusura di una porta, trattandosi di opere di manutenzione
straordinaria, ad esclusiva rilevanza interna, per le quali
non è configurabile la fattispecie della ristrutturazione
edilizia.
Ne consegue che il provvedimento impugnato è illegittimo
nella misura in cui non si limita ad ordinare la demolizione
del soppalco abusivo ma estende la portata dell’ingiunzione
ripristinatoria anche alle opere interne rientranti
sicuramente nell’ambito della categoria della manutenzione
straordinaria.
Il primo motivo di ricorso, quindi, è solo in parte fondato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: All'accertamento
dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato
l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige
né una speciale motivazione sull'interesse pubblico.
---------------
Non è consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di
legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per
vizi di merito.
---------------
Con il 2º motivo, la ricorrente deduce il difetto di
motivazione dell’ordinanza di demolizione, per carente
individuazione dell’interesse pubblico.
Il motivo è palesemente infondato perché all'accertamento
dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato
l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige
né una speciale motivazione sull'interesse pubblico (che è
in re ipsa), né la comparazione con quello del
privato (giurisprudenza pacifica, ex multis TAR
Piemonte, sez. I, 16.03.2017 n. 376).
Con il 3º motivo la ricorrente lamenta la
inopportunità del provvedimento impugnato trattandosi di
opere modestissime senza alcuna incidenza sul piano
urbanistico.
Il motivo è inammissibile non essendo consentito,
nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare
i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto solo in parte
e, per l’effetto, il provvedimento impugnato deve essere
annullato nella parte in cui estende l’efficacia dell’ordine
di demolizione anche alle opere estranee alla categoria
edilizia della ristrutturazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
requisiti della certificazione di agibilità di un edificio
sono, per unanime giurisprudenza, da rinvenire nella
verifica sulla salubrità dell'edificio, posto che il
rilascio o il diniego devono essere basati su ragioni
prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario ed è
altresì previsto che l'agibilità presupponga che si tratti
di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al
progetto approvato.
A fronte di un'istanza con la quale il titolare di una
concessione edilizia, ultimati i lavori, chiede rilasciarsi
l'attestazione di abitabilità dei locali, il Comune esercita
un potere vincolato ai presupposti di legge, da accertarsi
con le dovute cautele tecniche, ma che non può essere
ritardato, dilazionato o condizionato a fattori diversi
dalla conformità del manufatto realizzato al progetto
assentito ed alle regole della tecnica edilizia.
Il comune è tenuto, per unanime giurisprudenza, a verificare
l'osservanza non solo delle disposizioni in materia
sanitaria ma anche quelle previste da altre disposizioni di
legge in materia di abitabilità e servizi essenziali e
rispettiva normativa tecnica: se pertanto è legittimo il
diniego di abitabilità opposto dall'amministrazione in
considerazione delle deficienze igienico-sanitarie
riscontrate nei locali altrettanto non può dirsi qualora il
diniego trovi il proprio fondamento nell’inadempimento di
obblighi cui il privato interessato si era convenzionalmente
obbligato al momento di ottenere il titolo edilizio.
---------------
... per l'annullamento nota del comune di bastia umbra p.
12002 del 06.05.2010 con la quale si nega il rilascio
dell'agibilità parziale di un immobile.
...
4. Il ricorso è fondato nei limiti che si darà.
4.1. I requisiti della certificazione di agibilità di un
edificio sono, per unanime giurisprudenza, da rinvenire
nella verifica sulla salubrità dell'edificio, posto che il
rilascio o il diniego devono essere basati su ragioni
prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario ed è
altresì previsto che l'agibilità presupponga che si tratti
di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al
progetto approvato (TAR Catania, I, 31/10/2008, n. 1898).
4.2. A fronte di un'istanza con la quale il titolare di una
concessione edilizia, ultimati i lavori, chiede rilasciarsi
l'attestazione di abitabilità dei locali, il Comune esercita
un potere vincolato ai presupposti di legge, da accertarsi
con le dovute cautele tecniche, ma che non può essere
ritardato, dilazionato o condizionato a fattori diversi
dalla conformità del manufatto realizzato al progetto
assentito ed alle regole della tecnica edilizia.
4.3. Secondo l’art. 29, L.R. Umbria n. 1/2004, il
certificato di agibilità attesta che l'opera realizzata
corrisponde al progetto comunque assentito, dal punto di
vista dimensionale, della destinazione d'uso e delle
eventuali prescrizioni contenute nel titolo abilitativo o
negli atti di assenso o autorizzazioni rilasciate, nonché
attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità degli edifici, di risparmio energetico e
di sicurezza degli impianti negli stessi installati,
valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
5. Nella nota n. 12002 del 06/05/2010, il Comune rilevava
che “la pratica per rilascio del certificato di
agibilità, benché comprendere certificazioni necessarie,
presuppone comunque una verifica generale sulla legittimità
dell’intervento nel suo complesso … a tale proposito
quest’ufficio non potrebbe reputare regolare l’intervento,
mancando l’assolvimento di una condizione prevista dalle
stesse N.T.A. del piano che determina la possibilità di
assorbire anche il carico urbanistico prodotto
dall’intervento stesso”.
5.1. A chiosa della nota, l’Ufficio “rinnova pertanto
l’invito alla cessione onde rendere regolare la pratica e
definirla in ogni aspetto, tenuto conto che, nel medesimo
contesto, lo stesso Ufficio rilevava la piena legittimità ed
opportunità delle richiesta formulata alla proprietà di
cedere le aree destinate ad urbanizzazione così come
previsto dal P.P.E. vigente e come ben noto ai proprietari
stessi”.
5.2. Il comune è tenuto, per unanime giurisprudenza, a
verificare l'osservanza non solo delle disposizioni in
materia sanitaria ma anche quelle previste da altre
disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi
essenziali e rispettiva normativa tecnica: se pertanto è
legittimo il diniego di abitabilità opposto
dall'amministrazione in considerazione delle deficienze
igienico-sanitarie riscontrate nei locali (Cons. St., sez.
V, 15/04/2004, n. 2140) altrettanto non può dirsi qualora il
diniego trovi il proprio fondamento nell’inadempimento di
obblighi cui il privato interessato si era convenzionalmente
obbligato al momento di ottenere il titolo edilizio.
6. Per queste ragioni il diniego come tale è illegittimo e
deve essere annullato anche se l’inadempimento del
ricorrente agli oneri convenzionalmente assunti priva di
fondamento la domanda risarcitoria dei pregiudizi sofferti
per l’incommerciabilità da mancato rilascio del certificato
di abitabilità trovando, sul piano privatistico totale
applicazione la regola riassunto nel brocardo “inadimplenti
non est adimplendum”
(TAR Umbria,
sentenza 04.09.2017 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
AVVOCATI degli Enti Pubblici - Verifica delle
presenze e controllo del personale dipendente di Uffici
pubblici - PUBBLICO IMPIEGO - Uso di badge e tessere
magnetiche.
Le prerogative di autonomia ed indipendenza, nei termini
riconosciuti dalla legge di ordinamento professionale agli
avvocati degli enti pubblici, non sono lese da ordini di
servizio riconducibili alla verifica funzionale del rispetto
degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei
confronti della persona giuridica pubblica datrice di
lavoro, che obbligano anche l’avvocato iscritto all’elenco
speciale (Cons. Stato, sez. V, 07/01/2016, n. 2434).
Pertanto, con tali provvedimenti (in specie uso di badge e
tessere magnetiche) non si realizza una “indebita
ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione
d’opera intellettuale propria della professione forense, e
cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari
legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del
2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme di
controllo estrinseco, doverose e coerenti con la
partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico
all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.08.2017 n. 1368
- link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza ha già avuto modo di affrontare (con
conclusioni dalle quali non si ravvisano ragioni per
discostarsi nella disamina del caso di specie) la questione
relativa alla legittimità di misure di matrice regolamentare
ed organizzativa preordinate alla verifica delle presenze
(segnatamente, attraverso l’uso e il controllo di badge e
tessere magnetiche) del personale dipendente di Uffici
pubblici che eserciti, iscritto all’apposito albo speciale
conservato presso il locale Consiglio dell’ordine, le
funzioni di avvocato (c.d. pubblico).
In tale occasione, ha puntualizzato, in termini generali,
che le prerogative di autonomia ed indipendenza, nei termini
riconosciuti dalla legge di ordinamento professionale agli
avvocati degli enti pubblici, non sono lese da ordini di
servizio riconducibili alla verifica funzionale del rispetto
degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei
confronti della persona giuridica pubblica datrice di
lavoro, che obbligano anche l’avvocato iscritto all’elenco
speciale.
Pertanto, con tali provvedimenti non si realizza una
“indebita ingerenza” nell’esercizio intrinseco della
prestazione d’opera intellettuale propria della professione
forense, e cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli
affari legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247
del 2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme
di controllo estrinseco, doverose e coerenti con la
partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico
all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso.
In effetti, l’art. 23 della richiamata legge professionale,
di cui i ricorrenti lamentano la violazione, riferisce «la
piena indipendenza ed autonomia» soltanto alla ridetta
«trattazione esclusiva e stabile degli affari legali
dell'ente» e non trasforma affatto, ex lege, l’inerente
ufficio in un organo distinto e, comunque, autonomo dal
resto dell’ente. Con il che, in definitiva, le predisposte
misure organizzative non palesano alcuna incompatibilità con
le caratteristiche di autonomia nella conduzione
professionale dell’ufficio di avvocatura.
Sotto distinto e concorrente profilo, è del tutto evidente
che la programmatica strutturazione di verifiche e controlli
sull’attività lavorativa del personale non implica affatto
che le peculiarità delle funzioni e delle mansioni
esercitate (segnatamente inerenti l’assenza di orari di
lavoro prestabiliti e la maggiore autonomia
nell’organizzazione dei tempi) possano essere compromesse,
limitate o addirittura pretermesse: e ciò in quanto
l’attività di controllo e verifica, per sua natura
strumentale, deve essere comunque esercitata e valorizzata
in considerazione dei profili professionali volta a volta
presi in considerazione (ciò che, di fatto, vale anche ad
elidere le ragioni di doglianza prospettate in via
subordinata, essendo –per l’appunto– evidente che gli
auspicati “adattamenti” e/o “correttivi” non riguardano il
controllo delle presenze e l’utilizzazione del badge in sé e
per sé, ma solo le successive attività amministrative intese
alla gestione delle singole e differenziate categorie di
personale, ivi compresa, nei sensi chiariti, quella degli
avvocati dell’ente).
---------------
... per l'annullamento della nota prot. pg/2016/148770 del
06/07/2016 a firma del Direttore della Funzione Gestione del
Personale della A.S.L. di Salerno avente ad oggetto “consegna
badge avvocati dirigenti - obbligo di marcatura";
...
1.- I ricorrenti, tutti nella allegata qualità di
avvocati-dirigenti in servizio presso l'ASL di Salerno,
impugnavano la determinazione, meglio distinta in epigrafe,
con la quale l'Amministrazione sanitaria, sulla base del
decreto regionale n. 7 del 11.02.2016 recante “Linee di
indirizzo per la determinazione dei fondi contrattuali
dell'armo 2015 e seguenti e sulla corretta applicazione di
alcuni istituti contrattuali aventi rilevanza sui costi del
personale", aveva inteso dare attuazione alla previsione
regionale.
Lamentavano, in particolare, che l'Azienda sanitaria, con
nota prot. PG/2016/148770 del 06.07.2016 a firma del
Responsabile del Personale, avesse consegnato i tesserini
magnetici anche agli avvocati-dirigenti, ribadendo l'obbligo
di marcatura, pena l'adozione di misure disciplinari,
asseritamente ignorando il particolare status dei legali e
le peculiari modalità con le quali veniva svolta la
prestazione lavorativa nell'interesse dell'Ente.
Prospettando plurime violazioni di legge ed eccesso di
potere, ribadivano, a sostegno del proposto gravame, che la
peculiarità dello status degli avvocati dipendenti degli
Enti pubblici appariva, a loro dire, incompatibile con
l'utilizzo acritico ed indiscriminato del sistema di
rilevazione delle presenze, il quale avrebbe di fatto
inevitabilmente comportato una implausibile limitazione dei
profili di autonomia professionale e di indipendenza
indiscutibilmente riconosciuti dal vigente ordinamento
(anche) agli avvocati dipendenti delle amministrazioni.
Segnatamente, spiegavano che la propria attività
professionale di avvocati pubblici (per giunta, nel caso di
specie, dotati di qualifica dirigenziale e, come tale, senza
soggezione al vincolo orario) si svolgeva in larga parte al
di fuori dell' ufficio, con la partecipazione alle udienze
presso le diverse sedi giudiziarie e con le altre attività
procuratorie, con orari non preventivabili né prevedibili;
peraltro, anche l'attività svolta all'interno dell'ufficio,
essendo legata a scadenze processuali, poteva in alcuni
periodi, a causa del sovraccarico di lavoro (o di
procedimenti cautelari), richiedere un prolungamento
dell'orario di servizio oltre le ore 20,00 (orario di
chiusura) o il sabato dopo le 12,00 o la domenica ( quando
gli uffici erano chiusi e non utilizzabili): in tali ipotesi
(e non solo) i ricorrenti avevano dichiaratamente svolto (e
svolgevano tuttora) la loro attività professionale relativa
alla redazione di atti presso le loro abitazioni, al fine di
non incorrere in responsabilità professionale e/o in
ritardi, decadenze e omissioni colpevoli.
Criticamente assumevano, quindi, che, nel descritto
contesto, le modalità di svolgimento dell'attività
professionale alle dipendenze dell'Azienda sanitaria si
palesavano, di fatto, assolutamente incompatibili con il
sistema automatico fondato sull'uso generalizzato del badge,
così come inopinatamente regolamentato (senza i necessari
distinguo) per tutti i dipendenti dell'Azienda sanitaria, ai
quali erano stati equiparati i dirigenti avvocati.
Di fatto, in base al contestato regolamento contenuto nella
nota prot. n. 159132 del 20/07/16, essi avrebbero dovuto
tutti utilizzare il badge oltre che quotidianamente in
entrata ed in uscita, anche tutte le volte che si fossero
recati presso le sedi giudiziarie (utilizzando il codice I
del servizio esterno in entrata ed in uscita e sempre
previamente autorizzati per iscritto dal Dirigente
Responsabile dell'Avvocatura). Inoltre, le autorizzazioni al
permesso esterno degli avvocati dirigenti avrebbero dovuto
essere conservate presso l'Ufficio legale, il quale avrebbe
avuto l’onere di esibirle su richiesta dei servizi ispettivi
interni, dell'Autorità Giudiziaria o della Funzione Gestione
del Personale.
Ancora, avrebbero dovuto utilizzare il codice I -servizio
esterno- anche presso la Struttura di destinazione (ossia
presso le sedi giudiziarie). E le copie delle autorizzazioni
al servizio esterno dei dirigenti avvocati con cadenza
giornaliera, unitamente ai nominativi degli assenti con le
relative motivazioni e l'elenco del personale in servizio
esterno per quella giornata avrebbero dovuto essere inviati
agli uffici rilevazione presenze i quali avrebbero
provveduto, a seguito delle citate comunicazioni -ed insieme
alle altre assenze del giorno- a caricare in tempo reale i
dati relativi al servizio esterno al fine di consentire agli
Uffici centrali ed ai dirigenti delle strutture interessate
di avere la situazione presenze/assenze aggiornata in ogni
momento.
In definitiva, nel loro complessivo assunto critico, la
descritta procedura doveva riguardarsi quale assolutamente
incompatibile con la natura della propria attività
professionale, risultando, altresì, lesiva della rivendicata
indipendenza ed autonomia professionale.
Nel quadro delineato, emergono, perciò, asseritamente palesi
il denunziato difetto di istruttoria e la decotta carenza di
motivazione alla base dei provvedimenti posti in essere
dall'Azienda sanitaria, che a loro dir si sarebbe
acriticamente limitata a recepire le previsioni regionali
che, ad un attento esame, avrebbero potuto e dovuto
riferirsi esclusivamente agli altri dipendenti dell’Ente (e,
in particolare, esclusivamente al personale medico e
sanitario).
Concludevano, per tal via, per l’integrale accoglimento del
gravame, con annullamento dei provvedimenti impugnati.
In via subordinata, invocavano in ogni caso l’annullamento
in parte qua, id est nella parte in cui
l'Amministrazione, in modo comunque asseritamente illogico
ed apodittico, non aveva previsto alcun correttivo e/o
diversa modalità di utilizzazione del badge, che tenesse
conto delle esigenze e della particolare natura
dell'attività professionale svolta dai ricorrenti.
...
1.- Il ricorso non è fondato e merita di essere respinto.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affrontare (con
conclusioni dalle quali non si ravvisano ragioni per
discostarsi nella disamina del caso di specie) la questione
–che viene sottoposta odiernamente all’attenzione del
Collegio– relativa alla legittimità di misure di matrice
regolamentare ed organizzativa preordinate alla verifica
delle presenze (segnatamente, attraverso l’uso e il
controllo di badge e tessere magnetiche) del personale
dipendente di Uffici pubblici che eserciti, iscritto
all’apposito albo speciale conservato presso il locale
Consiglio dell’ordine, le funzioni di avvocato (c.d.
pubblico).
In tale occasione, Cons. Stato, sez. V, 07.06.2016, n. 2434
ha puntualizzato, in termini generali, che le prerogative di
autonomia ed indipendenza, nei termini riconosciuti dalla
legge di ordinamento professionale agli avvocati degli enti
pubblici, non sono lese da ordini di servizio riconducibili
alla verifica funzionale del rispetto degli obblighi
lavorativi di diligenza e correttezza nei confronti della
persona giuridica pubblica datrice di lavoro, che obbligano
anche l’avvocato iscritto all’elenco speciale.
Pertanto, con tali provvedimenti non si realizza una “indebita
ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione
d’opera intellettuale propria della professione forense, e
cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari
legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del
2012, ma, semplicemente, si sottopone l’attività a forme di
controllo estrinseco, doverose e coerenti con la
partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico
all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso.
In effetti, l’art. 23 della richiamata legge professionale,
di cui i ricorrenti lamentano la violazione, riferisce «la
piena indipendenza ed autonomia» soltanto alla ridetta «trattazione
esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente» e non
trasforma affatto, ex lege, l’inerente ufficio in un
organo distinto e, comunque, autonomo dal resto dell’ente.
Con il che, in definitiva, le predisposte misure
organizzative non palesano alcuna incompatibilità con le
caratteristiche di autonomia nella conduzione professionale
dell’ufficio di avvocatura.
Sotto distinto e concorrente profilo, è del tutto evidente
che la programmatica strutturazione di verifiche e controlli
sull’attività lavorativa del personale non implica affatto
–come paventato dai ricorrenti– che le peculiarità delle
funzioni e delle mansioni esercitate (segnatamente inerenti
l’assenza di orari di lavoro prestabiliti e la maggiore
autonomia nell’organizzazione dei tempi) possano essere
compromesse, limitate o addirittura pretermesse: e ciò in
quanto l’attività di controllo e verifica, per sua natura
strumentale, deve essere comunque esercitata e valorizzata
in considerazione dei profili professionali volta a volta
presi in considerazione (ciò che, di fatto, vale anche ad
elidere le ragioni di doglianza prospettate in via
subordinata, essendo –per l’appunto– evidente che gli
auspicati “adattamenti” e/o “correttivi” non
riguardano il controllo delle presenze e l’utilizzazione del
badge in sé e per sé, ma solo le successive attività
amministrative intese alla gestione delle singole e
differenziate categorie di personale, ivi compresa, nei
sensi chiariti, quella degli avvocati dell’ente).
2.- Il complesso delle esposte ragioni induce, in
definitiva, alla complessiva reiezione del gravame
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.08.2017 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
dibatte sulla non automaticità della proroga del termine di
efficacia della concessione edilizia nell’ipotesi prevista
dall’art. 15, comma 2-bis, del D.P.R.
n. 380/2001 (comma inserito dall'art. 17, comma 1, lett. f),
n. 2), del decreto-legge 12.12.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164), secondo cui la «proroga dei termini per l'inizio e
l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i
lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative
dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi
poi infondate».
Invero, la norma deve essere letta alla luce della
consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che si
articola intorno a tre fondamentali statuizioni:
● con
la
prima, si afferma che in nessuna ipotesi i termini di
efficacia del permesso di costruire possono ritenersi
automaticamente sospesi;
● con
la seconda, si sostiene che è
sempre necessaria la presentazione, da parte
dell’interessato, di una formale istanza di proroga;
● con
la
terza, si ritiene sempre necessario il provvedimento
espresso di proroga anche se si tratta di attività vincolata
con effetti ex tunc.
Peraltro, deve rammentarsi che la medesima giurisprudenza ha
distinto l’ipotesi del sequestro penale del cantiere,
ritenendo che questo caso integri una automatica sospensione
del termine per l’esecuzione dei lavori oggetto del permesso
di costruire.
La norma del comma 2-bis dell’art. 15 cit., come introdotta
nel 2014, muove quindi dal descritto quadro
giurisprudenziale per chiarire testualmente che, nei casi in
cui l’iniziativa amministrativa o giudiziaria si riveli
infondata, come nella fattispecie, la proroga dei termini è
automatica.
--------------
... per l'annullamento del provvedimento del Responsabile
dell'Area Tecnico del Comune di Domus De Maria con il quale
è stato negato l'assenso alla ripresa dei lavori relativi
alla concessione edilizia n. 5/2008, rilasciata il
13.02.2008;
...
1. - Con il ricorso in esame, la società No. s.r.l.
riferisce di essere proprietaria di un'area sita nel
territorio del Comune di Domus de Maria, località Eden Rock,
sulla quale era in corso la realizzazione di 14 unità
abitative, in forza delle concessioni edilizie n. 5/2008 e
n. 20/2009, rilasciate dal Comune di Domus De Maria.
In data 07.07.2010, il relativo cantiere è stato sottoposto a
sequestro preventivo penale, poiché, secondo le
contestazioni mosse dalla Procura della Repubblica di
Cagliari, le opere in corso di realizzazione sarebbero state
abusive. Peraltro, con sentenza del Tribunale penale di
Cagliari del 02.10.2015, il legale rappresentante della No. s.r.l. è stato prosciolto essendosi estinto il
reato per intervenuta prescrizione.
Con ordinanza del
medesimo Tribunale, del 17.03.2016, l'area di cui sopra è
stata dissequestrata e, in data 05.05.2016, restituita
alla società.
2. - Con nota del 12.05.2016, la società No. –sul presupposto dell’intervenuto dissequestro del cantiere–
comunicava al Comune di Domus de Maria di voler riprendere i
lavori a partire dal 31 maggio successivo. Il Responsabile
dell'Area Tecnica, tuttavia, con la nota del 13.07.2016,
rendeva noto alla società «di non poter autorizzare la
ripresa dei lavori in quanto il piano di Lottizzazione Eden
Rock non sarebbe stato attuato validamente perché privo
della relativa convenzione e perché il calcolo della
volumetria relativo alla c.e. 5/08 non sarebbe stato
computato regolarmente».
...
Nel merito, conclude per il rigetto del ricorso.
5. - All’udienza pubblica del 14.06.2017, la causa è
stata trattenuta in decisione.
6. - L’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa
comunale si fonda sulla ritenuta non automaticità della
proroga del termine di efficacia della concessione edilizia
nell’ipotesi prevista dall’art. 15, comma 2-bis, del D.P.R.
n. 380/2001 (comma inserito dall'art. 17, comma 1, lett. f),
n. 2), del decreto-legge 12.12.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164), secondo cui la «proroga dei termini per l'inizio e
l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i
lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative
dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi
poi infondate».
La norma deve essere letta alla luce della
consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che si
articola intorno a tre fondamentali statuizioni: con
la
prima, si afferma che in nessuna ipotesi i termini di
efficacia del permesso di costruire possono ritenersi
automaticamente sospesi; con la seconda, si sostiene che è
sempre necessaria la presentazione, da parte
dell’interessato, di una formale istanza di proroga; con la
terza, si ritiene sempre necessario il provvedimento
espresso di proroga anche se si tratta di attività vincolata
con effetti ex tunc (per tutte, si veda Consiglio di Stato,
sez. IV, 23.02.2012, n. 974).
Peraltro, deve rammentarsi che la medesima giurisprudenza ha
distinto l’ipotesi del sequestro penale del cantiere,
ritenendo che questo caso integri una automatica sospensione
del termine per l’esecuzione dei lavori oggetto del permesso
di costruire (si veda Consiglio di Stato, Sez. V, 26.04.2005, n. 1895; III,
04.04.2013, n. 1870). Giurisprudenza
seguita sul punto anche da questo Tribunale (cfr. TAR
Sardegna, II, 01.03.2016, n. 195; II, 16.01.2017, n.
17).
La norma del comma 2-bis dell’art. 15 cit., come introdotta
nel 2014, muove quindi dal descritto quadro
giurisprudenziale per chiarire testualmente che, nei casi in
cui l’iniziativa amministrativa o giudiziaria si riveli
infondata, come nella fattispecie, la proroga dei termini è
automatica.
Applicando gli enunciati principi al caso di specie,
rammentato (in punto di fatto) che la prima concessione
edilizia è stata rilasciata il 13.02.2008 (e la
variante in corso d’opera l’11.05.2009); e che il
sequestro preventivo del cantiere ha imposto la sospensione
dei lavori dal 01.07.2010 al 05.05.2016, ne deriva
come conseguenza che all’epoca della comunicazione della
ricorrente di voler riprendere i lavori (12.05.2016) il
termine triennale per l’esecuzione non era ancora decorso.
Da quanto osservato, discende che la società ricorrente ha
interesse a ottenere l’annullamento della nota del
responsabile dell’area tecnica del Comune, di cui in
epigrafe, e a riprendere i lavori.
7. - Passando all’esame dei motivi proposti col ricorso, si
deve iniziare dalla dedotta violazione del principio della
esecutività dei provvedimenti amministrativi, la cui
efficacia giuridica non è impedita dalla eventuale
sussistenza di vizi di legittimità, salvo l’esercizio dei
poteri di autotutela che, nel caso di specie, non si è
verificato.
8. - Il motivo è manifestamente fondato.
Come si evince dalla motivazione del provvedimento
impugnato, riferita in fatto, la comunicazione di non poter
riprendere i lavori per completare gli interventi
autorizzati non si basa, in realtà, sulla intervenuta
scadenza del termine di efficacia della concessione edilizia
a suo tempo rilasciata, ma esclusivamente su considerazioni
attinenti alla validità del piano di lottizzazione “Eden
Rock” e della concessione edilizia.
Motivazione sicuramente illegittima, considerato che gli
atti amministrativi in questione non erano mai stati
annullati, né l’amministrazione comunale ha provveduto ad
avviare il necessario procedimento per l’annullamento
d’ufficio. Pertanto, si tratta di atti ancora efficaci
(secondo il pacifico principio della imperatività del
provvedimento amministrativo)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 30.08.2017 n. 569 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio non ignora il diffuso e persuasivo orientamento
per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi
formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241,
nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione
dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter
procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento,
specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza
conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi
recessivo nei casi in cui (trattandosi di contro-operare
rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla
sistemazione della copertura dei locali-deposito di
proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi
limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione
della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto
esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione
dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria,
poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le
verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente
valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con
l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.
---------------
FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito,
An. Di Do., come in atti rappresentata e difesa, premetteva
di essere proprietaria, nel centro urbano di Vallata (AV),
di un fabbricato ad uso abitazione (distinto in Catasto
Fabbricati al foglio 17, p.lla 130), con antistante un
deposito interrato (distinto in Catasto al foglio 17, p.lla
131), avente copertura a livello dell'area pubblica
limitrofa.
Detta copertura, praticabile ma non carrabile, assolveva ad
una duplice funzione: a) evitare infiltrazioni nel locale
deposito sottostante, realizzato con volte in pietra; b)
consentire il collegamento del fabbricato con la proprietà
pubblica.
Tanto premesso, esponeva che in data 05.11.2015, con nota
assunta al prot. n. 7031, aveva provveduto a dare
comunicazione all'Ente dell’esercizio di attività edilizia
libera, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.P.R. 380/2001 e
s.m.i., segnatamente esplicitando di voler realizzare
interventi di manutenzione ordinaria sulla sua proprietà,
consistenti in: a) sistemazione della pavimentazione
esterna; b) rappezzi di intonaco esterno; c) tinteggiatura
esterna.
Precisava che, a seguito di tale comunicazione, senza che il
Comune di Vallata sollevasse obiezioni di sorta, decorso un
congruo termine, aveva proceduto alla sostituzione della
pavimentazione ammalorata esistente sull'area antistante la
propria abitazione, apposta sulla copertura a livello del
suolo del sottostante locale deposito.
Peraltro, successivamente alla esecuzione dei lavori, in
data 07.01.2016, l'Ufficio Tecnico Comunale ed il Comando
Polizia Municipale, dichiaratamente a seguito di una
segnalazione privata, avevano effettuato un accertamento sui
luoghi, constatando l’apposizione, senza la prescritta
autorizzazione, di tre fioriere infisse sulla pavimentazione
tramite tasselli in ferro.
Ne era seguita la nota prot. n. 672 del 29.01.2016, con la
quale l'U.T.C. aveva sollecitato la rimozione delle fioriere
nonché successiva ordinanza –conseguente a vana
interlocuzione procedimentale– recante ingiunzione di
provvedere ad horas alla rimozione dei manufatti
de quibus, disattesa la quale il Comune aveva da,
ultimo, provveduto alla comminata esecuzione in danno.
L’intera vicenda era stata, in ogni caso, oggetto di
impugnativa dinanzi all’intestato Tribunale (con ricorso
rubricato al n. RG n. 872/2016).
Sennonché, con successiva nota prot. 2809 del 05.05.2016, l'U.T.C.
del Comune di Vallata aveva comunicato (contestualmente alla
partecipazione dell’avvenuta rimozione in danno delle
fioriere di cui si è detto) che, da una verifica più
approfondita in loco, si era riscontrato che ricorrente
avrebbe pavimentato parte del suolo pubblico per circa mq.
6,00, con conseguente diffida alla rimozione della
pavimentazione entro venti giorni.
La ricorrente aveva, peraltro, riscontrato la nota de qua,
criticamente evidenziando: a) che l'attività posta in essere
era consistita esclusivamente nella sostituzione della
pavimentazione preesistente, ormai dissestata, apposta su un
locale deposito di proprietà, costruito agli inizi del
secolo scorso; b) che la pavimentazione rispettava le
dimensioni e la giacitura di quella preesistente da tempo
immemorabile, senza che mai alcuno avesse avuto alcunché da
contestare; c) che l'area pavimentata era stata anche
delimitata, in maniera unilaterale, dal Comune di Vallata,
alcuni mesi prima, allorché l'Ente aveva proceduto alla
pavimentazione dell'adiacente area comunale e, pertanto, gli
spazi erano predeterminati senza possibilità di modifiche;
d) che qualsiasi presunta verifica effettuata
unilateralmente dal Comune doveva ritenersi arbitraria e
priva di efficacia.
Vane le riassunte rimostranze, in data 13.06.2016 le era
stata notificata l'ordinanza n. 23, prot. 3602 del
10.06.2016 del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di
Vallata, con la quale si ingiungeva “di demolire le opere
abusive descritte in premessa (presunta pavimentazione in
pietra bocciardata di parte di suolo pubblico per circa mq.
6,00) e di ripristinare lo stato dei luoghi a proprie cure e
spese, entro e non oltre il termine di giorni 60 dalla
notifica”.
Avverso tale, lesiva determinazione insorgeva, lamentandone
l’illegittimità sotto plurimo profilo.
2.- Il Comune di Vallata, benché ritualmente intimato, non
si costituiva in giudizio.
Alla pubblica udienza del 24.05.2017, sulle reiterate
conclusioni del difensore di parte ricorrente, la causa
veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto, nei
sensi delle considerazioni che seguono.
Osserva il Collegio che –tra le varie ed articolate ragioni
di doglianza (con le quali la ricorrente, in sostanza, mira
a contestare la correttezza, la completezza e l’esattezza
degli accertamenti e delle verifiche compiute
dall’Amministrazione nell’apprezzamento del ritenuto
sconfinamento della realizzata pavimentazione in area
pretesamente pubblica)– debba darsi prioritaria ed
assorbente considerazione a quella con la quale si lamenta
la pretermissione del necessario momento partecipativo,
essendo stata l’ordinanza impugnata notificata –all’esito
della mera comunicazione delle verifiche– senza la
prescritta comunicazione di avvio del relativo procedimento
e, soprattutto, senza l’effettiva partecipazione della
ricorrente (che pure aveva vanamente fatto istanza di
accesso endoprocedimentale agli atti istruttori
unilateralmente adottati dall’Amministrazione) alle
misurazioni ed ai riscontri assunti a presupposto della
contestata misura ingiuntiva.
In proposito, il Collegio, beninteso, non ignora il diffuso
e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della
dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies
l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati
all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie
abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio dell’iter procedimentale non produce
l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che
il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in
concreto adottato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI,
12.08.2016, n. 3620): tuttavia il ridetto canone
antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi –come
quello oggetto di controversia– in cui (trattandosi di
contro-operare rispetto ad una risalente situazione di
fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei
locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in
fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione
di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione
dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo
la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o
contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le
misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e
solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in
coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato
status quo ante.
I rilievi che precedono acquistano significato con
l’ulteriore osservazione che, alla luce delle attoree
doglianze, non emerge de plano che il contenuto della
contestata ordinanza (la quale si fonda, in fatto, sulla
riscontrata “invasione” della proprietà pretesamente
pubblica per soli 6 mq) fosse vincolato nel senso della
pedissequa ingiunzione ripristinatoria: e ciò proprio a
ragione delle obiettive difficoltà ed incertezze nella
misura degli effettivi sconfinamenti, che solo una verifica
congiunta, ed assunta in contraddittorio, avrebbe consentito
di ritenere validata da congruo apprezzamento istruttorio,
effettuato in presenza del soggetto concretamente
interessato.
Ne discende che il ricorso debba essere accolto, con
assorbente valorizzazione della argomentata regola
partecipativa, spettando all’Amministrazione, in prospettiva
conformativa, l’onere di procedere alla integrale
rinnovazione del procedimento, previa attivazione di
effettivo contraddittorio procedimentale con la ricorrente,
che dovrà prendere parte anche alle nuove verifiche
istruttorie.
2.- In tali sensi dovendosi accogliere il gravame (con
assorbimento di tutti gli altri motivi di doglianza
proposti), sussistono i presupposti –restando, allo stato,
impregiudicato l’apprezzamento del merito dei contestati
abusi– per dichiarare irripetibili (in difetto di
costituzione dell’Ente intimato) spese e competenze di lite,
fatto salvo il diritto al rimborso del contributo unificato
versato (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.08.2017 n. 1359 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ordinanza contingibile ed
urgente, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 e
per “lo
smontaggio e la rimozione della gru posizionata nel cortile
di cantiere” sul presupposto che non viene più utilizzata da
molto tempo e che -pertanto- non è giustificato il
mantenimento dell’impianto di cantiere, non essendovi alcun
indizio concreto della pericolosità della gru per
l’incolumità pubblica e per la sicurezza degli abitanti del
quartiere.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di Chieri
n. 49/2017 del 16.03.2017, avente ad oggetto l’eliminazione
del cantiere e lo smontaggio della gru in Chieri, via ... n.
10;
...
Premesso, in fatto:
- che il Comune di Chieri, con il provvedimento dirigenziale
qui impugnato, ha ordinato alla società ricorrente “lo
smontaggio e la rimozione della gru posizionata nel cortile
interno in via ... 10” entro novanta giorni;
- che l’ordinanza è motivata con riferimento alla
circostanza che la gru, installata in occasione
dell’esecuzione dei lavori di cui alla d.i.a. n. 788 del
1996, alla concessione edilizia n. 2 del 1997 ed al permesso
di costruire n. 479/2013 (per rifacimento del tetto,
risanamento del solaio, cambio di destinazione d’uso con
opere murarie, realizzazione di finestre), non viene più
utilizzata da molto tempo e che, pertanto, non è
giustificato il mantenimento dell’impianto di cantiere;
- che, nella premessa dell’ordinanza, viene richiamato
l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 nonché, in termini
generici, il titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 3
della legge n. 241 del 1990 e l’eccesso di potere sotto
molteplici profili;
- che il Comune di Chieri non si è costituito in giudizio e,
pur sollecitato a depositare una relazione sui fatti di
causa (con ordinanza di questa Sezione n. 776/2017), non ha
ottemperato all’ordine;
Ritenuto, in diritto:
- che il ricorso è manifestamente fondato;
- che la gru, secondo quanto affermato in ricorso, è
ininterrottamente presente in loco da almeno dieci anni, che
non risulta che la società titolare del cantiere ne abbia
trascurato la manutenzione, che il Comune non ne ha
accertato la pericolosità;
- che il provvedimento comunale è affetto da assoluta
carenza di motivazione, in relazione ai presupposti
richiesti per l’emissione di un’ordinanza contingibile e
urgente ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000,
non essendovi alcun indizio concreto della pericolosità
della gru per l’incolumità pubblica e per la sicurezza degli
abitanti del quartiere;
- che neppure l’ordinanza risulta giustificata mediante il
generico richiamo del titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001,
non trattandosi di opera edilizia tale da configurare un
abuso sanzionabile con l’ordine di rimozione;
- che, in ogni caso, la società ricorrente ha comunicato al
Comune di Chieri, con lettera protocollata in data
11.07.2017, il piano di lavoro per la rimozione delle lastre
d’amianto sul fabbricato situato in prossimità del cortile
di via ..., nell’ambito di un progetto di recupero per il
quale è stato richiesto al Comune il rilascio del permesso
di costruire e del nulla-osta paesaggistico;
- che resta salvo, in ogni caso, il potere del Comune di
vigilare sulla stabilità della gru e sulla corretta
manutenzione dell’impianto di cantiere, di cui è onerata la
società proprietaria;
Ritenuto, in conclusione, che il ricorso è fondato e va
accolto, con condanna del Comune di Chieri alla refusione
delle spese processuali nella misura indicata in dispositivo
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 24.08.2017 n. 1027 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Proprio in
riferimento alle procedure di evidenza pubblica e alla
posizione differenziata dell’aggiudicatario, ai fini
dell’applicazione delle garanzie partecipative di cui agli
articoli 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990, la
giurisprudenza ha più volte osservato che non sussiste la
violazione dell’articolo 7 cit. se all'interessato sia stata
comunque data aliunde
informazione dell'avvio del procedimento, con conseguente
possibilità di rappresentarvi le proprie valutazioni; ciò in quanto
l’invocata disposizione non deve essere interpretata ed
applicata in modo formalistico, ma con riferimento alla sua ratio, di assicurare la partecipazione del privato
interessato al procedimento amministrativo, con la
conseguenza che l'eventuale omissione dell'adempimento non
determina illegittimità dell'azione amministrativa, laddove
il destinatario abbia avuto, comunque e aliunde, conoscenza
del procedimento in corso, con conseguente possibilità di
parteciparvi.
D’altra parte, tale interpretazione è coerente con la
finalità sostanziale di tali norme, finalizzata
all'emanazione di un provvedimento "giusto" e cioè
conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97
Cost., così che alla loro violazione (o omissione) non
consegue necessariamente l'illegittimità del provvedimento
emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso,
anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche
quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano
elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci
che quella violazione o omissione non ha consentito la
completa emersione degli interessi privati in conflitto ed
il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento
del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso
con i propri effetti il provvedimento amministrativo.
Inoltre, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata ad una adeguata motivazione circa
la natura e la gravità delle anomalie verificatesi.
---------------
Allorquando il provvedimento di
autotutela è fondato sulla necessità di prevenire
ingiustificati esborsi di denaro pubblico tale circostanza
esclude in radice la configurabilità della tutela
dell’affidamento del privato.
---------------
17. Come detto
(§10.2.), il primo giudice, nel verificare in concreto il
potere di autotutela esercitato, ha ritenuto sussistenti
tutti gli altri presupposti previsti; le relative
statuizioni sono state censurate con i motivi di appello dal
quinto all’ottavo.
17.1. Innanzitutto, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata alla comunicazione di avvio del
procedimento.
17.1.1. Il primo giudice ha ritenuto sussistente tale
requisito sulla base di due argomentazioni: a) l’avvio del
procedimento di autotutela coincide con gli atti conosciuti
ed impugnati con il ricorso principale, contenenti il primo
la sospensione dell’ultima delibera della procedura, il
secondo una mozione di indirizzo per procedere alla verifica
in autotutela; b) comunque, i provvedimenti adottati non
avrebbero potuto essere differenti, come risulta chiaro
dalle plurime illegittimità rilevate.
17.1.2. Il giudice ha fatto corretta applicazione di
principi consolidati nella giurisprudenza, e non ha alcun
pregio la tesi dell’impresa appellante (ottavo motivo),
secondo la quale la comunicazione non potrebbe identificarsi
con gli atti impugnati con il ricorso principale, quantomeno
per la mancanza di identità tra l’oggetto e le motivazioni
alla base del provvedimento di sospensione e quelli di
annullamento.
17.1.3. Infatti, proprio in riferimento alle procedure di
evidenza pubblica e alla posizione differenziata
dell’aggiudicatario, ai fini dell’applicazione delle
garanzie partecipative di cui agli articoli 7 e seguenti
della legge n. 241 del 1990, la giurisprudenza ha più volte
osservato che non sussiste la violazione dell’articolo 7
cit. se all'interessato sia stata comunque data aliunde
informazione dell'avvio del procedimento, con conseguente
possibilità di rappresentarvi le proprie valutazioni (Cons.
Stato, sez. V, n. 5032 del 2011; sez. VI, n. 1476 del 2011;
n. 7607 del 2009; sez. IV, n. 1207 del 2009); ciò in quanto
l’invocata disposizione non deve essere interpretata ed
applicata in modo formalistico, ma con riferimento alla sua
ratio, di assicurare la partecipazione del privato
interessato al procedimento amministrativo, con la
conseguenza che l'eventuale omissione dell'adempimento non
determina illegittimità dell'azione amministrativa, laddove
il destinatario abbia avuto, comunque e aliunde, conoscenza
del procedimento in corso, con conseguente possibilità di
parteciparvi.
D’altra parte, tale interpretazione è coerente con la
finalità sostanziale di tali norme, finalizzata
all'emanazione di un provvedimento "giusto" e cioè
conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97
Cost., così che alla loro violazione (o omissione) non
consegue necessariamente l'illegittimità del provvedimento
emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso,
anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche
quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano
elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci
che quella violazione o omissione non ha consentito la
completa emersione degli interessi privati in conflitto ed
il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento
del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso
con i propri effetti il provvedimento amministrativo (Cons.
Stato, sez. V, n. 5863 del 2015).
17.2. Inoltre, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata ad una adeguata motivazione circa
la natura e la gravità delle anomalie verificatesi.
17.2.1. Il primo giudice, in più occasioni nel corpo della
sentenza, ha dato atto correttamente che le illegittimità
acclarate dei provvedimenti annullati risultavano anche dai
provvedimenti di annullamento emessi in autotutela. In
particolare, in riferimento ad una specifica censura
dell’originaria ricorrente, ha precisato che non sussiste
l’obbligo dell’amministrazione di richiedere il parere di
altre amministrazioni, nella specie la Provincia, o di
legali esterni, rientrando l’atto di autotutela nelle
competenze specifiche del Comune.
Tanto più questo è vero allorquando il provvedimento di
autotutela è fondato, come nel caso di specie, sulla
necessità di prevenire ingiustificati esborsi di denaro
pubblico, circostanza questa che esclude in radice la
configurabilità della tutela dell’affidamento del privato
(cfr. sul punto, proprio con riferimento all’autoannullamento
di un bando di ERS, Cons. Stato, sez. V, n. 5862 del 2015
cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la costruzione di un manufatto costituito da una
struttura lignea di sostegno a un pergolato realizzata su
pianta di m. 4,93 x 2,53, non ancorata al suolo, e dotata di
una copertura in lastre e cannette anche queste amovibili
poiché solo appoggiate.
Il manufatto oggetto di contestazione è
un pergolato adibito all’arredo di uno spazio esterno
completamente aperto sui lati e dotato di una copertura
amovibile pertanto, sotto un primo profilo, rientra nelle
illustrate tipologie di interventi liberalizzati ai sensi
dell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001.
La posizione espressa trova conferma nella più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha ritenuto la
legittimità di simili manufatti aventi struttura in legno ad
uso pergolato aperta su più lati ed avente una copertura
amovibile poiché inidonee a costituire volume urbanistico.
---------------
A seguito di sopralluogo eseguito in data 03.08.2010,
personale del Comune di Lugagnano Val d’Arda (di seguito
Comune) rilevava nell’area di pertinenza dell’abitazione del
ricorrente la presenza di “una struttura lignea fissata
al suolo in maniera non permanente con caratteristiche di
elemento di sostegno per un pergolato, ma dotata di
copertura di lastre e cannette”.
Con ordinanza n. 41 del 09.08.2010 l’Amministrazione
ordinava l’immediata sospensione dei lavori “al fine di
poter adottare i provvedimenti definitivi” e, ritenendo
che la descritta copertura, ancorché “di materiale
totalmente amovibile”, facesse “perdere le
caratteristiche di elemento di arredo alla struttura,
assimilandola a una struttura edilizia soggetta al rispetto
delle distanze dai confini di proprietà e agli altri
parametri urbanistici e edilizi”, con successivo
provvedimento dirigenziale n. 5 del 22.02.2012, irrogava al
ricorrente proprietario la sanzione pecuniaria ex art. 16
della L.R. n. 23/2004 nella misura di € 9.152,00.
...
L’odierna controversia verte sulla qualificazione di un
manufatto costituito da una struttura lignea di sostegno a
un pergolato realizzata su pianta di m. 4,93 x 2,53, non
ancorata al suolo, e dotata di una copertura in lastre e
cannette anche queste amovibili poiché solo appoggiate che
l’Amministrazione, in ragione della sola presenza di una
copertura ancorché amovibile, riteneva dovesse essere
assentita previa acquisizione di titolo edilizio.
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce “eccesso
di potere per difetto di istruttoria, illogicità,
irragionevolezza, insufficienza e/o contraddittorietà della
motivazione, travisamento dei fatti”.
Espone il ricorrente che la struttura in questione (un
pergolato), in quanto leggera, amovibile e di modeste
dimensioni e avente natura ornamentale, non necessiterebbe
di titolo abilitativo né tale necessità potrebbe derivare
dalla sola circostanza che presenta una copertura.
In ricorso si evidenzia in particolare che sebbene la
Commissione provinciale VAM si fosse espressa nel senso di
considerare soggetto a titolo edilizio qualsiasi manufatto
che presenti una copertura, di qualunque natura essa sia,
tale posizione contrasterebbe con la circolare
dell’Assessorato Regionale Programmazione Territoriale
Urbanistica, recante “Indicazioni applicative in merito
all’art. 6 del D.P.R: n. 380 del 2001 relativo all’attività
edilizia libera” del 02.08.2010 che al paragrafo 6.1.4
farebbe rientrare in questa tipologia di interventi gli
elementi di arredo delle aree pertinenziali con l’esclusione
delle sole opere che comportino superfici computabili come
utili o accessorie ricomprendendo fra le attività libere
anche “le coperture avvolgibili o retrattili di telo
impermeabile” e ritenendo ulteriormente che “possano
essere equiparati a tali elementi di arredo anche i gazebo
ma solo se completamente aperti sui lati e coperti con teli
amovibili” (pag. 6 del ricorso).
Ne deriverebbe che non sarebbe la copertura a determinare di
per sé la necessità di un titolo abilitativo ma rileverebbe
a tal fine la tipologia di copertura utilizzata.
A favore della tesi fatta propria dall’Amministrazione non
potrebbe inoltre essere invocato l’Atto di coordinamento
sulle definizioni tecniche uniformi per l’urbanistica e
l’edilizia e sulla documentazione necessaria per i titoli
abilitativi edilizi approvato con delibera assembleare n.
279 del 04.02.2010 che al punto 59 dell’allegato A definisce
il pergolato come una “struttura autoportante, composta
di elementi verticali e di sovrastanti elementi orizzontali,
atta a consentire il sostegno del verde rampicante e
utilizzata in spazi aperti a fini di ombreggiamento”
precisando che “sul pergolato non sono ammesse coperture
impermeabili” poiché, sotto un primo profilo, tale fonte
non viene richiamata nel provvedimento impugnato e, sotto un
secondo profilo, perché la copertura rilevata, in quanto
composta da elementi appoggiati e privi di fissaggio e di
saldatura o ancoraggio (fra loro e rispetto alla struttura
portante), non sarebbe impermeabile.
Il motivo è fondato.
L’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede che “nel
rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa
comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei
lavori da parte dell'interessato all'amministrazione
comunale, possono essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo i seguenti interventi: … e) le aree ludiche
senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici”.
La citata circolare regionale del 02.08.2010, esplicativa
dei criteri applicativi della norma sopra riportata,
comprende tra gli interventi liberalizzati “ai sensi del
comma 2 del nuovo art. 6” gli spazi adibiti ad arredo
pertinenziale costituiti da “elementi di arredo di spazi
esterni (giardini, cortili, corti interne, ecc.)”
menzionando espressamente fra questi “i pergolati; le
pensiline; le tettoie con profondità inferiore a 1,50 m; ed
inoltre i barbecue e i forni in muratura, il manufatto
esterno del pozzo, le coperture avvolgibili o retrattili di
telo impermeabile, le piccole fontane e gli altri manufatti
con analoghe caratteristiche. Si ritiene che possano essere
equiparati a tali elementi di arredo anche i gazebo, ma solo
se completamente aperti sui lati e coperti con teli
amovibili”.
Ciò premesso deve rilevarsi che il manufatto oggetto di
contestazione è un pergolato adibito all’arredo di uno
spazio esterno completamente aperto sui lati e dotato di una
copertura amovibile pertanto, sotto un primo profilo,
rientra nelle illustrate tipologie di interventi
liberalizzati ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001
(come peraltro riconosciuto dalla stessa Amministrazione a
pag. 3, ultimo cpv. della memoria di costituzione); sotto
altro profilo, non rientra nella fattispecie ostativa di cui
al citato Atto di coordinamento regionale poiché la
copertura, in quanto composta da “lastre [di
policarbonato] e cannette”, come già evidenziato
appoggiate prive di ancoraggio o elementi di vincolo o
saldatura tanto con la struttura portante quanto fra le
stesse, non può essere considerata impermeabile poiché
inidonea, in ragione delle descritte caratteristiche
strutturali a proteggere da agenti atmosferici.
La posizione espressa trova conferma nella più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha ritenuto la
legittimità di simili manufatti aventi struttura in legno ad
uso pergolato aperta su più lati ed avente una copertura
amovibile poiché inidonee a costituire volume urbanistico
(Cons. Stato, Sez. VI, 15.11.2016 n. 4711).
La fondatezza del primo motivo di ricorso, e la
conseguente illegittimità, della misura applicata, assorbe
le doglianze oggetto del secondo mezzo di impugnazione teso
a contestare la quantificazione della sanzione.
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 14.08.2017 n. 275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista
in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito
inquinato, non è configurabile nei confronti di colui che,
quand'anche proprietario del terreno, non abbia cagionato
l'inquinamento del sito stesso.
---------------
1.4. Venendo al quarto motivo, inerente le condotte
di omessa comunicazione di cui ai capi e) ed f) peraltro
ritenute dal Tribunale e dalla Corte fiorentina integrare un
unico reato, lo stesso è anzitutto infondato laddove lamenta
la carenza di motivazione circa il necessario presupposto
del reato rappresentato dalla riconducibilità all'imputato
delle contaminazioni dei terreni di proprietà Ch. cui
avrebbe dovuto far seguito l'obbligo di comunicazione di cui
all'art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Va infatti rammentato che, come già chiarito da questa
Corte, il reato di mancata effettuazione della
comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di
danno ambientale di un sito inquinato, non è configurabile
nei confronti di colui che, quand'anche proprietario del
terreno, non abbia cagionato l'inquinamento del sito stesso
(Sez. 3, n. 18503 del 16/03/2011, dep. 11/05/2011, Burani,
Rv. 250143).
Nella specie, allora, e prendendo in esame anzitutto
l'omessa comunicazione inerente la contaminazione dei
terreni appartenenti alla Ch. di cui al capo e) (dovendo
comunque necessariamente distinguersi, pur nella ritenuta
unicità del reato, le due addebitate omissioni in ragione di
quanto oltre si preciserà), la Corte territoriale, pur
prendendo atto del fatto che la contaminazione ebbe ad
intervenire negli anni 70/80, quando amministratore unico
della Ch. era ancora il rag. Va.Mo., e pur prendendo
implicitamente atto, dunque, del fatto, che Sq. lo sarebbe
diventato solo successivamente, ha ugualmente ritenuto
provata la commissione dell'inquinamento ad opera
dell'imputato personalmente ponendo correttamente in rilievo
la posizione rivestita di direttore dello stabilimento (già
evidenziata del resto dalla sentenza di primo grado con
riferimento agli anni dal 1980 al 1982) tale, evidentemente,
da consentirgli, quanto meno, di concorrere, nella specie,
nelle decisioni relative alla destinazione dei fanghi
sicuramente provenienti dalla Ch. stessa (sul ruolo e la
responsabilità del direttore tecnico dello stabilimento
vedansi Sez. 3, n. 2485 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008,
Marchi, Rv. 238594; Sez. 3, n. 11033 del 21/10/1993, dep.
02/12/1993, Negro, Rv. Rv e, Sez. 3, n. 9776 del 30/04/1987,
dep. 07/09/1987, Baruchello, Rv. 176638) tanto più avendo lo
stesso imputato, in una nota datata 11/02/1981, riconosciuto
lo spandimento come fertilizzante sui terreni a disposizione
della società
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38674). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ricostruzione di un edificio esistente in altro sito, seppur
nello stesso lotto, ma non nella stessa area di sedime, non
è un'ipotesi di ristrutturazione ma di nuova costruzione.
Come rilevato dalla giurisprudenza,
l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva
proposizione del ricorso soltanto laddove si contesti l’an
della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre laddove
si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies
a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori
ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda
palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità,
dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da
parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare,
anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza
del provvedimento lesivo in capo al ricorrente.
In particolare è stato affermato che:
a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che si intende
realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data
prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va
addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può
essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino
la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente
(in quest’ambito giuoca un ruolo importante l’eventuale
presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u.
edilizia);
b) l’obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente
sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la
giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad
eventuali controinteressati di far valere le proprie
doglianze innanzi all'autorità amministrativa.
La presenza
del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso
e concordante ai fini della integrazione della prova
presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del
ricorrente;
c) la richiesta di accesso non è comunque idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la
data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di
cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve
essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere
dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti. Ed
infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando
una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali.
Quanto al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla
sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del
termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare che
la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di
osservare che la “piena
conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale.
---------------
Come correttamente rilevato dal Tar, il progetto assentito
con i permessi di costruire impugnati, prevedendo la
realizzazione di un intervento di demolizione e
ricostruzione con sagoma, volumi e collocazione diversi
rispetto al fabbricato preesistente, non può configurare una
ristrutturazione edilizia ma è da inquadrare tra le nuove
costruzioni.
La ricostruzione di un edificio esistente in altro sito,
seppur nello stesso lotto, ma non nella stessa area di
sedime, integra infatti a tutti gli effetti un nuovo
edificio. La giurisprudenza è costante nel ritenere ciò ed
il Collegio concorda con tale orientamento.
D’altra parte, anche le successive modifiche al DPR n. 380
del 2001, ascrivibili al c.d. “Decreto del fare” (D.L. n. 69
del 2013 convertito in nella legge n. 98 del 2013), hanno
eliminato il vincolo della sagoma di fatto ampliando il
concetto di ristrutturazione, ma non hanno modificato
l’obbligo che l’edificio ricostruito/ristrutturato insista
nella stessa area di sedime.
---------------
... per la riforma della
sentenza
12.06.2009 n. 1480 del Tar per la Puglia, sede
staccata di Lecce, Sez. III, resa tra le parti, concernente
i permessi di costruire rilasciati dal comune di Laterza al
signor Ar.Ta..
...
1. Con provvedimento del 25.08.2004 n. 104 il comune di
Laterza ha rilasciato al signor An.Ta. un
permesso di costruire avente ad oggetto la realizzazione di
lavori di demolizione e ricostruzione di un fabbricato di
civile abitazione e di un locale commerciale.
2. Il permesso è stato tuttavia impugnato dinanzi al Tar per
la Puglia, sede staccata di Lecce, dai signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma. e Cr.Ta.,
proprietari ed usufruttuari di un immobile confinante con
quello oggetto dell’intervento assentito.
3. In particolare, questi ultimi hanno contestato
l’intervento edilizio in quanto lo hanno ritenuto:
- in contrasto con il piano di lottizzazione, approvato con
deliberazione del Consiglio Comunale del 07.05.2002, n. 18,
che consentiva la realizzazione di nuove opere edilizie e
non interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione
e ricostruzione di un nuovo fabbricato difforme dal
precedente per sagoma e volumi;
- in violazione dell’art. 10 delle norme tecniche del piano di
lottizzazione ai sensi del quale i nuovi fabbricati
avrebbero dovuto essere posti ad una distanza minima di 10
metri dal ciglio delle strade esterne alla maglia (il
fabbricato in questione è posto sul ciglio della strada che
delimita la maglia sul lato nord);
- in violazione dell’art. 872 c.c. in quanto il fabbricato non è
posto a distanza legale dal muro di fabbrica, alto 3 metri e
40 centimetri, che delimita la proprietà dei ricorrenti
(l’art. 9 del piano di lottizzazione prevede una distanza
minima tra gli edifici pari alla semisomma dell’altezza
degli stessi e comunque non inferiore a 10 metri, mentre
l’intervento assentito dista solo 5 metri dal muro);
- in violazione della distanza minima prevista dal PRG per le nuove
costruzioni dalle pareti finestrate degli edifici esistenti.
4. Successivamente, con permesso di costruire del 14.04.2006
n. 3, il comune di Laterza ha accolto l’istanza di sanatoria
presentata dal sig. Ar.Ta. con riferimento
alla diversa collocazione del fabbricato nel lotto rispetto
a quanto previsto nel permesso di costruire originario.
5. Anche quest’ultimo provvedimento è stato impugnato con
motivi aggiunti.
6. Il Tar per la Puglia, con la sentenza indicata in
epigrafe, ha accolto il ricorso ed i motivi aggiunti,
rilavando che il progetto assentito con i permessi di
costruire impugnati, prevedendo la realizzazione di un
intervento di demolizione e ricostruzione con sagoma, volumi
e collocazione diversi rispetto al fabbricato preesistente,
non si poteva configurare come una ristrutturazione
edilizia, ma doveva essere inquadrato tra le nuove
costruzioni. Di conseguenza, ha ritenuto fondati i motivi di
censura relativi alla violazione delle distanze, soprattutto
con riferimento a quelle previste dal ciglio stradale.
7. Il signor Ar.Ta. ha quindi impugnato la
predetta sentenza, prospettando i seguenti motivi di
gravame.
7.1. Il Tar ha erroneamente respinto l’eccezione di
tardività del ricorso di primo grado.
7.1.1. I signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma. e Cr.Ta., secondo l’appellante, erano
infatti a conoscenza del permesso di costruzione già dal
momento della posa delle fondazioni. In particolare, il
termine decadenziale per la proposizione del ricorso avrebbe
dovuto decorrere dalla data del 28.08.2004 di inizio dei
lavori, soprattutto considerando la contestata violazione
delle distanze del fabbricato assentito rispetto agli
immobili di loro proprietà, mentre il ricorso è stato poi
notificato in data 14.01.2005. Gli stessi ricorrenti
avevano in ogni caso proposto istanza di accesso agli atti
il 15.10.2004.
7.2. Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso sulla
base della inesatta circostanza che la riedificazione
avrebbe dovuto rispettare la distanza di 10 metri dal
confine stradale prevista dal piano di lottizzazione e dal
PRG.
7.2.1. Il Tar ha infatti erroneamente ritenuto che una
minore distanza del fabbricato dal ciglio della strada
avrebbe potuto essere consentita solo laddove si fosse
ricostruito un edificio corrispondente, sotto il profilo
planovolumetrico, a quello preesistente. Tale tesi, secondo
l’appellante, non può ritenersi fondata tenuto conto che il
piano di lottizzazione non regola affatto il caso di specie.
La disciplina urbanistica dello stesso piano riguarderebbe
solo le nuove edificazioni consentite nelle aree libere
della maglia, lasciando non disciplinati gli interventi
diretti sull’edilizia esistente. Ed anche le norme di
attuazione al PRG, in particolare il comma 2 dell’art. 2.26
delle NTA richiamato dal Tar, non conterrebbero alcuna
disciplina sugli interventi relativi all’edilizia esistente,
limitandosi a prevedere il contenuto dei piani esecutivi per
le nuove edificazioni nella maglia.
Per l’appellante,
invece, la demolizione e ricostruzione di un edificio
esistente, autorizzabile con un assenso diretto, avrebbe
trovato una più corretta disciplina nel richiamo al comma 7
dello stesso art. 2.26.
8. I signori Gi.Ma., Mi.Ma., Ro.Ma.
e Cr.Ta. si sono costituiti in giudizio il 14.09.2009, chiedendo il rigetto dell’appello, ed hanno
depositato ulteriori scritti difensivi, per ultimo una
memoria di replica il 04.05.2017.
9. Anche l’appellante ha depositato documenti e una memoria
il 24.04.2017 nella quale ha anche richiamato l’intervenuta
sentenza della Corte di Appello di Taranto n. 138 del 24.03.2014 resa tra le parti sul tema delle distanze tra gli
edifici.
10. Questa Sezione con ordinanza cautelare n. 4649 del
18.09.2009, ha respinto motivatamente l’istanza di
sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata,
presentata contestualmente al ricorso in appello (per
completezza si segnala che già durante il corso del giudizio
di primo grado questa Sezione, con ordinanza n. 4588 del
2005, aveva accolto l’istanza cautelare proposta dagli
originari ricorrenti, odierni appellati, signori Matera).
11. La causa è stata infine trattenuta in decisione
all’udienza del 25.05.2017.
12. L’appello non è fondato.
13. In primo luogo, deve ritenersi condivisibile la
conclusione del Tar per la Puglia in ordine alla
infondatezza della eccezione di irricevibilità del ricorso
di primo grado.
14. Lo stesso gravame, notificato il 14.01.2015, non
può infatti ritenersi tardivo in quanto la effettiva e piena
conoscenza del provvedimento da parte degli appellati in un
momento anteriore rispetto a quello di decorrenza del
termine decadenziale (rappresentato dal completamento dei
lavori), avrebbe dovuto essere provata in modo rigoroso.
Non
è infatti sufficiente, come ha fatto la parte appellante, né
il riferimento all’istanza di accesso, né quello all’inizio
dei lavori edilizi, essendo invece necessaria la loro
ultimazione o quantomeno il raggiungimento di uno stato di
avanzamento tale che non si potesse avere più alcun dubbio
in ordine alla consistenza ed alla reale portata delle
opere.
15. D’altra parte, dalla documentazione fotografica allegata
all’istanza di condono edilizio del signor Ta. del 10.12.2014 si ricava in modo evidente che a quella data
erano state realizzate solo le opere interrate con la
conseguenza che sarebbe stato impossibile comprendere quale
fosse la sagome, il volume e l’effettiva distanza dagli
altri edifici e dalla strada dell’erigendo edificio; neppure
è stata provata la presenza del cartello lavori.
16. In ogni caso, come rilevato dalla giurisprudenza di
questa Sezione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.03.2016, n.
2782; 21.03.2016 n. 1135; 15.11.2016, n. 4701),
l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva
proposizione del ricorso soltanto laddove si contesti l’an
della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre laddove
si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il
dies
a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori
ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda
palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità,
dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da
parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare,
anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza
del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV 28.10.2015, n. 4910
e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che
si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza
Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari).
17. In particolare è stato affermato che:
a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che si intende
realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data
prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va
addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può
essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino
la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente
(in quest’ambito giuoca un ruolo importante l’eventuale
presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u.
edilizia);
b) l’obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente
sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la
giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad
eventuali controinteressati di far valere le proprie
doglianze innanzi all'autorità amministrativa (ex aliis
Cass. pen., Sez. III, 22.05.2012, n. 40118).
La presenza
del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso
e concordante ai fini della integrazione della prova
presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del
ricorrente;
c) la richiesta di accesso non è comunque idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la
data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di
cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve
essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere
dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti.
Ed
infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando
una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali.
18. Quanto al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla
sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del
termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare che
la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di
osservare (tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2015 n. 6242; 28.05.2012 n. 3159) che la “piena
conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale.
19. Tanto premesso in rito, deve ritenersi condivisibile,
nel merito, anche quanto rilevato dal Tar nella sentenza
impugnata in ordine alla natura dell’intervento edilizio di
cui è causa e alla sua concreta disciplina.
20. L’art. 2.25 del PRG del comune di Laterza prevede che
“nelle zone di espansione C, articolate in sottozone di
“espansione di recupero CR” e “sottozone di espansione C”
ogni intervento edilizio o urbanizzativo è subordinato alla
approvazione di strumenti urbanistici esecutivi”.
21. L’intervento edilizio assentito dal comune di Laterza si
colloca in zona CR 6 e rientra nell’ambito di applicazione
della predetta disposizione. Di conseguenza soggiace, come
rilevato dal giudice di primo grado, alle previsioni del
successivo art. 2.26 delle NTA (che si riferisce
esplicitamente alla zona CR 6) e al piano di lottizzazione
approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 18 del 07.05.2002.
22. In sostanza, il fabbricato avrebbe dovuto rispettare la
distanza minima di 10 m. dal ciglio delle strade perimetrali
della maglia in quanto nuova costruzione.
23. Non è fondata infatti la prospettazione di parte
appellante secondo cui tali disposizioni non trovano
applicazione nel caso di specie in quanto relative alla
realizzazione di nuove costruzioni e non alla
ristrutturazione di edifici già esistenti.
24. Come correttamente rilevato dal Tar, il progetto
assentito con i permessi di costruire impugnati, prevedendo
la realizzazione di un intervento di demolizione e
ricostruzione con sagoma, volumi e collocazione diversi
rispetto al fabbricato preesistente, non può configurare una
ristrutturazione edilizia ma è da inquadrare tra le nuove
costruzioni.
25. La ricostruzione di un edificio esistente in altro sito,
seppur nello stesso lotto, ma non nella stessa area di
sedime, integra infatti a tutti gli effetti un nuovo
edificio. La giurisprudenza è costante nel ritenere ciò
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2016, n.
3466; successivamente sez. IV, n. 447 del 2017 cui si rinvia
a mentre dell’art. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) ed il
Collegio concorda con tale orientamento. D’altra parte,
anche le successive modifiche al DPR n. 380 del 2001,
ascrivibili al c.d. “Decreto del fare” (D.L. n. 69 del 2013
convertito in nella legge n. 98 del 2013), hanno eliminato
il vincolo della sagoma di fatto ampliando il concetto di
ristrutturazione, ma non hanno modificato l’obbligo che
l’edificio ricostruito/ristrutturato insista nella stessa
area di sedime.
26. Ciò detto, e ribadito che la valutazione sulla
legittimità del progetto sottoposto all’autorità comunale và
effettuata alla stregua della disciplina vigente al momento
dell’adozione dei provvedimenti impugnati, l’intervento
edilizio comunque si colloca, come risulta dagli atti del
giudizio, in posizione diversa da quella occupata
dall’immobile demolito e ricostruito, tant’è che per questa
ragione si contestano le distanze dal ciglio della strada e
dalla proprietà dei confinanti (prima collocato a 12 metri
dalla strada perimetrale della maglia, poi a 2 metri in base
al permesso di costruire n. 3 del 2006, rilasciato per la
diversa ubicazione del fabbricato sul lotto).
27. Di conseguenza, se la conservazione della distanza
preesistente può ritenersi consentita solamente nelle
ipotesi di demolizione seguita da fedele ricostruzione, nel
caso in cui, previa demolizione di un edificio preesistente,
venga ricostruito un fabbricato diverso, devono essere
rispettate tutte le previsioni previste dal piano di
lottizzazione prescritto per l’area e dal PRG e dalle sue
norme tecniche.
28. Né può essere applicabile in via analogica, come
invocato dall’appellante, il comma 7 dell’art. 2.26 delle
NTA in quanto si tratta di una disposizione che non riguarda
la maglia CR 6 (in cui ricade l’intervento assentito), bensì
la maglia CR5. Nell’area CR6 è necessario, ai fini
dell’edificazione, l’esistenza di un piano esecutivo (nel
caso di specie ad iniziativa privata) ed è esclusa la
realizzabilità di interventi diretti salvo la
ristrutturazione degli immobili esistenti con medesima
sagoma, volume e collocazione.
29. Quanto, infine, al motivo proposto dagli appellati in
primo grado sulla distanza della nuova costruzione dalla
loro parete finestra, va rilevato che lo stesso è stato
assorbito dal Tar. L’appellante, con la memoria
depositata il 24.04.2017, ne contesta esplicitamente la
fondatezza, richiamando l’intervenuta sentenza della Corte
di Appello di Taranto n. 138 del 24.03.2014 che ha
accertato la violazione delle norme sulle distanze,
condannandolo all'arretramento della propria costruzione.
30. Tale statuizione tuttavia non influisce sui profili di
illegittimità degli atti impugnati sopra descritti,
rilevando invece sul tema della distanza con la parete
finestra, profilo ritenuto condivisibilmente assorbito dal
Tar.
31. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e
per l’effetto va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 28.07.2017 n. 3763 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile
abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria
urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi
per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire.
---------------
- rilevato che, in linea di fatto è pacifica la sussistenza
del vincolo nonché la consistenza dell’intervento in termini
di trasformazione di un porticato aperto destinato a garage
in nuova unità abitativa tramite chiusura perimetrale;
- considerato che, in proposito, se la giurisprudenza anche
penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione
d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto
comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad
un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è
necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. ad
es. Cass. pen. sez. III, 05/04/2016, n. 26455), nel caso di
specie è evidente il consistente mutamento di destinazione
d’uso accompagnato da opere (chiusura perimetrale di spazio
prima aperto);
- atteso che tale rilevante modifica dello stato
preesistente (sia in termini urbanistici di aumento del
carico che in termini edilizi) non può certo qualificarsi
alla stregua degli interventi minori (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.07.2017 n. 682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ritiene che la concessione
edilizia possa essere rilasciata al soggetto che dimostri di
avere la disponibilità dell'area di riferimento in base a un
diritto reale o ad una obbligazione.
Si è detto, in particolare che il contratto di comodato,
intervenuto tra il proprietario dell'area ed il
concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione)
con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella
del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione
edilizia, salva l'opposizione del proprietario.
Alla luce della sopra richiamata giurisprudenza deve,
pertanto, ritenersi illegittimo il provvedimento impugnato
nella parte in cui dispone l’annullamento
dell’autorizzazione edilizia
sulla base della sola circostanza che l'istante rivesta
la qualità di locatario, nonché nella parte in cui richiede
per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria
presentata dal medesimo ricorrente.
---------------
...
per l’annullamento
“dell’ordinanza prot. n. 6065 del 27.01.2004 a firma del
Dirigente del VII Settore Urbanistica dell’U.T.C. del Comune
di Caserta con la quale è stata annullata la concessione
edilizia n. 126/01 e per l’effetto è stata ordinata la
demolizione delle opere realizzate ritenute abusive ed il
ripristino dello stato dei luoghi, in una agli atti
preordinati, connessi e conseguenziali tra i quali
precipuamente i verbali dell’ufficio Tecnico del Comune di
Caserta”.
...
Sa.Fa. espone in fatto che, in accoglimento
dell’istanza da egli presentata in data 07.08.2001, il
Comune di Caserta aveva rilasciato in suo favore
l’autorizzazione edilizia n. 126/2001 per l’esecuzione di
lavori di manutenzione straordinaria.
Riferisce che solo successivamente e, precisamente, in sede
di istruttoria relativa alla richiesta di concessione in
sanatoria, presentata da egli ricorrente in data 27.12.2001, il suddetto Comune aveva riesaminato la pratica
edilizia relativa alla citata autorizzazione edilizia n.
126/2001 ed aveva provveduto non solo a respingere l’istanza
di sanatoria ma anche a revocare il titolo edilizio del
2001.
Il Sa. ha, quindi, proposto il presente ricorso,
notificato il 22.03.2004 e depositato il 19.04.2004,
con il quale ha chiesto l’annullamento “dell’ordinanza prot.
n. 6065 del 27.01.2004 a firma del Dirigente del VII Settore
Urbanistica dell’U.T.C. del Comune di Caserta con la quale è
stata annullata la concessione edilizia n. 126/01 e per
l’effetto è stata ordinata la demolizione delle opere
realizzate ritenute abusive ed il ripristino dello stato dei
luoghi, in una agli atti preordinati, connessi e
conseguenziali tra i quali precipuamente i verbali
dell’ufficio Tecnico del Comune di Caserta”.
...
Il ricorso è fondato limitatamente alla parte del
provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione
edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di
ragione di parte ricorrente; deve ritenersi, invece,
infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte
del provvedimento con cui si dispone la demolizione, come di
seguito specificato.
Coglie nel segno la censura con la quale parte ricorrente
lamenta che illegittimamente sarebbe stato disposto
l’annullamento della autorizzazione edilizia n. 126/2001
precedentemente rilasciata ed il diniego della concessione
in sanatoria per l’assenza in capo ad egli ricorrente del
titolo di proprietà dell’immobile, in quanto nella relativa
istanza aveva dichiarato di essere conduttore dell’immobile
stesso.
Ed invero la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal
Collegio, ritiene che la concessione edilizia possa essere
rilasciata al soggetto che dimostri di avere la
disponibilità dell'area di riferimento in base a un diritto
reale o ad una obbligazione (Cass., Sez. III, 15.03.2007,
n. 6005). Si è detto, in particolare che il contratto di
comodato, intervenuto tra il proprietario dell'area ed il
concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione)
con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella
del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione
edilizia, salva l'opposizione del proprietario (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.02.2015, n. 648, 08.09.2015, n. 4176).
Alla luce della sopra richiamata giurisprudenza deve,
pertanto, ritenersi illegittimo il provvedimento impugnato
nella parte in cui dispone l’annullamento
dell’autorizzazione edilizia n. 126/2001 del 27.08.2001
sulla base della sola circostanza che il Sa. rivesta
la qualità di locatario, nonché nella parte in cui richiede
per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria
presentata dal medesimo ricorrente in data 27.12.2001 il
titolo di proprietà, ad integrazione della documentazione
già presentata
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica
ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua
divisione in tre ambienti e bagno”, sicché deve ritenersi
che tali difformità non possano qualificarsi quali
interventi eseguiti in parziale difformità del
permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di
applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001.
Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si
riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare
gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa
consistenza, nonché le variazioni relative a parti
accessorie che non abbiano specifica rilevanza.
---------------
L’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi
doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il
risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile
oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo
paesistico in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3,
del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su
immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi
almeno come “variazione essenziale” e, in quanto
tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto
art. 31, comma 1.
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie
oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio
di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di
destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli
standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve
ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di
costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32,
comma 1, lettera a) e comma 3.
---------------
Quanto alla parte del provvedimento con il quale è stata
disposta la demolizione delle opere abusive occorre
evidenziare che, come sostenuto dal Comune resistente, il
provvedimento sanzionatorio risulta adottato sulla base di
una pluralità di motivazioni e non solo sulla base della
riscontrata insufficienza della qualità di locatario di
parte ricorrente e, pertanto, non può ritenersi meramente
consequenziale all’annullamento del suddetto titolo edilizio
del 2001.
Ed invero nel provvedimento impugnato il Comune di Caserta
dà innanzitutto atto della realizzazione di opere realizzate
in difformità dall’autorizzazione edilizia n. 126/2001,
oggetto di accertamento da parte di un tecnico comunale
congiuntamente alla squadra di Polizia Edilizia VV.UU.,
nonché oggetto dell’ordinanza di sospensione dei lavori
richiamata nel medesimo provvedimento, in riferimento alle
quali parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura né ha
provato, come era suo onere, trattandosi di prova rientrante
nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a.,
che tali opere corrispondessero a quelle oggetto della
concessione edilizia in sanatoria del 27.12.2001;
parte ricorrente non ha infatti prodotto tale richiesta di
sanatoria, né il relativo progetto e la relazione tecnica.
Inoltre, premesso che, come specificato dal Comune anche
nelle memorie difensive, nel provvedimento prot. n. 6065 del
27.01.2004, oggetto di impugnazione, si dà anche atto
che la zona su cui insiste l’immobile è soggetta a vincolo
paesistico e che sul punto è intervenuta la nota del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 14.02.2002, occorre rilevare che anche in riferimento a tali
circostanze parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura.
In riferimento alla disposta demolizione parte ricorrente si
è limitata a richiamare l’applicazione dell’art. 34 del DPR
n. 380/2001 che prevede, per gli interventi edilizi
realizzati in difformità dal titolo concessorio, l’alternatività
tra la rimozione e/o l’applicazione di una sanzione
pecuniaria raddoppiata al costo di costruzione.
Al riguardo, premesso che il Comune di Caserta nel
provvedimento impugnato, dopo aver elencato le opere
realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia in
possesso di parte ricorrente, ha rappresentato che le opere
realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica
ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua
divisione in tre ambienti e bagno”, deve ritenersi che tali
difformità non possano qualificarsi quali interventi
eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e,
pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del
suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001. Ciò in quanto il
concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra
le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o
di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni
relative a parti accessorie che non abbiano specifica
rilevanza (cfr. TAR Napoli Sez. VIII, 04.09.2015,
n. 4338), circostanze non ravvisabili nella fattispecie
oggetto di gravame.
Inoltre, l’applicazione della sanzione demolitoria deve
ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R.
380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale
insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è
soggetta a vincolo paesistico, circostanza questa non
contestata da parte ricorrente, in quanto, come disposto
dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque
intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo
paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione
essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser
demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1 (cfr. TAR
Napoli, Sez. IV, 09.01.2014, n. 96).
Ed invero l’art. 32, comma 3, nel testo applicabile, ratione
temporis, alla fattispecie per cui è causa, dispone: “3. Gli
interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili
sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico,
archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili
ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e
regionali, sono considerati in totale difformità dal
permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44.
Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono
considerati variazioni essenziali.”
Il precedente comma 1,
richiamato dal comma 3 del medesimo art. 32, a sua volta,
prevede: “1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1
dell'articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le
variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto
che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica
una o più delle seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi
variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale
02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del
16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di
solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi
del progetto approvato ovvero della localizzazione
dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.”
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie
oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio
di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di
destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli
standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve
ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di
costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32,
comma 1, lettera a) e comma 3.
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso
deve ritenersi fondato limitatamente alla parte del
provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione
edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di
ragione di parte ricorrente, mentre deve ritenersi,
infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte
del provvedimento con cui si dispone la demolizione delle
opere abusive
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura precaria dell'opera edilizia - Carattere
stagionale dell'attività - Elementi della precarietà -
Stabilimento balneare.
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per
sé la precarietà dell'opera, la precarietà non va confusa
con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente
ricorrente della struttura, né con la possibilità di
smontare il manufatto non infisso al suolo (si veda in
proposito Cass. Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini,
secondo cui ...al fine di ritenere sottratta al preventivo
rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un
manufatto per la sua asserita natura precaria, la stessa non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per
fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con
conseguente possibilità di successiva e sollecita
eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua
rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Natura
precaria dell'opera edilizia - Oggettiva temporaneità e
contingenza - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - DIRITTO DEMANIALE - Fattispecie: occupazione
arbitraria dello spazio demaniale marittimo - Alterazione di
bellezze naturali - Art. 734 cod. pen. - Artt. 3, 6, 10 e
44, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 146-181, d.lgs. n. 42/2004.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla
tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione,
tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la
oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che
l'opera è destinata a soddisfare in ordine alla dedotta
precarietà dell'opera e che, (in specie) in ogni caso,
trattandosi di opera realizzata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, qualsiasi difformità dal titolo edilizio è
comunque sanzionata ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R.
n. 380 del 2001 (art. 32, u.c., d.P.R. n. 380 del 2001),
così come qualsiasi difformità dal progetto autorizzato
integra il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004
(Fattispecie: installazione stagionale di uno stabilimento
balneare costituito da una costruzione lignea pluripiano
poggiante su pali in legno semplicemente infissi
sull'arenile della spiaggia, in zona soggetta a speciale
protezione ambientale e a vincolo ambientale) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Alterazione delle
bellezze naturali - Stabilimento balneare - Art. 734 cod.
pen. - Natura di reato istantaneo - Effetti della
prescrizione e decorrenza del termine - Ultimazione
dell'opera.
Il reato di cui all'art. 734 cod. pen., nell'ipotesi di
alterazione delle bellezze naturali ha natura di reato
istantaneo con effetti permanenti e si consuma e si
esaurisce con la costruzione lesiva delle bellezze naturali
protette, sicché agli effetti della prescrizione il decorso
del termine ha inizio dal momento in cui il reato si è
realizzato con il compimento dell'opera ovvero la attuazione
dei mezzi che hanno determinato il deturpamento (Sez. 3, n.
11226 del 04/07/1985, Bertani).
DIRITTO DEMANIALE - Ancoraggio del
manufatto alla spiaggia - Natura di reato permanente -
Demolizione del manufatto edificato entro la fascia
demaniale o conseguimento dell'autorizzazione.
Il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 cod. nav. ha natura
di reato permanente per il quale la permanenza cessa solo
con la demolizione del manufatto edificato entro la fascia
demaniale o con il conseguimento
dell'autorizzazione prescritta, dal momento che la norma è
posta a tutela della sicurezza della navigazione marittima
nelle zone prossime al demanio (Sez. 3, n. 3848 del
06/11/1997, Padua; cfr. altresì Sez. U, n. 17178 del
27/02/2002, Cavallaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di costruzione abusiva - Cessazione con il
totale esaurimento dell'attività illecita - Nozione di
"ultimazione" dell'edificio - Requisiti di agibilità o
abitabilità - Concetto unitario di costruzione e valutazione
di un'opera edilizia abusiva - Opera realizzata in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico - Giurisprudenza.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale
esaurimento dell'attività illecita e, quindi, soltanto
quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n.
3183 del 18/01/1984, con richiamo a numerosi precedenti
conformi, nonché, più recentemente, Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato"
solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti
i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il
suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato
dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al
suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente
l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato,
coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del
27/01/2010, Vitali) ovvero, se precedente, con il
provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la
disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Sez. 3,
n. 5654 del 16/03/1994).
Sicché, in virtù del concetto unitario di costruzione la
valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con
riferimento al suo complesso, non potendosi considerare
separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 15442 del
26/11/2014, Prevosto; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2001, Forte;
nello stesso senso, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015,
Casciato).
Gli stessi principi valgono per il reato di cui all'art.
181, d.lgs. n. 42 del 2004, che ha natura permanente e si
consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la
cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Sez. 3, n.
40265 del 26/05/2015, Amitrano; Sez. 3, n. 28934 del
26/03/2013, Borsani; Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010,
Cavallo; Sez. 3, n. 28338 del 30/04/2003, Grilli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
- link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: In
caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni
normative degli strumenti urbanistici, sono le seconde a
prevalere, in quanto in sede d'interpretazione degli
strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono
chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel
testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
----------------
D’altro canto, è noto che in caso di contrasto tra le
indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli
strumenti urbanistici, sono le seconde a prevalere, in
quanto in sede d'interpretazione degli strumenti urbanistici
le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto
è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o
negare quanto risulta da questo (per tutte, da ultimo cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2015, n. 2998)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.07.2017 n. 946 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI
- ENTI LOCALI: La
mancata allegazione al bilancio della relazione dell'organo
di revisione inficia la delibera di approvazione.
La mancata tempestiva allegazione della relazione
dell'organo di revisione contabile dell'ente locale
impedisce ai consiglieri di esercitare le
prerogative proprie dell'incarico dagli stessi rivestito e
si traduce nella violazione delle disposizioni
regolamentari dell'ente locale che disciplinano le modalità
temporali del deposito e della messa a disposizione dello
schema di bilancio previsionale e della relativa
documentazione allegata, con conseguente annullamento della
delibera di approvazione del bilancio impugnata.
----------------
Circa le prerogative dei consiglieri comunali, dal
consolidato orientamento del giudice amministrativo emerge
che:
- i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad
agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il
giudizio amministrativo non è di regola aperto alle
controversie tra organi o componenti di organi dello stesso
ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive;
- l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul
diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto
spettante alla persona investita della carica di
consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di
forma o di sostanza nell'adozione di una deliberazione, che
di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai
soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal
medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad
officium;
- la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al
consigliere solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti
profili: a) erronee modalità di convocazione dell'organo
consiliare; b) violazione dell'ordine del giorno; c)
inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più
in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio
delle funzioni relative all'incarico rivestito.
---------------
Con l’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti, quali
consiglieri di minoranza del consiglio comunale del comune
resistente, hanno chiesto l’annullamento della delibera di
approvazione del bilancio di previsione del consiglio
comunale, deducendo tra l’altro il mancato deposito del
parere obbligatorio del revisore dei conti e la sua mancata
allegazione agli schemi di bilancio.
Si costituiva il comune resistente chiedendo di rigettare il
ricorso.
Il ricorso appare meritevole di accoglimento.
Il vigente disposto dell’art. 174 Tuel non impone il
deposito della relazione del revisore dei conti insieme al
deposito dello schema di bilancio, in quanto, basandosi la
prima sull’ultimo, è necessario che lo schema pervenga ai
revisori prima della redazione della relazione. Tuttavia, in
base all’art. 12 primo e secondo comma del regolamento di
contabilità dell’ente locale resistente i documenti di cui
al comma 1 rimangono depositati presso l’ufficio ragioneria
per la relativa consultazione nei 10 giorni precedenti la
data stabilita per l’approvazione del bilancio. I documenti
indicati al comma 1 sono rappresentati dallo schema di
bilancio e dai relativi allegati di cui all’art. 172 Tuel,
nonché dalla nota di aggiornamento del DUP e dalla relazione
dell’organo di revisione.
Ne discende che, a prescindere dalle modalità di redazione
dello schema di bilancio e dai relativi tempi, la relazione
dell’organo di revisione ha ad oggetto lo schema di bilancio
e rientra tra i documenti che i componenti del consiglio
comunale possono esaminare prima dell’approvazione del
bilancio. La disposizione non risulta incompatibile con il
nuovo testo dell’art. 174 Tuel, tanto più che la
disposizione rinvia espressamente al regolamento di
contabilità.
Più in particolare sembra potersi evidenziare che il
contenuto obbligatorio dell’invio sia rappresentato dallo
schema di bilancio di previsione finanziario e dal documento
unico di programmazione, nel senso che i comuni non possono
escludere che l’organo esecutivo predisponga i citati
documenti e che questi siano presentati all’organo
consiliare; tuttavia la norma non esclude che l’ente locale
possa prevedere forme di garanzia più elevate, in ragione
del principio di partecipazione dei componenti consiliari
alla decisione al fine di garantire la democraticità del
sistema e la completezza dell’esame della documentazione.
Pertanto, la disposizione non incide, nel caso di specie,
sul perimetro applicativo dell’art. 12 del regolamento di
contabilità il quale impone il deposito della documentazione
e anche della relazione dell’organo di revisione almeno
dieci giorni prima della data fissata per l’approvazione del
bilancio di previsione. Com’è noto, infatti, l’art. 174,
comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000 impone ai regolamenti di
contabilità dei Comuni la previsione di un “congruo
termine” per gli adempimenti relativi alla
predisposizione e all’approvazione del bilancio e dei suoi
allegati, aggiungendo che detti regolamenti devono altresì
indicare i termini entro i quali possono essere presentati
da parte dei membri dell’organo consiliare e dalla Giunta
emendamenti agli schemi di bilancio.
Nel caso di specie, parte resistente evidenzia che tale
documento è stato depositato 7 giorni prima rispetto alla
data fissata, a prescindere dalle contestazioni mosse dai
resistenti sulla ritualità del deposito e sulla autenticità
della stessa.
Ne discende l’annullabilità dell’atto impugnato per
violazione dell’art. 12 del regolamento di contabilità.
La violazione in questione non ha carattere meramente
formale ma anche sostanziale in quanto non risulta, sulla
base delle allegazioni di parte resistente, aver consentito
ai resistenti stessi di esercitare in maniera completa il
proprio mandato elettorale.
Un siffatto comportamento ha comportato senz’altro un grave
vulnus alle prerogative dei consiglieri ricorrenti
alla luce del consolidato orientamento del giudice
amministrativo secondo il quale:
- i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad
agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il
giudizio amministrativo non è di regola aperto alle
controversie tra organi o componenti di organi dello stesso
ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive;
- l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul
diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto
spettante alla persona investita della carica di
consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di
forma o di sostanza nell'adozione di una deliberazione, che
di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai
soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal
medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius
ad officium;
- la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al
consigliere solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti
profili: a) erronee modalità di convocazione dell'organo
consiliare; b) violazione dell'ordine del giorno; c)
inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più
in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio
delle funzioni relative all'incarico rivestito.
Nel caso specifico, la mancata tempestiva allegazione della
relazione dell’organo di revisione contabile dell’ente
locale ha impedito ai consiglieri ricorrenti di esercitare
le prerogative proprie dell’incarico dagli stessi rivestito
e si è tradotta nella violazione delle disposizioni
regolamentari dell’ente locale che disciplinano le modalità
temporali del deposito e della messa a disposizione dello
schema di bilancio previsionale e della relativa
documentazione allegata.
Le allegazioni di parte resistente in ordine alla conoscenza
del documento o alla mancata contestazione del tardivo
deposito non sembrano cogliere nel segno, sia perché, a
parte le dichiarazioni anche atecniche emergenti, da un
lato, non risulta esservi prova del fatto che questi abbiano
avuto specifica conoscenza della relazione dell’organo di
revisione (cosa che sarebbe al contrario emersa con la
comunicazione alle stesse dell’avvenuto deposito della
relazione) o della possibilità di averne conoscenza,
dall’altro, non tutti i ricorrenti avevano partecipato al
consiglio comunale dal quale è derivata l’approvazione della
delibera comunale e, comunque, anche i partecipanti, non
essendo tenuti a verificare il deposito della documentazione
in questione in un termine diverso dai dieci giorni, non
erano tenuti a manifestare espressamente il loro dissenso o
a sollevare la problematica in tale occasione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.07.2017 n. 1175 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I ricorrenti hanno realizzato un cambio di
destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad
abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del
permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del
carico urbanistico che ne deriva.
Sicché, in mancanza del permesso, ovvero in difformità dai
titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui
all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto
giustificata.
---------------
II. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
- Come si evince dal verbale di sopralluogo n. 1 del 25.05.2007
redatto dalla Polizia Municipale e dagli elaborati grafici e
fotografici allegati allo stesso, il locali posti ai
rispettivi piani seminterrati dei due appartamenti situati
al piano terra dell’abitazione bifamiliare di che trattasi,
assentiti ad uso ripostiglio, garage, cantina, lavanderia,
stenditoio e stireria (come da concessione edilizia n. 8 del
1994 e da autorizzazione in variante conseguita con DIA
presentata in data 09.09.1995), sono stati parzialmente
trasformati (in epoca imprecisata, sebbene i ricorrenti
asseriscano che le modifiche siano state apportate già prima
che fosse rilasciato il certificato di abitabilità, ma la
circostanza non è dimostrata), anche con la realizzazione di
opere edilizie, sino alla completa modifica della
destinazione d’uso dell’intero piano ad abitativa.
- In particolare, nel seminterrato contraddistinto nel verbale di
sopralluogo come A1, si riscontra la trasformazione del
locale lavanderia in una cucina abitabile piastrellata,
dotata di mobilio funzionale allo scopo, con
elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e
del gas; i locali stenditoio e cantina, anch’essi
pavimentati e arredati in maniera funzionale al nuovo
utilizzo, sono stati adibiti, rispettivamente, a tinello e
camere da letto.
Nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo
come B1, inoltre, completamente pavimentato, il ripostiglio
collocato nel locale garage è stato trasformato in un bagno
e nel locale lavanderia/stenditoio/stireria sono stati
ricavati un ripostiglio e una cucina abitabile interamente
arredata e funzionale allo scopo, con gli elettrodomestici
allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas. In
entrambi i seminterrati sono stati realizzati ex novo dei
camini in corrispondenza degli ex locali lavanderia.
- Le suddette modifiche sono state dettagliatamente illustrate nel
citato verbale di sopralluogo e in esso sufficientemente
indicate anche mediante il rinvio agli elaborati grafici e
fotografici allegati, sicché, contrariamente a quanto
sostenuto dai ricorrenti, alcun difetto di motivazione è
riscontrabile nel provvedimento impugnato, che rinvia per
relationem al predetto verbale.
- Per quanto riguarda, invece, il cambio di destinazione d’uso
contestato dall’Amministrazione, è noto che esso sussiste
se, a prescindere dalla realizzazione di opere, l’intervento
determini una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico o sia idoneo a consentire un uso più
intenso dell’edificio, per effetto della moltiplicazione
delle unità immobiliari.
Nel caso in esame, non può escludersi che tale incremento si
sia verificato, atteso che detto mutamento ha dato luogo ad
un piano abitabile in più rispetto a quelli esistenti ed i
lavori in questione hanno effettivamente conferito ai locali
una destinazione residenziale, essendo essi univocamente
volti a rendere gli stessi abitabili e destinati alla
stabile permanenza di persone.
- Ed invero, il piano seminterrato delle due unità abitative è
stato interamente dotato di servizi e trasformato in modo da
essere suscettibile di un utilizzo anche autonomo rispetto
all’abitazione principale (dal che si esclude la sua natura
pertinenziale).
In particolare, i locali in parola sono stati interamente
arredati e dotati di ogni confort e, come si evince dai
rilievi fotografici versati in atti, i mobili e gli oggetti
ivi presenti non sono stati meramente depositati (come
invece asserito dai ricorrenti), ma organizzati in maniera
tale da essere destinati ad un utilizzo quotidiano,
contribuendo ad imprimere all’immobile un’oggettiva
attitudine funzionale coincidente con quella di una civile
abitazione (che non è la stessa attitudine che il bene aveva
in precedenza).
Peraltro, dalla nota di trasmissione del verbale di
accertamento delle violazioni urbanistiche alla competente
Procura della Repubblica da parte dell’Ufficio tecnico
comunale (prot. n. 2849 dell’01.06.2007), prodotta in
allegato al ricorso, emerge che detti locali sono stati
dotati di impianto termo-idraulico, non previsto nel
progetto assentito; tale tipologia di intervento costituisce
elemento idoneo a confermare ulteriormente la destinazione
abitativa dell’immobile.
- E’ innegabile, quindi, che, nella fattispecie, i ricorrenti
abbiano realizzato un cambio di destinazione d’uso (con
opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe
necessitato del previo rilascio del permesso di costruire,
anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne
deriva (TAR Campania Napoli, sez. IV, 03.02.2015, n. 731;
sez. VIII, 16.04.2014, n. 2174; TAR Lazio Roma, sez. I,
09.12.2011, n. 9646). In mancanza del permesso, ovvero in
difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della
demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del
tutto giustificata.
III. Per le suesposte ragioni, il ricorso va respinto (TAR
Marche,
sentenza 07.06.2017 n. 445 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sussiste giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche,
inteso quale organo specializzato della giurisdizione
ordinaria, nel caso di ricorrente che vanta una posizione di
interesse legittimo teso a contestare l’esercizio del potere
pubblicistico di repressione dell’attività edilizia svolta
in prossimità, o in maniera potenzialmente pregiudizievole,
rispetto alle acque pubbliche; mentre sussiste la
giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche
nel caso di impugnazione per vizi tipici di legittimità del
provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle
acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire
l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume
normativamente individuata.
La giurisdizione di legittimità in unico grado, attribuita
al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche dall’art. 143,
comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del 1933, con riferimento ai
ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di
legge avverso i provvedimenti definitivi presi
dall’amministrazione in materia di acque pubbliche, sussiste
solo quando sia impugnato uno di questi provvedimenti
amministrativi e allorché gli stessi siano caratterizzati da
incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel
senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione,
l’esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i
concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei
beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle
opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione
di esse o a influire sulla loro realizzazione mediante
sospensione o revoca dei relativi provvedimenti; mentre
restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le
controversie che abbiano a oggetto atti solo strumentalmente
inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime
delle acque pubbliche e che solo in via di riflesso, o
indirettamente, abbiano una siffatta incidenza (nel caso
esaminato, avente ad aggetto l’impugnativa di una diniego di
permesso di costruire motivato in base all’insistenza del
progetto nella fascia di rispetto di un corso d’acqua, è
stata ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice
amministrativo).
---------------
Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi
d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n.
523, risponde all’esigenza di natura pubblicistica di
assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle
acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso
delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la
conseguenza che le opere costruite in violazione di tale
divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l.
08.02.1985 n. 47 e non sono, pertanto, suscettibili di
sanatoria.
---------------
Ritiene il Tribunale che sia il presupposto del discorso a
non convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle
opere a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere
di fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo
limite di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente
da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione
con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante
ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini
antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa in opera
di cancello carrabile e pedonale”: si tratta quindi di opere
che, ictu oculi, appartengono alla nozione di “opere di
fabbrica”, e ciò tanto più, se si tiene presente che per la
giurisprudenza: “Il divieto di eseguire le tipologie di
lavori di cui all’art. 96, lett. f), del R.D. n. 523 del
1904, «a distanza dal piede degli argini e loro accessori»,
vale inderogabilmente, a prescindere dalla disciplina
vigente nelle diverse località, dovendosi interpretare la
locuzione «fabbriche», nel testo richiamato, come riferita
ai manufatti edilizi, a prescindere dal loro utilizzo,
dovendosi individuare la ratio legis nella volontà della
norma di esaurire, unitamente all’utilizzo della locuzione
« scavi », tutte le possibili modificazioni frutto
dell’opera di trasformazione edilizia, essendo prevista una
diversa distanza solo per le piantagioni”.
---------------
In tema di distanze delle costruzioni dagli argini dei corsi
d’acqua (laddove è stato ulteriormente statuito che: “Il
divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli
argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di
interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi
prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare
scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva
rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero
derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi
pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo
operi con un effetto conformativo particolarmente ampio
determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di
rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere la
dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990,
trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un
provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio
per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto
partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare
la determinazione amministrativa censurata.
---------------
L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di
distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine, ex art.
96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da comportare l’inedificabilità
assoluta e l’impossibilità di sanatoria delle medesime,
rende recessive le esigenze di sicurezza delle persone e di
tutela della propria proprietà, pure segnalate come
pressanti dal ricorrente, posto che l’interesse pubblico
all’eliminazione delle suddette opere deve considerarsi in
re ipsa, giusta quanto sopra osservato, fermo restando
tuttavia l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto
per il resistente Comune, proprio in virtù del su richiamato
principio di sussidiarietà), d’evitare rischi per la privata
incolumità, segnalati come gravi, in ragione della vicinanza
del corso d’acqua all’abitazione del ricorrente medesimo
(anche provvedendo, se del caso, all’auspicata –sempre da
parte ricorrente– recinzione dei “confini del muro spondale”).
---------------
Oggetto del presente giudizio è l’impugnativa dell’ordinanza
di demolizione del Comune di Monteforte Irpino, relativo
alle opere indicate in epigrafe, realizzate dal ricorrente
–come si ricava dal testo della medesima ordinanza– “nella
fascia di rispetto del torrente Iemale”.
La prima questione da affrontare consiste, pertanto,
nell’eccepito –dalla difesa dell’ente– difetto di
giurisdizione di questo TAR, in favore del Tribunale
Superiore delle Acque Pubbliche, poiché si tratterebbe di
materia afferente al governo delle acque pubbliche.
L’eccezione, peraltro, non può essere accolta, conformemente
all’indirizzo della giurisprudenza, espresso in massime,
come le seguenti: “Non sussiste giurisdizione del
Tribunale delle acque pubbliche, inteso quale organo
specializzato della giurisdizione ordinaria, nel caso di
ricorrente che vanta una posizione di interesse legittimo
teso a contestare l’esercizio del potere pubblicistico di
repressione dell’attività edilizia svolta in prossimità, o
in maniera potenzialmente pregiudizievole, rispetto alle
acque pubbliche; mentre sussiste la giurisdizione del
Tribunale Superiore delle acque pubbliche nel caso di
impugnazione per vizi tipici di legittimità del
provvedimento adottato dall’amministrazione a tutela delle
acque pubbliche, ed in particolare al fine di garantire
l’intangibilità della fascia di rispetto del fiume
normativamente individuata” (TAR Sicilia–Catania,
30/12/2011, n. 3232); “La giurisdizione di legittimità in
unico grado, attribuita al Tribunale Superiore delle Acque
Pubbliche dall’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. n. 1775 del
1933, con riferimento ai ricorsi per incompetenza, eccesso
di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti
definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque
pubbliche, sussiste solo quando sia impugnato uno di questi
provvedimenti amministrativi e allorché gli stessi siano
caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a
disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a
determinare i modi di acquisto dei beni necessari
all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a
stabilire o modificare la localizzazione di esse o a
influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o
revoca dei relativi provvedimenti; mentre restano fuori da
tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che
abbiano a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in
procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque
pubbliche e che solo in via di riflesso, o indirettamente,
abbiano una siffatta incidenza (nel caso esaminato, avente
ad aggetto l’impugnativa di una diniego di permesso di
costruire motivato in base all’insistenza del progetto nella
fascia di rispetto di un corso d’acqua, è stata ritenuta
sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo)”
(TAR Abruzzo–Pescara, 07/01/2008, n. 4).
Ciò posto, rileva il Collegio che il ricorso non può trovare
accoglimento.
Occorre, tuttavia, una premessa: poiché, nella specie, si
discorre dell’attività di costruzione di fabbriche, in
violazione della fascia di rispetto del torrente Iemale, la
giurisprudenza ha evidenziato quanto segue: “Il divieto
di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua,
previsto dall’art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523,
risponde all’esigenza di natura pubblicistica di assicurare
non solo la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle
acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici e ha carattere legale e inderogabile, con la
conseguenza che le opere costruite in violazione di tale
divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, l.
08.02.1985 n. 47 e non sono pertanto suscettibili di
sanatoria” (TAR Liguria, Sez. I, 21/11/2014, n. 1721;
conforme a Consiglio di Stato, Sez. V, 23/06/2014, n. 3147).
Nella specie, cioè, per quanto effettivamente manchi, nel
testo dell’ordinanza gravata, un esplicito riferimento a
tale disciplina, viene in rilievo la violazione, da parte
del ricorrente, dell’art. 96, lett. f), del R.D. 523 del
1904, secondo cui: “Sono lavori ed atti vietati in modo
assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese
i seguenti: (…) f) le piantagioni di alberi e siepi, le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza
dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza
minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi
(…)”.
Da tale constatazione discendono due conseguenze:
a) pertinente si presenta il richiamo, da parte della difesa
dell’Amministrazione Comunale, al diniego di sanatoria delle
opere de quibus, espresso in data 29.05.2006 dal
responsabile del procedimento presso il S.U.E. di tale ente,
perché “le opere oggetto di richiesta di sanatoria
ricadono nella fascia di rispetto del vallone Iemale”;
b) va, anzitutto, verificato che le stesse opere effettivamente
ricadano in detta fascia di rispetto, come sopra
individuata, posto che il ricorrente –mediante l’ausilio di
c.t. di parte– ha contestato tale fondamentale presupposto
del provvedimento impugnato.
Quanto a detto secondo e dirimente aspetto, rileva il
Collegio come l’ing. Pa., nell’elaborato peritale, da ultimo
depositato in data 22.03.2017, abbia affermato che i
manufatti realizzati non sarebbero “opere di fabbrica o
scavi”, bensì “smovimenti di terreno”, onde la
distanza da rispettare sarebbe di quattro metri dal piede
dell’argine; e ha sostenuto che “la quasi totalità delle
opere edificate risultano ricadere all’esterno di tale area;
vi rientra solo in piccola misura, la parte terminale del
muretto alla sinistra del cancello (…)”.
Orbene, in disparte quanto da ultimo riferito, circa una
piccola porzione di muretto, in violazione (anche) della
distanza di quattro metri dal piede dell’argine, ritiene il
Tribunale che sia il presupposto del discorso a non
convincere, vale a dire l’asserita assimilazione delle opere
a demolirsi a smovimenti di terreno, anziché a opere di
fabbrica (per le quali vige l’assai più restrittivo limite
di dieci metri di distanza dal piede dell’argine).
Dette opere, in particolare, sono rappresentate testualmente
da “pavimentazione in conglomerato cementizio”; “recinzione
con muretto in conglomerato cementizio e sovrastante
ringhiera in ferro”, “tre pilastrini in mattoncini
antichizzati, ingresso carrabile e pedonale”, “posa
in opera di cancello carrabile e pedonale”: si tratta
quindi di opere che, ictu oculi, appartengono alla
nozione di “opere di fabbrica”, e ciò tanto più, se
si tiene presente che per la giurisprudenza: “Il divieto
di eseguire le tipologie di lavori di cui all’art. 96, lett.
f), del R.D. n. 523 del 1904, «a distanza dal piede degli
argini e loro accessori», vale inderogabilmente, a
prescindere dalla disciplina vigente nelle diverse località,
dovendosi interpretare la locuzione «fabbriche», nel testo
richiamato, come riferita ai manufatti edilizi, a
prescindere dal loro utilizzo, dovendosi individuare la
ratio legis nella volontà della norma di esaurire,
unitamente all’utilizzo della locuzione « scavi », tutte le
possibili modificazioni frutto dell’opera di trasformazione
edilizia, essendo prevista una diversa distanza solo per le
piantagioni” (TAR Emilia–Romagna, Parma, 21/07/2016, n.
241).
Sicché ne risulta confermato il presupposto di fondo
dell’ordinanza gravata, costituito dalla violazione della
distanza legale di dieci metri dal piede dell’argine del
vallone Iemale, e quindi, come sinteticamente ma
correttamente denunzia l’ordinanza impugnata,
dall’edificazione delle suddette opere “nella fascia di
rispetto” di tale corso d’acqua.
Ciò posto, possono analizzarsi le censure di parte
ricorrente: iniziando dalla prima, e tenuto presente
l’evidenziato carattere inderogabile delle prescrizioni
legislative, in tema di distanze delle costruzioni dagli
argini dei corsi d’acqua (per la quale cfr. anche TAR
Lombardia, Brescia, Sez. II, 02/10/2013, n. 814: “Il
divieto di costruzione di opere ad una certa distanza dagli
argini dei corsi d’acqua di cui all’art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904 n. 523, risponde all’evidente finalità di
interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi
prossimi al reticolo idrico, tanto a tutela del regolare
scorrimento delle acque, quanto in funzione preventiva
rispetto ai rischi, per persone e cose, che potrebbero
derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi
pubblici ivi tutelati comporta, pertanto, che il vincolo
operi con un effetto conformativo particolarmente ampio
determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di
rispetto”), è chiaro come nessun rilievo possa assumere
la dedotta violazione dell’art. 7 della l. 241/1990,
trattandosi, a dispetto di quanto asserito in ricorso, di un
provvedimento dalla natura rigidamente vincolata, proprio
per le ragioni dianzi espresse, onde un eventuale apporto
partecipativo del ricorrente, in nulla avrebbe potuto mutare
la determinazione amministrativa censurata (per
un’applicazione, in tema di rimozione di manufatti (impianti
pubblicitari), collocati nella fascia di rispetto
autostradale, cfr. TAR Abruzzo–Pescara, 08/07/2015, n. 288).
Del tutto ultronea, quindi, la dedotta riconducibilità,
secondo il R.E. vigente, delle opere edilizie di cui sopra
al regime autorizzatorio anziché a quello concessorio, onde
supportare l’affermata necessità dell’assolvimento, da parte
del Comune, dell’onere comunicativo in oggetto.
La seconda doglianza pone una questione d’incompetenza del
dirigente comunale ad emanare l’ordinanza gravata, poiché il
relativo potere spetterebbe –trattandosi di “polizia
idrica”– alla Regione, ex art. 90 cpv. lett. e), del
d.P.R. 616/1977 (secondo cui: “1. Tutte le funzioni
relative alla tutela, disciplina e utilizzazione delle
risorse idriche, con esclusione delle funzioni riservate
allo Stato dal successivo articolo, sono delegate alle
regioni che le eserciteranno nell’ambito della
programmazione nazionale della destinazione delle risorse
idriche e in conformità delle direttive statali sia generali
sia di settore per la disciplina dell’economia idrica. 2. In
particolare sono delegate le funzioni concernenti: (…) e) la
polizia delle acque”).
La tesi, fondata su una risalente, oltre che non
particolarmente perspicua, decisione del TAR
Calabria–Catanzaro, Sez. II, 22.05.2001, n. 829 (secondo cui
la “violazione della zona di rispetto” non
integrerebbe “occupazione”, la quale presupporrebbe “la
realizzazione di attività permanentemente modificative a
stretto ridosso del bene tutelato”, attività, invece,
presenti nel caso di specie), in ogni caso –e in disparte la
mancata evocazione in giudizio della Regione Campania– pare
priva di pregio, alla luce del fondamentale principio
costituzionale della sussidiarietà, non comprendendosi
affatto per quale ragione l’ente comunale dovrebbe astenersi
dalla vigilanza urbanistico–edilizia sul proprio territorio,
sol perché venga in rilievo, in concreto, un problema di
distanza di manufatti edilizi da un corso d’acqua, apparendo
del resto evidente come sia arduo far rientrare il caso in
esame nella materia “tutela, disciplina e utilizzazione
delle risorse idriche”, sia pur sotto il peculiare
angolo prospettico della “polizia delle acque”.
La terza censura, imperniata sulla riconduzione delle opere
edilizie in oggetto a “interventi di restauro e
risanamento conservativo”, come tali subordinati a
semplice denunzia d’inizio attività, e, pertanto, sulla
dedotta facoltatività dell’ordine di ripristino dello stato
dei luoghi, ex art. 37 cpv. T.U. 380/2001 (“Quando le
opere realizzate in assenza (oggi) di segnalazione
certificata di inizio attività consistono in interventi di
restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera
c) dell’articolo 3, eseguiti su immobili comunque vincolati
in base a leggi statali e regionali, nonché dalle altre
norme urbanistiche vigenti, l’autorità competente a vigilare
sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la
restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed
irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro”),
non centra il fulcro del giudizio, come sopra individuato,
vale a dire l’ormai accertata violazione del regime delle
distanze legali dal piede dell’argine del vallone Iemale,
con la conseguente inderogabilità dell’ordine di demolizione
delle opere, poste all’interno di tale fascia di rispetto;
onde nessun rilievo, a tale proposito, può assumere la
riconduzione delle stesse all’uno o all’altro dei regimi
abilitativi, in materia edilizia, previsti dal d.P.R.
380/2001.
Lo stesso dicasi, quanto alla quarta doglianza e all’ivi
asserita erroneità della sanzione demolitoria, da riservare
agli abusi realizzati in assenza di p.d.c., laddove nella
specie, si sarebbe dovuta applicare esclusivamente la
sanzione pecuniaria, prevista per le opere difformi dalla
d.i.a. (oggi s.c.i.a.).
A fortiori le osservazioni precedenti valgono a destituire
di fondamento il quinto ed ultimo motivo di ricorso,
tendente a patrocinare una –oltretutto, ad avviso del
Collegio, alquanto discutibile– impossibilità di procedere
al ripristino dei luoghi, senza arrecare pregiudizio alle
restanti parti dell’immobile.
L’inderogabilità delle prescrizioni legislative in tema di
distanze delle opere edilizie dal piede dell’argine del
vallone Iemale, ex art. 96, lett. f), R.D. 523/1904, tale da
comportare l’inedificabilità assoluta e l’impossibilità di
sanatoria delle medesime, infine, rende recessive le
esigenze di sicurezza delle persone e di tutela della
propria proprietà, pure segnalate come pressanti dal
ricorrente, posto che l’interesse pubblico all’eliminazione
delle suddette opere deve considerarsi in re ipsa,
giusta quanto sopra osservato, fermo restando tuttavia
l’obbligo, per le autorità preposte (e anzitutto per il
resistente Comune di Monteforte Irpino, proprio in virtù del
su richiamato principio di sussidiarietà), d’evitare rischi
per la privata incolumità, segnalati come gravi, in ragione
della vicinanza del corso d’acqua Iemale all’abitazione del
ricorrente medesimo (anche provvedendo, se del caso,
all’auspicata –sempre da parte ricorrente– recinzione dei “confini
del muro spondale”)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 06.06.2017 n. 1021 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di stazioni radio base è compatibile con qualsiasi
destinazione del piano regolatore comunale ed in
particolare, rispetto alla norma dell’art. 338 T.U.L.S., si
è espressamente affermato che in tale divieto di nuovi
edifici non rientrano le stazioni radio base per gli
impianti di telefonia mobile che per le loro caratteristiche
non possono essere classificati come manufatti edilizi
incompatibili con il vincolo cimiteriale, in quanto gli
impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati
alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non
sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro
visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un
impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici
in cemento armato o muratura, tenuto anche conto che tali
impianti non ledono gli interessi dei quali il vincolo
cimiteriale persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, assimilabili ai
tralicci dell’energia elettrica, non arrecano alcun danno al
decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi
di ordine sanitario, non impediscono l’ampliamento del
cimitero.
---------------
L’art. 338 del r.d. n. 1265 del 1934 prevede il divieto di
nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi,
comunque quale esistente in fatto.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che
l’installazione di stazioni radio base è compatibile con
qualsiasi destinazione del piano regolatore comunale ed in
particolare, rispetto alla norma dell’art. 338 T.U.L.S. ha
espressamente affermato che in tale divieto di nuovi edifici
non rientrano le stazioni radio base per gli impianti di
telefonia mobile che per le loro caratteristiche non possono
essere classificati come manufatti edilizi incompatibili con
il vincolo cimiteriale, in quanto gli impianti di telefonia
mobile non possono essere assimilati alle normali
costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano
volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo
paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un
impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici
in cemento armato o muratura, tenuto anche conto che tali
impianti non ledono gli interessi dei quali il vincolo
cimiteriale persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, assimilabili ai
tralicci dell’energia elettrica, non arrecano alcun danno al
decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi
di ordine sanitario, non impediscono l’ampliamento del
cimitero (Consiglio di Stato n. 5257 del 2015; sulla
compatibilità degli impianti di comunicazione con il vincolo
cimiteriale cfr. altresì, n. 5837 del 2014)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 28.02.2017 n. 2964 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comporta la condannata per il reato previsto
dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380
l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
---------------
Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato
all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di
variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione
d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a
“pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la
realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un
ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
...
A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva
peraltro anche un processo penale che si concludeva con la
condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in
questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era
condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera
b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver
trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena
di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro
8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si
vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del
27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n.
7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009
con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui
statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il preavviso di rigetto ha una sua ragione
giustificatrice nelle sole ipotesi in cui l’interessato
possa apportare al procedimento dei fatti o argomentazioni
idonei ad influire sulla valutazione dell’Amministrazione in
sede di adozione del provvedimento conclusivo, con la
necessaria conseguenza che simile apporto si rivela del
tutto ininfluente nei provvedimenti vincolati, in vista dei
quali, come nella specie, non è necessaria la comunicazione
del motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
Peraltro l’interessato non può, come nella specie, limitarsi
a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso
di rigetto, ma è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o
valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale,
avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento
finale.
---------------
Con istanza del 22.01.2008 i ricorrenti avevano chiesto al
Comune di Trinità D’Agultu e Vignola l’accertamento di
conformità di alcune opere realizzate senza titolo sul lotto
n. 40, di loro proprietà, ubicato nella lottizzazione Costa
Paradiso; in particolare avevano chiesto la sanatoria di un
muro di contenimento alto mt. 1 per contenere il naturale
declivio del terreno del lotto e di un altro muro di
contenimento realizzato per contenere il materiale
utilizzato per il prolungamento della terrazza antistante
l’abitazione.
Con il provvedimento impugnato, n. 4503 dell'08.05.2008, il
responsabile del settore edilizia privata del Comune ha
respinto la domanda per mancato rispetto delle distanze
minime dal confine previste dalle N.T.A. del piano di
lottizzazione, in relazione ai muri di contenimento
realizzati, tra cui quello relativo al terrapieno sul quale
è stata realizzata la terrazza.
...
Il ricorso è in parte fondato e in parte infondato.
Con il primo motivo si deduce la censura di
violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241,
per omessa comunicazione del preavviso di rigetto.
La censura non può essere accolta.
Il preavviso di rigetto ha una sua ragione giustificatrice
nelle sole ipotesi in cui l’interessato possa apportare al
procedimento dei fatti o argomentazioni idonei ad influire
sulla valutazione dell’Amministrazione in sede di adozione
del provvedimento conclusivo, con la necessaria conseguenza
che simile apporto si rivela del tutto ininfluente nei
provvedimenti vincolati, in vista dei quali, come nella
specie, non è necessaria la comunicazione del motivi
ostativi all’accoglimento della domanda (in termini Cons.
Stato sez IV,10.05.2012, n. 2714 e sez. III, 28.09.2015, n.
4532; TAR Sardegna, sez. II, 15.06.2015, n. 868).
Peraltro l’interessato non può, come nella specie, limitarsi
a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso
di rigetto, ma è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o
valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale,
avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento
finale (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 05.05.2016 n. 401 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro a sostegno di un terrapieno non
costituisce costruzione in senso stretto (rilevante, ai fini
del rispetto delle distanze rispetto al confine), solo
nell’ipotesi in cui sia di modeste dimensioni e abbia
l’esclusiva funzione di evitare frane e smottamenti, non
anche altre funzioni come la realizzazione di una terrazza.
---------------
Con istanza del 22.01.2008 i ricorrenti avevano chiesto al
Comune di Trinità D’Agultu e Vignola l’accertamento di
conformità di alcune opere realizzate senza titolo sul lotto
n. 40, di loro proprietà, ubicato nella lottizzazione Costa
Paradiso; in particolare avevano chiesto la sanatoria di un
muro di contenimento alto mt. 1 per contenere il naturale
declivio del terreno del lotto e di un altro muro di
contenimento realizzato per contenere il materiale
utilizzato per il prolungamento della terrazza antistante
l’abitazione.
Con il provvedimento impugnato, n. 4503 dell'08.05.2008, il
responsabile del settore edilizia privata del Comune ha
respinto la domanda per mancato rispetto delle distanze
minime dal confine previste dalle N.T.A. del piano di
lottizzazione, in relazione ai muri di contenimento
realizzati, tra cui quello relativo al terrapieno sul quale
è stata realizzata la terrazza.
...
Con il terzo motivo si sostiene che l’obbligo di
rispetto delle distanze dal confine, vale soltanto per le
opere che sviluppano volume, mentre la terrazza realizzata
non creerebbe alcun volume.
La censura è infondata.
Come esattamente osservato dalla difesa del Comune,
il muro a sostegno di un terrapieno non è
costruzione nella sola ipotesi in cui sia di modeste
dimensioni ed abbia l’esclusiva funzione di evitare frane e
smottamenti. Nel
caso di specie il muro di contenimento ha un’altezza
superiore a due metri ed è stato realizzato per creare una
terrazza da parte dei ricorrenti.
I muri di contenimento del terreno di
appena un metro, quindi di modeste dimensioni, non rientrano
nel concetto di costruzioni,
cosicché per essi non vale la regola contenuta nelle N.T.A.
del piano di lottizzazione, sul rispetto della distanza di 4
metri dal confine.
Pertanto, in relazione ai muri di altezza fino a metri 1,
realizzati per contenere il naturale declivio del terreno,
il ricorso deve essere accolto
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 05.05.2016 n. 401 - link a
www.giustizia-amministrativa.it)
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno
naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti
della disciplina delle distanze o del regime autorizzativo
delle nuove costruzioni.
---------------
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità degli
atti mediante i quali le competenti amministrazioni
–ciascuna per la parte di proprio intervento– hanno
assentito la realizzazione di un’opera presso il cortile
della proprietà del sig. Vi.Ga., ubicato sulla via ... in
territorio del Comune di Cannobio (VB), in zona vincolata
paesaggisticamente, e consistente nell’apertura di un nuovo
passo carraio e livellamento del terreno (ai fini di
ospitare il parcheggio di autovetture).
A contestare le opere sono i ricorrenti vicini di casa, la
cui proprietà è confinante con quella del sig. Ga., i quali
sostengono trattarsi, in realtà, della realizzazione di un
nuovo terrapieno, con muri di contenimento alti fino a 90
cm., in violazione delle prescrizioni urbanistiche di zona
nonché delle disposizioni di legge in materia di
autorizzazione paesaggistica e di edificazione di nuove
costruzioni.
...
3.2. Quanto alla reale consistenza dell’intervento, deve
osservarsi quanto segue.
Le tavole di progetto depositate in giudizio, nel raffronto
tra ante e post operam (si vd., in
particolare, le tavole allegate all’istanza di
autorizzazione paesaggistica, sub doc. n. 3 del
controinteressato – quelle della comunicazione di inizio
lavori, depositate dai ricorrenti sub doc. 14, sono invece
illeggibili nei valori rilevanti), indicano chiaramente che
la differenza massima in altezza derivante dall’esecuzione
delle opere, rispetto allo stato originario dei luoghi,
tocca i 40 cm.: all’interno del cortile della proprietà
Gallotti, infatti, si indicava come valore originario quello
di “+1075”, nel punto più vicino alla via ..., e di “+1050”,
nel punto immediatamente più a nord; laddove, nel progetto
del post operam, quei valori sono sostituiti,
rispettivamente, da “+1095” e da “+1090”, e dunque con
un’altezza maggiore prevista di soli +20 e +40 cm.
In merito i ricorrenti sostengono che quei valori di altezza
sarebbero stati falsamente rappresentati dal progettista,
come sarebbe dimostrato dal “cumulo di terra incolta”
raffigurato nella documentazione fotografica allegata alla
comunicazione di inizio lavori (loro doc. n. 12),
circostanza che –a loro dire– sarebbe sintomatica del fatto
che solo di recente era stata ivi riportata della terra
proprio allo scopo di innalzare artificialmente il suolo e
di falsare, così, le successive risultanze.
Tuttavia i ricorrenti non provano quanto asseriscono;
nessuna certezza può invero desumersi dalla richiamata
documentazione fotografica, né tantomeno dal raffronto di
essa con la foto depositata sub doc. n. 7 (rappresentativa
dello stato dei luoghi prima del denunciato riporto di
terra; fotografia, peraltro, scattata da una distanza
oggettivamente inidonea a rendere chiaramente quanto
sostenuto dai ricorrenti), elementi dai quali non è affatto
desumibile né che l’originaria altezza dei luoghi misurasse
solo +1000 cm. né che ci sia effettivamente stato, nelle
condizioni di tempo denunciate dai ricorrenti, l’apposito “riporto
di terra” volto a modificare artificiosamente lo stato
dei luoghi. Nonostante, pertanto, che la relazione
descrittiva parlasse della realizzazione di un nuovo “terrapieno”,
e nonostante che la documentazione fotografica depositata
dai ricorrenti faccia presumere, a prima vista, un non
trascurabile impatto visivo dell’innalzamento realizzato,
quest’ultimo in realtà –così come emerge dalle
raffigurazioni e dalle misurazioni oggettive indicate nelle
tavole di progetto– non presenta le caratteristiche tipiche
del “nuovo terrapieno”, quali in particolare
ricostruite dalla giurisprudenza amministrativa, e non
rientra pertanto nel concetto di “nuova costruzione”.
In proposito, si deve ricordare che, secondo la costante
giurisprudenza, il muro di contenimento di una scarpata o di
un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione”
agli effetti della disciplina delle distanze o del regime
autorizzativo delle nuove costruzioni (cfr., tra le tante,
TAR Sicilia, Catania, sez. I, sent. n. 2721 del 2013).
Nel caso di specie, il naturale declivio del terreno, già
esistente in precedenza, è stato oggetto solo di un’opera di
livellamento e di minimo innalzamento (si ripete, per la
sola misura di +40 cm., nel punto più alto), con
pavimentazione, realizzazione di appositi muretti di
sostegno e complessiva funzionalizzazione al parcheggio di
autoveicoli, opera che, per tali oggettive caratteristiche,
secondo il Collegio rientra appieno nella definizione di cui
all’art. 6, comma 2, lett. c, del d.P.R. n. 380 del 2001 (“opere
di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per
aree di sosta”), con la conseguenza di rientrare tra le
attività edilizie libere realizzabili con mera comunicazione
di inizio lavori
(TAR Piemonte,
Sez. II,
sentenza 12.11.2015 n. 1557 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della conformità alle distanze legali, non è
considerato come costruzione il muro che, nel caso di
dislivello naturale, oltre a circoscrivere il fondo, adempie
anche alla funzione di supporto e contenimento del declivio
naturale; qualora invece il dislivello sia di origine
artificiale, è da considerarsi quale costruzione in senso
tecnico-giuridico il muro che rivesta in modo permanente e
definitivo anche la funzione di contenimento di un
terrapieno creato dall’opera dell’uomo.
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Il
ricorrente impugna il parere del Comune di
Fossacesia al SUAP Sangro Aventino, espresso in
merito a istanza di permesso di costruire in
sanatoria riferita a talune opere eseguite
nell’ambito di un capannone artigianale e relative
pertinenze in difformità dai vari titoli edilizi in
precedenza rilasciati, nella parte in cui prescrive
che una di tali opere (sopraelevazione di un muro a
confine con altra proprietà di cui a DIA 4421/1997)
venga ricondotta allo stato di cui alla DIA entro il
termine previsto dall’ingiunzione di demolizione in
precedenza notificata. Ciò in base alla
considerazione che la suddetta sopraelevazione può “configurarsi
come muro di contenimento capace di incidere
sull’osservanza delle distanze”.
...
Considerato che il Comune si è costituito in
giudizio senza controdedurre, il Collegio rileva:
- che è pacifico in atti che il muro in questione ha altezza
inferiore a tre metri, per cui “non è considerato
per il computo della distanza indicata dall’art. 873”
(art. 878 c.c.) e che non sono contestate le
risultanze della relazione tecnica in atti, da cui
si evince che “la sopraelevazione del muro in
questione non ha prodotto alcun incremento del
dislivello preesistente tra i due fondi/aree
attigui, avendo determinato semplicemente un diverso
profilo della scarpata di delimitazione del rilevato
già presente”;
- che è pertanto immotivato, rispetto al principio secondo cui “nel
caso, peraltro, di fondi a dislivello, nei quali
adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno
e contenimento del terrapieno o della scarpata, una
faccia non si presenta di norma come isolata e
l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è
l'altezza del terrapieno o della scarpata; pertanto,
non può essere considerato come costruzione, ai fini
dell'osservanza delle distanze legali il muro che,
nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare
il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e
contenimento del declivio naturale, mentre nel caso
di dislivello di origine artificiale deve essere
considerato costruzione in senso tecnico-giuridico
il muro che assolve in modo permanente e definitivo
anche alla funzione di contenimento di un terrapieno
creato dall'opera dell'uomo” (Cass. 8144/2001),
l’assunto secondo cui il predetto muto è “capace
di incidere sull’osservanza delle distanze”;
- che il predetto rilievo manifesta l’illegittimità della
condizione apposta e ne determina l’annullamento,
con ciò determinando l’assorbimento del secondo
profilo sopra riportato;
- che, in ordine alla domanda di annullamento dell’atto nella parte
in cui viene richiesto il preventivo parere della
Soprintendenza beni archeologici, il Collegio rileva
che l’Amministrazione statale interessata non è
stata evocata in giudizio, il che determina
l’inammissibilità della censura in quanto il suo
esito è in grado di produrre effetti anche
sull’interesse pubblico che fa capo alla predetta
Soprintendenza.
In tali limiti il ricorso va accolto, con
annullamento dell’atto impugnato nei limiti indicati
in motivazione (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.07.2015 n. 296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATA:
In tema di proprietà e confini, non può
essere considerato come costruzione, ai fini
dell’osservanza delle distanze legali il muro che,
nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare
il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e
contenimento di un terrapieno
(Cfr. Cass. civ. 15.06.2001 n. 8144) (TRIBUNALE di
Massa, Sez. civile, sentenza 29.05.2015 n. 606).
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EDILIZIA PRIVATA:
Trattandosi di uso non consentito della cosa comune e non di
violazione di distanze perde rilievo la tematica relativa
alla qualifica di costruzione o meno da dare al così
detto“terrapieno” del convenuto: infatti ciò che rileva in
questa sede è che il comproprietario si è in ogni caso
appropriato di un bene comune e lo ha assoggettato al suo
uso e godimento esclusivo, sottraendolo al pari uso
dell’attrice. Va dunque accolta la domanda di rivendica e
restituzione della parte del mappale illegittimamente
occupata dall’edificio del convenuto e del terzo chiamato,
con condanna degli stessi alla rimessione in pristino dello
stato dei luoghi, mediante rimozione della parte di edificio
di loro proprietà che ricade nella proprietà comune.
Essendo in ogni caso la costruzione dei convenuti a
distanza legale da quella dell’attrice questa non
può lamentare alcun danno tipico da violazione
distanze legali (ad es. minor luce, minor aria,
minor amenità del suo fondo e della sua abitazione)
ma solo il danno eventualmente derivante dall’essere
stato il mappale in parte destinato ad un uso
esclusivo; il che tuttavia non si vede quale danno
in concreto possa aver cagionato all’attrice la
quale ha comunque potuto continuare a godere della
scala che insiste sull’altra parte di esso per
accedere e recedere dalla propria abitazione
(TRIBUNALE
di Genova, Sez. III civile, sentenza 14.05.2015 n. 1501).
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EDILIZIA PRIVATA:
In caso di dislivello derivante
dall’opera dell’uomo, sono da considerare
costruzioni in senso tecnico-giuridico, rientranti
nell’art. 873 c.c., il terrapieno ed il relativo
muro di contenimento, che lo abbiano prodotto, o che
abbiano accentuato quello già esistente per la
natura dei luoghi.
E'
pertanto illegittimo il provvedimento di accertamento di
conformità richiesto con d.i.a. a sanatoria in relazione a
lavori oggetto di d.i.a. in variante al permesso di
costruire rilasciato per la realizzazione di un impianto di
distribuzione di carburanti, ove venga in rilievo un muro di
fabbrica –di altezza superiore a tre metri, e dunque non
considerabile quale muro di cinta ex art. 878 c.c.– recante
sostegno di un terrapieno e posto a una distanza dal confine
laterale inferiore ai mt. 3 prescritta dall’art. 873 c.c..
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Considerato che, nel merito, sono palesemente fondate
le censure di violazione dell’art. 873 c.c. e di
erronea applicazione alla fattispecie dell’art. 878
c.c., dedotte dalla ricorrente, atteso che:
- la stessa controinteressata ammette nelle sue difese (v. p. 7
della memoria del 19.11.2012) il superamento del
limite di altezza di mt. 3 in alcuni tratti del muro
per cui è causa, ciò che vale di per sé ad impedire
l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 878,
primo comma, c.c. (il quale permette di non
considerare, per il computo della distanza di cui
all’art. 873 c.c., il muro di cinta ed ogni altro
muro isolato che non abbia un’altezza superiore ai
tre metri);
- sul punto si richiama la giurisprudenza di legittimità, secondo
cui non può essere considerato muro di cinta, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 878 c.c. (e cioè
per l’inapplicabilità delle distanze legali tra le
costruzioni ex art. 873 c.c.) quello che, sebbene
posto sul confine ed isolato da entrambe le facce,
presenti un’altezza superiore a mt. 3, dovendosi in
tal ipotesi osservare la distanza di cui all’art.
873 c.c. (Cass. civ., Sez. II, 02.02.2000, n. 1134);
- per di più la documentazione prodotta dalla ricorrente dimostra,
oltre ogni ragionevole dubbio, che nella fattispecie
all’esame la costruzione dell’impianto di
distribuzione di carburanti ha comportato la
realizzazione di un dislivello artificiale, che ha
modificato artificialmente l’andamento altimetrico
del terreno.
Ciò è comprovato, in particolare, dalla
documentazione fotografica allegata alla perizia di
parte (all. 9 al ricorso), che mostra la situazione
dell’area interessata –e soprattutto il declivio del
terreno– prima e dopo la costruzione dell’impianto
di distribuzione di carburanti: in tali fotografie,
infatti, si può rilevare che, mentre prima della
suddetta costruzione le aperture situate al piano
terra della palazzina confinante con l’impianto
erano in gran parte visibili, dopo la conclusione
dei lavori, a causa della sopraelevazione
artificiale del terreno, tali aperture non sono più
in alcun modo visibili ed anzi il muro realizzato
arriva al marcapiano del primo piano della predetta
palazzina.
In secondo luogo, dette fotografie confermano oltre
ogni dubbio che il muro di cui si discute ha una
funzione di contenimento del terrapieno creato ex
novo ed artificialmente e che esso non
costituisce né un mero muro di cinta, né ha una
funzione di sostegno del declivio naturale, come
sostenuto dal Comune di Norma nella sanatoria
impugnata, attesa la sopraelevazione artificiale del
terreno che si desume dal confronto tra le
fotografie ante operam e post operam;
- alla luce di quanto ora illustrato, non può che concludersi per
l’assoggettamento del muro per cui è causa alla
disciplina ex art. 873 c.c. A tale conclusione si
perviene sulla base della giurisprudenza di
legittimità ed in specie sulla base di Cass. civ.,
Sez. II, 15.06.2001, n. 8144, che ha configurato
quale “costruzione” (come tale rientrante
nell’ambito applicativo dell’art. 873 c.c.) la
realizzazione di un terrapieno artificiale, con
riporto di terra addossato al muro di cinta
costruito dai vicini, e di un cordolo di
calcestruzzo in aderenza al predetto muro, per
rafforzare la funzione di contenimento del terreno
fatta assumere al muro stesso;
- infatti, secondo la decisione in commento, che richiama una
giurisprudenza di legittimità del tutto pacifica, il
muro di sostegno di un terrapieno, in quanto
costituente vera e propria costruzione, per il
rispetto delle distanze legali deve considerarsi
come muro di fabbrica e non già soltanto come muro
di cinta (che, a norma dell’art. 878 c.c., è quello
destinato alla protezione e delimitazione del fondo,
con altezza non superiore a tre metri e con le due
facce isolate).
È altresì pacifico in giurisprudenza che, in caso di
dislivello derivante dall’opera dell’uomo, sono
costruzioni in senso tecnico-giuridico (quindi
rientrano nell’art. 873 c.c.) il terrapieno ed il
relativo muro di contenimento, che lo abbiano
prodotto, o che abbiano accentuato quello già
esistente per la natura dei luoghi (cfr. Cass. civ.,
Sez. II, 21.05.1997, n. 4541);
- dal riferito insegnamento giurisprudenziale si ricava
l’illegittimità del provvedimento di sanatoria, per
non avere la P.A. tenuto conto che, come si legge
nel già citato verbale della Polizia Municipale del
25.02.2010, il muro in parola non rispetta le
distanze prescritte dal ricordato art. 873 c.c.:
infatti, mentre quest’ultimo prevede per le
costruzioni una distanza minima di mt. 3, il verbale
della Polizia Municipale menziona la presenza di un
muro di contenimento in cemento armato dell’intera
struttura “che dista dal confine laterale interno
di (sic) circa m. 01” (TAR Lazio-Latina
sentenza 05.05.2014 n. 324).
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EDILIZIA PRIVATA:
Non possono essere considerati muri di
cinta, ai fini della loro esclusione dal regime
delle distanze, i manufatti aventi funzioni
prevalentemente diverse da quella di delimitazione e
difesa del fondo, quali la funzione di contenimento
di un terrapieno artificiale
(TRIBUNALE di Benevento, Sez. civile, sentenza 08.01.2014 n. 28).
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EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una
scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi
“costruzione” agli effetti della disciplina delle distanze
e, pertanto, non è assoggettato al regime autorizzativo delle
nuove costruzioni, mentre sia il muro di cinta sia il muro
di contenimento elevato ad opera dell’uomo per assolvere in
modo permanente e definitivo anche alla funzione di
contenimento di un terrapieno artificiale, sono
assoggettati, così come tutte le altre costruzioni, alle
distanze dal confine stradale imposte dal Codice della
strada e dal relativo regolamento di esecuzione a garanzia
della sicurezza della circolazione.
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Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo di ricorso sostengono i
ricorrenti che la natura di muro di contenimento, e
non già di cinta, ricollegabile al manufatto in
progetto, rende l’opera insuscettibile, come tale,
di integrare una costruzione assoggettata alla
fascia di rispetto stradale.
Tale doglianza, condivisibile in generale dal
Collegio ove riferita esclusivamente al muro di
contenimento della proprietà, non può trovare
accoglimento nel caso concreto, perché i ricorrenti
pretendono di estendere lo speciale regime che con
riferimento ai muri di sostegno di dislivelli
naturali consente di derogare alla disciplina legale
sulle distanze minime dal manto stradale (Codice
della strada e relativo regolamento di esecuzione),
anche all’intervento edilizio riguardante un locale
interrato destinato a deposito, realizzato
all’interno del terrapieno.
Giova premettere che, in tema di distanze legali, il
muro di contenimento di una scarpata o di un
terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione"
agli effetti della disciplina delle distanze, e
pertanto non è assoggettato al regime autorizzativo
delle nuove costruzioni, così come evidenziato dai
ricorrenti con il primo motivo di ricorso, mentre
sia il muro di cinta (cfr. Cass. civ., n. 8144/2001;
Cons. Stato, n. 2954/2008) sia il muro di
contenimento elevato ad opera dell'uomo per
assolvere in modo permanente e definitivo anche alla
funzione di contenimento di un terrapieno
artificiale, sono assoggettati, così come tutte le
altre costruzioni, alle distanze dal confine
stradale imposte dal Codice della strada e dal
relativo regolamento di esecuzione a garanzia della
sicurezza della circolazione.
Nel caso di specie risulta incontrovertibilmente
dalla documentazione di causa (check list, relazione
tecnica ed elaborati grafici) che il progetto di
demolizione e ricostruzione riguarda due strutture,
di cui una è il locale interrato adibito a deposito,
da ricostruire mantenendo la stessa volumetria e
sagoma e che “è tutt’oggi destinato a deposito di
materiali ed attrezzature agricole a servizio del
terreno e della casa di proprietà della committenza”
(relazione tecnica al progetto), e l’altra un muro
di contenimento della proprietà che rappresenta il
prolungamento di tale locale interrato.
La verificazione disposta dalla Sezione ha poi
consentito di accertare che il confine lato nord che
affaccia sulla S.S. 113 è solo in parte costituito
dal muro di contenimento della proprietà, che si
sviluppa per una lunghezza di metri 10,95, mentre la
restante parte di tale confine è costituita dal
manufatto interrato che, come si evince dalla pianta
allegata alla relazione di verificazione, si
affaccia direttamente sulla strada per un lunghezza
di poco più di 11 metri con un accesso carrabile di
metri 3,75 munito di portone in ferro scorrevole su
due guide esterne.
Gli esiti della verificazione, dalla quale il
Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, rendono
chiaro che solo una delle due strutture interessate
dal progetto presentato dai ricorrenti è un muro che
assolve al contenimento del terreno, mentre l’altra
struttura consiste in un manufatto adibito a
deposito al servizio dell’immobile principale, cui
non può riconoscersi natura di muro di contenimento
nonostante le asserzioni di segno contrario dei
ricorrenti.
A fronte di tali esiti vengono meno i presupposti di
fatto su cui si fondano i ricorrenti, i quali non
hanno chiesto semplicemente di demolire e
ricostruire il muro di contenimento esistente
mantenendolo sul confine stradale, ma pretendono di
demolire e ricostruire anche il locale deposito
senza arretrare da detto confine.
Ciò che, invero, non è possibile ai sensi dell’art.
16 del codice della strada, che vieta ai proprietari
o aventi diritto dei fondi confinanti con le
proprietà stradali fuori dei centri abitati di “costruire,
ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade,
edificazioni di qualsiasi tipo e materiale”
(lett. b), rinviando al regolamento di esecuzione
per la determinazione delle distanze dal confine
stradale entro le quali vigono i divieti di cui al
comma 1, tra cui, per quanto qui di interesse, il
divieto di cui alla lettera b).
Il divieto riguarda, e dunque le distanze si
applicano, non solo alle "nuove costruzioni",
ma altresì alle ricostruzioni di manufatti di
qualsiasi tipo e materiale conseguenti a demolizioni
integrali, come nella fattispecie, e anche ai volumi
interrati, poiché, come affermato dalla
giurisprudenza, il limite di edificabilità in
questione non può essere inteso restrittivamente
come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza
di ostacoli materiali emergenti dal suolo,
suscettibili come tali di costituire pregiudizio
alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle
persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all'occorrenza, dall'ente proprietario della strada
per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei
cantieri, per il deposito dei materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza limitazioni
connesse alla presenza di costruzioni, con il
risultato che il vincolo in questione, traducendosi
in un divieto assoluto di costruire, vale
indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera
realizzata (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 3498
del 2011; TAR Toscana, Firenze, Sez. III 15.05.2013,
n. 806).
Tanto più poi che il locale deposito in argomento,
ricavato all’interno del terrapieno, prospetta
direttamente sulla strada con una apertura
carrabile, suscettibile pertanto di costituire
pregiudizio alla sicurezza della circolazione
stradale e alla incolumità delle persone.
Ne consegue che la demolizione e successiva
ricostruzione del locale interrato è soggetta al
rispetto delle distanze dal confine stradale imposte
dal codice della strada e relativo regolamento di
attuazione (art. 26 richiamato
dall’amministrazione), e l’ANAS legittimamente ha
contestato ai ricorrenti la violazione della fascia
di rispetto stradale, atteso che le richiamate
disposizioni di legge e regolamentari sulle distanze
minime da osservarsi dalle costruzioni a confine con
le strade al di fuori dal perimetro del centro
abitato sono dirette alla protezione di interessi
pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza
della circolazione stradale.
Da quanto fin qui esposto discende altresì
l’infondatezza della seconda censura sollevata in
ricorso, in quanto non è ravvisabile nel
comportamento dell’ANAS alcun eccesso di potere o
difetto di istruttoria, né tantomeno alcun
“capriccio” (memoria di parte ricorrente del
07.02.2012) nel non consentire una “ricostruzione”
che ictu oculi si manifesta come contra
legem.
L’assunto difensivo di parte ricorrente cade anche
con riferimento all’art. 30 del codice della strada,
che non è stato richiamato nel provvedimento
impugnato ma che i ricorrenti richiamano nella
seconda censura del ricorso, in quanto la norma
consente, lungo le strade ed autostrade, la
costruzione e la riparazione solo di quelle opere di
sostegno che assolvano alla esclusiva funzione di
difendere e sostenere i fondi adiacenti, senza
possibilità di ulteriori e diverse destinazioni ed
utilizzazioni, come avviene invece nel caso di
specie.
La comunicazione interna dell’Area Tecnica Esercizio
Strade Statali della Sezione compartimentale
dell’ANAS di Catania del 01.10.2012, depositata in
giudizio dall’Avvocatura dello Stato, evidenzia al
riguardo che “Appare del tutto evidente che la
funzione del muro non è esclusivamente quella che
dovrebbe assolvere (statica), bensì è destinato
congiuntamente ad altri usi (locale adibito a
deposito).” .
Va infine rilevato che neanche il paventato pericolo
di crollo del muro, a prescindere da quanto risulta
dalla verificazione (“al momento non risulterebbe
compromessa la staticità delle strutture” –
relazione di verificazione sub “conclusioni”),
può costituire argomento idoneo a giustificare la
pretesa di parte ricorrente ad ottenere il rilascio
da parte dell’ANAS di un provvedimento illegittimo.
Per le considerazioni esposte, il ricorso in
epigrafe va respinto in quanto infondato; va
conseguentemente respinta la domanda risarcitoria (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.11.2013 n. 2721 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATA:
In caso di fondi a dislivello, mentre non può considerarsi
costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, il
muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno
naturale, destinato ad impedirne smottamenti o frane, devono
invece considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico
il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti
all’opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o
per accentuare il naturale dislivello esistente (nella
specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici del
merito che avevano qualificato come costruzione il manufatto
creato artificialmente dalla parte per consentire
l’ampliamento del piazzale sovrastante di sua proprietà e
fargli da sostegno).
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MASSIMA
2) Con il primo motivo la ricorrente lamenta
la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e
15 delle disposizioni preliminari del c.c., del
principio "iura novit curia" e dell'art. 873
c.c., nonché la contraddittorietà della motivazione.
Deduce che, essendo stato accertato dal C.T.U. che
la convenuta ha realizzato un terrapieno con muro di
contenimento, la Corte di Appello non avrebbe dovuto
applicare il pregresso regolamento edilizio comunale
di Trento, bensì quello sopravvenuto, in vigore a
far data dal 29.02.2004, che all'art. 12, comma 3,
ha introdotto distanze inferiori per i terrapieni e
i riporti con i relativi muri di contenimento.
Rileva, inoltre, che il giudice del gravame non
avrebbe dovuto prendere a riferimento il versante
come innaturalmente inclinatosi a causa dei lavori
eseguiti a valle dal Condominio Ze., non seguiti dal
ripristino dello stato dei luoghi prescritto nella
licenza edilizia, ma avrebbe dovuto considerare solo
l'andamento naturale del piano di campagna, come
ricostruito planimetricamente dal C.T.U. e,
conseguentemente, accertare la piena conformità dei
manufatti all'art. 12 del nuovo regolamento
edilizio.
Il motivo si conclude con la formulazione di tre
quesiti ex art. 366-bis c.p.c., con cui si
chiede:
A) "Se una muratura realizzata nel Comune di Trento avente
funzione di contenimento di retrostante terrapieno
viene disciplinata dall'art. 12 del regolamento
edilizio di / Trento approvato con delibera del
28.01.2004";
B) "se il regolamento edilizio del Comune di Trento è norma
regolamentare integrativa del codice civile sulle
distanze legali e, quindi, se le sue modificazioni
intervenute in corso di causa debbono essere
immediatamente applicate dal giudicante ai fini del
decidere in ogni stato e grado e fino al passaggio
in giudicato, e cioè d'ufficio o essendo comunque
intervenuta richiesta di una parte";
C) "se costituisce motivazione contraddittoria ed in parte
omessa l'avere il giudice dichiarato di condividere
gli accertamenti di cui alla consulenza tecnica da
esso disposta ma poi avere disatteso, senza
motivazione specifica, le stesse risultanze
peritali, nella specie ricostruzione dell'andamento
del piano naturale di campagna manomesso con abuso
edilizio permanente dall'attore-resistente ed
applicazione dell'art. 12, comma 3, del nuovo testo
del regolamento edilizio di Trento esonerativi dalla
distanza di m. 5 dal confine".
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha accertato che i due muri
realizzati dalla Ed., costituenti un'unica
costruzione, "che consente il riempimento con
nuovo terreno del volume creato tra il profilo
originale del pendio ed il parametro interno della
muratura", non rappresentano il contenimento di
un versante franoso a tutela del fondo sottostante,
ma sono destinati al sostegno della parte allargata
del piazzale superiore.
Tale accertamento non può essere riposto in
discussione in questa sede, costituendo espressione
di un apprezzamento in fatto riservato al giudice di
merito ed essendo sorretto da una motivazione immune
da vizi logici, con cui è stato fatto riferimento
alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio.
Poiché, dunque, i muri in questione
non hanno la funzione di mero contenimento di un
dislivello naturale, il giudice del gravame ha
ritenuto che essi costituiscono una "costruzione"
in senso tecnico-giuridico, soggetta alla distanza
regolamentare di cinque metri dal confine prescritta
dallo regolamento locale, senza che in relazione a
tali opere possano trovare applicazione le minori
distanze previste, con riferimento ai "muri di
cinta e muri di contenimento", dallo ius
superveniens invocato dalle ricorrente,
rappresentato dall'art. 12 del nuovo regolamento
edilizio del Comune di Trento.
Così decidendo, la Corte di Appello si è uniformata
ai principi più volte enunciati dalla
giurisprudenza, secondo cui, in
caso di fondi a dislivello, mentre non può
considerarsi costruzione, agli effetti delle norme
sulle distanze, il muro di contenimento di una
scarpata o di un terrapieno naturale, destinato ad
impedirne smottamenti o frane, devono invece
considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico
il terrapieno ed il relativo muro di contenimento
dovuti all'opera dell'uomo per creare un dislivello
artificiale o per n accentuare il naturale
dislivello esistente
(cfr. Cass. 10.01.2006 n. 145; Cass. 21.05.1997 n.
4511; Cass. 11.01.1992 n. 243; Cass. 06.05.1987 n.
4196).
Nel caso di specie, essendosi in
presenza di un manufatto creato artificialmente
dalla convenuta per consentire l'ampliamento del
piazzale sovrastante di sua proprietà e fargli da
sostegno, non par dubbio che tale opera debba essere
considerata una vera e propria "costruzione",
come tale assoggettata al rispetto delle ordinarie
distanze legali dettate in materia dall'art. 873
c.c. e dalle norme integrative locali.
Sotto altro profilo, si osserva che appare
altrettanto evidente che, al fine di valutare la
conformità dell'opera realizzata dalla Ed. alle
prescrizioni regolamentari, si debba tener conto
della situazione dei luoghi quale si presentava
all'epoca della costruzione, e non di quella,
risalente a circa 20 anni prima, esistente al
momento della edificazione effettuata dal Condominio
Ze.. E' alle condizioni attuali dei luoghi, di
conseguenza, che la ricorrente avrebbe dovuto
adeguare la sua costruzione; sicché essa non può
pretendere di sottrarsi all'osservanza della
normativa locale sulle distanze in considerazione
delle modifiche apportate alla originaria pendenza
del terreno in occasione dei pregressi lavori
eseguiti dall'attore.
La convenuta, infatti, ove si fosse ritenuta
danneggiata dagli abusi commessi dalla controparte,
avrebbe potuto eventualmente avvalersi di altri
strumenti, ma non avrebbe certo potuto sentirsi
autorizzata ad eseguire costruzioni a distanza
inferiore a quella prescritta dalle norme legali e
regolamentari Non sussistono, pertanto, le
violazioni di legge e i vizi di motivazione
denunciati dalla ricorrente, essendo la decisione
impugnata sorretta da argomentazioni corrette sul
piano logico e giuridico, con cui è stato fatto buon
governo dei principi affermati in materia di
distanze delle costruzioni dalla giurisprudenza
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.09.2013 n. 21192).
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EDILIZIA PRIVATA:
In tema di applicazione della disciplina delle distanze
legali, il terrapieno deve essere considerato una
costruzione a tutti gli effetti quando completi la struttura
e la funzionalità di un altro corpo di fabbrica
“principale”.
In tema di distanze legali, rientrano nel concetto di
“costruzione”, agli effetti dell’art. 873 cod. civ., il
terrapieno ed i locali in esso ricompresi, avendo il
medesimo terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare
il piano di campagna posto a quote differenti dal fondo
confinante, mediante un manufatto eretto a chiusura statica
del terreno, e potendo, tuttavia, egualmente qualificarsi il
riporto di terra volto a sopraelevare il piano di campagna
allo scopo di coprire degli insediamenti edilizi, senza che
risulti di impedimento alla ravvisata equiparazione del
terrapieno alla “costruzione” la sopravvenuta separazione
del muro di contenimento dal retrostante accumulo di
terreno, in quanto tale muro è soltanto diretto ad eliminare
la pericolosità del riporto, allorché non sia stata
rispettata la distanza solonica di cui all’art. 891 cod.
civ..
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MASSIMA
IX — Vanno esaminati congiuntamente i motivi da
uno a cinque per la loro stretta connessione logica,
rappresentata dall'interpretazione del concetto di
costruzione, se riferito ad un terrapieno ed ai
locali in esso ricompresi, e del valore da
attribuire ad un elemento costruttivo —la
pavimentazione che sormonta detto terrapieno-
adducente all'abitazione principale.
IX.a — Va innanzi tutto statuito che rientra in un
giudizio di fatto —insindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato— l'accertamento
se persista la caratteristica di "terrapieno"
nel riporto di terreno che abbia perso uno dei
contrafforti —quello verso il confine-: sul punto la
Corte bresciana ha assunto che le innovazioni
apportate, per mezzo di uno scavo a confine, nel
corso del giudizio di primo grado, se avevano reso
impossibile mettere in rapporto il manufatto
confinario così lasciato scoperto ed il retrostante
terreno, tuttavia non avevano eliminato il carattere
di "costruzione" da attribuirsi al detto
riporto -ed alle costruzioni che al suo interno si
trovavano- per lo stretto rapporto che il primo e le
seconde avevano con l'edificio principale.
IX.b — Tale ricostruzione va mantenuta ferma in
quanto il terrapieno, nella sua
espressione più frequente, ha la funzione di
stabilizzare il piano di campagna originariamente
posto, rispetto al confine, a quote differenti dal
terreno del vicino
-e rispetto alla cui finalità è coessenziale la
presenza di un manufatto a chiusura statica del
terreno medesimo-; medesima
qualificazione però deve essere attribuita al
riporto di terra mediante il quale si sopraelevi il
livello dell'originario piano di campagna, anche
allo scopo
—qui caratterizzante la fattispecie-
di coprire degli insediamenti edilizi-;
in entrambe le ipotesi la sopravvenuta
separazione del manufatto —muro di contenimento- dal
retrostante riporto di terra non è di impedimento
alla equiparabilità del terrapieno alla costruzione,
essendo il muro funzionale solo alla eliminazione
della pericolosità statica del riporto, le volte in
cui non sia stata rispettato il principio della c.d.
scarpa o distanza solonica, introdotto dall'art. 891
cod. civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 13.05.2013 n. 11388).
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EDILIZIA PRIVATA:
Anche un rialzamento del terreno realizzato a opera
dell’uomo può integrare gli estremi della costruzione
secondo quanto previsto dall’art. 873 c.c., tenuto conto che
ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali la
nozione di costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell’opera.
Nel caso di dislivello derivante dall’opera
dell’uomo devono ritenersi costruzioni, in senso tecnico
giuridico, il terrapieno e il relativo muro di contenimento
che lo abbiano prodotto o che abbiano accentuato quello già
esistente per la natura dei luoghi.
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MASSIMA
3. I due motivi, tra loro collegati,
possono essere esaminati congiuntamente risolvendosi
nell'unitaria censura della sentenza che ha escluso
la natura di costruzione alla sopraelevazione
artificiale del piano di campagna da parte del
confinante. I motivi si concludono con la
formulazione di un quesito per ciascun motivo.
Il primo quesito è diretto a stabilire se per
costruzione debba intendersi anche quella realizzata
con riporto di terreno con il quale venga
artificialmente aumentato il piano naturale del
fondo rispetto a quello confinante e comunque il
dislivello naturale tra due fondi, indipendentemente
dallo spessore e dal volume del terrapieno.
Il secondo quesito è diretto a stabilire se è
soggetto all'obbligo delle distanze, in quanto
equiparabile a costruzione, anche il terrapieno
realizzato artificialmente anche se non appoggiato
ad un muretto di contenimento.
4. I motivi sono infondati.
Il giudice di appello ha escluso che la
realizzazione del terrapieno costituisse "costruzione"
sulla base di due rationes decidendi, una
delle quali costituita dalla modestia
dell'intervento realizzato con semplice apporto di
terra su terra per pochi centimetri di altezza.
Occorre premettere:
- che in sede possessoria era stato richiesto di riportare la quota
del terreno al livello preesistente per la distanza
di metri cinque dal confine,
- che è pacifico che la quota del terreno è stata rialzata
artificialmente di pochi centimetri e senza la
realizzazione di muratura di contenimento;
- che non è controverso in causa che la violazione delle distanze
possa costituire molestia nel possesso, come d'altra
parte già affermato dalla giurisprudenza di questa
Corte secondo la quale la violazione delle distanze
legali nelle costruzioni integra una molestia al
possesso del fondo finitimo, contro la quale è data
l'azione di manutenzione, perché anche quando non ne
comprime di fatto l'esercizio, apporta
automaticamente modificazione o restrizione delle
relative facoltà (v. Cass. 03/07/1998 n. 6483; Cass.
23/01/1995 n. 724; Cass. 19/03/1991 n. 2927; Cass.
09/09/1989 n. 3911).
Questa Corte ha, inoltre, di recente riaffermato il
principio, qui condiviso, secondo il quale
anche un rialzamento del terreno realizzato
ad opera dell'uomo può integrare gli estremi della
costruzione secondo quanto previsto dall'art. 873
c.c., tenuto conto che ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze legali la nozione di
costruzione non si identifica con quella di edificio
ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo,
anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera
(Cass. 20/07/2011 n. 15972).
Già in precedenza era consolidato l'orientamento
secondo il quale nel caso di
dislivello derivante dall'opera dell'uomo devono
ritenersi costruzioni in senso tecnico-giuridico il
terrapieno ed il relativo muro di contenimento che
lo abbiano prodotto o che abbiano accentuato quello
già esistente per la natura dei luoghi
(v. Cass. 15/06/2001 n. 8144; Cass. 02/02/2000 n.
1134; Cass. 21/05/1997 n. 4541).
Tuttavia questi principi non sono applicabili alla
fattispecie nella quale è stato escluso dalla Corte
di Appello con motivazione di puro merito, che
l'opera di sistemazione del terreno in concreto
realizzata possa essere qualificata come costruzione
anche tenendo conto dei criteri elaborati da questa
Corte per l'individuazione dell'ambito della nozione
di costruzione.
Questa valutazione, in primo luogo, esclude la
dedotta violazione dell'art. 873 c.c. che impone di
rispettare, nelle costruzioni, le distanze legali
eventualmente anche maggiori stabilite dai
regolamenti locali (nel caso concreto 5 metri).
Il non avere riconosciuto che non è costruzione il
riporto di pochi centimetri di terreno sul suolo non
significa non avere ricondotto il fatto accertato
alla fattispecie di legge (art. 873 c.c.) in quanto
a tal fine sono state valorizzate circostanze tali
da escludere il presupposto in fatto di
applicabilità della norma, ossia l'esistenza di una
costruzione anche nell'accezione recepita dalla
giurisprudenza di legittimità; ciò comporta che
neppure è messo in discussione il principio per il
quale le disposizioni sulle distanze legali non
lasciano al giudice nessun margine di accertamento e
di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti
dalla loro inosservanza e, in particolare, alla
formazione di eventuali intercapedini (dannose o
pericolose), avuto riguardo alle finalità di natura
pubblicistica cui dette disposizioni si ispirano
(Cass. n. 213/2006; n. 15367/2001, n. 8023/1999, n.
12195/1998).
Infine non messo in discussione il principio
dell'assolutezza del diritto reale che non tollera
limitazioni e la cui tutela non può quindi essere
subordinata alla prova di un pregiudizio (cfr. ex
multis Cass. 12/10/2009 n. 21629).
In conclusione, una volta escluso che la decisione
impugnata si ponga in diretto contrasto con la
disposizione che si assume violata (art. 873 c.c.),
la questione si riduce a stabilire se sia
ravvisabile il pur dedotto vizio di motivazione in
ordine alla qualificazione dell'intervento e, in
particolare, se nell'escludere che tale intervento
possa essere considerato una "costruzione"
possa ravvisarsi un contrasto con la nozione
elaborata dalla giurisprudenza quanto alle
caratteristiche della costruzione ai fini del
rispetto delle distanze legali (riemergendo, solo in
caso di accertato contrasto, anche il vizio di falsa
applicazione dell'art. 873 c.c.).
A questo punto riacquista rilevanza il giudizio
sulla astratta idoneità alla creazione di
intercapedini nocive (cfr. Cass. 12/02/1998 n.
1509). Infatti l'art. 873 c.c., nello stabilire per
le costruzioni su fondi finitimi la distanza minima
di tre metri dal confine o quella maggiore fissata
dai regolamenti locali, si riferisce, in relazione
all'interesse tutelato dalla norma, non
necessariamente ad un edificio, ma ad un qualsiasi
manufatto avente caratteristiche di consistenza e
stabilità o che emerga in modo sensibile dal suolo e
che, inoltre, per la sua consistenza, abbia
l'idoneità a creare intercapedini pregiudizievoli
alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della
proprietà, idoneità il cui accertamento è rimesso al
giudice di merito (Cass. 06/03/2002 n. 3199; Cass.
17/12/2012 n. 23189).
Nella specie, la Corte di merito, nel rispetto dei
criteri elaborati dalla giurisprudenza quanto alla
nozione di costruzione, ha valorizzato il dato
(certo) della irrilevante fuoriuscita dal suolo,
implicitamente, ma inequivocabilmente escludendo
anche l'astratta possibilità di creazione di
qualsivoglia intercapedine, trattandosi di un mero
intervento di sistemazione del terreno con l'apporto
di terra e all'esito del quale la quota è risultata
più elevata per pochi centimetri (circa 50
centimetri secondo il ricorrente).
I due motivi sono pertanto infondati e al primo
quesito di diritto occorre dare risposta
negativa nel senso che la
sopraelevazione di pochi centimetri del terreno come
conseguenza di una mera sistemazione del suolo con
l'apporto di terra senza che si realizzi, per la
modestissima variazione della quota, neppure
l'astratta possibilità del formarsi di intercapedini
non costituisce costruzione.
Il secondo quesito pur affermando un
principio pacifico (e soggetto all'obbligo delle
distanze il terrapieno artificialmente realizzato
anche se non appoggiato ad un muretto di
contenimento), non pertinente alla fattispecie in
quanto, con accertamento adeguatamente motivato il
giudice del merito ha ritenuto per la irrilevanza
della variazione della quota altimetrica non
sussistano i requisiti minimi affinché l'intervento
sul terreno possa essere qualificato come
costruzione.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato;
tuttavia, quanto alle spese di questo giudizio di
cassazione, non si può non considerare che nella
valutazione in fatto i giudici dei due gradi di
merito hanno espresso (in forma molto sintetica
quelle del giudice di appello) valutazioni opposte,
pur nella comune e dichiarata adesione, sia da parte
del giudice di primo grado che da parte del giudice
di appello ai principi di diritto elaborati dalla
giurisprudenza di questa Corte (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.04.2013 n. 9179).
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EDILIZIA PRIVATA:
Il muro di tamponamento del terrapieno dev’essere
considerato una costruzione ai fini del computo delle
distanze di cui all’art. 873 c.c. nella parte in cui,
finendo la propria specifica funzione, vale a dire quella di
contenimento del retrostante terreno e quindi di
conservazione dello stato dei luoghi, assume connotati del
tutto diversi, quali, per esempio, quello di parapetto utile
a consentire l’affaccio illegittimo sul fondo del vicino.
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MASSIMA
4.2. - Il secondo motivo è fondato sotto
il duplice profilo della violazione dell'art. 873 e
della logicità del connesso impianto motivazionale
diretto ad escludere che l'opera in questione fosse
qualificabile come costruzione.
E' costante affermazione di questa S.C. che, in tema
di distanze legali, il muro di
contenimento di una scarpata o di un terrapieno
naturale non può considerarsi "costruzione"
agli effetti della disciplina di cui all'art. 873
c.c. per la parte che adempie alla sua specifica
funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello
de/fondo superiore, qualunque sia l'altezza della
parete naturale o della scarpata o del terrapieno
cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte
del muro che si innalza oltre il piano del fondo
sovrastante, invece, in quanto priva della funzione
di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta
alla disciplina giuridica propria delle sue
oggettive caratteristiche di costruzione in senso
tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina
devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel
senso sopra specificato, il terrapieno ed il
relativo muro di contenimento elevati ad opera
dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per
accentuare il naturale dislivello esistente
(Cass. nn. 145/2006 e 243/1992).
Ne deriva che il muro di
contenimento tra due fondi posti a livelli
differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera
dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia
stato artificialmente accentuato, deve considerarsi
costruzione a tutti gli effetti e soggetta,
pertanto, agli obblighi delle distanze previste
dall'art. 873 cod. civ. e dalle eventuali norme
integrative
(Cass. n. 1217/2010).
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 13.09.2012 n. 15391).
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AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2017 |
ã |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Intervento
ad opponendum da parte dei funzionari che hanno
partecipato al procedimento che ha condotto all'adozione del
provvedimento impugnato.
E' ammissibile l’intervento ad
opponendum da parte del responsabile dell’ufficio e del
tecnico istruttore, non già in rappresentanza dell’ente cui
appartengono, ma al mero scopo di difendere la loro
posizione “tecnica”, in quanto soggetti che hanno
partecipato al procedimento che ha condotto all’adozione del
provvedimento impugnato.
Invero, l’interesse dei tecnici intervenienti risulta
indubbiamente sussistente dalla necessità di difendere i
propri atti da eventuali riflessi in termini di ricadute
patrimoniali (in caso di azioni di responsabilità) e
professionali.
---------------
... per l'annullamento:
- della nota prot. n. 19540 del 22.08.2016 con cui l'A.c. di
Melendugno ha denegato il rilascio del permesso di costruire
– richiesto dalla ricorrente con istanza dell'08.06.2016
(acquisita al protocollo comunale con il n. 13670 del
09.06.2016);
...
2. Va, preliminarmente, scrutinata l’eccezione di
inammissibilità per difetto di legittimazione passiva dei
resistenti (tecnico istruttore e responsabile dell’ufficio
tecnico del Comune intimato).
Il Collegio ritiene che, in disparte la questione della
irrilevanza della suindicata costituzione, risultando la
stessa solo di carattere formale e comunque priva di
significativi apporti ai fini del decidere, indubbiamente
nei giudizi promossi avverso un ente comunale, legittimato
passivo del giudizio è l’Ente la cui rappresentanza spetta
al Sindaco, anche dopo la ripartizione delle competenze fra
gli organi di indirizzo politico e dirigenza confermata con
il D.Lgs. 18/08/2000, n.267 (c.d. Testo Unico degli Enti
Locali).
Tuttavia, nella specie, il Responsabile dell’Ufficio e il
Tecnico Istruttore si sono costituiti in proprio e, quindi,
non già in rappresentanza dell’ente cui appartengono ma al
mero scopo di difendere la loro posizione “tecnica”
in quanto soggetti coinvolti nel procedimento che ha
comportato la reiezione dell’istanza della ricorrente.
Tale costituzione, stante l’irrilevanza del nomen iuris
attribuito a un atto processuale, può a parer del collegio
essere qualificata come atto di intervento ad opponendum;
invero, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale (ex
multis Cass. n. 5743/2008, Cass. n. 3041/2007, Cass. n.
8107/2006, Cass. n. 18653/2004, Cass. Sez. Un. n.
10840/2003, Cass. n. 11861/1999) il giudice ha il
potere-dovere di accertare e valutare il contenuto
sostanziale della pretesa senza lasciarsi condizionare dalle
espressioni utilizzate dalla parte. A tal fine, il giudice
deve considerare non solo il tenore letterale degli atti, ma
anche la natura delle vicende rappresentate dalla parte, le
precisazioni fornite nel corso del giudizio e il
provvedimento in concreto richiesto; in sostanza, il
complessivo comportamento processuale della parte. Peraltro,
la Suprema Corte (Cass. n. 15299/2005) ha ritenuto
applicabili analogicamente le regole di ermeneutica
contrattuale, e in particolare il principio di conservazione
degli atti giuridici di cui all’art. 1367 c.c., come per gli
altri negozi giuridici.
Nel processo amministrativo, l'art. 28, comma 2, c.p.a.
stabilisce che chiunque non sia parte, "ma vi abbia
interesse", può intervenire in giudizio, lasciando così
intendere che sia sufficiente che l'interveniente vanti un
interesse derivato o dipendente da quello fatto valere dalla
parte principale.
La facoltà di intervento richiede in ogni caso la titolarità
di una situazione qualificata, la quale (per quanto attiene
all’intervento ad opponendum) necessariamente
presuppone un oggettivo e concreto interesse in capo al
terzo a contrastare il ricorso e a conseguirne il rigetto,
il quale può essere collegato a quello dell’Amministrazione
resistente o di qualche controinteressato già costituito in
giudizio ma anche autonomo poiché connesso al mantenimento
dell’atto e (o) provvedimento gravato (artt. 28 e 50 D.Lgs.
n. 104/2010, CPA - TAR Lazio Roma Sez. II-bis, 04.05.2017,
n. 5201)
In particolare, l'intervento ad opponendum deve
ritenersi ammissibile ogni qual volta il soggetto
interveniente vanti un interesse, ancorché di mero fatto,
mediato e riflesso, al mantenimento della situazione
giuridica creata dal provvedimento impugnato (cfr. TRGA
Bolzano, 06.04.2016, n. 128).
Nella specie, l’interesse dei tecnici intervenienti risulta
indubbiamente sussistente, come peraltro adombrato dalle
stesse parti in sede di discussione, dalla necessità di
difendere i propri atti da eventuali riflessi in termini di
ricadute patrimoniali (in caso di azioni di responsabilità)
e professionali.
Deve pertanto ritenersi ammissibile la costituzione dei
sigg. De Gi. e Pe.
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.08.2017 n. 1423 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi, il Foia all'angolo. Dopo la
denuncia niente accesso per avere i
documenti. Il garante privacy sul Freedom of
information act: possibile agire in base
alla legge 241/1990.
Strada sbarrata al Foia nelle pratiche di
abusivismo edilizio. Chi denuncia una
difformità della costruzione (ad esempio un
ampliamento in difformità dal piano
regolatore nella casa del proprio vicino)
non può invocare l'accesso civico
generalizzato (dlgs 33/2013) per avere
dall'ufficio tecnico comunale le copie
dell'eventuale procedimento edilizio di
accertamento dell'abuso.
Non si può neanche avere copia dell'atto
iniziale del procedimento di ispezione
edilizia (comunicazione di avvio del
procedimento).
È quanto precisato dal garante della
privacy, con il
provvedimento 28.06.2017 n. 295, reso
noto solo ora, con il quale l'autorità di
settore ha dato parere negativo all'accesso
generalizzato.
Al massimo chi denuncia può cercare di avere
le copie in base a un altro tipo di accesso,
quello documentale disciplinato dalla legge
241/1990, ma deve dimostrare di avere un
interesse diretto, concreto e attuale.
E, a questo proposito, aggiungiamo che non
basta la curiosità di sapere come si è mosso
l'ufficio comunale.
Nel caso specifico un cittadino ha segnalato
all'ufficio tecnico comunale un presunto
abuso edilizio commesso dal vicino e, in
seguito, ha chiesto copia degli atti del
comune per vedere che fine aveva fatto la
propria denuncia.
Essendoci un potenziale conflitto con la
privacy del denunciato, il responsabile
della trasparenza di un comune ha chiesto al
garante il parere previsto dall'articolo 5,
comma 7, del dlgs n. 33/2013.
Tra l'altro il cittadino in questione ha
presentata una richiesta di accesso agli
atti, senza precisare se si trattava di una
richiesta di accesso documentale, ai sensi
della legge n. 241/1990 oppure di accesso
civico (Foia) ai sensi dell'articolo 5 del
dlgs n. 33/2013.
E il comune ha applicato promiscuamente sia
le regole dell'accesso documentale sia
quelle dell'accesso del Foia.
In ogni caso la persona denunciata (controinteressato)
si è opposta all'accesso, sottolineando che
gli atti riguardano esclusivamente la
propria sfera personale e privata.
Il comune ha accolto l'accesso limitatamente
a un unico documento, e cioè alla copia
della comunicazione di avvio del
procedimento. Per gli altri documenti il
comune ha fatto rinvio ad altri enti
competenti per il procedimento.
Per la cronaca la pratica di abuso edilizio
è stata archiviata e cioè alla denuncia non
è seguita nessuna sanzione.
Il controinteressato non è rimasto
soddisfatto e ha chiesto il riesame
contestando l'accoglimento parziale della
richiesta (in sostanza riteneva non dovesse
essere fornita neanche la copia della
comunicazione di avvio del procedimento).
La vicenda è, quindi, approdata all'ufficio
del garante, che, innanzi tutto, ha
criticato la condotta del comune, in quanto
ha confuso due distinti istituti: l'accesso
civico e l'accesso documentale.
Sulla base di questo rilievo si nota che i
comuni, in caso di dubbio, dovranno
immediatamente chiedere precisazioni a chi
fa una domanda generica di accesso, e questo
per impostare correttamente fin dall'inizio
la pratica: il richiedente deve prendere
posizione, anche se non è da escludersi che
si faccia una richiesta multipla, invocando
diverse normative.
In ogni caso accesso documentale (legge
241/1990) e accesso civico generalizzato (dlgs
33/2013 noto come Foia) costituiscono
procedimenti diversi, ai quali si applicano
diversi termini, limiti e strumenti di
ricorso e revisione.
Comunque il garante non si è limitato a
rilievi procedurali e ha ritenuto di
pronunciare il suo parere a fronte
dell'importanza della questione.
Al garante, in effetti, la legge chiede di
valutare se, nel caso singolo, l'accesso
civico comporti un pregiudizio concreto alla
tutela della protezione dei dati personali (dlgs
n. 33/2013, articolo 5-bis, comma 2, lett.
a).
Se la risposta è sì, l'accesso civico
generalizzato va negato. Come è successo
nella vicenda in esame.
Ebbene, il garante ha ritenuto che la
conoscenza dei dati personali, anche quelli
contenuti nella copia della comunicazione di
avvio del procedimento, attivato a seguito
della denuncia per opere edilizie abusive da
parte di altro soggetto, potrebbe integrare,
a seconda delle ipotesi e del contesto in
cui le informazioni fornite possono essere
utilizzate da terzi, proprio quel
pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto
dall'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del
dlgs n. 33/2013.
Tradotto gli atti del fascicolo della
pratica di abuso edilizio non si possono
conoscere con l'istituto del Foia, che è
riservato alle richieste di copia da parte
di chi non ha un interesse diretto rispetto
agli atti stessi, senza necessità di
esprimere una motivazione all'accesso.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità
per il denunciante l'abuso di avere copia
del documento, ma solo in base alla legge
241/1990 e, pertanto, solo se dimostra
l'esistenza di un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso (articolo 22 della legge n.
241/1990)
(articolo ItaliaOggi del
22.08.2017).
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MASSIMA
La disciplina di settore contenuta nel
d.lgs. n. 33/2013 prevede che «Allo scopo
di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai
dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione ai sensi del
presente decreto, nel rispetto dei limiti
relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis» (art. 5,
comma 2).
Ai fini della definizione delle esclusioni e
dei limiti all'accesso civico, è previsto
che «l'Autorità nazionale anticorruzione,
d'intesa con il Garante per la protezione
dei dati personali e sentita la Conferenza
unificata di cui all'articolo 8 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, adott[i]
linee guida recanti indicazioni operative»
(art. 5-bis, comma 6).
In proposito, l'Autorità Nazionale
Anticorruzione-ANAC, d'intesa con il
Garante, ha approvato le citate «Linee
guida recanti indicazioni operative ai fini
della definizione delle esclusioni e dei
limiti all'accesso civico di cui all'art. 5,
co. 2, del d.lgs. 33/2013»
(in G.U. Serie Generale n. 7 del 10/01/2017.
Cfr. anche Provvedimento del Garante recante
«Intesa sullo schema delle Linee guida
ANAC recanti indicazioni operative ai fini
della definizione delle esclusioni e dei
limiti all'accesso civico» n. 521 del
15/12/2016, in www.gpdp.it, doc. web n.
5860807.
Nelle predette Linee guida è specificato,
fra l'altro, che «L'accesso generalizzato
deve essere anche tenuto distinto dalla
disciplina dell'accesso ai documenti
amministrativi di cui agli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241
(d'ora in poi "accesso documentale"). La
finalità dell'accesso documentale ex l.
241/1990 è, in effetti, ben differente da
quella sottesa all'accesso generalizzato ed
è quella di porre i soggetti interessati in
grado di esercitare al meglio le facoltà
–partecipative e/o oppositive e difensive–
che l'ordinamento attribuisce loro a tutela
delle posizioni giuridiche qualificate di
cui sono titolari. […] Tenere ben distinte
le due fattispecie è essenziale per
calibrare i diversi interessi in gioco
allorché si renda necessario un
bilanciamento caso per caso tra tali
interessi. Tale bilanciamento è, infatti,
ben diverso nel caso dell'accesso 241 dove
la tutela può consentire un accesso più in
profondità a dati pertinenti e nel caso
dell'accesso generalizzato, dove le esigenze
di controllo diffuso del cittadino devono
consentire un accesso meno in profondità (se
del caso, in relazione all'operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che
l'accesso in questo caso comporta, di fatto,
una larga conoscibilità (e diffusione) di
dati, documenti e informazioni» (par.
2.3. Cfr. anche TAR Roma, Lazio, sez. III,
21/03/2017, n. 3742).
Con particolare riferimento al caso
sottoposto all'attenzione del Garante,
risulta che la richiesta di accesso agli
atti aveva a oggetto documenti attinenti a
un procedimento amministrativo e che,
considerando il contenuto della notifica
inviata al controinteressato, il Comune ha
istruito la richiesta di accesso agli atti
come istanza formulata ai sensi della l. n.
241/1990 –cosa che ha portato il
controinteressato a invocare l'inesistenza
dell'interesse qualificato dell'istante–,
salvo poi aver riscontrato l'istanza di
accesso richiamando la disciplina e i limiti
sia in materia di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi della l. 241/1990,
che in materia di accesso civico ai sensi
dell'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
Nel caso sottoposto all'attenzione del
Garante, pertanto, contrariamente a quanto
affermato nelle citate Linee guida dell'ANAC,
l'amministrazione destinataria dell'istanza
non ha tenuto distinta la disciplina
dell'accesso civico (d.lgs. n. 33/2013) da
quella dell'accesso ai documenti
amministrativi (l. 241/1900), confondendo i
relativi piani.
Pertanto, richiamando in ogni caso
l'attenzione del Comune sulla necessità di
rispettare i diversi procedimenti previsti
dalle singole normative di settore che
regolano gli istituti richiamati (accesso
documentale e accesso civico) –ai quali,
peraltro, si applicano diversi termini,
limiti e strumenti di ricorso e revisione–
si ritiene opportuno fornire le seguenti
indicazioni, atteso il carattere rilevante
della questione, e considerando, fra
l'altro, che il controinteressato ha
presentato richiesta di riesame del
provvedimento di accoglimento parziale ai
sensi dell'art. 5, comma 9, del d.lgs. n.
33/2013.
Nel procedimento relativo alle richieste di
accesso civico, è previsto che «Nei casi
di accoglimento della richiesta di accesso,
il controinteressato può presentare
richiesta di riesame […]» e che il
Garante sia sentito dal responsabile della
prevenzione della corruzione nel caso di
richiesta di riesame laddove l'accesso
generalizzato sia stato negato o differito
per motivi attinenti alla tutela della «protezione
dei dati personali, in conformità con la
disciplina legislativa in materia»
(artt. 5, commi 7 e 9; 5-bis, comma 2, lett.
a), del d.lgs. n. 33/2013).
Per i profili di competenza di questa
Autorità, si evidenzia che per «dato
personale» si intende «qualunque
informazione relativa a persona fisica,
identificata o identificabile, anche
indirettamente, mediante riferimento a
qualsiasi altra informazione, ivi compreso
un numero di identificazione personale»
(art. 4, comma 1, lett. b), del Codice).
Ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, si ricorda
che l'accesso civico può essere rifiutato,
fra l'altro, «se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla
tutela [della] protezione dei dati
personali, in conformità con la disciplina
legislativa in materia» (art. 5-bis,
comma 2, lett. a)).
Al riguardo, si rappresenta che
la «disciplina in materia di
protezione dei dati personali prevede che
ogni trattamento –quindi anche una
comunicazione di dati personali a un terzo
tramite l'accesso generalizzato– deve essere
effettuato "nel rispetto dei diritti e delle
libertà fondamentali, nonché della dignità
dell'interessato, con particolare
riferimento alla riservatezza, all'identità
personale […]", ivi inclusi il diritto alla
reputazione, all'immagine, al nome,
all'oblio, nonché i diritti inviolabili
della persona di cui agli artt. 2 e 3 della
Costituzione. Nel quadro descritto, anche le
comunicazioni di dati personali nell'ambito
del procedimento di accesso generalizzato
non devono determinare un'interferenza
ingiustificata e sproporzionata nei diritti
e libertà delle persone cui si riferiscono
tali dati ai sensi dell'art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, dell'art. 8 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea e
della giurisprudenza europea in materia»
(Linee guida ANAC, cit., par. 8 intitolato «I
limiti derivanti dalla protezione dei dati
personali»).
Si evidenzia, inoltre, che «Ai
fini della valutazione del pregiudizio
concreto, vanno prese in considerazione le
conseguenze –anche legate alla sfera morale,
relazionale e sociale– che potrebbero
derivare all'interessato (o ad altre persone
alle quali esso è legato da un vincolo
affettivo) dalla conoscibilità, da parte di
chiunque, del dato o del documento
richiesto, tenuto conto delle implicazioni
derivanti dalla previsione di cui all'art.
3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013 […]. Tali
conseguenze potrebbero riguardare, ad
esempio, future azioni da parte di terzi nei
confronti dell'interessato, o situazioni che
potrebbero determinare l'estromissione o la
discriminazione dello stesso individuo,
oppure altri svantaggi personali e/o
sociali. In questo quadro, può essere
valutata, ad esempio, l'eventualità che
l'interessato possa essere esposto a
minacce, intimidazioni, ritorsioni o
turbative al regolare svolgimento delle
funzioni pubbliche o delle attività di
pubblico interesse esercitate, che
potrebbero derivare, a seconda delle
particolari circostanze del caso, dalla
conoscibilità di determinati dati»
(ivi).
Nel merito, deve essere in generale
ricordato che la normativa di settore
prevede che «Tutti i documenti, le
informazioni e i dati oggetto di accesso
civico […] sono pubblici e chiunque ha
diritto di conoscerli, di fruirne
gratuitamente, e di utilizzarli e
riutilizzarli ai sensi dell'articolo 7»,
sebbene il loro ulteriore trattamento vada
in ogni caso effettuato nel rispetto dei
limiti derivanti dalla normativa in materia
di protezione dei dati personali (art. 3,
comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Si evidenzia, inoltre, che, come indicato
anche nelle citate Linee guida dell'ANAC,
l'accesso "generalizzato" è servente
rispetto alla conoscenza di dati e documenti
detenuti dalla p.a. «Allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs.
n. 33/2013) (cfr. par. 8.1).
Di conseguenza, quando
l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni
relative a persone fisiche (e in quanto tali
«dati personali») non necessarie al
raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che
risultino comunque sproporzionate, eccedenti
e non pertinenti, l'ente destinatario della
richiesta, nel dare riscontro alla richiesta
di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale scegliere le modalità meno
pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato
(ivi).
In tale quadro, allo stato degli atti e ai
sensi della normativa vigente, nel caso
sottoposto all'attenzione del Garante,
si ritiene che la conoscenza dei
dati personali contenuti nella «copia
della comunicazione di avvio del
procedimento» attivato a seguito della
denuncia dell'istante per opere edilizie
realizzate in difformità alla normativa
vigente da parte di altro soggetto
(procedura peraltro archiviata dal Comune
destinatario dell'accesso), unita al citato
regime di pubblicità degli atti oggetto
dell'accesso civico, potrebbe integrare, a
seconda delle ipotesi e del contesto in cui
le informazioni fornite possono essere
utilizzate da terzi, proprio quel
pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto
dall'art. 5-bis, comma 2, lett. a), del
d.lgs. n. 33/2013.
Resta, in ogni caso, salva
la possibilità per l'istante di accedere al
predetto documento, laddove dimostri
l'esistenza di «un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso», ai sensi degli artt. 22 ss.
della l. n. 241 del 07/08/1990. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Minor prezzo e procedura negoziata – Risposta
dell’ANAC (ANCE di Bergamo,
circolare 01.09.2017 n. 154). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Accesso civico generalizzato: no per sanzione disciplinare.
Il Garante privacy ha confermato il no
di un Comune alla richiesta di accesso civico generalizzato,
presentata da un cittadino, agli atti di una sanzione
disciplinare inflitta ad un dipendente, contro la quale
pendeva peraltro un contenzioso dinnanzi al Giudice del
lavoro.
Nel parere [provvedimento 31.05.2017
n. 254] espresso nell'ambito del procedimento di
riesame, previsto dalla normativa sulla trasparenza,
l'Autorità ha richiamato le Linee Guida sull'accesso civico
dell'Anac, le quali prevedono che l'accesso civico
generalizzato vada, fra l'altro, respinto quando la
conoscibilità indiscriminata dei dati personali potrebbe
causare, all'interessato o ai suoi congiunti, danni legati
alla sfera morale, relazionale e sociale, come nel caso
considerato.
Tra i motivi per il diniego dell'accesso si deve tener conto
anche, come valutato dal Comune, della funzione pubblica
svolta dal dipendente, che potrebbe essere esposto a
minacce, ritorsioni o turbative. Nel suo parere il Garante
ha sottolineato come la disciplina in materia di privacy
stabilisca che ogni trattamento di dati debba essere
effettuato nel rispetto dei diritti e delle libertà
fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, tenendo
conto anche dei diritti alla reputazione, all'immagine, al
nome, all'oblio e in generale ai diritti inviolabili della
persona.
Alla luce di questo quadro di regole, il Garante ha ritenuto
che l'accesso civico generalizzato alla sanzione
disciplinare possa determinare un pregiudizio concreto alla
tutela della protezione dei dati personali del dipendente e
ha confermato il diniego opposto dal Comune.
L'intervento del Garante si inserisce, come ricordato,
nell'ambito della procedura sull'accesso civico disciplinata
dal decreto legislativo 33 del 2013. Il decreto "trasparenza"
prevede infatti che, per favorire forme diffuse di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di
accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è
già previsto l'obbligo di pubblicazione. Tale diritto non è
sottoposto ad alcuna legittimazione soggettiva del
richiedente e non richiede motivazione.
L'accesso civico generalizzato può tuttavia essere
rifiutato, fra l'altro, quando è necessario evitare un
pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati
personali. Nel caso in cui l'accesso generalizzato sia stato
negato proprio per questi motivi e il richiedente abbia
presentato richiesta di riesame, il responsabile della
prevenzione della corruzione è tenuto a provvedere dopo aver
prima sentito il Garante (link a www.garanteprivacy.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 07.09.2017, "Contributi,
a favore degli enti locali, per l’incremento delle dotazioni
di piccola entità per i comandi di polizia locale e per la
protezione civile (l.r. 22/2017)"
(deliberazione
G.R. 04.09.2017 n. 7051). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 04.09.2017, "Approvazione
del programma di tutela e uso delle acque, ai sensi
dell’articolo 121 del d.lgs. 152/06 e dell’articolo 45 della
legge regionale 26/2003" (deliberazione
G.R. 31.07.2017 N. 6990). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
A. Manzione,
Potere di ordinanza e sicurezza urbana: fondamento,
applicazioni e profili critici dopo il decreto legge n. 14
del 2017 (06.09.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: R.
Caponigro,
Riflessioni sulla tutela giurisdizionale nelle gare
d’appalto con vincolo di aggiudicazione
(06.09.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Martelli,
Ambiente: da oggi nuove regole per la gestione delle terre e
rocce da scavo (22.08.2017 - link a
www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Personale degli Enti Locali - Le assunzioni -
AGGIORNATO CON LE DISPOSIZIONI INTRODOTTE DAL D.L.
24.04.2017, N. 50, CONV. IN LEGGE 21.06.2017, N. 96, E DAL
D.LGS. 25.05.2017, N. 75 (Istruzioni tecniche, linee guida,
note e modulistica (ANCI, luglio 2017). |
APPALTI:
La nuova disciplina dell’appalto pubblico dopo il
correttivo: profili di interesse notarile (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio
25.05.2017 n. 588-2016/C).
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): A quasi un anno dalla
emanazione del decreto legislativo n. 50 del 2016 -che ha
riscritto il codice degli appalti pubblici secondo le
Direttive comunitarie nn. 23, 24 e 25 del 2014- il Governo
si è avvalso della facoltà concessa dall’art. 1, comma 8,
della legge delega n. 11/2016, adottando disposizioni
integrative e correttive al codice degli appalti.
Il decreto correttivo pubblicato in Gazzetta ufficiale il
05.05.2017 (D.lgs. 19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50”), si compone di 131 articoli e contiene oltre 400
modifiche al codice degli appalti, modellando, a volte in
maniera incisiva, l’impianto delineato dal legislatore del
2016.
Lo studio si propone di offrire una guida alla lettura del
rinnovato sistema degli appalti pubblici, delineando gli
istituti rilevanti e le novità giurisprudenziali, con
particolare riguardo alla funzione notarile.
In tale prospettiva, risulta oggetto di peculiare
approfondimento non solo la disciplina relativa allo
svolgimento della procedura di appalto ma, soprattutto,
quella concernente la stipula del contratto e le vicende ad
essa successive.
----------------
Sommario: 1. La disciplina dell’appalto nel diritto
amministrativo. Premessa; 2. L’appalto pubblico nel diritto
interno: normativa statale e regionale; 3. L’appalto
pubblico nelle nuove Direttive comunitarie e nel D.lgs. n.
50/2016: sintesi delle novità normative; 3.1. Il D.lgs.
19.04.2017, n. 56 (cd. “Decreto correttivo”); 4. La
tipologia dei contratti e gli atti attuativi; 5. I contratti
esclusi dalla applicazione del codice; 6. Le modalità di
affidamento; 6.1. Segue: l’integrazione dell’efficacia e la
stipula del contratto; 7. L’affidamento al soggetto privato
delle opere di urbanizzazione; 8. Le soglie; 9. Le stazioni
appaltanti; 10. I soggetti dell’appalto pubblico. Premessa;
10.1. Gli imprenditori, le società e le cooperative; 10.2. I
consorzi di cooperative, i consorzi tra imprese artigiane ed
i consorzi stabili; 10.3. I raggruppamenti temporanei di
concorrenti ed i consorzi ordinari; 10.4. Il contratto di
rete ed il “gruppo europeo di interesse economico”; 11. Le
garanzie: la garanzia per la partecipazione alla procedura;
11.1. Segue: La garanzia per l’esecuzione del contratto; 12.
Le modifiche soggettive ed oggettive del contratto nella
disciplina del D.lgs. n. 50/2016; 13. La cessione del
contratto di appalto pubblico. Premessa; 13.1. Segue: le
vicende soggettive del contraente nell’appalto di opere
pubbliche. La fase antecedente la aggiudicazione
dell’appalto; 13.2. Segue: la fase successiva alla
conclusione del contratto; 14. La cessione del credito nel
codice degli appalti; 15. La sospensione del contratto; 16.
La risoluzione del contratto; 17. Il subappalto; 18. Forma
del contratto ed atto pubblico informatico. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Patroni Griffi,
Il metodo di decisione del giudice amministrativo
(19-20.05.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa: la responsabilità del
giudice. 2. La cornice. Verità e processo: la sentenza
“giusta”. 3. L’accertamento del fatto e le prove. 4. Il
giudizio di diritto: metodo sillogistico e ricorso a
principi e clausole generali. 5. Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
U. Fantigrossi,
La risarcibilità della lesione di interessi legittimi
(agosto-dicembre 2016 -tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
Ricorso a volontari singoli da parte dei comuni.
Secondo la Corte dei conti, la L.
266/1991 ha delineato un sistema che, disciplinando
compiutamente i vari aspetti dell'esplicarsi delle attività
di volontariato, non ammette soluzioni organizzative e/o
operative differenti.
Poiché da tale sistema si evince che l'attività di
volontariato è svolta solo nell'ambito di apposite
organizzazioni, aventi determinate caratteristiche
strutturali e funzionali e che le PP.AA. possono avvalersi
di volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche
convenzioni stipulate con le predette organizzazioni, la
Corte nega la legittimità dell'assunzione, da parte di un
comune, degli oneri relativi alla stipula di polizze
assicurative per cittadini che intendono prestare servizio
volontario a titolo individuale.
La conclusione sembra poter essere confermata nella vigenza
del D.Lgs. 117/2017 che, pur qualificando come 'volontario'
anche il cittadino singolarmente considerato, continua a
prevedere che l'ente pubblico può instaurare rapporti (e
quindi assumere spese connesse a quei rapporti) solo con
organismi di tipo associativo; sono fatte salve le
discipline speciali di rango legislativo (es.: L.R. 9/2009).
Il Comune rappresenta di aver adottato un regolamento volto
a disciplinare le forme di collaborazione gratuita rese da
singoli cittadini ('volontari civici') nell'ambito di
una serie di attività di competenza comunale. Il regolamento
prevede che l'Ente fornisca ai volontari l'eventuale
equipaggiamento necessario allo svolgimento delle attività e
garantisca la copertura assicurativa degli stessi,
limitatamente ai periodi di svolgimento delle funzioni.
Poiché la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo
per la Toscana [1],
esclude che le pubbliche amministrazioni possano giovarsi di
attività rese da volontari 'a titolo individuale', il
Comune chiede di conoscere se possa comunque ritenersi
compatibile con il quadro legislativo, anche regionale, un
regolamento che non preveda l'appartenenza del volontario ad
una specifica organizzazione, per lo svolgimento di attività
a favore della comunità locale.
Sentito il Servizio volontariato e lingue minoritarie della
Direzione centrale cultura, sport e solidarietà si formulano
le considerazioni che seguono.
Circa la possibilità, per i comuni, di ricorrere
all'attività prestata da volontari singoli, questo Ufficio
si è già espresso in alcune circostanze, evidenziando come
la normativa di settore, all'epoca costituita dalla legge
11.08.1991, n. 266 [2]
e dalla legge regionale 20.02.1995, n. 12
[3], contemplasse,
quali interlocutori dell'ente pubblico, unicamente organismi
associativi, in quanto soggetti dotati di un'apposita
struttura organizzativa atta a garantire attitudine e
capacità operativa, nonché continuità e verificabilità delle
prestazioni e della loro qualità [4].
In una più recente occasione [5],
successiva all'entrata in vigore della nuova disciplina
recata dalla legge regionale 9 novembre 2012, n. 23
[6], si è
osservato che questa ha «ulteriormente rafforzato un
percorso al cui interno i volontari sono inseriti in realtà
associative» e si è rilevato che «L'inserimento in un
gruppo di volontariato -per i benefici che ciò apporta in
termini di organizzazione, responsabilizzazione e gestione
delle attività- sembra, pertanto, essere considerato quale
elemento qualificante dal legislatore sia statale sia
regionale».
Tant'è che la L.R. 23/2012 «in attuazione dei principi
costituzionali di solidarietà sociale, disciplina i rapporti
delle istituzioni pubbliche con le organizzazioni di
volontariato [...] al fine di sostenere e promuovere la loro
attività e di favorire il loro coordinamento» (art. 1,
comma 1) e «in attuazione del principio di sussidiarietà
di cui all'articolo 118, quarto comma della Costituzione,
nell'ambito delle finalità e dei principi di cui alla legge
11.08.1991, n. 266 (Legge-quadro sul volontariato)
[7],
e degli strumenti di programmazione regionale e locale,
disciplina e promuove le attività delle organizzazioni di
volontariato salvaguardandone l'autonomia e il pluralismo»
(art. 3, comma 1).
Conformemente ai princìpi contenuti nella legge-quadro
statale allora vigente [8],
la L.R. 23/2012 dispone che «L'attività di volontariato è
svolta, nel territorio regionale, tramite l'organizzazione
di cui il volontario fa parte» (art. 4, comma 1) e che «In
attuazione del principio di sussidiarietà e per promuovere
forme di amministrazione condivisa, le organizzazioni di
volontariato iscritte nel Registro da almeno sei mesi
possono stipulare convenzioni con la Regione, gli enti e
aziende il cui ordinamento è disciplinato dalla Regione e
gli enti locali» per lo svolgimento di una serie di
attività (art. 14, comma 1) [9].
Nel parere citato dall'Ente, la Corte dei conti, dovendo
stabilire se sia legittima l'assunzione, da parte di un
comune, degli oneri relativi alla stipula di polizze
assicurative dirette a fornire copertura dai rischi di
infortunio, malattia e responsabilità civile verso terzi per
cittadini che intendono prestare servizio volontario a
titolo individuale, fornisce risposta negativa.
[10]
La Corte osserva, infatti, che la L. 266/1991 delinea un
sistema che, «disciplinando compiutamente i vari aspetti
dell'esplicarsi delle attività di volontariato, non ammette
soluzioni organizzative e/o operative differenti né esibisce
lacune normative che siano bisognevoli di essere in qualche
modo colmate attraverso un'attività analogico-interpretativa»,
rilevando che da tale sistema «si evince chiaramente che:
(a) l'attività di volontariato è svolta solo nell'ambito di
apposite organizzazioni, aventi determinate caratteristiche
strutturali e funzionali; (b) le pp.aa. possono avvalersi di
volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche
convenzioni stipulate con le relative organizzazioni,
rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei
requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici
registri regionali».
Pertanto, secondo la Corte, deve «ritenersi escluso in
radice un autonomo ricorso delle pp.aa. a prestazioni da
parte di volontari 'a titolo individuale', perché la
necessaria 'interposizione' dell'organizzazione di
volontariato iscritta nei ridetti registri regionali, ben
lungi da inutili e barocchi formalismi, vale -a salvaguardia
di interessi che sono di 'ordine pubblico' e che come tali
non ammettono deroghe od eccezioni di sorta- ad assicurare,
da un lato, che lo svolgimento dell'attività dei volontari
si mantenga nei rigorosi limiti della spontaneità,
dell'assenza anche indiretta di fini di lucro, della
esclusiva finalità solidaristica, dell'assoluta e completa
gratuità; e, dall'altro, che resti ferma e aliena da ogni
possibile commistione la rigida distinzione tra attività di
volontariato e attività 'altre'» [11].
La Corte rileva che la predetta conclusione trova conferma
nella rigida distinzione tra il soggetto tenuto a stipulare
il contratto di assicurazione, «che è e deve sempre
essere l'organizzazione di volontariato»
[12], ed
il soggetto sul quale, nel caso di convenzione, deve gravare
il peso economico della copertura [13].
Quanto fin qui rilevato sembra potersi ribadire nella
vigenza del decreto legislativo 03.07.2017, n. 117 che,
procedendo al riordino e alla revisione organica della
disciplina in materia di enti del Terzo settore abroga, tra
gli altri, la L. 266/1991 [14].
Occorre, peraltro, segnalare che l'art. 1, comma 1, del
D.Lgs. 117/2017 afferma che i cittadini concorrono, 'anche'
in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare
i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione
sociale e che l'art. 17, comma 2, sancisce che il volontario
è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in
favore della comunità e del bene comune, 'anche' per
il tramite di un ente del Terzo settore: di conseguenza,
sembra che la qualifica di 'volontario' possa essere
rivestita anche dal cittadino singolarmente considerato.
Tuttavia, poiché l'art. 56 [15],
comma 1, del D.Lgs. 117/2017 prevede che le pubbliche
amministrazioni «possono sottoscrivere con le
organizzazioni di volontariato [...] iscritte da almeno sei
mesi nel Registro unico nazionale del Terzo settore,
convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi
di attività o servizi sociali di interesse generale
[16],
se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato», pare
che all'ente pubblico sia consentito instaurare rapporti (e
quindi assumere spese connesse a quei rapporti) solo con
organismi di tipo associativo, fatte salve eventuali
discipline speciali, di rango legislativo
[17].
---------------
[1] V. deliberazione n. 141/2016/PAR.
[2] «Legge-quadro sul volontariato».
[3] «Disciplina dei rapporti tra le istituzioni pubbliche e
le organizzazioni di volontariato».
[4] V., in particolare, i pareri 02.10.2008, prot. n. 15255;
30.04.2009, prot. n. 6816 e 15.12.2011, prot. n. 42682.
In tali sedi, tenuto conto delle disposizioni che, in
attuazione del principio di sussidiarietà, riconoscono,
promuovono e valorizzano (anche) l'apporto dei singoli
cittadini (v., in via generale, l'art. 5, comma 2, della
legge regionale 09.01.2006, n. 1, ai sensi del quale «I
Comuni, le Province e la Regione, sulla base del principio
di sussidiarietà e per lo svolgimento di attività di
interesse generale, riconoscono il ruolo dei cittadini,
delle famiglie, delle imprese, delle formazioni sociali e
delle organizzazioni di volontariato e ne favoriscono
l'autonoma iniziativa.») e in assenza di pronunciamenti
della Corte dei conti al riguardo, si era peraltro affermato
che non appariva preclusa la possibilità, per l'ente
pubblico, di ricorrere a soggetti che promuovono iniziative
o svolgono attività di interesse generale a titolo
personale.
[5] Parere 31.05.2013, prot. n. 17218.
[6] «Disciplina organica sul volontariato e sulle
associazioni di promozione sociale».
[7] Si ricorda, in particolare, che la L. 226/1991:
- ha stabilito «i principi cui le regioni e le province autonome
devono attenersi nel disciplinare i rapporti fra le
istituzioni pubbliche e le organizzazioni di volontariato
nonché i criteri cui debbono uniformarsi le amministrazioni
statali e gli enti locali nei medesimi rapporti» (art. 1,
comma 2);
- ha sancito che per attività di volontariato deve intendersi
quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito,
«tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte»,
senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per
fini di solidarietà (art. 2, comma 1);
- ha previsto che le pubbliche amministrazioni possono stipulare
convenzioni «con le organizzazioni di volontariato» iscritte
da almeno sei mesi nei registri regionali e che dimostrino
attitudine e capacità operativa (art. 7, comma 1), anche al
fine di «garantire l'esistenza delle condizioni necessarie a
svolgere con continuità le attività oggetto della
convenzione» (art. 7, comma 2).
[8] Attualmente occorre fare riferimento al decreto
legislativo 03.07.2017, n. 117 «Codice del Terzo settore, a
norma dell'articolo 1, comma 2, lettera b), della legge
06.06.2016, n. 106», di cui si dirà in seguito.
[9] Spetta, però, ai soggetti pubblici determinarsi in
merito, atteso che essi «rendono nota la volontà di
stipulare le convenzioni secondo modalità dagli stessi
definite» (art. 14, comma 2).
[10] Sulla medesima questione v. anche Corte dei conti -
Sezione regionale di controllo per la Lombardia, n.
192/2015/PAR e, da ultimo, Corte dei conti - Sezione
regionale di controllo per il Piemonte, n. 126/2017/SRCPIE/PAR.
[11] «E, dunque», prosegue la Corte, «ad evitare che da
parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter
intentionem- ad atipiche e surrettizie forme di lavoro
precario, peraltro elusive delle regole sul reclutamento e
l'utilizzazione del personale (concorso pubblico, contratto
di lavoro, rispetto dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del
lavoratore) e foriere nel tempo financo di precostituire
pretese, ancorché infondate, di stabilizzazione di rapporti
pregiudizievoli per gli assetti e gli equilibri della
finanza pubblica».
[12] L'art. 4, comma 1, della L. 266/1991 stabiliva che «Le
organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri
aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli
infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi.». La previsione è confermata dall'art. 18,
comma 1, del D.Lgs. 117/2017, ai sensi del quale «Gli enti
del Terzo settore che si avvalgono di volontari devono
assicurarli contro gli infortuni e le malattie connessi allo
svolgimento dell'attività di volontariato, nonché per la
responsabilità civile verso i terzi.».
A livello regionale la regola si ricava indirettamente dalla
previsione dell'art. 9, comma 1, lett. a), della L.R.
23/2012 («La Regione sostiene le organizzazioni di
volontariato iscritte nel Registro mediante la concessione
di contributi per: a) il rimborso delle spese sostenute per
l'assicurazione dei volontari [...])».
[13] L'art. 7, comma 3, della L. 266/1991 disponeva che «La
copertura assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento
essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a
carico dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione
medesima.». Sostanzialmente identica è la previsione recata
dall'art. 18, comma 3, del D.Lgs. 117/2017, secondo il quale
«La copertura assicurativa è elemento essenziale delle
convenzioni tra gli enti del Terzo settore e le
amministrazioni pubbliche, e i relativi oneri sono a carico
dell'amministrazione pubblica con la quale viene stipulata
la convenzione.».
[14] Tranne poche previsioni, destinate ad essere abrogate
in seguito, che non riguardano la questione in trattazione.
[15] Ricadente nell'ambito del Titolo VII, dedicato ai
rapporti con gli enti pubblici.
[16] Elencate nell'art. 5 del D.Lgs. 117/2017.
[17] Quale quella concernente i volontari per la sicurezza,
di cui all'art. 5 della legge regionale 29.04.2009, n. 9
(07.09.2017 -
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COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Competenza della Giunta comunale. Individuazione sostituti
dei titolari di posizione organizzativa e individuazione
funzionario per rappresentanza in giudizio.
1) Come avviene per la nomina dei titolari di
posizione organizzativa, anche per la nomina dei funzionari
sostituti dei medesimi, risulta competente il Sindaco negli
enti privi di qualifiche dirigenziali. La Giunta comunale è
competente invece a definire in generale l'assetto
organizzativo dell'ente, mediante l'individuazione e
pesatura delle singole posizioni organizzative e ad adottare
le scelte organizzative ritenute più opportune per il
funzionamento ottimale dell'amministrazione locale.
2) E' da considerare ormai consolidata giurisprudenza la regola
secondo cui la decisione di agire e resistere in giudizio,
nonché il conferimento della procura alle liti al difensore
sono, in via ordinaria, di competenza del Sindaco in quanto
organo della rappresentanza legale dell'ente anche al fine
della resistenza in giudizio, nonché in relazione al
carattere residuale delle attribuzioni della giunta
comunale, e fatte salve ulteriori previsioni statutarie.
Il consigliere comunale di minoranza ha chiesto un parere in
ordine a due distinte questioni, concernenti
l'organo/soggetto competente ad individuare i dipendenti che
sostituiscono i titolari di posizione organizzativa,
all'interno dell'Ente, e la competenza ad individuare il
funzionario legittimato alla rappresentanza in giudizio del
Comune stesso. Nello specifico il consigliere manifesta
perplessità in ordine alla competenza in materia della
Giunta comunale.
Per quanto concerne la problematica connessa al soggetto
competente a individuare i sostituti dei titolari di
posizione organizzativa, si osserva che l'art. 42, comma 1,
del CCRL del 07.12.2006, in linea con quanto disposto dal
legislatore statale all'art. 109, comma 2, del d.lgs.
267/2000, prevede che, negli enti locali privi di qualifiche
dirigenziali, gli incarichi di posizione organizzativa sono
conferiti con apposito provvedimento del sindaco.
Pertanto, pur rinviando alle norme di dettaglio stabilite
nel regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi
dell'Ente, si ritiene che, come avviene per la nomina dei
titolari delle singole posizioni organizzative, anche la
nomina dei funzionari sostituti dei medesimi, in caso di
assenza o temporaneo impedimento, risulti di competenza del
Sindaco.
Alla Giunta comunale è infatti attribuita di contro la
competenza ad adottare il regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi [1],
a definire in generale l'assetto organizzativo dell'Ente,
mediante l'articolazione delle aree di attività e correlata
istituzione e pesatura delle singole posizioni organizzative
ritenute necessarie per un' ottimale gestione.
Potrebbe conseguentemente rientrare nelle competenze della
Giunta solo la scelta e previsione, in via generale e
regolamentare, di provvedere, qualora necessario, alla
sostituzione di un titolare di posizione organizzativa
tramite ricorso a dipendente assegnato a diversa struttura,
trattandosi, in quel caso, di soluzione strategica adottata
a livello organizzativo.
Per quanto concerne la questione relativa alla
rappresentanza in giudizio [2],
si rappresenta che tale tema è stato oggetto di rilevante
attenzione da parte della giurisprudenza amministrativa e di
legittimità a seguito della riforma dell'ordinamento degli
enti locali, avvenuta con il d.lgs. 267/2000.
Il nuovo quadro delle competenze degli organi comunali,
infatti, ha imposto un riesame dell'orientamento
giurisprudenziale tradizionale, anche alla luce
dell'intervenuta modifica del Titolo V della Costituzione,
in senso più favorevole all'autonomia degli enti locali.
In questo senso la Corte di Cassazione a Sezioni Unite
[3]
precisava che: 'competente a conferire al difensore del
Comune la procura alle liti è il Sindaco, non essendo
necessaria l'autorizzazione della Giunta municipale, atteso
che al Sindaco è attribuita la rappresentanza dell'Ente,
mentre la Giunta comunale ha una competenza residuale,
sussistente cioè soltanto nei limiti in cui norme
legislative o statutarie non la riservino al Sindaco (v.
Sez. Un. 10.05.2001, n. 186)'.
Con una successiva pronuncia [4],
la Corte di Cassazione, dopo aver comunque ribadito che in
virtù dell'art. 50 del TUEL la decisione di resistere in
giudizio compete immancabilmente al Sindaco, ha riconosciuto
particolari margini all'autonomia statutaria dell'Ente. Si è
infatti affermato che, nel nuovo quadro delle autonomie
locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune,
l'autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale
non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai
fini della proposizione o della resistenza all'azione, salva
restando la possibilità per lo statuto comunale -competente
a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale
dell'ente, anche in giudizio (ex art. 6, comma 2, d.lgs. n.
267 del 2000)- di prevedere l'autorizzazione della giunta,
ovvero di richiedere una preventiva determinazione del
competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l'uno o
l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto
della controversia). Ove l'autonomia statutaria si sia così
indirizzata, l'autorizzazione giuntale o la determinazione
dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per
espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione
processuale dell'organo titolare della rappresentanza.
In conclusione, è da considerare ormai consolidata
giurisprudenza la regola secondo cui la decisione di agire e
resistere in giudizio, nonché il conferimento della procura
alle liti al difensore sono, in via ordinaria, di competenza
del Sindaco in quanto organo titolare della rappresentanza
legale dell'ente anche al fine della resistenza in giudizio
[5],
nonché in relazione al carattere residuale delle
attribuzioni della giunta, e salvo ulteriori previsioni
statutarie.
Di un tanto si è avuta conferma con la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4277 del 26.08.2014, che ha
affermato che 'in via ordinaria -ai sensi degli artt. 35
e 36 della legge 08.06.1990 n. 142, poi trasfusi negli artt.
48 e 50 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267- la
decisione di agire e resistere in giudizio e il conferimento
al difensore del mandato alle liti spettano al
rappresentante legale dell'ente (cioè al Sindaco), senza
bisogno di autorizzazione della Giunta o del dirigente
competente ratione materiae. All'autonomia statutaria
(legittimata a stabilire i modi di esercizio della
rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio) è però
conservata la possibilità di prevedere l'autorizzazione
della Giunta ovvero di richiedere una preventiva
determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare
l'uno o l'altro intervento (cfr. Cons. Stato, sez. V,
07.02.2012, n. 650)'.
---------------
[1] Cfr. art. 48, comma 3, del d.lgs. 267/2000.
[2] E, più in particolare, la questione relativa
all'eventuale necessità di una deliberazione della giunta
e/o del dirigente di competenza che autorizzi il Comune a
stare in giudizio e, a tal fine, conferisca la necessaria
procura alle liti al difensore.
[3] Cfr. sentenza n. 17550/2002.
[4] Cfr. Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n.
12868/2005.
[5] Cfr. art. 50 del TUEL (06.09.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta di accesso agli atti del protocollo generale da
parte di un consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno diritto di
prendere visione del protocollo generale dell'Ente,
comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in
partenza, fatta salva la necessità di non aggravare la
funzionalità amministrativa dell'Ente con richieste
emulative. La previa visione dei vari protocolli è, infatti,
necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui
quali i consiglieri potranno esercitare l'accesso vero e
proprio.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di
accesso agli atti formulata da un consigliere comunale. In
particolare, un amministratore locale ha chiesto che gli
venga fornito giornalmente l'elenco del protocollo generale
della posta in arrivo e in partenza al fine di individuare
gli atti di interesse dei quali successivamente chiedere
eventualmente estrazione di copia.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali è
disciplinato all'articolo 43 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale, al comma 2, riconosce a questi
il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del
loro mandato.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha
costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili
devono considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del
consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la
possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la
visione dei provvedimenti adottati e l'acquisizione di
informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e
dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale,
utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente
consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma
anche per promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le
varie iniziative consentite dall'ordinamento ai membri di
quel collegio. [1]
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è
quindi esercitato riguardo ai dati utili per l'esercizio del
mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata
all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione
pubblica, legittimandolo all'esame e all'estrazione di copia
dei documenti che contengono le predette notizie e
informazioni. [2]
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di
motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici
comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni
sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell'esercizio del mandato. A tale
riguardo il Ministero dell'Interno ha evidenziato che 'diversamente
opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle
forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo
deputato all'individuazione ed al perseguimento dei fini
collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno
il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto
delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato'. [3]
Il diritto di accesso spettante agli amministratori locali,
pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità
dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n.
241, incontra il divieto di usare i documenti per fini
privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in
quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta
devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità
collegate all'esercizio del mandato (presentazione di
mozioni, interpellanze, espletamento di attività di
controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di
accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto
riferito ad atti palesemente inutili ai fini
dell'espletamento del mandato. [4]
Ancora è stato affermato che le richieste di accesso devono
essere esercitate con modalità e forme tali da evitare
intralci all'ordinario svolgimento dell'attività degli
Uffici. Su questa linea la giurisprudenza ha specificato
che: 'Il consigliere comunale non può abusare del diritto
all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento,
piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro
gli immanenti limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa
dell'ente civico'. [5]
Con riferimento specifico alla richiesta di accesso al
protocollo generale dell'Ente si è espresso il TAR Sardegna
[6]
affermando che 'deve essere accolta la richiesta dei
consiglieri comunali di prendere visione del protocollo
generale [...] senza alcuna esclusione di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
Consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto, ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267'.
[7]
Anche il Ministero dell'Interno, nell'affrontare una
questione analoga a quella in esame, si è espresso in
termini favorevoli all'accesso rilevando, in particolare,
che: 'Superando le precedenti decisioni contrarie, fatta
salva la necessità di non aggravare la funzionalità
amministrativa dell'Ente con richieste emulative, la
giurisprudenza (cfr. TAR Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004,
TAR Lombardia, Brescia, n. 362/2005, TAR Campania, Salerno,
n. 26/2005), è, infatti, oggi orientata nel ritenere
illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e di quello
riservato del Sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo
che di quella in uscita. [...] Pertanto, si ritiene che la
previa visione dei vari protocolli [...] sia necessaria per
poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà
ad esercitare l'accesso vero e proprio'.
[8]
In altra occasione il Ministero dell'Interno,
[9] in
relazione alla richiesta dei consiglieri di trasmissione di
copia del registro di protocollo con cadenza mensile, nel
ribadire i medesimi concetti, ha fatto, altresì, proprie
certe considerazioni espresse dalla giurisprudenza
amministrativa secondo cui 'gli unici limiti
all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri
comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che
non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche,
fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba
essere attentamente vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso'. [10]
Premesso un tanto, il Ministero dell'Interno prosegue
affermando che 'l'ente locale, dunque, nell'ambito della
propria autonomia, potrebbe dotarsi di ancor più specifica
normativa regolamentare, mediante la quale disciplinare le
modalità di esercizio del diritto in termini tali da
renderle compatibili con il regolare svolgimento
dell'attività degli uffici'. [11]
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994,
n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che
precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei
documenti spetta 'a qualunque cittadino che vanti un proprio
interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute
nella più ampia e qualificata posizione di pretesa
all'informazione spettante ratione officii al consigliere
comunale'. Tale principio è stato successivamente ripreso e
confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del
31.07.2009, n. 5879.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 18.05.2017.
[4] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza
del 23.09.2014, n. 2363.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 13.11.2012,
n. 2040.
[6] TAR. Sardegna, sez. II, sentenza del 12.01.2007, n. 29.
[7] Nello stesso senso si veda, anche, TAR Emilia Romana,
Parma, sentenza del 26.01.2006, n. 28 ove si afferma:
'Pertanto, deve essere annullato il diniego ad una domanda
di accesso proposta da un consigliere comunale al protocollo
del Comune per conoscere i documenti in entrata e in uscita.
Naturalmente l'accesso al protocollo comunale non deve
creare intralci all'attività degli uffici, onde spetta
all'amministrazione determinare le giornate (almeno una al
mese) e la fascia oraria in cui il consigliere comunale
potrà periodicamente prenderne visione, ed eventualmente
estrarne copia'. Per un excursus dei precedenti orientamenti
giurisprudenziali, in senso negativo, si veda il parere del
Ministero dell'Interno del 17.11.2005.
[8] Ministero dell'Interno, parere del 26.10.2016.
[9] Ministero dell'Interno, parere del 01.06.2011.
[10] TAR Puglia, sentenza del 21.01.2011, n. 115.
[11] Tenuto, altresì, conto dell'eventuale possibilità di
accesso diretto del consigliere comunale al protocollo
informatico. Si veda, tra gli altri, al riguardo, il parere
espresso dalla Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi del 03.02.2009 ove si afferma che: 'Il
ricorso a supporti magnetici o l'accesso diretto al sistema
informatico interno dell'Ente, ove operante, sono strumenti
di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che
favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l'ordinaria attività
amministrativa' (25.08.2017 -
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APPALTI:
Il Responsabile del Servizio può ricoprire ai
sensi del TUEL il ruolo di Presidente della commissione di
gara?
L'art. 107, comma 3, del D.lgs. n. 267/2000 indica tra le
funzioni attribuite alle figure dirigenziali degli enti
locali la presidenza delle commissioni di gara.
Tale disposizione ben si conciliava con le prescrizioni del
previgente d.lgs. n. 163/2006, laddove non si riscontrava
un'incompatibilità tra i due ruoli. L'attuale Codice
appalti, al contrario, stabilisce all'art. 77, comma 4, che
"i commissari non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
(...)".
Dunque, nella nuova disciplina prevale il principio
l'incompatibilità del dirigente/responsabile del servizio a
ricoprire il ruolo di presidente della commissione di gara,
in quanto soggetto che ha approvato in precedenza gli atti
di gara. La ratio della legge è quella di tutelare il
principio di imparzialità dei componenti del collegio
valutatore, che devono essere avulsi da alcun tipo di
pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa.
Ciò trova conferma anche nelle Linee Guida ANAC n. 5 dove si
prevede che il ruolo di presidente dovrà essere ricoperto da
un soggetto esterno individuato dall'Autorità.
Atteso quanto su detto ed in applicazione del principio
cronologico relativo l'interpretazione delle leggi , si deve
ritenere che il d.lgs. n. 267/2000, in tema di presidenza
della commissione di gara, deve intendersi implicitamente
abrogato dal codice dei contratti
(a cura di M. Terrei)
(tratto dalla newsletter 25.07.2017 n. 187 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
La stazione appaltante può introdurre negli atti
di gara una clausola di manleva in proprio favore per
l'esecuzione dell'appalto?
L'ordinamento prevede che durante l'esecuzione del
contratto, l'appaltatore risponda dei danni provocati a
terzi, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua
attività nell'esecuzione dell'appalto. Invero, sull'ente
appaltante grava un onere di sorveglianza e controllo,
nonché verifica della corrispondenza dell'opera o del
servizio affidato all'appaltatore con quanto costituisce
l'oggetto del contratto (Cass. civ. n. 25758/2013).
La responsabilità verso i terzi, dunque, si concretizza per
il committente solo allorquando si dimostri che il fatto
lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di
"un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da
altro rappresentante del committente stesso" (Cass. civ,
n. 2745/1999, n. 4361/2005), oppure quando sia configurabile
in capo al committente "una culpa in eligendo per aver
affidato il lavoro ad impresa che palesemente difettava
delle necessarie capacità tecniche, ovvero in base al
generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043
cod. civ." (Cass. civ. n. 15185/2004; n. 11757) (a cura
di M. Terrei) (tratto dalla newsletter 05.07.2017 n. 186
di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
In una gara per l'affidamento di lavori pubblici
un plico contenente l'offerta presenta, sul lembo, una banda
adesiva trasparente al di sotto della quale si trovano tre
punti di sigillatura, apposti con ceralacca, non integri.
Inoltre, sulla stessa chiusura sono presenti due timbri,
recanti il logo della ditta, non coincidenti.
In tal caso il concorrente può essere ammesso in virtù
dell'integrità della banda adesiva posta sul lembo?
Nonostante l'integrità dell'adesivo trasparente apposto sul
lembo di chiusura del plico, si ritiene che il concorrente
debba essere escluso. Come affermato da consolidata
giurisprudenza, pur dovendo garantire il favor
partecipationis, l'integrità del plico è requisito
irrinunciabile della gara. In particolare "deve ritenersi
necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del
plico tale da impedire che il plico potesse essere aperto e
manomesso senza che ne restasse traccia visibile".
Ne deriva che "anche in caso di mancata osservanza
pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità
di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve
ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in
presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a
garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico"
(Cons. di Stato, sez. IV, 21.01.2013, sent. n. 319).
Questa posizione è stata più volte confermata anche dall'ANAC
la quale inserisce le irregolarità incidenti sulla
segretezza delle offerte tra le irregolarità insanabili, che
quindi producono come effetto l'esclusione del concorrente (ANAC,
determinazione n. 1, dell'08.01.2015) anche a seguito
dell'entrata in vigore del nuovo Codice degli Appalti D.lgs.
50/2016 (a cura di M. Terrei) (tratto dalla newsletter
15.06.2017 n. 185 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Gli operatori economici che intendono partecipare
alla gare, su quali di documenti dovranno apporre la marca
da bollo? La Stazione appaltante è tenuta a richiederla per
qualsiasi documento presentata dai concorrenti?
La richiesta dell' imposta di bollo trova il suo fondamento
nell'art. 2 D.P.R. 26.10.1972, n. 642 rubricato "Atti
soggetti a bollo sin dall'origine o in caso d'uso", ove
il Legislatore effettua una distinzione tra tre categorie di
atti:
a) atti soggetti ad imposta di bollo fin dall'origine;
b) atti soggetti solo in caso d'uso;
c) atti esenti in modo assoluto;
In particolare, l'art. 2 recita "L'imposta di bollo è
dovuta fin dall'origine per gli atti, i documenti e i
registri indicati nella parte prima della tariffa, se
formati nello Stato, ed in caso d'uso per quelli indicati
nella parte seconda. Si ha caso d'uso quando gli atti, i
documenti e i registri sono presentati all'ufficio del
registro per la registrazione".
L'articolo rimanda poi ad un Allegato (lettera A)
all'interno del quale vengono dettagliatamente elencati gli
atti ricadenti nel primo, nel secondo o nel terzo gruppo di
cui sopra.
Al fine di individuare se i documenti interlocutori tra il
concorrente e la stazione appaltante siano o meno soggetti
all'imposta di bollo è necessario procedere ad una analisi
degli stessi verificando che questi posseggano i requisiti
indicati all'art. 2.
Sia l'istanza che l'offerta economica "sono atti,
documenti formati nello Stato" ma nessuno dei due può
definirsi scrittura privata -mancano gli elementi essenziali
per potersi definire un accordo tra le parti- tuttavia
entrambi, possono qualificarsi, senza ombra di dubbio, una "dichiarazione
anche unilaterale".
Al fine di giungere ad una definitiva identificazione è
necessario, però, verificare la presenza dell'ultimo degli
elementi indicato nell'Allegato A, di cui sopra e cioè
accertare che i documenti "creano, modificano, estinguono
accertano o documentano rapporti giuridici di ogni specie".
Essendo il rapporto giuridico la relazione tra due o più
soggetti, è necessario verificare che tra questi sussistano
gli elementi del rapporto giuridico, i quali devono essere:
il soggetto, l'oggetto, il fatto, e la tutela del diritto.
In genere, l'istanza di partecipazione non contiene tutti
questi elementi perché il suo scopo è quello di fare una
serie di dichiarazioni grazie alle quali
l'amministratore/concorrente sostiene di poter partecipare
alla gara ed avere i requisiti per l'esecuzione dei lavori,
l'erogazione del servizio o la fornitura degli articoli.
In merito, invece, all'offerta economica, spesso predisposta
dalla Stazione Appaltante, la situazione è del tutto diversa
perché, generalmente, contiene l'indicazione del soggetto
(l'individuazione del soggetto, il quale avendone il potere,
impegna il ditta/struttura), l'oggetto (elenco dettagliato
delle opere da realizzare, dei servizi da erogare o degli
articoli da fornire con i relativi prezzi), il fatto
giuridico (la dichiarazione di colui che avendone il potere
vincola la ditta/struttura, al momento dell'aggiudicazione,
ad effettuare le opere, ad erogare i servizi o a fornire gli
articoli, entro certi termini) ed infine la tutela diritto
(che nella fattispecie esiste in quanto i contratti pubblici
sono relazioni degne di essere difese).
Appare dunque evidente che non potendo definire a priori se
l'istanza o l'offerta economica sono sottoposti all'obbligo
dell'imposta di bollo è necessario analizzarne i contenuti e
nel caso in cui il documento contenga in sé tutti gli
elementi descritti e indicati dall'Allegato A sarà possibile
stabilirlo.
La questione assume diversa connotazione nel caso di gara
telematiche.
Per concludere è necessario ricordare che se da un lato il
Presidente di gara è obbligato ad accogliere il documento
privo della marca da bollo così come previsto dall'art 19
del D.P.R. n. 642/1972, dall'altro deve provvedere, entro
trenta giorni a segnalare all'Agenzia delle Entrate,
competente nel territorio dove ha sede la ditta, tale
mancanza per la relativa regolarizzazione (a cura di M.
Terrei) (tratto dalla newsletter 25.05.2017 n. 184 di
http://asmecomm.it). |
APPALTI:
In una gara per la ristrutturazione di una scuola
elementare di importo a base di gara di € 345.000,00,
durante la prima seduta di gara, ho aperto il plico
contenente la documentazione amministrativa, al fine di
verificarne la completezza e il possesso dei requisiti da
parte dei partecipanti.
Scopro, mio malgrado, che nessuno dei partecipanti, che
intende concorrere presentano contratto di avvalimento, ha
presentato un PassOe con l'indicazione dell'ausiliaria. Il
concorrente va escluso o no?
Va applicato il Soccorso Istruttorio e se si sì a pagamento
o no?
Il concorrente che accede alla piattaforma ANAC, se non può
indicare l'ausiliaria, è "vittima" di un piccolo
errore commesso dall'operatore della Stazione appaltante, il
quale in fase di redazione della scheda SIMOG, in
particolare nella definizione dei requisiti, ha omesso di
indicare la possibilità di concedere in avvalimento alcune
lavorazioni previste per l'esecuzione dell'appalto.
E' necessario sospendere la seduta di gara ed è importante
non completare la fase di acquisizione del partecipante
(prima fase, esperita dalla stazione appaltante, all'interno
della procedura di gara nella piattaforma ANAC), ammesso che
sia stata aperta contestualmente alla seduta di gara
pubblica. Personalmente preferisco, durante la seduta di
gara pubblica, provvedere contestualmente all'acquisizione
dei partecipanti e verificare in tempo reale la correttezza
dei PassOe e delle informazioni in essi contenuti.
Durante la fase di acquisizione dei partecipanti si
acquisiscono solo i PassOe corretti e gli altri verranno
lasciati in sospeso nella sezione "elenco pass da
acquisire"
È auspicabile il ricorso al Soccorso Istruttorio, in quanto
è necessario provvedere a chiedere una integrazione
documentale.
Tutte le richieste verranno inoltrate ai concorrenti tramite
PEC, a seguito di protocollazione e sarà opportuno concedere
agli operatori non meno di 7/10 giorni, vista la difficoltà
e la tempistica dell'ANAC; suggerisco, infine, di indicare
nei verbali di gara tutto l'accaduto.
In presenza di questa fattispecie le soluzioni sono due:
- Soluzione A - è necessario inoltrare all'ANAC, a firma del
RUP, una richiesta di sblocco della gara a seguito della
quale l'operatore della stazione appaltante potrà correggere
l'errore all'interno della scheda SIMOG e segnalare agli
operatori economici l'avvenuto sblocco. In seguito, i
concorrenti entreranno in ANAC e prenderanno un nuovo PassOe
che conterrà i loro dati e quelli dell'ausiliaria, tale
documento verrà inviato, preferibilmente tramite PEC, alla
stazione appaltante entro i termini.
- Soluzione B - la Stazione Appaltante contatta i
concorrenti informandoli della problematica e indicando loro
che devono riaccedere nella piattaforma ANAC e prendere un
nuovo PassOe indicando il concorrente principale come
mandante e l'ausiliaria come mandataria. Il nuovo PassOe
verrà inviato alla Stazione Appaltante, preferibilmente a
mezzo PEC. Questa soluzione poggia sulla previsione
normativa, presente nel Codice degli Appalti, che prevede la
fattispecie dei raggruppamenti temporanei.
Si ritiene preferibile la Soluzione A che corrisponde
alla situazione contrattuale reale tra concorrente
principale, ausiliaria e Stazione Appaltante. Nel caso della
Soluzione B invece si rappresenterebbe una situazione
non corrispondente alla realtà perché il rapporto
contrattuale che lega i due soggetti
-aggiudicatario/Stazione Appaltante- sono totalmente
diversi; va ricordato che nel caso dell'avvalimento la
stazione appaltante affida direttamente e solamente al
concorrente risultato aggiudicatario -pur consapevole che
parte delle lavorazioni verranno eseguiti da altro soggetto-
mentre nel caso di RTI la Stazione Appaltante affida e due
soggetti che nell'esecuzione dei lavori o del servizio
eseguono una parte distinta e predeterminata ex ante
delle opere o del servizio.
Qualunque sia la soluzione scelta dal RUP o dal presidente
del seggio di gara alla data prestabilita, in seduta
pubblica, verrà ripresa la gara prendendo atto dell'avvenuto
invio dei PassOe. Evidentemente nella piattaforma ANAC ed in
particolare nella sezione "elenco pass da acquisire"
resteranno dei PassOe -quelli incompleti presentati dai
concorrenti ma anche quelli di concorrenti che hanno
prelevato un PassOe e successivamente non hanno presentato
un offerta- che non verranno caricati dall'operatore della
stazione appaltante, ma questo non rappresenta un problema.
Si procederà ad ammettere tutti i concorrenti con PassOe
conforme e a chiudere la fase Acquisizione del partecipante
mentre in fase di gara si procederà all'apertura
dell'offerta economica per i soggetti ammessi, ovviamente (a
cura di Marco Terrei) (tratto dalla newsletter 08.05.2017
n. 183 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Quesito: Nella procedura di gara aperta, laddove
il bando non preveda l'indicazione degli oneri aziendali
nell'offerta economica, è giusto escludere il concorrente
che non li abbia inseriti nella proposta? Posso applicare il
Soccorso Istruttorio?
L'art. 95,
comma 10, del D.Lgs. n. 50/2016, stabilisce la necessità per
i concorrenti la gara di indicare gli oneri aziendali nella
propria offerta economica.
Laddove gli atti di gara non introducano tale prescrizione,
si ritiene corretta procedere all'esclusione dell'operatore
che abbia presentato l'offerta carente di tale onere.
Si condivide, infatti, l'orientamento di maggior rigore
espresso dalle Adunanze Plenarie nelle sentenza n. 3 e n. 9
del 2015 laddove si chiarisce che "in caso di carente
indicazione di tali oneri l'esclusione del concorrente deve
essere disposta. Inoltre, con la decisione n. 3/2015 è stata
espressamente esclusa la sanabilità con il soccorso
istruttorio dell'omissione dell'indicazione degli oneri per
la sicurezza aziendale, che si risolverebbe in
un'inammissibile integrazione postuma di un elemento
essenziale dell'offerta". Principio perfettamente in
linea con l'istituto introdotto dall'arto 83 comma 9 D.Lgs.
n. 50/2016.
Con la successiva sentenza n. 9, l'Adunanza Plenaria ha
infine chiarito che "non sono legittimamente esercitabili
i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di
omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche
per le procedure nelle quali la fase della presentazione
delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della
decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015" (tratto
dalla newsletter 20.04.2017 n. 182 di http://asmecomm.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
In una gara aperta di importo superiore alla
soglia comunitaria, un concorrente chiede, successivamente
alla pubblicazione dell'aggiudicazione, di accedere a tutta
la documentazione amministrativa (compresi le verifiche e le
giustificazioni), alla documentazione tecnica e al piano
economico/finanziario; devo dare seguito alla richiesta del
concorrente?
In generale l'accesso agli atti è sempre consentito, ma a
questa richiesta non può che opporsi un diniego.
Nella materia degli appalti, l'accesso agli atti è regolata
dall'art. 53 il quale al comma 1 rimanda all'art. 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241.
Ciò premesso è utile ricordare che il Legislatore ha
riconosciuto al diritto d'accesso un ruolo fondamentale nel
rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il privato, che
con essa si rapporta, stabilendo proprio all'art. 22 che: "l'accesso
ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce principio
generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la
trasparenza".
Nei commi successivi, invece, viene affrontato il tema del
differimento del diritto d'accesso:
- il comma 2, lettera a), si occupa delle procedure aperte
stabilendo che [il diritto di accesso è differito] "Nelle
procedure aperte, in relazione all'elenco dei soggetti che
hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per
la presentazione delle offerte";
- il comma 2, lettera c) [il diritto di accesso è differito] "In
relazione alle offerte, fino all'aggiudicazione";
- al comma 2, lettera d) [il diritto di accesso è differito] "In
relazione al, procedimento di verifica dell'anomalia
dell'offerta, fino all'aggiudicazione".
E' evidente, dunque, che per ogni tipologia di documento di
gara il Legislatore abbia stabilito dei diversi tempi per il
rilascio dei singoli atti al fine di garantire, da un lato,
il massimo della segretezza e della riservatezza dei dati
dei concorrenti, che partecipano alle procedure e,
dall'altro, la possibilità per la Stazione Appaltante di
procedere nell'espletamento della gara senza nessun tipo di
condizionamento.
Pur essendo la riservatezza dei dati e degli elementi
costitutivi delle diverse offerte un elemento fondamentale
nelle gare d'appalto, questo aspetto è recessivo di fronte
all'accesso agli atti laddove il diritto sia esercitato
(anche) per la difesa in giudizio [se è vero che il diritto
di accesso deve essere più propriamente definito quale "potere
di natura procedimentale volto in senso strumentale alla
tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritto o
interessi)" (Cons. Stato, ad. Plen., 20.04.2006 n. 7;
sez. IV, 28.02.2012 n. 1162), esso deve tuttavia avere i
caratteri (che deriva dalla posizione cui afferisce) della
personalità, concretezza e attualità, e postula un
accertamento concreto dell'esistenza di un interesse
differenziato della parte che richiede i documenti (Cons.
Stato, sez. VI, 10.02.2006 n. 555)].
L'elemento della funzione difensiva del contenuto degli atti
dei quali si chiede l'accesso è molto sentita nel nostro
ordinamento, come riaffermato dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato, il quale afferma «si deve, infatti,
ricordare che il diritto di accesso in funzione difensiva è
garantito dall'art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990
che, nel rispetto dell'art. 24 della Costituzione, prevede,
con una formula di portata generale, che "deve comunque
essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
difendere i propri interessi giuridici"» (Consiglio di
Stato sez. VI sentenza 06.06.2016 n. 3003, sentenza
3003/2016)
Nel caso specifico, tuttavia, la richiesta va rigettata, in
applicazione dell'art. 24, comma 3, della 241/1990 (Non sono
ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo
generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni)
per la genericità della stessa, la quale non mira ad
ottenere informazioni precise e dettagliate su un
concorrente o sull'offerta tecnico/amministrativa, ma si
concretizza in un generico accesso alla totalità degli atti
volto, probabilmente, alla valutazione dell'azione
amministrativa nel suo complesso.
Individuata questa soluzione, diventa inutile affrontare il
tema del rilascio della documentazione amministrativa, delle
offerte tecniche o delle giustificazioni: temi complessi che
presentano diverse fattispecie, tutte degne di essere
esaminate, ma che per loro ampiezza non possono in questa
sede essere affrontate (a cura di M. Terrei) (tratto dalla
newsletter 03.04.2017 n. 181 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
In una gara per l'affidamento di servizi
assicurativi di durata biennale per un importo complessivo
di € 38.000,00: devo necessariamente far presentare ai
concorrenti il PassOe? Devo far presentare la cauzione
provvisoria?
Nelle gare con importi inferiori a € 40.000 non sussiste
l'obbligo di presentazione del PassOe.
La Stazione Appaltante, al momento della richiesta del CIG
(Codice Identificativo Gara) dovrà selezionare la modalità
SMART CIG (Attraverso questo sistema le Stazioni Appaltanti
possono ottenere CIG in modalità semplificata).
Il CIG ottenuto in questa modalità può essere utilizzato per
micro-contrattualistica -contratti di lavori di importo
inferiore a € 40.000, ovvero contratti di servizi e
forniture di importo inferiore a € 40.000- e contratti
esclusi in tutto o in parte dell'applicazione del Codice.
Per i concorrenti alla gara, il possesso del PassOe deve
essere attivato ed allegato alla documentazione
amministrativa nelle gare con un importo superiore a €
40.000,00.
Si ricorda che il PassOe rappresenta lo strumento con cui la
Stazione Appaltante procede alla verifica, tramite
interfaccia web, dei requisiti richiesti dalla Stazione
Appaltante per la partecipazione alla gara.
In merito al secondo quesito, il presupposto della garanzia
provvisoria ex art. 75 D.Lgs. n. 163/2006 ora art. 93, comma
6, del D.lgs. 50/2016 è che quella di essere diretta ad
assicurare la serietà dell'offerta e a costituire una
liquidazione preventiva e forfettaria del danno qualora non
si addivenga alla stipula del contratto per causa imputabile
all'aggiudicatario.
Negli affidamenti "diretti", attualmente
regolamentati dall'art. 36, comma 2, lettera a), in virtù
del fatto che gli stessi non prevedono un confronto
concorrenziale, ma vengono definiti in modo "diretto"
tra il RUP e il committente/fornitore, non vi è l'obbligo di
richiedere tale garanzia (a cura di M. Terrei) (tratto dalla
newsletter 14.03.2017 n. 180 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Nella procedura di gara in cui il criterio di
aggiudicazione è dato dal prezzo più basso, a fronte della
richiesta di chiarimenti ex art. 97, comma 5, è possibile
istituire una commissione per l'analisi della documentazione
presentata dall'operatore economico?
Si ritiene ammissibile la costituzione di una commissione ad
hoc per la valutazione dei chiarimenti forniti dal
concorrente circa la congruità dell'offerta, se prevista
dalla Lex Specialis.
In particolare, la delibera n. 1096/2016 recante le Linee
Guida RUP pubblicate nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale
n. 273 del 22.11.2016, al punto 5.3. in materia di "Valutazione
delle offerte anormalmente basse", così specifica: "Nel
bando di gara la stazione appaltante indica se, in caso di
aggiudicazione con il criterio del minor prezzo, la verifica
di congruità delle offerte è rimessa direttamente al RUP e
se questi, in ragione della particolare complessità delle
valutazioni o della specificità delle competenze richieste,
debba o possa avvalersi della struttura di supporto
istituita ai sensi dell'art. 31, comma 9, del Codice, o di
commissione nominata ad hoc".
È opportuno ricordare che la nomina della Commissione di
valutazione della congruità dell'offerta non segue le
modalità previste dagli artt. 77-78 del D.lgs. n. 50/2016
per la Commissione Giudicatrice.
Nello specifico, quindi, il RUP potrà nominare una
Commissione ad hoc per la verifica della congruità
all'interno dell'Ente stesso e procedere con determina alla
nomina della Commissione (tratto dalla newsletter
24.02.2017 n. 179 di http://asmecomm.it). |
APPALTI SERVIZI:
Nell'appalto di servizi, il bando pubblicato
richiede un requisito tecnico che di fatto limita il
ventaglio dei partecipanti. È possibile modificare tale
elemento?
In giurisprudenza è consolidato il principio che afferma la
nullità delle clausole del bando, se lesive del favor
partecipationis.
In particolare si precisa che "la stazione appaltante può
fissare discrezionalmente i requisiti di partecipazione,
anche superiori rispetto a quelli previsti dalla legge,
purché essi non siano manifestamente irragionevoli,
irrazionali, sproporzionati, illogici, nonché lesivi della
concorrenza" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.12.2006 n.
7460; Cons. Stato, sez. V,13.12.2005 n. 7081).
Dunque è consentito alla stazione appaltante la
determinazione dei requisiti di partecipazione in relazione
alle peculiarità del servizio/lavori da espletare, purché
non costituiscano un'indebita restrizione all'accesso alla
procedura di gara: "è ammessa la facoltà di indicare tra
i requisiti soggettivi necessari per la partecipazione a
gare pubbliche per l'affidamento di lavori, forniture e
servizi pubblici anche requisiti specifici ed ulteriori
rispetto a quelli fissati a livello normativo solo se
l'accesso alla procedura non è indebitamente ristretto, se
vi sono esigenze concrete imposte dalla natura
dell'affidamento che giustificano tale eccezione e se le
previsioni particolari sono proporzionali alla scopo da
perseguire e ragionevoli nella loro configurazione"
(Consiglio di Stato sez. V 13/10/2005 n. 5668).
Alla luce delle predette pronunce, si ritiene necessario
procedere alla pubblicazione di un'errata corrige che
precisi la portata della clausola relativa al requisito,
favorendo la massima partecipazione degli operatori
economici alla gara (tratto dalla newsletter 10.02.2017
n. 178 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
In una gara espletata sul Mercato Elettronico,
uno dei concorrenti invia i documenti richiesti apponendo
una firma digitale scaduta. Il concorrente verrà ammesso,
ammesso con riserva o escluso?
Il concorrente che avrà inviato dei documenti in formato
PDF, con certificato di firma scaduto verrà escluso dalla
gara.
L’art. 21, comma 2, del D.lgs. n. 85/2005 denominato “Codice
dell’Amministrazione Digitale” rende identici, in
termini civilistici, il documento in forma cartacea e quello
informatico lì dove prevede che “il documento informatico
sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o
digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche di cui
all'articolo 20, comma 3, ha altresì l'efficacia prevista
dall'articolo 2702 del codice civile”.
Tuttavia come avviene per la firma autografa, che si appone
sui documenti cartacei, anche i documenti informatici devono
essere firmati, ma in questo caso attraverso “l'utilizzo
del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale
-grazie alla quale quest’ultima- si presume riconducibile al
titolare, salvo che questi dia prova contraria” come
indicato ancora nel medesimo articolo.
Purtroppo, i dispositivi per la firma elettronica devono
essere periodicamente “rinnovati” e questo può
indurre ad apporre delle firme su documenti informatici con
il proprio certificato oramai scaduto.
Se ciò dovesse accadere sarà come se la firma non fosse mai
stata apposta, come stabilisce l’art. 24, comma 4-bis, il
quale recita: “l'apposizione a un documento informatico
di una firma digitale o di un altro tipo di firma
elettronica qualificata basata su un certificato elettronico
revocato, scaduto o sospeso equivale a mancata
sottoscrizione” e quel documento, ad esempio una
dichiarazione o autocertificazione da inviare per la
partecipazione ad una gara, risulterebbe privo di
sottoscrizione e dunque privo di valore.
La giurisprudenza si è a più riprese occupata della
questione stabilendo che: “la mancanza della firma,
pertanto, non può considerarsi come una mera irregolarità
formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia
irrimediabilmente la validità e la ricevibilità
dell’offerta, senza che sia necessaria una espressa
previsione della lex specialis” (cfr. Cons. Stato, sez.
V, n. 5547/2008; sez. IV, n. 1832/2010; sez. V, n. 528/2011;
TAR Lombardia, Miano, Sez. 4, Sent. 13/07/2015, n. 1629 ).
Tale orientamento è stato recentemente confermato dal TAR
Toscana, Sezione I, 16.09.2016, sentenza n. 1364 secondo cui
la mancanza della firma fa venir meno la certezza sulla
provenienza stessa del documento e quindi della piena
assunzione di responsabilità in merito al relativo contenuto
(a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla newsletter
27.01.2017 n. 177 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Nelle procedure di gara in cui il criterio di
aggiudicazione è dato dal prezzo più basso, ai sensi del
nuovo Codice Appalti, come si procede per la verifica
dell'offerta anomala?
L'art. 97, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 precisa che «quando
il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso
la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che
presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di
anomalia determinata, al fine di non rendere
predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento
per il calcolo della soglia»,
procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno dei metodi
previsti.
Tale indicazione andrebbe seguita anche in mancanza delle
condizioni per l'esclusione automatica ai fini della
richiesta di giustificativi per offerte ritenute dalla
stazione appaltante a "rischio anomalia", concedendo
15 giorni di tempo per la produzione degli stessi da parte
della ditta.
Ai sensi del comma 5: «la stazione appaltante esclude
l'offerta solo se la prova fornita non giustifica
sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi
proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o
se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo,
che l'offerta è anormalmente bassa in quanto:
a) non rispetta gli obblighi di cui all'articolo 30, comma 3.
b) non rispetta gli obblighi di cui all'articolo 105;
c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui
all'articolo 95, comma 9, rispetto all'entità e alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture;
disposizione corretta con errata corrige del 15.07.2016;
d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali
retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui
all'articolo 23, comma 16, disposizione corretta con errata
corrige del 15.07.2016».
In ogni caso, ai sensi del successivo comma 6 il Codice
precisa che: «non sono ammesse giustificazioni in
relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili
stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge.
Non sono, altresì, ammesse giustificazioni in relazione agli
oneri di sicurezza di cui al piano di sicurezza e
coordinamento previsto dall'articolo 100 del decreto
legislativo 09.04.2008, n. 81» (tratto dalla
newsletter 13.01.2017 n. 176 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Nelle procedure di gara, in cui il criterio di
aggiudicazione è dato dall'offerta economicamente più
vantaggiosa: il presidente del seggio di gara può anche
essere il presidente della commissione giudicatrice?
Se il presidente del seggio di gara è il RUP del servizio,
fornitura o lavoro posto a gara allora la risposta è
negativa: egli non può essere presidente del seggio di gara
e, nel contempo, presidente della commissione giudicatrice.
Come indicato nelle Linee Guida ANAC n. 3 "Nomina, ruolo
e compiti del responsabile unico del procedimento per
l'affidamento di appalti e concessioni" pubblicate nella
G.U. n. 273 del 22/11/2016, al Punto 5.2) egli può "effettuare
Il controllo della documentazione amministrativa" -tale
funzione può comunque essere svolta da un apposito
ufficio/servizio a ciò deputato, sulla base delle
disposizioni organizzative proprie della stazione
appaltante- ma non potrebbe MAI essere presidente della
commissione giudicatrice di cui all'art. 77 del Nuovo Codice
degli Appalti.
All'art. 77, comma 3, infatti, si stabilisce che i
componenti della Commissione giudicatrice "sono scelti
fra gli esperti iscritti all'Albo istituito presso l'ANAC di
cui all'articolo 78" per gli appalti sopra soglia mentre
per quelli sotto soglia possono essere nominati tra i "componenti
interni alla stazione appaltante" tuttavia il RUP non
potrebbe MAI essere nominato come commissario perché al
comma 4 dello stesso articolo si stabilisce che "I
commissari non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta".
Il contesto, ovviamente, è quello dell'offerta
economicamente vantaggiosa, diversamente, nell'offerta al
prezzo più basso, non è prevista una commissione per la
valutazione delle caratteristiche tecniche.
La scelta del legislatore appare logica e pertinente nella
misura in cui al RUP viene riconosciuta la possibilità di
agire in tutte quelle fasi ove tuttavia non vi è attività
discrezionale che lo porrebbe in una condizione di conflitto
di interesse (a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla
newsletter 23.12.2016 n. 175 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Nelle procedure di gara, in cui il criterio di
aggiudicazione è dato dall'offerta economicamente più
vantaggiosa, in sede di valutazione, il segretario
verbalizzante della commissione può esprimere giudizi in
merito ai requisiti?
No. Il segretario verbalizzante non può esprimere pareri in
merito ai requisiti quando coadiuva la commissione
giudicatrice.
Come ha da tempo e più volte avuto modo di chiarire la
giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex mulits
C.d.S. Sez. V Sent. n. 5502 del 23/06/2016 "commissione
composta tra gli altri da un segretario verbalizzante, il
quale non fa parte del collegio, non ha potere di voto e
svolge mere attività di supporto burocratico ai compiti
valutativi e decisionali appartenenti esclusivamente alla
Commissione")
quest'ultimo individuato come segretario verbalizzante, in
quanto tale, è privo di diritto di voto e non va computato
nel novero dei membri della commissione giudicatrice, che
costituisce un collegio perfetto con riferimento
esclusivamente ai suoi membri effettivi .
Oggetto specifico della verbalizzazione è la descrizione
degli atti e della sequenza dei fatti cui il verbalizzante
assiste.
Anche nella fase della verifica della documentazione
amministrativa, qualunque sia il criterio di aggiudicazione,
il RUP o il dirigente che presiede tale fase può avvalersi
del supporto di un collaboratore che ha la funzione di
verbalizzare -descrive gli atti e i fatti- le fasi della
verifica e, anche in questo caso, tale soggetto non ha
nessun potere (a cura di Mar.Terrei) (tratto dalla
newsletter 16.12.2016 n. 174 di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Quesito: Nelle procedure aperte, è possibile
inserire nel bando, la richiesta di appartenenza ad una
specifica associazione, operante nel settore d’appalto,
quale tassativo requisito di partecipazione?
Nelle procedure ad evidenza pubblica è possibile inserire
criteri di partecipazione più restrittivi di quelli in via
generale stabiliti dal normativa di settore, purché la
Stazione appaltante agisca nel rispetto dei principi
comunitari, espressamente recepiti dall’art.30 del D.Lgs. n.
50/2016.
In particolare laddove, con riguardo alle specifiche
esigenze dell’oggetto dell’appalto, si inseriscano già in
fase di accesso prescrizioni più rigide rispetto ai criteri
previsti dall’ art. 83 del codice, queste non dovranno in
ogni caso limitare i principi fondamentali del “favor
partecipationis” e della libera concorrenza.
Si ritiene, pertanto che, in assenza di particolari e
comprovate peculiarità dell’appalto, il requisito proposto
possa al più figurare tra i criteri qualitativi per la
valutazione dell’offerta (tratto dalla newsletter
07.12.2016 n. 173 di http://asmecomm.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Quesito: Negli appalti pubblici aventi a oggetto
l'esecuzione di lavori di importo superiore alla soglia
comunitaria, è obbligatoria per i concorrenti l'indicazione
della terna dei subappaltatori, anche laddove il bando non
preveda tale adempimento?
Nel caso in cui la lex specialis non prescriva
espressamente l'indicazione da parte del concorrente della
terna dei subappaltatori di cui si avvarrà per l'esecuzione
dell'appalto, ai sensi dell'art. 105, comma 5, del D.lgs. n.
50/2016, tale indicazione non è obbligatoria.
In materia, la normativa richiede un'apposita clausola negli
atti di gara e in particolare il comma 6, nel secondo
periodo, prevede che "il bando o avviso con cui si indice
la gara prevedono tale obbligo".
Invero, giova ricordare come, la stessa norma esplicita
altresì che "nel bando o nell'avviso la stazione
appaltante può prevedere ulteriori casi in cui è
obbligatoria l'indicazione della terna anche sotto le soglie
di cui all'articolo 35" (tratto dalla newsletter
02.12.2016 n. 172 di http://asmecomm.it). |
APPALTI SERVIZI:
Nelle procedure aventi ad oggetto prestazioni di
servizi di importo inferiore a € 20.000,00 è necessario per
la Stazione Appaltante acquisire il Durc on-line?
Il comma 14-bis all'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006,
introdotto dall'art. 4, comma 2, D.L. n. 70/2010, prevedeva
per i contratti di forniture e servizi fino a 20,000.00,
stipulati con la Pubblica Amministrazione e le società in
house, i soggetti contraenti potessero produrre una
dichiarazione sostitutiva in luogo del DURC.
Tale norma è stata abrogata dal vigente D.Lgs. n. 50/2016,
per cui attualmente anche per le acquisizioni di beni e
servizi inferiori ad € 20.000,00 occorre acquisire il Durc
on-line (tratto dalla newsletter 10.11.2016 n. 169 di
http://asmecomm.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità dell'ordinanza di demolizione di un balcone
realizzato in spregio alla distanza legale di mt. 1.50 dal
confine ex art. 905 cod. civ..
Sebbene i provvedimenti impugnati
facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera
rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti
istruttori chiarisce che la contestazione mossa all’odierno
ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze
legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante.
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella
specie, non occorresse osservare la distanza minima di un
metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura
di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino
e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze,
lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta
di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di
fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada
prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe
comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c.,
giacché la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per
l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire
vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un
metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una
via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi
fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante
la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che
si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché
l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione
della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del
vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due
fondi possono anche essere contigui.
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta
sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel
balcone della controinteressata, poiché il balcone
realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi
l’affaccio (c.d. prospectio).
---------------
Col ricorso in esame, corredato di istanza cautelare, il
sig. Ro.Pa. impugna l'ordinanza n. 47AE/15 del 04.08.2015,
con cui il Comune di Anzio gli ha ingiunto il ripristino
dello stato dei luoghi in relazione alla realizzazione di un
balcone in via ... n. 3, primo piano int. 1, in pretesa
pretesa difformità dalla D.I.A. dallo stesso presentata,
nonché l’ordinanza n. 48AE/15 di pari data, con cui il
Comune gli ha irrogato, per la medesima vicenda, una
sanzione amministrativa dell’importo di euro 516,00
...
Il ricorso è fondato.
Con le ordinanze impugnate è stato ingiunto al ricorrente il
ripristino dello stato dei luoghi ed irrogata una sanzione
pecuniaria “per difformità alla DIA prot. 32917 del
29.07.2013”, individuata mediante rinvio per
relationem agli atti istruttori richiamati nel preambolo
e allegati al provvedimento; dagli stessi emerge che, in
sede di verifica dell’esecuzione dei lavori di realizzazione
di un balcone previsto negli elaborati grafici della
denuncia, sarebbe stato accertato il mancato rispetto delle
distanze minime dalla proprietà confinante (cfr. la
relazione tecnica prot. 1652/16 del 02.07.2015 dell’Unità
Abusivismo Edilizio, all’esito del sopralluogo del
precedente 10 giugno: “tra la linea esteriore di predetta
opera e il fondo confinante (balcone proprietà Ni.Fe.) non
vi è la distanza di m 1.50, così come previsto dall’art. 905
del Codice Civile, essendo il distacco di m 1.19”).
Parte ricorrente propone cinque ordini di censura:
(i) non vi è difformità tra quanto denunciato e quanto realizzato,
poiché la misura del distacco era facilmente ricavabile dal
progetto, sicché (tanto più che la questione dei distacchi
era già stata sollevata dal proprietario confinante) il
Comune soltanto ora verrebbe a contestare, in realtà, il
rispetto nello stesso progetto delle norme sulle distanze,
per la qual cosa avrebbe dovuto, piuttosto, procedere alla
revoca o all’annullamento del silenzio assenso sulla D.I.A.;
(ii) i rilievi e le misurazioni sono stati effettuati dai tecnici
comunali senza la partecipazione dell’interessato e senza
dargliene alcun avviso, in violazione del suo diritto al
contraddittorio procedimentale;
(iii) non sussiste alcuna violazione dell’art. 905 c.c.: nel caso
concreto non si tratta di una veduta diretta (art. 905
c.c.), ma obliqua (art. 906 c.c., che prescrive una distanza
di 75 cm), trattandosi di due balconi affiancati l’uno
all’altro, e comunque, anche se si trattasse di veduta
diretta, il fatto che entrambi i balconi affaccino su una
via pubblica (ancorché questa non li separi) importerebbe
comunque l’esenzione dal rispetto delle distanze a mente
dell’art. 905 ultimo comma c.c.. In ogni caso, l’ordine di
demolizione avrebbe dovuto interessare anche il balcone
della vicina, poiché il principio della prevenzione non si
applicherebbe ai distacchi tra vedute o balconi;
(iv) la demolizione parziale del balcone pregiudicherebbe la sua
parte eseguita in conformità;
(v) il Comune non ha osservato l’obbligo di contestare
immediatamente la violazione, in contrasto con gli articoli
27 del d.P.R. n. 380/2001 e 14, comma 1, della legge n.
689/1981.
Tanto premesso, anzitutto va osservato che, sebbene i
provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa
difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro
specifico rinvio agli atti istruttori (“tali difformità
sono meglio indicate nei citati atti”) chiarisce che la
contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda
unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone
dell’unità immobiliare confinante; ciò tenuto conto anche
del fatto, rilevante ai sensi dell’art. 116 c.p.c., che
l’amministrazione non ha mai dato riscontro alle ordinanze
con cui la Sezione ha chiesto di chiarire se le rilevate
difformità rispetto alla D.I.A. riguardassero il mancato
rispetto delle distanze previste in progetto.
Che la distanza tra i due balconi sia inferiore ai 150
centimetri è pacifico. Nella perizia giurata prodotta dal
ricorrente, corredata da grafici e rilievi fotografici, si
afferma che il balcone di proprietà del ricorrente è posto a
75 cm dal confine tra i due fabbricati, mentre il balcone
della controinteressata si trova a 49 cm del confine
medesimo (sicché la distanza che li separa sarebbe di 124
cm; maggiore è la distanza dalla finestra più vicina della
controinteressata, che la perizia quantifica in 190 cm).
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella
specie, non occorresse osservare la distanza minima di un
metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura
di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino
e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze,
lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta
di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di
fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada
prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe
comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c.,
giacché, come correttamente osservato nel terzo motivo
di ricorso, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per
l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire
vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un
metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia
una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che
entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è
irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in
particolare che si fronteggino o che da tale via siano
separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato
dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio
che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i
passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui
(cfr. Cass., sez. II, 20.02.2009, n. 4222, ove ultt. citt.).
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta
sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel
balcone della controinteressata, poiché il balcone
realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi
l’affaccio (c.d. prospectio).
Tanto basta all’accoglimento del ricorso, assorbita ogni
altra censura, con conseguente annullamento, per l’effetto,
degli atti impugnati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 07.09.2017 n. 9626 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima l'ordinanza di demolizione laddove:
a) l’attestazione che le due fioriere in
metallo e le due panchine dello stesso materiale sono
infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino
a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione
contenuto in atto pubblico;
b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti
dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo
paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di
autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza
comunque una alterazione della situazione preesistente;
c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei
manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e
chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa
dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo
paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico.
---------------
... per l'annullamento previa sospensiva dell'ordinanza n.
61/2017 del 20/04/2017 con cui il Comune di Casalecchio di
Reno (BO) Area Servizi al Territorio - Servizio
pianificazione e rigenerazione urbana ha ingiunto la
rimozione di n. 2 fioriere e di n. 2 panchine entrambe in
metallo dall'area esterna all'esercizio di parrucchieri con
insegna "Vi." posto in via ... n. 61 Casalecchio di Reno
(BO) e di qualsiasi atto presupposto, connesso e/o
conseguenziale.
...
- Rilevato che il ricorso è –ad avviso del Collegio-
manifestamente infondato in quanto
a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine
dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non
temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto
si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti
dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo
paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di
autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza
comunque una alterazione della situazione preesistente;
c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei
manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e
chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa
dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo
paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico;
d) la notifica dell’impugnata ordinanza comunale è stata
perfezionata nei confronti dell’attuale ricorrente non quale
persona fisica, ma per la sua correlazione con l’esercizio
di parrucchieri sito in via ... n. 61 –come si ricava dal
testo dell’atto- per modo che non sussiste l’asserita
strumentale censura di difetto di legittimazione passiva
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 07.09.2017 n. 625 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: A
seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato
rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95,
comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni,
comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa
invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso
istruttorio.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata
superata ogni incertezza interpretativa, nel senso
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10. In presenza di una esplicita disposizione di
legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis di
gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta
economica predisposto dalla stazione appaltante hanno
previsto la dichiarazione separata di tali oneri,
discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge
l’obbligo (rectius: l’onere) di effettuare la dichiarazione
stessa: il che è proprio il quid novi contenuto nella
disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit.,
che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti
contrasti insorti nel preesistente assetto normativo.
--------------
Il ricorso è fondato.
A seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice degli appalti), deve ritenersi che il mancato
rispetto dell’obbligo espressamente previsto dall’art. 95,
comma 10, dello stesso codice, di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni,
comporta l’esclusione automatica dalla gara, senza che possa
invocarsi la possibilità di far ricorso al c.d. soccorso
istruttorio.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è stata
superata ogni incertezza interpretativa, nel senso
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10. In presenza di una esplicita disposizione di
legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis
di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta
economica predisposto dalla stazione appaltante hanno
previsto la dichiarazione separata di tali oneri,
discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge
l’obbligo (rectius: l’onere) di effettuare la
dichiarazione stessa: il che è proprio il quid novi
contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95,
comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per
tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente
assetto normativo (Tar Campania, Napoli Sez. III,
03.05.2017, n. 2358).
L’azione di annullamento è pertanto fondata
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 07.09.2017 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per quanto attiene al danno da mancata
aggiudicazione di gara d'appalto il danneggiato, ai sensi
degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., deve offrire la
prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere
sofferto.
In particolare, spetta al danneggiato offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito ove fosse
risultato aggiudicatario dell'appalto, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo, ai sensi
dell'art. 64, commi 1 e 3, c.p.a., opera con pienezza e non
è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di
annullamento.
Quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto
sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria
informativa tra Pubblica amministrazione e privato, che
contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la
medesima necessità non si riscontra in quella conseguenziale
di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il
criterio della c.d. vicinanza della prova determina il
riespandersi del principio dispositivo sancito in generale
dall'art. 2697 comma 1, c.c..
La valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226, c.c., in
combinato con l'art. 2056, c.c., è ammessa soltanto in
presenza di situazione di impossibilità o di estrema
difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno; la
parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su
di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri
diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio, senza
dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti.
La prova, in ordine alla quantificazione del danno, può
essere raggiunta anche mediante presunzioni ma, in
conformità alla regola generale di cui all'art. 2729, c.c.,
esse devono essere dotate dei requisiti legali della
gravità, precisione e concordanza, mentre non può
attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su
dati meramente ipotetici.
--------------
La domanda risarcitoria, del tutto generica, non può essere
accolta.
Per quanto attiene al danno da mancata aggiudicazione di
gara d'appalto il danneggiato, ai sensi degli artt. 30, 40 e
124, comma 1, c.p.a., deve offrire la prova dell'an e
del quantum del danno che assume di avere sofferto;
in particolare spetta al danneggiato offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito ove fosse
risultato aggiudicatario dell'appalto, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo, ai sensi
dell'art. 64, commi 1 e 3, c.p.a., opera con pienezza e non
è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di
annullamento; quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica
in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria
informativa tra Pubblica amministrazione e privato, che
contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la
medesima necessità non si riscontra in quella conseguenziale
di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il
criterio della c.d. vicinanza della prova determina il
riespandersi del principio dispositivo sancito in generale
dall'art. 2697 comma 1, c.c.; la valutazione equitativa, ai
sensi dell'art. 1226, c.c., in combinato con l'art. 2056,
c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di
impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova
sull'ammontare del danno; la parte danneggiata non può
sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e
rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente tecnico d'ufficio, senza dedurre quantomeno i
fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali
diritti; la prova, in ordine alla quantificazione del danno,
può essere raggiunta anche mediante presunzioni ma, in
conformità alla regola generale di cui all'art. 2729, c.c.,
esse devono essere dotate dei requisiti legali della
gravità, precisione e concordanza, mentre non può
attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su
dati meramente ipotetici (Consiglio di Stato, sez. V,
11.05.2017, n. 2184)
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 07.09.2017 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Posto
che pacificamente, prima della entrata in vigore del TUEL
e dopo quella del codice ambientale, la competenza
all’emanazione delle ordinanze di rimozione rifiuti
abbandonati spetta al sindaco, occorre rispondere al quesito
se nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore
delle due fonti normative la competenza fosse trasferita al
dirigente.
Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti
precedentemente assunti, rilevano talune considerazioni di
ordine sistematico:
- il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella
sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento
con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui
dispone conseguentemente l’abrogazione;
- in particolare, l’art. 192 del codice ambientale riproduce l’art.
14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro
introducendovi due aggiornamenti relativi all’obbligo di
accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e
di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il
richiamo al d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la
competenza del sindaco a emanare l’ordinanza per la
rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole
attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove
il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener
conto di -e conformarsi a– quanto previsto dal TUEL);
- a ciò si può aggiungere che l’art. 264, comma 1, lettera i), del
codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del
decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di
provvedimenti attuativi, al dichiarato “fine di assicurare
che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio
dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte
quarta del presente decreto”, a testimonianza della volontà
del legislatore di evitare ogni discontinuità –salvo ove
espressamente disposto– nel passaggio dal decreto Ronchi al
codice ambientale.
Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che –pur
dando atto dei profili problematici della questione– si
debba applicare al caso in questione il principio di
specialità: “Per il principio di specialità, che prevale sul
principio ordinario di successione cronologica delle norme,
le disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione
delle precedenti, ove queste ultime disciplinano
diversamente la stessa materia in un campo particolare”.
In definitiva, questo Collegio ritiene che la volontà del
legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la
competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di
rimozione di rifiuti, ex art. 14 d.lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all’entrata in
vigore del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino
all’entrata in vigore del il decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale
competenza.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata, ancorché emanata dopo
l’entrata in vigore del TUEL, avrebbe dovuto essere emanata
dal Sindaco e non dal Dirigente.
---------------
L’ANAS s.p.a. impugna la sentenza in epigrafe, che ha
respinto il ricorso, presentato dalla medesima società, per
l’annullamento dell’ordinanza n. 38 del 23.05.2005, emanata
dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia municipale del
Comune di Rivello (PZ), con cui ha ordinato ad ANAS e a due
imprese di rimuovere i rifiuti abbandonati lungo
l’autostrada A3.
...
Assume quindi rilevanza centrale e dirimente la questione
della competenza a emanare l’ordinanza impugnata, se del
Sindaco (come vorrebbe la società appellante, per dedurne
l’illegittimità del provvedimento) o del Dirigente comunale
(secondo l’Amministrazione resistente).
In materia, si sono succedute nel tempo diverse disposizioni
ritenute dalla giurisprudenza applicabili alla fattispecie
del potere di ordinanza in materia di rimozione dei rifiuti:
- il d.lgs. 05.02.1997, n. 22, “Attuazione delle direttive
91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e
94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”
(cd. decreto Ronchi), che all’art. 14, recante il divieto di
abbandono di rifiuti e l’obbligo di procedere alla
rimozione, prevede (comma 3, secondo periodo) che “Il
sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere”;
- il d.lgs. 18.08.2000, n. 267, “Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali” –TUEL, che all’art.
107, comma 5, prevede che a decorrere dalla data di entrata
in vigore del testo unico, le disposizioni che conferiscono
agli organi di cui al capo I titolo III (fra cui il sindaco)
l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti
amministrativi, “si intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti”;
- il d.lgs. 03.04.2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”
(cd. codice ambientale) che all’art. 192, comma 3, secondo
periodo, riproduce testualmente la disposizione richiamata
del decreto Ronchi e dunque ribadisce la competenza
sindacale.
Quanto ai precedenti, da una parte questo Consiglio ha
considerato che –con riferimento a un provvedimento del 2003
(dunque dopo l’entrata in vigore del TUEL e prima di quella
del codice ambientale)- alla luce della norma generale del
TUEL, “trattandosi di un atto di gestione (più
precisamente di un provvedimento sanzionatorio), l'adozione
dell'ordine di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello
stato dei luoghi rientra nella competenza del dirigente
comunale e non del sindaco” (Sez. V, sent. n. 5288
del 15.12.2016).
Peraltro, in una controversia fra le medesime parti del
presente giudizio ed avente ad oggetto una ordinanza del
2007 (dunque dopo l’entrata in vigore del codice ambientale)
analoga a quella ora in discussione, questo Consiglio ha
statuito che: “Per la pacifica giurisprudenza di questa
Sezione, l’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una
disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107,
comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce
espressamente al Sindaco la competenza a disporre con
ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La
disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V,
29.08.2012, n. 4635; id., 12.06.2009, n. 3765; id.,
10.03.2009, n. 1296; id., 25.08.2008, n. 4061).”
La emanazione dell’ordinanza de qua (23.05.2005) si
colloca temporalmente fra l’entrata in vigore del TUEL e
quella del codice ambientale.
Posto quindi che pacificamente, prima della entrata in
vigore del TUEL e dopo quella del codice ambientale, la
competenza all’emanazione delle ordinanze in questione
spetta al sindaco, occorre rispondere al quesito se nel
periodo intercorrente fra l’entrata in vigore delle due
fonti normative la competenza fosse trasferita al dirigente.
Al riguardo, e in parziale riforma degli orientamenti
precedentemente assunti, rilevano talune considerazioni di
ordine sistematico:
- il codice ambientale, alla Parte Quarta, riproduce nella
sostanza, salvo adattamenti e integrazioni per coordinamento
con normative sopraggiunte, il decreto Ronchi, di cui
dispone conseguentemente l’abrogazione;
- in particolare, l’art. 192 del codice ambientale riproduce l’art.
14 del decreto Ronchi pressoché testualmente, peraltro
introducendovi due aggiornamenti relativi all’obbligo di
accertamenti da parte dei soggetti preposti al controllo e
di contraddittorio con i soggetti interessati, oltre che il
richiamo al d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche, ma ribadendo la
competenza del sindaco a emanare l’ordinanza per la
rimozione dei rifiuti (mentre sarebbe stato ragionevole
attendersi la indicazione della competenza dirigenziale, ove
il legislatore del codice ambientale avesse inteso tener
conto di -e conformarsi a– quanto previsto dal TUEL);
- a ciò si può aggiungere che l’art. 264, comma 1, lettera i), del
codice ambientale, nel disporre la abrogazione esplicita del
decreto Ronchi, reca altresì una norma in materia di
provvedimenti attuativi, al dichiarato “fine di
assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel
passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista
dalla parte quarta del presente decreto”, a
testimonianza della volontà del legislatore di evitare ogni
discontinuità –salvo ove espressamente disposto– nel
passaggio dal decreto Ronchi al codice ambientale.
Gli elementi sopra illustrati inducono a ritenere che –pur
dando atto dei profili problematici della questione– si
debba applicare al caso in questione il principio di
specialità: “Per il principio di specialità, che prevale
sul principio ordinario di successione cronologica delle
norme, le disposizioni posteriori non comportano
l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime
disciplinano diversamente la stessa materia in un campo
particolare” (da ultimo, questo Consiglio, Sez. VI,
sentenza n. 1199 del 23.03.2016).
In definitiva, questo Collegio ritiene che la volontà del
legislatore vada ricostruita nel senso di affermare la
competenza del sindaco ad emanare le ordinanze in materia di
rimozione di rifiuti, ex art. 14 d.lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all’entrata in
vigore del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino
all’entrata in vigore del il decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152 (codice ambientale), che ha ribadito tale competenza.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata, ancorché emanata dopo
l’entrata in vigore del TUEL, avrebbe dovuto essere emanata
dal Sindaco e non dal Dirigente.
L’appello va quindi accolto e conseguentemente, in riforma
della sentenza appellata, l’Ordinanza n. 38 del 23.05.2005,
emanata dal Responsabile del Servizio-Ufficio polizia
municipale del Comune di Rivello va annullata, per
l’assorbente motivo della incompetenza dell’organo che ha
adottato il provvedimento
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.09.2017 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
linea generale, solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare
sottratti al diritto di accesso.
Invero, per ciò che concerne gli atti istruttori di un
procedimento penale, l’accesso deve essere escluso per la
documentazione in possesso dell’amministrazione coperta da
segreto istruttorio, in quanto afferente a indagini
preliminari o procedimenti penali in corso. Al riguardo il
legislatore ha inteso contemperare, secondo i principi
fissati dall’art. 97 della Costituzione, gli opposti
interessi in gioco, quello del privato, di accedere agli
atti dell’amministrazione in ossequio al principio di
trasparenza dell’azione amministrativa e quello pubblico, di
sottrarre all’accesso determinate categorie di atti, la cui
pubblicità potrebbe recare pregiudizio agli interessi,
ritenuti prevalenti, individuati nelle lettere a), b), c) e
d) del comma 2 dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Qualora si richieda l’ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell’ambito di
un’attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere
ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss.
L. 241/1990 e ostensibili unicamente mediante l’attivazione
degli strumenti previsti dal codice di procedura penale, tra
cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt.
391-bis e ss. c.p.p..
---------------
FATTO
Espone la -OMISSIS- di avere ricoperto, nel periodo aprile
2012–dicembre 2014, l’incarico di direttore del servizio
contratti appalti e acquisti dell’allora ASL 1 di Sassari.
A seguito di indagini avviate dalla Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Sassari in ordine alla rilevanza
penale di alcuni atti di proroga di contratti scaduti, la
-OMISSIS- è risultata indagata e destinataria di
informazione di chiusura delle indagini preliminari ai sensi
dell’art. 415-bis c.p.p..
In data 01.02.2017 è stata inviata apposita istanza di
accesso agli atti a mezzo PEC.
La ricorrente asserisce di avere interesse ad accedere agli
atti delle procedure di gara oggetto dell’informazione di
garanzia al fine di organizzare la propria difesa in
giudizio.
L’avviso di chiusura delle indagini inviato alla -OMISSIS-
individua quattro contratti che, secondo la tesi
accusatoria, sarebbero stati illegittimamente prorogati nel
periodo in cui la stessa ricorrente ricopriva l’incarico di
direttore del servizio acquisti.
E’ necessario anche verificare quali misure di
riorganizzazione aziendale, nel periodo in esame, abbiano
interessato il servizio diretto dalla -OMISSIS- incidendo
eventualmente sui tempi per lo svolgimento delle procedure
di gara.
Alla camera di consiglio del 07.06.2017 il ricorso veniva
trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato.
La domanda di accesso agli atti presentata dalla ricorrente
ha tutti i requisiti previsti dagli artt. 22 e ss. L. 241
del 1990.
L’amministrazione è rimasta totalmente inerte. Non si
possono pertanto nemmeno apprezzare le motivazioni del
diniego.
Come è noto, l'indagato, nel termine di venti giorni a
decorrere dal ricevimento dell'avviso previsto dall’art.
415-bis c.p.p., ha facoltà di prendere visione degli atti e
di estrarne copia, di presentare memorie, produrre
documenti, depositare la documentazione relativa alle
indagini eventualmente svolte dal difensore, chiedere
l'espletamento di specifici atti d'indagine, nonché
presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di
essere sottoposto ad interrogatorio.
La parte è sempre in condizione di potere esercitare il
diritto di difesa, prendendo conoscenza diretta e personale
degli atti depositati in cancelleria.
E’ però vero che nulla vieta al soggetto destinatario
dell’avviso di formulare istanza di accesso agli atti alla
pubblica amministrazione se lo ritiene utile per la propria
attività difensiva.
In linea generale, solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso (Tar Sicilia,
Catania, Sez. III, 25.07.2017, n. 1943).
Inoltre, una specifica disposizione, l’art. 391-quater
c.p.p. così recita: “Richiesta di documentazione alla
pubblica amministrazione.
1. Ai fini delle indagini difensive, il difensore può
chiedere i documenti in possesso della pubblica
amministrazione e di estrarne copia a sue spese.
2. L'istanza deve essere rivolta all'amministrazione che ha
formato il documento o lo detiene stabilmente.
3. In caso di rifiuto da parte della pubblica
amministrazione si applicano le disposizioni degli articoli
367 e 368”.
La disposizione offre uno strumento di tutela ulteriore
rispetto a quella apprestata dagli artt. 22 ss., L.
07.08.1990, n. 241, che resta però percorribile.
L’amministrazione dovrà quindi nell’ordine:
1) dare riscontro espresso alla richiesta presentata dalla
-OMISSIS-;
2) rendere disponibili gli atti richiesti ad eccezione di eventuali
atti ancora coperti da segreto istruttorio;
3) in ordine a quanto esposto al punto 2) va rammentato che: “1.
Per ciò che concerne gli atti istruttori di un procedimento
penale, l’accesso deve essere escluso per la documentazione
in possesso dell’amministrazione coperta da segreto
istruttorio, in quanto afferente a indagini preliminari o
procedimenti penali in corso. Al riguardo il legislatore ha
inteso contemperare, secondo i principi fissati dall’art. 97
della Costituzione, gli opposti interessi in gioco, quello
del privato, di accedere agli atti dell’amministrazione in
ossequio al principio di trasparenza dell’azione
amministrativa e quello pubblico, di sottrarre all’accesso
determinate categorie di atti, la cui pubblicità potrebbe
recare pregiudizio agli interessi, ritenuti prevalenti,
individuati nelle lettere a), b), c) e d) del comma 2
dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Qualora si richieda l’ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell’ambito di
un’attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere
ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss.
L. 241/1990 e ostensibili unicamente mediante l’attivazione
degli strumenti previsti dal codice di procedura penale, tra
cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt.
391-bis e ss. c.p.p. (ex multis, da ultimo, Tar Lazio, Roma,
Sez. III-ter, 23.12.2015, n. 14525)".
Il ricorso deve pertanto essere accolto nei limiti sopra
descritti
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 06.09.2017 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
insussistenza dell’obbligo per la P.A. di pronunciarsi circa
l'istanza del privato volta al riesame di un provvedimento
divenuto inoppugnabile oppure volta a sollecitare l’adozione
di un provvedimento di autotutela.
Il consolidato orientamento assunto dal
Consiglio di Stato afferma costantemente:
- che “Se è innegabile che la p.a. deve comportarsi secondo buona
fede e correttezza, è altrettanto vero che essa non ha alcun
obbligo -e tanto meno è sottoposta all'esercizio di alcuna
attività vincolata- di provvedere su istanza
dell'interessato al riesame di un provvedimento edilizio,
divenuto oramai inoppugnabile a seguito della formazione del
giudicato reiettivo sull'impugnazione del diniego di
concessione edilizia”;
- che “…. non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di
provvedere su un'istanza di riesame, annullamento o revoca
d'ufficio di un provvedimento divenuto inoppugnabile per
mancata tempestiva impugnazione”;
- che “l'omissione dell'amministrazione può assumere rilevanza come
ipotesi di silenzio-rifiuto solo ove sussista l'obbligo di
provvedere, mancante tuttavia allorché l'istanza del privato
sia volta a imporre il riesame di vicende su cui la stessa
amministrazione è già intervenuta con determinazioni ormai
inoppugnabili”;
- che “Non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo
giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una
diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere
provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa
all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia
discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno”;
- che “Il giudizio sul silenzio-rifiuto è diretto ad accertare se
il comportamento silenzioso tenuto violi l'obbligo
dell'Amministrazione di adottare un provvedimento esplicito
sull'istanza del privato, titolare di una posizione
qualificata che ne legittimi l'istanza, mentre le istanze
dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di
autotutela da parte della stessa amministrazione hanno una
funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in
capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di
provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio
inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza”;
e che “pertanto, non sussiste alcun obbligo per
l'amministrazione comunale di pronunciarsi su un'istanza
volta ad ottenere un provvedimento di annullamento di una
determinazione, non essendo coercibile ‘ab extra’
l'attivazione del procedimento di riesame della decisione
presa, peraltro neanche configurabile come provvedimento
amministrativo, mediante l'istituto del silenzio-rifiuto”.
---------------
2.5. Da tutto quanto sopra osservato consegue che
l’Amministrazione non aveva alcun obbligo di provvedere
sull’istanza di riesame, attesa la totale infondatezza ed
inammissibilità della stessa.
2.6. Le superiori considerazioni si conformano peraltro al
consolidato orientamento assunto -sulla questione- dal
Consiglio di Stato, il quale afferma costantemente:
- che “Se è innegabile che la p.a. deve comportarsi secondo
buona fede e correttezza, è altrettanto vero che essa non ha
alcun obbligo -e tanto meno è sottoposta all'esercizio di
alcuna attività vincolata- di provvedere su istanza
dell'interessato al riesame di un provvedimento edilizio,
divenuto oramai inoppugnabile a seguito della formazione del
giudicato reiettivo sull'impugnazione del diniego di
concessione edilizia” (C.S., V, 17.06.2014 n. 3095);
- che “…. non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di
provvedere su un'istanza di riesame, annullamento o revoca
d'ufficio di un provvedimento divenuto inoppugnabile per
mancata tempestiva impugnazione” (C.S., III, 22.10.2009
n. 1658; Id., VI, 12.11.2003 n. 7250; Id., V, 14.04.2008 n.
1610);
- che “l'omissione dell'amministrazione può assumere rilevanza
come ipotesi di silenzio-rifiuto solo ove sussista l'obbligo
di provvedere, mancante tuttavia allorché l'istanza del
privato sia volta a imporre il riesame di vicende su cui la
stessa amministrazione è già intervenuta con determinazioni
ormai inoppugnabili” (C.S., VI, 05.09.2005 n. 4504);
- che “Non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo
giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una
diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere
provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa
all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia
discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno”
(CS, V, 07.11.2016 n. 4642; Id., 22.01.2015 n. 273; Id., V,
03.10.2012 n. 5199);
- che “Il giudizio sul silenzio-rifiuto è diretto ad accertare
se il comportamento silenzioso tenuto violi l'obbligo
dell'Amministrazione di adottare un provvedimento esplicito
sull'istanza del privato, titolare di una posizione
qualificata che ne legittimi l'istanza, mentre le istanze
dei privati volte a sollecitare l'esercizio del potere di
autotutela da parte della stessa amministrazione hanno una
funzione di mera denuncia o sollecitazione e non creano in
capo alla medesima amministrazione alcun obbligo di
provvedere, non dando luogo a formazione di silenzio
inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza”;
e che “pertanto, non sussiste alcun obbligo per
l'amministrazione comunale di pronunciarsi su un'istanza
volta ad ottenere un provvedimento di annullamento di una
determinazione, non essendo coercibile ‘ab extra’
l'attivazione del procedimento di riesame della decisione
presa, peraltro neanche configurabile come provvedimento
amministrativo, mediante l'istituto del silenzio-rifiuto”
(C.S., V, 30.12.2011 n. 6995)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 06.09.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per grave illecito professionale.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Per grave illecito professionale – Art. 80, comma 5,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Ambito di applicazione.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per grave
illecito professionale – Art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del
2016 – Provvedimenti giurisdizionali non definitivi –
Rilevanza – Condizione.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Precedenti penali – Segnalazione alla stazione appaltante –
Filtro del concorrente – Esclusione.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Contraddittorio con il concorrente – Condizione.
●
Il ”grave illecito professionale”, che ai sensi
dell’art. 80, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 comporta
l’esclusione del concorrente dalla gara, ricomprende ogni
condotta, collegata all’esercizio dell’attività
professionale, contraria ad un dovere posto da una norma
giuridica, sia essa di natura civile, penale o
amministrativa (1).
●
Ai fini dell’esclusione dalla gara pubblica
prevista dall’art. 80, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
rilevano anche i provvedimenti giurisdizionali non
definitivi qualora contengano una condanna al risarcimento
del danno e uno degli altri effetti tipizzati dall’art. 80
stesso; l’esclusione non può superare i tre anni a decorrere
dalla data dell’annotazione della notizia nel Casellario
informatico gestito dall’Autorità o, per i provvedimenti
penali di condanna non definitivi, dalla data del
provvedimento” e non dalla verificazione del fatto storico
(2).
●
Il concorrente ad una gara pubblica non può
operare alcun filtro nell’individuazione dei precedenti
penali valutando esso stesso la loro rilevanza ai fini
dell’ammissione alla procedura di gara, spettando tale
potere esclusivamente alla stazione appaltante (3).
●
Il contraddittorio previsto nel nuovo Codice dei
contratti pubblici, ai fini dell’accertamento della carenza
sostanziale dei requisiti di ammissione alla gara, riguarda
i soli casi in cui il concorrente si è dimostrato leale e
trasparente nei confronti della stazione appaltante,
rendendola edotta di tutti i suoi precedenti, anche se
negativi, ed ha fornito tutte le informazioni necessarie per
dimostrare l’attuale insussistenza di rischi sulla sua
inaffidabilità o mancata integrità nello svolgimento della
sua attività professionale (4).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che tra i gravi illeciti espressamente
contemplati dalla norma rientrano, infatti, “le
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno
dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad
altre sanzioni”.
(2) Il giudice di appello ha richiamato le
Linee guida dell’Anac n. 6 del 16.11.2016.
Ha aggiunto che il testo dell’art. 57, par. 7 della
direttiva 2014/24/UE non implica affatto che per “data
del fatto” debba intendersi la data di commissione del
reato, in quanto in questo modo verrebbero meno i principio
di effettività e di giustizia sostanziale. Quando l’errore
professionale deriva dalla commissione di un reato, che il
più delle volte viene occultato dal responsabile, la
decorrenza del termine triennale di esclusione dalla data di
commissione del reato, anziché dalla data del suo
accertamento giurisdizionale equivarrebbe a privare di ogni
effetto il precetto normativo, il che non è possibile.
Inoltre, in caso di condotte reiterate nel tempo, potrebbero
sussistere dubbi sull’individuazione del momento in cui
inizia a decorrere il termine triennale che –invece– per
propria natura deve ancorarsi ad un preciso momento storico.
Infine, il termine generico di “data del fatto”
utilizzata dal legislatore sovranazionale discende dalla
natura variegata dei fatti escludenti di cui al par. 4, tra
le quali sono ricomprese anche le sentenze non passate in
giudicato.
(3)
Cons. St., sez. V, 11.04.2016, n. 1412; id.
25.02.2015, n. 943.
(4) Ha chiarito la Sezione che solo in caso di lealtà dimostrata
dal concorrente è possibile ipotizzare un vero e proprio
contraddittorio tra le parti. Non è certo ammissibile
consentire alle concorrenti di nascondere alla stazione
appaltante situazioni pregiudizievoli, rendendo false o
incomplete dichiarazioni al fine di evitare possibili
esclusioni dalla gara, e poi, ove siano state scoperte,
pretendere il rispetto del principio del contraddittorio da
parte della stazione appaltante (Cons.
St., sez. V 11.04.2016, n. 1412).
Se ciò fosse possibile, si incentiverebbe la condotta “opaca”
delle concorrenti, che non avrebbero alcun interesse a
dichiarare fin dall’inizio i “pregiudizi”, rendendo
possibile la violazione del principio di trasparenza e di
lealtà che deve invece permeare tutta la procedura di gara.
Il ricorso al contraddittorio, e quindi la valutazione delle
misure di self-cleaning, presuppone -quindi– il
rispetto del principio di lealtà nei confronti della
stazione appaltante, e quindi in caso di dichiarazioni
mendaci o reticenti, l’amministrazione aggiudicatrice può
prescindervi, disponendo l’immediata esclusione della
concorrente (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 05.09.2017 n. 4192
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Emissioni rumorose da
impianto di condizionamento d'aria - Esercizio di una
professione o di un mestiere rumorosi - Oggettiva idoneità
delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone - Superamento della soglia di
normale tollerabilità - Disturbato le occupazioni o il
riposo delle persone - Art. 659 cod. pen. - Fattispecie.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad
arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone
costituisce un accertamento di fatto rimesso
all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è
tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio
convincimento su altri elementi probatori in grado di
dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Nella fattispecie: è stato evidenziato che l'albergo gestito
dal ricorrente era munito di un impianto di condizionamento
dell'aria (posto sul tetto) non insonorizzato, privo di
paratie e particolarmente rumoroso, e tale da disturbare il
riposo quotidiano di numerose persone dimoranti nei
dintorni; quel che impediva di configurare il solo illecito
amministrativo, non potendosi configurare una fonte rumorosa
ex se strumentale all'attività alberghiera, come tale
insuscettibile di riduzione di emissioni. Quanto appena
riportato era stato tratto dalle deposizioni dei testi
d'accusa e dalla documentazione acquisita, che dava atto di
un carteggio da tempo intercorrente tra l'albergo ed il
condominio delle parti civili, volto a sollecitare una
soluzione del problema.
RUMORE - Prova dell'effettivo disturbo
di più persone - Reato di pericolo - Idoneità della condotta
a disturbarne un numero indeterminato - Elementi di prova -
Convincimento del giudice - Oggettivo superamento della
soglia della normale tollerabilità - Giurisprudenza.
In materia di emissioni rumorose, trattandosi di reato di
pericolo presunto, per la prova dell'effettivo disturbo di
più persone è sufficiente l'idoneità della condotta a
disturbarne un numero indeterminato (per tutte, Sez. 3, n.
8351 del 24/06/2014, Calvarese).
Inoltre, per uguale principio giuridico, consolidato,
l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le
occupazioni delle persone non va necessariamente accertata
mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice
ben può fondare il proprio convincimento su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti
oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità (per tutte, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015,
Montali).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Differenza tra
Art. 659 cod. pen. 1^ e 2^ fattispecie - Fonte del rumore
prodotto - Due autonome fattispecie di reato - Esercizio di
mestieri rumorosi - Mero superamento dei limiti massimi o
differenziali fissati dalle leggi - Presunzione di turbativa
della pubblica tranquillità - Disturbo delle occupazioni o
del riposo delle persone - Oggettiva idoneità degli stessi a
superare una soglia di normale tollerabilità.
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di
reato, configurate rispettivamente dai commi 1 e 2.
L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte
del rumore prodotto, giacché, ove esso provenga
dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi,
la condotta rientra nella previsione del secondo comma del
citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza
rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni
dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica
tranquillità.
Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate
dall'esercizio dell'attività lavorativa, ricorre l'ipotesi
di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., per la quale
occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed
investano un numero indeterminato di persone, disturbando le
loro occupazioni o il riposo (Sez. 1, 17/12/1998, n. 4820,
Mannelli, in un caso di emissioni rumorose provocate non
dall'attività di una discoteca, bensì dall'impianto di
condizionamento).
Pertanto, i rumori molesti provenienti da un'attività
lavorativa integrano la fattispecie di cui all'art. 659,
comma 2, cod. pen. quando originino da elementi strettamente
connessi, strumentali e necessari all'esercizio
dell'attività medesima (Corte
di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 04.09.2017 n. 39883 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cassazione: è reato non insonorizzare il condizionatore che
disturba i vicini. Nel caso di un albergo il solo illecito
amministrativo si configura se la fonte rumorosa è
strumentale all'attività alberghiera.
Incorre in una responsabilità penale il gestore
di un albergo che non provvede a insonorizzare l'impianto di
condizionamento dell'aria che disturba il riposo di coloro
che dimorano nelle vicinanze.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. penale
feriale, nella
sentenza 04.09.2017 n.
39883.
Nel caso esaminato dai giudici di legittimità l'albergo era
munito di un impianto di condizionamento dell'aria (posto
sul tetto) non insonorizzato, privo di paratie e
particolarmente rumoroso, e tale da disturbare il riposo
quotidiano di numerose persone dimoranti nei dintorni.
Tale circostanza impediva di configurare il solo illecito
amministrativo, “non potendosi configurare una fonte
rumorosa ex se strumentale all'attività alberghiera, come
tale insuscettibile di riduzione di emissioni” (commento
tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
4. Il gravame risulta infondato in forza delle
considerazioni che seguono.
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di
reato, configurate
rispettivamente dai commi 1 e 2. L'elemento che le
differenzia è rappresentato
dalla fonte del rumore prodotto, giacché, ove esso provenga
dall'esercizio di una
professione o di un mestiere rumorosi, la condotta rientra
nella previsione del
secondo comma del citato articolo per il semplice fatto
della esorbitanza rispetto
alle disposizioni di legge o alle prescrizioni
dell'autorità, presumendosi la
turbativa della pubblica tranquillità. Qualora, invece, le
vibrazioni sonore non
siano causate dall'esercizio dell'attività lavorativa,
ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen.,
per la quale occorre che i rumori superino la normale
tollerabilità ed investano un numero indeterminato di
persone, disturbando le
loro occupazioni o il riposo (Sez. 1, 17/12/1998, n. 4820,
Mannelli, Rv. 213395,
in un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività
di una discoteca,
bensì dall'impianto di condizionamento).
Nei medesimi
termini, dunque, questa
Corte ha più volte affermato che i rumori molesti
provenienti da un'attività
lavorativa integrano la fattispecie di cui all'art. 659,
comma 2, cod. pen. quando
originino da elementi strettamente connessi, strumentali e
necessari all'esercizio
dell'attività medesima; in applicazione di questo principio,
dunque, questa Corte
ha più volte affermato che un bar autorizzato a rimanere
aperto fino a tarda
notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione
sonora deve essere
classificato come esercizio di un "mestiere rumoroso",
proprio perché
l'utilizzazione degli stessi strumenti è da considerare come
connessa ed
indispensabile all'esercizio dell'attività medesima (cfr.
Sez. 1, 26/02/2008, n.
11310, Fresina, Rv. 239165).
Ciò rilevato, deve poi sottolinearsi a mente della
giurisprudenza più
recente che l'inquinamento acustico conseguente
all'esercizio di mestieri
rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti
massimi o
differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti
presidenziali in materia,
integra l'illecito amministrativo di cui alla l. 26.10.1995, n. 447, art. 10,
comma 2, (legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la
contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo
delle persone (art.
659, comma 2, cod. pen.) (Sez. 3, n. 34920 dell'11/06/2015,
Masselli, Rv.
264739; Sez. 1, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, Rv. 254088);
del pari, si è
affermato che, in tema di disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone, la
condotta costituita dal superamento dei limiti di
accettabilità di emissioni sonore
derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi
non configura l'ipotesi di
reato di cui all'art. 659 comma 2, in oggetto, ma l'illecito
amministrativo di cui
alla citata l. n. 447 del 1995, in applicazione del
principio di specialità contenuto
nella L. 24.11.1981, n. 689, art. 9 (Sez. 3,
31.01.2014, n. 13015,
Vazzana. Rv. 258702).
5. Orbene, tutto ciò premesso, osserva la Corte che la
sentenza impugnata
ha affermato la responsabilità del Ri. con riferimento
esclusivo alle emissioni
provenienti dall'impianto di condizionamento dell'aria,
implicitamente negando
rilevanza penale all'altra condotta contestata (disturbo con
elevato volume
dell'impianto di amplificazione musicale), perché non più
prevista dalla legge
come reato, nei termini appena richiamati; quel che si
ricava con chiarezza dal
testo della pronuncia e, in particolare, dal primo capoverso
della pag. 6, che
"concentra" ogni attenzione del giudicante (anche con
riguardo alle emergenze istruttorie) soltanto sul primo
profilo, attribuendo dunque all'altro, di fatto, rilievo
esclusivamente amministrativo.
Ne consegue che tutte le
doglianze qui proposte
concernenti tale secondo ambito (anche in punto di
valutazione delle prove orali)
debbono esser rigettate, poiché attinenti ad un profilo di
responsabilità che la
sentenza ha di fatto escluso, riconoscendo la colpevolezza
del ricorrente con
riferimento ad un solo, specifico ambito.
Il Tribunale, tuttavia, non ha espresso in dispositivo
questo (pur chiaro)
elemento, che deve pertanto esser esplicitato da questa
Corte, annullando senza
rinvio la sentenza impugnata -limitatamente alla
contestazione relativa al
volume dell'impianto di amplificazione per la diffusione
della musica- perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato; e senza che si
debba intervenire sul
trattamento sanzionatorio che, invero, risulta esser stato
individuato dal Giudice
di merito con riferimento esclusivo alle emissioni da
impianto di
condizionamento.
7. Con riguardo a queste ultime, peraltro, il ricorso deve
essere rigettato;
attraverso tali doglianze, infatti, il Ri. tende ad
ottenere una valutazione
diversa e nuova delle medesime emergenze istruttorie già
esaminate dal Giudice
del merito (specie quelle testimoniali), sollecitandone una
lettura alternativa e
più favorevole.
Il che non è consentito. Al riguardo, infatti, occorre
ribadire che il controllo
del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione
attiene alla coerenza
strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva
tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti
a
fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6,
n. 47204 del 07/10/2015,
Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/03/2009,
Campanella, n. 12110, Rv.
243247).
8. Il gravame, inoltre, oblitera che la sentenza ha
riconosciuto la penale
responsabilità del ricorrente in forza di un congruo
apparato argomentativo,
fondato su oggettive risultanze dibattimentali e privo di
qualsivoglia illogicità
manifesta; come tale, dunque, non censurabile. In
particolare, ha evidenziato
che l'albergo gestito dal ricorrente era munito di un
impianto di condizionamento
dell'aria (posto sul tetto) non insonorizzato, privo di
paratie e particolarmente
rumoroso, e tale da disturbare il riposo quotidiano di
numerose persone
dimoranti nei dintorni; quel che impediva di configurare il
solo illecito
amministrativo, nei termini sopra riportati, non potendosi
configurare una fonte
rumorosa ex se strumentale all'attività alberghiera, come
tale insuscettibile di
riduzione di emissioni.
Quanto appena riportato era stato
tratto dalle deposizioni
dei testi d'accusa (che la sentenza ha congruamente
richiamato, giudicandole circostanziate e precise, quindi
attendibili), in uno con la documentazione
acquisita, che dava atto di un carteggio da tempo
intercorrente tra l'albergo ed il
condominio delle parti civili, volto a sollecitare una
soluzione del problema.
Quel
che, però, non era accaduto, sì da incidere -con logico
argomento anche sul
punto- sul profilo soggettivo della condotta, come ancora
evidenziato dalla
sentenza in esame. In tal modo, dunque, il Tribunale ha
fatto buon governo:
1)
del principio -costantemente affermato in questa sede- in
forza del quale l'affermazione di responsabilità per la fattispecie
de qua
non implica, attesa la
natura di reato di pericolo presunto, la prova
dell'effettivo disturbo di più
persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a
disturbarne un numero
indeterminato (per tutte, Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese, Rv.
262510);
2) dell'ulteriore principio, del pari consolidato,
per cui l'attitudine dei
rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone
non va
necessariamente accertata mediante perizia o consulenza
tecnica, di tal ché il
Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi
probatori di
diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in
grado di riferire le
caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che
risulti oggettivamente
superata la soglia della normale tollerabilità (per tutte,
Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, Rv. 263433, a mente della quale
in tema
di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità
delle emissioni sonore
ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di
persone costituisce un
accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice
di merito, il quale
non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini
tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su
altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Una motivazione del tutto adeguata e non meritevole di
censura, dunque,
come tale idonea a fondare un giudizio di penale
responsabilità e ad imporre il
rigetto anche della doglianza concernente la valutazione dei
testi a difesa,
ampiamente richiamati, poiché di natura fattuale (quindi,
inammissibile) e non
suscettibile di esame in questa sede; e con la ulteriore
considerazione che la
testimonianza Zi. -che si contesta non esser stata
valutata (al pari di quella
Bi., relativa, però, al profilo di responsabilità non
riconosciuto)- giammai
avrebbe potuto ricoprire rilievo decisivo nella vicenda in
esame, avendo il teste
affermato -come da verbale allegato al ricorso- di aver
dormito nell'albergo e
di non aver ricevuto alcun disturbo, così però non potendo
riferire (profilo invero
determinante) con riguardo alle emissioni sonore percepite
all'esterno della
struttura medesima (Corte
di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 04.09.2017 n.
39883). |
LAVORI PUBBLICI:
Negli appalti pubblici
regolati
dal capitolato generale approvato con il d.P.R. n. 1063 del
1962, la
consegna dei lavori costituisce obbligo dell'amministrazione
appaltante, il cui inadempimento, però, è disciplinato in
modo diverso
rispetto alle norme del codice civile, nel senso che non
conferisce
all'appaltatore il diritto di risolvere il rapporto (né con
domanda ai
sensi dell'art. 1453 c.c., né a seguito di diffida ad
adempiere ai sensi
dell'art. 1454 c.c.), né di avanzare pretese risarcitorie,
ma gli
attribuisce, invece, in base alla norma speciale dell'art.
10 del
capitolato generale, la sola facoltà di presentare istanza
di recesso dal
contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il
sorgere di
un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal
ritardo.
Sicché il riconoscimento all'appaltatore di un diritto al
risarcimento
può venire in considerazione solo se egli abbia
preventivamente
esercitato tale facoltà di recesso, dovendosi altrimenti
presumere che
abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza
ulteriori oneri
a carico della stazione appaltante.
---------------
Gl.It. s.p.a. (in prosieguo Gl., cessionaria
del
ramo di azienda dell'appaltatrice G.G.M. In.
s.p.a.)
conveniva in giudizio Ferrovie dello Stato s.p.a. (poi Rete
Ferroviaria
Italiana s.p.a., in prosieguo R.F.I.) deducendo -per quel
che qui
ancora rileva- che, a causa della ritardata picchettazione
delle aree
da parte della stazione appaltante per l'esecuzione dei
lavori di
consolidamento di una frana sulla linea ferroviaria Potenza-Metaponto, si era verificato il ritardo nella consegna dei
lavori da
parte di Ferrovie dello Stato sicché essa appaltatrice aveva
sopportato maggiori oneri dovuti al costo del materiale
ferroso
deteriorato e all'indebita protrazione dei lavori, nonché al
ritardato
collaudo degli i lavori appaltati; chiedeva pertanto la
condanna della
committente al risarcimento dei danni.
...
L'art. 10 del capitolato generale di appalto delle opere
pubbliche
dispone che «La consegna dei lavori deve avvenire non oltre
45 giorni
dalla data di registrazione alla Corte dei conti del decreto
di
approvazione del contratto (...)» (primo comma) e che «Se la
consegna non avvenga nel termine stabilito per fatto
dell'amministrazione, l'appaltatore può chiedere di recedere
dal
contratto. Nel caso di accoglimento dell'istanza di recesso
l'appaltatore ha diritto al rimborso dall'amministrazione
appaltante
delle spese di cui al precedente art. 9 nonché ad un
rimborso delle
altre spese da lui effettivamente sostenute, (...). Ove
l'istanza
dell'impresa non sia accolta e si proceda tardivamente alla
consegna,
l'appaltatore ha diritto ad un compenso per i maggiori oneri
dipendenti dal ritardo» (ottavo comma).
Nella specie, sostiene la ricorrente, dovrebbe invece farsi
applicazione, secondo quanto previsto nel contratto di
appalto del 28.03.1995, delle condizioni generali di
contratto per gli appalti
dell'Ente Ferrovie dello Stato, approvate con deliberazione
del
consiglio di amministrazione n. 589 del 27.10.1987, il
cui art. 19
dispone che, ove l'ente ritardi la consegna dei lavori oltre
il termine di
un anno dalla conclusione del contratto, l'appaltatore
acquisterà solo
il diritto di recedere dal contratto, senza pretendere alcun
risarcimento danni o compenso per mancato utile, salvo la
restituzione della cauzione e il rimborso delle spese
sostenute per la
formalizzazione del contratto.
Da ciò la ricorrente conclude
di non
aver mai maturato il diritto al recesso, posto che la
consegna dei
lavori era avvenuta il 10.12.1995, ossia entro l'anno
dalla
conclusione del contratto avvenuta con la comunicazione di
aggiudicazione della gara il 05.12.1994, con
conseguente
prosecuzione del rapporto contrattuale.
La censura, pur fondata limitatamente al profilo della
esatta
ricognizione della norma applicabile alla fattispecie -l'art. 19 delle
condizioni generali di contratto per gli appalti delle
Ferrovie dello
Stato, secondo quanto previsto dal contratto di appalto e
come del
resto pacifico tra le parti-, con conseguente correzione in
parte qua
della motivazione della sentenza impugnata ai sensi
dell'art. 384,
quarto comma, c.p.c., non conduce peraltro all'esito
auspicato dalla
ricorrente Gl..
Invero, premesso che la norma generale di cui all'art. 10
del
capitolato generale di appalto di opere pubbliche e quella
speciale di
cui all'art. 19 delle condizioni generali di contratto per
gli appalti delle
Ferrovie dello Stato hanno contenuto sostanzialmente
analogo,
differendo esse per il più lungo termine annuale di consegna
dei
lavori previsto dall'art. 19 in favore della stazione
appaltante, la ratio
dell'art. 19 non può che essere individuata alla stregua dei
principi affermati da questa Corte in tema di recesso
dall'appalto pubblico per
tardiva o parziale consegna dei lavori, stante la specialità
della
relativa disciplina rispetto all'ordinario regime codicistico.
Così, per
Sez. 1, 11.11.2004, n. 21484, negli appalti pubblici
regolati
dal capitolato generale approvato con il d.P.R. n. 1063 del
1962, la
consegna dei lavori costituisce obbligo dell'amministrazione
appaltante, il cui inadempimento, però, è disciplinato in
modo diverso
rispetto alle norme del codice civile, nel senso che non
conferisce
all'appaltatore il diritto di risolvere il rapporto (né con
domanda ai
sensi dell'art. 1453 c.c., né a seguito di diffida ad
adempiere ai sensi
dell'art. 1454 c.c.), né di avanzare pretese risarcitorie,
ma gli
attribuisce, invece, in base alla norma speciale dell'art.
10 del
capitolato generale, la sola facoltà di presentare istanza
di recesso dal
contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il
sorgere di
un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal
ritardo;
sicché il riconoscimento all'appaltatore di un diritto al
risarcimento
può venire in considerazione solo se egli abbia
preventivamente
esercitato tale facoltà di recesso, dovendosi altrimenti
presumere che
abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza
ulteriori oneri
a carico della stazione appaltante (v. anche, più
recentemente, Sez.
1, 29.10.2015, n. 22112; Sez. 1, 19.10.2015, n.
21100;
Sez. 1, 07.02.2013, n. 2983; Sez. 1, 07.06.2012, n.
9233)
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 04.09.2017 n. 20723). |
APPALTI:
Principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti di
lavori, servizi e forniture di importo inferiore alla soglia
comunitaria.
---------------
Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio
di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Applicabilità – Conseguenza.
Ai sensi dell’art. 36, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, in applicazione del principio di
rotazione negli appalti di importo inferiore alla soglia
comunitaria lastazione appaltante ha l’alternativa o di non
invitare il gestore uscente o, quanto meno, di motivare
attentamente le ragioni per le quale si riteneva di non
poter prescindere dall’invito (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che il principio di rotazione
‒previsto dall’art. 36, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e che per
espressa previsione normativa deve orientare le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli operatori
economici da consultare e da invitare a presentare le
offerte‒ trova fondamento nella esigenza di evitare il
consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore
uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto
dalle informazioni acquisite durante il pregresso
affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di
agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti
senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso
delle piccole e medie imprese, e di favorire la
distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione
tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio
di rotazione comporta in linea generale che l’invito
all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve
essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto
contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento (in tal senso, v. le
Linee guida n. 4 del 26.10.2016, n.
1097 dell’Anac).
Ad avviso della Sezione l’art. 36, d.lgs. 50 del 2016 non è
contrario ai principi costituzionali:
a) con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico”
del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli
affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e
implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il
gestore uscente affidatario diretto della concessione di
servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre
concorrenti;
b) quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è
dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma
pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e
medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i
limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che
va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo
motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare”
il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso
si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
c) in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di
partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata
dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e
l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.
La Sezione ha aggiunto che la mancata applicazione di tale
principio può essere dedotta in sede giurisdizionale anche
da chi ha partecipato alla gara, risultandone non vincitore
e non solo dagli operatori economici pretermessi, e ciò in
quanto la regola della rotazione degli inviti e degli
affidamenti amplia le possibilità concrete di aggiudicazione
in capo agli altri concorrenti, anche (e a maggior ragione)
quelli già invitati alla gara, i quali sono lesi in via
immediata e diretta dalla sua violazione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.08.2017 n. 4125
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
5.‒ L’appello principale della s.p.a. Su. e quello
incidentale del MIUR devono essere integralmente respinti.
5.1.‒ L’art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che
l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture
di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35
avvengono nel rispetto «del principio di rotazione degli
inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare
l’effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese».
La disposizione, in particolare, attribuisce alle stazioni
il potere di avvalersi delle procedure ordinarie per gli
affidamenti in esame ovvero di procedere secondo le seguenti
modalità: «b) per affidamenti di importo pari o superiore a
40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle
soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi,
mediante procedura negoziata previa consultazione, ove
esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori,
e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o
tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un
criterio di rotazione degli inviti».
5.2.‒
Il principio di rotazione ‒che per espressa
previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti
nella fase di consultazione degli operatori economici da
consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova
fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui
posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni
acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è
elevato. Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di
affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino
l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la
distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione
tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio
di rotazione comporta in linea generale che l’invito
all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve
essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto
contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale
anticorruzione, linee guida n. 4).
5.3.‒ Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure,
l’art. 164, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
prevede l’applicabilità anche alle concessioni delle
previsioni del titolo II del codice (e, quindi anche
dell’art. 36), sulla base di una valutazione di
compatibilità.
Del resto, anche nell’art. 30, comma 1, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi
implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più
generale al principio di libera concorrenza di cui il
criterio in esame costituisce espressione.
5.4.‒ Deve quindi concludersi che, anche nel caso di specie,
si imponesse a carico della stazione appaltante la seguente
alternativa: o di non invitare il gestore uscente o, quanto
meno, di motivare attentamente le ragioni per le quale si
riteneva di non poter prescindere dall’invito.
6.‒ In ragione dell’ampia premessa svolta, non può
accogliersi il primo motivo di gravame, con il quale
l’appellante principale lamenta l’erroneità della sentenza
per mancato accoglimento dell’eccezione di difetto di
legittimazione e di interesse del ricorrente.
L’appellante principale ha dedotto che il principio di
rotazione potrebbe essere fatto valere solo dagli operatori
economici pretermessi e non da chi ha partecipato alla gara,
risultandone non vincitore.
La regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti –il cui fondamento, come si è visto, è quello di evitare la
cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione
appaltante ed il precedente gestore– amplia le possibilità
concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti,
anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i
quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua
violazione.
7.‒ Poiché il principio di rotazione fa divieto ‒salvo
motivate eccezioni‒ di invitare il gestore uscente in
occasione del primo affidamento della concessione, è
infondato anche il secondo motivo di appello, secondo cui il
medesimo principio sarebbe inoperante in mancanza di un
indagine di mercato. Del resto, come affermato dai giudici
di prime cure, l’invito ad un numero di operatori economici
(sette) maggiore di quello minimo (cinque) previsto
dall’art. 36, 2 comma, lettera b), del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 escluda che possa essere ravvisata, nella
fattispecie, l’ipotesi della presenza di un numero ridotto
di operatori sul mercato.
8.‒ La questione di costituzionalità dell’art. 36 del d.lgs.
50 del 2016 –dedotta peraltro in termini generici– con il
terzo motivo di appello è manifestamente infondata in
relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
- con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico”
del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli
affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e
implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il
gestore uscente affidatario diretto della concessione di
servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre
concorrenti;
- quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è
dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma
pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e
medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i
limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che
va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo
motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il
primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si
ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
- in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di
partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal
principio di rotazione) favorisce l’efficienza e
l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi. |
APPALTI: Il
principio di rotazione ‒che per espressa
previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti
nella fase di consultazione degli operatori economici da
consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova
fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui
posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni
acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è
elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti
senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso
delle piccole e medie imprese, e di favorire la
distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione
tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio
di rotazione comporta in linea generale che l’invito
all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve
essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto
contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento.
---------------
La questione di costituzionalità
dell’art. 36 del d.lgs. 50 del 2016 è manifestamente infondata in
relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
- con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico”
del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli
affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e
implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il
gestore uscente affidatario diretto della concessione di
servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre
concorrenti;
- quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è
dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma
pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e
medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i
limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che
va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo
motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il
primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si
ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
- in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di
partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal
principio di rotazione) favorisce l’efficienza e
l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.
---------------
5.1.‒ L’art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che
l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture
di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35
avvengono nel rispetto «del principio di rotazione degli
inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare
l’effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese».
La disposizione, in particolare, attribuisce alle stazioni
il potere di avvalersi delle procedure ordinarie per gli
affidamenti in esame ovvero di procedere secondo le seguenti
modalità: «b) per affidamenti di importo pari o superiore a
40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle
soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi,
mediante procedura negoziata previa consultazione, ove
esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori,
e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o
tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un
criterio di rotazione degli inviti».
5.2.‒ Il principio di rotazione ‒che per espressa
previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti
nella fase di consultazione degli operatori economici da
consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova
fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui
posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni
acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è
elevato.
Pertanto, al fine di ostacolare le pratiche di
affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino
l’ingresso delle piccole e medie imprese, e di favorire la
distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione
tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio
di rotazione comporta in linea generale che l’invito
all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve
essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto
contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale
anticorruzione, linee guida n. 4).
5.3.‒ Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure,
l’art. 164, 2° comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
prevede l’applicabilità anche alle concessioni delle
previsioni del titolo II del codice (e, quindi anche
dell’art. 36), sulla base di una valutazione di
compatibilità.
Del resto, anche nell’art. 30, 1° comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio della rotazione deve ritenersi
implicitamente richiamato, attraverso il riferimento più
generale al principio di libera concorrenza di cui il
criterio in esame costituisce espressione.
5.4.‒ Deve quindi concludersi che, anche nel caso di specie,
si imponesse a carico della stazione appaltante la seguente
alternativa: o di non invitare il gestore uscente o, quanto
meno, di motivare attentamente le ragioni per le quale si
riteneva di non poter prescindere dall’invito.
6.‒ In ragione dell’ampia premessa svolta, non può
accogliersi il primo motivo di gravame, con il quale
l’appellante principale lamenta l’erroneità della sentenza
per mancato accoglimento dell’eccezione di difetto di
legittimazione e di interesse del ricorrente.
L’appellante principale ha dedotto che il principio di
rotazione potrebbe essere fatto valere solo dagli operatori
economici pretermessi e non da chi ha partecipato alla gara,
risultandone non vincitore.
La regola della rotazione degli inviti e degli affidamenti –il cui fondamento, come si è visto, è quello di evitare la
cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione
appaltante ed il precedente gestore– amplia le possibilità
concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti,
anche (e a maggior ragione) quelli già invitati alla gara, i
quali sono lesi in via immediata e diretta dalla sua
violazione.
7.‒ Poiché il principio di rotazione fa divieto ‒salvo
motivate eccezioni‒ di invitare il gestore uscente in
occasione del primo affidamento della concessione, è
infondato anche il secondo motivo di appello, secondo cui il
medesimo principio sarebbe inoperante in mancanza di un
indagine di mercato. Del resto, come affermato dai giudici
di prime cure, l’invito ad un numero di operatori economici
(sette) maggiore di quello minimo (cinque) previsto
dall’art. 36, 2 comma, lettera b), del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 esclude che possa essere ravvisata, nella
fattispecie, l’ipotesi della presenza di un numero ridotto
di operatori sul mercato.
8.‒ La questione di costituzionalità dell’art. 36 del d.lgs.
50 del 2016 –dedotta peraltro in termini generici– con il
terzo motivo di appello è manifestamente infondata in
relazione a tutti i parametri indicati, atteso che:
- con riguardo all’art. 3 Cost., il carattere “asimmetrico”
del dispositivo che impone la rotazione degli inviti e degli
affidamenti ha proprio il fine di riequilibrare e
implementare le dinamiche competitive del mercato, in cui il
gestore uscente affidatario diretto della concessione di
servizi è in una posizione di vantaggio rispetto alle altre
concorrenti;
- quanto alla violazione dell’art. 41, in senso contrario è
dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma
pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e
medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i
limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che
va garantita anche al gestore uscente, al quale ‒salvo
motivate eccezioni‒ si impone soltanto di “saltare” il
primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si
ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti;
- in relazione all’art. 97, l’aumento delle chances di
partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal
principio di rotazione) favorisce l’efficienza e
l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi.
9.‒ Con riguardo all’ultimo motivo di appello principale,
non sussiste alcuna violazione dell’art. 34, 2 comma, c.p.a.
Tale disposizione inibisce al giudice amministrativo di
approntare una tutela “preventiva” dell’interesse legittimo,
anticipata cioè rispetto all’esplicazione della funzione
amministrativa da parte dell’autorità competente. Nella
specie, il TAR si è limitato a segnalare ai fini
conformativi della pronuncia di annullamento le modalità di
attuazione del principio di rotazione in sede di riedizione.
10.– Il MIUR, nel proprio atto di appello incidentale, ha
sostento la tesi secondo cui l’applicazione del principio di
rotazione porrebbe al più un problema di motivazione nel
caso di vittoria del gestore uscente.
Ai fini del rigetto della censura, è dirimente rilevare come
l’art. 25, comma 1, lettera a), d.lgs. 19.04.2017, n.
56, abbia ulteriormente chiarito che il principio di
rotazione si riferisce alla fase «degli inviti e degli
affidamenti» e non alla fase della aggiudicazione.
L’infondatezza del gravame consente di assorbire, in base al
principio della “ragione più liquida”, l’eccezione di
tardività dell’appello, perché notificato in data 14.06.2017.
11.‒ In definitiva, l’invito e l’affidamento al contraente
uscente avrebbe richiesto un onere motivazionale più
stringente. Per contro, la documentazione di gara non reca
alcuna motivazione in ordine alle ragioni giustificative
dell’ammissione alla procedura del precedente gestore. Le
affermazioni dell’appellante -secondo cui vi sarebbero
pochi operatori interessati all’affidamento- sono rimaste
del tutto indimostrate (vedi sul punto quanto già dedotto al
paragrafo 7 della motivazione). Correttamente il TAR, avendo
ravvisato la violazione dell’art. 36 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, ha disposto l’annullamento dell’aggiudicazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.08.2017 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - INQUINAMENTO
ATMOSFERICO - Immissioni e livello di normale tollerabilità
ex art. 844 c.c. - Individuazione della intollerabilità
delle immissioni di gas di scarico derivanti dalle caldaie e
da miasmi da sfiati provenienti dal pozzo nero del
condominio - Mezzi di prova esperibili - Indagine tecnica e
testimoniale sulle stesse circostanze di fatto.
In tema di immissioni, i mezzi di prova esperibili per
accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844
c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura
tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita
consulenza d'ufficio con funzione "percipiente", in
quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per
mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone,
l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas,
nonché il loro grado di sopportabilità per le persone,
potendosi in tale materia ricorrere alla prova testimoniale
soltanto quando essa verta su fatti caduti sotto la diretta
percezione sensoriale dei deponenti e non si riveli
espressione di giudizi valutativi (Cass. Sez. 2, 20/01/2017,
n. 1606).
Altrettanto può certamente dirsi ove l'indagine tecnica sia
preferita dal giudice di merito, rispetto all'assunzione di
prove costituende, per l'accertamento di accadimenti i
quali, sia pure sul fondamento di dati obbiettivi, possono
essere posti in luce soltanto attraverso una particolare
esperienza tecnica (nella specie, la sussistenza di
allagamenti, o la presenza sui luoghi di causa di impianti
di scarico delle acque di particolari dimensioni o
caratteristiche di funzionamento).
D'altro canto, la valutazione di superfluità dell'assunzione
di prove per interrogatorio formale o per testimoni sulle
stesse circostanze di fatto che siano già state oggetto di
accertamento peritale costituisce espressione di un giudizio
discrezionale del giudice di merito, che si sottrae al
sindacato di legittimità se, come nel caso in esame,
congruamente motivato.
INQUINAMENTO ACUSTICO - CONDOMINIO -
Distanze legali nei rapporti fra proprietari - Condizione
abitativa e igiene - Apprestamento di accorgimenti idonei ad
evitare danni - Giurisprudenza.
Negli edifici condominiali, la disciplina in tema di
distanze legali nei rapporti fra proprietà singole non opera
nell'ipotesi dell'installazione di impianti che devono
considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale
abitabilità dell'appartamento, intesa nel senso di una
condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne
concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di
accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari
altrui (Cass. Sez. 2, 15/07/1995, n. 7752; Cass. Sez. 2,
18/06/1991, n. 6885; Cass. Sez. 2, 05/12/1990, n. 11695).
RUMORE - CONDOMINIO - Edifici in
condominio - Immissioni moleste o dannose nella proprietà di
altri condomini - Applicabilità dell'art. 844 c.c. -
Criterio di valutazione della normale tollerabilità delle
immissioni - Principio della sana convivenza - Limiti.
La disposizione dell'art. 844 c.c. è applicabile anche negli
edifici in condominio nell'ipotesi in cui un condomino, nel
godimento della propria unità immobiliare o delle parti
comuni, dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella
proprietà di altri condomini. Nell'applicazione della norma
deve aversi riguardo, tuttavia, per desumerne il criterio di
valutazione della normale tollerabilità delle immissioni,
alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla
destinazione assegnata all'edificio dalle disposizioni
urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari.
Dalla convivenza nell'edificio, tendenzialmente perpetua
(come si argomenta dall'art. 1119 c.c.), scaturisce talvolta
la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da
parte dei proprietari dei fondi vicini; per contro, la
stessa convivenza suggerisce di considerare in altre
situazioni non tollerabili le immissioni, che i proprietari
dei fondi vicini sono tenuti a sopportare. Il principio,
dunque, va precisato in considerazione delle condizioni di
fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso
orizzontale e verticale tra le unità abitative.
In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad
una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette
a destinazioni differenti, ad un tempo ad abitazione ed ad
esercizio commerciale, il criterio dell'utilità sociale, cui
è informato l'art. 844 cit., impone di graduare le esigenze
in rapporto alle istanze di natura personale ed economica
dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi
costituzionali (artt. 14, 31, 47 Cost.) le esigenze
personali di vita connesse all'abitazione, rispetto alle
utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di
attività commerciali (Cass. Sez. 2, 15/03/1993, n. 3090).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni di
fumo o di calore e rapporti tra i proprietari di fondi
vicini - Valutazione di sopportabilità - Disciplina
applicabile art. 844 c.c..
In tema, poi, di immissioni di fumo o di calore, le
disposizioni dettate, con riguardo, nella specie,
all'installazione degli impianti termici degli edifici ai
fini del contenimento dei consumi di energia o della tutela
dall'inquinamento ambientale (disposizioni che attengono a
rapporti di natura pubblicistica tra la P.A., preposta alla
tutela dell'interesse collettivo della salvaguardia della
salute in generale, ed i privati, prescindendo da qualunque
collegamento con la proprietà fondiaria) non regolano
direttamente i rapporti tra i proprietari di fondi vicini,
per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c.,
disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di
merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento
il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (arg. da Cass.
Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281; Cass. Sez. 2, 29/04/2002, n.
6223; Cass. Sez. 6-2, 01/02/2011, n. 2319; Cass. Sez. 2,
17/01/2011, n. 939).
RUMORE - INQUINAMENTO ARIA - Normativa
tecnica prescritta per limitare l'inquinamento ed i consumi
energetici - Giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c. -
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Spetta al giudice di merito
accertare in concreto il superamento della normale
tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei.
Il giudice civile non è necessariamente vincolato dalla
normativa tecnica prescritta per limitare l'inquinamento ed
i consumi energetici, e, nello stabilire la tollerabilità o
meno dei relativi effetti nell'ambito privatistico, può
anche discostarsene, pervenendo motivatamente al giudizio di
intollerabilità, ex art. 844 c.c., sulla scorta di un
prudente apprezzamento di fatto che consideri la
particolarità della situazione concreta e dei criteri
fissati dalla norma civilistica, e che rimane, in quanto
tale, insindacabile in sede di legittimità.
Spetta, quindi, al giudice di merito accertare in concreto
il superamento della normale tollerabilità e individuare gli
accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito
della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di
fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi
alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame
l'intensità o la nocività delle emissioni per sollecitarne
una diversa valutazione di sopportabilità (Corte
di cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.08.2017 n. 20555
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Immissioni
sonore provenienti dal locale "cabina idrica" condominiale -
Immissioni di rumore superiore ai limiti di decibel di
tolleranza - Immissione di rumori oltre la normale
tollerabilità - Domanda di cessazione delle immissioni -
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Poteri del giudice - Principio
di corrispondenza tra chiesto e pronunciato - Adozione di
misure inibitorie - attuazione di accorgimenti che evitino
il ripetersi della situazione pregiudizievole.
La domanda di cessazione delle immissioni che superino la
normale tollerabilità (nella specie, volta ad ottenere la
condanna di un condomino a cessare da ogni comportamento da
cui possa derivare immissione di rumori ed a rimuovere
l'impianto idrico elettrico causa delle stesse) non vincola
necessariamente il giudice ad adottare una misura
determinata, ben potendo egli ordinare l'attuazione di
quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad
eliminare la situazione pregiudizievole.
Non viola, pertanto, il principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite
costituito dal divieto di immutazione degli effetti
giuridici che la parte intende conseguire, il giudice che,
decidendo su una domanda di cessazione delle immissioni,
ordini tanto la rimozione del manufatto, da cui le
immissioni provengono, quanto l'adozione di misure
inibitorie implicanti l'attuazione di accorgimenti che
evitino il ripetersi della situazione pregiudizievole (nella
specie, l'uso di uno spazio condominiale quale sede di
impianti idrici a pompa, per la contiguità di tale spazio
con un appartamento di proprietà esclusiva) (cfr. Cass. Sez.
6 - 2, 17/01/2011, n. 887; Cass. Sez. 2, 05/08/1977,
n. 3547).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni
rumorose - Mezzi di prova esperibili per accertare il
livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c.
- Consulenza tecnica d'ufficio con funzione "percipiente" -
Limite di tollerabilità delle immissioni rumorose -
Accorgimenti idonei - Poteri del giudice di merito.
In giudizio relativo ad immissioni, i mezzi di prova
esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità
previsto dall'art. 844 c.c. costituiscono tipicamente
accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola
compiuti mediante apposita consulenza tecnica d'ufficio con
funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto
è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli
strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle
emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di
sopportabilità per le persone (cfr. Cass. Sez. 2,
20/01/2017, n. 1606; Cass. Sez. 2, 04/03/1981, n. 1245).
Pertanto, in tema di immissioni sonore, le disposizioni
dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o
all'intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti
perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei
rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri
meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai
sensi dell'art. 844 c.c., e non regolano, quindi,
direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi
vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c.,
disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di
merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento
il giudizio sulla tollerabilità delle stesse.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è,
invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione
ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le
caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e
non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla
fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi
i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio
comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c.,
diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei
limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla
sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione
locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto
il superamento della normale tollerabilità e individuare gli
accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito
della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di
fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi
alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame
l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle
emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di
sopportabilità (Cass. Sez. 2, 05/08/2011, n. 17051; Cass.
Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.08.2017 n. 20553
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EDILIZIA PRIVATA:
Limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza e di distanza tra i fabbricati - Inserimento
automaticamente negli strumenti urbanistici comunali -
Sostituzione di prescrizioni contrastanti - Ricolmare
eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici - D.M. 02.04.1968, n. 1444.
Non è consentita l'adozione, da parte degli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle di
cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso,
essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies,
inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni, in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i
Comuni sono tenuti a conformarsi, prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con
conseguente loro operatività tra privati.
Con l'ulteriore
specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa
richiamata, proprio perché inderogabili, sono inserite
automaticamente negli strumenti urbanistici comunali sia in
sostituzione di prescrizioni contrastanti e sia pure a
colmare eventuali lacune degli stessi strumenti urbanistici.
Il DM 1444/1968 nei rapporti fra i
privati - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Giudice di merito -
Disapplicazione delle disposizioni illegittime -
Applicazione diretta per inserzione automatica in
sostituzione della norma illegittima che è stata
disapplicata.
La normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente
operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel
senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con tale disposizione
comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è
divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico, in sostituzione della norma
illegittima che è stata disapplicata» (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 30.08.2017 n. 20548
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è consentita l'adozione, da parte
degli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con
quelle di cui al
D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso,
essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies, inserito nella L.
17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia
di legge,
sicché le sue disposizioni, in tema di limiti inderogabili
di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i
Comuni sono tenuti
a conformarsi, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti
locali successivi, alle quali si sostituiscono per
inserzione automatica,
con conseguente loro operatività tra i privati. Con
l'ulteriore
specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa
richiamata,
proprio perché inderogabili, sono inserite automaticamente
negli
strumenti urbanistici comunali sia in sostituzione di
prescrizioni contrastanti e sia pure a colmare eventuali
lacune degli stessi strumenti
urbanistici.
---------------
La
normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente
operante
nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che
l'adozione, da
parte degli enti locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con tale
disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non
solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è
divenuto, «per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione
della norma illegittima che è stata disapplicata»
---------------
Ragioni della decisione
1.= Mi.Gr. lamenta:
a) Con il primo motivo di ricorso, la violazione ed errata
applicazione
del DM 1444 del 1968, artt. 1, 2, 9. Secondo la ricorrente, la
Corte
distrettuale avrebbe errato nel ritenere che, nel caso in
esame, non
fosse applicabile l'art. 9 del DM 1444 del 1968 (sulla
considerazione
che, nonostante il Comune di S. Felice Circeo fosse dotato
di Piano
Regolatore Generale e di Regolamenti di fabbricazione,
questi strumenti
avevano rinviato per la regolamentazione delle distanze tra
edifici ai
Piani particolareggiati), non avendo considerato che al
contrario posto
che la normativa di cui all'art. 9 citato va osservata da
tutti i Comuni tanto da essere ritenuta automaticamente
inserita nel PRG al posto di
una eventuale norma difforme.
b).= Con il secondo motivo, l'insufficiente e/o
contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia. Secondo
la
ricorrente la Corte distrettuale non aveva chiarito l'iter
logico giuridico
seguito dalla Corte distrettuale nell'assimilare l'ipotesi
di mancanza di
strumenti urbanistici all'ipotesi di sussistenza di
strumenti urbanistici
che, tuttavia, non prevedono i limiti inderogabili di
densità edilizia, di
altezza e di distanza tra i fabbricati
1.1.= Entrambi i motivi, che per la loro innegabile
connessione vanno
esaminati congiuntamente, sono fondati.
Va qui osservato che non è consentita l'adozione, da parte
degli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con
quelle di cui al
D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel senso che lo stesso,
essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies, inserito nella L.
17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, art. 17, ha efficacia
di legge,
sicché le sue disposizioni, in tema di limiti inderogabili
di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i
Comuni sono tenuti
a conformarsi, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti
locali successivi, alle quali si sostituiscono per
inserzione automatica,
con conseguente loro operatività tra i privati. Con
l'ulteriore
specificazione che le prescrizioni di cui alla normativa
richiamata,
proprio perché inderogabili, sono inserite automaticamente
negli
strumenti urbanistici comunali sia in sostituzione di
prescrizioni contrastanti e sia pure a colmare eventuali
lacune degli stessi strumenti
urbanistici.
E, comunque, appare opportuno chiarire che la Corte
distrettuale ha
errato nell'assimilare l'ipotesi in cui sussistono gli
strumenti urbanistici
ma gli stessi non prevedono alcun regolamento in ordine alle
distanze
tra fabbricati e l'ipotesi in cui mancano gli strumenti
urbanistici,
considerando che in entrambe le ipotesi non sarebbero
operative le
prescrizioni di cui alla normativa richiamata, perché, a ben
vedere,
l'ipotesi in cui esistono gli strumenti urbanistici (Piano
regolatore
generale e piano di fabbricazione) che non contengono
prescrizioni in
ordine alla regolamentazione dei limiti inderogabili di
densità edilizia, di
altezza e di distanza tra i fabbricati, sarebbe come se lo
strumento
urbanistico e rinviasse o recepisse le prescrizioni vigenti
nel tempo
anteriore al 1968 e, in particolare, per quanto riguarda la
distanza tra
fabbricati, le prescrizioni di cui all'art. 873 cod. civ..
Sicché, essendo la
distanza prevista dall'art. 873 cod. civ. contraria a quelle
prescritte dalla
normativa di cui al DM 1444 del 1968 vanno, per ciò stesso,
sostituite
con queste ultime.
Come già ha detto questa Corte in altra
occasione
(sentenze Cass. n. 15458 del 2016 e nn. 7563/2006 e
19009/2004): la
normativa di cui al DM 1444 del 1968 non è immediatamente
operante
nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che
l'adozione, da
parte degli enti locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con tale
disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non
solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9, che è
divenuto, «per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione
della norma illegittima che è stata disapplicata»
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 30.08.2017 n. 20548). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Risarcimento del danno da immissioni rumorose
provenienti da una falegnameria. Immissioni rumorose, deve
essere risarcito il danno al normale svolgimento della vita
personale e familiare.
Quello delle immissioni, siano esse derivanti da rumore,
fumo, cattivi odori o scuotimenti, è un problema all'ordine
del giorno.
La materia è disciplinata dal codice civile e, in
particolare, dall'art. 844 che dispone come <<il
proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di
fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e
simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non
superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla
condizione dei luoghi>>.
Ciò posto, le immissioni moleste e, pertanto, vietate, sono
quelle che superano la normale tollerabilità, viceversa,
quando queste non superano livelli di comune accettabilità,
non possono essere impedite.
Allorquando ci troviamo al cospetto di attività produttive,
se risulta senz'altro illecito il superamento dei limiti
stabiliti dalla normativa specifica, siccome posta a
salvaguardia di interessi collettivi, quando si verte in
materia di rapporti di vicinato, come nel caso di immissioni
in condominio, non esiste un parametro prestabilito al fine
di valutare il superamento della normale tollerabilità,
pertanto, in simili fattispecie è necessario valutare in
concreto, e caso per caso, l'accettabilità di dette
immissione alla stregua del precetto di cui all'art. 844 Cc
(Cass. 20927/2015).
In altri termini, l'eventuale superamento della normale
tollerabilità delle immissioni dovrà essere valutato dal
giudice –esaminato il caso concreto– secondo il suo prudente
apprezzamento con una decisione che, se adeguatamente
motivata, risulterà insindacabile in sede di legittimità
(Cfr. da ultimo: Cass. 22105/2015).
Accertata la presenza di immissioni che superano la normale
tollerabilità, queste possono provocare dei danni a carico
di chi risulta alle stesse esposto, pregiudizio che può
permanere fino a quando le immissioni non vengano eliminate.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza
28.08.2017 n. 20445, è ritornata sul tema della
risarcibilità dei danni da immissione, cassando la sentenza
della Corte d'Appello di Roma che aveva negato il diritto di
una condomina al risarcimento del danno da immissioni
rumorose provenienti da una falegnameria, ritenendo che lo
stesso fosse risarcibile <<solo ove ne sia derivata
comprovata lesione alla salute, non essendo risarcibile la
minore godibilità della vita>>, a ciò aggiungendo, da un
punto di vista probatorio, come <<l'attrice avrebbe
dovuto produrre idonea documentazione sanitaria e chiedere
l'espletamento di una c.t.u. medico-legale>>.
La Corte di Cassazione, nel cassare la sentenza impugnata,
aderisce all'orientamento, <<oramai sufficientemente
consolidato>>, per cui il danno non patrimoniale che,
tuttavia, esula da quello alla salute, risulta sempre
sussistente e, pertanto, non abbisogna di una specifica
prova.
In altri termini, una volta accertato che le immissioni
superano la soglia della normale tollerabilità di cui
all'art. 844 Cc, la liquidazione del danno da immissioni,
risulta sussistente in re ipsa (ex multis:
Cass. 23283/2014; Cass. 7048/2012; Cass. 6612/2011; Cass.
5844/2007).
La stessa, nell'ordinanza in commento, specifica come <<il
danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è
risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno
biologico documentato, quando sia riferibile al normale
svolgimento della vita personale e familiare all'interno di
una abitazione e comunque del diritto alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di
diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è
ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo (ndr: Articolo 8 - Diritto al
rispetto della vita privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita
privata e familiare, del suo domicilio e della sua
corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, è necessaria per la sicurezza
nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere
economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la
prevenzione dei reati, per la protezione della salute o
della morale, o per la protezione dei diritti e delle
libertà altrui.), norma alla quale il giudice interno è
tenuto a conformarsi (vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927); ne
consegue che la prova del pregiudizio subito può essere
fornita anche mediante presunzioni o sulla base delle
nozioni di comune esperienza>>.
Pertanto, il ricorso deve essere accolto con la liquidazione
del danno in favore della ricorrente, quantificato in euro
10.000,00 oltre interessi legali
(commento tratto da www.condominioweb.com).
---------------
MASSIMA
Ritenuto che:
- sia manifestamente fondato l'unico motivo di
ricorso, con cui la signora Lo. ha lamentato violazione di
legge in relazione agli artt. 2 e 32 Cost. e 844, 2043, 2067
cod. civ., deducendo che la corte d'appello si sarebbe posta
in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale la prova della lesione di un diritto
costituzionalmente garantito è anche prova del danno, da
ritenersi in re ipsa, o almeno tale prova -in
mancanza di accertamento medicolegale- possa essere
agevolata mediante presunzioni, che -secondo la signora Lo.-
avrebbero nel caso di specie potuto fondarsi sulla
situazione lavorativa documentata della stessa, impegnata in
lavoro con turni notturni;
- al di là di remoti precedenti citati dalla corte d'appello
e rimontanti a epoca in cui né la materia del danno alla
salute né quella dei rimedi in tema di immissioni avevano
conosciuto l'attuale sistemazione sorretta dalla
giurisprudenza costituzionale e di legittimità, vada data
continuità al principio da reputarsi oramai sufficientemente
consolidato nella giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez.
U. 01/02/2017, n. 2611, in relazione alla trattazione anche
di una questione di giurisdizione; ma v. anche ad es. Cass.
19/12/2014, n. 26899 e 16/10/2015, n. 20927), secondo il
quale il danno non patrimoniale conseguente
a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla
sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia
riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento
della vita personale e familiare all'interno di
un'abitazione e comunque del diritto alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi di
diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è
ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice
interno è tenuto ad uniformarsi
(vedi Cass. 16/10/2015, n. 20927);
- ne consegue che la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni o sulla
base delle nozioni di comune esperienza; |
EDILIZIA PRIVATA: L’opera
abusiva è una nuova costruzione (artt. 3 e 10 D.P.R.
380/2001) edificata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, come tale bisognevole del permesso di
costruire e dell’autorizzazione paesaggistica.
Tali circostanze, come ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa anche di questa sezione,
rendono l’ordine di demolizione rigidamente vincolato ragion
per cui, persino in rapporto alla tutela dell’affidamento e
all’interesse pubblico alla demolizione, esso non richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo, peraltro,
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente
il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla
strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza
che occorra, per la piana applicazione della normativa di
settore (artt. 27 e 31 D.P.R. 380/2001) alcuna altra
precisazione.
---------------
La doverosità del provvedimento repressivo rende recessivo
l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si
applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
considerato il loro carattere doveroso.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
della disposizione dirigenziale n. 367/a del 11.08.2015 del
Comune di Napoli recante ordine di demolizione di opere
edificate abusivamente in via ... n. 55;
...
2.1. In primo luogo, occorre considerare che l’opera è una
nuova costruzione (artt. 3 e 10 D.P.R. 380/2001) edificata
in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, come tale
bisognevole del permesso di costruire e dell’autorizzazione
paesaggistica.
2.2. Tali circostanze, come ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa anche di questa sezione,
rendono l’ordine di demolizione rigidamente vincolato ragion
per cui, persino in rapporto alla tutela dell’affidamento e
all’interesse pubblico alla demolizione, esso non richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo, peraltro,
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto (ex multis,
v. TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016 e sez. VI n.
2441/2011; Consiglio di Stato sez. IV 16.04.2012 n. 2185).
2.3. Al fine di disporre la demolizione è, infatti,
sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in
rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela
paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione
della normativa di settore (artt. 27 e 31 D.P.R. 380/2001)
alcuna altra precisazione.
...
4. Passando, infine, all’omesso rispetto delle garanzie
procedimentali con particolare riferimento alla mancata
comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 L.
241/1990), come è stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza della sezione, la doverosità del
provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso (cfr., art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990
e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez.
IV, n. 3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato
sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV,
02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV,
16.06.2000 n. 2147).
5. Le considerazioni che precedono dimostrano la palese
infondatezza del ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2017 n. 4150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune è sottoposto al vincolo paesaggistico ai sensi del
d.lgs. n. 42/2004; ciò comporta che l’art. 36 D.P.R.
380/2001 –laddove vi siano stati creazioni di superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati- non opera in relazione a territori ove sia
imposto il vincolo paesaggistico, stante il divieto di
autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto,
per questi casi, dall’art. art. 167, comma 4, d.lgs.
42/2004.
---------------
Secondo la chiara previsione legislativa, l’unica condizione
in grado di evitare il formarsi del diniego per silentium è
l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di
sessanta giorni, a nulla rilevando eventuali iniziative
procedimentali che non si concludano con un atto conclusivo
di natura provvedimentale.
Nella fattispecie in esame, il silenzio-rifiuto si è
comunque formato dopo il decorso di 60 giorni dal 14.01.2016
(data di presentazione dell’istanza ex art. 36 cit.), dunque
in data 14.03.2016, non essendo ulteriormente seguito alcun
provvedimento espresso.
A rigore, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto impugnare il
silenzio-diniego formatosi sull’istanza in sanatoria del
14.01.2016; non avendo così proceduto, deve concludersi nel
senso che l’infruttuoso decorso di sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
abbia comportato, nella specie, la formazione di un
provvedimento di rigetto non impugnato e quindi ormai
incontestabile perché definitivo.
---------------
2.- Con il primo motivo del ricorso
introduttivo, la ricorrente deduce i seguenti profili di
illegittimità: violazione e falsa applicazione del D.P.R.
380/2001; violazione e falsa applicazione dell’art. 2, l.
241/1990; violazione della L.R. Campania n. 19 del 28.11.2001; eccesso di potere; violazione del giusto
procedimento; difetto di motivazione; carenza di
istruttoria; illogicità manifesta.
Segnala, in particolare, la ricorrente, che l’intervento
realizzato sul fondo di Pompei, per il quale ha presentato
istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r.
380/2001, contemplante la parziale demolizione dei
preesistenti due manufatti abusivi con mantenimento di uno
solo, destinato a box garage pertinenziale a servizio della
vicina abitazione, sarebbe pienamente ammissibile alla luce
della disciplina urbanistico-edilizia vigente, il che
legittimerebbe il rilascio di titolo edilizio in sanatoria.
In ogni caso, la presentazione dell’istanza di accertamento
di conformità avrebbe comunque dovuto impedire
all’Amministrazione comunale di dare impulso alle procedure
sanzionatorie, senza essersi previamente pronunciata sulla
citata istanza. Non sussisterebbero neppure i presupposti
del silenzio rigetto, in quanto l’ordinanza di demolizione
n. 29 dell’08.03.2016 sarebbe stata adottata prima dello
spirare del decorso del termine di sessanta giorni previsto
dal citato art. 36 d.p.r. 380/2001.
Peraltro, la ricorrente fa leva sul fatto che il
procedimento di sanatoria, attivato in base all’appena
menzionata disposizione, non avrebbe più potuto concludersi
con il silenzio rifiuto posto che, una volta intervenuta la
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della
domanda (prot. n. 5939 del 10.02.2016),
l’amministrazione comunale si sarebbe in sostanza
auto-vincolata ad adottare un provvedimento espresso di
diniego, indispensabile prima di notificare l’ordinanza di
demolizione.
Ciò è a suo avviso (cfr. memoria depositata il
12.04.2017) tanto più sostenibile ove si consideri che,
ricevuta la richiesta di accertamento di conformità,
l’amministrazione aveva aperto il relativo procedimento,
nominato il responsabile, istruito la pratica ed adottato il
cd. preavviso di diniego, ai sensi dell’art. 10-bis L. n.
241/1990, in questo modo evitando il formarsi del silenzio-rigetto, che si produce laddove l’amministrazione rimanga
del tutto inerente (a suo favore cita precedente Tar
Campania, Salerno, sez. II, 04.01.2014, n. 1833)
2.1.- Il motivo, per quanto suggestivo, è infondato.
2.1.1.- Va premesso che i manufatti contestati, insistenti
sul foglio 7, particelle 1082 e 1439 del Comune di Pompei,
ricadenti in zona classificata urbanisticamente in B2,
ristrutturazione centro, in base alle verifiche effettuate
d’ufficio dall’Amm.ne resistente, risultano privi di titolo
edilizio autorizzatorio e non sono stati oggetto di apposite
istanze di condono. Detti manufatti consistono in due locali
adibiti ad uso deposito e garage, terranei, di circa 50 mq,
quindi di notevoli dimensioni. Tale circostanza rende
inapplicabile al caso di specie l’invocata L.R. Campania
19/2001, che, all’art. 6, commi 1 e 2, ritiene sufficiente
la semplice D.I.A. solo per i parcheggi da realizzare nel
sottosuolo.
2.1.2.- Va altresì ricordato che il Comune di Pompei è
sottoposto al vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n.
42/2004; ciò comporta che l’art. 36 D.P.R. 380/2001 –laddove vi siano stati creazioni di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati- non
opera in relazione a territori ove sia imposto il vincolo
paesaggistico, stante il divieto di autorizzazione
paesaggistica postuma espressamente previsto, per questi
casi, dall’art. art. 167, comma 4, d.lgs. 42/2004 (cfr.
TAR Campania-Napoli, n. 744/2015; TAR Lazio-Roma, n.
6494/2016).
2.1.3.- Non sostenibile poi è l’assunto della ricorrente
sull’impossibilità giuridica del formarsi del silenzio-rifiuto; la tesi della ricorrente si scontra con la chiara
previsione legislativa secondo cui l’unica condizione in
grado di evitare il formarsi del diniego per silentium è
l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di
sessanta giorni, a nulla rilevando eventuali iniziative
procedimentali che non si concludano con un atto conclusivo
di natura provvedimentale.
Nella fattispecie in esame, il silenzio-rifiuto si è
comunque formato dopo il decorso di 60 giorni dal 14.01.2016 (data di presentazione dell’istanza ex art. 36 cit.),
dunque in data 14.03.2016, non essendo ulteriormente
seguito alcun provvedimento espresso.
A rigore, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto impugnare il
silenzio-diniego formatosi sull’istanza in sanatoria del 14.01.2016; non avendo così proceduto, deve concludersi
nel senso che l’infruttuoso decorso di sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
abbia comportato, nella specie, la formazione di un
provvedimento di rigetto non impugnato e quindi ormai
incontestabile perché definitivo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
13.01.2010, n. 100; Sez. VI, 27.01.2014, n. 395).
Nel caso specifico, vi è peraltro da rilevare che
l’amministrazione, pur essendo ormai decorso il termine di
sessanta giorni e, quindi, formatosi comunque il silenzio
con effetto di rifiuto, ha comunque emanato il provvedimento
espresso di rigetto della domanda di accertamento di
conformità con la nota prot. n. 38766/U del 12.09.2016, impugnata dal ricorrente con motivi aggiunti.
E’ chiaro che tale provvedimento ha effetto meramente
confermativo di un diniego già formatosi per silentium.
2.1.4.- Inoltre, l’avvio del procedimento di rigetto
sull’istanza di accertamento ai sensi degli artt. 7 e 8
della l. 241/1990 e dei motivi ostativi è stato segnalato
con la comunicazione protocollo n. 5939 del 10.02.2016, cui ha fatto seguito l’ordinanza di demolizione n. 29
dell’08.03.2016.
In primo luogo, si rileva che la ricorrente non ha dato
alcun riscontro alla richiesta di osservazioni contenuta
nella detta comunicazione.
In secondo luogo, l’ordinanza di demolizione impugnata può
ben essere intesa quale atto sanzionatorio con implicito
valore di diniego sull’istanza di accertamento, in quanto la
medesima risulta comunque incompatibile con la volontà del
Comune di Pompei di consentire la sanatoria degli abusi
realizzati in una zona sottoposta a vincoli paesaggistici.
L’esercizio da parte del Comune di Pompei di un potere
implicito, connesso all’emanazione dell’ordinanza in
questione, non appare contrastare con i principi di legalità
e tipicità posto che l’ordinanza deve comunque riportare in
motivazione tutti gli elementi dai quali è possibile
risalire alle ragioni della non sanabilità delle opere
abusive compiute
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio incombe esclusivamente
sull'interessato e non sull'Amministrazione che, in presenza
di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che
la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti,
il provvedimento di demolizione.
---------------
L’intervento realizzato, al contrario di quanto ipotizza la
ricorrente, non può essere derubricato a risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia, con conseguente
mitigazione del trattamento sanzionatorio, consistendo lo
stesso, in modo evidente, in una nuova costruzione.
Per questo, risulta appropriata la disciplina di settore
alla quale l’amministrazione ha fatto ricorso (artt. 27 e 31
d.p.r. 380/2001), la quale sanziona con la demolizione la
realizzazione senza titolo di nuove opere su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità.
---------------
3.- Con il secondo motivo del ricorso introduttivo, la
ricorrente eccepisce il difetto d’istruttoria, per non aver
l’amministrazione comunale adeguatamente valutato la natura,
le dimensioni e la destinazione funzionale dei manufatti
realizzati, i quali rientrerebbero nel novero delle opere pertinenziali, come tali non sanzionabili con la
demolizione.
Più specificamente, lamenta che, per
l’intervento edilizio realizzato, non sarebbe stato
necessario il permesso di costruire bensì la sola D.I.A.,
trattandosi di un intervento di risanamento conservativo
ovvero di ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che
il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria. Segnatamente, si sarebbe trattato di un
intervento di parziale demolizione e ricostruzione del
preesistente manufatto senza determinare alcun aumento
dell’originario volume.
3.1.- Il motivo è infondato.
3.1.1.- E’ utile rammentare che le opere abusive realizzate
consistono in:
a) un manufatto terraneo delle dimensioni di pianta di mt.
5,00x8,00x3,00 circa, composto da struttura portante
metallica e con copertura e chiusure in laminati zincati, in
uso a deposito materiali vari, mobilio e garage;
b) un manufatto terraneo delle dimensioni in pianta di mt.
4,00x4,50x2,40 circa, composto da struttura portante in
ferro, con copertura e chiusura in laminati zincati, in uso
a garage.
3.1.2.- Dai rilievi fotografici, satellitari e dagli stralci
aerofotogrammetrici allegati alla comunicazione del Comando
di Polizia municipale di Pompei, n. 196/2015/ED del 28.12.2015, acquisti nella fase istruttoria compiuta dal
comune resistente, si evidenziano due manufatti terranei di
notevoli dimensioni, comportanti significativi sviluppi di
superficie e di incrementi volumetrici sull’area
preesistente.
3.2.- Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento
probatorio dal quale possa trarsi la conclusione
dell’affermata legittima preesistenza dei manufatti in
questione (ossia del fatto che gli stessi risalgano al
periodo nel quale, per realizzare siffatte opere, non era
necessario munirsi preventivamente del titolo edilizio e di
quello paesaggistico).
Sul punto, la giurisprudenza ha affermato che l'onere di
fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe esclusivamente sull'interessato e non
sull'Amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia
non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pompei, dunque, dopo avere rilevato l’esistenza
dei due manufatti terranei di consistente estensione, ne ha
legittimante ingiunto la demolizione ai sensi degli artt.
27, comma 2, e 31 del d.p.r. 380/2001.
Le opere contestate, infatti, sono l’esito di interventi
edilizi per i quali sarebbe stato necessario acquisire il
permesso di costruire, in linea con gli artt. 3 e 10 del
menzionato d.p.r. 380/2001, previa autorizzazione
paesaggistica, stante l’idoneità, per caratteristiche e
dimensioni, a produrre una significativa trasformazione
dello stato dei luoghi in zona sottoposta a vincoli.
3.4.- Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato,
al contrario di quanto ipotizza la ricorrente, non può
essere derubricato a risanamento conservativo o
ristrutturazione edilizia, con conseguente mitigazione del
trattamento sanzionatorio, consistendo lo stesso, in modo
evidente, in una nuova costruzione. Per questo, risulta
appropriata la disciplina di settore alla quale
l’amministrazione ha fatto ricorso (artt. 27 e 31 d.p.r.
380/2001), la quale sanziona con la demolizione la
realizzazione senza titolo di nuove opere su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità (sulla natura dell’intervento effettuato,
cfr.: TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 21.04.2010, n.
2076; 07.04.2010 n. 1775; Sezione III, 11.03.2009, n.
1376).
3.5.1.- È opportuno evidenziare altresì che, il comune di
Pompei, con la comunicazione prot. n. 5939 del 10.02.2016, ha esposto, con sufficiente chiarezza, le ragioni che
conducono al mancato accoglimento della domanda, ossia che:
il manufatto di 84 mq. “non è conforme urbanisticamente in
quanto non rispetta le distanze di m. 5 dai confini e di m.
10 dai fabbricati, come previsto dall’art. 16 delle Norme di
attuazione del vigente P.R.G. (zona residenziale di
completamento B2)”; le opere abusive, inoltre, “non sono
conformi alla l. n. 1684 del 25/11/1962, art. 8, co. 3, per
le costruzioni in zona sismica”.
Per contro, neanche in
questa sede giurisdizionale, la ricorrente ha dedotto
elementi idonei a suffragare la pretesa conformità
urbanistica ex post, tanto da non fornire alcuna dettagliata
descrizione della consistenza dell’opera abusiva realizzata
da cui potrebbe evincersi la prospettata conformità e la
natura pertinenziale
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che l’abuso sia risalente nel
tempo non esclude, in materia urbanistica ed edilizia,
l’esercizio dei poteri di controllo e sanzionatori del
comune, poteri non soggetti a prescrizione o decadenza, in
considerazione della fondamentale immanenza dell’interesse
pubblico alla corretta gestione del territorio. Ne consegue
che l'accertamento dell'illecito amministrativo e
l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso,
senza che siffatta distanza nell'adozione delle misure
sanzionatorie possa significare forme di sanatoria o il
sorgere di affidamenti per situazioni ormai di fatto
consolidate.
Del resto, l'illecito edilizio ha carattere permanente, tale
da conservare nel tempo la sua natura. Ne consegue, da un
lato, che l'interesse del privato al mantenimento dell'opera
abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse
pubblico al rispetto della normativa urbanistico-edilizia,
strumentale al corretto governo del territorio, leso in
maniera duratura dall’abuso. Dall’altro, che non sussiste
alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di
un manufatto, benché sia trascorso un lungo lasso di tempo
tra l'epoca della commissione dell'abuso e il momento
dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, posto che
l’interesse pubblico al perseguimento dell’illecito è in re
ipsa. Infatti, l'ordinamento tutela l'affidamento solamente
se esso è incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera
abusiva si concretizza in una attività volontaria del
responsabile contra legem in quanto tale non tollerabile per
l’ordinamento.
In altri termini, non può ammettersi un affidamento
meritevole di tutela alla conservazione di una situazione
illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può
dolersi del fatto che l'amministrazione, restando inerte, lo
abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a
notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi
dell'abuso non sanabile.
A quest'ultimo riguardo, quantunque il principio della
tutela dell'affidamento trovi ormai piena applicazione con
riguardo ai rapporti tra cittadino ed amministrazione, deve
tuttavia ritenersi che, nel caso della mancata repressione
di un abuso edilizio, la situazione sia affatto differente:
il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l'apparente
legittimità dell'azione amministrativa favorevole, a tutela
di un'aspettativa conforme alle statuizioni provvedimentali
pregresse, ma opera in antagonismo con l'azione
amministrativa sanzionatoria. Per le funzioni di vigilanza e
controllo, in mancanza di una espressa previsione normativa
in deroga, vale, invero, il principio dell'inesauribilità
del potere, e pertanto il comportamento illecito dei privati
è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e
l'entità dell'infrazione: va dunque posto l'accento sulla
non configurabilità di un affidamento alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, in virtù di una
legittimazione fondata sul tempo.
Si è altresì precisato che ammettere la sostanziale
estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo
significherebbe configurare di fatto una sanatoria extra
ordinem che potrebbe operare anche qualora l’interessato non
abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente
istituto legislativamente previsto. Né potrebbe invocarsi la
c.d. sanatoria giurisprudenziale, stante il contrasto di
questo istituto con il principio di legalità.
---------------
4.- Con il terzo motivo del ricorso introduttivo, la
ricorrente lamenta che l’amministrazione avrebbe dovuto
motivare la sussistenza di un interesse pubblico attuale e
concreto al ripristino dello stato dei luoghi, stante il
tempo trascorso dal momento della realizzazione delle opere
contestate.
Deduce dunque che il comportamento del Comune avrebbe
ingenerato una situazione di legittimo affidamento il quale
avrebbe imposto un più approfondito onere motivazionale.
4.1.- Il motivo è infondato.
4.1.1.- Secondo orientamento consolidato in giurisprudenza,
condiviso dal Collegio, la circostanza che l’abuso sia
risalente nel tempo non esclude, in materia urbanistica ed
edilizia, l’esercizio dei poteri di controllo e sanzionatori
del comune, poteri non soggetti a prescrizione o decadenza,
in considerazione della fondamentale immanenza
dell’interesse pubblico alla corretta gestione del
territorio. Ne consegue che l'accertamento dell'illecito
amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può
intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla
commissione dell'abuso, senza che siffatta distanza
nell'adozione delle misure sanzionatorie possa significare
forme di sanatoria o il sorgere di affidamenti per
situazioni ormai di fatto consolidate (cfr. per tutte Cons.
Stato sentenze nn. 1070/2017; 1774/2016; 4880/2015;
4892/2014; 5943/2013).
4.1.2.- Del resto, l'illecito edilizio ha carattere
permanente, tale da conservare nel tempo la sua natura. Ne
consegue, da un lato, che l'interesse del privato al
mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo
rispetto all'interesse pubblico al rispetto della normativa
urbanistico-edilizia, strumentale al corretto governo del
territorio, leso in maniera duratura dall’abuso. Dall’altro,
che non sussiste alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la
demolizione di un manufatto, benché sia trascorso un lungo
lasso di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e il
momento dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, posto
che l’interesse pubblico al perseguimento dell’illecito è in
re ipsa. Infatti, l'ordinamento tutela l'affidamento
solamente se esso è incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una attività volontaria
del responsabile contra legem in quanto tale non tollerabile
per l’ordinamento.
In altri termini, non può ammettersi un affidamento
meritevole di tutela alla conservazione di una situazione
illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può
dolersi del fatto che l'amministrazione, restando inerte, lo
abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a
notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi
dell'abuso non sanabile.
A quest'ultimo riguardo, il Consiglio di Stato, Sez. IV, con
sentenza 04.05.2012, n. 2592, ha affermato che,
quantunque il principio della tutela dell'affidamento trovi
ormai piena applicazione con riguardo ai rapporti tra
cittadino ed amministrazione, deve tuttavia ritenersi che,
nel caso della mancata repressione di un abuso edilizio, la
situazione sia affatto differente: il fattore tempo non
agisce qui in sinergia con l'apparente legittimità
dell'azione amministrativa favorevole, a tutela di
un'aspettativa conforme alle statuizioni provvedimentali
pregresse, ma opera in antagonismo con l'azione
amministrativa sanzionatoria. Per le funzioni di vigilanza e
controllo, in mancanza di una espressa previsione normativa
in deroga, vale, invero, il principio dell'inesauribilità
del potere, e pertanto il comportamento illecito dei privati
è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e
l'entità dell'infrazione: va dunque posto l'accento sulla
non configurabilità di un affidamento alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, in virtù di una
legittimazione fondata sul tempo (cfr. da ultimo, anche
Cons. Stato, sez. IV, n. 3182/2013, n. 4403/2011, n.
2497/2011, n. 79/2011, n. 3955/2010, n. 5509/2009 e n.
2529/2004, sez. VI, n. 6072/2012 e n. 2781/2011).
4.1.3.- Si è altresì precisato che ammettere la sostanziale
estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo
significherebbe configurare di fatto una sanatoria extra ordinem che potrebbe operare anche qualora l’interessato non
abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente
istituto legislativamente previsto (Cons. di Stato, Sez. VI,
05.01.2015, n. 13). Né potrebbe invocarsi la c.d.
sanatoria giurisprudenziale, stante il contrasto di questo
istituto con il principio di legalità (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo giurisprudenza consolidata, in materia di
provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi,
l’Amministrazione non è soggetta a particolari oneri
motivazionali, posto che non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L'atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria.
---------------
5.- Con il quarto motivo del ricorso introduttivo, la
ricorrente sostiene, sotto diverso profilo, l’illegittimità
del provvedimento impugnato, in quanto, in violazione delle
regole del giusto procedimento di cui alla legge n.
241/1990, non sarebbe stato consentito alcun contraddittorio
né svolta adeguata istruttoria; l’ordinanza di demolizione
sarebbe inoltre carente sotto l’aspetto motivazionale.
5.1- Il motivo è infondato.
5.1.1- Come già poc’anzi rilevato, il Comune, prima di
determinarsi, ha puntualmente notificato la comunicazione di
avvio del procedimento di rigetto, ai sensi degli artt. 7 e
8 L. n. 241/1990 nonché, con nota prot. n. 5939 del 10.02.2016, comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda. Per contro, parte
ricorrente, pur essendo stata messa nelle condizioni di
replicare per evidenziare le proprie ragioni, non ha dato
riscontro a tale comunicazione con puntuali e circostanziate
osservazioni.
5.1.2.- Inoltre, dal fascicolo amministrativo depositato dal
comune in allegato alla comparsa di costituzione agli atti
(16.07.2016), si evince che i provvedimenti adottati
dall’Amministrazione sono sorretti da adeguata istruttoria,
con contestuale rappresentazione, anche fotografica, dello
stato dei luoghi.
L’ordinanza impugnata può quindi ritenersi adeguatamente
motivata, non solo per la puntuale individuazione delle
norme rilevanti nella vicenda in concreto, ma anche per il
richiamo per relationem alla presupposta comunicazione prot.
5939 del 10.02.2016, la quale appare esaustiva nella
descrizione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza di accertamento di conformità.
5.1.3.- In ogni caso, giova ricordare che, secondo
giurisprudenza consolidata, in materia di provvedimenti
sanzionatori degli abusi edilizi, l’Amministrazione
non è soggetta a particolari oneri
motivazionali, posto che non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240). L'atto può
ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un
abuso edilizio l’avvenuta presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di
demolizione, ma la pone in uno stato di quiescenza, con la
conseguenza che, in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria, l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla
successiva contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo il termine di 90 giorni per far luogo
alla demolizione dalla comunicazione del provvedimento di
rigetto della domanda di conservazione.
In altri
termini, la presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità determina solo un arresto temporaneo
dell’efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria,
con la sola specificazione che, in questa ipotesi, il
termine per l’esecuzione decorre dalla conoscenza del
diniego di sanatoria.
---------------
6.2.- Ciò premesso, con il primo motivo, la ricorrente
censura la violazione e la falsa applicazione dell’art. 31
d.p.r. 380/2001 e dell’art. 2 L. n. 241/1990, l’eccesso di
potere per violazione del giusto procedimento, carenza
d’istruttoria, illogicità manifesta e derivata.
Obietta, in particolare, che l’ordinanza di demolizione e la
successiva ingiunzione prot. n. 33605/U del 28.07.2016
del Dirigente del V Settore Tecnico del Comune di Pompei,
notificata il 29.07.2016, di pagamento della sanzione
pecuniaria ex art. 31, co. 4-bis D.P.R. 380/2001, sarebbero
illegittime in quanto adottate in pendenza della richiesta
di sanatoria, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
Quest’ultima avrebbe dovuto rendere inefficace, quantomeno
temporaneamente, il provvedimento sanzionatorio della
demolizione, con la conseguenza che l’amministrazione non
avrebbe potuto applicare la sanzione pecuniaria se non dopo
l’inutile decorso del termine di novanta giorni dalla
notifica di un nuovo provvedimento di demolizione, oppure,
quantomeno, dopo il decorso di novanta giorni decorrenti
dalla comunicazione di diniego della sanatoria, ai sensi
dell’art. 36 citato.
Contesta altresì la sproporzione della sanzione pecuniaria,
comminata nell’importo massimo fissato dalla normativa in
questione (€ 20.000,00).
In subordine, solleva questione di illegittimità
costituzionale della norma di cui al detto art. 31, comma
4-bis, d.p.r. 380/2001, introdotto dal d.l. 133/2014
convertito con modificazioni dalla L. n. 164/2014, nel punto
in cui prevede il cumulo di misure sanzionatorie
(acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio dell’Ente
e sanzione pecuniaria) per un’unica sostanziale condotta, in
violazione degli artt. 3 e 97 Cost..
6.2. Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, è
infondato.
6.2.1. Relativamente all’efficacia dell’ordinanza di
demolizione in pendenza della presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità, la ricorrente richiama i due
orientamenti che si sono formati al riguardo in
giurisprudenza e sembra prediligere l’indirizzo, seguito
anche da questa Sezione, secondo cui “in presenza di un
abuso edilizio l’avvenuta presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità non rende invalida l’ordinanza di
demolizione, ma la pone in uno stato di quiescenza, con la
conseguenza che, in caso di accoglimento dell’istanza di
sanatoria, l’ordinanza demolitoria viene travolta dalla
successiva contraria e positiva determinazione
dell’amministrazione, mentre in caso di rigetto dell’istanza
stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista
efficacia, decorrendo il termine di 90 giorni per far luogo
alla demolizione dalla comunicazione del provvedimento di
rigetto della domanda di conservazione” (cfr., ex multis,
Cons. Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203; TAR Campania-Napoli, Sez. III,
06.04.2016, n. 1696).
In altri
termini, la presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità determina solo un arresto temporaneo
dell’efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria,
con la sola specificazione che, in questa ipotesi, il
termine per l’esecuzione decorre dalla conoscenza del
diniego di sanatoria (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 09.03.2016, n. 1338).
In esito a quest’interpretazione, dopo aver ribadito che,
nella specie, non sussisterebbero i presupposti del silenzio
diniego, la ricorrente afferma che l’istanza di accertamento
di conformità avrebbe reso inefficace l’ordinanza di
demolizione, fino alla conclusione del procedimento,
definito soltanto con l’adozione del provvedimento espresso
di diniego, prot. 38766/U del 12.09.2016. Ne
conseguirebbe che, solo a partire da quest’ultima data,
decorrerebbe il termine di 90 giorni per ottemperare
all’ordinanza di demolizione dell’08.03.2016; pertanto,
l’Amministrazione avrebbe potuto irrogare la sanzione
pecuniaria solo dall’11.11.2016, dopo lo spirare del
termine di legge.
6.2.2.- Il ragionamento della ricorrente non è condivisibile.
In primo luogo, per le ragioni sopra ampiamente illustrate,
per la fattispecie in esame, non è possibile la sanatoria
postuma, stante il vincolo paesaggistico cui è assoggettato
il Comune di Pompei e l’espresso divieto di cui agli artt.
146 e 167 del d.lgs. 42/2004.
In ogni caso, deve osservarsi che l’istanza di accertamento
di conformità è stata presentata dalla ricorrente il 14.01.2016, mentre la prima ordinanza di demolizione reca
la data dell’08.03.2016. A voler considerare sospesa
l’efficacia esecutiva di tale ordinanza sino al termine di
sessanta giorni decorrente dalla presentazione dell’istanza
in sanatoria (in linea con l’orientamento seguito da questa
Sezione), deve concludersi che l’ordinanza stessa abbia
riacquistato efficacia alla data di formazione del
silenzio-rigetto, ossia il 14.03.2016. Pertanto, nel
concordare con quanto sostiene la difesa
dell’amministrazione resistente, il termine di novanta
giorni per ottemperare all’ingiunzione a demolire è
tecnicamente spirato il 12.06.2016, data antecedente
l’irrogazione della sanzione pecuniaria, emessa ritualmente
il 28 luglio e notificata il successivo 29.
Sul punto, come già sopra chiarito, non ha rilievo alcuno il
successivo provvedimento prot. n. 38766/U del 12.09.2016, posto il suo carattere meramente confermativo del
diniego già formatosi per silentium
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Infondata è altresì la censura di sproporzione ed
illogicità della sanzione pecuniaria comminata ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001.
Si rammenta che la sanzione in questione è stata
introdotta in sede di conversione del Decreto “Sblocca
Italia” (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla
L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne
l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino
conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La
richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire
all’Amministrazione la provvista per procedere al
ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme,
per poi rivalersi sul responsabile dell’abuso, semmai
inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso.
Nelle ipotesi, com’è quella in esame, di abusi realizzati su
immobili insistenti in area sottoposta a vincolo -ai sensi
dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n 380/2001- il
legislatore ha disposto la sua irrogazione sempre nella
misura massima di € 20.000,00, senza alcun margine di
discrezionalità per poterla graduare.
Ora, ciò che
viene sanzionato nella misura massima di dall’art. 31, comma
4-bis, del d.p.r. 380/2001 non è la realizzazione dell’abuso
edilizio in sé considerato -nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso- bensì
unicamente la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di
demolizione legittimamente impartito dall’amministrazione
per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, la
quale si pone quale condotta omissiva identica nei casi sia
di abusi edilizi macroscopici sia di abusi più modesti.
In altri termini, il disvalore –di per sé rilevante-
colpito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino
impartito dall’amministrazione per rimediare agli abusi
perpetrati in quelle particolari e circoscritte “aree” ed in
quei particolari e circoscritti “edifici”, puntualmente
indicati dall’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001.
---------------
Il legislatore, con la nuova previsione normativa –che il
Collegio ravvisa del tutto ragionevole rispetto
all’importanza degli obiettivi da perseguire, legati al
ripristino del bene “territorio” violato- ha inteso
introdurre una sanzione di carattere personale che si
aggiunge a quella reale dell’acquisizione gratuita del
manufatto al patrimonio dell’Ente, al preciso scopo di
sollecitare il responsabile degli abusi a rimuoverli
sollecitamente.
In questo senso, se da un lato, l’acquisizione
gratuita è una sanzione di carattere reale che assume il
valore di forte deterrente nei confronti di coloro che
intendono commettere un abuso, ben consapevoli delle
conseguenze, in termini di perdita del diritto dominicale,
alle quali vanno incontro, tra l’altro non legate
direttamente all’abuso stesso, bensì alla mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione, dall’altro,
la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne
l’amministrazione comunale dall’impegno economico derivante
dall’abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti,
il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro
vincolo di destinazione stabilendo che: “I proventi delle
sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.”.
In questa prospettiva, non si ravvisa alcun contrasto con
gli artt. 3 e 97 Cost. per violazione del divieto di cumulo
fra sanzioni amministrative, posto che le stesse, pur avendo
a riferimento un’unica condotta, rispondono ad obiettivi
diversi e tra loro complementari.
---------------
6.3.- Infondata è altresì la censura di sproporzione ed
illogicità della sanzione pecuniaria comminata ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001.
6.3.1.- Si rammenta che la sanzione in questione è stata
introdotta in sede di conversione del Decreto “Sblocca
Italia” (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla
L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne
l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino
conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La
richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire
all’Amministrazione la provvista per procedere al
ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme,
per poi rivalersi sul responsabile dell’abuso, semmai
inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso.
Nelle ipotesi, com’è quella in esame, di abusi realizzati su
immobili insistenti in area sottoposta a vincolo -ai sensi
dell’art. 27, comma 2, del d.p.r. n 380/2001- il
legislatore ha disposto la sua irrogazione sempre nella
misura massima di € 20.000,00, senza alcun margine di
discrezionalità per poterla graduare.
Ora, come chiarito da condivisibile giurisprudenza (TAR
Puglia Lecce Sez. III, 12.07.2016, n. 1105), ciò che
viene sanzionato nella misura massima di dall’art. 31, comma
4-bis, del d.p.r. 380/2001 non è la realizzazione dell’abuso
edilizio in sé considerato -nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso- bensì
unicamente la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di
demolizione legittimamente impartito dall’amministrazione
per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, la
quale si pone quale condotta omissiva identica nei casi sia
di abusi edilizi macroscopici sia di abusi più modesti.
In altri termini, il disvalore –di per sé rilevante-
colpito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino
impartito dall’amministrazione per rimediare agli abusi
perpetrati in quelle particolari e circoscritte “aree” ed in
quei particolari e circoscritti “edifici”, puntualmente
indicati dall’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 (cfr. sul
punto, TAR Campania, Salerno, 16.01.2017, n. 103).
6.3.2.- Il Comune di Pompei, nella specie, non ha fatto
altro che applicare il disposto legislativo, senza alcuna
valutazione discrezionale; pertanto, anche sotto questo
profilo, la sanzione comminata deve ritenersi adottata in
piena aderenza al dettato normativo.
6.4.- Quanto sopra, consente anche di superare agevolmente
le eccepite questioni di illegittimità costituzionale della
norma.
6.4.1.- Ad avviso della ricorrente, la previsione in
discussione sarebbe incostituzionale in quanto dispone il
cumulo di misure sanzionatorie (acquisizione e sanzione
pecuniaria) per un’unica sostanziale condotta, in asserita
violazione degli artt. 3 e 97 della Cost.
6.4.2.- Il rilievo, per quanto suggestivo, non appare
convincente.
Il legislatore, con la nuova previsione normativa –che il
Collegio ravvisa del tutto ragionevole rispetto
all’importanza degli obiettivi da perseguire, legati al
ripristino del bene “territorio” violato- ha inteso
introdurre una sanzione di carattere personale che si
aggiunge a quella reale dell’acquisizione gratuita del
manufatto al patrimonio dell’Ente, al preciso scopo di
sollecitare il responsabile degli abusi a rimuoverli
sollecitamente.
In questo senso, se da un lato, l’acquisizione gratuita è
una sanzione di carattere reale che assume il valore di
forte deterrente nei confronti di coloro che intendono
commettere un abuso, ben consapevoli delle conseguenze, in
termini di perdita del diritto dominicale, alle quali vanno
incontro, tra l’altro non legate direttamente all’abuso
stesso, bensì alla mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione, dall’altro, la sanzione pecuniaria ha lo scopo
di tenere indenne l’amministrazione comunale dall’impegno
economico derivante dall’abbattimento delle opere abusive.
Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31
introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che:
“I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al
comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e
rimessione in pristino delle opere abusive e
all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde
pubblico.”.
In questa prospettiva, non si ravvisa alcun contrasto con
gli artt. 3 e 97 Cost. per violazione del divieto di cumulo
fra sanzioni amministrative, posto che le stesse, pur avendo
a riferimento un’unica condotta, rispondono ad obiettivi
diversi e tra loro complementari
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa e
vincolata, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e di rimessa in
pristino, il mancato invio della comunicazione di avvio del
procedimento non ha alcun effetto invalidante sui successivi
atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso
che quest’ultimo -ai sensi dell'art. 21-octies L. n. 241 del
1990- non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo
diverso da quello in concreto adottato.
---------------
L’ordinanza di demolizione va adottata senza necessità di
particolare motivazione né con comparazione degli interessi
pubblici e privati coinvolti, in quanto ciò che rileva è
l’adozione della misura sanzionatoria e ripristinatoria a
tutela dei valori urbanistici ed edilizi, lesi
dall’intervento abusivo.
Pertanto, il carattere abusivo di un'opera edilizia
costituisce di per sé presupposto necessario e sufficiente
per ricorrente alla prescritta e doverosa sanzione
demolitoria, senza che sia richiesta una motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico a suo
fondamento, le quali sono per l’appunto in re ipsa, né
sull'astratta sanabilità dell'opera, attenendo questo
aspetto al momento successivo ed eventuale dell’esame della
richiesta di conformità postuma; né poi è richiesto esame
approfondito circa il contrasto dell'opera abusiva con gli
strumenti urbanistici perché ciò che rileva è l’assenza di
un valido titolo edilizio preventivo ad effettuare
quell’intervento.
Non può quindi ammettersi l’esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che nemmeno il tempo, in ogni caso, potrebbe
legittimare.
---------------
1.- Il ricorso è infondato e va respinto.
Con il primo motivo, parte ricorrente deduce:
Violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 L. n. 241 del 1990;
eccesso di potere per inesistenza dei presupposti di fatto e
di diritto, travisamento, omessa ponderazione della
situazione contemplata, sviamento, perplessità, manifesta
ingiustizia, difetto d’istruttoria, contraddittorietà,
violazione dei principi di trasparenza e pubblicità.
1.1.- Il provvedimento impugnato sarebbe stato emesso in
violazione del principio del giusto procedimento per non
essere stata garantita all’interessato la partecipazione;
l’amministrazione ha inoltre omesso di inviare la
comunicazione di avvio del procedimento.
Il motivo è poi ripreso e sviluppato con il terzo motivo,
col quale il ricorrente contesta la violazione del d.p.r.
380/2001, nonché del RUEC (Regolamento urbanistico edilizio
comunale) di San Giuseppe Vesuviano, dell’art. 3 L. n.
241/1990; del d.lgs. 490/1999, del d.lgs. 42/2004, del d.lgs. 431/1985; della legge regionale n. 21 del 2003;
l’eccesso di potere per illogicità manifesta, inesistenza
dei presupposti, carenza d’istruttoria e di motivazione.
1.2.- I due motivi, per omogeneità di contenuti negli stessi
presenti, possono essere affrontati congiuntamente. Gli
stessi si palesano infondati.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio,
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa e vincolata, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e di
rimessa in pristino, il mancato invio della comunicazione di
avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che quest’ultimo -ai sensi dell'art.
21-octies L. n. 241 del 1990- non avrebbe potuto avere un
contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n.
3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
2.- Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la
violazione o falsa applicazione degli artt. 12, 20, 27, 31 e
36 d.p.r. 380/2001; la violazione dell’art. 97 Cost.; dei
principi di correttezza amministrativa; l’eccesso di potere
per violazione del giusto procedimento, difetto di
motivazione, d’istruttoria, inesistenza ed erronea
valutazione dei presupposti di fatto e di diritto,
sviamento, contraddittorietà, confusione dell’attività
amministrativa.
2.1.- In assenza di partecipazione dell’interessato,
l’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento
impugnato sulla base di erronei presupposti di fatto e di
diritto.
Non sarebbe mai stato comunicato al ricorrente l’esito delle
risultanze istruttorie tecniche relative ai sopralluoghi
effettuati dall’ufficio tecnico comunale.
Non gli è stata mai notificata o altrimenti comunicata la
precedente ordinanza di sospensione dei lavori e demolizione
ad horas n. 180 prot. n. 23878 del 05.09.2008, pur
sostenendosi, nel provvedimento impugnato, che alla
medesima, il ricorrente non avrebbe ottemperato.
L’amministrazione non avrebbe peraltro considerato che, per
le opere realizzate, il ricorrente ha presentato richiesta
di permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 36
d.p.r. 380/2001, con conseguente inefficacia dell’ordinanza
impugnata.
In ogni caso, l’amministrazione non avrebbe correttamente
verificato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380/2001, l’entità
e la regolarità delle opere e disposto gli atti conseguenti.
2.2.- Anche questo motivo, nelle sue diverse articolazioni,
è infondato.
2.2.1.- Come sopra chiarito, nel corso dell’esame della
censura circa l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento, l’ordinanza di demolizione va adottata senza
necessità di particolare motivazione né con comparazione
degli interessi pubblici e privati coinvolti, in quanto ciò
che rileva è l’adozione della misura sanzionatoria e
ripristinatoria a tutela dei valori urbanistici ed edilizi,
lesi dall’intervento abusivo.
Pertanto, il carattere abusivo di un'opera edilizia
costituisce di per sé presupposto necessario e sufficiente
per ricorrente alla prescritta e doverosa sanzione
demolitoria, senza che sia richiesta una motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico a suo
fondamento, le quali sono per l’appunto in re ipsa, né
sull'astratta sanabilità dell'opera, attenendo questo
aspetto al momento successivo ed eventuale dell’esame della
richiesta di conformità postuma; né poi è richiesto esame
approfondito circa il contrasto dell'opera abusiva con gli
strumenti urbanistici perché ciò che rileva è l’assenza di
un valido titolo edilizio preventivo ad effettuare
quell’intervento (ex multis: TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.03.2017, n. 1434).
2.2.2.- Non può quindi ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che nemmeno il tempo, in ogni caso,
potrebbe legittimare (Tar Campania, Napoli, sez. VI, 03.05.2017, n. 2368; Cons. giust. Amm. Sicilia, 27.02.2017,
n. 65)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001, non
incide sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione
impugnata, che va valutata sulla base dei presupposti di
fatto e di diritto esistenti al momento della sua
emanazione.
L'istanza di sanatoria non è peraltro in grado di determina
la definitiva inefficacia della suddetta ordinanza, in
quanto si limita solo a sospenderne temporaneamente gli
effetti fino alla definizione, espressa o tacita,
dell'istanza, senza bisogno che l’amministrazione adotti una
nuova ordinanza.
Del resto, va disattesa una soluzione interpretativa che
comporti per il soggetto destinatario del provvedimento la
possibilità di paralizzare ad libitum la potestà
amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un
provvedimento autoritativo, ogni qual volta lo stesso sia
adottato, mediante la mera presentazione di una istanza.
D’altronde, come chiarito sempre da questa Sezione, in
adesione ad un pacifico orientamento della giurisprudenza
amministrativa, l'art. 36, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001
(già art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47), nello stabilire
che, sulla richiesta di permesso in sanatoria, il dirigente
o il responsabile del competente ufficio comunale si
pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta s’intende rifiutata, raffigura
a tutti gli effetti un'ipotesi di caratterizzazione legale
del silenzio serbato dall'amministrazione. Ne deriva che,
una volta decorso inutilmente il suddetto termine, sulla
domanda di sanatoria si produce un atto tacito di diniego,
che la parte interessata ha l’onere di impugnare in sede
giurisdizionale amministrativa nel termine perentorio di
sessanta giorni decorrente dalla data di formazione.
---------------
2.2.4.- Non assume altresì rilievo la presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
Come chiarito da questa Sezione in precedenti analoghi, la
proposizione di siffatta istanza non incide sulla
legittimità dell'ordinanza di demolizione impugnata, che va
valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto
esistenti al momento della sua emanazione.
L'istanza di sanatoria non è peraltro in grado di determina
la definitiva inefficacia della suddetta ordinanza, in
quanto si limita solo a sospenderne temporaneamente gli
effetti fino alla definizione, espressa o tacita,
dell'istanza, senza bisogno che l’amministrazione adotti una
nuova ordinanza (TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 11.07.2016, n. 1877), in ciò distinguendosi dagli speciali
procedimenti di condono (cfr. questa Sezione, 02.02.2017, n. 1169; Idem, 22.08.2016 n. 4088; Cons. St., sez. VI,
02.02.2015 n. 466).
Del resto, va disattesa una soluzione interpretativa che
comporti per il soggetto destinatario del provvedimento la
possibilità di paralizzare ad libitum la potestà
amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un
provvedimento autoritativo, ogni qual volta lo stesso sia
adottato, mediante la mera presentazione di una istanza.
D’altronde, come chiarito sempre da questa Sezione, in
adesione ad un pacifico orientamento della giurisprudenza
amministrativa, l'art. 36, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001
(già art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47), nello
stabilire che, sulla richiesta di permesso in sanatoria, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta s’intende rifiutata, raffigura
a tutti gli effetti un'ipotesi di caratterizzazione legale
del silenzio serbato dall'amministrazione. Ne deriva che,
una volta decorso inutilmente il suddetto termine, sulla
domanda di sanatoria si produce un atto tacito di diniego,
che la parte interessata ha l’onere di impugnare in sede
giurisdizionale amministrativa nel termine perentorio di
sessanta giorni decorrente dalla data di formazione (cfr.
sentenza 13.02.2015, n. 1072)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali fra tutti
l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento
di demolizione, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n.
241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un
contenuto dispositivo diverso da quello in concreto
adottato.
L’attività vincolata esclude la necessità anche di un
particolare onere motivazionale da parte
dell’amministrazione procedente circa l’interesse pubblico
perseguito che, in caso di abusi, è in re ipsa.
Invero, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il tempo in ogni caso non potrebbe giammai
legittimare.
---------------
Il carattere vincolato del provvedimento di demolizione
comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale
motivazione sull'interesse pubblico alla demolizione,
sull'effettivo danno all'ambiente o al paesaggio (o, ancora,
sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al
privato). In questo caso è, infatti, sufficiente evidenziare
la violazione del regime vincolistico e l'avvenuta
costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel
caso di specie è avvenuto.
Nel caso specifico, il Comune ha correttamente adottato il
provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380
del 2001, posto che l’opera abusiva è stata realizzata in un
comune il cui territorio è sottoposto, da anni, ai vincoli
paesaggistici di cui al d.lgs. 42 del 2004 (ex r.d. 1497 del
1939).
Laddove i lavori eseguiti in assenza di titolo
autorizzatorio ricadano in zona assoggettata a vincolo
paesaggistico e stante l'alterazione dell'aspetto esteriore
dei luoghi stessi, la misura ripristinatoria del Comune
costituisce atto dovuto, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. n. 380
del 2001. Peraltro, quest’ultima previsione normativa non
distingue tra opere per cui è necessario il permesso di
costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice
D.I.A., in quanto impone di adottare un provvedimento di
demolizione per tutte le opere che siano, comunque,
costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo
paesistico.
Il richiamo all’art. 31, comma 4, d.p.r. 380 del 2001 ne
rappresenta una logica conseguenza posto che, in caso
d’inottemperanza, è del tutto evidente che il Comune sia
obbligato ad avviare la procedura d’ufficio per la
demolizione delle opere abusive riscontrate, con ristoro
delle relative spese sostenute a carico del responsabile
dell’abuso, tenuto per legge al relativo pagamento.
---------------
3.- Il ricorso introduttivo si palesa infondato.
Infondata è la censura relativa alla mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio,
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali fra tutti l'ordinanza di rimozione e rimessa in
pristino, costituiscono atti vincolati per la cui adozione
non è necessario dare notizia dell'avvio del procedimento,
non essendovi spazio per momenti partecipativi del
destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento
di demolizione, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n.
241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un
contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n.
3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
L’attività vincolata esclude la necessità anche di un
particolare onere motivazionale da parte
dell’amministrazione procedente circa l’interesse pubblico
perseguito che, in caso di abusi, è in re ipsa.
Come chiarito da pacifica giurisprudenza amministrativa,
l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il tempo in ogni caso non potrebbe giammai
legittimare (Tar Campania, Napoli, sez. VI, 03.05.2017,
n. 2368; Cons. giust. Amm. Sicilia, 27.02.2017, n.
65).
Non rilevante appare altresì la dedotta circostanza che
l’ordinanza di demolizione non sia stata preceduta
dall’ingiunzione a sospendere i lavori, atteso che
quest’ultima risponde al preciso fine di evitare il
protrarsi di attività edilizie in corso, non assistite dal
previo titolo abilitativo, onde evitare che il danno
all’assetto edilizio ed urbanistico possa aggravarsi con
effetti anche irreversibili. Nel caso di specie, l’ordinanza
di demolizione incorpora anche quella di sospensione, tenuto
anche conto del fatto che i lavori erano già stati
effettuati.
Né assume rilievo il fatto che il verbale di sequestro e di
apposizione dei sigilli, conseguente al sopralluogo
effettuato il 06.04.2009, indichi in modo non preciso la
porzione del balcone interessata dall’allargamento della
base da 25 cm a 50 cm, perché ciò che rileva –come emerge
dalla stessa relazione tecnica asseverata di parte– è il
dato di fatto incontrovertibile e non contestato che il
balcone è stato ampliato e che sia stata sposta la
preesistente ringhiera dall’interno all’esterno del
frontino.
E’ evidente quindi che l’ordine di demolizione si
rivolge propriamente alla sola parte abusiva del
preesistente balcone, come peraltro è evidenziato nella
seconda ordinanza di demolizione n. 180 del 29.06.2009,
impugnata con i motivi aggiunti, con la quale è chiarito che
il ricorrente “ha eseguito lavori di ampliamento di un
vecchio balcone al secondo piano con putrelle in ferro e
laterizi lungo mt. 20,00 per una lunghezza di ml. 0.50, con
relativa posa in opera di correnti di marmo per
gocciolatoio, riapposizione della vecchia ringhiera in ferro
di protezione nonché parziale posa di pavimenti”.
E’ evidente che i metri 20 si riferiscono alla lunghezza
complessiva del balcone preesistente e ciò che si contesta è
l’abusivo allargamento di una porzione della base del
balcone da cm 25 a cm 50.
...
6.- Riguardo al terzo e quarto motivo di
ricorso, va ribadito che il carattere vincolato del
provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e
non dovuta una puntuale motivazione sull'interesse pubblico
alla demolizione, sull'effettivo danno all'ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato). In questo caso è, infatti,
sufficiente evidenziare la violazione del regime
vincolistico e l'avvenuta costruzione in assenza del titolo
abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, 11.07. 2013, n.
3588). Anche i due motivi risultano, pertanto, infondati.
Nel caso specifico, il Comune ha correttamente adottato il
provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380
del 2001, posto che l’opera abusiva è stata realizzata in un
comune il cui territorio è sottoposto, da anni, ai vincoli
paesaggistici di cui al d.lgs. 42 del 2004 (ex r.d. 1497
del 1939), in virtù dei decreti ministeriali 17.08.1961
e n. 98 del 26.04.1985, nonché della cd. “Zona Rossa”
dei comuni vesuviani, di cui alla Legge regionale n. 21 del
2003.
Laddove i lavori eseguiti in assenza di titolo
autorizzatorio ricadano in zona assoggettata a vincolo
paesaggistico e stante l'alterazione dell'aspetto esteriore
dei luoghi stessi, la misura ripristinatoria del Comune
costituisce atto dovuto, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. n. 380
del 2001. Peraltro, quest’ultima previsione normativa non
distingue tra opere per cui è necessario il permesso di
costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice
D.I.A., in quanto impone di adottare un provvedimento di
demolizione per tutte le opere che siano, comunque,
costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo
paesistico (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.05.2016, n. 2689; Idem,
04.12.2013, n. 5516).
Il richiamo all’art. 31, comma 4, d.p.r. 380 del 2001 ne
rappresenta una logica conseguenza posto che, in caso
d’inottemperanza, è del tutto evidente che il Comune sia
obbligato ad avviare la procedura d’ufficio per la
demolizione delle opere abusive riscontrate, con ristoro
delle relative spese sostenute a carico del responsabile
dell’abuso, tenuto per legge al relativo pagamento.
Meno chiaro –e su questo punto si conviene con il
ricorrente- il richiamo contenuto nel provvedimento
impugnato, ai commi 2 e 3 del menzionato art. 31 d.p.r. 380
del 2001, atteso che l’intervento abusivo si circoscrive ad
un allargamento di una porzione del preesistente balcone e
che la lesione ai vincoli paesaggistici trova rimedio, ai
sensi del menzionato art. 27, con la demolizione dell’abuso
e la riduzione nello stato originario, a spese del
responsabile, ove non vi provveda autonomamente; trattandosi
di un ampliamento di un’opera preesistente, la rimozione
dell’aggiunta abusiva del balcone realizza di per sé
l’esigenza di ripristinare la situazione preesistente
all’illecito amministrativo, soprattutto ai fini della
tutela dei valori paesaggistici ed ambientali (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ampliamento
di un balcone costituisce opera di ristrutturazione
edilizia, ai sensi degli artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380 del
2001, dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione
della facciata del palazzo, comportante modifica della
sagoma, dei prospetti e delle superfici.
Il titolo edilizio per la realizzazione di tale intervento
risulta, quindi, essere il permesso di costruire e la
sanzione per la sua assenza è il ripristino dello stato dei
luoghi, ai sensi dell’art. 33 d.p.r. n. 380 del 2001.
---------------
Per gli interventi comportanti una trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo
paesaggistico, quand'anche si ritenessero assentibili con
mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è
comunque doverosa, ove non sia stata ottenuta alcuna
autorizzazione paesistica.
---------------
4.- Quanto sopra, induce a considerare infondato anche il
secondo motivo di ricorso.
L’opera realizzata dal ricorrente e contestata dal comune ha
comportato un arbitrario ampliamento della superficie di un
preesistente balcone in assenza di titolo, opera che –contrariamente agli assunti del ricorrente– non può
costituire un intervento di semplice manutenzione né
intervento di restauro e di risanamento conservativo,
quand’anche fosse giustificato da reali esigenze di
sicurezza e dal tentativo di ovviare al deterioramento
imputabile alla vetustà ed agli agenti atmosferici.
Pertanto non si verifica alcuna violazione delle norme
regolamentari di cui agli artt. 46, 47 e 48 RUEC, invocate
dal ricorrente.
Come chiarito in un precedente di questo TAR, l’ampliamento
di un balcone costituisce opera di ristrutturazione
edilizia, ai sensi degli artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380 del
2001, dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione
della facciata del palazzo, comportante modifica della
sagoma, dei prospetti e delle superfici. Il titolo edilizio
per la realizzazione di tale intervento risulta, quindi,
essere il permesso di costruire e la sanzione per la sua
assenza è il ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi
dell’art. 33 d.p.r. n. 380 del 2001 (TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 28.10.2011, n. 5052).
5.- Non assume quindi alcun rilievo la circostanza della
presentazione della denuncia di inizio attività in
sanatoria, ai sensi dell’art. 37 d.p.r. 380/2001, posto che,
come sopra illustrato, la presenza dei vincoli paesaggistici
ed ambientali sussistenti nel territorio del comune di San
Sebastiano rendono la DIA, titolo edilizio non idoneo allo
scopo, soprattutto se presentata, com’è nel caso in esame, a
sanatoria di un abuso che ha comunque prodotto un aumento di
superficie ed un cambio di prospetto.
Sul punto si rammenta che, per gli interventi comportanti
una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in
area assoggettata a vincolo paesaggistico, quand'anche si
ritenessero assentibili con mera D.I.A., l'applicazione
della sanzione demolitoria è comunque doverosa, ove non sia
stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (cfr.
precedente di questo TAR sez. VI, 02.12.2016, n. 5565)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Per effetto del rinnovamento normativo in materia
di competenze negli anni novanta, ad opera della L. n. 142
del 1990, del d.lgs. n. 29 del 1993 e, infine, della l. n.
127 del 1997, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive rientra nella competenza del dirigente comunale
ovvero, nei Comuni sprovvisti di tale qualifica, dei
responsabili degli uffici e dei servizi e non del Sindaco,
trattandosi di tipico potere gestionale.
---------------
7.- Infine, infondato si palesa il quinto motivo, col
quale parte ricorrente ha censurato l’incompetenza del
dirigente ad assumere l’atto impugnato.
Per effetto del rinnovamento normativo in materia di
competenze negli anni novanta, ad opera della L. n. 142 del
1990, del d.lgs. n. 29 del 1993 e, infine, della l. n. 127
del 1997, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive rientra nella competenza del dirigente comunale
ovvero, nei Comuni sprovvisti di tale qualifica, dei
responsabili degli uffici e dei servizi e non del Sindaco,
trattandosi di tipico potere gestionale (TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 19.01.2017, n. 416; TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 30.04.2015, n. 1071)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Risulta infondata la censura relativa al mancato
obbligo di comunicazione preventiva dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda, prevista dal richiamato art.
10-bis L. n. 241/1990, la cui applicazione è disposta
unicamente per i procedimenti avviati su istanza di parte,
laddove nel caso specifico si verte, all’opposto, in tema di
procedimento instaurato d’ufficio, a carattere repressivo e
sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai discutere, ma
la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo di avvio del
procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 e, di
conseguenza, delle necessità comunque di coinvolgimento e
partecipazione dell’interessato.
---------------
8.- L’infondatezza del ricorso introduttivo comporta
l’infondatezza anche del ricorso per motivi aggiunti,
considerato, da un lato, che l’ordinanza con quest’ultimo
impugnata ha carattere reiterativo della prima, avendo preso
atto il comune della sua mancata ottemperanza e, dall’altro,
che parte ricorrente riproduce le censure già formulate col
ricorso introduttivo medesimo.
Va solo aggiunto che, come già chiarito relativamente
all’esame della censura sull’omessa comunicazione di avvio
del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990, che
risulta altrettanto infondata anche la censura relativa al
mancato obbligo di comunicazione preventiva dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda, prevista dal
richiamato art. 10-bis L. n. 241/1990, la cui applicazione è
disposta unicamente per i procedimenti avviati su istanza di
parte, laddove nel caso specifico si verte, all’opposto, in
tema di procedimento instaurato d’ufficio, a carattere
repressivo e sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai
discutere, ma la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo
di avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 –la cui violazione è stata parimenti contestata dalla
ricorrente col ricorso introduttivo- e, di conseguenza,
delle necessità comunque di coinvolgimento e partecipazione
dell’interessato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza ormai costante, l'esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali tra tutti
l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento
di rimozione, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n.
241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un
contenuto dispositivo diverso da quello in concreto
adottato.
---------------
L’ordine di sospensione ha un senso laddove gli interventi
abusivi siano in corso di esecuzione e risponde all’esigenza
di inibire qualsiasi ulteriore attività che possa aggravare
i danni allo stato preesistente.
Nel caso specifico questa esigenza tuttavia non si poneva,
posto che l’Ente è intervenuto a lavori ormai compiuti.
---------------
6.- Infondata è anche la censura relativa
al mancato obbligo di comunicazione preventiva dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda, prevista dal
richiamato art. 10-bis L. n. 241/1990 la cui applicazione è
disposta unicamente per i procedimenti avviati su istanza di
parte.
Nel caso specifico si verte, all’opposto, in tema di
procedimento instaurato d’ufficio, a carattere repressivo e
sanzionatorio, per il quale si potrebbe semmai discutere, ma
la giurisprudenza lo ha escluso, dell’obbligo di avvio del
procedimento di cui all’art. 7 L. n. 241/1990 –la cui
violazione è stata parimenti contestata dalla ricorrente-
e, di conseguenza, delle necessità comunque di
coinvolgimento e partecipazione dell’interessato.
Per giurisprudenza ormai costante, condivisa dal Collegio,
infatti, l'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi –con argomentazione che, per affinità nella tutela
degli interessi pubblici coinvolti- costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali tra tutti
l'ordinanza di rimozione e rimessa in pristino,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell'avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento
di rimozione, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies L. n.
241 del 1990– quest’ultimo non avrebbe potuto avere un
contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n.
3620; questa Sezione 31.01.2017, n. 677).
7.- Irrilevante poi la circostanza, rilevata dalla
ricorrente, che l’ordinanza di demolizione non sia stata
preceduta da quella di sospensione.
L’ordine di sospensione ha un senso laddove gli interventi
abusivi siano in corso di esecuzione e risponde all’esigenza
di inibire qualsiasi ulteriore attività che possa aggravare
i danni allo stato preesistente. Nel caso specifico questa
esigenza tuttavia non si poneva, posto che l’Ente parco è
intervenuto a lavori ormai compiuti e dopo avere ricevuto
l’informativa dal comune di San Sebastiano al Vesuvio
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di specie trova applicazione l’art. 29
L. n. 394/1991 il quale, in caso di esercizio di attività
edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal
nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori
ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di
preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente parco.
Sicché, nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno
di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell'Ente Parco
ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza
esercitato dal predetto Ente si fonda sulle specifiche
finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua
stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere
incardinato in virtù della legislazione statale in materia
naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e
finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da
attività edilizia non conforme alla normativa.
In questo senso la violazione delle norme urbanistiche ed
edilizie rappresenta il presupposto per l’esercizio del
potere inibitorio e sanzionatorio da parte dell’ente parco
senza che vi sia automatica coincidenza tra i due ambiti.
Come infatti chiarito da condivisibile giurisprudenza,
laddove, per la repressione degli abusi edilizi all'interno
dei parchi naturali, vi sia un concorso tra le funzioni di
vigilanza edilizia, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R.
380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di
protezione del vincolo paesistico attribuito all'ente
gestore del Parco, le valutazioni svolte dai due soggetti
potrebbero divergere, poiché il Comune deve tener conto dei
limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia, mentre
l'ente gestore del Parco considera la compatibilità
paesistica dell'opera; di conseguenza, un nuovo volume
potrebbe essere sanabile nella valutazione del Comune (ad
esempio, perché gli indici edificatori non sono ancora
esauriti), ma non nella valutazione paesistica del Parco.
---------------
8.- Infondata si palesa altresì la censura circa l’erronea
applicazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001 in luogo di quella
di cui agli artt. 33, 34 e 37 d.p.r. 380/2001.
E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza
impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha
realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti
caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m.
(al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le
seguenti caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m.
(al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle
pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale
chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in
modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da
sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base
della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
Impropria, quindi, si palesa la censura relativa alla
violazione di talune delle disposizioni di cui al d.p.r.
380/2001, normativa stabilita a tutela degli interessi
urbanistici ed edilizi alla cura dei quali è preposta
l’amministrazione comunale e che introduce un corredo di
sanzioni graduate in proporzione all’incidenza sul
territorio dell’opera abusiva compiuta.
Nel caso di specie trova applicazione l’art. 29 L. n.
394/1991 il quale, in caso di esercizio di attività edilizia
in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta,
dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali
violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva
autorizzazione o nulla osta dell’Ente parco.
Come sopra già illustrato, nell’ipotesi di opere abusive
realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la
competenza dell'Ente Parco ad adottare provvedimenti di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto
il potere di ordinanza esercitato dal predetto Ente si fonda
sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a
fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio
di un potere incardinato in virtù della legislazione statale
in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n.
394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a
vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa
(cfr. Cons. Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449)
In questo senso la violazione delle norme urbanistiche ed
edilizie rappresenta il presupposto per l’esercizio del
potere inibitorio e sanzionatorio da parte dell’ente parco
senza che vi sia automatica coincidenza tra i due ambiti.
Come infatti chiarito da condivisibile giurisprudenza,
laddove, per la repressione degli abusi edilizi all'interno
dei parchi naturali, vi sia un concorso tra le funzioni di
vigilanza edilizia, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R.
380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di
protezione del vincolo paesistico attribuito all'ente
gestore del Parco, le valutazioni svolte dai due soggetti
potrebbero divergere, poiché il Comune deve tener conto dei
limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia, mentre
l'ente gestore del Parco considera la compatibilità
paesistica dell'opera; di conseguenza, un nuovo volume
potrebbe essere sanabile nella valutazione del Comune (ad
esempio, perché gli indici edificatori non sono ancora
esauriti), ma non nella valutazione paesistica del Parco
(Tar Brescia, sez. I, 15.10.2014, n. 1057)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla necessità, o meno, del permesso di costruire per la
realizzazione di due gazebo.
Gli interventi effettuati, i due gazebo,
presentano tutti gli elementi per essere classificati quale
nuova opera per la quale sarebbe stato necessario acquisire
il previo rilascio di un permesso di costruire, in relazione
a nuove superfici e volumi, laddove si consideri anche la
chiusura perimetrale di uno dei gazebo.
Non va trascurata, al riguardo, l’esistenza in zona di una
serie di vincoli, puntualmente richiamati nell’ordinanza
impugnata: paesaggistico di cui al d.lgs. 490 del 1999
(attualmente vigente il d.lgs. 42 del 2004); appartenenza
dell’intero territorio comunale alle norme di salvaguardia
del “Piano Straordinari” diretto a rimuovere situazioni di
rischio idrogeologico nonché rischio sismico.
In ogni caso, le significative dimensioni dei due gazebo
avrebbero reso comunque necessario la preventiva
acquisizione del nulla osta dell’ente parco, a fronte
dell’esistenza in zona dei noti vincoli paesaggistici.
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza impugnata benché
la stessa si riferisca a due gazebo i quali,
indipendentemente dalla circostanza dell'immobilizzazione al
suolo, si traducono in strutture destinate ad adempiere ad
un utilizzo prolungato nel tempo, dovendo in tal caso
escludersi la precarietà dei due manufatti, che ne
giustificherebbe il non assoggettamento a permesso edilizio,
posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o
dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al
quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla
luce dell'obiettiva e intrinseca destinazione naturale
dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione
data alla stessa dai proprietari.
---------------
E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza
impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha
realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti
caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m.
(al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le
seguenti caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m.
(al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle
pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale
chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in
modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da
sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base
della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
...
9.- Né ha pregio l’affermazione del ricorrente circa la
valenza di opere di manutenzione straordinaria ovvero di
carattere pertinenziale e di volume tecnico.
Appare dunque evidente che, per caratteristiche e
dimensioni, come sopra descritte, l’opera abusiva realizzata
non può essere annoverata tra gli interventi di carattere
manutentivo né può essere derubricata a “lieve difformità”
rispetto ad un'opera assentibile con d.i.a..
Si osserva, in particolare, che gli interventi effettuati, i
due gazebo, presentano tutti gli elementi per essere
classificati quale nuova opera per la quale sarebbe stato
necessario acquisire il previo rilascio di un permesso di
costruire, in relazione a nuove superfici e volumi, laddove
si consideri anche la chiusura perimetrale di uno dei
gazebo.
Non va trascurata, al riguardo, l’esistenza in zona di una
serie di vincoli, puntualmente richiamati nell’ordinanza
impugnata: paesaggistico di cui al d.lgs. 490 del 1999
(attualmente vigente il d.lgs. 42 del 2004); appartenenza
dell’intero territorio comunale alle norme di salvaguardia
del “Piano Straordinari” diretto a rimuovere situazioni di
rischio idrogeologico (Delibera n. 14/99 del 31.10.1999) nonché rischio sismico.
In ogni caso, le significative dimensioni dei due gazebo
avrebbero reso comunque necessario la preventiva
acquisizione del nulla osta dell’ente parco, a fronte
dell’esistenza in zona dei noti vincoli paesaggistici (in
questi termini, Tar Napoli, sez. VI, 22.10.2015, n.
4931).
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza impugnata benché
la stessa si riferisca a due gazebo i quali,
indipendentemente dalla circostanza dell'immobilizzazione al
suolo, si traducono in strutture destinate ad adempiere ad
un utilizzo prolungato nel tempo, dovendo in tal caso
escludersi la precarietà dei due manufatti, che ne
giustificherebbe il non assoggettamento a permesso edilizio,
posto che la stessa non dipende dai materiali utilizzati o
dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al
quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla
luce dell'obiettiva e intrinseca destinazione naturale
dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione
data alla stessa dai proprietari (Cons. St., sez. III, 12.09.2012, n. 4850; Id., sez. VI, 16.02.2011, n.
986) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di due gazebo: pertinenze urbanistiche? Volume
tecnico?
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a
quella principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per
il contenimento di impianti tecnologici. Sono quindi
estranee al concetto di pertinenza urbanistica le opere che,
per dimensioni e funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale né siano
coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
---------------
Né risulta altrettanto obiettivamente sostenibile l’assunto
di parte ricorrente circa la natura di volume tecnico del
manufatto, ciò per due fondamentali ragioni: la prima,
legata alla natura dell’opera abusiva realizzata, le cui
caratteristiche, per come sopra illustrate, lasciano
intendere un suo utilizzo a fini fondamentalmente
complementari all’abitazione; la seconda, dipendente dalla
presenza del vincolo naturalistico-ambientale e
paesaggistico del parco.
Sul primo aspetto, al fine di stabilire se un locale possa
essere classificato quale mero vano tecnico, occorre una
valutazione complessiva delle sue caratteristiche, in modo
da escludere in maniera oggettiva che lo stesso possa
assolvere ad una funzione abitativa, anche solo in via
potenziale o per il futuro, a prescindere dalla destinazione
soggettiva impressa dal proprietario.
In sostanza, per individuare la nozione di volume tecnico,
come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare
riferimento a tre parametri:
- il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere
un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione;
- il secondo ed il terzo, negativi, ossia
ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria
proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie
e il volume realizzato; quest'ultimo dev’essere
completamente privo di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a
contenere gli impianti serventi di una costruzione
principale, che non possono essere ubicati all'interno di
essa.
L'applicazione di tali parametri induce a concludere che i
volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo
della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di
vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di essere abitato.
---------------
Come sopra chiarito, la realizzazione dei due gazebo appare
assumere tutti i requisiti per renderla agibile a scopi
complementari a quelli abitativi.
Sul secondo aspetto, relativo alla presenza del vincolo del
parco, condiviso orientamento della giurisprudenza
amministrativa ha precisato che, sebbene ai fini edilizi un
nuovo volume possa essere considerato non rilevante e non
essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili –per l’appunto perché ritenuto volume tecnico-
ai fini naturalistici ed ambientali lo stesso può assumere
comunque una rilevanza e determinare una possibile
alterazione dello stato dei luoghi.
Ed infatti, la nuova volumetria, quale che sia la sua natura
e funzione -e possa quindi rivestire o meno la qualifica di
volume tecnico- impone una valutazione di compatibilità con
i valori paesaggistici dell'area, da compiersi ad opera
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero nel
caso specifico dell’Ente parco.
---------------
E’ utile in via preliminare richiamare sul punto l’ordinanza
impugnata, dalle quali emerge che la ricorrente ha
realizzato le seguenti opere:
"Struttura n. 1:
Gazebo rettangolare grande e in particolare con le seguenti
caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 3 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,80 x m. 6,40 e con h. 4,74 m.
(al colmo) e 2,85 m. sui lati;
Struttura n. 2:
Gazebo rettangolare piccolo, e in particolare con le
seguenti caratteristiche strutturali:
un manufatto con struttura portante in legno lamellare con
pilastri e travi, con n. 2 pilastri per lato per due lati,
con copertura a capriata in legno e completamento con tetto
a falde in tegole di tipo marsigliesi, il tutto confinante
con proprietà aliena, la struttura presenta le seguenti
dimensioni pianta pari a m. 3,60 x m. 3,60 e con h. 4,20 m.
(al colmo) e 3,15 m. sui lati, la struttura presenta delle
pareti di chiusura e come tale assume la forma di un locale
chiuso, al quale si accede per mezzo di vano porta.".
Trattasi dunque di due gazebi, uno dei quali predisposto in
modo da formare un locale chiuso e tale, quindi, da
sviluppare un nuovo volume, non autorizzabile sulla base
della sopra indicata normativa attuativa dell’Ente parco.
...
10.- Non persuade il Collegio il tentativo della ricorrente
di fare rientrare i due manufatti nella nozione di
pertinenza urbanistica.
Sul punto si rammenta che, secondo
consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, condiviso dal Collegio, la qualifica di
pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di
modesta entità e accessorie rispetto a quella principale,
quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici. Sono quindi estranee al concetto di
pertinenza urbanistica le opere che, per dimensioni e
funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto
all'opera cosiddetta principale né siano coessenziali alla
stessa, tali, cioè, che non risulti possibile alcuna diversa
utilizzazione economica (da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2017, n. 1155).
Né risulta altrettanto obiettivamente sostenibile l’assunto
di parte ricorrente circa la natura di volume tecnico del
manufatto, ciò per due fondamentali ragioni: la prima,
legata alla natura dell’opera abusiva realizzata, le cui
caratteristiche, per come sopra illustrate, lasciano
intendere un suo utilizzo a fini fondamentalmente
complementari all’abitazione; la seconda, dipendente dalla
presenza del vincolo naturalistico-ambientale e
paesaggistico del parco.
Sul primo aspetto, al fine di stabilire se un locale possa
essere classificato quale mero vano tecnico, occorre una
valutazione complessiva delle sue caratteristiche, in modo
da escludere in maniera oggettiva che lo stesso possa
assolvere ad una funzione abitativa, anche solo in via
potenziale o per il futuro, a prescindere dalla destinazione
soggettiva impressa dal proprietario.
In sostanza, per individuare la nozione di volume tecnico,
come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare
riferimento a tre parametri:
- il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere
un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione;
- il secondo ed il terzo, negativi, ossia
ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria
proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie
e il volume realizzato; quest'ultimo dev’essere
completamente privo di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a
contenere gli impianti serventi di una costruzione
principale, che non possono essere ubicati all'interno di
essa.
L'applicazione di tali parametri induce a concludere che i
volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo
della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di
vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di essere abitato
(ex multis, TAR Marche, Ancona, sez. I, 21.02.2017,
n. 141).
Come sopra chiarito, la realizzazione dei due gazebo appare
assumere tutti i requisiti per renderla agibile a scopi
complementari a quelli abitativi.
Sul secondo aspetto, relativo alla presenza del vincolo del
parco, condiviso orientamento della giurisprudenza
amministrativa ha precisato che, sebbene ai fini edilizi un
nuovo volume possa essere considerato non rilevante e non
essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili –per l’appunto perché ritenuto volume tecnico- ai fini
naturalistici ed ambientali lo stesso può assumere comunque
una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello
stato dei luoghi (TAR Genova, sez. I, 27.12.2016,
n. 1267).
Ed infatti, la nuova volumetria, quale che sia la sua natura
e funzione -e possa quindi rivestire o meno la qualifica di
volume tecnico- impone una valutazione di compatibilità con
i valori paesaggistici dell'area, da compiersi ad opera
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero nel
caso specifico dell’Ente parco
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.08.2017 n. 4142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La sottoscrizione anche
del responsabile del procedimento in calce al provvedimento
finale, nel caso in esame espressamente e formalmente
intestato nell’epigrafe al dirigente responsabile
dell’ufficio tecnico che pure lo ha firmato, non svolge
altra funzione che quella di manifestare condivisione in
merito alla sussistenza dei presupposti rilevanti ai fini
della decisione, sì da escludere senz’altro che l’organo
competente per l’adozione del provvedimento finale si sia
discostato dalle risultanze dell’istruttoria.
D’altronde, la giurisprudenza ha censurato la doppia
sottoscrizione dell’atto unicamente nei casi in cui essa
abbia riguardato organi diversi, portatori di funzioni e
compiti distinti tali da ingenerare il dubbio su quale fosse
il potere esercitato.
---------------
Peraltro, detti motivi sono destituiti di fondamento, poiché
la sottoscrizione anche del responsabile del procedimento in
calce al provvedimento finale, nel caso in esame
espressamente e formalmente intestato nell’epigrafe al
dirigente responsabile dell’ufficio tecnico che pure lo ha
firmato, non svolge altra funzione che quella di manifestare
condivisione in merito alla sussistenza dei presupposti
rilevanti ai fini della decisione, sì da escludere
senz’altro che l’organo competente per l’adozione del
provvedimento finale si sia discostato dalle risultanze
dell’istruttoria.
D’altronde, la giurisprudenza ha censurato la doppia
sottoscrizione dell’atto unicamente nei casi in cui essa
abbia riguardato organi diversi, portatori di funzioni e
compiti distinti tali da ingenerare il dubbio su quale fosse
il potere esercitato (cfr. TAR Liguria, sez. I, 30.01.2014,
n. 186; TAR Lazio, Latina, sez. I, 29.07.2014, n. 667; TAR
Puglia, Bari, sez. III, 14.01.2016, n. 26; TAR Campania,
Napoli, Sez. VI, 16.12.2016, n. 5805)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 4137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base all'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, la
domanda per il rilascio del permesso di costruire deve
essere accompagnata "da una dichiarazione del progettista
abilitato che asseveri la conformità del progetto agli
strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti
edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in
particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica
in ordine a tale conformità non comporti valutazioni
tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza
energetica".
La veridicità dell'asseverazione è presidiata dalla
irrogazione di sanzioni penali e disciplinari in caso di
mendacio che responsabilizzano l'interessato, concorrendo a
definire un equilibrio tra le esigenze della semplificazione
amministrativa e la necessità di prevenire il pericolo di
una più facile proliferazione degli interventi edilizi
contrari alla strumentazione urbanistica ed alle altre
normative di settore.
---------------
Il Collegio rileva, in primo luogo, l’infondatezza
delle deduzioni dirette a sostenere l’avvenuta formazione
del provvedimento tacito di accoglimento della domanda
diretta ad ottenere il titolo edilizio presentata in data 30.03.2012.
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, anche di
questa Sezione, in base all'art. 20, comma 1, del d.P.R. n.
380 del 2001, la domanda per il rilascio del permesso di
costruire deve essere accompagnata "da una dichiarazione del
progettista abilitato che asseveri la conformità del
progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati,
ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui
la verifica in ordine a tale conformità non comporti
valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative
all'efficienza energetica". La veridicità dell'asseverazione
è presidiata dalla irrogazione di sanzioni penali e
disciplinari in caso di mendacio che responsabilizzano
l'interessato, concorrendo a definire un equilibrio tra le
esigenze della semplificazione amministrativa e la necessità
di prevenire il pericolo di una più facile proliferazione
degli interventi edilizi contrari alla strumentazione
urbanistica ed alle altre normative di settore (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II; n. 4559 del 2013;
n. 4603 del 2015; n. 5792 del 2015; TAR Veneto, sez. II; TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 492 del 2017).
Il contenuto delle asseverazioni allegate sia alla domanda
assunta al prot. n. 9872 del 30.03.2012 sia alla domanda
assunta al prot. n. 11273 del 12.04.2012 –in disparte
la valutazione circa l’effettiva sussistenza della
conformità urbanistica ed edilizia degli interventi– si
palesano generiche e incomplete in rapporto alle
prescrizioni della previsione sopra richiamata, precludendo,
dunque, in radice, la formazione del silenzio-assenso.
Per completezza, in aggiunta alla dirimente considerazione
sopra esposta, il Collegio evidenzia che dall’esame del
contenuto delle due domande di permesso di costruire emerge
che correttamente l’amministrazione comunale ha ritenuto la
seconda istanza sostitutiva della precedente, sia in quanto
le domande sono riferite al medesimo bene, sia alla luce
delle tempistiche di presentazione (la seconda istanza
essendo stata, infatti, presentata a pochi giorni di
distanza dalla precedente), sia alla stregua della relativa
formulazione; nell’istanza presentata in data 12 aprile si
attesta, nello specifico, che l’intervento ha ad oggetto la
demolizione e ricostruzione dell’immobile “con annessa
realizzazione dei parcheggi pertinenziali al piano interrato
ed il conseguente aumento del 35% della volumetria esistente
da porre in sopraelevazione al solaio del piano terra” (la
seconda domanda, dunque, assorbe, superandola, anche la
prima istanza).
Come correttamente rilevato dalla difesa
dell’amministrazione comunale, pertanto, la formazione del
provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza è esclusa
dalla tempestiva adozione del provvedimento reiettivo
impugnato, tenuto conto della data di presentazione della
seconda istanza e degli effetti della notificazione, in data
17.04.2012, della comunicazione del preavviso di rigetto ex
art. 10-bis della l. n. 241 del 1990
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanatoria straordinaria di un’opera non
determina una alterazione della classificazione urbanistica
dell’area interessata.
Per giurisprudenza consolidata, infatti, il condono non ha
l’efficacia di abrogare o modificare la disciplina giuridica
del lotto; l’unico effetto del condono è, infatti, quello di
escludere l’applicazione delle sanzioni amministrative e
penali per le sole opere condonate.
---------------
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte
ricorrente, inoltre, la sanatoria straordinaria di un’opera
non determina una alterazione della classificazione
urbanistica dell’area interessata.
Per giurisprudenza consolidata (il che esime da citazioni
specifiche), infatti, il condono non ha l’efficacia di
abrogare o modificare la disciplina giuridica del lotto;
l’unico effetto del condono è, infatti, quello di escludere
l’applicazione delle sanzioni amministrative e penali per le
sole opere condonate
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione delle opere abusive
costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, sicché
non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto
destinatario.
In particolare, il procedimento repressivo degli abusi
edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge
speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la
previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto
finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 l. 241/1990 non costituisce vizio
dell'ordinanza di demolizione.
Come chiarito dall’univoca giurisprudenza, inoltre, per le
medesime ragioni l’ordinanza di demolizione costituisce atto
affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente
interesse al mantenimento in loco della res, giacché la
repressione dell'abuso corrisponde per definizione
all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi
sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente
nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella
constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio; nella fattispecie,
la descrizione delle opere contestate e le motivazioni alla
base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono
puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento
impugnato.
---------------
Il Collegio condivide l’indirizzo giurisprudenziale che pur
escludendo, in linea generale, che il tempo costituisca
fattore “ex se” sufficiente a legittimare la conservazione
di una situazione di fatto abusiva, attribuisce rilievo al
tempo decorso tra la realizzazione delle opere e la
contestazione della loro abusività in quelle fattispecie
nelle quali emergano circostanze specifiche ed ulteriori
idonee ad evidenziare la sussistenza di una posizione di
legittimo affidamento del privato.
---------------
Quanto alla
censurata violazione delle garanzie di partecipazione
procedimentale con riferimento alla posizione del Sig. Ar.Sa. Del Ve., il Collegio reputa
sufficiente evidenziare che l’ordine di demolizione delle
opere abusive costituisce atto dovuto e rigorosamente
vincolato, sicché non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (ex plurimis: TAR Campania
Napoli, sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 13.09.2005, n. 1537; TAR Puglia
Lecce, sez. III, 10.07.2004, n. 4974 e da ultimo, seppur
sotto altro profilo, Consiglio Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4827).
In particolare, il procedimento repressivo
degli abusi edilizi, in quanto integralmente disciplinato
dalla legge speciale e da questa rigidamente vincolato, non
richiede la previa comunicazione di avvio ai destinatari
dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio
del procedimento ex art. 7 l. 241/1990 non costituisce vizio
dell'ordinanza di demolizione.
Come chiarito dall’univoca giurisprudenza, inoltre, per le
medesime ragioni l’ordinanza di demolizione costituisce atto
affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente
interesse al mantenimento in loco della res, giacché la
repressione dell'abuso corrisponde per definizione
all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi
sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente
nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella
constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n.
5203); nella fattispecie, la descrizione delle opere
contestate e le motivazioni alla base dell’irrogazione della
sanzione demolitoria emergono puntualmente ed
inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
Il Collegio, infine, condivide l’indirizzo giurisprudenziale
che pur escludendo, in linea generale, che il tempo
costituisca fattore “ex se” sufficiente a legittimare la
conservazione di una situazione di fatto abusiva (in
termini, TAR Puglia Lecce, sez. III, 09.02.2011, n.
240), attribuisce rilievo al tempo decorso tra la
realizzazione delle opere e la contestazione della loro
abusività in quelle fattispecie nelle quali emergano
circostanze specifiche ed ulteriori idonee ad evidenziare la
sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del
privato; nella fattispecie oggetto di giudizio, tuttavia,
non emerge, per le ragioni esposte ai capi precedenti della
presente pronuncia, alcun legittimo affidamento da tutelare
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 4131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza maggioritaria ha più volte affermato che
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza
ingiuntiva della demolizione, ed opera di diritto e
automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la
conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza
all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione
in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari,
con l'ulteriore corollario che la sua notifica
all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa
dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
In tal senso, infatti, dispone l'art. 31, commi 3 e 4, del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, secondo cui “3. Se il responsabile
dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino
dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune.
L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente
costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente”.
La notifica all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza si configura, così, come adempimento
successivo, necessario ai diversi fini dell'immissione in
possesso e della trascrizione nei registri immobiliari; la
prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione
della demolizione; l'altra, in ossequio al regime di
pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per
poter opporre a terzi che abbiano acquistato diritti
sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 c.c., l'avvenuto
trasferimento in favore dell'Ente comunale.
La giurisprudenza anche di questa Sezione ha posto in
evidenza, tuttavia, come resti, comunque, ferma la necessità
del provvedimento di acquisizione. Ed invero la sanzione
della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine
di remissione in pristino, pur se definita come una
conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento
amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al
patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la
perimetrazione dell'area sottratta al privato.
---------------
Nel caso di specie deve evidenziarsi come, nonostante il
ricorrente non abbia eseguito il ripristino nel termine di
90 giorni dalla notifica dell'ordinanza di demolizione,
tuttavia l'Amministrazione comunale non si sia curata di
provvedere a verifiche in proposito, non avendo adottato i
conseguenti provvedimenti e, specificatamente né il
provvedimento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione
e né il provvedimento di acquisizione al patrimonio
comunale.
Ecco, allora, che il descritto iter, connotato da inerzia
procedimentale, addirittura per più anni, in netta
contraddizione con il necessario completamento del
procedimento sanzionatorio mediante lo sviluppo della fase
acquisitiva come prefigurata dalla sequenza procedimentale
prevista dalla legge, ha operato una cesura nell'ambito
della stessa, impedendo il consolidarsi in favore
dell'Amministrazione dell'effetto traslativo della
proprietà.
Ed infatti, se è pur vero che il passaggio della proprietà
in favore dell'Amministrazione opera di diritto, deve
tuttavia rilevarsi che il citato art. 31 prevede il
dispiegarsi del procedimento sanzionatorio secondo ben
precise fasi che non possono essere del tutto obliterate, in
quanto la loro totale omissione, non può non comportare
l'assoluta ambiguità della relativa attività amministrativa,
in violazione dei principi del contraddittorio
procedimentale, del buon andamento e della tutela
dell'affidamento della parte privata.
In tal senso deve rilevarsi che la notifica dell'atto di
accertamento dell'inottemperanza alla demolizione
costituisce comunque titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari, integrando
così un passaggio indefettibile ai fini del perfezionamento
dell'acquisto in favore dell'Amministrazione, che nella
fattispecie concreta è risultato del tutto omesso.
---------------
Circa l'istanza di condono proposta ai sensi del D.L.
30.09.2003 n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326,
all'art. 32 espressamente richiama l’applicazione di quanto
previsto nell'art. 39, comma 19, della legge n. 724/1994.
Quest'ultimo prevede che “per le opere abusive divenute
sanabili in forza della presente legge, il proprietario che
ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il
diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al
patrimonio comunale dell'area di sedime e delle opere sopra
questa realizzate disposte in attuazione dell'articolo 7,
terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la
cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico
registro immobiliare dietro esibizione di certificazione
comunale attestante l'avvenuta presentazione della domanda
di sanatoria”.
Deve pertanto ritenersi che il provvedimento favorevole
all’esito dell’istanza di condono possa avere l'effetto di
porre nel nulla, indistintamente, tutti gli atti
sanzionatori in precedenza adottati in relazione all'abuso
mentre, per converso, un suo diniego, non comporta l'onere
per il Comune di riattivare un procedimento sanzionatorio
ormai completamente definito.
Al riguardo il Collegio ritiene che il significato che
occorre riconoscere alla disposizione in commento è soltanto
quello di chiarire -normativamente- come non osti
all’accesso al condono l'intervento di un provvedimento che
abbia accertato la gratuita acquisizione del bene abusivo,
offrendo altresì al privato -che si sia avvalso di tale
facoltà- uno strumento per far emergere sul piano dei
rapporti proprietari (con i conseguenti riflessi sul piano
del regime di pubblicità immobiliare) la nuova situazione
determinatasi con la positiva presentazione dell'istanza di
condono.
---------------
La giurisprudenza penale consolidata ritiene che, in tema di
reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito dal giudice
con la sentenza di condanna, per la sua natura di sanzione
amministrativa applicata dall'autorità giudiziaria, non sia
suscettibile di passare in giudicato essendone sempre
possibile la revoca quando esso risulti assolutamente
incompatibile con i provvedimenti della p.a. che abbiano
conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano
sanato l'abusività.
Inoltre è il caso di ricordare come, secondo la costante
giurisprudenza della Cassazione, l’ordine di demolizione,
conseguente alla pronuncia di una sentenza penale
irrevocabile di condanna per illecito edilizio, costituisce
espressione di un potere dispositivo autonomo attribuito
dalla legge alla autorità giudiziaria, il quale può
eventualmente concorrere con quello omologo della P.A., onde
è il Pubblico Ministero competente ad eseguirlo, mentre è il
giudice dell'esecuzione che deve accertarne in sede di
incidente la compatibilità con eventuali atti che siano
stati emanati dalla autorità amministrativa.
---------------
Al riguardo, va rilevato che la giurisprudenza
maggioritaria ha più volte effettivamente affermato che
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza
ingiuntiva della demolizione (cfr. ex multis TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 03.02.2015 n. 751), ed opera
di diritto e automaticamente allo scadere del termine
stabilito, con la conseguenza che l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di
titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari, con l'ulteriore corollario che la
sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di
proprietà (TAR Napoli, sez. VII, 04.04.2014 n. 1969,
TAR Napoli, sez. VIII 26.03.2014 n. 1780).
In tal senso, infatti, dispone l'art. 31, commi 3 e 4, del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, secondo cui “3. Se il
responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque
essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente”.
La notifica all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza si configura, così, come adempimento
successivo, necessario ai diversi fini dell'immissione in
possesso e della trascrizione nei registri immobiliari; la
prima rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione
della demolizione; l'altra, in ossequio al regime di
pubblicità dei trasferimenti immobiliari, rilevante per
poter opporre a terzi che abbiano acquistato diritti
sull'immobile, ai sensi dell'art. 2644 c.c., l'avvenuto
trasferimento in favore dell'Ente comunale (TAR Napoli
sez. VII 10.01.2014 n. 159).
La giurisprudenza anche di questa Sezione, dalla quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, ha posto in evidenza,
tuttavia, come resti, comunque, ferma la necessità del
provvedimento di acquisizione. Ed invero la sanzione della
perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di
remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza
di diritto dall'art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001,
richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che
definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale
attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area
sottratta al privato (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 11.10.2011, n. 1540, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
05.05.2016, n. 2279 e 05.07.2017, n. 3631).
Nel caso di specie deve evidenziarsi come, nonostante il
ricorrente non abbia eseguito il ripristino nel termine di
90 giorni dalla notifica dell'ordinanza di demolizione,
tuttavia l'Amministrazione comunale non si sia curata di
provvedere a verifiche in proposito, non avendo adottato i
conseguenti provvedimenti e, specificatamente né il
provvedimento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione
e né il provvedimento di acquisizione al patrimonio
comunale.
Ecco, allora, che il descritto iter, connotato da inerzia
procedimentale, addirittura per più anni, in netta
contraddizione con il necessario completamento del
procedimento sanzionatorio mediante lo sviluppo della fase
acquisitiva come prefigurata dalla sequenza procedimentale
prevista dalla legge, ha operato una cesura nell'ambito
della stessa, impedendo il consolidarsi in favore
dell'Amministrazione dell'effetto traslativo della proprietà
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n.
2279 e 05.07.2017, n. 3631 cit.).
Ed infatti, se è pur vero che il passaggio della proprietà
in favore dell'Amministrazione opera di diritto, deve
tuttavia rilevarsi che il citato art. 31 prevede il
dispiegarsi del procedimento sanzionatorio secondo ben
precise fasi che non possono essere del tutto obliterate, in
quanto la loro totale omissione, non può non comportare
l'assoluta ambiguità della relativa attività amministrativa,
in violazione dei principi del contraddittorio
procedimentale, del buon andamento e della tutela
dell'affidamento della parte privata.
In tal senso deve rilevarsi che la notifica dell'atto di
accertamento dell'inottemperanza alla demolizione
costituisce comunque titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari, integrando
così un passaggio indefettibile ai fini del perfezionamento
dell'acquisto in favore dell'Amministrazione, che nella
fattispecie concreta è risultato del tutto omesso.
Ecco che allora non può non essere considerato che, nel caso
di specie, l'istanza di condono è stata proposta ai sensi
del D.L. 30.09.2003 n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326 che, all'art. 32, espressamente
richiama l’applicazione di quanto previsto nell'art. 39,
comma 19, della legge n. 724/1994.
Quest'ultimo prevede che “per le opere abusive divenute
sanabili in forza della presente legge, il proprietario che
ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il
diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al
patrimonio comunale dell'area di sedime e delle opere sopra
questa realizzate disposte in attuazione dell'articolo 7,
terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la
cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico
registro immobiliare dietro esibizione di certificazione
comunale attestante l'avvenuta presentazione della domanda
di sanatoria” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.12.2013, n. 5957).
Deve pertanto ritenersi che il provvedimento favorevole
all’esito dell’istanza di condono possa avere l'effetto di
porre nel nulla, indistintamente, tutti gli atti
sanzionatori in precedenza adottati in relazione all'abuso
mentre, per converso, un suo diniego, non comporta l'onere
per il Comune di riattivare un procedimento sanzionatorio
ormai completamente definito.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza
amministrativa formatosi in riferimento alla suddetta
disposizione normativa, ritiene che il significato che
occorre riconoscere alla disposizione in commento è soltanto
quello di chiarire -normativamente- come non osti
all’accesso al condono l'intervento di un provvedimento che
abbia accertato la gratuita acquisizione del bene abusivo,
offrendo altresì al privato -che si sia avvalso di tale
facoltà- uno strumento per far emergere sul piano dei
rapporti proprietari (con i conseguenti riflessi sul piano
del regime di pubblicità immobiliare) la nuova situazione
determinatasi con la positiva presentazione dell'istanza di
condono (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, 18.04.2013, n. 335).
Se è vero quanto sopra, deve conseguentemente ritenersi che
a maggior ragione nel caso di specie, nel quale, come detto,
il procedimento di acquisizione non è stato concluso da
parte del Comune di Caserta, non sussistevano ostacoli alla
presentazione dell’istanza di condono da parte del
ricorrente oltre 90 giorni dall’adozione del provvedimento
di demolizione, istanza di condono, peraltro, ritenuta
fondata e meritevole di accoglimento.
Né tali conclusioni sono inficiate dal passaggio in
giudicato della sentenza n. 444/96 del GIP della Pretura
Circondariale di Caserta, circostanza questa pure
rappresentata a fondamento del provvedimento impugnato,
laddove recita: “la posizione del sig. GI.Mi.
appare altresì pregiudicata dal passaggio in giudicato della
sentenza n. 444/96 che ordina la demolizione delle opere
abusive”.
Ed invero la giurisprudenza penale consolidata ritiene che
in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito
dal giudice con la sentenza di condanna, per la sua natura
di sanzione amministrativa applicata dall'autorità
giudiziaria, non sia suscettibile di passare in giudicato
essendone sempre possibile la revoca quando esso risulti
assolutamente incompatibile con i provvedimenti della p.a.
che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione
o ne abbiano sanato l'abusività (cfr. ex multis Cassazione
penale, sez. III, 21/11/2012, n. 3456, Sez. III, 18.01.2012, n. 25212, n. 253050; Sez. III, 24.03.2010, n.
24273, n. 247791; Sez. III, 26.09.2007, n. 38997,n.
237815; Sez. III, 11.05.2005, n. 37120, n. 232173; Sez. III, 19.11.1999, n. 3682, n. 215456; Sez. III,
07.03.1994, n. 712, n. 197611).
Inoltre è il caso di ricordare come, secondo la costante
giurisprudenza della Cassazione, l’ordine di demolizione,
conseguente alla pronuncia di una sentenza penale
irrevocabile di condanna per illecito edilizio, costituisce
espressione di un potere dispositivo autonomo attribuito
dalla legge alla autorità giudiziaria, il quale può
eventualmente concorrere con quello omologo della P.A., onde
è il Pubblico Ministero competente ad eseguirlo, mentre è il
giudice dell'esecuzione che deve accertarne in sede di
incidente la compatibilità con eventuali atti che siano
stati emanati dalla autorità amministrativa (cfr. Cassazione
penale, Sez. III, 18.01.2012, n. 25212 cit., Cass. Sez.
III, 17.10.2007, n. 42978).
Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che i
su illustrati profili di illegittimità abbiano una indubbia
valenza assorbente rispetto agli altri motivi di gravame,
sicché la fondatezza delle dedotte censure comporta
l’accoglimento del ricorso introduttivo e l’annullamento
dell’atto ivi impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione
gratuita ex art. 31, comma 3, dpr 380/2001 non rappresenta
un provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di
carattere sanzionatorio che consegue automaticamente
all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001,
l'effetto ablatorio si verifica ope legis all'inutile
scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione
di demolire, mentre, secondo quanto previsto dal successivo
comma 4, la notifica dell’accertamento formale
dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo
necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e
della trascrizione nei registri immobiliari (la prima
rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della
demolizione, la seconda, in omaggio al regime di pubblicità
dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre
ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai
sensi dell'art. 2644 cod. civ., l'avvenuto trasferimento in
favore dell'ente comunale).
---------------
L'’acquisizione al patrimonio del Comune dell'opera abusiva
e dell'area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo
le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege”
(ossia automaticamente, una volta decorso infruttuosamente
il termine di novanta giorni dalla notificazione
dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva).
Va tuttavia anche sottolineato che, mentre per l’area di
sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende
superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di
un’area ulteriore da acquisire (oltre a dover essere
precisata con apposite indicazioni relative all’estensione)
deve essere giustificata con l’esplicitazione delle opere
necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate
ad occupare l’intera zona di terreno che il Comune intende
acquisire.
---------------
In punto di diritto l’art. 31 del D.P.R.
n. 380 del 2001 al comma 3 prevede: “3. Se il
responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque
essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita.”.
Come la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha in
più occasioni ricordato, l’acquisizione gratuita non
rappresenta un provvedimento di autotutela, ma costituisce
una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di
demolizione.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001,
l'effetto ablatorio si verifica ope legis all'inutile
scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione
di demolire, mentre, secondo quanto previsto dal successivo
comma 4, la notifica dell’accertamento formale
dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo
necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e
della trascrizione nei registri immobiliari (la prima
rilevante, in particolare, per la concreta esecuzione della
demolizione, la seconda, in omaggio al regime di pubblicità
dei trasferimenti immobiliari, rilevante per poter opporre
ai terzi che abbiano acquistato diritti sull'immobile, ai
sensi dell'art. 2644 cod. civ., l'avvenuto trasferimento in
favore dell'ente comunale) (cfr. ex multis Cass. pen., sez.
III, 21.05.2009, n. 39075; 17.11.2009, n. 2912; 22.10.2010, n. 40924; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 24.03.2016, n. 1549 e 21.06.2013 n. 3251, TAR Campania,
sez. VII, 04.04.2014, n. 1969, TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
08.04.2011, n. 1999).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame
deve ritenersi, alla luce del contenuto del suddetto
provvedimento di acquisizione, che, come condivisibilmente
sostenuto da parte ricorrente, tale provvedimento non può
ritenersi consequenziale all’ordine di demolizione n. 120
dell’08.09.2004, depositato in giudizio dal Comune di
Sant’Arpino, ed alla relativa inottemperanza, espressamente
richiamati nel medesimo provvedimento impugnato, in quanto
non dispone l’acquisizione gratuita in riferimento alle
opere oggetto dell’ordinanza di demolizione.
Ed infatti non
si limita fare riferimento all’immobile “accertato alla data
del sopralluogo” a seguito del quale è stata emessa
l’ordinanza di demolizione ma, facendo riferimento
all’immobile “nello stato di fatto in cui ora si trova”,
estende l’acquisizione gratuita stessa anche alle opere
oggetto del permesso di costruire in sanatoria annullato in
autotutela, opere in riferimento alle quali non era stata
previamente ingiunta la demolizione.
Pertanto, il
provvedimento di acquisizione deve ritenersi
illegittimamente adottato.
Inoltre, ferma restando tale risolutiva circostanza, deve
altresì ritenersi fondata la censura con la quale parte
ricorrente lamenta la mancata indicazione precisa e puntuale
dell’area da acquisire di diritto al patrimonio comunale.
Ed invero, al riguardo, se va ribadito che l’acquisizione al
patrimonio del Comune dell'opera abusiva e dell'area di
sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, si verifica “ex lege” (ossia
automaticamente, una volta decorso infruttuosamente il
termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza
di demolizione della costruzione abusiva), va tuttavia anche
sottolineato che, mentre per l’area di sedime l’automatismo
dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione
sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da
acquisire (oltre a dover essere precisata con apposite
indicazioni relative all’estensione) deve essere
giustificata con l’esplicitazione delle opere necessarie ai
fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare
l’intera zona di terreno che il Comune intende acquisire
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 24.03.2016, n.
1549 e TAR Napoli, Sezione VII, 04.04.2014, n. 1969
cit.).
Nel caso di specie nell’ordinanza settoriale n. 36 del 18.05.2016 è stata disposta l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale “dell’area di sedime e di quella
circostante” e, conseguentemente, alla luce della rilevata
indeterminatezza dell’area interessata e dell’omessa
motivazione in merito all’acquisizione di un’area ulteriore
rispetto a quella di sedime, il provvedimento impugnato deve
ritenersi illegittimo.
Conclusivamente, alla luce dei su illustrati motivi, il
ricorso deve essere accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Costituisce ius receptum che, nel caso in cui il provvedimento
amministrativo sia sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, è sufficiente a sorreggere la legittimità
dell’atto la fondatezza anche di una sola di esse.
Inoltre nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d.
provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza
volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici
comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.
---------------
Costituisce, infatti, ius receptum che,
nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto
da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, è
sufficiente a sorreggere la legittimità dell’atto la
fondatezza anche di una sola di esse.
Inoltre nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d.
provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza
volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici
comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente (cfr. TAR
Campania Napoli, Sez. VIII, 25.09.2016, n. 3854, 29.05.2015, n. 2791, Sez. VII, 14.01.2011,
n. 164)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Amministrazione comunale, cui è rimessa sul
piano istruttorio la delibazione di conformità urbanistica
di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l'altro, che
esista un titolo idoneo per eseguire le opere, che assurge a
presupposto di legittimità sia degli interventi che
implicano il rilascio del permesso di costruire sia di
quelli, come nel caso di specie, il cui titolo edilizio sia
richiesto in sanatoria.
È pur vero che la giurisprudenza amministrativa esclude
l'esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l'immobile e, soprattutto in passato, era
prevalentemente orientata nel senso che il parametro
valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia
fosse solo quello dell'accertamento della conformità
dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la
realizzazione, salvi i diritti dei terzi, senza che la
mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche
modo incidere sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente la giurisprudenza amministrativa,
ha avuto occasione di precisare che la necessaria
distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli
pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di
rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra
i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente
contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli
edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di
verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo
titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto
di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività
istruttoria che non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in
ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati,
ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare
il requisito della legittimazione del richiedente.
Ha, pertanto, concluso nel senso che, in caso di opere che
vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è
legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere
manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior
ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento progettato, la
scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere
(in base al mero riscontro della conformità agli strumenti
urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e
motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva
corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento.
---------------
Analizzando il secondo motivo di diniego, occorre
evidenziare che l’Amministrazione comunale, cui è rimessa
sul piano istruttorio la delibazione di conformità
urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra
l'altro, che esista un titolo idoneo per eseguire le opere,
che assurge a presupposto di legittimità sia degli
interventi che implicano il rilascio del permesso di
costruire sia di quelli, come nel caso di specie, il cui
titolo edilizio sia richiesto in sanatoria (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 05.11.2014, n. 5667).
È pur vero che la giurisprudenza amministrativa esclude
l'esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l'immobile e, soprattutto in passato, era
prevalentemente orientata nel senso che il parametro
valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia
fosse solo quello dell'accertamento della conformità
dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la
realizzazione, salvi i diritti dei terzi, senza che la
mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche
modo incidere sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente la giurisprudenza amministrativa
(cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sezione V, 15.03.2001, n. 1507 e 21.10.2003, n. 6529; TAR Campania,
Sezione II, 29.03.2007 n. 2902), ha avuto occasione di
precisare che la necessaria distinzione tra gli aspetti
civilistici e quelli pubblicistici dell'attività
edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di
significativi punti di contatto tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente
contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli
edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di
verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo
titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto
di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività
istruttoria che non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in
ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati,
ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare
il requisito della legittimazione del richiedente.
Ha,
pertanto, concluso nel senso che, in caso di opere che
vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è
legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere
manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior
ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento progettato, la
scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere
(in base al mero riscontro della conformità agli strumenti
urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e
motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva
corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento (TAR Napoli, Sez. II,
07.06.2013, n. 3019)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto.
---------------
L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e
rigorosamente vincolato, non necessita di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed
attuale alla rimozione delle opere abusivamente realizzate,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, non solo
non incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai
potrebbe legittimare.
---------------
Il ricorso è infondato e, in quanto tale, va
respinto.
Con il primo motivo di ricorso Ra.Pa. ha
dedotto le seguenti censure: violazione di legge, violazione
e falsa applicazione degli artt. 7, 8 e 10 della legge n.
241/1990, eccesso di potere per presupposti inesistenti,
illegittimità derivata per omessa comunicazione di avvio del
procedimento.
Il motivo è infondato.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo
giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di
discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto (cfr., ex multis, TAR Napoli,
Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538 e 07.01.2015 n. 44;
Consiglio di Stato, VI Sezione 29.11.2012 n. 6071;
Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012 n. 4945;
Consiglio di Stato, IV Sezione 10.08.2011, n. 4764;
Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403;
Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente ha
dedotto le seguenti censure: violazione degli artt. 2 e 3
della legge n. 241/1990, difetto di istruttoria, difetto di
motivazione, eccesso di potere per violazione del principio
dell’affidamento.
Parte ricorrente, pur riconoscendo che trattasi di
provvedimento vincolato, lamenta che, avendo
l’amministrazione comunale intimata adottato il
provvedimento impugnato a notevole distanza di tempo dalla
realizzazione delle opere abusive ad egli contestate, il
provvedimento necessitasse di una congrua motivazione in
ordine all’interesse pubblico, in considerazione
dell’affidamento ingenerato dal comportamento
dell’amministrazione stessa.
Il motivo è infondato.
Ed invero, secondo la condivisibile giurisprudenza
amministrativa prevalente, l'ordinanza di demolizione, in
quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita
di una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico concreto ed attuale alla rimozione delle opere
abusivamente realizzate, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, non solo non incolpevole, ma che il decorso del
tempo giammai potrebbe legittimare (Consiglio Stato V
Sezione, 11.01.2011, n. 79; Consiglio Stato IV Sezione
31.08.2010 n. 3955; TAR Campania, Napoli, Sezione VII,
03.11.2010 n. 22291, Sezione VI, 03.12.2010 n.
26797, Sezione VII, 14.01.2011, n. 160, Sezione VIII, 07.01.2015, n. 44 cit.).
In proposito, va altresì evidenziato come il mero decorso di
un notevole lasso di tempo non potrebbe in qualche modo
giustificare il mantenimento delle opere qui in questione,
non essendo suscettibile di decadenza il potere della P.A.
in tema di vigilanza sull'assetto del territorio (cfr. TAR
Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538 cit., 04.09.2015, n. 4315 e
05.03.2015 n. 1398) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La incontestata realizzazione di nuovi volumi e
nuove superfici abitabili, unitamente alla descrizione
dell’abuso, rendono la motivazione del provvedimento
impugnato perfettamente comprensibile dall’interessato,
senza che, quindi, l’eventuale mancata indicazione delle
norme violate possa inficiare la motivazione dell’atto
impugnato.
---------------
Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce altresì la violazione e falsa applicazione degli
artt. 2 e 3 della legge n. 241/1990 e il difetto assoluto di
motivazione e di istruttoria in quanto dal testo del
provvedimento impugnato non si evincerebbe il potere di cui
ha fatto uso il Comune di Portico di Caserta.
Ad avviso di parte ricorrente non sarebbe chiara la
normativa applicata ai fini della demolizione.
Quanto alla mancata indicazione delle norme urbanistiche
violate, la condivisibile giurisprudenza di questo Tribunale
ha chiarito che la incontestata realizzazione di nuovi
volumi e nuove superfici abitabili, unitamente alla
descrizione dell’abuso, rendono la motivazione del
provvedimento impugnato perfettamente comprensibile
dall’interessato, senza che, quindi, l’eventuale mancata
indicazione delle norme violate possa inficiare la
motivazione dell’atto impugnato (TAR Napoli, Sez. IV, 15.01.2015, n. 259).
Quanto al potere esercitato dal Comune di Portico di
Caserta, l’ordinanza di demolizione impugnata risulta
adottata ai sensi della legge n. 47/1985.
Al riguardo deve ritenersi che la legge n. 47 del 1985
risulti correttamente richiamata in quanto applicabile
ratione temporis alla data di adozione del provvedimento
impugnato, tenuto conto che il D.P.R. 06.06.2001, n. 380
è entrato in vigore il 30.06.2003. Ciò in quanto il
termine del 01.01.2002, previsto dall’art. 138 -Entrata in vigore del testo unico- è stato prima prorogato
al 30.06.2002 dall’art. 5-bis, comma 1, del D.L. 23.11.2001, n. 411, convertito dalla L. 31.12.2001,
n. 463 e, successivamente, al 30.06.2003 dall'art. 2,
comma 1, del D.L. 20.06.2002, n. 122, convertito, con
modificazioni, dall'art 1, comma 1, della L. 01.08.2002,
n. 185.
Pertanto deve ritenersi che l’Amministrazione intimata abbia
legittimamente operato in base alle disposizioni della
citata legge che prevedevano il potere sanzionatorio della
p.a. sotto forma di demolizione delle edificazioni
realizzate abusivamente (cfr. TAR Napoli, Sez. VI, 10.05.2013,
n. 2437)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un piano interrato rientra
tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio per i quali è necessario il permesso di
costruire, trattandosi pur sempre di intervento in relazione
al quale l'autorità amministrativa deve svolgere il proprio
controllo sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie,
anche tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare
assetto e sviluppo del territorio.
---------------
Con il quarto motivo di ricorso il Ra. ha dedotto
le seguenti censure: violazione e falsa applicazione
dell’art. 7 della legge n. 9/1982, della legge n. 122/1989,
degli artt. 7 e 10 della legge n. 47/1985 e della legge
regione Campania n. 14/1982, eccesso di potere per
presupposti inesistenti.
Ad avviso di parte ricorrente dal combinato disposto della
normativa richiamata si desumerebbe che sarebbero soggette a
concessione edilizia le sole opere che comportano la
trasformazione del territorio, con creazione di volumetria e
di superfici utili; i locali interrati non destinati alla
residenza e privi di una loro particolare autonomia non
sarebbero soggetti a concessione edilizia.
In particolare le opere eseguite da egli ricorrente,
consistenti in un locale completamente interrato privo di
luce, una tettoia di ferro con appoggiata una lamiera ed una
scala di accesso al locale interrato, si configurerebbero
come opere prive di rilevanza urbanistica, aventi natura
pertinenziale e, quindi, sottratte al regime concessorio e
soggette, invece, al regime autorizzatorio di cui all’art.
10 della legge n. 47/1985 che ha previsto, per le opere
realizzate in assenza di autorizzazione, una mera misura
pecuniaria.
Il motivo è infondato.
Ed invero, in disparte le previsioni di specifiche
disposizioni normative, oggetto di stretta interpretazione,
la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha chiarito
che la realizzazione di un piano interrato rientra tra gli
interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio per i quali è necessario il permesso di
costruire, trattandosi pur sempre di intervento in relazione
al quale l'autorità amministrativa deve svolgere il proprio
controllo sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie,
anche tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare
assetto e sviluppo del territorio (TAR Sicilia, Palermo,
Sez. III, 25.01.2012, n. 164, TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 30.08.2012, n. 7396)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In urbanistica ed edilizia la nozione di
pertinenza è meno ampia di quella definita dall'art. 817
c.c.; secondo la condivisibile giurisprudenza la nozione di
pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la
differenziano da quella civilistica dal momento che il
manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva
esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito
al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo
valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto
rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d.
carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo
accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza
sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento
del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a
permesso di costruire.
Ed invero la qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie
rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et
similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non
siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne
risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
---------------
Né può ritenersi fondato il riferimento di parte ricorrente
alla possibilità di qualificare le opere oggetto di
contestazione quali opere pertinenziali, al fine di ritenere
irrilevanti i relativi volumi.
Ed invero in urbanistica ed edilizia la nozione di
pertinenza è meno ampia di quella definita dall'art. 817
c.c.; secondo la condivisibile giurisprudenza la nozione di
pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la
differenziano da quella civilistica dal momento che il
manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva
esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito
al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo
valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto
rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d.
carico urbanistico (cfr. ex multis TAR Catania n.
4564/2010), sicché gli interventi che, pur essendo accessori
a quello principale, incidono con tutta evidenza
sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento
del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a
permesso di costruire (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 245
e n. 429 del 10.03.2011; TAR Campania Napoli, Sez. VI,
n. 26788/2010).
Ed invero la qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie
rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et
similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non
siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne
risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica
(cfr. anche Cons. St., Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952; Sez. V, 12.02.2013, n.
817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, TAR Campania
Napoli, Sez. VIII, 30.05.2017, n. 2870).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame
alla luce della sopra chiamata giurisprudenza, occorre
innanzitutto evidenziare che parte ricorrente ha solo
apoditticamente dedotto ma non ha provato, come era sua
onere, trattandosi di prova rientrante nella sua piena
disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a., la natura
pertinenziale delle opere oggetto di contestazione.
Il Collegio ritiene, comunque, che le opere per cui è causa,
analiticamente descritte nell’ordinanza di demolizione, non
possano avere natura pertinenziale già solo per le loro
dimensioni richiamate nell’ordinanza stessa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio, condividendo l’orientamento della
giurisprudenza costante in materia, ritiene che
l'assegnazione di un termine più breve di quello prescritto
dall'art. 7 della legge n. 47/1985 per provvedere alla
rimozione delle opere abusivamente realizzate si risolva in
una violazione meramente formale, non lesiva per
l'interessato, che conserva comunque un termine non
inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione.
---------------
Con il quinto motivo di ricorso sono state inoltre dedotte
le seguenti censure: violazione e falsa applicazione
dell’art. 7 della legge n. 47/1985, violazione del giusto
procedimento, illegittimità derivata.
Parte ricorrente lamenta che illegittimamente il
provvedimento impugnato avrebbe previsto un termine
inferiore a quello stabilito dalla citata disposizione
normativa (15 giorni dalla notifica rispetto ai 90 giorni
previsti dalla norma rubricata).
Al riguardo il Collegio, condividendo l’orientamento della
giurisprudenza costante in materia, ritiene che
l'assegnazione di un termine più breve di quello prescritto
dall'art. 7 della legge n. 47/1985 per provvedere alla
rimozione delle opere abusivamente realizzate si risolva in
una violazione meramente formale, non lesiva per
l'interessato, che conserva comunque un termine non
inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione
(cfr. TAR Lazio, Roma, Sezione II-bis, 10.05.2010, n.
10573, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 31.01.2008, n.
430, Consiglio Stato, Sez. V, 24.02.2003, n. 986).
Alla luce di quanto sopra il quinto motivo di
ricorso, in quanto infondato, non può essere accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ingiunzione di demolizione, prevista dall'art.
7, comma 2, della legge n 47 del 1985, deve contenere
l'accertamento dell'esecuzione delle opere abusive e il
conseguente ordine di demolizione; non è necessario, invece,
che precisi quali siano le conseguenze per il caso della sua
inosservanza, né tanto meno che identifichi l'area
destinata, in tale caso, ad acquisizione gratuita.
Ciò in quanto indicazione dell'area da acquisire è elemento
essenziale non dell'ordinanza di demolizione, ma del diverso
provvedimento di accertamento della mancata ottemperanza, ai
sensi dell'art. 7 della L. n. 47 del 1985.
---------------
Con il sesto motivo di ricorso parte ricorrente
deduce l’ulteriore violazione e falsa applicazione della
normativa di cui al quinto motivo di ricorso e la violazione
del giusto procedimento.
Parte ricorrente lamenta che l’ordinanza di demolizione non
avrebbe individuato in modo dettagliato le opere e le aree
da acquisire in caso di inottemperanza.
Il rilievo non può essere condiviso. Ed invero la doglianza
relativa alla mancata individuazione in dettaglio delle
opere contestate deve ritenersi infondata in fatto in quanto
nell’ordinanza di demolizione il Comune intimato ha
analiticamente indicato le opere eseguite dal ricorrente, in
assenza della concessione edilizia, sulle aree distinte in
catasto al foglio 2, particelle n. 529/i e n. 155/e,
consistenti nella “realizzazione di un piano interrato in cls armato di ingombro pari a mt. 18,90 x mt. 11,00 x h mt. 4,45
(estradosso proprio solaio copertura), diviso in due locali
e di un piano terra con struttura verticale ed orizzontale
in ferro di dimensioni mt. 12,30 x mt. 11,00 x mt. (h media)
coperto direttamenteda lamiere grecate coibentate nonché un
vano scala di accesso dal piano terra al piano interrato in
angolo sud-est del lotto;”.
In ordine all’ulteriore censura, si ricorda l’insegnamento
della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, alla luce del
quale l'ingiunzione di demolizione, prevista dall'art. 7,
comma 2, della legge n 47 del 1985, deve contenere
l'accertamento dell'esecuzione delle opere abusive e il
conseguente ordine di demolizione; non è necessario, invece,
che precisi quali siano le conseguenze per il caso della sua
inosservanza, né tanto meno che identifichi l'area
destinata, in tale caso, ad acquisizione gratuita (TAR
Sicilia Palermo Sez. II, 08.01.2014, n. 11, Consiglio di
Stato, sez. V, 26/01/2000 n. 341). Ciò in quanto indicazione
dell'area da acquisire è elemento essenziale non
dell'ordinanza di demolizione, ma del diverso provvedimento
di accertamento della mancata ottemperanza, ai sensi
dell'art. 7 della L. n. 47 del 1985 (Cons. Stato Sez. IV,
25.09.2014, n. 4809 e n. 4659 del 2008).
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso
deve essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.08.2017 n. 4121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria la questione concernente
l’interpretazione del comma 1, lett. g), dell’art. 67 del
Codice delle leggi antimafia
---------------
Contributi e finanziamenti – Art. 67, comma 1, lett. g),
d.lgs. n. 159 del 2011 – Divieto di percepire benefici
economici per i soggetti destinatari di interdittiva
antimafia – Estensione del divieto a somme dovute a titolo
risarcitorio per effetto di giudicato successivo all’interdittiva
antimafia – Deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato
Vanno rimessi all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
a) se il comma 1, lettera g), dell’art. 67 del ‘Codice delle
leggi antimafia’ (secondo cui “le persone alle quali sia
stata applicata con provvedimento definitivo una delle
misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo
II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o
mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo,
comunque denominate, concessi o erogati da parte dello
Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per
lo svolgimento di attività imprenditoriali”) osti a che
possano essere erogate da una pubblica amministrazione -sia
pure in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna
resa dal giudice amministrativo- somme di danaro, spettanti
a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto
che sia stato attinto prima della definizione del giudizio
risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia,
conosciuta solo successivamente alla formazione del
giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il
giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni
caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la
somma accertata come spettante;
b) se la previsione di cui al comma 1, lettera g) dell’art.
67 (laddove espressamente richiama “altre erogazioni dello
stesso tipo”), possa essere intesa anche nel senso di
precludere il versamento in favore dell’impresa di somme
dovute a titolo risarcitorio in relazione a una vicenda
sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un
appalto (1)
---------------
(1) I.- Con l’ordinanza in epigrafe, la quinta sezione del
Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria, ai sensi
dell’art. 99 c.p.a., la questione concernente l’efficacia
preclusiva dell’interdittiva antimafia in presenza di un
giudicato di condanna al pagamento di somme di denaro a
titolo risarcitorio, qualora il fatto impeditivo del
pagamento non sia stato eccepito nel giudizio risarcitorio
in quanto conosciuto dall’ente debitore solo successivamente
al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
E’ accaduto in fatto che una società, in conseguenza della
mancata aggiudicazione di una gara di appalto cui aveva
partecipato, si vedeva accogliere la domanda risarcitoria
per il mancato utile ed il danno all’immagine,
successivamente quantificati in sede giurisdizionale, con
sentenza passata in giudicato, stante la mancata offerta da
parte del Comune soccombente, ai sensi dell’art. 35 del
decreto legislativo n. 80 del 1998, secondo quanto disposto
in sentenza.
Avendo la società agito per l’esecuzione della sentenza del
Consiglio di Stato recante la definitiva quantificazione
della somma dovuta a titolo risarcitorio, il Comune
resistente eccepiva in giudizio l’impossibilità del
pagamento a motivo dell’esistenza di una interdittiva
antimafia, solo successivamente conosciuta al momento in cui
si era reso necessario procedere al pagamento della somma,
una volta definitivamente quantificata in sede
giurisdizionale.
II. - A fronte del disposto di cui al comma 1, lettera g),
dell’art. 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’ (secondo cui
“le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento
definitivo una delle misure di prevenzione previste dal
libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g)
contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre
erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi
o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o
delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività
imprenditoriali”), la sezione si è pertanto posta
l’interrogativo se la previsione in questione osti a che,
sia pur in esecuzione di una pronuncia definitiva di
condanna resa dal giudice amministrativo (o da un qualsiasi
altro giudice, di cui venga chiesta l’ottemperanza in un
giudizio amministrativo), possano essere erogate da una
pubblica amministrazione somme di danaro, spettanti a titolo
di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia
stato attinto prima della definizione del giudizio
risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia,
conosciuta solo successivamente alla formazione del
giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il
giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni
caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la
somma accertata come spettante.
A tal riguardo ha evidenziato:
a) l’irrilevanza della pronuncia resa inter partes che ha
escluso la configurabilità di un vizio revocatorio della
sentenza recante la condanna risarcitoria (giudizio proposto
dal Comune, successivamente alla notizia della esistenza di
una interdittiva antimafia taciuta dalla controparte, ai
sensi dell’articolo 395 c.p.c., n. 1, –dolo processuale di
una parte nei confronti dell’altra– e n. 3 – rinvenimento
di documenti decisivi che non era stato possibile produrre
in giudizio per causa di forma maggiore). Ciò in quanto la
questione sollevata non concerne tanto l’an della pretesa
risarcitoria, quanto la concreta eseguibilità della sentenza
di condanna in sede di ottemperanza;
b) l’ininfluenza del carattere risalente dell’interdittiva
(datata 19.07.2013) sulla scorta di un consolidato (e
condiviso) principio, per cui il comma 2 dell’articolo 86
del ‘Codice delle leggi antimafia’ deve essere interpretato
nel senso che il decorso del termine annuale non priva di
validità (o di efficacia) l’interdittiva, in quanto
l’amministrazione è tenuta ad emettere una informativa
liberatoria nei confronti dell’impresa solo laddove
sopraggiungano elementi nuovi, capaci di smentire o,
comunque, di superare gli elementi che hanno giustificato
l’emissione del provvedimento interdittivo (cfr. Cons.
Stato, sez. III, n. 4121 del 2016 in Guida al dir., 2016,
fasc. 44, 94, con nota di MASARACCHIA), tenuto conto che nel
caso di specie alcuna liberatoria era stata adottata;
c) quanto al principio di intangibilità del giudicato, pur
precisando che i vincoli e le preclusioni di cui
all’articolo 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’, a
rigore, non incidono direttamente sul vincolo nascente del
giudicato in quanto tale, bensì piuttosto sulle modalità di
esercizio in executivis delle pretese dallo stesso
rinvenienti, ciò non dimeno osserva la sezione che occorre
chiarire se il giudicato formale, in qualsiasi modo
formatosi, impedisca in ogni caso all’amministrazione di
sottrarsi agli obblighi da esso nascente di corrispondere
una somma di danaro a titolo risarcitorio ad un soggetto
attinto da un’informativa interdittiva antimafia mai entrata
nella dialettica processuale, anche se precedente alla
formazione del giudicato, oppure se le finalità e la ratio
dell’informativa interdittiva antimafia diano vita ad una
situazione di incapacità legale ex lege che produca la
corrispondente sospensione temporanea dell’obbligo per
l’amministrazione di eseguire quel giudicato.
III.- Per completezza si segnala, in materia di effetti del
giudicato e possibili cause impeditive della esecuzione:
d) Cons. Stato, Ad. plen., 09.06.2016, n. 11 (oggetto
della
News US in data 24.06.2016, nonché in Foro it.,
2017, III, 186, con note di TRAVI e VACCARI, cui si rinvia
per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), che
ha approfondito il rapporto fra giudicato amministrativo di
legittimità e sopravvenienze, distinguendo fra situazioni
giuridiche istantanee e di durata;
e) Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 (oggetto
della
News US in data 16.05.2017), che ha ulteriormente
chiarito i presupposti e le conseguenze della impossibilità
di eseguire un giudicato c.d. di spettanza.
IV.– La V sezione pone un ulteriore quesito all’Adunanza
Plenaria circa la portata dell’art. 67 del Codice delle
leggi antimafia e, in particolare, se la previsione di cui
al comma 1, lettera g) (laddove espressamente richiama
“altre erogazioni dello stesso tipo”), possa essere intesa
anche nel senso di precludere il versamento in favore
dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in
relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal
mancato affidamento) di un appalto. Al riguardo prospetta
due possibili interpretazioni:
f) di carattere letterale - ritenuta maggiormente
compatibile con il carattere evidentemente afflittivo della
disposizione in esame - la quale condurrebbe ad escludere
che il risarcimento del danno presenti una eadem ratio
rispetto “[ai] contributi, finanziamenti o mutui agevolati”
di cui è menzione nell’ambito della stessa lettera g);
g) di carattere logico–sistematica -capace cioè di
valorizzare la funzione dalla norma e l’obiettivo con essa
perseguito di contrasto a fenomeni di criminalità su base
associativa- la quale indurrebbe a ritenere che il
‘catalogo’ delle ipotesi di cui alla lettera g) sia ‘aperto’
e che la locuzione “altre erogazioni dello stesso tipo”,
lungi dal ‘chiudere’ l’elencazione, presenterebbe piuttosto
una valenza –per così dire– ‘pan-tipizzante’, volta cioè
ad impedire nella sostanza l’erogazione di qualunque utilità
di fonte pubblica in favore dell’impresa in odore di
condizionamento malavitoso, a prescindere dalla fonte e dal
tipo di tale utilità.
La sezione opta chiaramente per la seconda tesi
interpretativa, sulla scorta dell’insegnamento dall’Adunanza
plenaria che con la decisione 05.06.2012, n. 9 (in Giur.
it., 2012, 2410 (m), con nota di MAMELI; Giornale dir. amm.,
2012, 1209 (m), con nota di LUPO; Riv. nel diritto, 2013,
1153, con nota di LEONARDI), ha già esteso la portata
preclusiva dell’articolo 67 alle erogazioni aventi matrice
indennitaria, e prospetta come praticabile la strada di
utilizzare i medesimi argomenti di carattere
logico-sistematico al fine di precludere altresì le
erogazioni pubbliche aventi carattere risarcitorio.
V.- Sulle interdittive antimafia si segnala, per
completezza:
h) Cons. Stato, sez. III, 03.05.2016, n. 1743 (oggetto
della
News US in data
04.05.2016) che ha individuato i
principi e criteri cui devono attenersi gli Uffici
territoriali del Governo in sede di emanazione delle
informative;
i) Cons. Stato, sez. III, 22.06.2016, n. 2774, sulle
c.d. interdittive a cascata;
j) Tar per la Sicilia, sezione staccata di Catania,
ordinanza 28.09.2016, n. 2337 (oggetto della
News US
in data 04.10.2016) che ha sollevato la q.l.c. dell’art.
89-bis del Codice delle leggi antimafia;
k) Cons. Stato, sez. I, parere 17.11.2015, n. 497/15
(in Foro it., 2016, III, 210, con nota di D’ANGELO cui si
rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza) che ha definito la differenza fra
comunicazione antimafia, informativa antimafia ed effetti
interdittivi;
l) Cons. Stato, Ad. plen., ordinanze 19.11.2012 n. 34
e 24.09.2012, n. 33 (in Foro it., 2013, III, 5, con nota di
TRAVI cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento) che
hanno analizzato, sia pure nell’ottica del regolamento di
competenza, la distinzione fra informativa antimafia c.d.
tipica e atipica (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 28.08.2017
n. 4078
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria se il comma 1, lett. g), dell’art. 67
del Codice delle leggi antimafia preclude il risarcimento
del danno dovuto a soggetto attinto, prima della definizione
del giudizio, da informativa interdittiva antimafia.
---------------
Informativa antimafia – Contributi e finanziamenti –
Elargizione – Art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del
2011 – Divieto a soggetti ai quali è stata applicata con
provvedimento definitivo una misura di prevenzione prevista
dal libro I, titolo I, capo II – Estensione del divieto a
somme dovute a titolo risarcitorio per effetto di giudicato
– Giudicato formatosi dopo l’informativa interdittiva
antimafia – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato.
Deve essere rimessa all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato -in relazione alla massima
importanza che riveste la questione, che può dar luogo anche
a contrasti di giurisprudenza- se il comma 1, lett. g),
dell’art. 67 del Codice delle leggi antimafia, approvato con
d.lgs. 06.09.2011, n. 159 (secondo cui “le persone alle
quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una
delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I,
capo II non possono ottenere: (…) g) contributi,
finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello
stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da
parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità
europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”)
osti a che, sia pur in esecuzione di una pronuncia
definitiva di condanna resa dal giudice amministrativo (o da
un qualsiasi altro giudice, di cui venga chiesta
l’ottemperanza in un giudizio amministrativo), possano
essere erogate da una Pubblica amministrazione somme di
danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in
favore di un soggetto che sia stato attinto, prima della
definizione del giudizio risarcitorio, da un’informativa
interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla
formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso,
ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi,
obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a
corrispondere la somma accertata come spettante (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che la questione controversa involge
almeno due questioni interpretative e cioè: a) se la
previsione di cui al comma 1, lett. g), dell’art. 67, d.lgs.
06.09.2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia) possa
essere intesa anche nel senso di precludere il versamento in
favore dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in
relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal
mancato affidamento) di un appalto; b) se osti a tale
prospettazione il generale principio dell’intangibilità
della cosa giudicata.
Quanto al primo aspetto, la problematica risiede nel fatto
che la previsione normativa espressamente richiama “altre
erogazioni dello stesso tipo”, concetto generale, ed al
tempo stesso generico, che non consente di stabilire con
ragionevole certezza se vi rientri anche un credito di
natura risarcitorio, definitivamente accertato in sede
giurisdizionale.
Ha chiarito la Sezione che se da un lato un’interpretazione
di carattere letterale (compatibile con il carattere
evidentemente afflittivo della disposizione in esame)
condurrebbe ad escludere che il risarcimento del danno
presenti una eadem ratio rispetto “[ai]
contributi, finanziamenti o mutui agevolati” richiamati
nella stessa lett. g), d’altro lato un’interpretazione
logico–sistematica (capace di valorizzare la funzione dalla
norma e l’obiettivo con essa perseguito di contrasto a
fenomeni di criminalità su base associativa) dovrebbe
condurre a ritenere che il ‘catalogo’ delle ipotesi
di cui alla lett. g) sia ‘aperto’ e che la locuzione
“altre erogazioni dello stesso tipo”, lungi dal ‘chiudere’
l’elencazione, presenti piuttosto una valenza ‘pan-tipizzante’,
volta ad impedire nella sostanza l’erogazione di qualunque
utilità di fonte pubblica in favore dell’impresa in odore di
condizionamento malavitoso, a prescindere dalla fonte e dal
tipo di tale utilità.
La Sezione ha quindi richiamato le statuizioni rese dall’Adunanza
plenaria, con la sentenza 05.06.2012, n. 19, con
riferimento art. 4, d.lgs. 29.10.1994, n. 490 (coincidente
con l’art. 67 del Codice delle leggi antimafia) ed ha
concluso nel senso che le argomentazioni addotte dall’Alto
consesso, al fine di estendere le portata preclusiva
dell’art. 67 alle erogazioni avente matrice indennitaria,
ben possono essere utilizzati per precludere le erogazioni
pubbliche, ancorché aventi carattere risarcitorio.
Altro problema è poi se l’eventuale interpretazione “estensiva”
dell’art. 67, volta cioè ad intendere le preclusioni ivi
previste nel senso di impedire la concreta erogazione di
somme a titolo risarcitorio, sia pure sulla base di un
giudicato di condanna, siano di per sé compatibili con il
generale principio dell’intangibilità della cosa giudicata e
quindi se il giudicato formale, in qualsiasi modo formatosi,
impedisca in ogni caso all’amministrazione di sottrarsi agli
obblighi da esso nascente di corrispondere una somma di
danaro a titolo risarcitorio ad un soggetto attinto da
un’informativa interdittiva antimafia mai entrata nella
dialettica processuale oppure se le finalità e la ratio
dell’informativa interdittiva antimafia diano vita ad una
situazione di incapacità legale ex lege
(tendenzialmente temporanea e capace di venir meno con un
successivo provvedimento dell’autorità prefettizia) che
produca la corrispondente sospensione temporanea
dell’obbligo per l’amministrazione di eseguire quel
giudicato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 28.08.2017 n. 4078
- commento tratto da e link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Sia
l’art. 3, co. 3, della legge n. 241 del 1990 che la
giurisprudenza, sul punto consolidata, ammettono l'uso della
motivazione per relationem, con riferimento ad altri atti
dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi
disponibili.
---------------
Non sussiste la lamentata violazione dell’art. 7 della legge
n. 241/1990, atteso che, ai sensi dell’art. 21-octies, co.
2, della legge n. 241/1990, “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ebbene, nel caso di specie, gli esponenti non hanno allegato
né tantomeno dimostrato quale apporto sarebbero stati in
grado di fornire per indurre l’amministrazione ad una
diversa determinazione, benché, per giurisprudenza
consolidata, la norma su richiamata debba essere
interpretata nel senso che “… si deve comunque porre
previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto
meno in termini di allegazione processuale, quali elementi
conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se
previamente comunicatogli, onde indirizzare
l'amministrazione verso una decisione diversa da quella
assunta”.
Ciò, sempre sul presupposto che la ridetta norma,
“nell'imporre al Giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel
caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la
violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma
dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
---------------
6.3. Quanto al terzo e ultimo motivo, con cui si
deduce, del tutto genericamente, la violazione della legge
n. 241/1990 per difetto di motivazione, di contraddittorio
ed omessa comunicazione di avvio, il Collegio osserva quanto
segue.
L’ordinanza impugnata assume a proprio indefettibile
presupposto -accanto alla riscontrata presenza in loco di
scarichi irregolari, autorizzati in precario nel lontano
1966, da collegare alla fognatura comunale, da tempo
realizzata nelle vicinanze-, la natura privata delle aree
interessate dai progetti di fognatura, ivi incluso il tratto
di strada denominata Via Frosinone e corrispondente ai tre
numeri civici barrati, in precedenza indicati. Tale natura
privata, come già accennato, si ricava dalla delibera del
Consiglio comunale n. 15 del 09/04/2013, richiamata nelle
premesse dell’ordinanza in parola.
E' appena il caso di ricordare, poi, che sia l’art. 3, co.
3, della legge n. 241 del 1990 che la giurisprudenza, sul
punto consolidata, ammettono l'uso della motivazione per
relationem, con riferimento ad altri atti
dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi
disponibili.
Nel caso di specie, l’ordinanza del 2014 risulta
adeguatamente motivata, mediante il richiamo alla delibera
n. 15/2013, di cui peraltro è riportato il contenuto più
significativo. Essa, poi, è stata resa disponibile, in
quanto pubblicata all'Albo pretorio comunale sin dal
17/04/2013, ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000,
come ricavabile dalla già citata documentazione allegata
dalla resistente.
In aggiunta, giova rammentare che, affinché un’area privata
possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è
necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che
l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne
consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere
ad essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure,
infine, rispetto a strade destinate al servizio di un
determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I,
22.06.985, n. 3761)…” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
sent. n. 728 del 14/02/2012; nonché, TAR Veneto, Venezia,
Sez. I, 12/05/2008, n. 1328, per cui: “… l'ubicazione
della suddetta strada lascia agevolmente presumere che essa
sia stata in realtà utilizzata dai soli comproprietari
frontisti; utilizzo questo che, come è noto, non può
ritenersi sufficiente a costituire una servitù di uso
pubblico o addirittura a rendere pubblica la strada stessa”).
Neppure può dirsi sussistente la lamentata violazione
dell’art. 7 della legge n. 241/1990, atteso che, ai sensi
dell’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241/1990, “Non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Ebbene, nel caso di specie, gli esponenti non hanno allegato
né tantomeno dimostrato quale apporto sarebbero stati in
grado di fornire per indurre l’amministrazione ad una
diversa determinazione, benché, per giurisprudenza
consolidata, la norma su richiamata debba essere
interpretata nel senso che “… si deve comunque porre
previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto
meno in termini di allegazione processuale, quali elementi
conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se
previamente comunicatogli, onde indirizzare
l'amministrazione verso una decisione diversa da quella
assunta” (Cons. Stato Sez. III, 12.05.2017, n. 2218).
Ciò, sempre sul presupposto che la ridetta norma, “nell'imporre
al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione
delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto,
allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato” (Cons. Stato
Sez. IV, 16.06.2017, n. 2953)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 28.08.2017 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché un’area privata possa ritenersi sottoposta ad un
uso pubblico è necessario, oltre all’intrinseca idoneità del
bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico,
generale interesse.
Ne consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere
ad essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate
al servizio di un determinato edificio o complesso di
edifici.
---------------
6.3. Quanto al terzo e ultimo motivo, con cui si
deduce, del tutto genericamente, la violazione della legge
n. 241/1990 per difetto di motivazione, di contraddittorio
ed omessa comunicazione di avvio, il Collegio osserva quanto
segue.
L’ordinanza impugnata assume a proprio indefettibile
presupposto -accanto alla riscontrata presenza in loco di
scarichi irregolari, autorizzati in precario nel lontano
1966, da collegare alla fognatura comunale, da tempo
realizzata nelle vicinanze-, la natura privata delle aree
interessate dai progetti di fognatura, ivi incluso il tratto
di strada denominata Via Frosinone e corrispondente ai tre
numeri civici barrati, in precedenza indicati. Tale natura
privata, come già accennato, si ricava dalla delibera del
Consiglio comunale n. 15 del 09/04/2013, richiamata nelle
premesse dell’ordinanza in parola.
E' appena il caso di ricordare, poi, che sia l’art. 3, co.
3, della legge n. 241 del 1990 che la giurisprudenza, sul
punto consolidata, ammettono l'uso della motivazione per
relationem, con riferimento ad altri atti
dell'Amministrazione, che devono essere indicati e resi
disponibili.
Nel caso di specie, l’ordinanza del 2014 risulta
adeguatamente motivata, mediante il richiamo alla delibera
n. 15/2013, di cui peraltro è riportato il contenuto più
significativo. Essa, poi, è stata resa disponibile, in
quanto pubblicata all'Albo pretorio comunale sin dal
17/04/2013, ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000,
come ricavabile dalla già citata documentazione allegata
dalla resistente.
In aggiunta, giova rammentare che, affinché un’area privata
possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico, “è
necessario, oltre all’intrinseca idoneità del bene, che
l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne
consegue che deve escludersi l’uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere
ad essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure,
infine, rispetto a strade destinate al servizio di un
determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I,
22.06.985, n. 3761)…” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
sent. n. 728 del 14/02/2012; nonché, TAR Veneto, Venezia,
Sez. I, 12/05/2008, n. 1328, per cui: “… l'ubicazione
della suddetta strada lascia agevolmente presumere che essa
sia stata in realtà utilizzata dai soli comproprietari
frontisti; utilizzo questo che, come è noto, non può
ritenersi sufficiente a costituire una servitù di uso
pubblico o addirittura a rendere pubblica la strada stessa”).
...
Il potere in concreto esercitato, qui, dall’Amministrazione
si radica, oltreché nelle disposizioni di cui agli artt. 7 e
ss. del Regolamento regionale 24/03/2006 n. 3 (sulla
disciplina degli scarichi di acque reflue domestiche e di
reti fognarie), sulla cui applicazione non è svolta -nel
ricorso in epigrafe– contestazione alcuna, nella previsione
dell’art. 31, co. 21, della L. 23/12/1998, n. 448, secondo
cui: “In sede di revisione catastale, è data facoltà agli
enti locali, con proprio provvedimento, di disporre
l'accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno
utilizzate ad uso pubblico, ininterrottamente da oltre venti
anni, previa acquisizione del consenso da parte degli
attuali proprietari”.
L’accorpamento in parola richiede, come già detto, l’uso
pubblico protratto da oltre vent’anni dell’area d’interesse.
Al riguardo, gli istanti non allegano, se non in modo del
tutto generico, ma comunque non dimostrato, che il tratto di
strada prospiciente la loro rispettiva proprietà sia
interessato da opere pubbliche che ne testimonino l’uso
pubblico, mentre la specifica ubicazione e connotazione
della suddetta porzione di strada, senza uscita, senza
illuminazione e senza marciapiedi, ne lascia agevolmente
presumere l’utilizzo da parte dei soli comproprietari
frontisti (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12/05/2008, n.
1328).
Ne consegue, in disparte l’inammissibilità per genericità,
l’infondatezza anche di tale ultimo motivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 28.08.2017 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' legittimo che il RUP, nell'aggiudicazione col criterio
dell'offerta economica più vantaggiosa, ricopra il ruolo di
Presidente del seggio di gara che è organo diverso dalla
Commissione giudicatrice, alla quale sono affidati
esclusivamente compiti di natura prettamente amministrativa,
senza alcuna valutazione discrezionale.
Nell'ambito dell'articolata procedura di
scelta del contraente con il sistema dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, giova ricordarlo, possono
distinguersi le sottofasi della verifica della
documentazione amministrativa prodotta dalle imprese, che
hanno fatto domanda di partecipazione alla gara, della
comunicazione dei punteggi assegnati dalla commissione
giudicatrice alle offerte tecniche delle imprese concorrenti
e dell'apertura delle buste contenenti le offerte
economiche, della loro lettura e dell'attribuzione del
relativo punteggio, che sono caratterizzate da un'attività
priva di qualsiasi discrezionalità e ben possono essere
svolte, sempre pubblicamente, anche dal seggio di gara in
composizione monocratica (ivi compreso lo stesso
responsabile unico del procedimento), dalla sottofase di
valutazione delle offerte tecniche che deve essere svolta
necessariamente da una commissione giudicatrice, e che si
compendia nell'apprezzamento, massima espressione della
discrezionalità tecnica, degli elementi tecnici delle
singole offerte e nell'attribuzione dei relativi punteggi
sulla base dei pesi e punteggi appositamente indicati.
---------------
Il ricorso è infondato e va respinto.
In relazione al primo motivo di ricorso, come già
precisato nella ricordata ordinanza cautelare, dagli atti di
causa emerge che le operazioni di valutazione delle offerte
tecniche –fase in cui l’Amministrazione esercita la propria
discrezionalità– sono state svolte dalla Commissione
giudicatrice, nella quale la dott.ssa As. non ha avuto alcun
ruolo; diversamente, la suddetta –responsabile del
procedimento in questione- ha ricoperto il ruolo di
Presidente del seggio di gara, che però è organo diverso
dalla Commissione giudicatrice ed al quale sono affidati
esclusivamente compiti di natura prettamente amministrativa,
senza alcuna valutazione discrezionale.
Sotto questo profilo, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che “Nell'ambito dell'articolata procedura di
scelta del contraente con il sistema dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, giova ricordarlo, possono
distinguersi le sottofasi della verifica della
documentazione amministrativa prodotta dalle imprese, che
hanno fatto domanda di partecipazione alla gara, della
comunicazione dei punteggi assegnati dalla commissione
giudicatrice alle offerte tecniche delle imprese concorrenti
e dell'apertura delle buste contenenti le offerte
economiche, della loro lettura e dell'attribuzione del
relativo punteggio, che sono caratterizzate da un'attività
priva di qualsiasi discrezionalità e ben possono essere
svolte, sempre pubblicamente, anche dal seggio di gara in
composizione monocratica (ivi compreso lo stesso
responsabile unico del procedimento), dalla sottofase di
valutazione delle offerte tecniche che deve essere svolta
necessariamente da una commissione giudicatrice, e che si
compendia nell'apprezzamento, massima espressione della
discrezionalità tecnica, degli elementi tecnici delle
singole offerte e nell'attribuzione dei relativi punteggi
sulla base dei pesi e punteggi appositamente indicati (v.,
ex plurimis, Cons. St., sez. V, 5.11.2014, n. 5446)”
(Consiglio di Stato, sez. III, 08.09.2015, n. 4190; medesime
considerazioni sono espresse, da ultimo, da Consiglio di
Stato, sez. II, 03.02.2017, n. 475; analoghi principi sulla
diversità tra commissione giudicatrice e seggio di gara sono
espressi da Consiglio di Stato, sez. VI, 03.07.2014, n.
3361; TAR Piemonte, sez. I, 20.01.2016, n. 75).
Pertanto, non sussiste la violazione dell’art. 77, comma 4,
del D.Lgs. n. 50/2016, non sussistendo la denunciata
incompatibilità della dott.ssa As..
Quanto alla censura relativa alla incompatibilità degli
altri membri della commissione giudicatrice e del seggio di
gara per essere intervenuti a diverso titolo nella procedura
concorsuale, si rileva che la doglianza è formulata in modo
del tutto generico e non circostanziato e, come tale, è
inammissibile.
Le censure di cui al primo motivo, dunque, non
possono trovare accoglimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 1074 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il superamento del termine di cinque giorni per
effettuare la comunicazione dell’aggiudicazione (già
previsto dall’art. 79, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed
ora dall’art. 76, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016) non incide
sulla legittimità dell’aggiudicazione, ma tutt'al più sulla
decorrenza del termine per gravare in sede giurisdizionale
l’aggiudicazione medesima.
---------------
Anche il secondo motivo di ricorso è parimenti del
tutto infondato.
Non può che richiamarsi, a tale proposito, quanto già
esposto nell’ordinanza cautelare, dovendosi ribadire che il
superamento del termine di cinque giorni per effettuare la
comunicazione dell’aggiudicazione (già previsto dall’art.
79, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 ed ora dall’art. 76,
comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016) non incide sulla legittimità
dell’aggiudicazione, ma tutt'al più sulla decorrenza del
termine per gravare in sede giurisdizionale l’aggiudicazione
medesima (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. V,
07.06.2016, n. 2863; TAR Lombardia, Brescia, sez. II;
17.11.2015, n. 1527).
La censura, pertanto, è destituita di fondamento.
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.08.2017 n. 1074 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
circostanza che la lex specialis non preveda un termine per
l’invio della documentazione necessaria ai fini della
stipula del contratto, tra cui quella comprovante la
costituzione della cauzione definitiva, non impedisce
all'amministrazione di imporre un termine perentorio per
l'espletamento di tale adempimento: ciò risponde, invero,
alla finalità di evitare che la fase provvisoria si
protragga indefinitamente e ad assicurare il rispetto
dell’obbligo, che grava sulle parti, di addivenire alla
stipula del contratto, entro il termine previsto all’art.
32, c. 8, d.lgs. n. 50/2016.
Il responsabile unico del procedimento, nell’assegnare un
termine perentorio per la produzione della documentazione
necessaria per la stipula del contratto e, in particolare,
per quanto rileva in questa sede, per l’invio della cauzione
definitiva, non ha dunque modificato la lex specialis, non
ha violato l’art. 11 del disciplinare di gara né il
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
all’art. 83, c. 8, d.lgs. n. 50/2016 e neppure l’art. 103,
c. 3 del codice dei contratti.
---------------
9. Ad avviso della ricorrente l’operato dell’amministrazione
sarebbe illegittimo in quanto il rup avrebbe integrato la
lex specialis di gara, inserendo previsioni perentorie e
sanzioni decadenziali non previste negli atti di gara che si
tradurrebbero, in sostanza, nell’introduzione di una nuova
causa di esclusione.
In mancanza di previsioni nella lettera di invito e nel
disciplinare che fissino termini di natura perentoria con
sanzione decadenziale per la costituzione della cauzione
definitiva, nonché in carenza della fissazione di un termine
per la stipula del contratto cui la cauzione definitiva è
preordinata –sostiene la ricorrente– il rup non poteva di
sua iniziativa introdurre nuove disposizioni senza ledere il
principio di affidamento dei concorrenti.
Laddove la stazione appaltante avesse ritenuto di dover
innovare o modificare le previsioni di gara, essa avrebbe
dovuto operare, in autotutela, attraverso l’istituto della
revoca o dell’annullamento del disciplinare, che
diversamente resterebbe immodificabile.
10. La censura è infondata.
Come si è già affermato in sede cautelare, la circostanza
che la lex specialis non preveda un termine per l’invio
della documentazione necessaria ai fini della stipula del
contratto, tra cui quella comprovante la costituzione della
cauzione definitiva, non impedisce all'amministrazione di
imporre un termine perentorio per l'espletamento di tale
adempimento: ciò risponde, invero, alla finalità di evitare
che la fase provvisoria si protragga indefinitamente (TAR
Lazio, sez. II-bis, 02.09.2005, n. 6527; TAR Liguria, sez. II,
19.02.2005, n. 266; TAR Campania, Napoli, sez. I,
20/07/2006, n. 7610; Cons. di St., V, 06.07.2002, n. 3718,
secondo cui “la stazione appaltante, in effetti, pur in
assenza di riferimenti specifici nella normativa di gara,
ben poteva imporre, di suo, un termine perentorio per la
produzione della documentazione in parola da parte
dell’aggiudicataria provvisoria, anche per evitare che si
protraesse indefinitamente la fase preliminare al
perfezionamento della procedura e quindi all’operatività
dell’affidamento del servizio, purché, sia chiaro, il
termine fosse ragionevole e congruo”) e ad assicurare il
rispetto dell’obbligo, che grava sulle parti, di addivenire
alla stipula del contratto, entro il termine previsto
all’art. 32, c. 8, d.lgs. n. 50/2016.
Il responsabile unico del procedimento, nell’assegnare un
termine perentorio per la produzione della documentazione
necessaria per la stipula del contratto e, in particolare,
per quanto rileva in questa sede, per l’invio della cauzione
definitiva, non ha dunque modificato la lex specialis,
non ha violato l’art. 11 del disciplinare di gara né il
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
all’art. 83, c. 8, d.lgs. n. 50/2016 e neppure l’art. 103,
c. 3 del codice dei contratti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.08.2017 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: ●
L'incameramento della cauzione nelle gare pubbliche di
appalto costituisce conseguenza ex lege dell'esclusione per
riscontrato difetto dei requisiti di partecipazione da parte
del concorrente.
●
Il quantum della sanzione di incameramento non è
modulabile; a qualsiasi tipologia di omissione/falsità
consegue l'(integrale) escussione della cauzione.
●
Per consolidata giurisprudenza, nelle gare pubbliche di
appalto l'incameramento della cauzione è una misura a
carattere latamente sanzionatorio, che costituisce
conseguenza ex lege dell'esclusione per riscontrato
difetto dei requisiti da dichiarare ai sensi dell'art. 38
d.lgs. n. 163/2006, senza che sia necessaria la prova di
colpa nella formazione delle dichiarazioni presentate.
Inoltre, la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al
vero altera di per sé la gara, quantomeno per aggravio di
lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche
concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità
promesse, con relative questioni derivate (come si è
verificato nel caso di specie, con esigenze di ricalcolo e
nuovo aggiudicatario).
L'escussione costituisce dunque conseguenza automatica della
violazione dell'obbligo di diligenza gravante
sull'offerente, considerato anche che gli operatori
economici, con la domanda di partecipazione, si impegnano ad
osservare le regole della procedura delle quali hanno piena
contezza. Si tratta di una misura autonoma e ulteriore
rispetto all'esclusione dalla gara ed alla segnalazione
all'Autorità di vigilanza, che si riferisce, mediante
l'anticipata liquidazione dei danni subiti
dall'Amministrazione, a un distinto per quanto connesso
rapporto giuridico fra quest'ultima e l'imprenditore.
In definitiva, l'incameramento della cauzione provvisoria è
una misura di carattere strettamente patrimoniale, senza un
carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio:
non ha infatti né carattere reintegrativo o ripristinatorio
di un ordine violato, né di punizione per un illecito
amministrativo previsto a tutela di un interesse generale.
Essa ha il suo titolo e la sua causa nella violazione di
regole e doveri contrattuali già espressamente accettati
negli stretti confronti dell'amministrazione appaltante. La
lata funzione sanzionatoria che sopra si è detta, dunque,
inerisce al solo rapporto che si è costituito inter
partes con l'amministrazione appaltante per effetto
della domanda di partecipazione alla gara.
●
Il "quantum" della sanzione di incameramento non è "modulabile";
a tipologia di omissione/falsità consegue l'(integrale)
escussione della cauzione. Nel regime normativo attuale la
norma (art. 75, c. 6°, Codice 163/2006), così come
articolata, secondo la giurisprudenza dominante (per non
dire granitica, salvo alcune pronunzie di primo grado) non
lascia spazi interpretativi, non menzionando, con la
formulazione prescelta, alcun in ordine all'elemento
soggettivo, né "modulazioni" quantitative con
applicazione di un potere riduttivo e/o individuazione di "tetti"
massimi di applicazione in concreto.
Senza possibilità, sia per il Giudice sia per
l'Amministrazione di effettuare una analisi della
"specifica" tipologia di violazione e della sua conseguente
lesività dell'ordinamento e del bene sottostante.
E senza poter considerare le varie "giustificazioni"
(quali quelle prodotte in sede di soccorso istruttorio
(valutate positivamente dalla P.A.), sicuramente inidonee a
consentire l'ammissione in gara, ma che potrebbero rilevare,
quanto meno, per la modulazione della sanzione pecuniaria
accessoria
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 28.08.2017 n. 563 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La mancata presentazione della garanzia, entro il
termine prestabilito, costituisce giusto motivo di revoca
della aggiudicazione: ciò in quanto essa costituisce atto
vincolato rispetto alla clausola del disciplinare di gara
(l’art. 11), che prevede, tra i documenti da presentare a
pena di esclusione, la costituzione della cauzione
definitiva ed a quanto previsto dall’amministrazione con la
nota del 24.11.2016, atto con cui l’amministrazione si è
autovincolata a dare applicazione alla sanzione della
perdita dell’aggiudicazione nel caso di mancato rispetto del
termine assegnato.
Inoltre, ai sensi dell’art. 103, c. 3, d.lgs. n. 50/2016,
“la mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1
determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione
della cauzione provvisoria presentata in sede di offerta da
parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o
la concessione al concorrente che segue nella graduatoria”.
L’amministrazione non era quindi onerata di motivare il
provvedimento di revoca con sopravvenuti motivi di interesse
pubblico né di concedere un nuovo termine per consentire
alla ricorrente di produrre la documentazione mancante.
---------------
La fissazione di un termine perentorio per l’invio della
documentazione necessaria ai fini della stipula del
contratto è da ritenersi consentita anche in assenza di una
previsione della lex specialis.
---------------
11. La ricorrente ha contestato, poi, che il rup non avrebbe
potuto disporre la revoca di atti adottati dalla
commissione.
Anche questa doglianza non è fondata. Le operazioni di gara
sono invero state condotte dal rup il quale ha parimenti
disposto l’aggiudicazione provvisoria revocata con i
provvedimenti impugnati: il principio del contrarius actus è
stato dunque rispettato.
12. Il comportamento tenuto dall’amministrazione non può poi
ritenersi in contrasto con i principi di leale
collaborazione e di proporzionalità.
Non sono stati dedotti, invero, elementi che consentano di
affermare l’irragionevolezza del termine di 10 giorni
assegnato dal rup.
L’amministrazione ha utilizzato l’espressione “giorni
naturali e consecutivi”, intendendo così ricomprendere nel
termine anche i giorni festivi: deve, pertanto, escludersi,
nel caso di specie, l’operatività della proroga automatica
della scadenza del termine al successivo giorno non festivo.
In ogni caso, nonostante il termine fosse scaduto nella
giornata del 4 dicembre, l’amministrazione ha, altresì,
sollecitato l’invio della documentazione, nella giornata del
05.12.2016.
La ricorrente, peraltro, non ha rappresentato
all’amministrazione alcuna difficoltà nella costituzione
della cauzione definitiva o nella trasmissione della
relativa documentazione, né ha domandato una proroga del
termine: con la nota inviata in data 28.11.2016 si è
difatti limitata ad affermare che la documentazione,
relativa alla cauzione definitiva, era mancante, che era in
corso di predisposizione da parte dell’assicurazione e che
sarebbe stata inviata al più presto (doc. n. 6 della
ricorrente).
13. La circostanza che la cauzione sia stata costituita
nella giornata del 05.12.2016 non può inficiare la
legittimità del provvedimento impugnato proprio perché di
tale circostanza l’amministrazione non era stata informata
da parte della ricorrente.
Al momento dell’adozione del provvedimento di revoca, il
termine concesso era, invero, ormai scaduto senza che
l’amministrazione avesse ricevuto la documentazione
richiesta e senza che potesse sapere che la cauzione era
stata costituita nella giornata del 5 dicembre.
Né va a inficiare la legittimità del provvedimento impugnato
una circostanza sopravvenuta quale è l’invio, da parte della
ricorrente, in un momento successivo alla ricezione
dell’atto di revoca, della documentazione richiesta.
Del resto, ove si attribuisse rilievo al sostanziale
adempimento, da parte della ricorrente, a quanto previsto
dalla legge di gara, la legittimità di un provvedimento
amministrativo verrebbe inficiata da fatti legittimamente
ignorati dall’amministrazione in quanto portati a sua
conoscenza solo in un momento successivo all’adozione
dell’atto.
14. Il provvedimento di revoca è, pertanto, adeguatamente
motivato con il richiamo alla violazione di un termine
perentorio assegnato dall’amministrazione e all’inerzia
della ricorrente.
La mancata presentazione della garanzia, entro il termine
prestabilito, costituisce, infatti, giusto motivo di revoca
della aggiudicazione: ciò in quanto essa costituisce atto
vincolato rispetto alla clausola del disciplinare di gara
(l’art. 11), che prevede, tra i documenti da presentare a
pena di esclusione, la costituzione della cauzione
definitiva (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.04.2010,
n. 2199; sez. VI, 25.01.2008; sez. V, 21.04.2006,
n. 2267) ed a quanto previsto dall’amministrazione con la
nota del 24.11.2016, atto con cui l’amministrazione si
è autovincolata a dare applicazione alla sanzione della
perdita dell’aggiudicazione nel caso di mancato rispetto del
termine assegnato.
Inoltre, ai sensi dell’art. 103, c. 3, d.lgs. n. 50/2016,
“la mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1
determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione
della cauzione provvisoria presentata in sede di offerta da
parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o
la concessione al concorrente che segue nella graduatoria”.
L’amministrazione non era quindi onerata di motivare il
provvedimento di revoca con sopravvenuti motivi di interesse
pubblico né di concedere un nuovo termine per consentire
alla ricorrente di produrre la documentazione mancante.
15. La ricorrente ha dedotto, infine, l’illegittimità della
previsione del disciplinare di gara che all’art. 11
subordina l’aggiudicazione definitiva alla costituzione
della cauzione definitiva, pena l’esclusione dalla gara.
La costituzione della cauzione definitiva, in vista della
stipula del contratto, sostiene la ricorrente, si colloca
naturalmente dopo che l’aggiudicazione definitiva è divenuta
efficace: non avrebbe alcun senso, per il privato,
richiedere (sostenendo i relativi oneri economici), e per il
soggetto assicuratore rilasciare, una garanzia rispetto
all’aggiudicazione di un appalto non certa e non ancora
efficace.
La censura è inammissibile per carenza di interesse.
La lesione lamentata con il presente ricorso non è, invero,
legata al momento in cui è stata chiesta la costituzione
della garanzia, rispetto al perfezionamento
dell’aggiudicazione, ma al fatto che la garanzia sia stata
tardivamente trasmessa all’amministrazione.
Inoltre, come si è affermato al punto 10, la fissazione di
un termine perentorio per l’invio della documentazione
necessaria ai fini della stipula del contratto è da
ritenersi consentita anche in assenza di una previsione
della lex specialis.
16. Per le ragioni esposte il ricorso principale è infondato
e va respinto. Ne consegue anche il rigetto dell'istanza
risarcitoria.
17. Parimenti infondato è il ricorso per motivi aggiunti con
cui sono dedotte unicamente censure di illegittimità
derivata dai vizi dedotti con il ricorso principale avverso
l’atto di revoca dell’aggiudicazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.08.2017 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Determinazione
del danno da mancata aggiudicazione di gara d’appalto.
Va ribadito che, in tema di
determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara
d’appalto:
- ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, cod. proc. amm., il
danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del
danno che assume di avere sofferto;
- in particolare spetta all'impresa danneggiata offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse
risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod.
proc. amm.);
- quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista
la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra
amministrazione e privato la quale contraddistingue
l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio
dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità
non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento
dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d.
vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto
principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697,
primo comma, cod. civ. (e specificato per il risarcimento
dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art.
124, comma 1, cod. proc. amm.);
- la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., in
combinato con l'art. 2056 cod. civ., è ammessa soltanto in
presenza di situazione di impossibilità o di estrema
difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
- la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di
essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti
all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre
quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti;
- la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla
regola generale di cui all'art. 2729 cod. civ. queste devono
essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione
e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio
ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
- va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula
storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può
essere oggetto di applicazione automatica ed
indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di
probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo
il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi
che il danno da lucro cessante del danneggiato sia
commisurabile alla percentuale sopra indicata;
- anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una
prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in
termini di mancato arricchimento del proprio curriculum
professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla
base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui
illegittima aggiudicazione.
---------------
Ne deriva che la tesi della ricorrente è destituita di
fondamento e ciò esclude l’antigiuridicità del danno
lamentato, atteso che nel caso di specie è del tutto
infondata la pretesa illegittimità del provvedimento di
aggiudicazione, nei termini prospettati dalla ricorrente.
La mancata dimostrazione di uno degli elementi costitutivi
della responsabilità risarcitoria dell’amministrazione, ai
sensi dell’art. 2043 e seg. c.c., rende infondata la domanda
di condanna.
In via di ulteriore precisazione, vale evidenziare che, in
ogni caso, la ricorrente, non ha dimostrato né l’effettiva
sussistenza del danno lamentato, né supportato sul piano
probatorio la sua quantificazione, limitandosi a mere ed
astratte allegazioni, sicché anche da quest’ultimo punto di
vista la domanda risarcitoria risulta infondata e da
respingere.
Sul punto e in coerenza con la giurisprudenza consolidata,
va ribadito che, in tema di determinazione del danno da
mancata aggiudicazione di gara d’appalto (cfr. ex
plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2017, n.
2184; Consiglio di Stato, sez. IV, 23.05.2016, n. 2111;
Consiglio di Stato, sez. V, 21.07.2015, n. 3605):
- ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, cod. proc. amm., il
danneggiato deve offrire la prova dell'an e del
quantum del danno che assume di avere sofferto;
- in particolare spetta all'impresa danneggiata offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse
risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod.
proc. amm.);
- quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista
la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra
amministrazione e privato la quale contraddistingue
l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio
dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità
non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento
dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d.
vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto
principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697,
primo comma, cod. civ. (e specificato per il risarcimento
dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art.
124, comma 1, cod. proc. amm.);
- la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., in
combinato con l'art. 2056 cod. civ., è ammessa soltanto in
presenza di situazione di impossibilità o di estrema
difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
- la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di
essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti
all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre
quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti;
- la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla
regola generale di cui all'art. 2729 cod. civ. queste devono
essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione
e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio
ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
- va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula
storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può
essere oggetto di applicazione automatica ed
indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di
probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit
secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può
presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato
sia commisurabile alla percentuale sopra indicata;
- anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una
prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in
termini di mancato arricchimento del proprio curriculum
professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla
base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui
illegittima aggiudicazione.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha provato quale
sarebbe stato l'effettivo margine di utile non conseguito
per effetto dell'asserito illegittimo affidamento, né tanto
meno se vi sia stato un danno concreto risarcibile; né ha
fornito parametri di quantificazione sufficienti a
soddisfare l’onere della prova su di lei gravante.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della domanda
risarcitoria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.08.2017 n. 1760 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esercizio della "prospectio" ed "inspectio" -
Distanze legale - Violazione - Fattispecie: aperture di
porte a meno di 1.5 metri.
In tema di limitazioni legali della proprietà, con
particolare riferimento alle scale, ai ballatoi e alle
porte, che fondamentalmente sono destinati all'accesso
dell'edificio, e soltanto occasionalmente od eccezionalmente
utilizzabili per l'affaccio, possono configurare vedute
quando -indipendentemente dalla funzione primaria del
manufatto- risulti obiettivamente possibile, in via
normale, per le particolari situazioni o caratteristiche di
fatto, anche l'esercizio della "prospectio" ed "inspectio"
su o verso il fondo del vicino (Cass. n. 499 del 2006 e
Cass. 16.03.1981 n. 1451).
Fattispecie, realizzazione di
un'apertura al fine di installare una porta a meno di 1.5
metri dal confine di un altro fondo, e conseguentemente
possibili violazioni di "prospectio" e “inspectio".
Realizzazione di opere abusive -
Richiesta di riduzione in pristino - LEGITTIMAZIONE
PROCESSUALE - Legittimazione dei titolari del fondo finitimo
- Giurisprudenza.
In tema di realizzazione di opere abusive da parte dei
proprietari di un fondo, i titolari del fondo finitimo sono
legittimati alla richiesta di riduzione in pristino sempre
che possano, in concreto, lamentare la violazione di un
diritto soggettivo loro spettante, la prova della cui
esistenza spetta, comunque, ai soggetti asseritamente lesi
(v. Cass. n. 104 38 del 1998)
(Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 22.08.2017 n. 20273 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'appaltatore deve rispettare le regole dell'arte
ed è responsabile degli errori di progettazione e direzione
dei lavori. L'esecutore deve correggere anche gli errori del
progettista.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l'ordinanza
21.08.2017 n. 20214 ha evidenziato che "L'appaltatore
non è un mero esecutore e anche se realizza un progetto
altrui deve tener presenti le regole della propria attività,
superando anche l'ingerenza del committente. L'appaltatore è
responsabile e deve tenere sempre presente le regole
dell'arte".
La questione.
La vicenda oggetto del giudizio trae origine dal contratto
di appalto col quale la società committente Alfa aveva
affidato alla società Beta i lavori di costruzione di un
immobile.
I committenti proposero opposizione ai decreti ingiuntivi
con i quali venne loro intimato il pagamento di
corrispettivi in favore della società Beta, eccependo vizi
delle opere eseguite e ritardi nella consegna, per i quali
chiesero la condanna della Beta al risarcimento del danno.
Nel merito, a parere dei giudici, sussisteva un "concorso
di colpa" tra committente ed appaltatore in ordine ai
vizi delle opere eseguite per il fatto che tali vizi «dipendevano
anche dalla direzione dei lavori e/o da scelte della
committenza».
Per tali motivi venne pronunciata condanna dei committenti a
corrispondere all'appaltatrice società la somma di euro
181.626,18. Avverso tale pronuncia la società Alfa ha
proposto ricorso in cassazione.
Il ragionamento della Corte di Cassazione.
Contrariamente al ragionamento della Corte territoriale, i
giudici di legittimità hanno evidenziato che l'appaltatore,
anche quando sia chiamato a realizzare un progetto altrui, è
sempre tenuto a rispettare le regole dell'arte ed è soggetto
a responsabilità anche in caso di ingerenza del committente,
cosicché la responsabilità dell'appaltatore, con il
conseguente obbligo risarcitorio, non viene meno neppure in
caso di vizi imputabili ad errori di progettazione o
direzione dei lavori, ove egli, accortosi del vizio, non lo
abbia tempestivamente denunziato al committente manifestando
formalmente il proprio dissenso, ovvero non abbia rilevato i
vizi pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla
perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso
concreto (Cass., Sez. 2, n. 8813 del 30/05/2003; Sez. 2, n.
8016 del 21/05/2012; Sez. 2, n. 23665 del 21/11/2016; Sez.
2, n. 1981 del 02/02/2016).
In conclusione, se quindi non vi è un'assoluta
sovrapposizione del committente, la prestazione dovuta
dall'appaltatore implica anche controllo e correzione degli
eventuali errori di progetto (Cassazione, n. 6088/2000).
Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto,
a titolo di responsabilità contrattuale derivante dalla sua
obbligazione di risultato, a fornire un'intera garanzia per
le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza invocare il
concorso di colpa di progettista o committente. E neppure
errori nelle istruzioni del direttore dei lavori lo esimono
da responsabilità, essendo egli tenuto a controllarli e
correggerli, secondo diligenza e perizia e dovendo sempre
uniformarsi alle regole tecniche (Cassazione, n. 2214/1975).
Difatti Le regole dell'arte (patrimonio anche di un'impresa
meramente esecutrice) possono contrapporsi all'obbligo di
eseguire fedelmente un progetto palesemente incongruo.
E l'incongruità va fatta presente a committente (specie se
estraneo al settore edile), progettista e direttore dei
lavori, manifestando dissenso (scritto o dimostrabile con
testimoni) prima di procedere all'esecuzione.
Altrimenti l'appaltatore è corresponsabile dei danni, nella
misura in cui è stato negligente nel non accorgersi dei
problemi posti dal progetto.
In virtù di tutto quanto innanzi esposto, la Corte ha
accolto il ricorso; per l'effetto ha cassato la sentenza con
rinvio ad altra Corte di Appello in merito alle
responsabilità dell'appaltatore (commento tratto da
www.condominioweb.com).
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MASSIMA
- il quarto motivo (proposto ai sensi dell'art. 360 n. 3
e 5 cod. proc. civ., in relazione alla quantificazione dei
vizi esistenti nelle opere eseguite e alla considerazione
della maggiori opere realizzate) è fondato, avendo
erroneamente la Corte territoriale ritenuto la sussistenza
di un "concorso di colpa" tra committente ed appaltatore in
ordine ai vizi delle opere eseguite per il fatto che tali
vizi «dipendono anche dalla direzione dei lavori e/o da
scelte della committenza» (p. 14 della sentenza
impugnata), dovendo al contrario ritenersi -secondo la
giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione
di discostarsi- che l'appaltatore, anche
quando sia chiamato a realizzare un progetto altrui, è
sempre tenuto a rispettare le regole dell'arte ed è soggetto
a responsabilità anche in caso di ingerenza del committente,
cosicché la responsabilità dell'appaltatore, con il
conseguente obbligo risarcitorio, non viene meno neppure in
caso di vizi imputabili ad errori di progettazione o
direzione dei lavori, ove egli, accortosi del vizio, non lo
abbia tempestivamente denunziato al committente manifestando
formalmente il proprio dissenso, ovvero non abbia rilevato i
vizi pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla
perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso
concreto (Cass.,
Sez. 2, n. 8813 del 30/05/2003; Sez. 2, n. 8016 del
21/05/2012; Sez. 2, n. 23665 del 21/11/2016; Sez. 2, n. 1981
del 02/02/2016) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.08.2017 n. 20214). |
APPALTI SERVIZI:
Sui presupposti che devono sussistere affinché
possa dirsi concretato il requisito dell'attività
prevalente, c.d."secondo requisito Teckal", in materia di
affidamenti diretti degli appalti pubblici in house.
E' illegittimo l'affidamento diretto del servizio del ciclo
integrato dei rifiuti urbani disposto dal comune ad una
società a partecipazione integralmente pubblica, di cui il
suddetto comune detiene circa il 16 per cento del capitale,
dal momento che l'anzidetta società non risulta legata
all'ente locale da un genuino rapporto di delegazione
interorganica, essendo carente del requisito dell'attività
prevalente, non essendo computabile a tali fini la rilevante
quota di attività svolta dalla società in house in favore di
enti pubblici non soci, sia pure sulla base di un atto
avente valenza pubblicistica, quale l'AIA (Autorizzazione
Integrata Ambientale) regionale.
In materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici
detti "in house", infatti, ai fini del riconoscimento
del requisito della prevalenza, il c.d."secondo requisito
Teckal"', rileva la quota di attività svolta in favore
degli enti controllanti, e non assume rilievo il fatto che
le ulteriori attività rivolte in favore di altri enti o
organismi siano imposte in base a determinazioni di
carattere autoritativo e siano dunque sottratte al circuito
concorrenziale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.08.2017 n. 4030 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In tema di veicoli fuori uso e sulla natura di rifiuto
pericoloso degli stessi.
Affinché un veicolo dismesso possa
considerarsi rifiuto pericoloso, è necessario non solo che
esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre
componenti pericolose, perché altrimenti esso rientra nella
categoria classificata con il codice CER 16.01.06.
Invero, «in
tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso
di un veicolo fuori uso non necessita di particolari
accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità
di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna
operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle
altre componenti pericolose».
----------------
1. Il ricorso è inammissibile.
Va preliminarmente richiamato, con riferimento ai due motivi
di ricorso, che possono essere unitariamente esaminati,
quanto affermato in una pronuncia di questa Corte (Sez. 3,
n. 11030 del 05/02/2015, Andreoni, Rv. 26324801) in tema di
veicoli fuori uso e sulla natura di rifiuto pericoloso degli
stessi.
Nella decisione appena richiamata, premesse alcune
considerazioni, cui si rinvia, sulla natura di rifiuto dei
veicoli fuori uso, che non è oggetto di contestazione nel
presente procedimento, si ricordava quanto segue sulla
classificazione di tali veicoli come rifiuto pericoloso.
2. Il previgente d.lgs. 22/1997 classificava anch'esso,
all'art. 7, i rifiuti in pericolosi e non pericolosi,
individuando questi ultimi, al comma 4, come «i rifiuti
non domestici precisati nell'elenco di cui all'allegato D
sulla base degli allegati G, H ed l». Il medesimo
articolo individuava, al comma 1, lett. I), tra i rifiuti
speciali, i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e
loro parti.
Il quarto comma dell'art. 184 d.lgs. 152/2006, attualmente
specifica che: «sono rifiuti pericolosi quelli che recano
le caratteristiche di cui all'allegato I della Parte Quarta
del presente decreto». Anch'esso individuava, in
precedenza, tra i rifiuti speciali, al comma 3, lettera I) «i
veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti»
(il periodo è stato poi soppresso con l'intervento
correttivo ad opera del d.lgs. 205/2010)
Inoltre il comma 5 del medesimo articolo chiarisce ora, dopo
plurime modifiche, che l'elenco dei rifiuti di cui
all'allegato D alla parte quarta include i rifiuti
pericolosi e tiene conto della loro origine e composizione
e, quando necessario, dei valori limite di concentrazione
delle sostanze pericolose.
L'allegato D individua con il codice CER 16 01 04* e,
quindi, quali rifiuti pericolosi, i veicoli fuori uso in
generale e, con il codice CER 16 01 06, i veicoli fuori uso,
non contenenti liquidi né altre componenti pericolose, che
sono dunque rifiuti non pericolosi (analoga classificazione
era prevista sotto la vigenza del d.lgs. 22/1997).
Ciò posto, va rilevato come tale classificazione risulti
invariata anche nel nuovo Catalogo Europeo dei Rifiuti, di
cui alla Decisione 2014/955/Ue cui deve farsi riferimento
dal 01.06.2015.
Sempre nella sentenza "Andreoni" si ricordava come
questa Corte avesse già avuto modo di precisare che,
affinché un veicolo dismesso possa considerarsi
rifiuto pericoloso, è necessario non solo che esso sia fuori
uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti
pericolose, perché altrimenti esso rientra nella categoria
classificata con il codice CER 16.01.06
(Sez. 3, n. 29973 del 21/06/2011, Rigotti, Rv. 251020. V.
anche Sez. 3, n. 30554 del 15/07/2011, Nobile, Rv. 251259).
Si riteneva, inoltre, di formulare alcune precisazioni,
osservando come sia evidente che un veicolo
funzionante contenga una serie di elementi e sostanze che ne
consentono la normale utilizzazione e che sono normalmente
riconducibili nel novero dei liquidi e delle componenti cui
il catalogo dei rifiuti attribuisce rilievo ai fini della
classificazione del veicolo fuori uso come rifiuto
pericoloso (es. combustibile, batteria, olio motore,
sospensioni idrauliche, olio dell'impianto frenante, liquidi
refrigeranti o antigelo, detergenti per i cristalli, alcune
parti dell'impianto elettrico o del motore).
Tali componenti, ai aggiungeva, normalmente presenti in
tutti i veicoli marcianti, richiedono, per essere rimossi,
operazioni oggettivamente complesse, le quali comportano non
soltanto la previa selezione dei singoli elementi da
eliminare, ma anche la disponibilità di particolari
attrezzature per lo smontaggio. Si tratta, inoltre, di
attività che, per essere eseguite, richiedono una minima
competenza tecnica ed il rispetto di specifiche norme di
sicurezza o, quanto meno, di una certa prudenza al fine di
evitare danni alle persone o alle cose.
Tali interventi di «bonifica»,
veniva anche precisato, risultano,
peraltro, ancor più complessi quando le condizioni del
veicolo, a causa di precedenti eventi, come, ad esempio, nel
caso di danni ingenti alla carrozzeria a seguito di sinistro
stradale, rendono meno agevole le operazioni di
movimentazione e di smontaggio delle singole componenti.
Inoltre, una volta rimossi, i liquidi e le componenti non
più utilizzabili vanno pure trattati come rifiuti e sono,
pertanto, soggetti alla disciplina prevista per la loro
gestione, cosicché attività quali, ad esempio, il deposito,
il trasporto o lo smaltimento richiedono specifici titoli
abilitativi e dovrebbero risultare comunque tracciabili
perché documentate.
Si chiariva quindi come fosse evidente che
le effettive modalità di conservazione del veicolo e la
presenza o meno dei mezzi necessari per l'espletamento delle
attività di cui si è appena detto costituiscano dati
obiettivi di valutazione e che l'esclusione dal novero dei
rifiuti pericolosi dei veicoli fuori uso non può essere
presunto, essendo al contrario pacifico che un veicolo non
sottoposto ad alcun preventivo trattamento volto ad
eliminarne i liquidi e le componenti pericolose li contenga
ancora, considerando la complessità delle operazioni di
rimozione.
Si perveniva conseguentemente all'affermazione del principio
secondo il quale «in tema di gestione di
rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori
uso non necessita di particolari accertamenti quando
risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo
stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione
finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre
componenti pericolose».
3. Tale principio è pienamente condiviso dal Collegio, che
intende darvi continuità, osservando come dello stesso abbia
fatto buon uso la Corte territoriale nel caso in esame, la
quale, nel motivare la propria decisione, cita espressamente
la sentenza "Andreoni", dando conto degli specifici
dati fattuali che hanno indotto a ritenere il rifiuto
trasportato come pericoloso.
In particolare, i giudici del gravame hanno valorizzato i
contenuti del verbale di accertamenti urgenti, quelli delle
foto scattate dagli accertatori e versate in atti e le
dichiarazioni testimoniali, rilevando come, seppure non
potesse ritenersi accertata la presenza nel relitto di olio
motore, risultavano comunque presenti la batteria, il
liquido dei freni ed il liquido refrigerante.
Si tratta, a ben vedere, di valutazioni di merito che non
presentano alcun cedimento logico o manifesta contraddizione
e risultano perfettamente allineate al richiamato principio
di diritto.
Ciò che rileva, infatti, sulla base del richiamato
principio, è il fatto che il veicolo fuori uso non sia stato
sottoposto ad alcuna attività di bonifica, attività
particolarmente complessa già se effettuata su un veicolo in
condizioni normali e di ancor più difficile esecuzione, se
non mediante particolari mezzi ed accorgimenti, nei veicoli
gravemente incidentati, dove le parti meccaniche o l'intero
veicolo risultano deformate o gravemente danneggiate.
4. A fronte di ciò, il ricorrente si limita a contestare
l'esito degli accertamenti in fatto operati nel giudizio di
merito, con riferimenti privi di pregio sulla necessità di
accertamenti tecnici specifici che, come si è appena detto,
la giurisprudenza di questa Corte ha espressamente escluso,
ovvero con affermazioni, quale quella sulle possibili
infiltrazioni di acque meteoriche, che restano confinate
nell'ambito delle mere supposizioni.
Al contrario, è lo stesso ricorrente che ammette la totale
assenza di interventi di bonifica sul veicolo fuori uso
prima del suo trasporto, laddove il ricorso, proprio per
accreditare la tesi dell'infiltrazione di acque di cui si è
appena detto, specifica che il relitto era semplicemente
rimasto all'aperto sul piazzale antistante l'abitazione
dell'imputato (pag. 2 del ricorso).
5. Va altresì rilevato come il ricorrente, pur menzionando
la giurisprudenza di questa Corte ed, in particolare, la più
volte citata sentenza "Andreoni", si sofferma sui
contenuti di altra pronuncia (n. 30554/2011, cit.) al fine
di accreditare la propria tesi difensiva, senza tuttavia
tenere conto del fatto che proprio nella pronuncia del 2015
si era espressamente chiarito che, avuto riguardo ai
contenuti della motivazione, la sentenza n. 30544/2011, così
come la precedente n. 29973/2011, non si pongono affatto in
contrasto con il principio affermato, riguardando
fattispecie sostanzialmente diverse.
In particolare, dai contenuti della sentenza 30544/2011
emergeva che i veicoli risultavano essere stati sottoposti
comunque ad un preventivo trattamento, circostanza invece
non verificatasi, come si è detto, nel caso in esame, dove i
giudici del merito hanno accertato la natura di rifiuto
pericoloso del relitto abusivamente trasportato con
argomentazioni coerenti, giuridicamente corrette e relative
a circostanze di fatto compiutamente accertate ed
evidenzianti la piena sussistenza del reato contestato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38949). |
APPALTI:
Scelta del criterio del prezzo più basso per selezionare la
migliore offerta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Criterio del minor prezzo – Scelta di tale criterio per
selezionale l’offerta - Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Condizione.
Ai sensi dell’art. 95, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, la scelta del criterio più adeguato da
adottare per l’affidamento di un appalto è effettuata
discrezionalmente dalla Stazione appaltante in relazione
alle caratteristiche dell’oggetto del contratto; in
particolare, tale criterio può essere utilizzato quando le
caratteristiche della prestazione da eseguire sono già ben
definite dalla Stazione appaltante nel capitolato d’oneri,
in cui sono previsti tutti gli aspetti e le condizioni della
prestazione, con la conseguenza che il concorrente deve solo
offrire un prezzo.
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MASSIMA
Con il
primo motivo di gravame, la società ricorrente censura
il criterio del prezzo più basso scelto dalla stazione
appaltante per l’aggiudicazione della gara.
Il motivo oltre che tardivo e anche infondato.
Recita l’art. 95 del D.Lgs. n. 50/2016: “1. I criteri di
aggiudicazione non conferiscono alla stazione appaltante un
potere di scelta illimitata dell'offerta. Essi garantiscono
la possibilità di una concorrenza effettiva e sono
accompagnati da specifiche che consentono l'efficace
verifica delle informazioni fornite dagli offerenti al fine
di valutare il grado di soddisfacimento dei criteri di
aggiudicazione delle offerte. Le stazioni appaltanti
verificano l'accuratezza delle informazioni e delle prove
fornite dagli offerenti.
2. Fatte salve le disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative relative al prezzo di determinate forniture o
alla remunerazione di servizi specifici, le stazioni
appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non
discriminazione e di parità di trattamento, procedono
all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei
concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base
del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o
sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un
criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del
ciclo di vita, conformemente all'articolo 96.
3. Sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo:
a) i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione
ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi
ad alta intensità di manodopera, come definiti all'articolo
50, comma 1;
b) i contratti relativi all'affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura e degli altri servizi di natura tecnica e
intellettuale di importo superiore a 40.000 euro;
4. Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo:
a) per i lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro,
tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è
garantita dall'obbligo che la procedura di gara avvenga
sulla base del progetto esecutivo;
b) per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate
o le cui condizioni sono definite dal mercato;
c) per i servizi e le forniture di importo inferiore alla soglia di
cui all'articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività,
fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico
o che hanno un carattere innovativo” (… omissis ….).
Osserva il Collegio, che
la scelta del
criterio più adeguato da adottare è effettuata
discrezionalmente dalla Stazione appaltante in relazione
alle caratteristiche dell’oggetto del contratto.
Il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso può
essere utilizzato, in particolare, quando le caratteristiche
della prestazione da eseguire sono già ben definite dalla
Stazione appaltante nel capitolato d’oneri, in cui sono
previste tutte le caratteristiche e condizioni della
prestazione pertanto il concorrente deve solo offrire un
prezzo.
Nel caso di specie, la stazione appaltante ha ben
individuato nel capitolato l’oggetto della gara senza
lasciare agli operatori margini di definizione dell’offerta.
La censura, pertanto, è destituita di giuridico fondamento.
Per giunta, il criterio prescelto non ha impedito alla
ricorrente di formulare una congrua e competitiva offerta.
Sotto questo profilo, se il divisato
criterio fosse stato ritenuto inadeguato, tale cioè da
pregiudicare la formulazione di una offerta seria, allora la
ricorrente si sarebbe dovuta onerare di impugnare la
clausola di bando tempestivamente, nel termine decadenziale
di trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione del bando.
A ben considerare, infatti, la ricorrente censura il
criterio di valutazione dell’offerta (metodo di
aggiudicazione) perché ritenuto da essa incongruo, dunque
fonte d´incertezza e di imprevedibili effetti distorsivi sul
contenuto dell´offerta. In relazione a tale prospettiva
censoria, sussisteva in capo alla ricorrente l´onere di
immediata impugnazione in parte qua del bando di gara,
stante l’emersione di una lesione immediata, diretta ed
attuale e non solo potenziale per effetto del contenuto del
bando.
Il successivo atto della procedura (valutazione delle
offerte in base al criterio di aggiudicazione fissato nel
bando) si è posto come meramente applicativo di una lesione
già prodotta (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. V,
04.03.2011 n. 1380 e 21.02.2011 n. 1071 e sez. VI,
24.02.2011 n. 1166; ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V,
07.09.2001 n. 4679).
Il primo motivo è dunque infondato e anche inammissibile (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 07.08.2017 n. 9249 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Secondo
un ampio indirizzo giurisprudenziale, da cui non si
ravvisano ragioni per discostarsi, i consiglieri comunali
hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d’utilità all'espletamento delle
loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il
diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio
diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso
ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei
cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge
07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il
diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli
soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle
proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello
riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente
funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica
e al controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e
personali) e si configura come peculiare espressione del
principio democratico dell’autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Ne consegue,
per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di
accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i
propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere
comunale, e, per altro verso, che dal termine “utili”,
contenuto nell’articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n.
267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo
comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle
funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del
consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le
informazioni utili all’espletamento delle funzioni non
incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici limiti all’esercizio del diritto di
accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un
verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell’ente) e, per altro verso, che
esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso.
---------------
5. Nel merito, il ricorso è fondato, alla stregua della
motivazione che segue.
5.1. Il contenuto del diritto d’accesso, ai sensi dell’art.
22, n. 1, lett. a), della legge 07.08.1990, n. 241, si
estende alla estrazione di copia di documenti
amministrativi. Non è in contestazione che l’istanza del deducente, all’esito della sua successiva integrazione,
indichi puntualmente gli atti richiesti, né che questi
ultimi siano sussumibili nell’alveo della definizione di
documento amministrativo di cui alla lett. d) del medesimo
art. 22.
Del pari, differentemente da quanto opinato dal
Comune resistente, la nota del 28.02.2017 è netta nel
negare l’estrazione di copia, come pianamente risulta, tra
l’altro, dalle considerazioni secondo cui: «[…] non può non
comprendersi che una simile richiesta rischierebbe di
paralizzare l’intero ufficio con gravi ripercussioni
sull’attività amministrativa […] Né può sottacersi che
l’eventuale accoglimento di tale richiesta di accesso,
eccessivamente gravosa per il Comune, costituirebbe un
precedente che in seguito obbligherebbe –per non
contravvenire al principio di imparzialità– a soddisfare
richieste simili, che verosimilmente verrebbero formulate da
altri consiglieri».
5.2. Orbene, secondo un ampio indirizzo giurisprudenziale,
da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi, i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il
diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio
diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso
ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei
cittadini (ex articolo 10 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge
07.08.1990, n. 241): infatti, mentre in linea generale il
diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli
soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle
proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello
riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente
funzionale all’esercizio delle loro funzioni, alla verifica
e al controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell’ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e
personali) e si configura come peculiare espressione del
principio democratico dell’autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Ne consegue,
per un verso, che sul consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di
accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i
propri uffici, sull’esercizio delle funzioni del consigliere
comunale, e, per altro verso, che dal termine “utili”,
contenuto nell’articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n.
267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, poiché tale aggettivo
comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle
funzioni.
Deve anche aggiungersi che il diritto del
consigliere comunale ad ottenere dall’ente tutte le
informazioni utili all’espletamento delle funzioni non
incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d’ufficio.
In definitiva gli unici
limiti all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri
comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che
esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che
ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e,
per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve
essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso (in termini, Cons. Stato, sez.
V, 05.09.2014, n. 4525, e i riferimenti
giurisprudenziali ivi citati).
5.3. A ben vedere, poi, né il regolamento di accesso alla
documentazione amministrativa adottato dal Comune di
Marsicovetere, né il regolamento del Consiglio comunale, cui
il primo demanda, entrambi reperibili nel sito internet
dell’Ente, prescrivono limitazioni, oggettive o modali, ai
fini dell’esercizio dell’accesso in questione.
5.4. L’ampio spettro del diritto di accesso dei consiglieri
comunali muove dunque nel senso dell’illegittimità
dell’impugnato diniego, con conseguente accoglimento del
ricorso, ferma restando la necessità di contemperare il
diritto di accesso con il regolare funzionamento degli
uffici comunali, concedendo a questi ultimi adeguato tempo
per l’apprestamento delle copie richieste, e ripartendo i
relativi costi secondo il quadro disciplinare di
riferimento.
6. Dalle considerazioni che precedono discende
l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento
dell’impugnata nota del 28.02.2017 e l’ordine al
Comune di Marsicovetere di consegnare al ricorrente copia
della documentazione richiesta, nel termine di sessanta
giorni dalla presente decisione, con avvertimento che, in
caso di ulteriore inadempienza, su istanza di parte si
provvederà alla nomina di un commissario ad acta per
l’adozione dei provvedimenti necessari in via sostitutiva.
7. Sussistono giusti motivi, in ragione delle peculiarità
della questione, per disporre l’integrale compensazione
delle spese di lite tra le parti. Ai sensi dell’art. 13, n.
6-bis 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, l’importo del
contributo unificato è posto a carico dell’Ente comunale
intimato
(TAR Basilicata,
sentenza 03.08.2017 n. 564 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Installazione di una canna fumaria in zona
paesaggistica - Atti antecedenti e successivi - Collocazione
di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio o una
corte interna - CONDOMINIO - Art. 11 del DPR n. 380/2001 -
Artt. 21, c. 4, 143 e 146 del d.lgs. n. 42/2004.
La collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un
edificio o una corte interna), può essere effettuata anche
senza il consenso degli altri condomini, purché non
impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non
ne alteri la normale destinazione con interventi di
eccessiva vastità.
Il singolo condomino ha quindi titolo, anche se il
condominio non abbia dato o abbia negato il proprio
consenso, a ottenere la concessione edilizia per un'opera a
servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale
comune, che si attenga ai limiti suddetti (si veda Tar
Toscana 28/10/2015 n.147).
ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO -
Immissioni sgradevoli o nocive - Canna fumaria -
Interpretazione funzionale della norma - CODICE
DELL'AMBIENTE - Norma UNI 7129 e UNI 10683 e all’allegato IX
alla parte V del d.lgs n. 152/2006.
In tema di emissioni, la ratio della norma (UNI 7129
e UNI 10683 e all’allegato IX alla parte V del d.lgs n. 152
del 2006) in cui si prescrive che “le bocche dei camini
devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al
colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo
o struttura distante meno di 10 metri” è quella di
evitare immissioni sgradevoli o nocive rispetto ad altri
condomini (Cons. Stato sez. IV, 25/10/2016, n. 4458).
Di conseguenza, tali limitazioni vanno interpretate in modo
funzionale, per evitare risultati paradossali in quanto, ad
esempio, applicando acriticamente ed in maniera
generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria
deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell'edificio
vicino si dovesse pretendere un'altezza superiore a quella
anche del più alto grattacielo confinante (Tar Lazio Roma
21/12/2016 n. 12712, Cons. Stato, V, 05/01/2015 n. 1)
(TAR Marche,
sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a
www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Per costante
giurisprudenza, la collocazione di canne fumarie sul muro
perimetrale di un edificio o una corte interna), può essere
effettuata anche senza il consenso degli altri condomini,
purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro
comune e non ne alteri la normale destinazione con
interventi di eccessiva vastità. Il singolo condomino ha
quindi titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia
negato il proprio consenso, a ottenere la concessione
edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita
sul muro perimetrale comune, che si attenga ai limiti
suddetti.
La possibilità di installare la canna fumaria non è
impedita dalla circostanza che il titolare
dell’autorizzazione commerciale sia, come appare
incontestato in atti, locatario dell’immobile (infatti,
l’istanza di installazione della canna fumaria è stata
presentata congiuntamente con il proprietario). Ancora,
l’affermata assenza della proprietà indivisa della corte
condominiale è una mera illazione che scaturisce dalla non
esplicita menzione di quest’ultima nel contratto di
compravendita dell’immobile e dalla circostanza che il
medesimo contratto riporterebbe che la proprietà confina con
i cortile condominiale.
Si tratta, in tutta evidenza, di
circostanze che non sono sufficienti a superare la
presunzione di cui all’art. 1117 c.c. per cui non è
necessario che il condominio dimostri con il rigore
richiesto per la rivendicazione la comproprietà delle parti
comuni, essendo sufficiente, per presumere la natura
condominiale, l'attitudine funzionale al servizio o al
godimento collettivo, e cioè il collegamento strumentale,
materiale o funzionale con le unità immobiliari di proprietà
esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da
accessorio a principale. Al contrario spetta al condomino che ne afferma la
proprietà esclusiva (o, come nel caso in esame, l’assenza di
comunione in una singola proprietà) fornirne prova. Tale
prova non è fornita dal ricorrente.
----------------
...
per l'annullamento:
- del provvedimento adottato dal SUAP del Comune di
Senigallia prot. 78612 del 28.12.2015 avente ad oggetto
l'attività di installazione in cortile condominiale di canna
fumaria a servizio dell'attività commerciale di ristorazione
nonché del parere favorevole condizionato rilasciato
dall'Ufficio Sviluppo Urbano Sostenibile del Comune di
Senigallia del 04.06.2015;
-
di tutti gli atti antecedenti e successivi, comunque
finalizzati a consentire l'installazione della canna fumaria
ivi compresi:
a) il parere ASUR 101806/15 laddove si ritenga che consenta
l’intervento anzidetto nonché l'autorizzazione 13481 del 26.11.2015;
b) l'autorizzazione della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici delle Marche nr. 13481 del 26.11.2015, la nota del Segretariato Regionale del MBAC
5408 del 23.12.2015 e la deliberazione della
Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale nr. 210/15
di reiezione della richiesta di annullamento della predetta
autorizzazione;
...
1.1 Il ricorso è però infondato nel merito. Le ragioni su
cui si fonda l’impugnata autorizzazione, espresse nel
provvedimento, impugnato e i relativi pareri regolarmente
acquisiti dal Comune di Senigallia sono condivisibili.
1.2 Con il primo motivo il ricorrente deduce che il controinteressato non avrebbe la comproprietà del cortile
condominiale, titolo necessario per innalzare la canna
fumaria. La censura non è condivisibile.
Per costante
giurisprudenza, la collocazione di canne fumarie sul muro
perimetrale di un edificio o una corte interna), può essere
effettuata anche senza il consenso degli altri condomini,
purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro
comune e non ne alteri la normale destinazione con
interventi di eccessiva vastità. Il singolo condomino ha
quindi titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia
negato il proprio consenso, a ottenere la concessione
edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita
sul muro perimetrale comune, che si attenga ai limiti
suddetti (si veda Tar Toscana 28.10.2015 n. 147 e la
giurisprudenza ivi richiamata).
1.3 La possibilità di installare la canna fumaria non è
impedita dalla circostanza che il titolare
dell’autorizzazione commerciale sia, come appare
incontestato in atti, locatario dell’immobile (infatti,
l’istanza di installazione della canna fumaria è stata
presentata congiuntamente con il proprietario). Ancora,
l’affermata assenza della proprietà indivisa della corte
condominiale è una mera illazione che scaturisce dalla non
esplicita menzione di quest’ultima nel contratto di
compravendita dell’immobile e dalla circostanza che il
medesimo contratto riporterebbe che la proprietà confina con
i cortile condominiale.
Si tratta, in tutta evidenza, di
circostanze che non sono sufficienti a superare la
presunzione di cui all’art. 1117 c.c. per cui non è
necessario che il condominio dimostri con il rigore
richiesto per la rivendicazione la comproprietà delle parti
comuni, essendo sufficiente, per presumere la natura
condominiale, l'attitudine funzionale al servizio o al
godimento collettivo, e cioè il collegamento strumentale,
materiale o funzionale con le unità immobiliari di proprietà
esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da
accessorio a principale (Cassazione civile 05.05.2016, n.
9035). Al contrario spetta al condomino che ne afferma la
proprietà esclusiva (o, come nel caso in esame, l’assenza di
comunione in una singola proprietà) fornirne prova. Tale
prova non è fornita dal ricorrente
(TAR Marche,
sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la disposizione del Regolamento Edilizio
ove si prescrive che “le bocche dei camini
devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al
colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo
o struttura distante meno di 10 metri” la ratio
della norma è quella di evitare immissioni
sgradevoli o nocive rispetto ad altri condomini.
Di conseguenza, tali limitazioni vanno interpretate in modo
funzionale, per evitare risultati paradossali in quanto, ad
esempio, applicando acriticamente ed in maniera
generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria
deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell'edificio
vicino si dovesse pretendere un'altezza superiore a quella
anche del più alto grattacielo confinante.
Il
regolamento edilizio comunale peraltro prevede chiaramente
delle alternative per il caso che la canna fumaria non sia
costruita in aderenza al colmo del tetto, dettando norme per
i parapetti ed altre ostacoli o strutture.
----------------
...
per l'annullamento:
- del provvedimento adottato dal SUAP del Comune di
Senigallia prot. 78612 del 28.12.2015 avente ad oggetto
l'attività di installazione in cortile condominiale di canna
fumaria a servizio dell'attività commerciale di ristorazione
nonché del parere favorevole condizionato rilasciato
dall'Ufficio Sviluppo Urbano Sostenibile del Comune di
Senigallia del 04.06.2015;
-
di tutti gli atti antecedenti e successivi, comunque
finalizzati a consentire l'installazione della canna fumaria
ivi compresi:
a) il parere ASUR 101806/15 laddove si ritenga che consenta
l’intervento anzidetto nonché l'autorizzazione 13481 del 26.11.2015;
b) l'autorizzazione della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici delle Marche nr. 13481 del 26.11.2015, la nota del Segretariato Regionale del MBAC
5408 del 23.12.2015 e la deliberazione della
Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale nr. 210/15
di reiezione della richiesta di annullamento della predetta
autorizzazione;
...
3 E’ infondato anche il terzo motivo, ove parte ricorrente
afferma la violazione del Regolamento Edilizio del Comune di
Senigallia (e degli allegato al Codice dell’Ambiente cui fa
riferimento) dove si prescrive che “le bocche dei camini
devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al
colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo
o struttura distante meno di 10 metri.” Difatti, la ratio
della norma di cui sopra è quella di evitare immissioni
sgradevoli o nocive rispetto ad altri condomini (Cons. Stato
sez. IV, 25.10.2016, n. 4458).
Di conseguenza, tali
limitazioni vanno interpretate in modo funzionale, per
evitare risultati paradossali in quanto, ad esempio,
applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il
principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare
di una certa distanza il colmo dell'edificio vicino si
dovesse pretendere un'altezza superiore a quella anche del
più alto grattacielo confinante (Tar Lazio Roma 21.12.2016 n. 12712, Cons. Stato, V,
05.01.2015 n. 1). Il
regolamento edilizio comunale peraltro prevede chiaramente
delle alternative per il caso che la canna fumaria non sia
costruita in aderenza al colmo del tetto, dettando norme per
i parapetti ed altre ostacoli o strutture.
Nel caso in
esame, il progetto prevede con chiarezza che la canna
fumaria sia costruita ben sopra il terrazzo del ricorrente,
che non fornisce alcuna prova relativa alla rilevanza di
eventuali emissioni.
Inoltre, il progetto prevede comunque
che la canna fumaria medesima sia portata all’altezza del
tetto. In realtà, le critiche di parte ricorrente al
progetto, che non sarebbe eseguito a regola d’arte per vari
motivi, sono rivolte (con l’eccezione della appena trattata
altezza della canna fumaria) a valutazioni tecniche di
competenza di comune e ASR (sicurezza ed emissioni) senza
che sia argomentata in maniera puntuale alcuna altra
violazione normativa (art. 39
del DPCM n. 171 del 2014)
(TAR Marche,
sentenza 01.08.2017 n. 648 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A fonte della richiesta del lavoratore
di essere assegnato a mansioni diverse per inidoneità
sopravvenuta alle mansioni originarie, è a carico del datore
di lavoro l'onere di provare la indisponibilità di altre
posizioni lavorative di utile collocazione (compatibili con
le condizioni di salute del lavoratore) senza che tale onere
sia in alcun modo condizionato dalla previa allegazione di
posizioni specifiche esistenti in azienda, posizioni che il
lavoratore non è tenuto a conoscere e che potrebbero, in
ipotesi, anche essere estranee alla sua sfera di
conoscibilità.
Neppure può ravvisarsi un onere del lavoratore di contestare
in causa la inidoneità, assunta dal datore di lavoro,
rispetto alle mansioni disponibili giacché tale onere
riguarda i fatti storici (rientranti nella sfera di
conoscibilità della parte onerata a contestarli) e non i
giudizi, quale quello di inidoneità alle mansioni.
---------------
La liquidazione equitativa della componente esistenziale del
danno alla persona presuppone la allegazione in concreto e
la prova da parte del lavoratore del complessivo
peggioramento della qualità della vita, sul piano delle
relazioni umane e del contesto familiare sicché non è
configurabile un danno implicito nella mancanza di lavoro ma
spetta all'interessato allegare precisi elementi di fatto e
fornire la prova del danno, anche avvalendosi di
presunzioni.
---------------
A fonte della richiesta del lavoratore di essere assegnato a
mansioni diverse per inidoneità sopravvenuta alle mansioni
originarie, è a carico del datore di lavoro l'onere di
provare la indisponibilità di altre posizioni lavorative di
utile collocazione (compatibili con le condizioni di salute
del lavoratore) senza che tale onere sia in alcun modo
condizionato dalla previa allegazione di posizioni
specifiche esistenti in azienda, posizioni che il lavoratore
non è tenuto a conoscere e che potrebbero, in ipotesi, anche
essere estranee alla sua sfera di conoscibilità.
In tal senso può essere utilmente richiamata, per identità
di ratio, la giurisprudenza più recente di questa
Corte (Cassazione civile, sez. lav., 11/10/2016, n. 20436)
formatasi in tema di ripartizione degli oneri di allegazione
e prova della impossibilità di repechage nel licenziamento
per giustificato motivo oggettivo.
Neppure può ravvisarsi un onere del lavoratore di contestare
in causa la inidoneità, assunta dal datore di lavoro,
rispetto alle mansioni disponibili giacché tale onere
riguarda i fatti storici (rientranti nella sfera di
conoscibilità della parte onerata a contestarli) e non i
giudizi, quale quello di inidoneità alle mansioni.
...
2. Con il secondo
motivo la società Poste Italiane spa ha dedotto -ai
sensi dell'art. 360 nr. 5 cod. proc. civ.- omessa e
insufficiente motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio in riferimento al danno liquidato
nonché -ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod. proc. civ.-
violazione degli artt. 2103, 1218, 1223, 2087, 2059, 2697,
2727, 2729 cod. civ. e degli artt. 115,116, 421 cod. proc.
civ.
Ha censurato la sentenza per avere ritenuto sussistenti
in re ipsa il danno non patrimoniale ed il danno
esistenziale quale conseguenza della inattività lavorativa.
Ha dedotto che la consulenza tecnica acquisita non poteva
sopperire alla mancanza di allegazione e di prova del danno
da parte del danneggiato.
...
Il secondo motivo è fondato.
La liquidazione equitativa della componente esistenziale del
danno alla persona presuppone la allegazione in concreto e
la prova da parte del lavoratore del complessivo
peggioramento della qualità della vita, sul piano delle
relazioni umane e del contesto familiare sicché non è
configurabile un danno implicito nella mancanza di lavoro ma
spetta all'interessato allegare precisi elementi di fatto e
fornire la prova del danno, anche avvalendosi di presunzioni
(in termini: Cassazione civile, sez. lav., 25/08/2014, n.
18207).
La Corte di merito, affermando che la componente
esistenziale del danno non patrimoniale si configura come
danno presunto, di cui il lavoratore non deve fornire la
prova concreta, non si è attenuta all'indicato principio di
diritto.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, in
accoglimento del secondo motivo del ricorso principale e la
causa rinviata ad altro giudice, che si individua nella
Corte d'appello di Firenze in diversa composizione, perché
provveda ad nuovo accertamento del danno, immune dal vizio
di diritto evidenziato (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 26.07.2017 n. 18506). |
EDILIZIA PRIVATA: Questo Consiglio ha avuto modo di affermare il principio
secondo cui, in presenza di un giudicato civile, a questo
deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non
può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario.
È stato ulteriormente evidenziato che la portata oggettiva e
soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione
materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà
esclude la stessa necessità giuridica (id est:
imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che
in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a
tutela del diritto dominicale esclude ogni potere
dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di
sottrarsi) al dictum giurisdizionale.
Ha, peraltro, affermato che, ove la richiesta del titolo
edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere
in merito.
---------------
Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio
l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di
procedimenti di esecuzione civile, questo Consiglio non ha
mai declinato la giurisdizione in materia.
È ben vero che il titolo edilizio costituisce un elemento
che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento
giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario
per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza.
La sua richiesta, peraltro, innesca un procedimento
amministrativo, il quale si conclude con un provvedimento
amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è
dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo.
Vuole in buona sostanza affermarsi che tale procedimento
amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur
se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente,
mantengono la loro autonomia in termini di atti
qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario
loro regime di impugnazione e di cognizione.
---------------
Può a questo punto passarsi all’esame dell’appello n. 1583
del 2017.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione
II, con sentenza breve n. 1431/2016 del 30.12.2016
dichiarava il difetto di giurisdizione sul ricorso
presentato dai signori Ni.Ca. ed Er.Ca.
inteso ad ottenere l’annullamento del provvedimento del
Comune di Lugo di Vicenza prot. n. 8471 del 06.10.2016, con
il quale veniva rigettata l’istanza di permesso di costruire
presentata dal CTU nominato in sede di giudizio di
esecuzione civile inteso ad ottenere la demolizione parziale
di un immobile di proprietà dei signori Ca.An., Ri.Gl., Ca.Or. e Ca.Gi., in
esecuzione del giudicato civile formatosi sulla sentenza n.
343/2001 del Tribunale di Vicenza, confermata in sede di
giudizio di appello e di Cassazione.
La prefata sentenza così motivava il ritenuto difetto di
giurisdizione.
“Parte ricorrente agisce per l’esecuzione della sentenza del
Tribunale civile di Vicenza n. 343/2001 con cui i controinteressati sono stati condannati a demolire
parzialmente l’immobile perché costruito in difformità dalle
norme sulle distanze legali. E’ stato infatti formalmente
impugnato diniego del permesso di costruire richiesto dal
consulente tecnico di ufficio nominato nel giudizio civile (r.g.
1487/11 Tribunale civile di Vicenza) attivato dai ricorrenti
ai sensi dell’art. 612 del cod. proc. Civ. , al fine di
ottenere l’esecuzione della sopra richiamata sentenza. La
questione, anche se comprende l’obbligo del comune di
Vicenza di rilasciare o meno il sopra richiamato permesso di
costruire, rientra comunque nell’ambito di ciò che deve
essere fatto, anche con l’intervento di parti terze, quale
il comune di Vicenza a mezzo di provvedimenti
amministrativi, per dare esecuzione a sentenza del tribunale
civile. La questione non è se il Comune di Vicenza possa o
meno rilasciare il permesso di costruire richiesto dal sopra
richiamato consulente tecnico, ma se il Comune di Vicenza
debba rilasciare tale permesso di costruire per eseguire la
sopra richiamata sentenza del tribunale civile di Vicenza.
Ne consegue la giurisdizione del giudice ordinario, il quale
del resto è stato già adito dai ricorrenti per ottenere una
sentenza di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di
non fare ai sensi dell’art. 612 del cod. proc. Civ. In tale
sede potrà essere lamentato se il provvedimento di diniego
di permesso di costruire costituisca illegittimo ostacolo
posto dal Comune di Lugo di Vicenza all’esecuzione della
sopra richiamata sentenza. Ne consegue il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo”.
Avverso la citata sentenza hanno proposto appello dinanzi a
questo Consiglio di Stato (“appello avverso sentenza su
questione di giurisdizione ex art. 105, comma 2, c.p.a.”),
deducendone l’erroneità e chiedendone la riforma.
...
Venendo a questo punto all’esame dell’appello, il Collegio
ritiene che sia fondato ed assorbente il motivo con il quale
gli appellanti censurano l’erroneità della sentenza di primo
grado per avere ritenuto in materia la giurisdizione del
giudice ordinario e non del giudice amministrativo.
È, invero, ferma convinzione del Collegio che nel caso di
specie sussista la giurisdizione del giudice amministrativo,
indipendentemente dalla circostanza che sia pendente un
giudizio civile per l’esecuzione del giudicato ex art. 612
c.p.c..
Va, in proposito, in primo luogo considerato che
l’acquisizione delle autorizzazioni necessarie
all’adempimento del giudicato è stato disposto dallo stesso
giudice dell’esecuzione, il quale ha a tal fine dato
incarico al CTU (v. ordinanza del 05.10.2011), ritenendo, di
conseguenza, necessario l’atto abilitativo comunale.
Va, di poi, evidenziato che l’atto oggetto di impugnativa è
un vero e proprio provvedimento amministrativo, dotato dei
requisiti propri della tipicità, nominatività ed
imperatività.
Come tale, esso è impugnabile davanti al giudice
amministrativo, il quale ha giurisdizione in materia, per
come emerge, tra l’altro, dall’articolo 133, comma 1, lett.
f), del c.p.a..
Questo Consiglio (cfr. sez. IV, 12.03.2013, n. 1482; V,
10.12.1990, n. 856) ha avuto modo di affermare il principio
secondo cui, in presenza di un giudicato civile, a questo
deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non
può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario.
È stato ulteriormente evidenziato che la portata oggettiva e
soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione
materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà
esclude la stessa necessità giuridica (id est:
imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che
in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a
tutela del diritto dominicale esclude ogni potere
dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di
sottrarsi) al dictum giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, IV,
n. 1482/2013).
Ha, peraltro, affermato che, ove la richiesta del titolo
edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere
in merito.
Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio
l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di
procedimenti di esecuzione civile, questo Consiglio non ha
mai declinato la giurisdizione in materia.
È ben vero che il titolo edilizio costituisce un elemento
che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento
giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario
per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza.
La sua richiesta, peraltro, innesca un procedimento
amministrativo, il quale si conclude con un provvedimento
amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è
dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo.
Vuole in buona sostanza affermarsi che tale procedimento
amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur
se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente,
mantengono la loro autonomia in termini di atti
qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario
loro regime di impugnazione e di cognizione.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, il
motivo di appello con il quale si assume la giurisdizione in
materia del giudice amministrativo è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’articolo 105 del c.p.a. la sentenza del
Tribunale che ha declinato la giurisdizione deve essere
annullata, con rinvio al giudice di primo grado, affinché
esamini la vicenda nel merito, ciò essendo formalmente
precluso al giudice di appello.
In conclusione, dunque, l’appello n. 1583/2017 R.G. deve
essere accolto e, per l’effetto, va dichiarata la
giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente
annullamento della sentenza gravata che ha dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e con
rimessione della causa al primo giudice ex art. 105 c.p.a..
Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate come da
dispositivo, sono poste a carico in solido dei signori
Ca.An., Ri.Gl., Ca.Or. e Ca.Gi., considerato che questi, quali soggetti esecutati,
avrebbero dovuto spontaneamente dare esecuzione al giudicato
civile, onde la presente controversia trova origine
primigenia nel loro comportamento omissivo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.07.2017 n. 3664 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore
e disturbo dal bar.
In tema di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità
delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone costituisce un accertamento di
fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il
quale non è tenuto a basarsi esclusivamente
sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben
potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della
pubblica quiete.
---------------
Perché sussista la contravvenzione
di cui all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che
si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione
di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete
e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento
sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di
una più consistente parte degli occupanti il medesimo
edificio.
---------------
Integra la contravvenzione di
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone
l'organizzazione di feste e cerimonie all'interno di uno
scantinato di edificio condominiale che si protraggano per
ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori,
idonei a diffondersi all'interno e all'esterno dello stabile
con pregiudizio della tranquillità di un numero
indeterminato di persone. (Nella specie, il frastuono
determinato dalle feste, che avevano frequenza
bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie
del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali
o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di
esso).
---------------
3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei
motivi.
Il ricorrente contesta molto genericamente ed in fatto la
decisione impugnata, ed in particolare l'assenza di
accertamenti strumentali del rumore. Inoltre ritiene
l'assenza di prove testimoniali per l'affermazione della
responsabilità.
La sentenza impugnata con motivazione adeguata, immune da
contraddizioni e da manifeste illogicità ha ritenuto
responsabile il ricorrente del reato contestatogli rilevando
la sussistenza di numerosi esposti e diffide ai gestori del
locale, relativi ai rumori intollerabili, sia prima e sia
dopo l'inizio della gestione del ricorrente, del locale "la
dolce vita"; l'intollerabilità estrema dei rumori era
poi desunta dalle chiare deposizioni dei testi An.Ma.,
Ar.Pi.Pa., To.Gr.Na, Fo.Fr. e assistente di P.S. Pa.Pa.. Si
tratta di evidenti accertamenti di fatto, insindacabili in
sede di legittimità.
In tema di disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni
sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di
persone costituisce un accertamento di fatto rimesso
all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è
tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio
convincimento su altri elementi probatori in grado di
dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete
(fattispecie in cui l'intensità delle emissioni sonore è
stata ricostruita mediante la deposizione dei testimoni, i
quali avevano riferito di non riuscire a seguire i programmi
televisivi) (Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015 - dep.
16/03/2015, Montoli e altro, Rv. 263433; sez. 3 del
05.05.2016 n. 18687).
3.1. Nel nostro caso l'accertamento è avvenuto con le
deposizioni testimoniali sopra elencate; inoltre nella
motivazione, esauriente e non contraddittoria, non si
rinvengono manifeste illogicità. La configurabilità del
reato è realizzata solo se il disturbo non sia limitato agli
appartamenti sovrastanti e sottostanti a quello del
disturbatore, il locale "la dolce vita": "Perché
sussista la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen.
relativamente ad attività che si svolge in ambito
condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad
arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non
solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o
sottostante la fonte di propagazione, ma di una più
consistente parte degli occupanti il medesimo edificio"
(Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013 - dep. 13/11/2013,
Virgillito e altro, Rv. 25734501).
Ed ancora: "Integra la contravvenzione
di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone
l'organizzazione di feste e cerimonie all'interno di uno
scantinato di edificio condominiale che si protraggano per
ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori,
idonei a diffondersi all'interno e all'esterno dello stabile
con pregiudizio della tranquillità di un numero
indeterminato di persone. (Nella specie, il frastuono
determinato dalle feste, che avevano frequenza
bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie
del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali
o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di
esso)" (Sez.
1, n. 18517 del 17/03/2010 - dep. 17/05/2010, Oppong, Rv.
24706201; in senso limitativo vedi Cassazione, sez. 3,
29.09.2016, n. 40689).
Nel nostro caso l'intensità dei rumori, che ha costretto
alcuni residenti anche a uscire dalla casa per trovare un
po' di pace e dormire, inducono a ritenere, come
adeguatamente motivato nella sentenza impugnata, che il
disturbo sia avvenuto nei confronti di un numero
indeterminato di persone, o comunque era potenzialmente
idoneo ad infastidire tutto lo stabile e le case vicine
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.07.2017 n. 35175). |
URBANISTICA:
Approvazione di un nuovo Piano Regolatore -
Successione nel tempo delle norme di pianificazione
urbanistica - Nuove previsioni del Piano Regolatore -
Carattere di assoluta prevalenza - Giurisprudenza
Amministrativa.
In base al principio della successione nel tempo delle
norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le
disposizioni successivamente intervenute sostituiscono
integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano
riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per
la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica,
che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la
finalità di adeguare la disciplina del territorio alle
sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità
delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio,
le nuove previsioni del Piano Regolatore: - hanno un
carattere di assoluta prevalenza, - non possono essere
disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività"
del precedente PRG; si sostituiscono integralmente (salvo il
caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle
precedenti disposizioni le quali non possono comunque
conservare alcuna efficacia (Cons. Stato, sez. IV,
09.02.2012, n. 693) - (Tar Lombardia sez. IV, sent. 11/07/14
n. 1842) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 18.07.2017 n. 833 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Finalità della destinazione d’uso e strumenti
urbanistici - Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante - Categorie funzionalmente autonome - Diversa
destinazione di zona - Impatto urbanistico e incremento del
carico urbanistico. Artt. 23-ter, 31 e 44 d.P.R. n. 380 del
2001.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto
funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate
dagli strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per
qualità e quantità proprio a seconda della diversa
destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Richiesta di cambio della destinazione
d'uso di un fabbricato e mutamento di destinazione d'uso
realizzato senza l'esecuzione di opere edilizie -
Assoggettamento a S.C.l.A. - Aggravio del carico urbanistico
- Insanabile contrasto con lo strumento urbanistico.
La richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede.
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, senza
l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito (Cass. Sez.
3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra
cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del
05/04/2016) che il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è attualmente assoggettato a S.C.l.A., purché
intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione
d'uso funzionale che non comporti una oggettiva
modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del
territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che
non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico,
inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti
secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a
parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di
rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013,
Pace, non massimata), derivante dalla diversa destinazione
impressa al bene.
Destinazione a luogo di culto di un
edificio - Valutazione delle esigenze urbanistiche con
particolare riferimento agli standard fissati dal
D.M.1444/1968 - Pianificazione e aggravio del carico
urbanistico - Giurisprudenza.
La destinazione a luogo di culto di un edificio, non è
astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di
cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella
residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva
e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto
può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non
determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa
categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti,
ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla
esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico
urbanistico nel senso anzidetto.
Pertanto, se l'attività di culto non rientra in alcuna delle
suddette categorie funzionali, il suo svolgimento, di per
sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse
diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in
concreto accertato, unitamente, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico
(Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini; Sez. 3, n. 19378
del 15/03/2002, Catalano; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003,
Censullo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2017 n. 34812 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Reati
edilizi: la parziale difformità dell'opera non può
essere stabilita sulla base della legge regionale.
In materia di legislazione edilizia
nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione
una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa
legislazione deve non solo rispettare i principi
fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve
anche essere interpretata in modo da non collidere con i
medesimi.
---------------
Ai fini della integrazione del reato
di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, si considera
in "totale difformità" l'intervento
che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra
l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con
l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da
quello assentito per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche, di utilizzazione o di ubicazione, mentre,
invece, in "parziale difformità"
l'intervento che, sebbene contemplato dal titolo
abilitativo, all'esito di una valutazione analitica delle
singole difformità risulti realizzato secondo modalità
diverse da quelle previste a livello progettuale.
---------------
Il concetto della totale
difformità è antitetico infatti rispetto a quello della
parziale difformità, e ciò giustifica il diverso
approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità,
che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o
dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un
intervento costruttivo, specificamente individuato, che,
quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga
tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle
fissate a livello progettuale. Il concetto di totale
difformità presuppone invece un intervento costruttivo
che esclude una valutazione frammentaria di esso e che
perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto
che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere
eseguite in totale difformità dal permesso di
costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un
organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso...".
---------------
L'art. 31, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 richiama un concetto
di "totale difformità" ancorato, più
che al confronto tra la singola difformità e le previsioni
progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione
sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito
e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio
scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che,
mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il
concetto di "parziale difformità" ha
carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale
difformità" si fonda su una valutazione di
sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato
complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato
rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese
in considerazione in fase di assenso amministrativo.
In proposito, già nel previgente e non
antitetico assetto normativo era stato chiarito che si ha
difformità totale di un manufatto edilizio allorché i
lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista
dall'atto di concessione: diversa per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si
configura la difformità parziale quando le
modificazioni incidano su elementi particolari e non
essenziali della costruzione e si concretizzino in
divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle
strutture essenziali dell'opera.
---------------
4. Il ricorso è inammissibile.
4.1. In proposito, rappresenta principio del tutto
consolidato che in materia di legislazione
edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando
alla Regione una competenza legislativa esclusiva in
materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i
principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale,
ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere
con i medesimi
(così Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938;
v. anche Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, Moltisanti, Rv.
234935).
Del pari, è stato così recentemente osservato che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001, si considera in "totale
difformità" l'intervento che, sulla base di una
comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo
programmato e quello che è stato realizzato con l'attività
costruttiva, risulti integralmente diverso da quello
assentito per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche,
di utilizzazione o di ubicazione, mentre, invece, in "parziale
difformità" l'intervento che, sebbene contemplato
dal titolo abilitativo, all'esito di una valutazione
analitica delle singole difformità risulti realizzato
secondo modalità diverse da quelle previste a livello
progettuale (Sez.
3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e altri, Rv. 260652).
Ciò posto, e tenuto conto dei richiamati rapporti tra fonti
legislative, il ricorso in realtà non si confronta con la
ratio del provvedimento impugnato.
In proposito, infatti, quest'ultimo aveva espressamente dato
conto, così riprendendo i contenuti già sviluppati nel primo
giudizio dal Tribunale di Siracusa, che "il vano con
copertura e tettoia in legno, realizzato sul versante nord
del fabbricato principale, costituisce un organismo edilizio
integralmente diverso per utilizzazione e per
caratteristiche planovolumetriche e tipologiche del
manufatto assentito con la concessione edilizia, non solo e
non tanto per la superficie occupata, di poco (ma non di
pochissimo) superiore a quella assentita (ml 5,10x5,10
anziché ml 3,45x4), ma anche e soprattutto in virtù della
tettoia con sottostante terrazzino coperto e pavimentato,
costruiti in aderenza al piccolo corpo di fabbrica, con
conseguente autonoma utilizzabilità del complessivo
manufatto anche dal punto di vista economico-sociale: come
emerge dalla visione degli allegati fotografici, invero, il
manufatto è stato realizzato e rifinito in modo tale da
risultare idoneo al soddisfacimento di finalità latamente
abitative. In ogni caso, poi, la tettoia con sottostante box
in muratura, realizzata sul versante sud dell'edificio non
era affatto prevista dal titolo concessorio".
Atteso ciò, il ricorrente ha invece insistito per
l'applicazione della normativa di cui alla legge regionale
siciliana 10.08.1985, n. 37, in quanto si sarebbe trattato
solamente di parziale difformità, la cui specifica nozione
si traeva, anche in virtù dell'esclusività della
legislazione urbanistica regionale, dall'art. 7 della legge
37 cit..
L'assunto non è condivisibile, laddove in ogni caso non vi è
stato tra l'altro neppure specifico confronto con la
ratio allegata dalla Corte territoriale.
E' stato in proposito così rilevato, con valutazione che la
Corte intende coltivare, che il concetto
della totale difformità è antitetico infatti rispetto
a quello della parziale difformità, e ciò giustifica
il diverso approccio valutativo e comparativo per la
riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa,
dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un
intervento costruttivo, specificamente individuato, che,
quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga
tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle
fissate a livello progettuale. Il concetto di totale
difformità presuppone invece un intervento costruttivo
che esclude una valutazione frammentaria di esso e che
perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto
che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere
eseguite in totale difformità dal permesso di
costruire come quelle "che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso..."
(così, in motivazione, Sez. 3, n. 40541 cit.).
In specie, il ricorrente ha ripetutamente osservato che, per
stabilire se un intervento edilizio realizzato in Sicilia
costituisse o meno difformità totale ovvero variazione
essenziale, doveva farsi ricorso alla definizione data dal
legislatore siciliano alla parziale difformità, ossia alla
verifica sul superamento di limiti colà stabiliti.
Il ragionamento non è corretto.
Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 richiama un concetto
di "totale difformità" ancorato, più che al
confronto tra la singola difformità e le previsioni
progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione
sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito
e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio
scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che,
mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il
concetto di "parziale difformità" ha carattere
analitico, quello destinato ad accertare la "totale
difformità" si fonda su una valutazione di sintesi
collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo
dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato
rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese
in considerazione in fase di assenso amministrativo.
In proposito, già nel previgente e non
antitetico assetto normativo era stato chiarito che si ha
difformità totale di un manufatto edilizio allorché i
lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista
dall'atto di concessione: diversa per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si
configura la difformità parziale quando le
modificazioni incidano su elementi particolari e non
essenziali della costruzione e si concretizzino in
divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle
strutture essenziali dell'opera
(Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 1988, Ferrali, Rv.
177490).
Al riguardo, ed alla stregua di quanto fin qui osservato, è
stata correttamente valutata l'irrilevanza del richiamo alla
legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole
difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il
carattere di difformità parziale. Proprio per la richiamata
natura totale (concettualmente ben diversa dall'ipotesi di
difformità parziale, come si è visto) delle difformità
edilizie unitariamente riguardate, e sulle quali ben poco il
ricorso si spende, ed attesa la clausola di salvezza posta
in apertura della disposizione, l'art. 32 del testo unico
dell'edilizia non si presenta applicabile. Sì che
non vi è spazio per le determinazioni integrative
fissate dalla legislazione regionale, che della
difformità totale non può occuparsi
(cfr. altresì ancora, Sez. 3, n. 40541 cit.)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34533). |
EDILIZIA PRIVATA:
Integra
il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R.
n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di
copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata.
La costruzione di una tettoia di copertura
di un terrazzo di un immobile non può infatti qualificarsi
come pertinenza, in quanto si tratta di un'opera priva del
requisito della individualità fisica e strutturale propria
della pertinenza, costituendo parte integrante dell'edificio
sul quale viene realizzata, rappresentandone un ampliamento.
Essa pertanto, in difetto del preventivo rilascio del
permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti si è parimenti annotato che deve ritenersi che
la tettoia di un edificio non rientra nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto
parte dell'edificio cui aderisce: ciò in quanto in
urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue
proprie, diverse da quelle definite dal codice civile,
riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria
individualità, in rapporto funzionale con l'edificio
principale, laddove la parte dell'edificio appartiene senza
autonomia alla sua struttura.
Costituisce quindi nuova costruzione ai
sensi del d.P.R. n. 380 del 2001 qualsiasi manufatto
edilizio fuori terra o interrato. Né può farsi ricorso alla
nozione di ampliamento dell'edificio preesistente,
trattandosi di nuova costruzione, sia pure accessoria a
detto edificio.
In definitiva, la natura precaria delle
opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici va
intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso
della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale,
ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà
dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere
eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi
ivi espressamente previsti.
---------------
E' infine appena il caso di ricordare, ad integrazione
di quanto già richiamato circa la natura dell'intervento
abusivo, la manifesta infondatezza di ogni questione legata
all'edificazione delle tettoie.
Integra infatti il reato previsto dall'art. 44, lett. b),
del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il
preventivo rilascio del permesso di costruire, di una
tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata
(Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv.
257290).
La costruzione di una tettoia di copertura di un terrazzo di
un immobile non può infatti qualificarsi come pertinenza, in
quanto si tratta di un'opera priva del requisito della
individualità fisica e strutturale propria della pertinenza,
costituendo parte integrante dell'edificio sul quale viene
realizzata, rappresentandone un ampliamento. Essa pertanto,
in difetto del preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001 (Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele, Rv.
232363).
Infatti si è parimenti annotato che deve ritenersi che la
tettoia di un edificio non rientra nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto
parte dell'edificio cui aderisce: ciò in quanto in
urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue
proprie, diverse da quelle definite dal codice civile,
riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria
individualità, in rapporto funzionale con l'edificio
principale, laddove la parte dell'edificio appartiene senza
autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n. 17083 del
07/04/2006, Miranda e altro, Rv. 234193).
Costituisce quindi nuova costruzione ai sensi del d.P.R. n.
380 del 2001 qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o
interrato. Né può farsi ricorso alla nozione di ampliamento
dell'edificio preesistente, trattandosi di nuova
costruzione, sia pure accessoria a detto edificio (così,
complessivamente, Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino,
Rv. 247628).
In definitiva, la natura precaria delle opere di chiusura e
di copertura di spazi e superfici, per le quali l'art. 20
della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede
concessione e/o autorizzazione, va intesa secondo un
criterio strutturale, ovvero nel senso della facile
rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con
riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso,
sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può
essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente
previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv.
261156; conf. Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv.
246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv.
237533).
Ed in specie, proprio per le accertate dimensioni
non trascurabili del manufatto siccome descritto ed in
relazione alle sue finalità individuate, la normativa
regionale non deve ritenersi applicabile (cfr. altresì, Sez.
3, n. 33039 cit.)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34533). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione impianto - Inosservanza delle
prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio -
Subordine l'attività autorizzata all'accettazione della
polizza fideiussoria - Art. 256, c. 3 e 4, D.Lgs. n.
152/2006.
Integra il reato di cui all'art. 256, c. 3 e 4, del D.Lgs.
n. 152 del 2006 l'inosservanza delle prescrizioni contenute
nel provvedimento autorizzatorio da parte del gestore di un
impianto sia quelle, ad esempio, relative alla fase
post-operativa di una discarica autorizzata (così Sez. 3, n.
40318 del 16/06/2016, P.M. in proc. Strazzer), che quelle
relative alla fase pre-operativa di un impianto di deposito,
ovvero messa in sicurezza e trattamento di rifiuti, come nel
caso di specie, ove la prescrizione violata era quella che
subordinava l'esercizio dell'attività autorizzata
all'accettazione della polizza fideiussoria.
RIFIUTI - Qualità di rifiuto - Elementi
positivi e negativi - Accordo di cessione a terzi - Effetti.
La qualità di rifiuto, una volta acquisita in base ad
elementi positivi (il fatto che si tratti di beni residuo di
produzione di cui i detentori si siano voluti disfare) e
negativi (res non avente in sé il requisito di
sottoprodotto), non viene meno in ragione dì un accordo di
cessione a terzi, né del valore economico del bene conferito
che sia stato riconosciuto nel medesimo accordo, in quanto
va fatto riferimento alla volontà dei cedenti di disfarsi
del bene e non già all'utilità che potrebbe ritrarne il
cessionario (Cass. Sez. 3, n. 5442/17 del 15/12/2016, P.M.
in proc. Zantonello).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Scusabilità
dell'ignoranza della legge penale invocata dall'operatore
professionale - Limiti della inevitabilità.
Il principio che la scusabilità dell'ignoranza della legge
penale, può essere invocata dall'operatore professionale di
un determinato settore solo ove dimostri, da un lato, di
aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità
competenti i chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi
informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così
adempiendo il dovere di informazione (così Sez. 3, n. 35694
del 05/04/2011, Pavanati), in quanto i limiti della
inevitabilità, e quindi della non colpevolezza,
dell'ignoranza della legge penale, che scusa l'autore
dell'illecito, debbono essere in ogni caso individuati in
relazione allo specifico soggetto agente: mentre per il
cittadino comune è sufficiente l'ordinaria diligenza
nell'assolvimento di un dovere di informazione di tipo
generico, attraverso la corretta utilizzazione dei normali
mezzi di informazione, di indagine e di ricerca dei quali
disponga, tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti
coloro che svolgono professionalmente una determinata
attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di
una "culpa levis'' nello svolgimento dell'indagine
giuridica.
Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza,
occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi
amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento
giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento
della correttezza dell'interpretazione normativa e,
conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Cass..
SSUU, n. 8154 del 10/06/1994, P.G. in proc. Calzetta, Sez.
5, n. 41476 del 25/09/2003, Izzo, Sez. 3, n. 172 del
06/11/2007, Picconi)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34522 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Valori limite di
emissione e di qualità dell'aria - Finalità degli artt. 278
e 279 D.L.vo n.152/06 - Rilascio del titolo abilitativo e
l'imposizione di specifiche prescrizioni e di obblighi di
comunicazione - Tutela dell'ambiente e della salute -
Controlli adeguati e meccanismo di tutela anticipata del
bene ambientale.
Attraverso l’art. 279, comma 2, dlgs 152/2006, il
legislatore intende per un verso assicurare il rispetto dei
valori limite di emissione e di qualità dell'aria; e, per
altro verso, "consentire alle autorità preposte,
attraverso il rilascio del titolo abilitativo e
l'imposizione di specifiche prescrizioni e di obblighi di
comunicazione, un controllo adeguato finalizzato ad una
efficace tutela dell'ambiente e della salute che
l'espletamento di determinate attività può, anche
potenzialmente, porre in pericolo" (Cass. Sez. 3, n.
24334 del 13/05/2014, dep. 10/06/2014, Boni e altro).
In questo modo, l'ordinamento realizza un meccanismo di
tutela anticipata del bene ambientale, pienamente
giustificata dalla natura collettiva di un interesse di
preminente rilievo; tutela realizzata attraverso il presidio
della sanzione penale non soltanto rispetto alle condotte
direttamente offensive del bene in questione, ma anche
rispetto ai dispositivi di controllo amministrativo,
finalizzati al monitoraggio, al contenimento ed alla
regolamentazione delle situazioni potenzialmente causative
di fenomeni inquinanti.
ARIA - Disciplina in materia di
inquinamento atmosferico - Continuità normativa tra d.lgs.
n. 152/2006 e D.P.R. 203/1988 - Situazioni di pericolo per
la salute o per l'ambiente - Autorità preposte al controllo
e potere di ordinanza.
L'art. 279, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella sua
attuale formulazione, stabilisce che "chi, nell'esercizio
di uno stabilimento, viola i valori limite di emissione o le
prescrizioni stabiliti dall'autorizzazione (... ) o le
prescrizioni altrimenti imposte dall'autorità competente ai
sensi del presente titolo è punito con l'arresto fino ad un
anno o con l'ammenda fino a 1.032 euro".
Tale disposizione incriminatrice si colloca in posizione di
continuità rispetto alla previgente disciplina in materia di
inquinamento atmosferico, che all'art. 24, comma 4, del
D.P.R. 24.05.1988, n. 203 sanzionava penalmente colui il
quale, nell'esercizio di un nuovo impianto, non osservava le
prescrizioni dell'autorizzazione o quelle imposte dalla
autorità competente nell'ambito dei poteri ad essa spettanti
(Cass. Sez. 3, n. 18774 del 18/05/2010; Sez. 3, n. 4536 del
29/01/2008; Sez. 3, n. 47081 del 19/12/2007).
Mentre, l'art. 278 del D.Lgs. n. 152 del 2006, prevede un
potere di ordinanza in capo alle autorità preposte al
controllo in caso di inosservanza delle prescrizioni
contenute nell'autorizzazione, "ferma restando
l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 279, e delle
misure cautelari disposte dall'autorità giudiziaria",
stabilendo che sia nel caso in cui si manifestino o comunque
si determinino situazioni di pericolo per la salute o per
l'ambiente, sia nel caso di mere irregolarità, l'autorità
preposta possa esercitare la diffida, assegnando un termine
entro il quale eliminarle.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Autorità di controllo - Esigenze di
precauzione e di controllo - Poteri e limiti - Eccesso di
potere - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Verifica del giudice
della ragionevolezza delle disposizioni impartite.
In tema di emissioni, l'ampiezza delle prescrizioni, sia
quelle dell'autorizzazione che quelle "altrimenti imposte",
(artt. 278 e 279 D.L.vo n. 152/2006) non può sconfinare
nell'arbitrio, sicché ove la prescrizione non sia in alcun
modo ricollegabile alle esigenze di precauzione e di
controllo sottese all'investitura del potere autorizzazione
in capo all'amministrazione pubblica, il provvedimento sarà
affetto da eccesso di potere (così, con riferimento al
citato art. 24, comma 4, D.P.R. n. 203 del 1988, Sez. 3, n.
4514, 3/02/2006; nonché, relativamente a fatti rientranti
nell'attuale disciplina, Sez. 3, n. 29967 del 27/07/2011).
Sicché, a garanzia della correttezza e proporzionalità delle
prescrizioni, il giudice penale conserva la possibilità di
verificare la ragionevolezza delle disposizioni impartite
dall'organo preposto rispetto alle esigenze di precauzione e
di controllo che giustificano l'attribuzione del potere
autorizzazione in capo alla stessa amministrazione
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34517 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come noto,
con riguardo alle questioni che attengono alla violazione
delle norme civilistiche che disciplinano i rapporti di
vicinato, vige il principio della doppia tutela che consente
agli interessati di rivolgersi sia al giudice ordinario -qualora agiscano direttamente contro il vicino facendo
valere posizioni di diritto soggettivo- che al giudice
amministrativo, qualora agiscano contro l’autorità pubblica
che abbia male esercitato i propri poteri di controllo e
repressione, facendo valere posizioni di interesse
legittimo.
Nel caso di specie, il ricorrente agisce contro il
Comune lamentando il cattivo esercizio del potere
amministrativo. Ne consegue che la giurisdizione sulla
presente controversia appartiene al giudice amministrativo.
---------------
Per quanto concerne la questione con la quale viene dedotto
il difetto dell’interesse ad agire, si deve osservare che,
secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nelle
controversie che hanno ad oggetto i titoli edilizi, la
vicinitas -intesa come situazione di stabile collegamento
con l'immobile interessato dalle opere (ad es. titolarità di
immobili frontisti, confinanti o limitrofi)- costituisce
elemento di per sé sufficiente a fondare tale interesse.
---------------
9. Ritiene il Collegio che le due eccezioni siano infondate.
10. Per quanto concerne la prima, si rileva che, come noto,
con riguardo alle questioni che attengono alla violazione
delle norme civilistiche che disciplinano i rapporti di
vicinato, vige il principio della doppia tutela che consente
agli interessati di rivolgersi sia al giudice ordinario -qualora agiscano direttamente contro il vicino facendo
valere posizioni di diritto soggettivo- che al giudice
amministrativo, qualora agiscano contro l’autorità pubblica
che abbia male esercitato i propri poteri di controllo e
repressione, facendo valere posizioni di interesse legittimo
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.01.2016, n. 81;
id., 31.03.2015, n. 1692; TAR Veneto, Sez. II, 29.04. 2014).
11. Nel caso di specie, il ricorrente agisce contro il
Comune di Milano lamentando il cattivo esercizio del potere
amministrativo. Ne consegue che la giurisdizione sulla
presente controversia appartiene al giudice amministrativo.
12. Per quanto concerne la seconda questione, con la quale
viene dedotto il difetto dell’interesse ad agire, si deve
osservare che, secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale, nelle controversie che hanno ad oggetto i
titoli edilizi, la vicinitas -intesa come situazione di
stabile collegamento con l'immobile interessato dalle opere
(ad es. titolarità di immobili frontisti, confinanti o
limitrofi)- costituisce elemento di per sé sufficiente a
fondare tale interesse (cfr. Consiglio di Stato, sez IV, 12.03.2015, n. 1315; id.,
07.05.2008, n. 2086; TAR
Puglia Bari, sez. III, 09.06.2016, n. 719).
13. Nel caso di specie, il ricorrente contesta proprio la
legittimità di un titolo edilizio che riguarda opere da
realizzarsi su un immobile posto in prossimità della sua
abitazione. Per questa ragione non può negarsi la
sussistenza del suo interesse ad agire.
14. A contrario non è utile invocare la natura della
sanzione applicabile alla fattispecie, posto che l’esercizio
del potere inibitorio sul titolo edilizio determinerebbe
l’accertamento dell’illiceità della condotta posta in essere
dal controinteressato, il quale avrebbe dunque il dovere di
conformarsi spontaneamente a tale accertamento ripristinando
la situazione di fatto antecedente (anche per mettersi al
riparo da possibili responsabilità risarcitorie o penali).
Inoltre, non si deve trascurare che l’applicazione della
sanzione pecuniaria ha comunque funzione di deterrenza
rispetto alla possibile reiterazione della condotta
illecita.
15. Le due eccezioni vanno quindi respinte.
16. Con altra eccezione il controinteressato sostiene che il
ricorso sarebbe inammissibile in quanto la richiesta di
esercizio del potere di autotutela è stata inoltrata
all’amministrazione dopo lo spirare del termine di sessanta
giorni decorrente dal momento di conoscenza, da parte del
ricorrente, dell’esistenza delle DIA avversate.
17. Anche questa eccezione non può essere condivisa in
quanto di recente la Sezione –prendendo posizione anche con
riguardo a giurisprudenza contraria- ha ritenuto che la
proposizione del sollecito oltre il termine di sessanta
giorni non determina l’inammissibilità del ricorso ma
influisce esclusivamente sulla natura del potere che
l’Amministrazione può esercitare (cfr. TAR Lombardia
Milano, sez. II, 05.12.2016, n. 2301; si veda anche
TAR Lombardia Milano, sez. II, 15.04.2016, n. 735).
18. Va comunque osservato che il ricorso in esame è
proposto, non già contro il silenzio, ma contro il
provvedimento con il quale il Comune ha dato riscontro
all’istanza del ricorrente e che, con riferimento a tale
provvedimento, il ricorso è sicuramente tempestivo.
19. Né si può ritenere che il lungo lasso di tempo
intercorso dalla presentazione delle DIA inibisca senz’altro
al Comune di Milano di esercitare su di esse il proprio
potere giacché, stante l’inapplicabilità al caso di specie
delle sopravvenute disposizioni che hanno fissato il termine
di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela,
il fattore tempo costituisce esclusivamente una variabile
che dovrà essere presa in considerazione per valutare la
sussistenza di eventuali posizioni di affidamento.
20. Si deve dunque ribadire l’infondatezza dell’eccezione in
esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.07.2017 n. 1599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2001, colui
che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare
di essere legittimato alla realizzazione dell’intervento che
ne costituisce oggetto. Questa norma contiene un principio
applicabile anche in materia di DIA e SCIA.
La giurisprudenza ha chiarito che l’autorità cui è
rivolta l’istanza non deve compiere indagini approfondite al
fine di appurare l’effettiva sussistenza della
legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni
sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; e ciò in
quanto, da un lato, essa non è deputata a dirimere le
eventuali controversie che insorgono fra le diverse
proprietà, ed in quanto, da altro, lato, i titoli edilizi
non pregiudicano comunque i diritti dei terzi, i quali
possono quindi sempre rivolgersi al giudice civile per la
tutela dei loro diritti.
In base a questi principi è quindi sufficiente che la
pubblica amministrazione accerti perlomeno la sussistenza di
un titolo di legittimazione, senza che sia poi necessario
effettuare complesse ed approfondite indagini circa i limiti
dei diritti che tale titolo attribuisce al richiedente e
circa la validità ed efficacia del titolo stesso.
---------------
21. Può ora passarsi alla trattazione del merito.
22. Con il primo motivo, il ricorrente sostiene che,
contrariamente da quanto ritenuto nel provvedimento
impugnato, le DIA avversate sarebbero illegittime in quanto
prevedono la realizzazione di finestre (e l’ampliamento di
finestre esistenti) poste sul muro confinante con il cortile
del condominio di Via del Don n. 3, senza che sia stata
previamente acquisita l’autorizzazione di quest’ultimo
condominio.
23. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato per le
ragioni di seguito esposte.
24. In base all’art. 11 del d.P.R. n. 380 del 2001, colui
che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare
di essere legittimato alla realizzazione dell’intervento che
ne costituisce oggetto. Questa norma contiene un principio
applicabile anche in materia di DIA e SCIA.
25. La giurisprudenza ha chiarito che l’autorità cui è
rivolta l’istanza non deve compiere indagini approfondite al
fine di appurare l’effettiva sussistenza della
legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni
sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; e ciò in
quanto, da un lato, essa non è deputata a dirimere le
eventuali controversie che insorgono fra le diverse
proprietà, ed in quanto, da altro, lato, i titoli edilizi
non pregiudicano comunque i diritti dei terzi, i quali
possono quindi sempre rivolgersi al giudice civile per la
tutela dei loro diritti.
26. In base a questi principi è quindi sufficiente che la
pubblica amministrazione accerti perlomeno la sussistenza di
un titolo di legittimazione, senza che sia poi necessario
effettuare complesse ed approfondite indagini circa i limiti
dei diritti che tale titolo attribuisce al richiedente e
circa la validità ed efficacia del titolo stesso (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, del 25.09.2014, n. 4818;
TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.10.2016, n. 4643).
27. Ritiene il Collegio che, nel caso concreto, questa
basilare attività accertativa non sia stata compiuta dal
Comune di Milano, posto che, a fronte di DIA aventi ad
oggetto l’ampliamento e la realizzazione di finestre che si
affacciano direttamente su un fondo altrui, non è stato
acquisito il titolo che consente al richiedente di incidere
sui diritti appartenenti al proprietario di tale fondo;
diritti sanciti dagli artt. 905 e 1067, primo comma, cod.
civ., i quali vietano l’apertura di vedute poste sul confine
di proprietà e l’aggravamento di servitù esistenti.
28. A contrario non vale il richiamo alla convenzione
stipulata nell’anno 1952 dagli allora proprietari dei due
immobili confinanti, né le comunicazioni che il
controinteressato ha effettuato nei confronti
dell’amministratore del condominio di Via ..., n. 3.
29. La prima perché, come peraltro ormai riconosciuto dallo
stesso Comune di Milano (sia nel provvedimento impugnato che
nelle proprie memorie), non vi è alcuna norma della
convenzione che attribuisca al controinteressato il diritto
di aprire nuove finestre poste sul confine o di ampliare le
finestre esistenti. L’art. 4 della convenzione stessa ha
chiaramente ad oggetto il diritto del condominio di Via ..., n. 3 di ridurre le dimensioni del cortile di sua
proprietà purché venga comunque mantenuto in essere un
cavedio funzionale a fornire aria e luce al condominio
confinante: la norma non si occupa dunque del diritto
all’ampliamento ed all’apertura di nuove finestre.
30. Le seconde in quanto trattasi appunto di mere
comunicazioni non seguite da espliciti atti di assenso
emessi dai competenti organi condominiali (assemblea)
31. Si deve pertanto ribadire che, nel caso di specie, non è
stata effettuata quella minima attività accertativa,
riguardante la legittimazione ad effettuare gli interventi,
che le amministrazioni comunali hanno invece il dovere di
compiere prima del rilascio dei titoli edilizi.
32. Per queste ragioni si deve ribadire la fondatezza della
censura in esame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.07.2017 n. 1599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di domanda di accertamento di conformità (ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) successivamente
all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere
abusive, rende quest’ultima inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in
quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della
parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di
concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a
proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il
nuovo provvedimento repressivo".
L’interesse della ricorrente è venuto meno a seguito della
successiva emanazione dei provvedimenti sfavorevoli sulla
domanda di sanatoria, espressione di riedizione del potere,
che si sono sostituiti alle precedenti ordinanze di
rimessione in pristino: il riesame dell’abusività
dell’opera, sia pure al fine di verificarne l’eventuale
sanabilità, provocato dall’istanza formulata ex art. 36 del
D.P.R. 380/2001, comporta la necessaria adozione da parte
del Comune di un nuovo atto, che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio, oggetto dell’impugnativa.
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0. Deve essere dichiarata l’improcedibilità dei ricorsi
principali r.g. 32/2008, 33/2008, 34/2008, i quali censurano
le ordinanze di demolizione per le quali è stata
successivamente inoltrata domanda di sanatoria.
Infatti, è stato anche recentemente chiarito che <<la
presentazione di domanda di accertamento di conformità (ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001) successivamente
all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere
abusive, rende quest’ultima inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in
quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della
parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di
concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a
proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il
nuovo provvedimento repressivo">> (cfr. per tutte TAR
Puglia Lecce, sez. III – 31/03/2017 n. 534 e la
giurisprudenza ivi citata, richiamata da questo TAR
nell’ordinanza della sez. I – 21/04/2017 n. 197).
L’interesse della ricorrente è venuto meno a seguito della
successiva emanazione dei provvedimenti sfavorevoli sulla
domanda di sanatoria, espressione di riedizione del potere,
che si sono sostituiti alle precedenti ordinanze di
rimessione in pristino (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III –
28/03/2017 n. 1711): il riesame dell’abusività dell’opera,
sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità,
provocato dall’istanza formulata ex art. 36 del D.P.R.
380/2001, comporta la necessaria adozione da parte del
Comune di un nuovo atto, che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio, oggetto dell’impugnativa (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI – 04/04/2017 n. 1565)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2017 n. 736 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso
di disparità di trattamento, il destinatario di un
provvedimento illegittimo non può invocare, come sintomo di
eccesso di potere, il provvedimento più favorevole
illegittimamente adottato nei confronti di un terzo che si
trovi in analoga situazione.
Il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento
(configurabile soltanto in caso di assoluta identità di
situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole
diversità del trattamento riservato alle stesse), non può
essere dedotto quando viene rivendicata l’applicazione in
proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri
soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del
principio di legalità, la legittimità dell’operato della
p.a. non può comunque essere inficiata dall’eventuale
illegittimità compiuta in altra situazione. Un’eventuale
disparità non può essere risolta estendendo il trattamento
illegittimamente più favorevole ad altri riservato a chi,
pur versando in situazione analoga, sia stato legittimamente
destinatario di un trattamento meno favorevole (nel caso di
specie, appurata la non condonabilità dell’abuso, non rileva
la circostanza che, in casi analoghi, opere simili sono
state condonate, atteso che, se pure esistesse identità di
situazioni, la sanatoria rilasciata dovrebbe considerarsi
illegittima e, come tale, inidonea a fungere da <<tertium
comparationis>> al fine di sorreggere il denunciato vizio di
disparità di trattamento).
---------------
2. Con ulteriore
doglianza la ricorrente ha invocato la violazione del
principio di disparità di trattamento, in quanto l’esponente
avrebbe ricevuto i provvedimenti repressivi mentre il “contendente”
Sig. Al.Ga. (la cui posizione è molto simile a quella della
ricorrente) non ha subìto alcun procedimento sanzionatorio.
2.1 Detta prospettazione non merita condivisione, in quanto
l’allegazione di altre situazioni antigiuridiche non può in
alcun caso generare alcuna legittima aspettativa in chi
versa comunque in una situazione antigiuridica. Il Consiglio
di Stato (cfr. sez. IV – 01/10/2014 n. 4868) nel richiamare
precedenti pronunce ha statuito che <<La giurisprudenza
amministrativa è costante nell’affermare che: “In caso di
disparità di trattamento, il destinatario di un
provvedimento illegittimo non può invocare, come sintomo di
eccesso di potere, il provvedimento più favorevole
illegittimamente adottato nei confronti di un terzo che si
trovi in analoga situazione” (Con. St. sez. VI, 10.05.2013,
n. 2548; idem 08.07.2011, n. 4124). “Il vizio di eccesso di
potere per disparità di trattamento (configurabile soltanto
in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di
conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento
riservato alle stesse), non può essere dedotto quando viene
rivendicata l’applicazione in proprio favore di posizioni
giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo
illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di
legalità, la legittimità dell’operato della p.a. non può
comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità
compiuta in altra situazione. Un’eventuale disparità non può
essere risolta estendendo il trattamento illegittimamente
più favorevole ad altri riservato a chi, pur versando in
situazione analoga, sia stato legittimamente destinatario di
un trattamento meno favorevole (nel caso di specie, appurata
la non condonabilità dell’abuso, non rileva la circostanza
che, in casi analoghi, opere simili sono state condonate,
atteso che, se pure esistesse identità di situazioni, la
sanatoria rilasciata dovrebbe considerarsi illegittima e,
come tale, inidonea a fungere da <<tertium comparationis>>
al fine di sorreggere il denunciato vizio di disparità di
trattamento)” (Con. St. sez. VI, 05.03.2013, n. 2548)>>.
Nel caso di specie, non appare dimostrata l’assoluta
identità di situazioni, né tantomeno la legittimità della
mancanza di provvedimenti restrittivi nei confronti del
soggetto terzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2017 n. 736 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non è necessario scorrere la graduatoria prima di
avviare la mobilità a seguito di concorso interno.
Alcuni dipendenti regionali hanno proposto ricorso in
Cassazione, contro la sentenza della Corte d'Appello
dell'Aquila che ha ritenuto legittimo l'avvio di mobilità a
seguito di concorso interno senza preventivamente esperire
l'obbligo di attingere dalla graduatoria del concorso in
ossequio alle previsioni di vigenza triennale della stessa.
I lavoratori quindi denunciano la violazione e falsa
applicazione dell'art. 30, comma 2-bis, del D.Lgs. 165 del
2001 e degli artt. 33 della legge regionale n. 77 del 1999 e
36 della legge regionale n. 6 del 2005 nonché bando di
concorso (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cpc),
avendo la corte territoriale, trascurato che la regione
aveva l'obbligo di attingere le ulteriori vacanze della
graduatoria del concorso in ossequio alle suddette norme.
La
Sezione Lavoro della Suprema Corte ha respinto il ricorso,
ritenendo insussistente il diritto soggettivo dei ricorrenti
alla copertura dei posti vacanti tramite scorrimento di
graduatoria in via prioritaria rispetto al trasferimento di
personale mediante mobilità intercompartimentale.
Quest'ultima è da ritenersi estranea ai blocchi assunzionali
perché all'esito della sua realizzazione non c'è un vero e
proprio aggravio di spesa per la P.A. Ne resta confermato,
un quadro normativo di assoluto favore per il passaggio di
personale tra Amministrazioni rispetto all'assunzione di
nuovo personale, che non può non riverberarsi anche sul
rapporto tra ricerca di personale mediante mobilità
volontaria e scorrimento delle graduatorie; anche in
quest'ultimo caso, infatti, pur trattandosi di procedure già
espletate, rileva comunque la provvista "aggiuntiva"
di nuove risorse umane, al contrario dell'altra modalità in
cui la copertura dei posti si consegue attraverso
un'ottimale redistribuzione di personale pubblico già in
servizio (commento
tratto dalla newsletter Ancitel 05.06.2017 - Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
18.05.2017 n. 12559).
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MASSIMA
1. Con l'unico motivo di ricorso i lavoratori denunziano
violazione e falsa applicazione
dell'art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, anche
in relazione agli artt. 33
della legge regionale n. 77 del 1999 e 36 della legge
regionale n. 6 del 2005 ed al
bando di concorso (in relazione all'art. 360, primo comma,
n. 3, c.p.c.) avendo, la
Corte territoriale, trascurato che -essendo stata avviata
la mobilità a seguito
dell'indizione del concorso interno- la Regione aveva
l'obbligo di attingere le ulteriore
vacanze dalla graduatoria del concorso in ossequio alle
previsioni di vigenza triennale
della suddetta graduatoria contenute sia nel bando della
selezione sia nelle leggi
regionali.
La Corte territoriale ha, inoltre, richiamato il
criterio di priorità delle
procedure di mobilità rispetto alle procedure di selezione
interna, di cui all'art. 30,
comma 2-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, senza avvedersi che
la disposizione (che
inerisce al momento precedente l'indizione della selezione
interna) è stata inserita
nell'ordinamento in data successiva alla pubblicazione del
bando di concorso (del
14.07.2004). Diversamente, la legge regionale del 1999 (e
quelle successive n. 6 del 2005 e n. 49 del 2010)
prediligono lo strumento dello scorrimento in graduatoria
per
la copertura di posti vacanti, al fine del contenimento
della spesa.
2. Il ricorso non merita accoglimento.
3. La Regione Abruzzo ha indetto, con bando pubblicato sul
B.U.R.A. speciale concorsi
n. 69 del 14.07.2004, una selezione interna (per titoli ed
esami) per la copertura di 3
posti di categoria D, profilo professionale di Funzionario
amministrativo; all'esito della
procedura (la graduatoria è stata pubblicata il 03.08.2005),
la Regione ha provveduto
all'assunzione dei 3 vincitori. Successivamente,, con
delibere che si diluiscono nel
tempo (la prima del 28.08.2005 e l'ultima del 15.11.2007), la
Regione ha proceduto ad
immettere nei propri ruoli 9 dipendenti transitati con
mobilità volontaria
intercompartimentale, inquadrati (nell'amministrazione di
provenienza) nella categoria
D.
4. Il testo originario dell'art. 30 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 recitava:
"Passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse.
1. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in
organico mediante passaggio
diretto di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in
servizio presso altre
amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Il
trasferimento e' disposto
previo consenso dell'amministrazione di appartenenza.
2. I contratti collettivi nazionali possono definire le
procedure e i criteri generali per
l'attuazione di quanto previsto dal comma 1."
L'art. 5, comma 1-quater, del decreto legge 31.01.2005, n. 7
convertito, con
modificazioni, dalla legge 31.03.2005, n. 43) ha aggiunto
alcuni commi all'art. 30
citato. In particolare, il comma 2-bis recitava: "2-bis. Le
amministrazioni, prima di
procedere all'espletamento di procedure concorsuali,
finalizzate alla copertura di posti
vacanti in organico, devono attivare le procedure di
mobilità di cui al comma 1,
provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei
dipendenti, provenienti da
altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori
ruolo, appartenenti alla
stessa area funzionale, che facciano domanda di
trasferimento nei ruoli delle
amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento
è disposto, nei limiti dei
posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e
posizione economica
corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni
di provenienza". Successivamente (con l'art. 16, comma 1,
della legge 28.11.2005, n. 246) sono state
apportate ulteriori modifiche alla disposizione.
Invero, "Al
fine di rafforzare i servizi
alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni, con
particolare riguardo ai
servizi di informazione e di semplificazione, nel rispetto
del contenimento dei costi", le
parole: "passaggio diretto" sono state sostituite da:
"cessione del contratto di lavoro"
(al comma 1 dell'art. 30 del d.lgs. n. 165); al comma 2, è
stato aggiunto, in fine, il
seguente periodo: "In ogni caso sono nulli gli accordi, gli
atti o le clausole dei contratti
collettivi volti ad eludere l'applicazione del principio del
previo esperimento di mobilità
rispetto al reclutamento di nuovo personale"; dopo il comma
2-quater, è stato
aggiunto il seguente: "2-quinquies. Salvo diversa
previsione, a seguito dell'iscrizione
nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al
dipendente trasferito per mobilità si
applica esclusivamente il trattamento giuridico ed
economico, compreso quello
accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel
comparto della stessa
amministrazione".
Questo era il quadro normativo vigente all'epoca in cui la
Regione si è determinata a
ricoprire tramite mobilità intercompartimentale i posti
vacanti nella categoria D.
5. La legislazione successiva intervenuta a modificare ed
integrare l'art. 30 del d.lgs.
n. 165 del 2001 ha perseguito sempre con maggiore
determinazione la finalità di
favorire le procedure di mobilità volontaria tra
amministrazioni pubbliche (centrali e
periferiche) al fine di riequilibrare, nella sua globalità,
la distribuzione del personale
pubblico tra i diversi uffici nonché sul territorio (art.
49, comma 1, d.lgs. n. 150 del
2009, in relazione al quale la Corte Costituzionale, con
sentenza n. 324/2010, ha
dichiarato infondata la questione di illegittimità
costituzionale promossa in riferimento
all'art. 117, quarto comma, Cost., appartenendo -la materia- all'ordinamento civile
e non ad ambiti materiali di competenza regionale).
6. Con riguardo alla legislazione regionale, la testuale
voluntas legis, se è certamente
quella di preferire l'utilizzazione delle graduatorie degli
idonei, "derivanti da pubblici
concorsi", ove ancora vigenti, rispetto all'indizione delle
procedure di concorsi pubblici
(art. 33 della legge regionale n. 77 del 1999 e art. 36
della legge n. 6 del 2005), è
anche quella di anteporre, finanche all'utilizzazione delle
graduatorie degli idonei,
l'esperimento delle procedure di mobilità, come è
inequivocamente indicato dalla
locuzione "previo esperimento delle procedure di mobilità"
contenuto nell'art. 5 della
legge regionale n. 49 del 2010.
7. La mobilità intercompartimentale -come il legislatore ha
espressamente previsto
(cfr., ad. esempio, l'art. 1, commi 47-49 della legge n.
311/2004 in materia di
mobilità dei segretari comunali)- deve ritenersi estranea
ai blocchi delle assunzioni
nella pubblica amministrazione in quanto all'esito della sua
realizzazione non vi è un
vero e proprio aggravio di spesa per la pubblica
amministrazione globalmente
considerata, posto che -pur variata l'amministrazione di
appartenenza- il numero
complessivo dei soggetti impiegati rimane lo stesso,
trattandosi di strumento di
gestione funzionale all'organizzazione complessiva della
pubblica amministrazione.
8. Ne resta confermato un quadro normativo di assoluto
favore per il passaggio di
personale tra amministrazioni rispetto all'assunzione di
nuovo personale, che non può
non riverberarsi anche sul rapporto tra ricerca di personale
mediante mobilità
volontaria e scorrimento delle graduatorie; anche in
quest'ultimo caso, infatti, pur
trattandosi di procedure già espletate, rileva comunque la
provvista "aggiuntiva" di
nuove risorse umane, al contrario dell'altra modalità in cui
la copertura dei posti si
consegue attraverso un'ottimale redistribuzione di personale
pubblico già in servizio.
9. E' stato affermato da questa Corte, seppur con riguardo
ai profili di riparto della
giurisdizione, che le procedure riguardanti soggetti già
dipendenti di pubbliche
amministrazioni ove dirette a realizzare la novazione del
rapporto con inquadramento
qualitativamente diverso dal precedente realizzano delle
vere e proprie assunzioni
mentre il passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni,
disciplinato attualmente dal
d.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 30, integra una mera
modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e,
quindi, una cessione del contratto
(SS.UU. nn. 5077/2015, 26420/2006).
Anche la Corte
Costituzionale ha rilevato come la mobilità volontaria integra una fattispecie di cessione
del contratto e gli oneri di
pubblicità delle carenze di organico al fine di agevolare la
copertura tramite passaggio
diretto di personale da altre amministrazioni rispondono
semplicemente alla necessità
di rispettare l'art. 97 Cost. e, precisamente, i principi di
imparzialità e di buon
andamento dell'amministrazione (sentenza n. 324/2010).
10. L'esposto excursus normativo e giurisprudenziale
dimostra che il trasferimento di
un dipendente da un'amministrazione ad un'altra tramite
mobilità
intercompartimentale concreta una fattispecie diversa dalla
progressione verticale da
una categoria ad un'altra, la prima una cessione di
contratto e l'altra un reclutamento
di personale, e che il legislatore -in ossequio a principi
di buon andamento sanciti dall'art. 97 Cost., al fine di
realizzare economie di spesa- favorisce il passaggio
diretto di personale pubblico, a parità di inquadramento,
tra le diverse
amministrazioni.
11. Nel caso di specie, la esigenza di copertura di posti
vacanti si è manifestata a
distanza temporale notevole (agosto 2005- novembre 2007)
rispetto all'indizione del
concorso (luglio 2004), sicché è affatto incompatibile né
irragionevole ex se, posta la
reiterata proroga di vigenza delle graduatoria e nella
stessa ottica del risparmio di
spesa, la (rinnovata) ricerca di personale all'interno del
comparto pubblico che, nelle
more, ben può essersi reso reperibile.
L'Amministrazione, inoltre, ha coperto posti "ulteriori"
rispetto a quelli di cui al
concorso, laddove l'avviso di mobilità precedente
l'indizione, ove effettuato, non
avrebbe potuto che riguardare solo i tre posti
effettivamente e "originariamente"
messi a concorso.
12. In conclusione, la scelta tra copertura di posti vacanti
tramite mobilità del
personale ovvero scorrimento di graduatoria efficace poteva
ritenersi rimessa, sino
alla novella legislativa del novembre 2005 (legge n.
246/2005 innanzi riportata), al
potere discrezionale della pubblica amministrazione;
successivamente, la previsione di
una espressa nullità della determinazione che decida il
reclutamento di nuovo
personale (nella cui accezione, secondo giurisprudenza
consolidata, va incluso la
progressione verticale dei dipendenti in categoria
superiore) senza provvedere,
prioritariamente, ad avviare la mobilità di personale
proveniente da altra
amministrazione configura un obbligo per l'amministrazione
procedente.
Non sussisteva, pertanto, né sussiste un diritto soggettivo
dei ricorrenti alla copertura
di posti vacanti tramite scorrimento in graduatoria in via
prioritaria rispetto al
trasferimento di personale mediante mobilità
intercompartimentale. |
EDILIZIA PRIVATA: L’ingiunzione
di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica delle
opere abusive ed è giustificata dal mero difetto (o dalla
difformità) del titolo abilitativo prescritto per
l’intervento edilizio realizzato.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare
tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità
urbanistica e, se del caso, della compatibilità
paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt.
146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in
caso di interventi in aree vincolate.
Va da sé che la presentazione dell’istanza di accertamento
di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza
di demolizione impugnata (che va valutata sulla base dei
presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento
dell’emanazione dell’atto impugnato) e neppure ne determina
la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a
sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza.
---------------
I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti
dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di
margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità
di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento
giuridicamente tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che per l’adozione dell’ordine di demolizione è
sufficiente la enunciazione dei presupposti di fatto e di
diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
L’attività istruttoria finalizzata ad accertare la presenza
di opere abusive può essere compiuta dalla Polizia
municipale e può quindi risultare, a sostegno del
provvedimento impugnato, dal verbale di sopralluogo dei
vigili urbani, che ha valore probante, avente fede
privilegiata fino a querela di falso, in ordine ai fatti
constatati alla presenza del pubblico ufficiale.
---------------
Sennonché, il trascorrere del tempo non può consolidare
alcun affidamento sulla conservazione o legittimità di opere
realizzate abusivamente.
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L’avente causa subentra nella medesima posizione di diritto
del dante causa, per cui il trasferimento del diritto sul
suolo non può certamente determinare alcuna legittimazione
delle opere abusive ivi costruite.
Del resto l’individuazione dell’autore dei lavori abusivi ha
una rilevanza secondaria, contrariamente a quanto rileva nel
processo penale ai fini del riconoscimento della
responsabilità penale per i reati edilizi. Infatti
l’indicazione del responsabile degli abusi è meramente
eventuale e non essenziale per l’applicazione delle sanzioni
edilizie, che non hanno un carattere “personale”
(contrariamente a quelle penali), ma hanno piuttosto una
natura “reale”, rivolgendosi in primo luogo al proprietario,
avente la disponibilità e la responsabilità dell’immobile
interessato dalle opere abusive, al fine di assicurare la
effettività dell’ingiunzione tendente al ripristino dello
stato dei luoghi e la soddisfazione quindi dell’interesse
pubblico all'ordinato assetto del territorio.
---------------
1.1. E’ innanzitutto da osservare che l’ingiunzione di
demolizione prescinde dalla conformità urbanistica delle
opere abusive ed è giustificata dal mero difetto (o dalla
difformità) del titolo abilitativo prescritto per
l’intervento edilizio realizzato (cfr. Cons. St., sez. IV,
26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare
tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità
urbanistica e, se del caso, della compatibilità
paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt.
146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in
caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie, pur essendo allegata la
presentazione di un’istanza di sanatoria (prot. n. 35013 del
27/7/2011), non risulta che la stessa sia stata accolta, né
risulta che sia stato tempestivamente e ritualmente
impugnato il diniego sia pure tacito.
E’ appena il caso di soggiungere che la presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della ordinanza di demolizione impugnata (che va
valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto
esistenti al momento dell’emanazione dell’atto impugnato) e
neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi
unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino
alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr.
Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
1.2. I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono
atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi
di margini discrezionali, per cui è da escludere la
necessità di una specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons.
St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228).
Ne consegue che per l’adozione dell’ordine di demolizione è
sufficiente la enunciazione dei presupposti di fatto e di
diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
1.3. L’attività istruttoria finalizzata ad accertare la
presenza di opere abusive può essere compiuta dalla Polizia
municipale e può quindi risultare, a sostegno del
provvedimento impugnato, dal verbale di sopralluogo dei
vigili urbani, che ha valore probante, avente fede
privilegiata fino a querela di falso, in ordine ai fatti
constatati alla presenza del pubblico ufficiale.
Né la rilevazione dell’intervento di frazionamento richiede
particolari competenze tecniche. Del resto lo stesso
ricorrente non allega, né tanto meno prova, ma semmai
riconosce che sono state apportate (in un’epoca imprecisata)
alcune varianti rispetto alla originaria licenza edilizia n.
249 del 1966.
Infatti le contestazioni dedotte riguardano essenzialmente
l’epoca e l’autore del frazionamento, a parte aspetti
secondari relativi alla esistenza di una porta e di uno
scarico fecale, che tuttavia non escludono sostanzialmente
l’effettuazione dell’intervento di frazionamento.
1.4. Sennonché, come già detto, il trascorrere del tempo non
può consolidare alcun affidamento sulla conservazione o
legittimità di opere realizzate abusivamente.
Peraltro è da osservare che, in base all’art. 64 c.p.a., le
parti hanno l’onere di fornire gli elementi di prova di cui
abbiano la disponibilità; sicché, in applicazione del
principio di riferibilità e vicinanza della prova, il
ricorrente è tenuto a provare i fatti rientranti nella
propria sfera di controllo (cfr. Cass., ss.uu., 30/10/2001,
n. 13533), tra i quali è da comprendere la prova, da parte
del proprietario dell’immobile, dell’epoca di realizzazione
di un intervento edilizio privo di titolo abilitativo,
essendo da escludere che tale prova debba essere fornita
dall’amministrazione.
Ne consegue che va anche disattesa la contestazione in
ordine alla invocata applicazione di una normativa
previgente rispetto al d.lgs. n. 380 del 2001.
In particolare è da escludere l’applicabilità del richiamato
art. 34 della legge n. 47 del 1985 posto che la sanatoria
prevista dalle disposizioni del capo IV della legge n. 47
del 1985 presuppone la formale e tempestiva presentazione di
una domanda di condono che nella specie non risulta avanzata
dall’interessato.
1.5. Né può assumere alcuna rilevanza la circostanza che il
ricorrente affermi di essere estraneo alla realizzazione
delle opere stesse in quanto preesistenti al loro acquisto.
Infatti –a parte il fatto che tale preesistenza neppure è
dimostrata- l’avente causa subentra nella medesima
posizione di diritto del dante causa, per cui il
trasferimento del diritto sul suolo non può certamente
determinare alcuna legittimazione delle opere abusive ivi
costruite.
Del resto l’individuazione dell’autore dei lavori abusivi ha
una rilevanza secondaria, contrariamente a quanto rileva nel
processo penale ai fini del riconoscimento della
responsabilità penale per i reati edilizi. Infatti
l’indicazione del responsabile degli abusi è meramente
eventuale e non essenziale per l’applicazione delle sanzioni
edilizie, che non hanno un carattere “personale”
(contrariamente a quelle penali), ma hanno piuttosto una
natura “reale”, rivolgendosi in primo luogo al proprietario,
avente la disponibilità e la responsabilità dell’immobile
interessato dalle opere abusive, al fine di assicurare la
effettività dell’ingiunzione tendente al ripristino dello
stato dei luoghi e la soddisfazione quindi dell’interesse
pubblico all'ordinato assetto del territorio (cfr. Cons.
St., sez. VI, 12/08/2016, n. 3620).
Ciò spiega, tra l’altro, perché nella presente sede non
possono avere rilevanza le vicende e determinazioni adottate
in sede penale, che peraltro nella specie non escludono
affatto la sussistenza dell’abuso, ma sono piuttosto basate
su aspetti relativi alla individuazione del reo ed alla
sanabilità dell’intervento che, per le ragioni già dette
sopra e nel precedente paragrafo 1.1, non incidono sulla
legittimità dell’ordinanza di demolizione (cfr. il
provvedimento emesso dal Tribunale di Napoli, X sezione
riesame, per annullare i decreti di sequestro)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 15.05.2017 n. 2620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base al principio tempus regit actum, la
legittimità del provvedimento impugnato (ndr: ordinanza di
demolizione) deve essere valutata tenendo conto della
normativa vigente al momento della sua emanazione.
Pertanto agli abusi edilizi va applicato il regime
sanzionatorio esistente alla data della irrogazione della
sanzione e non quello risultante da una disposizione
sopravvenuta.
Infatti le sanzioni in materia edilizia non sono soggette al
principio di retroattività della disposizione sanzionatoria
più favorevole, non estensibile al di fuori dell'ordinamento
penale, in mancanza di una espressa indicazione del
legislatore.
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1.6. Orbene, in base all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001,
nel testo vigente all’epoca dell’emanazione dell’atto
impugnato, gli interventi di ristrutturazione edilizia
comportanti un aumento delle unità immobiliari costituiscono
interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio subordinati a permesso di costruire, in mancanza
del quale è applicabile la sanzione della demolizione e
prevista dall’art. 33 dello stesso d.P.R. n. 380.
1.7. Con memoria difensiva, depositata peraltro tardivamente
in data 13/04/2017, il ricorrente invoca l’applicazione
delle nuove disposizioni introdotte dall’art. 17, co. 1,
lett. d) e lett. a), n. 2), del decreto-legge n. 133 del
2014, che hanno compreso nell'ambito degli interventi di
manutenzione straordinaria le opere consistenti nel
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari.
Sennonché, anche a voler prescindere dall’ammissibilità di
tale censura irrituale, dedotta tardivamente e senza
l’osservanza delle formalità previste dall’art. 43 c.p.a.
per la proposizione di motivi aggiunti, è agevole osservare
che, in base al principio tempus regit actum, la
legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata
tenendo conto della normativa vigente al momento della sua
emanazione.
Pertanto agli abusi edilizi va applicato il regime
sanzionatorio esistente alla data della irrogazione della
sanzione e non quello risultante da una disposizione
sopravvenuta.
Infatti le sanzioni in materia edilizia non sono soggette al
principio di retroattività della disposizione sanzionatoria
più favorevole, non estensibile al di fuori dell'ordinamento
penale, in mancanza di una espressa indicazione del
legislatore (cfr. Cons. St., sez. V, 20/11/2015, n. 5287).
2. In conclusione il ricorso in esame va dunque respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 15.05.2017 n. 2620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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